"L’unica chiesa di Cristo è quella cattolica"!!!
VENEZIA. "RISUS PASCHALIS": "PREPARATIVI PER UNA PASQUA ECUMENICA".
NELLA BASILICA DI SAN MARCO IL CARDINALE PATRIARCA ANGELO SCOLA TOGLIE LA "PAROLA" AGLI ALTRI ... E LI "RIDUCE ALL’OBBEDIENZA". E, da "vero generale" dell’imperatore-papa Costantino, scrive e "grida": questo e’ il dialogo e questo è l’ecumenismo!!! Una nota di Federica Ambrosini
La teologia del "latinorum"....
P. S.:
LA "LUCE DELLA FEDE" CATTOLICO-ROMANA, I MIGRANTI, E LA CHIESA COME "SACRA FAMIGLIA"... *
Nella "Prefazione", il card. Angelo Scola così scrive: -"Nella storia della Chiesa ambrosiana e dell’assistenza l’Istituto Sacra Famiglia possiede un valore centrale [...] La «charitas» paolina del motto dell’istituto e del titolo di questo libro non è, a Cesano Boscone, un titolo ad effetto, ma pratica concreta e quotidiana, che vede nel volto degli ospiti il volto di Cristo. La Sacra Famiglia, infatti, è un luogo di instancabile testimonianza ed educazione a quella gratuità che anzitutto ci precede: «Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi» (1 Gv 4, 10). In questo luogo si saldano la cura dell’anima e la cura del corpo, la fedeltà a una tradizione assistenziale e la continua ricerca del progresso e dell’innovazione.E’ in fondo questa l’immagine dell’articolata e viva eredità che il Concilio Vaticano II ha lasciato a una Chiesa che, attingendo al deposito della sua storia, cerca di rinnovarsi per proporre il messaggio evangelico al mondo contemporaneo. Così la Sacra Famiglia adegua continuamente alla realtà in cui il Padre ci chiama a vivere i "poveri" a cui mons. Pogliani ha voluto consacrare la sua vita e il suo ospizio: ieri gli inabili al lavoro e i figli della guerra, oggi le persone affette da patologie gravi, ma anche gli anziani, che nella società dell’efficienza e della velocità sono tagicamente emarginati, e i migranti, il «dono» - come li ha definiti papa Francesco - che Dio ha fatto alle società ticche, perché riscoprano, nella strutturale condizione di indigenza di ogni persona,il tratto più prezioso della loro comune umanità. Milano 25 aprile 2016 + Angelo Scola Arcivescovo di Milano".
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SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
La lettera di commiato di Scola: «Ho imparato l’umiltà». Il totonomine
L’arcivescovo traccia un bilancio a conclusione della pluriennale visita pastorale nella diocesi ambrosiana, «giunta ormai alla sua conclusione». Papa Francesco, dicono in Vaticano, ha già scelto il suo successore
di Giampiero Rossi (Corriere della Sera, 16 giugno 2017)
« Ho appreso a conoscermi meglio, a fare miglior uso dei doni che Dio mi ha dato e, nello stesso tempo, ho imparato un po’ di più quell’umiltà (humilitas) che segna in profondità la nostra storia. Ho potuto così, grazie a voi, accettare quel senso di indegnità e di inadeguatezza che sorge in me tutte le volte che mi pongo di fronte alle grandi figure dei nostri patroni Ambrogio e Carlo». L’arcivescovo Angelo Scola scrive una lettera ai «battezzati, le donne e gli uomini delle religioni e di buona volontà» a conclusione della pluriennale visita pastorale nella diocesi ambrosiana, «giunta ormai alla sua conclusione».
Un messaggio che ha tutto il sapore del congedo e che arriva all’indomani della processione del Corpus Domini, che ha simbolicamente attraversato le vie del centro città fino al Duomo e nei giorni in cui da Roma rimbalzano indiscrezioni sull’imminenza dell’annuncio del successore alla guida della chiesa milanese. Papa Francesco, dicono in Vaticano, ha già compiuto la sua scelta, dopo aver consultato molte persone ma senza aver mai rivelato nulla a nessuno. Sia Scola sia il suo predecessore Dionigi Tettamanzi furono nominati nel mese di giugno, per poi insediarsi a Milano in settembre, in concomitanza con l’inizio dell’anno pastorale.
Come se arcivescovo di Milano fosse stato nominato don Bepo
di Redazione (Bergamopost, 28 ottobre 2015)
Richiesto di un parere sul nuovo papa dopo uno dei tanti bagni di folla di Francesco appena eletto, il cardinal Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra e del Consiglio di Coordinamento fra Accademie Pontificie aveva detto che il successo di pubblico non consentiva ancora di capire dove sarebbe andato a parare il cardinal Bergoglio. Si dovevano attendere gli atti di governo. E quello di questi giorni - doppio, con la nomina degli arcivescovi di Bologna e Palermo - è un atto di governo che non lascia dubbi: il papa venuto dalla fine del mondo preferisce pastori di strada.
Lo si poteva intuire già da uno dei primi Angelus, in cui richiamandosi al libro di un suo amico teologo aveva aggiunto: “ma un buon teologo”, per indicare che il titolo accademico in sé non faceva testo. Anzi: poteva addirittura giocare a sfavore del titolato. Nel Discorso ai Partecipanti alle Giornate Dedicate ai Rappresentanti Pontifici (Sala Clementina, 21 giugno 2013) aveva poi detto: «Nel delicato compito di realizzare l’indagine per le nomine episcopali siate attenti che i candidati siano Pastori vicini alla gente: questo è il primo criterio. Pastori vicini alla gente. È un gran teologo, una grande testa: che vada all’Università, dove farà tanto bene! Pastori! Ne abbiamo bisogno! Che siano, padri e fratelli, siano miti, pazienti e misericordiosi; che amino la povertà, interiore come libertà per il Signore e anche esteriore come semplicità e austerità di vita».
