RATZINGER ’A SCUOLA’ DEL VISIONARIO SWEDENBORG. Una nota di Leonard Boff e una di Immanuel Kant
IL VANGELO CHE ABBIAMO RICEVUTO .... MA DA CHI?! Alcune note a margine dell’incontro dei cattolici del 16 maggio di Firenze*
di Federico La Sala *
Ma da chi, avete ricevuto questo “vangelo” che predicate?!
Certamente non da Gesù: egli è “venuto al mondo per rendere testimonianza alla verità”. E certamente non avete ascoltato la sua voce: “Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce” (Gv., 18.37).
Ma da chi, avete ricevuto questo “vangelo” che predicate?! A quale tavolo vi siete seduti, e con chi?!
Certamente non da Gesù e certamente non con Gesù: “Prendete, mangiate, questo è il mio corpo" (Mt. 26:26); “se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete vita in voi" (Gv. 6:53).
DALLA PRIMA LETTERA DI GIOVANNI:
CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE ... DEUS CHARITAS EST (1Gv., 4. 1-16).
CARISSIMI, NON PRESTATE FEDE A OGNI SPIRITO ... DIO E’ AMORE (1Gv., 4. 1-16).
In verità, se siete capaci di intendere e di volere, il vostro “vangelo” è il “van-gelo” del “latinorum”, dei don Abbondio e dei don Rodrigo ... dei “Papi” di oggi, e di Ratzinger!!!
E il vostro Padre è “Mammona” (“Caritas”)!!! E’ ora di svegliarsi - al di là del disagio e del dissenso!!! Avete ricevuto e predicate un “van-gelo”, gelido e mortifero che non ha nulla a che fare con la buona-novella (eu-angelo), il messaggio evangelico!!!
DEUS CARITAS EST (2006). Il teologo Ratzinger scrive da papa - senza grazia (“charis”) e senza “h” (acca) - una enciclica sul “Padre nostro” (“Deus charitas est”: 1 Gv. 4.16) e, ancora oggi, nessuno ne sollecita la correzione del titolo - nonostante l’Anno della Parola e il Sinodo dei Vescovi (2008).
Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!! Benedetto XVI: Deus caritas est, 2006 d. C.!!!
Su questa base, in un tempo (con che segni!) in cui i Papi si confondono con i “Papi” e il Papa in persona parla del Padre Nostro (Deus charitas) come “Mammona” (Benedetto XVI, Deus caritas est, 2006) e con tutta la gerarchia vaticana appoggia il cavaliere “Papi della Patria” (come già ieri il cavaliere “Uomo della Provvidenza”), il discorso “per una chiesa della fraternità” e della sororità (G. Ruggieri, Relazione: Il Vangelo che abbiamo ricevuto), se non è da conniventi, è quantomeno ... da sonnambuli!!!
Se è vero, come è vero, che “i suoni emessi con la voce sono simboli (sùmbola) delle passioni (pathémata) dell’anima, ed i segni scritti sono simboli dei suoni emessi dalla voce”( Aristotele, De Interpretatione, 16a), ciò significa che le passioni che si agitano nelle vostre anime non dicono affatto del messaggio evangelico .... E che la vostra tradizione - falsa e menzognera - semplicemente non ha più (se mai l’ha avuto) nessun rapporto con la tradizione evangelica, e “simbolica”!!!**
E la proposta di ogni “prassi sinodale” sotto il vostro controllo ... è solo un’operazione per vendere a caro-prezzo (“caritas”) la grazia del vostro Dio Mammona (Benedetto XVI, Deus caritas est, 2006 d. C.)!!!
Io sono la Via, la Verità, la Vita... Il vostro “vangelo” è una parola ingannevole e un cibo avvelenato, che non ha nulla a che fare con la Lettera e lo Spirito del messaggio di Gesù Cristo, il figlio del Dio Vivente.
* Per gli interventi al convegno del 16 maggio, si cfr.: www.ildialogo.org/parola
* IL DIALOGO, Martedì 26 Maggio,2009 Ore: 11:59
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NOTA:
La parola "simbolo" deriva dal latino symbolum ed a sua volta dal greco σύμβολον súmbolon dalle radici σύμ- (sym-, "insieme") e βολή (bolḗ, "un lancio"), avente il significato approssimativo di "mettere insieme" due parti distinte.
In greco antico, il termine simbolo (Σύμβολον) aveva il significato di "tessera di riconoscimento" o "tessera ospitale", secondo l’usanza per cui due individui, due famiglie o anche due città, spezzavano una tessera, di solito di terracotta, e ne conservavano ognuno una delle due parti a conclusione di un accordo o di un’alleanza, da cui anche il significato di "patto" o di "accordo" che il termine greco assume per traslato. Il perfetto combaciare delle due parti della tessera provava l’esistenza dell’accordo (Wikipedia).
Sul tema, nel sito e inrete, si cfr.:
«DEUS CARITAS EST», LA PRIMA ENCICLICA DI RATZINGER E’ A PAGAMENTO!!!
L’APOSTOLO ASTUTO MENTITORE, SENZA GRAZIA ("CHARIS") E SENZA AMORE ("CHARITAS")! UNA NOTA SULL’OPERAZIONE DI SAN PAOLO:
RATZINGER ’A SCUOLA’ DEL VISIONARIO SWEDENBORG. Una nota di Leonard Boff e una di Immanuel Kant
EQUIVOCATO O EQUIVOCO? BENEDETTO XVI O BERLUSCONI, NESSUNO COMPRERA’ LE NOSTRE PAROLE
FLS
Cestinare l’«inutile fardello» per credere
di Franco Barbero, 21/04/2021 *
Ho pubblicato una più articolata riflessione su «che cosa abbiamo lasciato e che cosa possiamo costruire e inventare» nel nostro cammino di Chiesa di base. Accenno qui ciò che ritengo più urgente lasciare, ma esprimo anche un cammino già compiuto o in atto in parecchie comunità che accompagno.
1) La necessaria ablatio
Una persona adulta che partecipi alla vita di una comunità cattolica avverte un disagio di fronte all’“incremento” del castello religioso. La fabbrica del sacro devozionale produce a ritmo continuo: madonne, santi, demoni, reliquie, processioni che trovano legittimazione nel Catechismo della Chiesa cattolica. È necessario aprire gli occhi sull’ambiguità di questa adiunctio e sulla necessità di dissociarsi da quella “religione” che non è a servizio della fede, ma funzionale alla sopravvivenza di un’istituzione ecclesiastica.
L’inversione di marcia è una rigorosa ablatio: togliere, portare via. Una coraggiosa opera di essenzializzazione: «Riformare allora (...) assomiglia a un atto di ablatio, analogo a quello che compie lo scultore che deve solo liberare e far emergere la statua dal masso informe di marmo che ha davanti: il suo lavoro sarà quello di togliere perché si manifesti la nobilis forma già presente nel masso» (Luciano Manicardi). Ratzinger, giovane teologo, scrisse parole “rivoluzionarie” sull’urgenza di questa operazione. Senza deporre questo «inutile fardello», per dirla con Ortensio Da Spinetoli, ogni passaggio verso il futuro è sbarrato.
2) La contrastata ablatio
Questa coscienza adulta della fede non trova ostacolo solo in quella maggioranza silenziosa che non avverte la necessità di sfoltire la foresta devozionale e “catechistica”, ma anche in un immaginario religioso, catechistico, liturgico, dogmatico difeso in modo ”autorevole” dal magistero. Paolo VI il 5 giugno 1967 disse: «Le formule dogmatiche sono così strettamente legate al loro contenuto che qualsiasi alterazione nasconde o provoca un’alterazione nel contenuto stesso». Al di là di diffuse retoriche buoniste, il magistero, anche quello di Francesco, come vediamo nelle conclusioni dopo il Sinodo panamazzonico o nelle recenti dichiarazioni della Cdf circa la benedizione alle coppie omosessuali, davanti ad alcuni nodi della modernità difende un Catechismo ufficiale che va interamente archiviato, una “lingua straniera” per l’uomo e la donna contemporanei.
