CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE (...) DEUS CHARITAS EST (...) ET NOS CREDIDIMUS CHARITATI (1Gv., 4. 1-16).
CARISSIMI, NON PRESTATE FEDE A OGNI SPIRITO (...) DIO E’ AMORE (...) E NOI ABBIAMO CREDUTO ALL’AMORE (1 Gv., 4. 1-16)
Caro BENEDETTO XVI ...
Corra, corra ai ripari (... invece di pensare ai soldi)! Faccia come insegna CONFUCIO: provveda a RETTIFICARE I NOMI. L’Eu-angélo dell’AMORE (“charitas”) è diventato il Van-gélo del ’caro-prezzo’ e della preziosi-tà (“caritas”), e la Parola (“Logos”) è diventato il marchio capitalistico di una fabbrica (“Logo”) infernale ... di affari e di morte?! Ci illumini: un pò di CHIAREZZA!!! FRANCESCO e CHIARA di Assisi si sbagliavano?! Claritas e Charitas, Charitas e Claritas... o no?!
Federico La Sala
“DEUS CARITAS EST”: IL “LOGO”
DEL GRANDE MERCANTE
E DEL CAPITALISMO
di Federico La Sala *
In principio era il Logos, non il “Logo”!!! “Arbeit Macht Frei”: “il lavoro rende liberi”, così sul campo recintato degli esseri umani!!! “Deus caritas est”: Dio è caro-prezzo, così sul campo recintato della Parola (del Verbo, del Logos)!!! “La prima enciclica di Ratzinger è a pagamento”, L’Unità, 26.01.2006)!!!
Il grande discendente dei mercanti del Tempio si sarà ripetuto in cor suo e riscritto davanti ai suoi occhi il vecchio slogan: con questo ‘logo’ vincerai! Ha preso ‘carta e penna’ e, sul campo recintato della Parola, ha cancellato la vecchia ‘dicitura’ e ri-scritto la ‘nuova’: “Deus caritas est” [Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006]!
Nell’anniversario del “Giorno della memoria”, il 27 gennaio, non poteva essere ‘lanciato’ nel ‘mondo’ un “Logo” ... più ‘bello’ e più ‘accattivante’, molto ‘ac-captivante’!!!
Il Faraone, travestito da Mosè, da Elia, e da Gesù, ha dato inizio alla ‘campagna’ del Terzo Millennio - avanti Cristo!!! (Federico La Sala)
*www.ildialogo.org/filosofia, Giovedì, 26 gennaio 2006.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
STORIA, FILOLOGIA, ARCHEOLOGIA, ANTROPOLOGIA E TEOLOGIA-POLITICA.
"COSTANTINO" E "COSTANTINISMO". Per fare "#mente locale" sulla #hamletica #question (#Shakespeare), forse, è bene ricordare - in memoria di #Dante Alighieri e di #Lorenzo Valla - due contributi sul tema:
IL CARTEGGIO
«Come tutte le merci di valore, la verità è spesso contraffatta»
di Paola Militano (Corriere della Calabria, 07/10/2022
Ho letto la lettera inviatami da Giuseppe Riccardo Succurro (la riportiamo sotto, ndr), presidente “in aeternum” del Centro Internazionale di Studi Gioachimiti. Lo scrivente lamenta espressioni irrispettose e nel farlo - non avvedendosi dell’evidente contraddizione rispetto al lamento - aggiunge «sarebbe stato più corretto professare di ignorare Gioacchino». Già, perché in Calabria della figura, del verbo e del pensiero dell’abate Gioacchino lo scrivente si ritiene unico depositario, sacerdote officiante di un rito per pochi, pochissimi eletti che per autoconvincimento, sono irradiati di “luce intellettual piena d’amore” e popolano un dantesco empireo, inarrivabile e intangibile.
Mi è capitato raramente di assistere ad una tale manifestazione di supponenza, un’autoreferenzialità declinata con l’indicazione di articoli, lettere e medaglie ricevute dal Centro che sa di esercizio autoerotico di natura fintamente intellettuale. Nell’elenco fornito poi da Succurro ci sono le pubblicazioni di testi ed il florilegio di espressioni che è utile mettere in fila: teologica simbolica, principi esegetici, dottrina trinitaria, teologia della storia. Insomma, né più né meno che la plastica dimostrazione di una grottesca ricercatezza che lungi dallo smentirla, conferma invece l’affermazione “irrispettosa” di «Gioacchino confinato all’interno dei monti della Sila».
Mi piace richiamare, usandole come forzata analogia, alcune parole di Papa Francesco nell’esortazione Gaudete et Exultate «... forme di sicurezza dottrinale o disciplinare che danno luogo ad un elitarismo narcisista e autoritario dove, invece di evangelizzare, si analizzano e si classificano gli altri, e invece di facilitare l’accesso alla grazia si consumano le energie nel controllare».
Il sempiterno presidente - come documenta la sua lettera - non riesce a cogliere e distinguere l’approfondimento e la divulgazione di carattere scientifico-letterario dalla valorizzazione e promozione “urbi et orbi” della figura, del ruolo e dell’importanza di Gioacchino da Fiore che «ha conosciuto il mondo, i suoi vizi, le invidie ed i contrasti della chiesa e delle corti». Si tratta di punti di vista completamente diversi, ugualmente validi ed essenziali.
Ma vale la pena ragionare, stante l’occasione, anche del Centro Internazionale (e privato) di Studi Gioachimiti gratuitamente ospitato in spazi pubblici e titolare, alla stregua di un privé, dei cori notturni dell’Abbazia florense. Concessioni, unite a contributi pubblici, garantite a una associazione presieduta da quasi 13 anni dal finissimo intellettuale che - in forza delle previsioni statutarie - è anche membro di diritto del Comitato scientifico. Quest’ultima circostanza, stante la natura privata dell’associazione, ha dato luogo a singolari scelte, ineccepibili sul piano formale ma molto discutibili sotto il profilo dell’opportunità.
Diciamolo pure, solo in Calabria un’associazione privata riceve gratis spazi pubblici, è esclusivista di luoghi simbolici e identitari, si autoperpetua per mandato statutario e pensa che un gigante del pensiero e della storia possa essere questione di famiglia. Ma è questione di cui, magari, ci occuperemo in un altro momento. (paola.militano@corrierecal.it)
Gentile direttrice,
l’abbiamo ascoltata affermare pubblicamente davanti ad una affollata assemblea che “Gioacchino è confinato all’interno dei monti della Sila”. Ci è sembrata una espressione irrispettosa. Ciascuno è libero di sostenere che il sole sia nero! Sarebbe stato più corretto professare di ignorare Gioacchino come molti non sono tenuti per forza a conoscere Shakespeare o Corrado Alvaro.
Le segnaliamo un articolo che Il Sole 24 Ore ha recentemente dedicato a Gioacchino da Fiore, al Centro Internazionale di Studi Gioachimiti e a San Giovanni in Fiore. Non ci risulta che il Sole 24 Ore sia pubblicato negli sperduti monti della Sila abitati da feroci briganti.
Le segnaliamo le lettere che quest’anno ci hanno inviato Papa Francesco e Papa Benedetto XVI con splendide parole di elogio verso l’opera di diffusione del pensiero di Gioacchino da Fiore che stiamo compiendo. Le facciamo presente che il Presidente della Repubblica Mattarella ci ha concesso la medaglia presidenziale. Le segnaliamo che tante Reti nazionali hanno trasmesso servizi su Gioacchino da Fiore.
Come prima lettura, le consigliamo questo libro: “Bernard McGinn, The Calabrian Abbot. Joachim of Fiore in the History of Western Thought, New York 1985” che il Centro Internazionale di Studi Gioachimiti ha pubblicato presso la Casa editrice Marietti di Genova. “L’’abate calabrese. Gioacchino da Fiore nella storia del pensiero occidentale”.
È un’opera che è stata tradotta in quaranta nazioni, anche in Giappone, a testimonianza dell’interesse degli studiosi di tutto il mondo nei confronti del nostro Abate.
Bernard McGinn è professore emerito di Storia della teologia alla Divinity School dell’Università di Chicago. Membro del Comitato scientifico del Centro Internazionale di Studi Gioachimiti, ha partecipato ai lavori dei Congressi Internazionali di Studi Gioachimiti insieme ad altri cento relatori provenienti dalle Università americane, tedesche, inglesi, francesi, spagnole, australiane, ecc. Abbiamo avuto il piacere di ascoltarne la prolusione tenuta nell’ambito della commemorazione di Gioacchino a Roma, nell’Accademia dei Lincei, alla presenza del Presidente della Camera. Era presente quando ci ricevette il Presidente della Repubblica (la delegazione del Centro era guidata dal prof Oliverio e dal prof Fonseca).
Il libro di Bernard McGinn colloca Gioacchino da Fiore sullo sfondo dell’ambiente storico e dei precedenti dottrinali, per poi intraprendere un’accurata analisi della sua teologia simbolica attraverso lo studio dei principi esegetici, della dottrina trinitaria e della teologia della storia.
La visione apocalittica della storia di Gioacchino da Fiore affonda le proprie radici nella tradizione cristiana, fino all’Apocalisse di Giovanni, il libro che egli considera la chiave per decifrare l’intera Bibbia. Benché numerose opere abbiano trattato dell’influsso dell’abate calabrese, poche hanno tentato di determinarne la posizione nella storia del pensiero attraverso un’analisi dei suoi apporti teologici più significativi. Buona lettura!
“La conversione. Come Giuseppe Flavio fu cristianizzato” di Luciano Canfora
Scritto da Laura Bigoni *
Nel XVIII libro delle Antichità giudaiche di Giuseppe Flavio, autore ebreo di età romana imperiale (37-100 d.C. ca.), si fa menzione del processo a Gesù:
Queste parole, definite nel corso del tempo Testimonium Flavianum, hanno rappresentato il principale biglietto da visita del loro autore per accedere alla tradizione manoscritta occidentale, in massima parte come sappiamo dovuta a mani cristiane; esse costituiscono però anche un appassionante caso filologico, se non altro per la strana ambiguità che le contraddistingue, se le si pensa (così come ce le trasmettono i manoscritti) nella penna di un intellettuale ebreo. -Nella ristampa del 2018 dell’edizione UTET delle Antichità, a cura di Luigi Moraldi, da cui è tratta la traduzione sopra riportata, il passo è presentato addirittura in copertina al secondo volume, di per sé un riconoscimento della centralità di quelle poche righe all’interno dell’opera di Giuseppe Flavio.