Poi c’erano stati altri pronunciamenti terremotanti, come quello - ormai famosissimo - sui pastori che devono avere addosso l’odore delle pecore, o il messaggio alla 68ª Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana, nel maggio di quest’anno, nel quale si legge la devastante frase: «In realtà, i laici che hanno una formazione cristiana autentica, non dovrebbero aver bisogno del Vescovo-pilota, o del monsignore-pilota o di un input clericale per assumersi le proprie responsabilità a tutti i livelli, da quello politico a quello sociale, da quello economico a quello legislativo! Hanno invece tutti la necessità del Vescovo Pastore!». Una costruzione linguistica da prendi due paghi uno nella quale vengono passati a fil di spada - e in un solo colpo - sia i laici (che se sentono bisogno dell’input di un vescovo-pilota significa che non sono cristiani maturi) sia i vescovi e monsignori che non li hanno ben formati perché (se non compiamo un’induzione errata) un po’ troppo clericali.
A rileggere a partire da oggi la lettera del cardinal Caffarra pubblicata da Avvenire Bologna Sette nel gennaio 2013, quella che parlava della bambina trovata nel cassonetto e che iniziava «Cara Maria Grazia, sei stata buttata nei rifiuti sotto la mia finestra, vicino alla mia casa...» la distanza fra due stili di discorso e di governo non potrebbe apparire più abissale, al limite del galattico.
Il papa, allora, non ama i teologi? No, non è così: tanto è vero che cita spesso il padre De Lubac, gesuita come lui e cardinale. Solo che vuole che la teologia nasca dalla vita della comunità cristiana, dall’esperienza pastorale e non viceversa. Ha detto alla Riunione della Congregazione per i Vescovi il 27 febbraio 2014: «La Chiesa non ha bisogno di apologeti delle proprie cause né di crociati delle proprie battaglie, ma di seminatori umili e fiduciosi della verità, che sanno che essa è sempre loro di nuovo consegnata e si fidano della sua potenza. Vescovi consapevoli che anche quando sarà notte e la fatica del giorno li troverà stanchi, nel campo le sementi staranno germinando». Vuole, il papa, che i discorsi su Dio (questo significa “teologia”) vengano su come la bruma dai letamai (non dimentichiamo che laetamen - letame - è all’origine di laetitia, gioia. E che i pabula laeta, i pascoli con l’erba bella grassoccia, sono quelli bel concimati. Quelli le cui sementi stanno germinando bene).
Don Corrado Lorefice - che reggerà la diocesi di Palermo - è di Modica, che vuol dire il paesaggio umano del Commissario Montalbano. Famoso per aver scritto un libro su Dossetti e Lercaro: la Chiesa povera e dei poveri. Se fosse stato mandato a Bologna (la città che fu di Dossetti e Lercaro) sarebbe stato uno schiaffo troppo palese per il cardinal Caffarra, che viene sostituito. Meno palese, non meno forte, perché senza bisogno di scriverlo in chiaro il messaggio è comunque chiarissimo.
Nella città emiliana andrà invece monsignor Matteo Maria Zuppi, romano, 60 anni, per anni parroco, assistente spirituale della Comunità di Sant’Egidio oltre che vescovo ausiliare per Roma centro, che viaggia in utilitaria. Chi mai avrebbe immaginato che il parco macchine delle curie arcivescovili avrebbe subito un così radicale rinnovamento in questi anni. Che la FCA l’avrebbe vinta sulla Mercedes. Ma la Chiesa deve cambiare. Deve cambiare sempre, ci è stato ricordato pochi giorni fa.
Cosa possono dunque significare per Bergamo queste nomine? Che se fosse vivo don Bepo ce lo saremmo trovato vescovo. O meglio, secondo lo stile bergogliano: che lui lo avremmo visto insediato a Milano, mentre in Città Alta sarebbe stato mandato un pretino ancora ignoto, le cui virtù sarebbero emerse d’improvviso splendenti al pari di stelle, come si dice dei giusti. E ce ne sono, di questi preti, in giro. Tutto ciò per dire che lo stile di governo bergogliano, in fondo, è semplice. Deriva tutto da un capitolo di Marco che recita:
«In quel tempo, Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche».
Oggi avrebbe raccomandato loro di spostarsi in Cinquecento se proprio non potevano usare la moto. Bagagliaio vuoto. Neanche un cambio per spostamenti entro le quarantotto ore. E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro».
Perfetto. Come urlavamo da bambini alla fine della conta: «Chi c’è c’è; chi non c’è non c’è». Perché solo quelli che ci sono sono capaci di andare a scovare gli altri, quelli che vorrebbero da tempo unirsi alla compagnia, ma si sono sentiti drammaticamente stupidi a fronte di tanta sapienza e impresentabili a fronte di tanto oro e tante auto. Adesso è il loro turno.
Legge speciale: i fondi andarono al Marcianum
di ENRICO TANTUCCI 20 Luglio 2014 *
«La fine del Marcianum creato dal cardinale Scola fa affiorare un retroscena del 2008: la Regione governata da Galan dirottò, per quel progetto, 50 milioni di fondi della Legge speciale originariamente destinati al disinquinamento della laguna». La Nuova Venezia, 20 luglio 2014 (m.p.r.) *
Venezia. E’ saltato come un castello di carte, sotto i contraccolpi politici e istituzionali dell’inchiesta sui fondi deviati per il Mose, l’ambizioso progetto della Fondazione Studium Generale Marcianum che l’allora Patriarca di Venezia (dal 2002 al 2011) e ora arcivescovo di Milano Angelo Scola aveva edificato in pochi anni, dalla fine del 2007, con l’appoggio determinante della Regione guidata allora da Giancarlo Galan e l’appoggio strategico di aziende come il Consorzio Venezia Nuova, il cui presidente di allora Giovanni Mazzacurati fu dall’inizio anche presidente del Consiglio di amministrazione.