3) La necessità della disobbedienza
Oggi credo che l’amore per la vita e per la fede, anche per la Chiesa, di cui mi sento ereticamente parte, imponga il dovere di percorsi responsabili, capaci di creare esperienze, linguaggi e simboli fuori dall’ortodossia, senza affatto sentirsi fuori dalla Chiesa, tanto meno dalla fede. Alcuni passi che provengono da un nuovo immaginario di Dio e da nuove ipotesi scientifiche, da nuove visioni del mondo, mi sembrano rendere la mia fede molto più vitale, liberante, riconciliata con ciò che vivo: «C’è una realtà che chiamiamo Dio che è la sorgente della vita che viviamo, il Fondamento dell’essere che ci chiama ad essere tutto ciò che possiamo essere. Io oggi vivo nella convinzione che non sono separato da questo Dio. L’alterità mi viene incontro. La trascendenza mi chiama. Dio mi abbraccia. Questo Dio non si identifica con le dottrine, i credo e le tradizioni» (J. S. Spong, Un cristianesimo nuovo per un mondo nuovo, Massari Editore, p. 126). È il congedo dal Dio interventista e dalla sacralizzazione del testo biblico che mi apre il sentiero verso alcune “uscite dal dogma”. Vivo questa esperienza con realtà comunitarie e con persone che, per quanto marginali e marginalizzate, danno corpo a una fede feconda e felice.
Alcuni “abbandoni”
In nome della piena compatibilità tra amore e ministero, tra amore e vita consacrata si possono abbandonare la legge del celibato obbligatorio e i voti di verginità perpetua. Se hai il dono di amare, non lasciare che ti sia precluso da una legge ecclesiastica, dal fatto che sei omosessuale o transessuale o prete, o suora o separato/a. Queste regole disumanizzanti devono essere cestinate.
In nome della pari dignità personale e della pari opportunità di ministero occorre lasciare alle spalle la legge patriarcale che vieta a donne e laici la predicazione e la presidenza dell’eucarestia o cena del Signore. Occorre passare dal ministero ordinato ai ministeri eletti dalla comunità, valorizzando esperienze di base che già realizzano la prassi ecclesiale dello spezzare il pane in una celebrazione animata dalla lettura biblica e dalla preghiera. Ciò non elimina il ministero pastorale o presbiterale, ma mette al centro la vita della comunità
A livello di cammino ecumenico, non può essere impedita l’ospitalità eucaristica tra Chiese cristiane che possono anche celebrare la cena del Signore in intercomunione facendo centro sulla fede comune con le differenze da valorizzare. Occorre passare dal discutere al fare, in aperta disubbidienza, anche per superare la dottrina della presenza reale e fisica di Gesù nell’eucarestia.
Rispetto al Battesimo, negata la dottrina del peccato originale e rifiutata una liturgia che mette al centro il peccato e la lotta contro Satana, la comunità può accogliere festosamente i genitori che desiderano presentare il bimbo o la bimba per ringraziare Dio del dono di una nuova vita. L’intera celebrazione deve “vestire” i linguaggi della gioia.
Alla luce degli studi biblici e storici, poi, il Credo niceno ha fatto il suo tempo. È oggi impronunciabile e consolida la pratica, non solo cattolica, di ripetere parole e segni senza interrogarsi sul loro significato nel contesto culturale di oggi. Molte formulazioni della fede sono nate negli ultimi decenni in varie esperienze comunitarie con linguaggi propri della cultura contemporanea.
Ritengo urgente il rifiuto di tutto l’arsenale liturgico e teologico del suffragio. Il credente che, come me, ha fiducia nel Dio della vita che accoglie anche oltre la morte, non può più accettare il linguaggio sacrificale delle esequie. Non esiste nessun Gesù Cristo che ha espiato i peccati del mondo, non c’è nessun Dio contabile e giustiziere, nessun potere di una Chiesa che, con rosari e indulgenze, apra le porte del paradiso. La pratica del suffragio è una bestemmia contro l’amore gratuito e inclusivo di Dio, che supera ogni nostra comprensione.
È scandaloso e anti-evangelico il concordato tra Stato e Chiesa cattolica in Italia, espressione di benefici e privilegi. A oltre 70 anni dalla nascita della Repubblica non è ancora approvata una legge generale sulla libertà religiosa che consenta l’uguaglianza tra diversi credenti e fedi. In forza di questa situazione vige in Italia la struttura dei cappellani militari con annessi e connessi, compresa la benedizione delle armi (negata alle persone lgbtiq+).
Occorre passare da una struttura della Chiesa patriarcale e piramidale a una sinodalità vera. Si enunciano grandi progetti di partecipazione alla vita ecclesiale, che alla fine si riducono a una retorica immobilista. La struttura gerarchica è inconciliabile con una sinodalità reale che comporta un cambiamento strutturale. I fatti parlano: in Querida Amazonia nn. 85-90 Francesco ribadisce la struttura sacrale e vincolante per tutta la Chiesa cattolica. Le diffidenze verso la sinodalità sono visibili nell’operazione vaticana di sorveglianza del Sinodo della Chiesa cattolica tedesca. Sinodalità significa che il popolo di Dio assume responsabilità e potere deliberativo, non solo consultivo. Altrimenti la parola sinodalità è svuotata del suo significato.
La dignità della nostra fede esige di congedarci dal madonnismo, da una devozione diventata mariolatria, impresa commerciale, esaltazione di una donna per umiliare le altre. La mariologia è una cancellazione di Miriam, donna ebrea, sposa di Giuseppe e madre di una numerosa famiglia. E non parliamo del “santo subito” e “santo a tappe”: abbiamo bisogno di testimoni, non di santi e sante.
Non mi sentirei discepolo del nazareno se... .
...Se dovessi credere che Gesù di Nazareth è Dio, cioè il Creatore, la sorgente della vita, il fondamento dell’essere, anziché il profeta e “figlio” che mi indica la strada verso il mistero di Dio. Se dovessi credere secondo il Credo di Nicea e Calcedonia con le due nature di Cristo e con le tre persone divine distinte che formano la santissima Trinità.
Se dovessi credere che Maria di Nazareth è stata vergine prima, durante e dopo il parto e che è diventata nel 431 anche madre di Dio.
Se dovessi credere che i comportamenti omoaffettivi sono peccaminosi e che le donne non possono condividere appieno la ministerialità della Chiesa.
Se dovessi credere che il “suffragio” della Chiesa ci libera da un supposto purgatorio, perché rinnegherei la mia fede nel Dio dell’amore e del perdono che ci accompagna in vita e ci accoglie come solo Lui sa dopo la morte.
Se pensassi che il mistero di Dio ha privilegiato una religione su tutte le altre o se pensassi che esiste un’immagine, una teologia, un simbolo che esprima tutto di Dio.
Se dovessi credere che Gesù è morto per espiare i nostri peccati, per saldare il conto con un Dio ragioniere anziché adorare quel Dio che è amore gratuito. Se dovessi credere che la messa è rinnovazione del sacrificio espiatorio e salvifico della croce con cui Gesù ci libera dai nostri peccati.
Se dovessi credere che il papa, quando parla con somma autorità su questioni di fede, è infallibile.
Se dovessi credere che fuori dalla Chiesa o di Gesù non c’è salvezza o che noi cristiani siamo il “compimento” verso il quale vanno le altre religioni.
Per dono di Dio, mi sento parte delle Sue creature, trovo la Sua presenza in tutto ciò che esiste, credo al Suo amore che ci accompagna, ci sospinge verso un mondo solidale, mi sento parte della casa comune dei credenti che adorano il Suo mistero e lottano perché fiorisca la giustizia sulla terra. Ringrazio Dio per il fatto che, incontrando la testimonianza di Gesù di Nazareth, la fede ebraico-cristiana ha dato un senso alla mia vita e mi aiuta a scoprire la Sua presenza nel creato e nella storia, e un po’ anche nelle religioni.
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Teologo, animatore del movimento delle Comunità di Base, Franco Barbero guida, dal 2008, la “Comunità nascente” di Torino.
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Tratto da: Adista Documenti n° 16 del 01/05/2021 )ripresa parziale).
Preti o ladri travestiti da samaritani? *
Caro Pietro,
scrivo a te, vescovo di questa diocesi di Avezzano, ma è come se gridassi al mondo intero per denunciare pubblicamente lo scandalo.