Si tratta però, prevedibilmente, di una centralità acquisita nel corso della tradizione e della sempre più grande fortuna che i padri della Chiesa costruirono attorno a Giuseppe Flavio e al suo Testimonium, decretandone di fatto la diffusione (e la copiatura). Proprio della storia di questa straordinaria fortuna ci fa dono Luciano Canfora nella breve ma densissima indagine dal titolo La conversione. Come Giuseppe Flavio fu cristianizzato, recentemente pubblicata per Salerno Editrice.
Il libro è organizzato in diciotto brevi capitoli, preceduti da un’introduzione e seguiti da un epilogo; ciascuno aggiunge un tassello al mosaico della tradizione testuale di Giuseppe Flavio, introducendone via via i protagonisti e i contesti. La struttura rende agevole a chi legge il viaggio tra i meandri di una tradizione testuale fatta di riconoscimenti, di attribuzioni pseudonime, di ritocchi più o meno tendenziosi, ma soprattutto, e fatalmente quando si tratta di testi cui si attribuisce valore religioso, di fazioni.
La storia del testo di Giuseppe Flavio narrataci da Canfora diventa infatti ben presto simile a quella della traduzione greca delle Scritture di Israele detta dei Settanta, campo di battaglia per dispute di natura teologica e oggetto di ripetute canonizzazioni. Secondo la puntuale ricostruzione del libro, infatti, la sopravvivenza delle opere quasi complete dell’autore (ovvero Guerra giudaica, Antichità, Contro Apione e Autobiografia) nella tradizione manoscritta sembra ricollegabile ad una cosciente appropriazione culturale da parte dei pensatori cristiani, fin da Eusebio di Cesarea (260-337 ca.) e Girolamo (347-419 ca.).
Nella temperie dei primi secoli del cristianesimo, apparve infatti vantaggioso che uno storico ebreo, che aveva assistito, dalla parte dei Romani, alla distruzione del Tempio a Gerusalemme, avesse anche solo menzionato Gesù e il suo processo, sebbene nel contesto di una serie di seditiones del tempo di Ponzio Pilato (cf. pp. 76ss.). Segno inequivocabile dell’avvenuta appropriazione è la migrazione del Testimonium all’altra grande opera di Giuseppe, la Guerra giudaica, che si trova in alcuni manoscritti, tra cui il Vossiano greco F 72, oggi conservato a Leiden, in cui il nostro testo è addirittura seguito da una scena di giudizio universale, che fa dunque della vicenda terrena di Gesù una tappa cruciale della storia della salvezza, secondo una visione strettamente cristiana; l’accoppiamento ha poi una vita propria nella tradizione successiva (cf. pp. 51s.).
Parallelamente alla fortuna negli ambienti dell’apologetica cristiana, nel mondo ebraico (come in quello pagano, in cui sempre cercò di inserirsi e di farsi leggere, senza successo) Giuseppe è stato ben presto ridotto al silenzio. Le vicende del testo sono alterne a seconda del contesto politico, ma per i cristiani il Testimonium sembra sempre un asso nella manica, come ad esempio nel periodo di crisi della Chiesa sotto Giuliano l’Apostata, in cui fu agevole forzare la dizione di un passo della Guerra guidaica (VI 250, 288-310) a significare una precisa volontà di Dio dietro la distruzione del Tempio, profetizzata ex post nei Vangeli (cf. pp. 155ss.).
Soffermandosi sul Testimonium e tratteggiando uno status quaestionis, l’autore si chiede come mai non ci si sia mai dedicati troppo alla domanda, per lui al contrario centrale, relativa all’appropriazione culturale operata dai cristiani sul testo di Giuseppe Flavio. Verrebbe da chiedersi se non ci sia forse ancora un impalpabile velo di sostituzionismo latente in questo genere di studi, che scoraggi i tentativi di fare luce su stadi precristiani dei testi poi incardinati nella tradizione della Chiesa. Pur lasciando irrisolta l’aporia a proposito degli studi moderni, Canfora punta il dito sul dato, eclatante per la storia della tradizione, che l’opera in greco di Giuseppe sia giunta intera (a fronte del naufragio di gran parte della letteratura, storiografica e non, in greco classico e postclassico), mentre non è rimasta nessuna traccia delle stesure aramaiche (cf. pp. 35ss.).
Importante è il riconoscimento e lo smascheramento del ruolo della progressiva cristianizzazione del Testimonium, che lo apparenta alla traduzione della Bibbia dei Settanta. Sul paragone l’autore si sofferma considerando un dato tanto ovvio quanto trascurato come l’appropriazione delle Scritture tradotte in greco dai giudei della diaspora ellenistica, che passano così nettamente nell’alveo della Chiesa da prendere il nome di ‘Antico Testamento’, che significa naturalmente un presupposto del Nuovo. Come Giuseppe Flavio perde terreno nella tradizione ebraica e di fatto ne scompare, lo stesso varrà per questa straordinaria impresa traduttoria del mondo antico.
Alla fine del capitolo IX è presentato con chiarezza il cruccio che fu di Ambrogio, ma anche di tutta la tradizione patristica, ovvero fino a quanto la Chiesa potesse permettersi di mostrare una continuità tra la tradizione cristiana e il mondo ebraico. In questo senso stabilire un canone diverso da quello ebraico, nella selezione dei libri sacri, nel loro ordine, nella denominazione e nel numero, fu un graduale ma vincente passo verso l’emancipazione della cristianità dalle sue pur irrinunciabili radici ebraiche[1].
La comunanza di destini che lega due testi molto diversi come le Antichità (e a partire da esse, come si è visto, gli opera omnia di Giuseppe Flavio) e la traduzione della Bibbia è occasione per una riflessione sull’importanza della philologia sacra per il metodo storico-critico. Così si esprimeva Pasquali a proposito della eccessiva divisione del lavoro all’interno della filologia: «La colpa di questa ignoranza [della prefazione di Lachmann al Nuovo Testamento] è, credo, tutta della specializzazione. La metà del secolo XIX fu il tempo dei classicisti puri e dei latinisti puri: chi si occupava di Catullo, sdegnava di leggere e studiare il Nuovo Testamento. E d’altra parte i teologi, anche quelli protestanti, non avevano interesse per le quisquilie della storia dei testi. Tutto questo è una prova di più che nella filologia la specializzazione non può che nuocere»[2].
Naturalmente, il testo di Giuseppe Flavio non è ritenuto sacro da alcuna confessione religiosa, ma si è visto come questo non impedisca alla sua storia testuale di presentare questioni simili a quelle tipiche dei testi religiosi, in quanto molto copiati e diffusi, proprio perché ritenuti oltremodo autorevoli. Un omaggio all’affinamento degli strumenti della philologia profana attraverso quella sacra sembra quindi doveroso (cf. pp. 87s.).
In questo libro, Canfora ha molti meriti: il primo è saper restituire gli ingranaggi di eventi molto lontani come se lontani non fossero, come se appartenessero a un presente senza tempo. Il merito di avvicinare le storie dei testi classici raccontandole per quello che sono, storie umane. E spogliandole così dell’aura di sacralità e intoccabilità che abbiamo progressivamente affibbiato all’antico. Nel suo narrare, assumono un ruolo centrale i recessi, il backstage che viene alla luce grazie alla minuzia filologica, col risultato di restituire un complesso vivo. Nei primi capitoli traccia un profilo dell’autore, sottolineando la tipicità e la concretezza della vita di un transfuga ebreo in epoca romana, il compromesso raggiunto con l’ellenismo e con la dominazione straniera, senza mai rinnegare la fede dei padri, ma tentando di inserirla nella (e legittimarla agli occhi della) cultura dominante. Come ci riferisce nel proemio, Giuseppe scrive «perché ritengo di essere debitore a tutti i Greci, perché - così mi pare - comprenderanno la nostra grande antichità e l’ordinamento politico degli Ebrei» (AJ, I 5). Nei capitoli successivi Canfora scava altrettanto scrupolosamente nelle ragioni dei rappresentanti delle fazioni pro e contra Giuseppe, restituendocene i tratti notevoli.
Un secondo merito è quello di aver sparso tra le pagine più di una lezione di filologia e di metodo, con un taglio divulgativo al punto giusto da essere comprensibile ai non addetti ai lavori, ma anche istruttivo, se non altro come memento, a chi addetto lo è eccome. Sfata, ad esempio, miti come quello del copista capriccioso che cambia il testo a suo (com)piacimento (pp. 42s.), e non lo fa per rendere meno appassionante la lettura di un saggio filologico, quanto per rinfrescare in chi legge l’attitudine al metodo storico-critico come valore inderogabile dello studio quotidiano; come ricorda, con felice espressione, a p. 49, «la via d’uscita è sempre la storia del testo».
In questo quadro credo debbano inserirsi anche le parole sferzanti riservate, spesso in nota ma non solo, ad alcune delle nuove imprese di studio comprensivo dell’antichità e dei suoi autori, in cui si ignora sistematicamente la discussione sei-settecentesca e in generale la storia della disciplina. Per esempio, l’affondo di p. 117 su studi contemporanei che, «purché espressi in inglese», possono dire quel che vogliono, dal momento che il nostro «è un ambito di studi nel quale non costa nulla fare passi indietro», o la desolante conclusione di p. 128: «Bilancio. Anche a seguito della feticistica devozione al monolinguismo anglico, si è andata via via smarrendo la conoscenza dei risultati cui era giunta la grande erudizione dei secoli XVI-XVII (quasi sempre in latino). Di conseguenza si riscrive goffamente e con qualche contributo peggiorativo ciò che era stato già da secoli prospettato e argomentato con ben altra finezza e disciplina critica». In effetti, quella di tornare a leggere la storia di una disciplina come la filologia, che funziona inevitabilmente per accumulazione, è nota importante, in un’epoca che sembra talora perdere l’attenzione per la storia[3]. Anche senza entrare in un discorso troppo generale e perciò troppo generico, occorre fare attenzione alla maniera in cui certe argomentazioni sono già state poste in passato; Canfora porta dunque alla luce del pubblico contemporaneo delle situazioni a loro modo paradigmatiche del mestiere della storia e della critica testuale, considerando uno spettro di fonti davvero ampio e riconoscendo il giusto credito a studiosi che sarebbero altrimenti dimenticati anche in opere di settore.