La decisione obbligata presa ora dal nuovo Patriarca di Venezia Francesco Moraglia di “smantellarlo”, chiudendo - dopo quello che era già avvenuto per il polo scolastico delle medie e del liceo - anche la Facoltà di Diritto Canonico, l’Istituto Superiore di Scienze Religiose e il Convitto Internazionale, facendone solo un istituto di ricerca, è la fine della “creatura” di Scola. E non a caso il nuovo Patriarca -con un’evidente chiamata di corresponsabilità nei confronti del suo predecessore per la situazione che gli ha lasciato in eredità- si è recato a Milano, come ha tenuto a far sapere, per chiedere al cardinale se volesse lui, e a sue spese , “salvare” il Marcianum, ricevendone ovviamente un rifiuto.
E se, come ha sottolineato in questi giorni lo stesso Scola, i fondi erogati dalla Regione e dalle imprese a favore del Patriarcato per il Marcianum sono stati regolarmente approvati da quelle istituzioni, è però nel clima dell’uso improprio dei fondi per la salvaguardia di Venezia che il polo culturale ecclesiastico in laguna si è fondato ed è poi affondato. Lo dicono le cronache, visto che la Regione decise anni fa di sottrarre per la prima volta 50 milioni di euro di fondi della Legge Speciale per il disinquinamento della laguna, di cui è chiamata a occuparsi, per destinarli appunto tutti al Patriarcato di Scola, per il restauro del Palazzo Patriarcale di Piazzetta dei Leoncini, per quello della Basilica della Salute e soprattutto per la ristrutturazione del Seminario Patriarcale della Salute, destinato a ospitare il Marcianum, trasformato in un complesso polifunzionale con una foresteria da 70 camere con bagno, destinate agli ospiti del polo universitario.
Più che un restauro, una nuova destinazione del complesso, con spazi anche di ristoro, sale multimediali, biblioteca, spazi espositivi e sale congressi. Anche l’intervento per il Palazzo della Curia, più che a un restauro in senso stretto, rispose a una filosofia di modernizzazione di tutto l’edificio, prevedendo anche qui una foresteria, uffici e nuove sale di accoglienza. Di fronte alle polemiche per l’uso “improprio” di quei fondi girati al Patriarcato, Galan non fece una piega. «È la dimostrazione» dichiarò, «che la Regione non si occupa solo del Mose, ma ha a cuore anche la salvaguardia monumentale della città». E la Regione -socio fondatore dell’istituzione- con lui, non lasciò più solo il Marcianum voluto da Scola, anche per la «realpolitik» del cardinale nel mondo del cattolicesimo e delle comunità mediorientali, aggregate intorno alla rivista «Oasis» nel nome del suo celebre slogan del “meticciato di civiltà”.
\Con un provvedimento del 2008, infatti, Palazzo Balbi decide subito di stanziare 250 mila euro all’anno, dal 2009 al 2011 per il sostegno delle attività del Marcianum, prelevandole dal capitolo destinato alla formazione professionale. Finanziamenti per il funzionamento del Marcianum furono assicurati annualmente anche dal Consorzio Venezia Nuova e dalle altre aziende che hanno accompagnato la nascita del polo. Fino alla partenza di Scola per Milano. Il sistema istituzionale e imprenditoriale creato intorno al Marcianum dall’attuale arcivescovo di Milano che ne aveva consentito l’ambiziosa creazione e lo sviluppo si è di fatto dissolto con l’uscita di scena di Galan - il grande “alleato” - e con il suo addio a Venezia. Un polo culturale crollato, perché - come ha detto ora Moraglia - non poteva «dipendere a doppio filo dagli sponsor». Pubblici o privati.
* EDDYBURG: http://www.eddyburg.it/2014/07/legge-speciale-i-fondi-andarono-al.html
Miracoli di Scola: Milano avrà un vescovo ciellino
Il cardinale è riuscito a rompere l’incantesimo che non voleva ai vertici della diocesi sacerdoti troppo schierati con gli eredi di don Guissani
di Gianni Barbacetto (il Fatto, 21.06.2014)
Milano. Ci siamo, sussurrano nelle chiese e in curia: il cardinale arcivescovo Angelo Scola ha cominciato a “ciellizzare” la diocesi di Milano. Il 28 giugno ordinerà in Duomo il primo vescovo ausiliare ciellino nella storia della chiesa milanese. Si chiama Paolo Martinelli, è un frate cappuccino, fa il professore all’Antonianum di Roma ed è vicino al movimento di Comunione e liberazione. Diventerà vescovo ausiliare (un aiuto all’arcivescovo nel governo di una delle diocesi più grandi del mondo) insieme ad altri due preti ambrosiani: Franco Agnesi e Pierantonio Tremolada.
AGNESI è stato il pro-vicario generale della diocesi e il “moderator curiae” voluto dal cardinale arcivescovo Carlo Maria Martini. Ora è vicario episcopale di Varese, e chi ha quell’incarico (come anche il vicario episcopale di Milano città) è tradizionalmente ordinato vescovo. Tremolada è invece vicario episcopale per un settore importante, quello dedicato all’evangelizzazione e i sacramenti. Entrambi sono “martiniani”, cioè cresciuti nel solco della tradizione pastorale e teologica della diocesi milanese, guidata negli ultimi anni da vescovi “forti” come Carlo Maria Martini e poi Dionigi Tettamanzi.
I preti di Milano e le loro comunità, nella stragrande maggioranza, hanno sempre guardato con sospetto i gruppi di Cl che crescevano ai margini delle parrocchie, considerati come una sorta di setta autonoma che non riconosce l’autorità diocesana e, per di più, tende a mescolare in maniera spregiudicata e disinvolta religione , politica e affari.
Scola, che è cresciuto nel movimento di don Giussani, conosce bene questa tradizione ambrosiana e sa che è antecedente all’arrivo come vescovo di Martini: perché egli stesso, per diventare sacerdote, nel 1970 ha dovuto abbandonare il seminario diocesano (di fatto, una espulsione), perché al mitico rettore di Venegono, monsignor Bernardo Citterio, non piacevano i ciellini che usavano il seminario ambrosiano come un taxi per farsi ordinare preti, ma senza riconoscere di fatto i “superiori” diocesani, perché avevano i loro superiori, i loro teologi, i loro padri spirituali e, sopra tutti, lui, don Luigi Giussani, il fondatore di Comunione e liberazione. Così Scola emigrò a Teramo, dove fu ordinato da un vescovo vicino al movimento di Cl.