Non posso continuare a tacere o a glissare o a far finta che!
Il silenzio si configurerebbe come complicità, se non addirittura come correità.
Edotto dai miei maestri di sempre, don Tonino Bello, secondo il quale “delle nostre parole dobbiamo rendere conto agli uomini, ma dei nostri silenzi dobbiamo rendere conto a Dio”, don Mazzolari che amava ripetere che “certi silenzi sono omicidi” e M. L. King il quale confessava: «Non ho paura delle parole dei violenti, ma del silenzio degli onesti», ho deciso di denunciare a Lei e alla pubblica opinione l’impudenza vergognosa di sacerdoti che oltre a farsi pagare puntualmente ogni servizio (messe, matrimoni, funerali, battesimi e benedizioni varie), pretendono, da quelle comunità che dovrebbero “servire”, ulteriori corrispettivi per benzina, luce, gas e cellulare!
Noi già portiamo sulle nostre coscienze il peso di un mensile che viene dallo Stato, attraverso l’8 per mille, e che ci degrada a “stipendiati”. Oltre ciò, la stragrande maggioranza dei preti si fa pagare, profumatamente, sotto il falso nome dell’offerta, ogni prestazione; sarebbe come se un funzionario dello stato, nello svolgere le sue funzioni, prendesse soldi anche dai singoli utenti! Il che ci rende ladri!
Ultimamente, si sta diffondendo il malcostume di parroci che pretendono il “rimborso spese”!
Autodegradandosi ancor di più da ladri a tangentisti e pizzettari.
Oggi, con Papa Francesco, un rinnovato Spirito aleggia sul mare tempestoso della storia come aleggiava agli inizi sul caos primordiale; ma questo Spirito Innovatore sembra trovare tra il clero ottusità refrattarie ad ogni impulso di dignità. Sordi e muti, voraci e venali, impietriti dal potere, dall’abitudine e dal danaro, stanno facendo della chiesa una multinazionale dell’abuso e della corruzione.
A voi vescovi spetta il compito di fare pulizia di questa gente, onde evitare che la Chiesa diventi una spelonca di ladri. Meglio una chiesa vuota di preti che una chiesa infestata da ladri travestiti da samaritani.
Sento già la critiche cui andrò incontro con questa mia pubblica denuncia. Soprattutto mi si rimprovererà di non seguire il consiglio evangelico della correzione fraterna, rivolta in privato e al singolo. Ma qui non siamo di fronte ad un’offesa personale che possa essere risolta in una “trattazione” privata. Qui siamo davanti ad un comportamento pubblico e di “ruolo”, che va pubblicamente denunciato!
Risolvere privatamente problemi pubblici è da mafiosi, non da cristiani!
Don Milani, altro maestro del mio sentire, in una lettera del 5 Luglio 1964 a mons. Capovilla scriveva: «Ho sempre pensato che lo stare in silenzio sia un’elevata funzione ecclesiastica. Mi domando solo se sia giusto seguitare a santificarsi nel silenzio quando sul piano terreno questo non fa che aumentare il già tanto profondo sdegno dei poveri verso la gerarchia ecclesiastica. Fino all’anno scorso pensavo che fosse santità. Da qualche tempo in qua temo che sia correità».
Che Dio ti dia luce e coraggio per il necessario tuo intervento.
Aldo Antonelli (prete)
Post Scriptum
Copia di questa lettera la invio, tramite Raccomandata, anche a Papa Francesco, nella speranza che la legga e la prenda in seria considerazione.
*
Aldo Antonelli (9-gen-2016)
Recitare o essere? Pensieri tra Quaresima e Pasqua
di don Angelo Casati
Viandanti (www.viandanti.org, 30 marzo 2012
Mi succede - qualcuno la ritiene una mia ossessione - di avere in sospetto ogni parola che, poco o tanto, sembra recitata, ogni atteggiamento che, poco o tanto, sembra studiato. Si recita una parte. A volte mi sorprendo a guardarmi. E mi chiedo: "Stai recitando? Stai celebrando o recitando? Stai pregando o recitando? Stai predicando o recitando? Stai parlando o recitando?". Nella recita non ci sei. C’è una parte che indossi. Che non è la tua.
Gesù incantava
Gesù non recitava. Forse per questo o anche per questo, incantava. Era autentico, aderente la vita, non a una parte da recitare. E la gente lo sentiva vero. A differenza di altri. A differenza, per esempio, di una certa frangia - non tutti! - di farisei che "recitavano": "Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini. Allargano i loro filatteri, allungano le frange; amano posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare rabbì dalla gente"(Mt.23,5-7).
Qualcuno, anche nel mondo ecclesiastico, sconcertato dalla calda umanità di Gesù, tende a presentarla come se il Signore stesse recitando, quasi non gli fosse consentito, in quanto Dio, di crescere, di essere stanco, di non sapere, di amare i banchetti, di desiderare la tenerezza di un bacio o il profumo dell’unguento, di provare paura e solitudine. Quasi recitasse, in tutto ciò una parte non sua. Gesù non ha mai recitato. Era.
Dominante è il ruolo
C’è il pericolo - lo avverto sempre più acutamente e il racconto delle tentazioni di Gesù, all’inizio della Quaresima, lo segnalava - che anche la religione diventi spettacolo, luogo in cui si recita. Strano verbo, questo "recitare", che abbiamo nel nostro linguaggio religioso legato al pregare! Si "recita" una Ave Maria o un Padre Nostro, si "recita" il rosario. È in agguato la recita. La avverti. A volte è nell’aria. A tradirla è un tono affettato, artefatto, poco naturale, studiato.
Aria strana. L’aria di certi raduni ecclesiastici. Volti impassibili, non tradiscono la benché minima emozione. Ci si parla di errori, di cedimenti o di smarrimenti, sono sempre quelli degli altri. L’inquietudine non esiste. Esiste la sicurezza. Si recita la parte di Dio. Mai uno che dica: "Ho peccato". Lo si dice nella Messa, ma per modo di dire. Nessuno che abbia mai fatto un errore. E che lo riconosca. Domina il ruolo. L’impassibilità del ruolo. Impenetrabili, drappeggiati, diplomatici. E senti la distanza. E come se mancasse gente vera. Non sono i volti che cerchi, quelli che ti incantano fuori le mura, volti che non mascherano le stanchezze e le emozioni, volti che confessano l’inquietudine e la lontananza.
Scrive Carlo Maria Martini: "Non di rado mi spavento sentendo o leggendo tante frasi che hanno come soggetto "Dio" e danno l’impressione che noi sappiamo perfettamente ciò che Dio è e ciò che egli opera nella storia, come e perché agisce o in un modo e non in un altro. La Scrittura è assai più reticente e piena di mistero di tanti nostri discorsi pastorali".
Come figli di Dio
Comunità alternativa si diventa vivendo il Vangelo, non recitando la parte del "perfetto". Alternativi diventiamo non mascherandoci dietro il ruolo o dietro il titolo, ma dando trasparenza ai rapporti. Incontrandoci come persone. Come figli di Dio. Questa la più grande dignità che ci è toccata. Non esiste, per un vero credente, altra tanto grande.
Essere Papa, essere Vescovo, essere prete, non vale l’essere figli di Dio. E, se figli, liberi, e quindi non soffocati, non mascherati, non misurati da titoli e da ruoli.Quando Papa Giovanni, poco dopo la sua elezione, si accorse che l’ Osservatore Romano introduceva le sue parole con questa formula di rito: "Come abbiamo potuto raccoglierle dalle auguste labbra di Sua Santità", chiamò il capo redattore e gli disse: "Lasciate perdere queste sciocchezze e scrivete semplicemente: Il Papa ha detto".
La grande sfida
Quale perdita per la società, se la Chiesa, che nel mondo dovrebbe apparire come lo spazio dove risplende la libertà e l’umanità dei rapporti, diventasse luogo di relazioni puramente formali, deboli e fiacche, non sincere e intense.
Rischierebbe l’insignificanza. Verrebbe meno alla grande sfida, all’opportunità che oggi le si offre di tessere in una società ampiamente burocratizzata rapporti autentici e profondi.