Oltre che illuminare sul metodo, Canfora ricorda a chi legge anche un dato cruciale della natura dei testi, ovvero la loro intrinseca mobilità (è forse questo che più di ogni altro cardine della filologia dovrebbe essere insegnato). L’autore riporta un breve ma significativo cenno ai tempi moderni, in cui sottolinea il valore costante e universale di questa caratteristica dei testi: «per chiarezza, è bene non dimenticare che una ‘citazione’ può nascere anche da un fraintendimento, o da una notizia di seconda mano, che - nel passaggio da una fonte all’altra - si gonfia e si complica, e magari [...] finisce in una ‘Enciclopedia’ (accade anche in tempi moderni)» (p. 51). Nel mutare continuo dei testi, anche una sola parola può bastare a cambiarne il volto, come nel caso del Testimonium, in cui è stato sufficiente sostituire un ‘era ritenuto’ con un ‘era’ nella frase cruciale «egli era il Cristo» (cf. p. 58). Non è certo la prima né l’ultima volta che un’unica parola è in grado di generare effetti così notevoli; si pensi al filioque dei primi concili cristiani, o al solum aggiunto da Lutero nella sua traduzione della Lettera ai Romani (3,28)[4].
Sebbene questo risulti quasi paradossale, vista la sua smisurata produzione scientifica, Canfora ricorda a chi si occupa di filologia il monito nietzschiano a proposito della lentezza di questa disciplina, per cui il/la filologo/a «non raggiunge nulla se non lo raggiunge lento»[5]. Proprio nel lento ascolto delle fonti e nell’attento vaglio di ciascuna di esse sta la straordinaria (e forse per alcuni inaspettata) apertura della filologia: una metodologia non dogmatica, che presta attenzione alla pluralità delle fonti e al loro intreccio: lo si vede nel libro, ad esempio nell’uso della tradizione araba (cui è dedicato il cap. VII), o di quella siriaca. Le interazioni sempre più strette con le discipline orientalistiche e con le tradizioni delle lingue semitiche spostano l’orizzonte di quello che siamo abituati a conoscere come il mondo classico, ampliandolo e riformandone il concetto stesso.
L’ultima e forse la più importante delle lezioni che si può trarre dalla conoscenza così approfondita di certe controversie sull’autorità dei testi, fitte di accuse e controaccuse dettate da opportunità di politica religiosa (o culturale in senso ampio), è quella di tentare un affrancamento dalla faziosità, una visione laica, inclusiva e basata sulla profondità storica quando si approcciano testi dalla tradizione così imponente. È insomma quella di provare a sostenere un campo di studi che sproni a lasciarsi questo tipo di controversie finalmente alle spalle.
[1] Cf. J. Mead, The Biblical Canon Lists from Early Christianity. Texts and Analysis, Oxford University Press, Oxford 2018.
[2] G. Pasquali, Storia della tradizione e critica del testo, Le Lettere, Firenze 2015, p. 8.
[3] Recentissimo il volumetto di Adriano Prosperi dall’eloquente titolo Un tempo senza storia. La distruzione del passato (Einaudi, Torino 2021).
[4] Sul primo caso, si veda l’inquadramento di L. Perrone, Da Nicea (325) a Calcedonia (451). I primi quattro concili ecumenici: istituzioni, dottrine, processi di redazione, in G. Alberigo (ed.), Storia dei concili ecumenici, Queriniana, Brescia 1990, pp. 11-118; sul secondo, basti leggere la luterana Lettera del tradurre, nella versione italiana a cura di E. Bonfatti (Marsilio, Venezia 2001).
[5] F. Nietzsche, Aurora. Pensieri su pregiudizi morali, trad. it. F. Masini, in B. Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica. Da Omero al V secolo, Feltrinelli, Milano 2006, p. 329.
* FONTE: PANDORA RIVISTA
Materiali sul tema:
EUROPA ED EVANGELO. LA ’CROCE’ DI CRISTO ("X" = lettera alfabeto greco) NON HA NIENTE A CHE FARE CON IL "CROCIFISSO" DELLA TRADIZIONE COSTANTINIANA E CATTOLICO-ROMANA.
"X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA.
Federico La Sala
VERSO "BARI 2020", "NICEA 2025": MESSAGGIO EVANGELICO, FILOLOGIA, ED ECUMENISMO. Quale "carità" (Kapitas o Xapitas, caritas o charitas)?! *
Nicola. Protettore del ponte di dialogo che unisce Occidente e Oriente
di Matteo Liut (Avvenire, giovedì 6 dicembre 2018)
La carità è il "miracolo" più grande che nasce dalla fede: prendersi cura degli ultimi, del prossimo in genere, oggi è il messaggio più profetico e rivoluzionario che ci lascia san Nicola. Nato tra il 250 e il 260 a Patara, nella Licia, divenne vescovo di Mira in un tempo di persecuzione e dovette affrontare anche la prigionia: si salvò grazie alla libertà di culto concessa dall’Editto di Costantino nel 313.
Difensore dell’ortodossia, forse partecipò al Concilio di Nicea nel 325. La tradizione gli attribuisce un’attenzione particolare nei confronti dei bisognosi, come le due giovani ragazze che poterono sposarsi solo grazie al dono da parte del vescovo di una dote. Morto attorno all’anno 335, nel 1087 le sue reliquie arrivarono a Bari, dove è venerato come patrono e considerato un protettore anche del ponte di dialogo che unisce Occidente e Oriente.
Altri santi. Santa Asella di Roma, vergine (IV sec.); san Pietro Pascasio, vescovo e martire (1227-1300).
Letture. Is 26,1-6; Sal 117; Mt 7,21.24-27.
Ambrosiano. Ger 7,1-11; Sal 106; Zc 8,10-17; Mt 16,1-12.
*
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Commenti a Presicce, il suo patrono Sant’Andrea e la tela del suo martirio, opera del Catalano
PER "LA PACE DELLA FEDE" (Niccolò Cusano, 1453), UN NUOVO CONCILIO DI NICEA (2025)
ERMETISMO ED ECUMENISMO RINASCIMENTALE, OGGI: INCONTRO DI PAPA FRANCESCO E BARTOLOMEO I A ISTANBUL.
Federico La Sala
Il Papa, la fede e il primato sul marxismo
Dipendiamo da Dio, il marxismo sbaglia a negarlo
Francesco presenta il libro di Ratzinger su fede e politica
“Il bene della famiglia è decisivo per il futuro del mondo”
di papa Francesco (La Stampa, 06.05.2018)
Il rapporto tra fede e politica è uno dei grandi temi da sempre al centro dell’attenzione di Joseph Ratzinger/Benedetto XVI e attraversa l’intero suo cammino intellettuale e umano. L’esperienza diretta del totalitarismo nazista lo porta sin da giovane studioso a riflettere sui limiti dell’obbedienza allo Stato a favore della libertà dell’obbedienza a Dio: «Lo Stato - scrive in questo senso in uno dei testi proposti - non è la totalità dell’esistenza umana e non abbraccia tutta la speranza umana. L’uomo e la sua speranza vanno oltre la realtà dello Stato e oltre la sfera dell’azione politica. Ciò vale non solo per uno Stato che si chiama Babilonia, ma per ogni genere di Stato. Lo Stato non è la totalità. Questo alleggerisce il peso all’uomo politico e gli apre la strada a una politica razionale. Lo Stato romano era falso e anticristiano proprio perché voleva essere il totum delle possibilità e delle speranze umane. Così esso pretende ciò che non può; così falsifica ed impoverisce l’uomo. Con la sua menzogna totalitaria diventa demoniaco e tirannico».
Successivamente, anche proprio su questa base, a fianco di San Giovanni Paolo II egli elabora e propone una visione cristiana dei diritti umani capace di mettere in discussione a livello teorico e pratico la pretesa totalitaria dello Stato marxista e dell’ideologia atea sulla quale si fondava.
Il marxismo
Perché l’autentico contrasto tra marxismo e cristianesimo per Ratzinger non è certo dato dall’attenzione preferenziale del cristiano per i poveri: «Dobbiamo imparare - ancora una volta, non solo a livello teorico, ma nel modo di pensare e di agire - che accanto alla presenza reale di Gesù nella Chiesa e nel sacramento, esiste quell’altra presenza reale di Gesù nei più piccoli, nei calpestati di questo mondo, negli ultimi, nei quali egli vuole essere trovato da noi» scrive Ratzinger già negli anni Settanta con una profondità teologica e insieme immediata accessibilità che sono proprie del pastore autentico. E quel contrasto non è dato nemmeno, come egli sottolinea alla metà degli anni Ottanta, dalla mancanza nel Magistero della Chiesa del senso di equità e solidarietà; e, di conseguenza, «nella denuncia dello scandalo delle palesi disuguaglianze tra ricchi e poveri - si tratti di disuguaglianze tra paesi ricchi e paesi poveri oppure di disuguaglianze tra ceti sociali nell’ambito dello stesso territorio nazionale che non è più tollerato».
Il profondo contrasto, nota Ratzinger, è dato invece - e prima ancora che dalla pretesa marxista di collocare il cielo sulla terra, la redenzione dell’uomo nell’aldiquà- dalla differenza abissale che sussiste riguardo al come la redenzione debba avvenire: «La redenzione avviene per mezzo della liberazione da ogni dipendenza, oppure l’unica via che porta alla liberazione è la completa dipendenza dall’amore, dipendenza che sarebbe poi anche la vera libertà?».