NEL 2011, ha avuto la sua rivincita: è tornato da arcivescovo nella diocesi che non lo aveva voluto fare prete. Ci è arrivato anche sospinto da una lettera mandata in Vaticano dal capo di Cl, Juliàn Carròn: una “raccomandazione” che conteneva giudizi duri sul predecessore, Tettamanzi, accusato, pur senza farne il nome, di “intimismo e moralismo”, di aver sostenuto il centrosinistra e Giuliano Pisapia e soprattutto di aver bollato “come affarismo le opere educative, sociali e caritatevoli dei movimenti” (cioè di Cl). Quando la lettera è diventata pubblica, Scola è stato chiamato dai suoi preti a spiegare quei giudizi e ha risposto rivendicando la sua autonomia dal movimento da cui proviene e promettendo di garantire la continuità con le tradizioni ambrosiane.
Finora ha sostanzialmente mantenuto la promessa. Dal 28 giugno, però, l’incanto si rompe. Arriva un vescovo ausiliare ciellino. Quale ruolo avrà nella diocesi? Mistero: ancora non è stato annunciato quale sarà il suo incarico.
Scola ha già inserito un altro ciellino nell’organigramma della curia: dopo aver “spacchettato” in quattro settori l’ufficio Ecumenismo, ha chiamato a dirigere quello dedicato al dialogo con le religioni orientali don Ambrogio Pisoni, assistente spirituale all’università Cattolica di Milano e uomo di Cl.
C’È CHI SPIEGA così l’accelerazione degli ultimi mesi: Scola, dopo aver fatto il patriarca di Venezia, era arrivato a Milano con il programma di restarci poco; il passaggio dalla diocesi ambrosiana doveva servire per il grande salto a Roma, dove avrebbe dovuto sostituire Joseph Ratzinger e diventare papa. Non è andata così. Papa Francesco ha scombussolato anche questi piani. Così Scola si è convinto che ora la deve governare, questa grande diocesi. Anche cambiando organigrammi e tradizioni culturali.
Il volto di Dio e la Legge, l’ecumenismo e i sospetti dell’islam sull’Apostolo.
di Angelo Scola (Il Foglio, 31 gennaio 2014)
Essere qui questa sera insieme a voi significa per me vivere un momento di particolare letizia poiché l’occasione mi è data dall’invito del Patriarca Bartolomeo, che ringrazio di cuore per averci voluto onorare della sua presenza, come pure della prefazione al libro. Questa presentazione non è infatti un’iniziativa estemporanea, ma si situa piuttosto all’incrocio di due cammini.
Il primo è legato alla figura dell’imperatore Costantino, il fondatore di questa città, e al suo editto che pose fine alle persecuzioni ai danni dei cristiani nell’impero romano. Questo accordo, che costituì un initium per la libertà religiosa, fu sottoscritto a Milano nel 313 . Così, per commemorare il 1.700esimo anniversario dell’editto, sono state organizzate, a Milano e in altre città del mondo, una serie di iniziative. Tra di esse, l’incontro con il Patriarca Bartolomeo il 14 maggio scorso è stato per me il momento più atteso e più significativo, una visita che oggi sono lieto di ricambiare.
Il secondo cammino che mi porta qui è quello della Fondazione Oasis che ormai da 10 anni si occupa di promuovere il dialogo tra cristiani e musulmani nel contesto di quel processo che chiamo “meticciato di civiltà e di cultura”. Oasis è nota soprattutto per la sua rivista e la sua newsletter, entrambe in più lingue, ma cura anche alcuni libri, tra cui traduzioni di testi teologici o del magistero ecclesiale nelle lingue orientali. Così, dopo due volumi editi in arabo, la Fondazione ha osato il passo di una traduzione in turco, che si è potuta realizzare solo grazie alla generosa dedizione di diverse persone, religiosi e laici, giovani e anziani, che hanno lavorato insieme nel non facile compito.
Il libro che presentiamo questa sera nasce nel contesto dell’anno paolino, che cattolici e ortodossi hanno celebrato nel 2008-2009, e raccoglie le catechesi che l’allora Pontefice Benedetto XVI dedicò alla figura dell’apostolo delle genti. Il nesso con la Turchia è immediato e fisico: Paolo nacque a Tarso e nell’odierna Turchia si è svolto il suo primo viaggio, e gran parte del secondo e del terzo. L’anno paolino poi ha avuto impatti significativi sulla vita in Turchia, dando nuovo impulso al turismo religioso. Tante persone forse sono state indotte a domandarsi: “Ma chi è questo Paolo, che attira così tante persone sui luoghi della sua vita? Che cosa ha fatto?”.
Questo libro vuole offrire una prima risposta, a partire dalla fede della chiesa. Esso non va giudicato sulla base della sua lunghezza. Porta infatti il segno inconfondibile di un grande teologo, capace di condensare in poche righe il frutto di lunghe ricerche. Perché, come si sa, è più difficile scrivere una pagina di sintesi profonda, alla portata di tutti, che dieci pagine specialistiche per soli addetti ai lavori.
Tuttavia, che il protagonista di questo libro sia l’apostolo Paolo è prima di tutto provvidenziale per la dimensione ecumenica che questa scelta porta inevitabilmente con sé. Il testo infatti ci conduce diritti al cuore della fede mostrando una verità importante: i cristiani non si riuniscono prima di tutto per rivendicare meglio e con più forza alcuni diritti, ma per ringraziare il Signore per “l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e, con ciò, la direzione decisiva”.