E non sarà che alla Chiesa di oggi, e quindi a ciascuno di noi, Dio chieda meno protagonismo, meno organizzazione, meno recite e più vicinanza, più sincerità?
Alla mente ritorna una pagina folgorante dello scrittore Ennio Flaiano, là dove abbozzava un ipotetico ritorno di Gesù sulla terra, un Gesù, infastidito da giornalisti e fotoreporter, come sempre invece vicino ai drammi e alle fatiche dell’esistenza quotidiana: "Un uomo" - scrive - "condusse a Gesù la figlia ammalata e gli disse: "Io non voglio che tu la guarisca, ma che tu la ami". Gesù baciò quella ragazza e disse: "In verità questo uomo ha chiesto ciò che io posso dare". Così detto, sparì in una gloria di luce, lasciando le folle a commentare quei miracoli e i giornalisti a descriverli".
Chiesa popolo di Dio: concetto rimasto nel vago
di Klaus Nientiedt
in “www.konradsblatt-online.de” del 31 gennaio 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Si sente ampiamente parlare di laici in questo periodo nella Chiesa cattolica del nostro paese. La Chiesa si trova di fronte a cambiamenti radicali - e tutte le persone coinvolte sanno molto bene che supererà questo esame solo distribuendo la responsabilità sulle spalle di un numero maggiore di persone.
Tutti conosciamo le parole chiave di tipo teologico importanti in questo contesto: la vocazione e la missione comune a tutti mediante il battesimo e la cresima; il “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”.
Il problema è però: per quanto queste affermazioni siano inequivocabili ed evidenti - siamo davvero pronti a far seguire azioni concrete a quanto affermato? Spesso, nel quotidiano della chiesa, a qualsiasi livello, anche in parrocchia, non vediamo la realizzazione di tali affermazioni.
Ciò non significa che i laici non svolgano delle attività. La vita nelle parrocchie e nelle unità pastorali non esisterebbe se i laici non prestassero il loro aiuto. Ma nonostante ciò non si arriva veramente a dire che i laici lo fanno perché vi si sentono chiamati in quanto battezzati.
Lo fanno perché la vita ecclesiale della comunità non è fatta solo di ciò che è di competenza delle persone consacrate, che siano preti o diaconi. La motivazione che viene sempre ripetuta è che bisogna alleggerire il carico di lavoro dei preti. Il che va anche bene - ma davvero è questa la motivazione fondamentale?
La maggior parte delle cose che i laici fanno, non le fanno perché la Chiesa nell’ultimo Concilio ha accolto un importante tema teologico della Riforma: la dottrina del sacerdozio comune dei credenti, oltre all’ovvietà della Chiesa come popolo di Dio.
Un problema del periodo postconciliare è che queste affermazioni centrali del Concilio sono rimaste nel vago, sono state solo poco tradotte in strutture e ruoli concreti. Il nuovo diritto canonico del 1983 ha accolto qualcosa, ma ha trascurato molto altro. Quando si parla di Chiesa, lo sguardo si rivolge troppo velocemente al clero, alla funzione ufficiale. Non dovrebbe essere così. In questo ambito dovrebbero vedersi fatti concreti. Forse di questo si dovrebbe discutere nel processo di dialogo in corso in Germania.
Joseph Moingt, l’appello pressante di un teologo
di Claire Lesegretain
in “La Croix” del 14 gennaio 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Con le debite proporzioni, il successo incontrato dall’ultimo libro di Joseph Moingt assomiglia a quello del famoso Indignatevi! di Stéphane Hessel. In entrambi i casi, si tratta di un vecchio signore che non ha più nulla da temere né da dimostrare e che può permettersi, con la legittimità che gli conferiscono i decenni di lavoro e di impegno coraggioso, di dire a voce alta ciò che molti pensano soltanto o dicono a bassa voce. Tuttavia, questo gesuita di 96 anni intende dire non tanto Indignatevi! quanto Restate! ai suoi lettori, talvolta tentati di lasciare la Chiesa.
Di Croire quand même, pubblicato alla fine del 2010 (1) sono state vendute più di 8000 copie ed è in corso la seconda edizione. “Ho ricevuto molte lettere di ringraziamento da laici e da preti, ma curiosamente nessuna eco dall’episcopato”, dice divertito padre Moingt socchiudendo i maliziosi occhi azzurri. I lettori “sentono confusamente che l’opzione scelta da Roma di un ritorno al passato non è il modo migliore di preparare il futuro del cristianesimo. Dopo avermi letto, si dicono fortificati nella loro fede e incoraggiati a restare nella Chiesa.” Da un anno, Croire quand même suscita anche molti gruppi di lettura in tutta la Francia ed è motivo di molti inviti per conferenze.
Un sabato, eccolo con la sua figura minuta all’abbazia di Saint-Jacut-de-la-Mer (Côtes-d’Armor) per una giornata aperta al grande pubblico. Davanti a 150 persone, la maggior parte coi capelli grigi, comincia a ripercorrere il suo lavoro di teologo, segnato dai “due grandi choc”, quello del Vaticano II e quello del Maggio ’68. “Da allora i teologi non si rivolgono più solo a futuri preti, ma sono convocati tra i fedeli per far luce sui loro problemi”, sottolinea, prima di esporre la sua analisi della crisi della Chiesa. Una crisi che, secondo lui, è “la più grave” che il cristianesimo abbia conosciuto da due millenni, perché si tratta di una crisi di civiltà.
“Il nostro mondo è sul punto di rifiutare Dio”, riassume, citando Dietrich Bonhoeffer che, prima di morire nella prigione nazista, percepiva che il mondo “si stava liberando dell’idea di Dio”. Ed è attraverso questa griglia di lettura che Moingt parla della “primavera araba”, segno non della “distruzione dell’islam, ma della disgregazione di uno spazio sociale che era stato cementato dalla legge religiosa”. Perché, ricorda, “la volontà di Dio è che l’uomo si liberi dai suoi legacci, compresi quelli posti in nome di Dio”, Padre Moingt non sfugge alle domande che vengono poste, perché sono anche le sue domande. Con pedagogia, permette ai suoi interlocutori di beneficiare della sua visione storica sul lungo periodo per relativizzare le tensioni attuali all’interno della Chiesa.
Alcune settimane più tardi, nella sua camera-ufficio di rue Monsieur, nel 7° arrondissement di Parigi, prosegue le sue riflessioni sul futuro della Chiesa. “Temo fortemente che un numero crescente di fedeli voglia solo delle risposte con un sì o con un no e non riescano ad entrare nelle sottigliezze teologiche”, riassume. Come esprimere l’umanità di Cristo se è nato da una donna vergine? Come spiegare la Trinità? Come parlare della Rivelazione, dell’Incarnazione, della Redenzione se si considera che i testi dell’Antico Testamento sono solo racconti inventati? Come pronunciare ad ogni Eucaristia: “Questo è il mio corpo”, se si tratta di una metafora? Su che cosa fondare il sacerdozio, mentre nessuno degli Apostoli è stato fatto prete o vescovo da Gesù?... Sono tutte domande complesse che richiedono effettivamente delle risposte approfondite e che occupano la mente del teologo da più di sessant’anni.
Aveva 23 anni, alla fine del 1938, quando è entrato nella Compagnia di Gesù. Non avendo avuto il tempo, prima della mobilitazione, di terminare i dodici mesi di noviziato, dovrà rifare un anno completo a Laval (Mayenne) nel grande noviziato dell’epoca.
Durante la guerra, l’apprendista gesuita è prigioniero in diversi “stalags” per sottufficiali che si rifiutano di lavorare per il III Reich. Riesce ad evadere da un campo in Svevia, viene poi inviato a Kobierczyn, vicino a Cracovia, poi in un altro campo da cui sarà liberato nel 1945 dall’esercito del generale Patton... Ma improvvisamente Padre Moingt interrompe il racconto dei ricordi: “Non ho l’abitudine di dilungarmi sulla mia biografia, non interessa a nessuno”, sorride con quellagentilezza divertita che lo caratterizza. Prima di aggiungere che, “dal ritorno dalla prigionia, per principio non ritorno sul passato.”