E così, con un salto di trent’anni, egli ci accompagna alla comprensione del nostro presente, a testimonianza dell’immutata freschezza e vitalità del suo pensiero. Oggi infatti, più che mai, si ripropone la medesima tentazione del rifiuto di ogni dipendenza dall’amore che non sia l’amore dell’uomo per il proprio ego, per «l’io e le sue voglie»; e, di conseguenza, il pericolo della «colonizzazione» delle coscienze da parte di una ideologia che nega la certezza di fondo per cui l’uomo esiste come maschio e femmina ai quali è assegnato il compito della trasmissione della vita; quell’ideologia che arriva alla produzione pianificata e razionale di esseri umani e che - magari per qualche fine considerato «buono» - arriva a ritenere logico e lecito eliminare quello che non si considera più creato, donato, concepito e generato ma fatto da noi stessi.
I «diritti apparenti»
Questi apparenti «diritti» umani che sono tutti orientati all’autodistruzione dell’uomo - questo ci mostra con forza ed efficacia Joseph Ratzinger - hanno un unico comune denominatore che consiste in un’unica, grande negazione: la negazione della dipendenza dall’amore, la negazione che l’uomo è creatura di Dio, fatto amorevolmente da Lui a Sua immagine e a cui l’uomo anela come la cerva ai corsi d’acqua (Sal 41). Quando si nega questa dipendenza tra creatura e creatore, questa relazione d’amore, si rinuncia in fondo alla vera grandezza dell’uomo, al baluardo della sua libertà e dignità.
L’uomo e Dio
Così la difesa dell’uomo e dell’umano contro le riduzioni ideologiche del potere passa oggi ancora una volta dal fissare l’obbedienza dell’uomo a Dio quale limite dell’obbedienza allo Stato. Raccogliere questa sfida, nel vero e proprio cambio d’epoca in cui oggi viviamo, significa difendere la famiglia. D’altronde già San Giovanni Paolo II aveva ben compreso la portata decisiva della questione: a ragione chiamato anche il «Papa della famiglia», non a caso sottolineava che «l’avvenire dell’umanità passa attraverso la famiglia» (Familiaris consortio, 86). E su questa linea anche io ho ribadito che «il bene della famiglia è decisivo per il futuro del mondo e della Chiesa» (Amoris laetitia, 31).
Così sono particolarmente lieto di potere introdurre questo secondo volume dei testi scelti di Joseph Ratzinger sul tema «fede e politica». Insieme alla sua poderosa Opera omnia, essi possono aiutare non solo tutti noi a comprendere il nostro presente e a trovare un solido orientamento per il futuro, ma anche essere vera e propria fonte d’ispirazione per un’azione politica che, ponendo la famiglia, la solidarietà e l’equità al centro della sua attenzione e della sua programmazione, veramente guardi al futuro con lungimiranza.
A CARLO M. MARTINI E A ENZO PACI, IN ONORE E MEMORIA ....
DEL CARDINALE CARLO M. MARTINI, LA LEZIONE PIU’ GRANDE: IL PRESEPE DEL LAGER NELLA BASILICA DI SANT’AMBROGIO (MILANO, 2000).
Tre donne «forti» dietro tre padri della fede
di Marco Garzonio (Corriere della Sera, 25 ottobre 2012)
Il IV secolo è fine di un’epoca e nascita di tempi nuovi anche per i modelli femminili nella cultura cristiana e nella società. Mentre le istituzioni dell’Impero si sfaldano, popoli premono ai confini, corruzione e violenze dilagano e le casse sono vuote, causa guerre ed evasione fiscale, alcune donne sono protagoniste delle trasformazioni almeno tanto quanto gli uomini accanto ai quali la storia le ha accolte. Elena, madre di Costantino, Monica madre di Agostino, Marcellina sorella di Ambrogio.
Ma ci son pure Fausta, moglie di Costantino, da lui fatta assassinare per sospetto tradimento (violenza in famiglia anzi tempo) e la compagna di Agostino, giovane cartaginese vissuta anni more uxorio («coppia di fatto» si direbbe oggi) col futuro santo vescovo d’Ippona. Gli diede pure un figlio, Adeodato, di lei però non è rimasto nemmeno il nome: una rimozione del femminile, nonostante la straordinaria autoanalisi ante litteram compiuta da Agostino nelle Confessioni; un archetipo delle rimozioni collettive della donna praticate dalla cattolicità e di tanta misoginia e sessuofobia che affliggeranno la Chiesa per secoli e ancora la affliggono. Ma andiamo con ordine nel considerare i tipi.
La madre solerte, forte, premurosa, ambiziosa, molto attaccata al figlio maschio, possessiva: è il modello di madre che emerge dalle testimonianze. In parte è un’icona ritagliata sul prototipo della matrona romana, su cui s’innesta la novità del cristianesimo. Questo dalle origini si dibatte in una contraddizione. C’è l’esempio di Gesù che «libera» la donna dalle sudditanze; per lui non è alla stregua di una «cosa» (come negli usi romani); negli incontri rivela l’alta considerazione verso una persona non certo inferiore all’uomo e contraddice così la cultura del tempo. Narrano i vangeli che Gesù si mostra a Maria di Magdala e alle altre donne come il Risorto davanti al sepolcro vuoto: loro sono le protagoniste, a esse affida l’annuncio pasquale. Dall’altra parte c’è San Paolo che invita le mogli a stare sottomesse ai mariti e ispira la visione di un ruolo ancillare, silenzioso, subordinato.
Ecco, allora: Elena anticipa quella che in epoche successive sarà la Regina Madre. Locandiera, legata a Costanzo Cloro cui darà un figlio, Costantino, fa di tutto perché questi diventi padrone dell’Impero: tesse rapporti, guida, consiglia. Verrà ricambiata: Costantino cingerà lei del diadema imperiale (invece della «traditrice» Fausta) introducendo nell’iconografia una coppia un po’ incestuosa: madre e figlio.
Psicologicamente Costantino sarà in un certo modo sottomesso a Elena. A Gerusalemme lei troverà le reliquie del Santo Sepolcro. Dei chiodi della Croce ornerà la corona imperiale (posta sul capo dei padroni del mondo sino a Napoleone) per dire che chi governa è sottomesso a Dio, e farà il morso del cavallo del figlio: anche i sovrani devono frenare le pulsioni.
Madre altrettanto ingombrante, sul piano degli affetti in questo caso, fu Monica per Agostino. Questi aveva cercato di liberarsene partendo per Roma senza dir nulla ma Monica non si scoraggiò, lo inseguì e raggiunse sino a Milano, capitale ai tempi. Qui convinse il figlio, all’apice del successo come retore, a rispedire in Africa la compagna e si diede da fare perché trovasse a corte una moglie. Intanto s’era pure spesa affinché Agostino conoscesse Ambrogio, che a Milano contava più delle insegne imperiali. Così l’amore di madre si trasformò: cadde il progetto di ascesa sociale, venne la conversione e il futuro padre della Chiesa riprese la via dell’Africa, senza più Monica però, che morirà sulla via del ritorno.
Un altro genere di donna, che ebbe e ha importanza nella Chiesa, nei costumi, nella cultura è incarnato da Marcellina. La sorella di Ambrogio, dopo aver contribuito a crescere i fratelli, prese il velo con papa Liberio. Grazie a lei si prospettò una scelta di vita ricalcata sul modello del monachesimo orientale, di cui Ambrogio era estimatore: la verginità (su questa il Patrono di Milano compose una delle sue opere principali), la consacrazione, il chiostro in cui ritirarsi, pregare e, in taluni sviluppi, lavorare, garantire il prosieguo delle tradizioni e aprirsi al mondo attraverso opere di carità. Costantino, Ambrogio, Agostino e lo loro donne: esempi d’una storia plurale che continua, viene costruita giorno dopo giorno ancora, si evolve.
EDITTO DI COSTANTINO: "CODEX JUDAEIS" (11.12.321 d. C.)
NOTA. MATERIALI DI APPROFONDIMENTO:
LA "SACRA FAMIGLIA" DELLA GERARCHIA CATTOLICO-ROMANA NON HA NIENTE A CHE FARE CON LA FAMIGLIA DI GESU’, DI GIUSEPPE E MARIA ... E’ UNA COPPIA UN PO’ INCESTUOSA: LA MADRE ELENA E L’IMPERATORE COSTANTINO, IL "SIGNORE DEL MONDO" E LA MADRE DI "DIO":
RIPARARE IL MONDO. LA CRISI EPOCALE DELLA CHIESA ’CATTOLICA’ E LA LEZIONE DI SIGMUND FREUD.
Federico La Sala
Tre donne «forti» dietro tre padri della fede
di Marco Garzonio (Corriere della Sera, 25 ottobre 2012)
Il IV secolo è fine di un’epoca e nascita di tempi nuovi anche per i modelli femminili nella cultura cristiana e nella società. Mentre le istituzioni dell’Impero si sfaldano, popoli premono ai confini, corruzione e violenze dilagano e le casse sono vuote, causa guerre ed evasione fiscale, alcune donne sono protagoniste delle trasformazioni almeno tanto quanto gli uomini accanto ai quali la storia le ha accolte. Elena, madre di Costantino, Monica madre di Agostino, Marcellina sorella di Ambrogio.
Ma ci son pure Fausta, moglie di Costantino, da lui fatta assassinare per sospetto tradimento (violenza in famiglia anzi tempo) e la compagna di Agostino, giovane cartaginese vissuta anni more uxorio («coppia di fatto» si direbbe oggi) col futuro santo vescovo d’Ippona. Gli diede pure un figlio, Adeodato, di lei però non è rimasto nemmeno il nome: una rimozione del femminile, nonostante la straordinaria autoanalisi ante litteram compiuta da Agostino nelle Confessioni; un archetipo delle rimozioni collettive della donna praticate dalla cattolicità e di tanta misoginia e sessuofobia che affliggeranno la Chiesa per secoli e ancora la affliggono. Ma andiamo con ordine nel considerare i tipi.