La prima preoccupazione dell’ecumenismo non è politica, accordare le voci per farsi sentire meglio, ma teologica: la ricerca dell’unità tra i cristiani scaturisce dalla fede stessa. E’ molto bello allora che la chiesa di Costantinopoli e quella di Milano si siano ritrovate insieme, con l’occasione dei 1.700 anni dall’editto, per richiamare il valore civile della libertà religiosa, sempre da riguadagnare in particolare nella sua dimensione pubblica, ma è pure molto bello che oggi s’incontrino attorno a quell’esperienza di fede da cui anche l’attenzione per la libertà religiosa discende. In questo modo “l’impegno per un’unità che faciliti l’accoglienza di Gesù Cristo smette di essere mera diplomazia o un adempimento forzato”.
Questa sottolineatura toglie anche ogni ombra di sospetto che i non cristiani - nel nostro caso i nostri amici musulmani - potrebbero nutrire circa lo scopo della nostra attività ecumenica. Essa è uno scambio di doni, non la ricerca di un’alleanza strategica. Anche perché tutte le volte che l’ecumenismo tra cattolici e ortodossi è stato impostato contro qualcuno non ha resistito alla prova del tempo.
Se la figura di San Paolo è dunque una sorgente permanente d’ispirazione a cui tutti i cristiani, cattolici, ortodossi ed evangelici, possono continuamente attingere, occorre riconoscere con realismo che essa è invece un motivo di divergenza nel rapporto con i musulmani.
Molti di essi guardano con sospetto all’operato di Saulo, non di rado accusato di un radicale travisamento del primitivo annuncio cristiano.
Occorre riconoscere con onestà intellettuale questa divergenza, ma al tempo stesso va anche richiamata la necessità, per un dialogo autentico, di confrontarsi con l’integralità delle diverse esperienze religiose. Se cioè i cristiani di tutte le confessioni (più di un miliardo di fedeli) sono concordi nel riconoscere in Paolo una figura centrale per la loro fede, chiunque voglia conoscere il cristianesimo dovrà fare i conti con i suoi scritti. Faccio un esempio al contrario che dovrebbe aiutare a capire il punto.
Come cristiani avvertiamo una particolare sintonia con la letteratura mistica islamica, che valorizza il rapporto personale con un Dio vicino e, in qualche misura, accessibile perché amante. Leggiamo con profitto diversi passi dei Mathnawi di Mevlana Rumi o alcune poesie di al-Hallaj. Ma se dicessimo che l’islam è solo Rumi e al-Hallaj, dimenticando il contributo degli uomini di legge e degli studiosi degli Hadith, finiremmo per formarci un quadro deformato della religione islamica e di quello che i musulmani abitualmente credono.
In altre parole, per un dialogo culturale serio, non posso scegliere alcuni autori con cui mi trovo in sintonia, dimenticandone volutamente altri per me più problematici, ma devo cercare di formarmi una visione globale del fenomeno che indago, eventualmente utilizzando gli autori più prossimi alla mia sensibilità come una porta per accedere a quelli più remoti.
Così, in modo speculare, se voglio capire il cristianesimo, non posso fare a meno di Paolo. E non posso fare a meno di lui neppure se voglio capire la filosofia occidentale, la storia occidentale, l’arte occidentale o addirittura la sua politica.
Come ricorda la Evangelii Gaudium , “per sostenere il dialogo con l’islam è indispensabile la formazione adeguata degli interlocutori, non solo perché siano solidamente e gioiosamente radicati nella loro identità, ma perché siano capaci di riconoscere i valori degli altri”. Solo in questo modo potremo dare un contributo effettivo al dialogo di culture così urgente oggi.
Paolo rappresenta una sfida particolare. Innamorato delle tradizioni dei Padri, pronto a difenderle con la vita, ma anche a perseguitare chi, a suo modo di vedere, le metteva in pericolo. Chiunque sminuisca la serietà dell’impegno di Saulo alla scuola di Gamaliele non capisce nulla della ricerca del volto di Dio attraverso la sequela della Legge e la sottomissione a essa, che è una delle esperienze più radicali per la coscienza religiosa dell’uomo di ogni tempo.
Ma proprio per questo sorge più forte la domanda: che cosa ha incontrato Paolo di così potente da portarlo a superare questa prospettiva, a capovolgerla quasi, lanciandosi a capofitto in un’attività missionaria senza confini, che è stata decisiva per aprire la chiesa alla dimensione universale? E’ una domanda che merita di essere indagata.
C’è poi - credo - un terzo motivo d’interesse specifico per l’islam. Dal punto di vista storico infatti, Paolo è stato il primo grande teorizzatore della distinzione tra lettera e spirito di un testo sacro. Per lui il significato esteriore è insuperabile (non è infatti uno gnostico), ma richiede allo stesso tempo di essere vivificato da un’esperienza interiore, perché “la lettera uccide, lo Spirito invece dà vita” (2Cor 3,6).
Com’è noto, una coppia analoga di concetti è stata sviluppata anche dall’esegesi islamica del Corano e secondo molti pensatori musulmani contemporanei, essa è fondamentale per poter coniugare fino in fondo l’islam con la modernità.
Sono idee spesso ripetute, ma di rado approfondite come meriterebbero. Penso perciò che un confronto serio con la coppia paolina di lettera e spirito potrebbe essere molto utile per il dibattito in corso nell’islam, in modo particolare in un paese come la Turchia dove la ricerca scientifica, anche in campo teologico, è molto avanzata. Con queste brevi notazioni, spero di avervi comunicato le ragioni che hanno condotto a questa iniziativa. Essa è un primo, timido passo. Ci auguriamo che altri possano seguire.
Occasione d’incontro ecumenico e momento di dialogo culturale, questo libro dischiude davanti a noi un ampio cammino, che domandiamo a Dio di poter percorrere con gioia e fiducia, insieme a tutti quelli che lo vorranno. Grazie.