Riusciremo solo a sapere che dopo due anni di filosofia a Villefranche-sur-Saône. poi quattro di teologia a Fourvière, sulla collina lionese dove la Compagna di Gesù aveva la facoltà fino al 1974, è stato nominato professore di teologia. Viene allora mandato alla Cattolica di Parigi a preparare una tesi su “La teologia trinitaria in Tertulliano”, che sostiene, tre anni dopo, sotto la direzione del gesuita e futuro cardinale Jean Daniélou. “Tra i gesuiti di quell’epoca, sono stato segnato soprattutto da Henri de Lubac che insegnava alla Cattolica di Lione e con cui ho lavorato su Clemente d’Alessandria”, precisa, prima di aggiungere a questa lista di grandi figure i nomi di Gaston Fessard, Henri Bouillard, Xavier Léon-Dufour e Donatien Mollat...
Dopo dodici anni di insegnamento a Fourvière, padre Moingt chiede un anno sabbatico nella Parigi sessantottina, per “mettersi al corrente nelle novità in teologia, filosofia e scienze umane”. Ma la Cattolica di Parigi, che inizia nel 1969 il suo Ciclo C, un corso serale di formazione per laici, gli dà l’incarico di insegnare cristologia. Insegna anche al Centro Sèvres a partire dal 1974, e a Chantilly (Oise), tradizionale luogo di formazione della Compagnia di Gesù. Questo gli permette di affermare che “tutti i gesuiti entrati nella Compagna dopo il 1960 e anche molti vescovi attuali” sono passati tra le sue mani. Negli stessi anni, padre Moingt prende la direzione della prestigiosa rivista Recherche de science religieuse (RSR), che ha festeggiato i suoi cento anni nel 2010. A partire dal 1980, lasciata la Cattolica per la pensione a 65 anni, il gesuita continua ad insegnare al Centro Sèvres e prosegue le sue ricerche teologiche e la pubblicazione di importanti opere.
“Ne ho un’altra in cantiere, ma non sarà un libro per il grande pubblico”, precisa, sapendo che non avrà il tempo per volgarizzare il suo lavoro: “Se ne incaricheranno altri dopo la mia morte!”.
Oggi resta in rapporto con le “comunità di base” che ha frequentato, sia nell’ambito del catecumenato sia durante le sue esperienze parrocchiali a Châtenay-Malabry (Hauts-de-Seine) per dodici anni, poi a Poissy (Yvelines) e a Sarcelles (Val-d’Oise) rispettivamente per tre anni. Si tratta di “laici che frequentano l’Eucaristia ma che hanno bisogno di ritrovarsi al di fuori della loro parrocchia per condividere il Vangelo o delle riletture di vita”; laici sempre più preparati che “sentono che essere cristiani non è altro che essere uomini, e che prendono la responsabilità del loro essere-cristiani assumendo la responsabilità del destino dell’umanità”.
Perché, per Joseph Moingt, non è focalizzandosi sull’istituzione ecclesiale che si potrà realizzare una riforma radicale del cattolicesimo, ma tornando al Vangelo. “C’è urgenza di ripensare tutta la fede cristiana per dire ’Gesù Cristo vero Dio e vero uomo’ nel linguaggio di oggi e in continuità con la Tradizione”, ripete basandosi sulla sua immensa cultura teologica e biblica per confermare che la Chiesa non potrà più cavarsela con risposte dogmatiche e che occorre che al suo interno dei teologi “facciano cose nuove senza essere minacciati di scomunica”. Per quanto lo riguarda, la sua prudenza non è mai stata motivata dalla paura di una sanzione ecclesiale, ma piuttosto dal desiderio di scrivere conformemente alla sua fede. E poi, “alla mia età, non si rischia granché!”.
(1) Joseph Moingt, Croire quand même, Libres entretiens sur le présent et le futur du catholicisme, con Karim Mahmoud-Vintam e Lucienne Gouguenheim, Éd. Temps Présent, coll. « Semeurs d’avenir »
BENEDETTO XVI
La preghiera di Gesù nell’Ultima Cena *
Cari fratelli e sorelle,
nel nostro cammino di riflessione sulla preghiera di Gesù, presentata nei Vangeli, vorrei meditare oggi sul momento, particolarmente solenne, della sua preghiera nell’Ultima Cena.
[...] le tradizioni neotestamentarie dell’istituzione dell’Eucaristia (cfr 1 Cor 11,23-25; Lc 22, 14-20; Mc 14,22-25; Mt 26,26-29), indicando la preghiera che introduce i gesti e le parole di Gesù sul pane e sul vino, usano due verbi paralleli e complementari. Paolo e Luca parlano di eucaristia/ringraziamento: «prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro» (Lc 22,19). Marco e Matteo, invece, sottolineano l’aspetto di eulogia/benedizione: «prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro» (Mc 14,22). Ambedue i termini greci eucaristeìn e eulogeìn rimandano alla berakha ebraica, cioè alla grande preghiera di ringraziamento e di benedizione della tradizione d’Israele che inaugurava i grandi conviti. Le due diverse parole greche indicano le due direzioni intrinseche e complementari di questa preghiera. La berakha, infatti, è anzitutto ringraziamento e lode che sale a Dio per il dono ricevuto: nell’Ultima Cena di Gesù, si tratta del pane - lavorato dal frumento che Dio fa germogliare e crescere dalla terra - e del vino prodotto dal frutto maturato sulle viti. Questa preghiera di lode e ringraziamento, che si innalza verso Dio, ritorna come benedizione, che scende da Dio sul dono e lo arricchisce. Il ringraziare, lodare Dio diventa così benedizione, e l’offerta donata a Dio ritorna all’uomo benedetta dall’Onnipotente. Le parole dell’istituzione dell’Eucaristia si collocano in questo contesto di preghiera; in esse la lode e la benedizione della berakha diventano benedizione e trasformazione del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue di Gesù [...]
Adottare la violenza ermeneutica
di Vittorio Cristelli (vita trentina, 15 gennaio 2012)
Una delle obiezioni che si fanno al pacifismo, alla predicazione evangelica dell’amore a tutti gli uomini è la mancanza di efficacia, di incisione sulla realtà. Buonisti e sognatori vengono chiamati coloro che credono ancora nella forza dell’amore e all’offesa porgono l’altra guancia. Viene rimproverato loro soprattutto di non riuscire a cambiare nulla e di lasciare le cose come stanno, anche la criminalità ordinaria, perché ignorano che l’uomo è capace anche del male.
Eppure San Giovanni ha detto nella sua prima lettera che abbiamo letto domenica scorsa: "Questa è la forza che vince il mondo, la nostra fede". Ha parlato di forza che vince, non di debolezza che soccombe. Il prete filosofo Italo Mancini, che ha studiato a fondo il pensiero negativo moderno e il liberismo della nuova destra si è occupato anche di questa apparente debolezza del pacifismo, della predicazione dell’amore e del dialogo.
Ed è approdato a quella che ha chiamato "violenza ermeneutica", che vuol dire lettura inesorabile della realtà senza cedimenti e senza sconti per nessuno, neanche per la Chiesa. Scrive esplicitamente: "Una nuova persuasiva lettura del mondo o della storia o della fede è capace di sconvolgimenti inauditi, suscita fuochi che scaldano il petto e crea fronti di lotta dai coaguli enormi". Cita ad esempio il Mahatma Gandhi che conquista un impero con il suo Satyagraha, ma anche Papa Giovanni e il suo Concilio Vaticano II. Violenza ermeneutica era quella di Sant’Agostino quando scriveva: "Uccidiamo la guerra con la parola, perché non vengano uccisi gli uomini con la guerra". E violenza ermeneutica era pure quella di Gesù quando gridava: "Guai a voi farisei ipocriti!" e quando scacciò con furore i mercanti dal tempio.