La madre solerte, forte, premurosa, ambiziosa, molto attaccata al figlio maschio, possessiva: è il modello di madre che emerge dalle testimonianze. In parte è un’icona ritagliata sul prototipo della matrona romana, su cui s’innesta la novità del cristianesimo. Questo dalle origini si dibatte in una contraddizione. C’è l’esempio di Gesù che «libera» la donna dalle sudditanze; per lui non è alla stregua di una «cosa» (come negli usi romani); negli incontri rivela l’alta considerazione verso una persona non certo inferiore all’uomo e contraddice così la cultura del tempo. Narrano i vangeli che Gesù si mostra a Maria di Magdala e alle altre donne come il Risorto davanti al sepolcro vuoto: loro sono le protagoniste, a esse affida l’annuncio pasquale. Dall’altra parte c’è San Paolo che invita le mogli a stare sottomesse ai mariti e ispira la visione di un ruolo ancillare, silenzioso, subordinato.
Ecco, allora: Elena anticipa quella che in epoche successive sarà la Regina Madre. Locandiera, legata a Costanzo Cloro cui darà un figlio, Costantino, fa di tutto perché questi diventi padrone dell’Impero: tesse rapporti, guida, consiglia. Verrà ricambiata: Costantino cingerà lei del diadema imperiale (invece della «traditrice» Fausta) introducendo nell’iconografia una coppia un po’ incestuosa: madre e figlio.
Psicologicamente Costantino sarà in un certo modo sottomesso a Elena. A Gerusalemme lei troverà le reliquie del Santo Sepolcro. Dei chiodi della Croce ornerà la corona imperiale (posta sul capo dei padroni del mondo sino a Napoleone) per dire che chi governa è sottomesso a Dio, e farà il morso del cavallo del figlio: anche i sovrani devono frenare le pulsioni. Madre altrettanto ingombrante, sul piano degli affetti in questo caso, fu Monica per Agostino.
Questi aveva cercato di liberarsene partendo per Roma senza dir nulla ma Monica non si scoraggiò, lo inseguì e raggiunse sino a Milano, capitale ai tempi. Qui convinse il figlio, all’apice del successo come retore, a rispedire in Africa la compagna e si diede da fare perché trovasse a corte una moglie. Intanto s’era pure spesa affinché Agostino conoscesse Ambrogio, che a Milano contava più delle insegne imperiali. Così l’amore di madre si trasformò: cadde il progetto di ascesa sociale, venne la conversione e il futuro padre della Chiesa riprese la via dell’Africa, senza più Monica però, che morirà sulla via del ritorno.
Un altro genere di donna, che ebbe e ha importanza nella Chiesa, nei costumi, nella cultura è incarnato da Marcellina. La sorella di Ambrogio, dopo aver contribuito a crescere i fratelli, prese il velo con papa Liberio. Grazie a lei si prospettò una scelta di vita ricalcata sul modello del monachesimo orientale, di cui Ambrogio era estimatore: la verginità (su questa il Patrono di Milano compose una delle sue opere principali), la consacrazione, il chiostro in cui ritirarsi, pregare e, in taluni sviluppi, lavorare, garantire il prosieguo delle tradizioni e aprirsi al mondo attraverso opere di carità. Costantino, Ambrogio, Agostino e lo loro donne: esempi d’una storia plurale che continua, viene costruita giorno dopo giorno ancora, si evolve.
GIOACCHINO DA FIORE*
Probabilmente figlio d’un notaio, nacque a Celico, nei pressi di Cosenza, intorno al 1130; compì un viaggio in Terrasanta, al cui ritorno si fece monaco cisterciense, entrando nel monastero della Sambucina, indi in quello di Santa Maria di Corazzo, di cui fu abate. A seguito d’una profonda crisi spirituale lasciò Corazzo, ritirandosi in un eremo a Pietralata, poi in altro eremo sulla Sila, ove raccolse una piccola comunità e costituì il cenobio di San Giovanni in Fiore (la comunità prese poi nome di Florense), e il nuovo ordine ebbe approvata la regola da papa Celestino III nel 1196. Perseguitato dai Cisterciensi, poté tuttavia godere l’appoggio dell’imperatore Enrico VI. Morì il 30 marzo del 1202. È autore di una nutrita serie di opere profetico-teologiche, la Concordia Novi ac Veteris Testamenti, la Expositio in Apocalypsim, il Psalterium decem chordarum, il Tractatus super quatuor Evangelia, il De Unitate seu essentia Trinitatis (ora perduto). Non suo, invece, ma compendio delle sue idee e delle sue profezie ad opera di qualche discepolo, è il Liber figurarum, che si disse aver influenzato Dante per la Divina Commedia. *
Dalla «Concordia Novi ac Veteris Testamenti» [1]
Debemus ergo in labore et gemitu in hiis sacris diebus resistere affligentes, ut scriptum est animas nostras quousque quadraginta dies, hoc est generationes totidem et duo quantum in maiori luctu et afflictione pertranseant: ut ad sacra illius Pasche solemnia pervenire possimus et cantare domino canticum novum quod nobis abstulit, ut iam diximus, primus septuagesimae dies canticum letitie quod est alleluia. Nec mirum si hec sacra mysteria clausa hactenus sub velamine nobis iunioribus tempore incipiunt aperiri. Cum illa generatio agatur in extremis quae designatur in sacro quadragesimo die. In quo velum illud mysteriale quod pendet a conspectu altaris tollitur a facie populi. Ut qui hactenus «per speculum in enigmate» amodum «facie ad faciem» videre incipiant veritatem: euntes ut ait Apostolus «de claritate in claritatem...». Tres denique mundi status nobis ut iam scripsimus in hoc opere divine nobis pagine sacramenta commendant: primum in quo fuimus sub lege, secundum in quo fuimus sub gratia, tertium quod e vicino expectamus sub ampliori gratia... Primus ergo status in scientia fuit, secundus in potestate sapientie, tertius in plenitudine intellectus. Primus in servitute servili, secundus in servitute filiali, tertius in libertate. Primus in flagellis, secundus in actione, tertius in contemplatione. Primus in timore, secundus in fide, tertius in charitate. Primus status servorum est, secundus liberorum, tertius amicorum. Primus senum, secundus iuvenum, tertius puerorum. Primus in luce siderum, secundus in aurora, tertius in perfecto die. Primus in hieme, secundus in exordio veris, tertius in estate. Primus protulit urticas, secundus rosas, tertius lilia. Primus herbas, secundus spicas, tertius triticum. Primus aquam, secundus vinum, tertius oleum. Primus pertinet ad septuagesimam, secundus ad quadragesimam, tertius ad festa paschalia. Primus itaque status pertinet ad Patrem qui auctor est omnium... secundus ad Filium qui assumere dignatus est limum nostrum... tertius ad Spiritum Sanctum de quo dicit Apostolus: «Ubi spiritus domini, ibi libertas». Et primus quidem status significatus est in tribus illis hebdomadis que precedunt ieiunium quadragesimale, secundus in ipsa quadragesima, tertius in tempore solemni quod vocatur paschale. Quocirca si mysterium veli positi inter populum et altare non segniter intuemur, intellegimus non absque circa die quadragesimo, in quo et conficitur sanctum chrisma, eicitur a conspectu altaris ut iam non videant fideles altare ipsum quasi per speculum in enigmate, sed magis facie ad faciem. Nimirum quia in tempore isto in quo agitur quadragesima generatio oportet auferri velamen litere a cordibus multorum.
In questi giorni sacri noi dobbiamo resistere nel lavoro e nel pianto, in attesa che si compia il ciclo quaresimale, si chiuda cioè il novero delle quarantadue generazioni del lutto e dell’afflizione, e noi possiamo essere introdotti nella sacra solennità dell’universale risurrezione, per cantare al Signore quel cantico nuovo di gioia, che è l’Alleluia. Nessuna meraviglia se tutto il significato profondo dei vecchi sacri misteri, fino a oggi celati, sotto il velame, agli occhi nostri, di noi, più giovani e più piccoli, si va dischiudendo. Dappoiché apparteniamo a quest’ultima generazione che è designata nell’ultimo sacro giorno della penitenziale quaresima: il giorno in cui si toglie dagli occhi del popolo il velario che tiene l’altare in lutto. Affinché quella verità che il popolo vide finora «in sullo specchio, in enigma», cominci a scorgere «faccia a faccia», passando, secondo l’assicurazione dell’Apostolo, «di chiarezza in chiarezza».
Tutti i simboli sacramentali contenuti nelle pagine della rivelazione di Dio ci instillano la convinzione dei tre stati. Il primo stato è quello durante il quale noi fummo sotto il dominio della Legge; il secondo è quello durante il quale noi fummo sotto il dominio della Grazia; il terzo è quello che noi attendiamo da un giorno all’altro, nel quale ci investirà una più ampia e generosa grazia. Il primo stato visse di conoscenza; il secondo si svolse nel potere della sapienza; il terzo si effonderà nella plenitudine dell’intendimento. Nel primo regno il servaggio servile; nel secondo la servitù filiale; il terzo darà inizio alla libertà. Il primo stato trascorse nei flagelli; il secondo nell’azione; il terzo trascorrerà nella contemplazione. Il primo visse nell’ atmosfera del timore; il secondo in quella della fede; il terzo vivrà nella carità. Il primo segnò età dei servi; il secondo l’età dei figli; il terzo non conoscerà che amici. Il primo stato fu dominio di vecchi; il secondo di giovani; il terzo sarà dominio di fanciulli. Il primo tremò sotto l’incerto chiarore delle stelle; il secondo contemplò la luce dell’aurora; solo nel terzo sfolgorerà il meriggio. Il primo fu inverno; il secondo un palpitare di primavera; il terzo conoscerà la pinguedine dell’estate. Il primo non produsse che ortiche; il secondo diede le rose; solo al terzo appartengono i gigli. Il primo vide le erbe; il secondo lo spuntar delle spighe; il terzo raccoglierà il grano. Il primo ebbe in retaggio l’acqua; il secondo il vino; il terzo spremerà l’olio. Il primo stato fu tempo di settuagesima; il secondo fu tempo di quaresima; il terzo solo scioglierà le campane di Pasqua.