Non do la Regione alla Lega
di Rosario Amico Roxas
Lombardia, Formigoni: non do la Regione alla Lega, il Pdl è con me
(Il Messaggero del 18 otto.2012)
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Gli impegni assunti sono tanti e tutti di alto profilo, per cui il cambiamento di impostazione politica provocherebbe alterazioni che potrebbero sforare in fallimenti a catena, ben più gravi di un effetto domino. Intanto la presenza della ndrangheta, infiltrata nelle sedi istituzionali, è diventata un fatto compiuto che, ormai, non può più essere trascurato.
Non si tratta della ndrangheta dei boschi della Sila; quella ha una sua valenza romantica, quella attuale guarda ben oltre il romanticismo, guarda alla componente finanziaria dall’alto dei salotti buoni della Milano da bere: non può più essere messa da parte come un parlamentare trombato.
Questo Formigoni lo sa bene, anche perché rientra nella progettazione più ampia di un esercizio di potere che coinvolge le grandi banche come la Lgt Bank di Vaduz, la Bsi di Zurigo, la Beirut Ryad Bank, la BarclaysBank di Londra e la Ing Bank di Amsterdam, l’alta finanza, la Compagnia delle Opere, il Vaticano, l’expo 2015 con relativi appalti, corruttori e corrotti, il tutto con la centralità del “celeste” che si sta adoperando per la materiale unificazione delle varie Compagnie delle Opere regionali in una unica struttura affiancata a Comunione e Liberazione con il medesimo celeste alla presidenza e in grado di mettere le mani anche sul soglio di Pietro con l’arcivescovo di Milano Angelo Scola.
Un programma ad ampio raggio d’azione che relega i progetti piduisti berlusconiani al rango di un “assalto alla diligenza” da parte di un fallimentare apparato di peones.
Rosario Amico Roxas
Lettera di cattolici milanesi (sugli episcopati di Martini e Tettamanzi)
di cattolici milanesi (del 25 maggio 2012) *
Il 6 maggio 2012 il quotidiano "Il fatto quotidiano" ha pubblicato (http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/05/06/comunione-liberazione-cerchio-magico-intornobenedetto/ 219915/) una lettera riservata (del marzo 2011) di don Julián Carrón, attuale Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, a mons. Giuseppe Bertello, nell’ambito delle consultazioni della Santa Sede riguardo la nomina del nuovo vescovo per la diocesi di Milano. Non ci risulta che i contenuti di questa lettera siano stati smentiti dal diretto interessato.
Mentre lasciamo alla coscienza del reverendo Carrón di riflettere sulla veridicità e sulla appropriatezza dei vari punti della sua lettera, alcuni dei quali molto opinabili, vorremmo rimarcare due passaggi della lettera stessa, quello in cui si scrive di una "crisi profonda della fede del popolo di Dio, in particolare di quella tradizione ambrosiana caratterizzata sempre da una profonda unità tra fede e vita... Negli ultimi trent’anni abbiamo assistito a una rottura di questa tradizione" , rottura che avrebbe promosso una "frattura caratteristica della modernità tra sapere e credere", riducendo "l’esperienza cristiana a...intimismo e moralismo", e quello in cui si sottolinea "l’urgenza di una scelta di discontinuità significativa rispetto alla impostazione degli ultimi trent’anni".
Ora, è assolutamente chiaro che con la cifra di "trent’anni" si fa esplicito riferimento agli interi episcopati di Carlo Maria Martini e di Dionigi Tettamanzi (l’ingresso del card. Martini in diocesi avviene nel 1980, la lettera è del 2011).
Vorremmo testimoniare, in quanto fedeli di questa diocesi, che quanto scritto dal reverendo Carrón non corrisponde a quanto abbiamo vissuto di persona e abbiamo visto coi nostri occhi.
Ricordiamo pochi fatti a titolo di esempio: quanto al ministero del card. Martini, la Scuola della parola, che ha insegnato a migliaia di fedeli di tutte le età a coniugare ascolto della Scrittura e fedeltà al Vangelo nella vita di ogni giorno, e che ha suscitato l’ammirazione e lo stupore di molte persone lontane dalla fede. E poi la Cattedra dei non credenti, che ci ha insegnato ad approfondire la nostra poca fede di fronte a questioni cruciali e brucianti - per noi e per tutti - di quella modernità in cui siamo pur chiamati a vivere. Altro che "frattura tra sapere e credere"! Altro che "intimismo e moralismo"!
Per quanto riguarda il card. Tettamanzi, vorremmo ricordare il suo ministero di carità che lo ha guidato a istituire il Fondo famiglia-lavoro, e la sua difesa dei più poveri tra i suoi fedeli, che lo ha esposto alle critiche ingiuriose di una parte politica. Vorremmo chiedere al reverendo Carrón: in che cosa la difesa dei poveri per fedeltà al Vangelo rompe la "tradizione ambrosiana"?
La nostra esperienza - e il parere di credenti e non credenti con cui siamo a contatto nella vita di ogni giorno - è che il ministero di questi due nostri pastori abbia rappresentato un lungo e indimenticabile tesoro di grazia, alla ricerca di una coerente realizzazione delle scelte del Concilio nel difficile contesto della contemporaneità. Forse il reverendo Carrón - che non ci risulta essere vissuto sempre a Milano negli ultimi trent’anni - si è fidato troppo di qualcuno che non aveva occhi per vedere e orecchie per sentire l’annuncio evangelico dei nostri vescovi.
Un gruppo di fedeli della diocesi di Milano
Il Papa a Milano: una visita da 13 milioni
di Luigi Franco (il Fatto Quotidiano, 1 giugno 2012)
Un milione e duecentomila pellegrini. Tradotto: tre giorni di popolazione raddoppiata. Ruota tutta attorno a questa cifra da record la macchina organizzativa che sta preparando Milano all’arrivo del Papa. La visita più lunga in una città italiana nella storia dei pontefici. Benedetto XVI atterrerà a Linate questo pomeriggio alle 17. Alle spalle i contrasti dei palazzi vaticani e le rivelazioni dei ‘corvi’. Ad attenderlo le polemica sul ruolo della famiglia, proprio il tema al centro di questo incontro mondiale.