Oggi noi potremmo citare come violenza ermeneutica la rivoluzione araba che ha scosso tutto il Nord Africa dall’Egitto alla Tunisia, alla Libia, con effetti inattesi e sorprendenti di abbattimenti di forti dittature e germi promettenti di democrazia. Anche gli "indignados" della Spagna e poi del nostro Paese sono violenza ermeneutica che reclama giustizia sociale senza ricorrere alla violenza fisica, anzi, proprio nelle infiltrazioni dei Black Block incappucciati spacca-vetrine vede il suo principale nemico che rovina dal di dentro la sua concezione nonviolenta. Una lettura inesorabile della situazione può essere anche la via di uscita dalla crisi che ci attanaglia, se diventa, per usare le espressioni di Italo Mancini, "fuoco che riscalda i petti e crea fronti di lotta dai coaguli enormi". E mi pare di intravederla nell’incontro dei cattolici italiani a Todi, cui ha fatto eco e necessario completamento quello del cattolicesimo democratico a Roma.
Interessanti e allusive le tre "C" di quest’ultimo: "Costituzione, Concilio, Cittadinanza", perché se da una parte richiamano un momento alto di dialogo tra forze politiche e ideologie diverse che segnò l’uscita dalla crisi del dopoguerra e la nascita della nostra Repubblica, dall’altra rilanciano il Concilio che fu primavera della Chiesa. Il tutto calato nell’attualità della cittadinanza. Una Costituzione nonviolenta, che all’articolo 11 ripudia esplicitamente la guerra. Un Concilio che definisce la Chiesa "popolo di Dio" in cui c’è pari dignità di tutti. La Cittadinanza infine oggi è planetaria. Utopia, dirà qualcuno. E va bene, ma sul modello del Regno di Dio che deve instaurarsi già su questa terra. Idee-forza, che già ispirano missionari, mondo del volontariato e cristiani fino al martirio. Attendono però di diventare fuochi che riscaldano i cuori di tutti i credenti e fonte di ispirazione dei cosiddetti "nuovi politici cattolici’. E la crisi non farà più paura.
I diritti di noi credenti
di Paola Gaiotti De Biase ("Europa”, 14 ottobre 2011)
Mauro Ceruti su Europa così chiude un discorso, peraltro largamente condivisibile, anche se non mi pare rifletta tutti i dati reali delle scelte politiche dei cattolici in questo ventennio. «Queste idee e queste esperienze sono state elaborate nei vitali laboratori della cultura e dell’associazionismo cattolici: tuttavia non hanno trovato un modo per fare rete fra loro e tanto meno adeguate forme per affermare una loro più ampia rilevanza politica. Ma è proprio la rilevanza di questo patrimonio culturale e organizzativo che impone ai cattolici un rinnovato impegno politico, al servizio di un grande progetto (da condividere laicamente con tutti, senza distinzioni e senza steccati) per il bene comune della nazione».
Tutto bene: ma non dovremmo anche domandarci, se si ritiene che questa rete da condividere laicamente non siamo riusciti a costruirla, perché questo è avvenuto.
Chi ha impedito che i cattolici si ritrovassero tutti sulla linea di Amartya Sen in economia, su una cultura della pace e un’idea della globalizzazione e del ruolo dell’Europa, che guidasse la nostra politica internazionale, sul rapporto dell’uomo con la natura? Chi ha indebolito sistematicamente l’autonomia politica dei laici che si muovevano in questa direzione? Chi li ha indirizzati sistematicamente verso sponde politiche altre da quelle declinate nell’articolo di Cerruti? Chi ha irriso ai cattolici adulti, da Prodi alla Bindi a Franceschini che si sono mossi in queste direzioni?
Chi ha ignorato le molte militanze cattoliche che si muovevano sulla linea di quel patrimonio ideale? Perché è importante che l’associazionismo cattolico si ritrovi su alcune grandi griglie ideali, e perfino anche che sappia definire in modo corretto le divisioni strutturalmente inevitabili nel concreto delle scelte politiche in una democrazia (insomma voglio dire che esista anche grazie ai cattolici una destra decente): ma non possiamo dimenticare due cose, semplici e irrefutabili.
La prima è che questo è possibile solo in un contesto esplicito di ricerca, di approfondimento, di competenza tecnica e dunque di autonomia laicale e di responsabilità diretta, non delegata da nessuno. Sono stata colpita dall’invito del Papa ai cattolici a impegnarsi politicamente. Mi pare che sia nella storia difficile del regno sia in quella della repubblica i cattolici non abbiano avuto bisogno di inviti e sollecitazioni: lo hanno fatto in molti da soli, in nome del loro essere cittadini come gli altri, e talora non senza difficoltà.
La seconda è che l’associazionismo cattolico non pensi di sostituire con l’impegno politico quello che è il nostro vero problema di credenti, da affrontare da laici insieme ma con coraggio: la coerenza della Chiesa di fronte alle aspettative svegliate dal Concilio Vaticano II, al necessario equilibrio per cui logica della profezia e logica dell’istituzione trovino la loro mediazione, non limitandosi la prima ai discorsi e la seconda ai fatti, ma innovando il modo concreto di essere Chiesa.
Udienza generale di Giovanni Paolo II
"LA PIENA DI GRAZIA"
Mercoledì, 8 maggio 1996
1. Nel racconto dell’Annunciazione, la prima parola del saluto angelico: "Rallegrati", costituisce un invito alla gioia che richiama gli oracoli dell’Antico Testamento rivolti alla "figlia di Sion". Lo abbiamo rilevato nella precedente catechesi, enucleando anche i motivi su cui tale invito si fonda: la presenza di Dio in mezzo al suo popolo, la venuta del re messianico e la fecondità materna. Questi motivi trovano in Maria pieno compimento. L’angelo Gabriele, rivolgendosi alla Vergine di Nazaret, dopo il saluto chaire, "rallegrati", la chiama kecharitoméne, "piena di grazia". Le parole del testo greco chaire e kecharitoméne presentano tra loro una profonda connessione: Maria è invitata a gioire soprattutto perché Dio l’ama e l’ha colmata di grazia in vista della divina maternità! La fede della Chiesa e l’esperienza dei santi insegnano che la grazia è fonte di gioia e che la vera gioia viene da Dio. In Maria, come nei cristiani, il dono divino genera una profonda letizia.
2. Kecharitoméne: questo termine rivolto a Maria appare come una qualifica propria della donna destinata a diventare la madre di Gesù. Lo ricorda opportunamente la Lumen gentium, quando afferma: "La Vergine di Nazaret è, per ordine di Dio, salutata dall’angelo nunziante quale "piena di grazia"" (LG 56). Il fatto che il messaggero celeste la chiami così conferisce al saluto angelico un valore più alto: è manifestazione del misterioso piano salvifico di Dio nei riguardi di Maria. Come ho scritto nell’Enciclica Redemptoris Mater: "La pienezza di grazia indica tutta l’elargizione soprannaturale, di cui Maria beneficia in relazione al fatto che è stata scelta e destinata ad essere Madre di Cristo" (n. 9). "Piena di grazia", è il nome che Maria possiede agli occhi di Dio. L’angelo, infatti, secondo il racconto dell’evangelista Luca, lo usa ancor prima di pronunciare il nome di "Maria", ponendo così in evidenza l’aspetto prevalente che il Signore coglie nella personalità della Vergine di Nazaret.
L’espressione "piena di grazia" traduce la parola greca kecharitoméne, la quale è un participio passivo. Per rendere con più esattezza la sfumatura del termine greco, non si dovrebbe quindi dire semplicemente "piena di grazia", bensì "resa piena di grazia" oppure "colmata di grazia", il che indicherebbe chiaramente che si tratta di un dono fatto da Dio alla Vergine. Il termine, nella forma di participio perfetto, accredita l’immagine di una grazia perfetta e duratura che implica pienezza. Lo stesso verbo, nel significato di "dotare di grazia", è adoperato nella Lettera agli Efesini per indicare l’abbondanza di grazia, concessa a noi dal Padre nel suo Figlio diletto (Ef 1,6). Maria la riceve come primizia della redenzione (cf. Redemptoris Mater, 10).
3. Nel caso della Vergine l’azione di Dio appare certo sorprendente. Maria non possiede alcun titolo umano per ricevere l’annuncio della venuta del Messia. Ella non è il sommo sacerdote, rappresentante ufficiale della religione ebraica, e neppure un uomo, ma una giovane donna priva d’influsso nella società del suo tempo. Per di più, è originaria di Nazaret, villaggio mai citato nell’Antico Testamento. Esso non doveva godere di buona fama, come traspare dalle parole di Natanaele riportate dal vangelo di Giovanni: "Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?" (Gv 1,46).