In conclusione: il primo stato fu reame del Padre, che è il creatore dell’universo; il secondo fu reame del Figlio, che si umiliò ad assumere il nostro corpo di fango; il terzo sarà reame dello Spirito Santo, dal quale dice l’Apostolo: «Dove è lo Spirito del Signore, ivi è libertà». E il primo stato è simboleggiato in quelle tre settimane che vanno innanzi al digiuno quaresimale; il secondo nella stessa quaresima; il terzo nel tempo solenne di Pasqua. Per cui se convenientemente interpretiamo il mistero del velo interposto fra il popolo e l’altare, comprendiamo come non è senza motivo che nel giorno di quaresima, in cui si consacra il sacro crisma, quel velo è tolto di mezzo, affinché i fedeli non veggano più l’altare quasi attraverso uno specchio, ma più tosto faccia a faccia. Il che per dire che in questo tempo, regnante la quarantesima generazione, occorre ritirare il velo della lettera dal cuore della massa.
(Trad. di E. BUONAIUTI, Gioacchino da Fiore, cit., pp. 227-231).
[1] Ediz. Venezia 1519, V, 84.
Ansa» 2009-01-13 18:32
RABBINI, CON RATZINGER CANCELLATI 50 ANNI DI DIALOGO
ROMA, 13 GEN - Con Benedetto XVI, la Chiesa sta cancellando i suoi ultimi "cinquanta anni di storia" nel dialogo tra ebraismo e cattolicesimo: a lanciare la critica è il rabbino capo di Venezia, Elia Enrico Richetti, che - in un editoriale per il mensile dei gesuiti "Popoli", ha spiegato i motivi che hanno portato il rabbinato italiano a non partecipare alla prossima Giornata sull’ebraismo, indetta per il 17 gennaio dalla Confrenza episcopale italiana.
TUTTO IL POTERE AL DENARO
di Mario Pancera
Fascismo e berlusconismo all’esame dei cattolici *
Affarismo ed egoismo sono i due elementi principali, o almeno i più vistosi, del berlusconismo come si è sviluppato nella politica italiana in questi ultimi dieci anni. Sono d’accordo sacerdoti, giornali e opinionisti cattolici. Per quanto appare da parole e azioni, si tratta di un egoismo individuale e di gruppo. Questo porta molti a considerare il berlusconismo una sorta di fascismo, ben diverso, naturalmente, da quello mussoliniano, che pur essendo dispotico agitava un’ideologia di grandeur nazionale, che nel secolo scorso incontrò molti consensi.
Il sociologo e psicanalista austriaco Wilhelm Reich, a differenza di quel che era il comune sentire, sosteneva nel 1933 che «”il fascismo” è l’atteggiamento emozionale fondamentale dell’uomo autoritariamente represso dalla civiltà delle macchine e della sua concezione meccanicistico mistica della vita». E aggiungeva: «Il carattere meccanicistico mistico degli uomini del nostro tempo crea i partiti fascisti e non viceversa». È un errore considerare il fascismo prodotto di una etnia o di un popolo o di «una piccola cricca reazionaria»: è un fenomeno «internazionale che corrode tutti i gruppi della società umana di tutte le nazioni».
Ben conscio della responsabilità di queste affermazioni, lo studioso sottolineava gli aggettivi «internazionale» e «tutte», affermando tra l’altro che il fascismo «non è un movimento puramente reazionario, ma costituisce un amalgama tra emozioni “ribelli” e idee sociali reazionarie». Lasciamo naturalmente al sociologo, che spiegava la sua teoria in «Psicologia di massa del fascismo», la sua intera responsabilità, ma alcuni elementi, anche in questo rapido riassunto, sono evidenti anche oggi.
Il fascismo mussoliniano aveva, in effetti, un Credo; si basava su giuramenti; propugnava una sua mistica; aveva parole d’ordine come credere, obbedire, combattere, ed aveva divise, emblemi e riti che colpivano l’immaginazione e i sentimenti popolari (ovvero quelle masse di individui che secondo Reich hanno già il fascismo dentro di sé: ribelli e reazionari insieme). Il berlusconismo è diverso? È un fatto che, negli ultimi decenni, a partire dagli anni in cui ancora non era movimento politico ma solo un insieme di società di affari, ha avuto ed ha ancor oggi copiosi consensi, ha ottenuto i voti di vere masse di elettori.
Può essere che abbia in sé ribellione (non rivoluzione, che è cosa diversa) e insieme idee sociali reazionarie? L’egoismo e l’affarismo - in pratica, tutto il potere al denaro - appaiono chiaramente attraverso i mass media, peraltro aggrediti ogni giorno con l’accusa di essere prezzolati, mentitori e pregiudizialmente ostili.
Le espressioni berlusconiane «Forza Italia» e «Popolo della libertà» non indicano due partiti o movimenti con una ideologia fondante, sia pure di tipo mussoliniano, ma sono slogan adattabili a realtà diverse che vanno dallo sport al qualunquismo ovvero al mercato. È sempre più usata la frase «favorire i consumi». Il cervello, l’intelligenza, lo studio sono ai margini: si lavora e si è pagati per consumare. Altro che figli di Dio. La vita è la vita del consumatore, non dell’uomo pensante oltre che consumante. Lo spirito non è nemmeno ai margini: non se ne parla affatto. Intendo lo spirito sia in senso laico, sia religioso.
Perfino i colori dei seguaci di questi movimenti sono indicativi della mistica del berlusconismo: gli azzurri (che richiamano gli sport e quindi grandi masse di manovra) e la bandiera biancorossoverde attraversata dal loro slogan; ma anche il continuo riferimento alla «gente» in maniera indeterminata e l’inno «Forza Italia» cantato con la destra sul petto come in un rito religioso. Rari e d’occasione i richiami ai lavoratori, al popolo, ai cittadini, che erano invece d’obbligo nei partiti tradizionali, democristiano, socialista, comunista, repubblicano e liberale.
Il berlusconismo si manifesta quindi come ribelle e nello stesso tempo con idee sociali reazionarie? La spinta a spendere, non a lavorare per emanciparsi, cioè non a lavorare per essere ma a lavorare per consumare (che è un subdolo attacco ai valori del cristianesimo); le affermazioni del tipo «meno libertà in cambio di più sicurezza»; l’avversione per la democrazia parlamentare (lo notano anche eminenti politologi cattolici), il tentativo di restringere sempre più il numero dei partiti dell’opposizione, di limitare la libertà di cronaca dei mass media e di non concedere ai cittadini il diritto di scelta sulle schede elettorali: tutto questo è fascismo?
Mario Pancera
Costantino, santo tiranno
di Marco Rizzi (Corriere della Sera / La Lettura, 18 marzo 2012)
Un giorno d’autunno di millesettecento anni fa, un generale stupì i suoi soldati (e ancor più i nemici) guidandoli in combattimento sotto una nuova bandiera, che gli era apparsa in visione e gli avrebbe garantito la vittoria. La nuova insegna riportava il nome di un’altrettanto nuova divinità, Cristo. O almeno questo è quanto verrà accreditato dagli scrittori cristiani, che a partire dagli anni immediatamente successivi intorno alla figura di quel generale, Costantino, e alla sua conversione, costruiranno un vero e proprio mito destinato a durare per secoli e a ispirare artisti del calibro di Piero della Francesca e Raffaello.
A partire dal XIX secolo, la storiografia moderna ha iniziato a interrogarsi sulla veridicità dell’episodio e - soprattutto - sulla sincerità del sentimento religioso di colui che è passato alla storia come il fondatore dell’impero cristiano. In particolare, si è mostrato come un panegirico pagano riporti un episodio affine, nel quale ad apparire a Costantino sarebbe stato Apollo, manifestazione di quella divinità solare che aveva assunto un ruolo dominante nel pantheon tardoantico e cui sembrava rivolgere le sue preghiere, sino a quel momento, anche il futuro imperatore.
La battaglia di Ponte Milvio, presso Roma, segnò comunque una svolta nell’ascesa al potere di Costantino, allora quarantenne. Era figlio di Elena, donna di umili origini, e di Costanzo Cloro, un brillante generale, associato verso la fine del III secolo al sommo potere da Diocleziano, che aveva appena suddiviso l’impero tra due Augusti e due Cesari. Il complicato sistema istituzionale mirava a controllare meglio un territorio sconfinato e a impedire, grazie al bilanciamento dei poteri, le ricorrenti rivolte degli eserciti e le usurpazioni del trono.
Cresciuto alla sua corte, dopo l’abdicazione di Diocleziano Costantino si recò dal padre in Inghilterra e qui, alla morte di Costanzo Cloro nel 306, fu puntualmente acclamato imperatore dalle legioni. L’equilibrio tetrarchico sembrò reggere ancora per qualche tempo, grazie al matrimonio di Costantino con Fausta, figlia di Massimiano, Augusto d’Occidente.
Nel 310, Costantino ruppe con il suocero e lo sconfisse a Marsiglia; nel 312 passò in Italia e, dopo la vittoria di Ponte Milvio di cui si è detto, si incontrò a Milano con Licinio, che aveva assunto il controllo dell’Oriente. I due, rimasti i soli detentori del potere, dichiararono la libertà per ogni culto, incluso quello cristiano, con il cosiddetto editto di Milano del 313.
Anche in questo caso, l’equilibrio non durò a lungo e, dopo un decennio di conflitti, Licinio fu costretto ad abdicare nel 324. Una volta consolidato il suo potere con i metodi alquanto spicci dell’epoca (fece uccidere Licinio, Fausta e il proprio figlio primogenito Crispo, nato da un’altra relazione), il rude soldato si rivelò un notevole riformatore: Costantino accentrò la burocrazia civile e la distinse da quella militare, assegnò funzioni precise al consiglio di gabinetto, ristrutturò l’esercito, privilegiando una strategia di movimento rispetto allo stanziamento di truppe ai confini dell’impero, riformò la moneta per contenerne la svalutazione e cercò di vincolare ai loro obblighi economici e civili tanto i contadini e gli artigiani, quanto i maggiorenti delle città, che tendevano a sottrarsi ai gravosi e dispendiosi incarichi amministrativi.