Due giorni fa lo scontro a distanza tra Giuliano Pisapia e Roberto Formigoni. “Se entro la fine dell’anno il Consiglio comunale non deciderà, assumerò io personalmente con la mia giunta la decisione sul registro delle unioni civili”, ha promesso il sindaco di Milano. “Di famiglia ne conosco una sola, fatta di un uomo, una donna e dei bambini”, ha replicato il presidente della Lombardia. Battibecchi che si aggiungono ai mal di pancia all’interno della stessa maggioranza arancione per “il deficit preoccupante di laicità” che accompagna la visita del Papa. Queste le parole della capogruppo di Fds in Consiglio comunale, Anita Sonego, che ha anche messo nel mirino i soldi pubblici stanziati per l’evento “in un periodo di crisi come questo”.
Il Comune ha previsto una spesa di 3,1 milioni di euro per potenziare i servizi in questi tre giorni: trasporti, sicurezza, pulizia delle strade. Soldi che secondo la giunta andranno a favore di tutta la città, dei milanesi oltre che dei pellegrini. In ogni caso, è saltato il milione di euro che Letizia Moratti aveva promesso alla Curia, senza mai però metterlo a bilancio.
CI SONO poi i due milioni elargiti da regione Lombardia e il 27esimo piano del Pirellone messo per nove mesi a disposizione della Fondazione Milano Famiglie 2012, che ha iniziato a organizzare l’evento quasi due anni fa. Spesa complessiva 10 milioni di euro, finanziati oltre che dalla Regione, dall’arcidiocesi di Milano, dalla Cei e da numerosi sponsor, come Intesa San Paolo, Eni ed Enel. Investimenti che saranno ben ripagati, fa sapere la fondazione, visto che l’indotto previsto è di 55 milioni di euro. Soldi portati dal milione di pellegrini che sono già iniziati ad arrivare. Ieri qualcuno si aggirava incuriosito per piazza Duomo, mentre gli operai spostavano transenne e preparavano il palco sul sagrato .
Se Milano reggerà, però, lo si inizierà a capire oggi. Una città sotto assedio, un assedio ‘gentile’, dicono le autorità. Allerta massima, le bonifiche delle strade dove passerà il papa sono già partite nei giorni scorsi: tolti i cestini, controllati i tombini. Per l’evento più delicato, la messa di domenica mattina a Bresso, sono state addirittura visionate le mappe militari per studiare al meglio come difendere il perimetro del parco Nord. Nei tre giorni saranno impiegati 15mila uomini, tra forze dell’ordine, vigili del fuoco e protezione civile. Ci sarà poi un esercito di 6mila volontari. A seguire il corteo papale un apparato di sicurezza imponente, tiratori scelti sui tetti, quattro elicotteri di polizia e carabinieri in volo. Primo trasferimento quello di oggi tra l’aeroporto di Linate e piazza Duomo, dove alle 17.30 Benedetto XVI terrà un discorso alla cittadinanza.
SULLA papamobile non salirà, come altre volte, il suo ex maggiordomo Paolo Gabriele, finito in una cella del Vaticano con l’accusa di essere uno dei responsabili della fuoriuscita di documenti riservati. Tre giorni di mezzi potenziati, metro tutta la notte, bus già in strada alle 4 di mattino, la zona a nord di Milano vicino a Bresso chiusa a quasi tutto il traffico. Misure eccezionali per un programma che dopo la presenza di Benedetto XVI in Duomo prevede il concerto alla Scala stasera.
Domani la festa dei cresimandi alle 11 allo stadio San Siro e alle 16 l’incontro nell’area allestita all’aeroporto di Bresso, dove in serata il pontefice salirà per la prima volta sul palco da 50 metri. Meglio di una rockstar. Alle 10 di domenica la messa, sempre a Bresso, da dove il Papa partirà dopo aver recitato l’Angelus. Direzione Linate. Poi, alle 17.30, in volo per Roma.
La forza dell’esempio
di Giangiacomo Schiavi (Corriere della Sera-Milano, - 9 settembre 2011)
Sono in tanti in questi giorni a domandarsi che cosa cambierà nella Chiesa ambrosiana con la partenza del cardinale Tettamanzi e l’arrivo del suo successore Angelo Scola. Accadde la stessa cosa anche nel 2002, quando il cardinal Martini lasciò la guida della diocesi all’arcivescovo che arrivava da Genova. Nove anni dopo si può dire che Tettamanzi ha rafforzato con la forza dell’esempio la pastorale di Martini: come lui, ha sentito il bisogno di testimoniare il suo amore per la città, interpretando con coraggio gli insegnamenti del Vangelo schierandosi dalla parte dei più deboli, dei più fragili, degli indifesi. Non ci saranno traumi in questo passaggio di consegne dettata dall’anagrafe. La complessità e il ruolo di Milano impongono un punto di vista religioso e morale che non può che essere comune: bisogna far crescere la speranza, coltivare la responsabilità, trasformare le paure in energia.
La città si porta dietro uno spirito fatto di memoria, di sfide: e il Duomo è un riferimento per tutti. La Madonnina, che ieri sera Tettamanzi ha ricordata con affetto, ha un valore che va oltre la normale suggestione: è il simbolo di una città amica, che accoglie, che non chiede tessere a nessuno. Davanti al cardinale Scola c’è una città esigente con chi ci vive, capace di ricambiare con gli interessi chi si spende per il suo bene.
Tettamanzi ha dato molto a Milano. Si è fatto carico dei problemi, si è messo in gioco, ha detto tante volte «e io che cosa posso fare?» ribaltando il luogo comune che affida sempre agli altri la soluzione dei problemi. «Tutti noi dobbiamo avere ben presente il tanto che ci è stato donato senza nostro merito, e aprire i cuori alla solidarietà», è uno dei messaggi che lascia a chi ha una funzione pubblica, un posto di responsabilità. «Io da Milano ho ricevuto molto di più di quel che ho dato», ha ripetuto ieri pomeriggio, con semplicità, al sindaco Pisapia e ai consiglieri comunali. Non è azzardato dire che la svolta partecipativa sfociata nella primavera elettorale che ha portato l’attuale sindaco alla vittoria, si deve un po’ anche a lui. Al suo essere un cardinale di popolo, che sa ascoltare e stare con i piedi per terra (e quando occorre, come nella visita al campo rom di via Triboniano, anche nel fango).