Il carattere straordinario e gratuito dell’intervento di Dio risulta ancora più evidente dal raffronto con il testo lucano, che riferisce la vicenda di Zaccaria. Di questi è messa infatti in evidenza la condizione sacerdotale, come pure l’esemplarità della vita che rende lui e la moglie Elisabetta modelli dei giusti dell’Antico Testamento: essi "osservavano irreprensibili tutte le leggi e le prescrizioni del Signore" (Lc 1,6). L’origine di Maria, invece, non viene neppure indicata: l’espressione "della casa di Davide" (Lc 1,27) si riferisce, infatti, soltanto a Giuseppe. Non si fa cenno poi del comportamento di Maria. Con tale scelta letteraria, Luca evidenzia che in lei tutto deriva da una grazia sovrana. Quanto le è concesso non proviene da nessun titolo di merito, ma unicamente dalla libera e gratuita predilezione divina.
4. Così facendo, l’evangelista non intende certo ridimensionare l’eccelso valore personale della Santa Vergine. Vuole piuttosto presentare Maria come puro frutto della benevolenza di Dio, il quale ha preso talmente possesso di lei da renderla, secondo l’appellativo usato dall’Angelo, "piena di grazia". Proprio l’abbondanza di grazia fonda la nascosta ricchezza spirituale in Maria. Nell’Antico Testamento Jahweh manifesta la sovrabbondanza del suo amore in molti modi e in tante circostanze. In Maria, all’alba del Nuovo Testamento, la gratuità della divina misericordia raggiunge il grado supremo. In lei la predilezione di Dio testimoniata al popolo eletto, ed in particolare agli umili e ai poveri, raggiunge il suo culmine. Alimentata dalla Parola del Signore e dall’esperienza dei santi, la Chiesa esorta i credenti a tenere lo sguardo rivolto verso la Madre del Redentore e a sentirsi come lei amati da Dio. Li invita a condividerne l’umiltà e la povertà affinché, seguendo il suo esempio e grazie alla sua intercessione, possano perseverare nella grazia divina che santifica e trasforma i cuori.
* http://digilander.libero.it/domingo7/gp2.htm
A proposito dell enciclica «Caritas in veritate»
Ma la verità è Cristo
di JEAN-JACQUES PEYRONEL ("Riforma", numero 28 - 17 luglio 2009)
SE, come credo, l’intenzione di Benedetto XVI era di fare una rivisitazione delle «tre virtù teologali», fede, speranza e carità (I Corinzi 13,13) all’inizio di questo terzo millennio, mi aspettavo molto di più, per questa terza puntata della trilogia, da questo «papa teologo», come lo chiama quotidianamente un noto vaticanista. Anche in questa, beninteso, ci sono spunti molto belli e ampiamente condivisibili, come il passo sulla Trinità e sulla centralità della relazione nella vita cristiana. Eppure, anche in questa, manca, a mio parere, un certo afflato teologico. Già nella prima, Deus caritas est, il famoso «inno all’agape» di I Corinzi 13 veniva citato, quasi di sfuggita, soltanto verso la fine di un’enciclica che avrebbe dovuto invece essere imperniata attorno ad esso.
In questa ultima, dopo aver letto le 127 pagi- ne che dall’inizio alla fine parlano di «carità nella verità», viene da chiedersi: «Che cos’è la verità?» per il papa. Questa domanda, che è quella che Pilato fece a Gesù prima della crocifissione, mi sembra l’unica domanda seria che l’essere umano, credente o no, possa e debba fare. E la risposta che dà il papa non mi convince. Non che la risposta evangelica non ci sia, c’è fin dalla fine del primo paragrafo («Egli stesso, infatti, è la Verità», cfr Gv 14,6), ma poi, per tutto il resto dell’enciclica, al posto della Verità che è Cristo, viene messa la Chiesa, il suo Magistero, il suo corpo di dottrine e di morale («naturale»), il suo capo supremo, «infallibile» appunto. Insomma, anziché affermare con forza la centralità di Cristo, si afferma, ancora una volta, la centralità della Chiesa nello «spazio pubblico» e anche nella «politica».
E tutto ciò per esporre, senza mai citarlo esplicitamente, un «umanesimo integrale» che, com’è noto, è il titolo dell’opera più nota del famoso filosofo francese Jacques Maritain, nato in una famiglia protestante e laica, e convertitosi al cattolicesimo all’età di 24 anni per poi diventare un fervente militante della famigerata «Action française» di Charles Maurras che fu duramente condannata da papa Pio XI nel 1926. Solo che quando uscì, dieci anni dopo, Humanisme intégral, Maritain aveva ormai rinnegato la sua precedente scelta reazionaria e integralista e aveva dato al suo pensiero, sulla scia di una lettura approfondita di Tommaso d’Aquino, una svolta decisamente progressista, tant’è vero che questo libro viene generalmente considerato come antesignano del Concilio Vaticano II.
Com’è noto, Maritain fu, insieme a Emmanuel Mounier, uno dei principali esponenti del «personalismo comunitario » che, come dice il nome, poneva al centro la persona umana nella sua unità di corpo e spirito (un pensiero, questo, limpidamente cristico).
Ma per attuare questo «umanesimo integrale» che doveva segnare un ritorno a un «umanesimo teocentrico» opposto all’«umanesimo antropocentrico » della cultura moderna, Maritain proponeva di istituire una «cristianità profana» e non più «sacrale» come quella medievale, distinguendo tomisticamente tra spirituale e temporale, e dando a Cesare quello che è di Cesare, e cioè riconoscendo la piena laicità dello Stato.
E proprio in quel libro Maritain faceva la nota distinzione tra l’agire «in quanto cristiani» e l’agire «da cristiani», come sono chiamati a fare i laici credenti impegnati nella sfera politico-istituzionale. Sbaglierò, ma a me Benedetto XVI dà l’impressione di avere una visione molto più integralista rispetto a quella di Maritain.
Ma la questione della «verità », sulla quale insiste tanto il papa, mi ha indotto a rileggere un sermone di Paul Tillich che mi aveva molto colpito, intitolato «Che cos’è la verità? » (in Il nuovo essere, Ubaldini editore, 1967), nel quale il grande teologo tedesco-americano affermava tra l’altro: «Gesù non è la verità perché sono veri i Suoi insegnamenti. Ma i Suoi insegnamenti sono veri perché esprimono la verità che Egli è», e ancora: «La verità che ci rende liberi non è né l’insegnamento di Gesù né l’insegnamento su Gesù. Quelli che hanno chiamato l’insegnamento di Gesù “la verità” hanno sottomesso gli uomini alla schiavitù della legge». Ora, «anche le parole di Gesù, se prese come una legge, non sono la verità che ci fa liberi. E non dovrebbero essere impiegate come tali dai nostri studiosi e predicatori e maestri di religione».
Parole che probabilmente né Maritain né Benedetto XVI condividerebbero. È che, a differenza di Maritain, Tillich rimase protestante e lesse la Bibbia con occhiali protestanti. Come lo era Jacques Monod, Nobel per la medicina nel 1965 (più volte evocato nell’enciclica, ma mai esplicitamente nominato, come lo fu invece nel famoso discorso di Ratisbona e in quello fatto nella conferenza di Quaresima a Notre-Dame di Parigi l’8 aprile 2001, discorso fortemente cristologico, sotto molti aspetti molto più convincente di quelli successivi).
È di Monod infatti, rampollo di una grande «tribù» ugonotta francese, il famoso best seller del 1970 Il caso e la necessità, che sostiene scientificamente tesi agli antipodi di qualsiasi visione creazionista, compresa quella moderna del «disegno intelligente» che il papa, nell’enciclica, chiama «progetto intelligente».