In questo quadro si colloca la svolta nel rapporto tra l’impero e il cristianesimo; già in precedenza, esso aveva goduto di lunghi periodi di tranquillità, se non di grande vicinanza al potere, come con Alessandro Severo all’inizio del II secolo o con Filippo l’Arabo, verso la metà. In questo modo, i cristiani avevano potuto consolidare la propria presenza nella società antica, sviluppando una fitta rete organizzativa e di reciproca assistenza, accompagnata da una notevole attività intellettuale che sfidava, e al tempo stesso affascinava, le élite tradizionali.
I cristiani erano giunti a costituire all’incirca un decimo della popolazione, concentrandosi nelle città e stabilendo solidi contatti tra le Chiese delle diverse regioni dell’impero. Soprattutto, avevano costruito un peculiare assetto istituzionale, incentrato sulla figura del vescovo, scelto dall’assemblea dei fedeli o da una cerchiapiù ristretta di anziani, i presbiteri, secondo il modello delle sinagoghe ebraiche. Il vescovo cristiano, però, assommava in sé non solo funzioni di tipo religioso-sacerdotale, bensì anche di gestione e di controllo delle risorse della comunità, su cui esercitava un controllo di tipo disciplinare.
Nel progressivo venir meno del senso civico delle tradizionali élite locali, l’emergere della nuova figura del vescovo quale leader legato alla comunità, dotato di risorse economiche e simboliche, dovette costituire agli occhi di Costantino una straordinaria opportunità per accompagnare al disegno di riforma e accentramento del potere politico-militare un movimento di segno opposto, che potesse radicare il suo nome e la sua azione nei gangli vitali dell’impero, le città.
Ricevendo sontuosamente i vescovi provenienti da tutte le province per il Concilio di Nicea del 325, Costantino non esitò a chiamarli «amici», un termine chiave del lessico politico antico, e li accolse come suoi pari a banchetto nel palazzo, proclamandosi enigmaticamente «vescovo di quelli che sono fuori».
Da qui deriva il sistematico appoggio non astrattamente alla Chiesa, bensì assai concretamente ai suoi vescovi, per mezzo di dotazioni economiche, concessione di privilegi, assegnazione di funzioni pubbliche quali la possibilità di emettere sentenze con valore civile in varie materie, sottraendole ai magistrati ordinari, spesso corrotti. Soprattutto, Costantino promosse una campagna di edificazione di chiese, che ebbe il suo culmine nella costruzione del complesso basilicale del Santo Sepolcro, a Gerusalemme, dove si era recata in pellegrinaggio la madre Elena che, secondo la leggenda, avrebbe ritrovato sul Golgota il legno e i chiodi della croce di Cristo. In cambio di tutto ciò, Costantino avrebbe voluto che i vescovi conservassero tra loro la massima concordia, al di là dei conflitti dottrinali che endemicamente percorrevano la Chiesa; un desiderio, però, destinato a restare frustrato.
L’impresa che ne riassume la grandezza e le contraddizioni è l’edificazione della città che porta il suo nome, Costantinopoli: pensata per soppiantare l’antica, la «nuova Roma» fu consacrata nel 330, sette anni prima della sua morte, con un curioso sincretismo di cerimonie tradizionali e di riti cristiani.
Del resto, Costantino non aveva mai del tutto rinunciato a titoli e funzioni proprie del passato pagano; e prudentemente si fece battezzare solo sul letto di morte, probabilmente senza capire appieno a quale partito teologico appartenesse il vescovo che gli impartiva il sacramento (in ogni caso, non era in linea con la posizione ortodossa, che si sarebbe definitivamente affermata solo nei decenni successivi). Fu sepolto accanto a dodici tombe vuote che rappresentavano quelle degli apostoli, e ancora oggi la Chiesa ortodossa lo venera come santo.
Quel monogramma divino e vittorioso. Quanti simboli prima di vedere Cristo
di Francesca Bonazzoli (Corriere della Sera, 25 ottobre 2012)
Si potrebbe immaginare che dopo l’Editto costantiniano di tolleranza l’iconografia cristiana, fino ad allora mutuata dall’arte imperiale, cominciasse a sviluppare una serie di nuove immagini autonome. Invece, secondo lo storico André Grabar che ha dedicato tutti i suoi studi all’iconografia cristiana e bizantina, «anche senza dimenticare le massicce distruzioni, i regni di Costantino e dei suoi figli, che videro la fondazione dell’impero cristiano, sono per la storia dell’iconografia cristiana quasi come una tabula rasa».
Per il momento, in questi primi secoli, c’è fondamentalmente una sola immagine nuova legata al regno di Costantino: il cosiddetto crismon, il monogramma di Cristo, formato dalle lettere sovrapposte dell’alfabeto greco X (si legge chi) e P (si legge ro), ossia le prime due lettere della parola Cristo, l’unto, il prescelto. Secondo le cronache, peraltro celebrative e contraddittorie, dello storico Eusebio, alla vigilia della battaglia contro Massenzio sul ponte Milvio, l’imperatore avrebbe visto apparire in cielo una croce di luce sovrapposta al cerchio del sole con la scritta «In hoc signo vinces», vincerai sotto questa insegna. Costantino avrebbe quindi fatta sostituire nel labaro (il vessillo militare composto da un drappo quadrato color porpora attaccato a una lancia) l’immagine dell’aquila imperiale con quella del crismon.
Il segno compare nelle monete costantiniane anche se, a conferma del fatto che le cose siano forse andate diversamente dal miracolo raccontato da Eusebio, è assente nell’arco di Costantino eretto solo tre anni dopo la battaglia. In effetti Costantino non si convertì di colpo e anzi conservò per tutta la vita la carica di Pontifex maximus, cioè capo supremo della religione pagana tradizionale. È difficile, dunque, credere che avesse sostituito già alla battaglia del ponte Milvio l’immagine dell’aquila imperiale con quella del crismon nel labaro del suo esercito.
Anche se fu Costantino a divulgarlo, il monogramma non fu comunque una sua invenzione. Esisteva già come abbreviazione della parola greca crestòs, con la stessa pronuncia di Cristos, ma con il significato di buono, utile, propizio, usato come simbolo di buon auspicio anche in alcuni sarcofagi orientali. L’imperatore, insomma, potrebbe aver usato il segno preesistente del crismon con un significato di buon auspicio che, solo successivamente e oltre il primitivo intento di Costantino, l’agiografia imperiale avrebbe poi trasformato in monogramma cristiano.
Il buon esito della battaglia poteva a quel punto benissimo servire a far coincidere il simbolo di vittoria militare con il simbolo della vittoria di Cristo sulla morte. Ancora una volta, dunque, l’iconografia cristiana andava a sovrapporsi a quella imperiale, spostando semplicemente il significato delle immagini e dei simboli, esattamente come avviene nella trasmissione del linguaggio da una generazione all’altra quando uno stesso termine può cambiare il valore semantico.
E infatti nel cristogramma costantiniano i significati militari e religiosi si intrecciano e sovrappongono in un continuo andare e venire da uno all’altro. Il cerchio dentro cui è rappresentato il crismon, per esempio, è una possibile allusione alla corona d’alloro della vittoria così come al sole, che ogni giorno risorge come Cristo dopo la morte. E come l’iconografia costantiniana rappresentava l’imperatore con i suoi figli trionfanti su un dragone ai loro piedi, così nel crismon si poteva aggiungere la S del nome finale di Cristos sotto la lettera P con l’allusione alla vittoria finale di Cristo sul male identificato col serpente. E per sovrappiù, a questo intreccio di significati, fra i bracci della X potevano comparire anche la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco, alfa e omega, per alludere all’inizio e alla fine del progetto di salvezza.
Fu proprio la resurrezione di Cristo ad escludere il tema della morte dall’arte funeraria dei primi secoli del cristianesimo, quando la croce era ancora percepita come un simbolo d’infamia. Solo a partire dal V secolo sostituì il crismon come segno per eccellenza del Cristo, anche negli stendardi militari. Ma era ancora una croce senza il corpo del Cristo e molto preziosa, lavorata con oro e gemme. La figura di Cristo non fa la sua comparsa prima del VI secolo e resta rara fino in epoca carolingia. Bisognerà poi aspettare l’XI secolo prima che in Occidente compaia un nuovo tipo di Cristo crocifisso, con il capo reclinato sulla spalla, il corpo emaciato e sulla testa una corona di spine in luogo di quella gemmata che coronava i Cristi trionfanti, vivi e con gli occhi aperti, dell’arte bizantina secondo l’equivalenza del Cristo vittorioso con l’imperatore trionfante
E il potere temporale della Chiesa si basa su un falso
di Armando Torno (Corriere della Sera, 25 ottobre 2012)
Quando si parla di Donazione di Costantino si fa riferimento a una presunta cessione, da parte dell’imperatore romano a papa Silvestro I (eletto il 31 dicembre 314) e ai suoi successori, di Roma, dell’Italia e delle province occidentali. Il documento che la testimonia apparve già dubbio nel X secolo, ma poi fu impugnato sia da Arnaldo da Brescia (morto nel 1155), da Niccolò Cusano (morto nel 1464) e definitivamente sbugiardato con un’operina da Lorenzo Valla - scritta nel 1440, durante i giorni di Eugenio IV, ma pubblicata nel 1517 - La falsa Donazione di Costantino. In essa l’umanista dimostra che la lingua in cui fu redatto il documento è un latino che risente degli influssi barbarici e i riferimenti ivi contenuti rimandano a un tempo nel quale Costantinopoli è già diventata la nuova capitale dell’impero.
Il contenuto della Donazione va diviso in due parti. Nella prima, la cosiddetta confessio, dopo le solite formule protocollari segue la narrazione della miracolosa guarigione dalla lebbra di Costantino e del suo battesimo. Si racconta che i sacerdoti pagani, dopo che le cure mediche si rivelarono inutili, suggerirono all’imperatore di immergersi in una vasca dove si sarebbe dovuto versare il sangue di bimbi innocenti. Ma egli rifiutò, anche perché il pianto delle madri lo commosse. A quel punto gli appaiono in sogno Pietro e Paolo: i santi garantiscono a Costantino la guarigione se avesse chiesto il battesimo al Papa. Il Pontefice glielo amministrò, anzi lo fece seguire anche dalla cresima. La seconda parte del documento, la cosiddetta donatio o dispositio, registra il gesto imperiale. Costantino, d’accordo con i suoi dignitari, il Senato ma anche con lo stesso popolo, decide di concedere alla Chiesa poteri, dignità e onori imperiali.