Jacques Monod, a differenza di molti suoi zii e cugini, non era pastore né figlio di pastore ma da laico qual’era assunse fino in fondo e laicamente la sua responsabilità di scienziato, come aveva fatto prima di lui l’(ex) anglicano Darwin. Ambedue furono eminenti esponenti di quella «cristianità profana» di cui parlava Maritain che, pur avendo fra i suoi bersagli il «relativismo», aveva una visione pluralistica della «città cristiana». Ora, quella proposta da questa enciclica per il millennio della «post modernità», basata sulla visione molto discutibile che Ratzinger ha del rapporto fede- ragione, mi sembra un ritorno a una visione medievale, e cioè pre-Riforma, della Chiesa e della cristianità.
Jean-Jacques Peyronel
Non ditelo al papa
di Nicole Sotelo *
Papa Benedetto ha confermato il 19 giugno come l’inizio dell’Anno Sacerdotale. Ha proclamato che "senza il ministero presbiterale non ci sarebbe Eucaristia, non ci sarebbe missione, né chiesa". Mi secca essere l’unico ad informarlo che l’Eucaristia, la missione e la chiesa esistevano già molto prima che ci fosse il prete.
Secondo il Vangelo, Gesù non era un prete e neanche i suoi discepoli lo erano. Troviamo riferimenti a Gesù come prete nella Lettera agli Ebrei. L’autore usa questo termine per riferirsi a Gesà come il nuovo ed ultimo "Sommo Sacerdote", segnando la fine della lunga serie di leader giudei. L’autore inoltre conferma che i preti non sono più necessari poiché non lo sono i sacrifici. Gesù è stato l’ultimo sacrificio ed è il nostro ultimo sacerdote.
Forse il papa ha dimenticato che Gesù non era attento al presbiterato, ma al ministero. Egli chiamava le persone ad amministrare insieme a lui, a prescindere dal loro status sociale. Egli ha chiamato pescatori e pubblicani, nonché una donna con sette demoni. Tutti erano responsabili dell’edificazione del regno di Dio.
Tutti erano invitato ad amministrare ed a farlo secondo i titoli attribuiti dalla stessa comunità sulla base dei carismi.
Alcuni erano chiamati profeti, altri maestri ed altri ancora apostoli. Solo più tardi iniziamo a vedere la nascita di una struttura ministeriale formale con una relativa terminologia, quando i seguaci di Gesù vennero influenzati ed integrati nell’Impero Romano. Fino al 215 non ci furono ordinazioni rituali di vescovi, preti o diaconi.
La creazione della struttura clericale comportò la divisione dei cristiani in "clero" e "laici". Nei primi anni del cristianesimo, tuttavia, Paolo ricordava ai seguaci di Gesù "Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù" (Gal 3,28).
Dopo la nascita dell’ordinazione e del presbiterato, si è sviluppato l’ordine gerarchico tra i fedel. Il termine "ordinazione" deriva dal latino "ordinare" che significa "fare ordine". Si è sviluppato dall’usenza romana del termine "ordines" che si riferiva alle classi del popolo di Roma distinte a seconda della eleggibilità ai ruoli governativi.
I laici sono diventati "di-ordinati" rispetto al clero. Il termine "laico" deriva dalla parola "laikoi" che si riferisce a quelli che nella società Greco-Romana non erano "ordinati" nell’ambito di una struttura politica prestabilita.
Il termine "clero"deriva da "kleros" che significa "gruppo separato". Mentre molti cristiai continuarono ad amministrare all’interno della chiesa, e perfino alcune donne acquisivano il titolo di diacono, prete o vescovo, molti a cui era attribuito questo titolo facevano parte di un gruppo ristretto di uomini appartenenti ad un particolare contesto socio-politico o ordine religioso.
Questo è perdurato fino al 1964 quando il Vaticano II ha ricordato alla chiesa che il ruolo di ministro, o prete, non era limitato agli ordinati, ma era una chiamata per tutti i battezzati. Il documento Lumen Gentium, proclamava che i laici sono stati "resi partecipi dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano" (31).
Il presbiterato, che deriva dalle basi dei ministeri primitivi dei seguaci di Gesù, è stato restituito a tutti i cristiani. Tutti sono nuovamente chiamati al ministero. Tutti i cristiani sono chiamati a far parte dei ruoli profetici, sovrani e, sì, anche presbiterali relativi la missione della chiesa.
Quindi mentre il papa esorta i preti ordinati alla riflessione in questo Anno Sacerdotale, la chiamata arriva a tutti noi, affinché riflettiamo su come stiamo vivendo il nostro ministero per la chiesa e per il mondo.
Non mi preoccuperei di dire al papa che l’Eucaristia, la missione e la chiesa esistevano già molto prima dei preti, e neanche che l’Anno Sacerdotale dovrebbe essere un anno dedicato a tutti i laici, piuttosto mi preme che siamo noi a capirlo.
Questo Anno Sacerdotale è una opportunità per tutti i fedeli cristiani per riflettere sul ministero presbiterale, e attraverso di esso, riprenderci il nostro.
Testo reperito da Patrizia Vita
Traduzione di Stefania Salomone
Don’t tell the pope
by Nicole Sotelo
Pope Benedict has declared June 19 as the beginning of the Year of the Priest. He has proclaimed that “without priestly ministry, there would be no Eucharist, no mission and even no church.†I hate to be the one to inform him, but Eucharist, mission and church existed long before the rise of priesthood.
According to the Gospels, Jesus was not a priest, nor were his disciples. We do see reference to Jesus as a priest in the Letter to the Hebrews. The author uses the word to refer to Jesus as the new and last “High Priest,†ending a long line of Jewish leaders. The author claims that priests are no longer necessary because no more sacrifices are needed. Jesus was the ultimate sacrifice and is our final high priest.
Perhaps the pope has forgotten that Jesus was not focused on priesthood. He was focused on ministry. He called people to minister alongside him, regardless of their status in society. He called out to fishermen and tax collectors and the woman with seven demons. Everyone was responsible for engendering the kingdom of God.
All were invited to minister and they did so with various titles given to them by the community based on their gifts. Some were called prophet, others teacher and still others apostle. It was only later that we begin to see the emergence of a formal ministry structure and corresponding terminology as the followers of Jesus were influenced and integrated into the Roman Empire. It is not until 215 A.D. that we have evidence of an ordination ritual for bishop, priest and deacon.
The emergence of the clerical structure eventually led to a division of the Christian faithful into “clergy†and “laity.†In the early years of Christianity’s emergence, however, Paul reminded Jesus’ followers, “There is no longer Jew or Greek, there is no longer slave or free, there is no longer male and female; for all of you are one in Christ Jesus†(Galatians 3:28).
After the rise of ordination and priesthood, there develops a hierarchical order among the faithful. The word “ordination†derives from the Latin “ordinare†which means “to create order.†It developed from the Roman usage of the words “ordines†that referred to the classes of people in Rome according to their eligibility for government positions.
The laity became “dis-ordered†from the clergy. The word “laity†originates from the word “laikoi†that referred to those in Greco-Roman society who were not “ordered,†or “ordained†within the established political structure. The word “clergy†comes from the word “kleros,†meaning “a group apart.â€
While many Christians continued to minister within the church and even some women carried the titles of deacon, priest and bishop, most carrying this title were part of a limited group of men commissioned within the context of a particular socio-political and religious order.
This endured until 1964 when the Second Vatican Council reminded the church that the role of minister, or priest, was not limited to the ordained, but was a call to all the baptized. The document, Lumen Gentium, proclaimed that the laity were “made sharers in the priestly, prophetical and kingly functions of Christ; and they carry out for their own part the mission of the whole Christian people in the Church and in the world†(31).
Priesthood, which arose out of the foundation of the early ministries of Jesus’ followers, was now returned to all Jesus’ faithful. All people are called to ministry again. All Christians are meant to share in the prophetic, sovereign and, yes, even priestly roles within the mission of the church.
So while the pope is exhorting ordained priests to reflection in this Year of the Priest, the call goes out to all of us to reflect on how we are living out our ministry in the church and world.
I would n’t worry about telling the pope that Eucharist, mission and church existed long before the priesthood, nor that the Year of the Priest should really be a year dedicated to all the laity. Instead, we need to understand this ourselves.
The Year of the Priest is an opportunity for the entire Christian faithful to reflect on priestly ministry, and in so doing, to claim our own.