Un dettato non particolarmente chiaro, anzi piuttosto ampolloso, giunto in tre lingue: latino, slavo e greco. La prima di esse è considerata la più completa ed è quella che si utilizza con maggior frequenza per i riferimenti. Il testo di questo celebre falso si legge nella riedizione, a cura di Roberto Cessi e Roberta Sevieri, La Donazione di Costantino, pubblicata da La Vita Felice nel 2010 (costa 11,50 euro): in essa, oltre un ampio saggio introduttivo, si trovano le versioni latina e greca.
Insomma, è possibile rileggere le varie scene con cui è di fatto giustificato il potere temporale. Parole come le seguenti dovettero suscitare un certo effetto: «Abbiamo inoltre stabilito anche questo, che lo stesso venerabile padre nostro Silvestro, sommo Pontefice, e tutti i pontefici suoi successori, debbano utilizzare il diadema, ossia la corona d’oro purissimo e gemme preziose, che dal nostro capo a lui abbiamo ceduto, e portarlo sul capo a lode di Dio e gloria del beato Pietro».
Non è facile orientarsi nelle mille storie che nascono o si riflettono in questo documento, ma c’è un saggio di Giovanni Maria Vian, intitolato appunto La donazione di Costantino (Il Mulino 2004), che sa indirizzare il lettore del nostro tempo.
Non è inoltre semplice stabilire quando si cominciò a usare ufficialmente tale documento, anche se sembra che Leone IX nel 1053 sia stato il primo; sicuramente esso ebbe una notevole influenza nel Medioevo se si pensa che già nel 1059 Niccolò II concesse l’investitura della contea di Melfi al normanno Roberto il Guiscardo proprio fondandosi sulla Donazione.
Del resto basterà aggiungere che Dante nel XIX canto dell’Inferno manifesta il disagio provocato dall’insano atto, anche se da uomo del suo tempo lo crede autentico: «Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,/ non la tua conversion, ma quella dote/ che da te prese il primo ricco patre!».
La discussione su vero e falso continuò sino al secolo del romanticismo, quando la Chiesa perse il suo territorio, giacché mai mancò qualche religioso isolato che si arrampicava sugli specchi per difendere le ragioni di quel broglio antico. Si può poi discutere se c’è un’unità testuale o se la Donazione sia stata una costruzione realizzatasi in tempi diversi; comunque se ne fissa in genere la stesura in un periodo che corre tra il 750 e l’850, vale a dire tra Pipino e Carlo il Calvo.
Qualche storico suggerisce l’ipotesi che Stefano II, andando in Francia nel 753, avrebbe portato con sé il documento. Altri, addirittura, sostengono che tale falso avrebbe preparato (e giustificato) l’incoronazione di Carlo Magno. Ma questa è una storia infinita. Per raccontarla in termini esaurienti sarebbe bene approfittare delle opportunità recate dalle celebrazioni costantiniane del prossimo anno.
Il caso.
Giuseppe Flavio, ambiguo testimone del Cristo
Ci hanno provato in tanti a farne un cripto-cristiano, basandosi su alcuni passi dove sembra porgere la prova dell’esistenza storica di Gesù. Ma in un saggio Luciano Canfora smonta molti pregiudizi
di Franco Cardini (Avvenire, giovedì 8 luglio 2021)
Che ci sia sempre stato, e fin dall’antichità, qualcuno che ha dubitato dell’esistenza di Gesù come personaggio storico, è cosa nota. Del resto, è successo così anche per altri personaggi storici: per Napoleone, ad esempio, che ai bei tempi dell’ipercriticismo storiografico qualche bello spirito in vena di funambolismi comparativistici qualcuno volle far passare come un ’mito solare’.
Per Gesù, poi, le voci dovevano circolare con tanta insistenza che i Padri del Concilio di Nicea, nel 325, credettero bene di metter fine alle chiacchiere annoverandolo nel loro Synbolon (poi divenuto la preghiera del Credo) tra le verità oggetto di dogma. Si continua ancor oggi, peraltro, a discutere sulla storicità della figura del Cristo: argomento al quale è stato dedicato recentemente un tomo di ben 702 pagine, L’invenzione di Gesù di Nazareth, di Fernando Bermejo-Rubio (Bollati Boringhieri). E lo studioso spagnolo, esaminando nel primo capitolo del suo saggio il tema delle fonti storiche disponibili, dedica alcune dense pagine a un passo testuale da secoli considerato ’croce e delizia’ - ma soprattutto ’croce’, ed è il caso di dirlo... - dalla critica.
Si tratta del celebre Testimonium Flavianum, l’insieme di due brevi passi delle Antichità giudaiche (XVIII, 63-64, e XX, 200), nei quali lo storico Giuseppe - che si era denominato ’Flavio’ in omaggio al suo liberatore e patrono, l’imperatore Flavio Vespasiano -, scrivendo naturalmente in greco, accenna a Gesù e lo definisce ’il Cristo’. Personalità straordinaria e discussa, questo Giuseppe. Vissuto fra il 37 e il 103 circa d.C., di famiglia sacerdotale e di tendenze farisaiche, aveva partecipato alla rivolta giudaica del 66 ricoprendo anche funzioni militari importanti. Imprigionato nel 67 dall’imperatore Vespasiano, aveva ricevuto un generoso trattamento, era rimasto in Palestina con Tito, era stato testimone oculare della distruzione del Tempio di Gerusalemme e aveva seguito quindi a Roma il nuovo imperatore.
Giuseppe è (insieme con Filone d’Alessandria, di un paio di generazioni prima) uno dei massimi esempi di quegli ambienti ebraici che si convinsero dell’opportunità della collaborazione con l’impero romano restandone sudditi fedeli. È molto probabile che, nel lungo soggiorno romano coinciso con la seconda parte della sua esistenza, Giuseppe abbia avuto notizia dei nuovi fatti che laceravano sia la comunità degli ebrei restati in Palestina, sia quelli da tempo sparsi per l’impero - ed oltre - e in modo particolare presenti nel Caput Mundi. Il testo di quel passo della sua opera più ampia sembrerebbe una decisa dichiarazione filocristiana. Ma su questo punto è nata una violenta polemica: alcuni hanno accusato il Testimonium di essere un vero e proprio falso, altri vi hanno visto comunque delle infiltrazioni.
Nella secolare polemica sono entrati un po’ tutti: il cardinal Baronio, il dotto calvinista Isaac Casaubon, Edward Gibbon, ovviamente il Voltaire e via dicendo. La pietra dello scandalo non era tanto se davvero Giuseppe Flavio avesse mai nominato Gesù, quanto il fatto che fino dai suoi primi tempi l’intellighenzia cristiana si era impadronita di lui: da Giustino e Minucio Felice a metà del II secolo, fino a Eusebio e quindi, con decisione, a sant’Ambrogio e a san Girolamo, egli era divenuto non solo un testimone sicuro di Gesù ma un cristiano o filocristiano egli stesso.
È stato forse proprio Isaac Casaubon a gettare Luciano Canfora in caccia, sulle tracce di Giuseppe Flavio, della parziale o totale autenticità o meno del Testimonium Flavianum, della legittimità o meno della decisione con la quale gli autori cristiani procedettero al suo arruolamento nelle loro fila. Perché dalla filoromanità al filocristianesimo il passo di un ebreo ellenizzato del I secolo d.C. non è breve e potrebb’essere problematico. E la lettera del Testimonium è di per sé sottilmente ambigua: potrebbe esser letta come un’ovvia attestazione di fede, ma altresì come una tanto dura qualto sottile attestazione anticristiana.
Casuabon è abbastanza noto al grande pubblico in quanto egli e un paio di personaggi con il suo stesso cognome figurano nel Pendolo di Foucault di Umberto Eco, del 1988. Canfora ne aveva fatto il protagonista di uno studio attentissimo e coinvolgente del 2002, Convertire Casuabon (Adelphi, 2002), un vero e proprio ’thriller filologico’ fondato su un articolato tentativo gesuitico di conquistare al campo cattolico il dotto e implacabile erudito calvinista. Può darsi dunque che quel breve ma non brevissimo scritto che un ventennio fa valse a Canfora il ’Premio Capalbio’ sia la radice e l’antefatto di un suo libro recentissimo, La conversione. Come Giuseppe Flavio fu cristianizzato (Salerno, pagine 196, euro 18), che ha l’unico torto di essere stato riduttivamente inserito dall’Editore nella collana ’Piccoli Saggi’. Che un libro di quasi 200 pagine sia, quanto alla sua mole, già ’piccolo’, è discutibile ma accettabile; sul piano della sostanza, però, siamo al livello del Canfora migliore: come filologo rigoroso, come duttile storico capace di spaziare dall’antica Grecia al presente, come polemista lucido e talora perfido e infine - è giusto riconoscerglielo - come scrittore lucido e spesso divertente. Si è detto di lui ch’egli è capace di «trasformare la filologia in spy story e la storia della cultura in appassionante racconto».
Fedeli al suo spirito, ci guarderemo bene dall’assecondare l’odiosa e spregevole pigrizia di quei pessimi lettori di ’gialli’ che vanno subito a sbirciare nelle ultime pagine il nome dell’assassino. Del resto, in questo caso se lo facessero rimarrebbero delusi. Canfora è troppo buon professore per assecondare i vizi degli allievi: e il suo Epilogo - incentrato sulla corrispondenza fra Spinoza ed Heinrich/Henry Oldenburg, segretario della Royal Society di Londra e ’cristiano-apoca-littico’, è la perfetta conclusione filologica di una spy story: se non si è letto con attenzione il libro, si rischia di fraintenderne le conclusioni. Sine labore, nullum gaudium.