Ha avuto coraggio, il cardinale Tettamanzi. Per difendere gli immigrati e la libertà di culto (leggi moschea) ha sfidato l’impopolarità. Per condannare la corruzione e le degenerazioni della politica ha fatto abbassare gli occhi a molti amministratori. In cambio ha ricevuto l’applauso e il calore di una città che sembrava smarrita: le ha restituito fiducia, orgoglio, visione; e in breve ne è diventato la coscienza civica. Il «grazie» che ieri mattina gli è arrivato al telefono dal cardinal Martini non era scontato: è anche il nostro.
Scola, nel solco di Ratzinger
di Paolo Flores d’Arcais (il Fatto Quotidiano, 1 luglio 2011)
La nomina del cardinale Angelo Scola come arcivescovo di Milano è incredibilmente irrituale ed esige dunque una spiegazione ragionevole. La carica di Patriarca di Venezia è una delle più prestigiose nell’ambito della Chiesa. Il passaggio a Milano costituisce anzi dal punto di vista protocollare una retrocessione, perché “Patriarca di Venezia” è titolo superiore a cardinale e arcivescovo. Insomma, non si “trasloca” da quella sede venerabile verso una’altra diocesi, per importante e grande che sia, a meno che non si tratti di Roma, per diventare Sommo Pontefice, cosa che nel XX secolo è avvenuto ben tre volte (Pio X, Giovanni XXIII, Giovanni Paolo I).
Non regge allora la spiegazione (ventilata ad esempio dal teologo Vito Mancuso) che Ratzinger volesse chiudere radicalmente e platealmente con l’ultimo ridotto del cattolicesimo democratico, la Milano di Martini e Tettamanzi, delle Acli e di don Colmegna, attraverso un gesto “brutale” di discontinuità. O meglio, l’ipotesi di Mancuso è del tutto plausibile, direi certa, ma per realizzarla il cardinale Scola non era l’unica personalità rilevante di cui Ratzinger disponesse. È vero che nella nomina di Scola vi è un elemento di “sfregio” verso il cattolicesimo ambrosiano che sarebbe mancato ad altri candidati (a Scola fu rifiutato il sacerdozio, al termine del seminario diocesano di Venegono, tanto che per farsi ordinare prete dovette trasferirsi a Teramo: ora torna da arcivescovo), ma è davvero improbabile che la volontà di Ratzinger di sottolineare come a Milano il vento debba cambiare avesse la necessità irrinunciabile di un ingrediente tanto “velenoso”.
UNA SCELTA di sbandierata normalizzazione poteva perciò essere realizzata anche senza la novità inaudita dello spostamento di un porporato da Venezia a Milano. Se per Benedetto XVI Angelo Scola è risultato perciò “unico” , deve esserci una motivazione in più, una motivazione davvero eccezionale che giustifichi l’irritualità e l’insostituibilità della scelta. Una ragione di SUCCESSIONE. La nomina, altrimenti incomprensibile di Ratzinger, ha il significato di una INVESTITURA: Benedetto XVI indica ai cardinali che come suo successore sulla cattedra di Pietro vuole Angelo Scola. Irritualità che spiega irritualità.
Del resto anche Karol Wojtyla aveva compiuto un gesto irrituale che indicava la sua propensione per Ratzinger quale successore, dedicando un libro “all’amico fidato”, e facendo risapere nei sacri palazzi l’assai insolito e iper-lusinghiero “titolo” (accompagnandolo poi con l’incarico - tutt’altro che irrituale, questo - di scrivere i testi per l’ultima solenne “via crucis”). Ogni Conclave, naturalmente, decide poi come preferisce, nella convinzione, anzi, che a scegliere sia lo Spirito Santo, “vento” di Dio che, come è noto, “soffia dove vuole”. Ma il senso profondo e perentorio di investitura e testamento, da parte di Benedetto XVI, della nomina di Scola sulla cattedra di Ambrogio, non è certo sfuggito a nessuno dei Porporati che compongono il sacro collegio. Perché, ripetiamolo, altra spiegazione non c’è, a meno di chiamare in causa categorie inammissibili per un Pontefice: capriccio e oltraggio.
FORSE RATZINGER ha sentito il bisogno di rendere plateale l’investitura di Scola anche per l’handicap che attualmente - dopo secoli di situazione opposta - costituisce per ogni papabile l’essere italiano. Nel (quasi ex-) Patriarca di Venezia, Benedetto XVI vede la più sicura (e ai suoi occhi evidentemente ineguagliabile) garanzia di continuità con il proprio pontificato sotto almeno due profili: il rilievo crescente assicurato a movimenti “carismatici” come Comunione e Liberazione rispetto all’associazionismo tradizionale legato a diocesi e parrocchie, e il privilegio del dialogo con l’Oriente, nel duplice senso di cristianità ortodossa e di islam. Se il primo tema èsottolineato da tutti gli osservatori, il secondo è talvolta trascurato benché perfino più influente.
Il filo conduttore del papato di Ratzinger è infatti l’offerta agli altri monoteismi, e a quello di Maometto in modo speciale, di una Santa Alleanza contro la modernità atea e scettica. Questo era il senso dello sfortunato discorso di Ratisbona, che per una maldestra citazione accademica provocò invece risentimento e disordini.
Dialogo con l’islam, ma nel segno del comune anatema contro il disincanto dell’illuminismo, del pensiero critico, della democrazia conseguente, in alternativa all’accoglienza verso “i diversi” del cattolicesimo democratico di stampo conciliare. La fondazione e la rivista “Oasis”, volute a Venezia da Scola, sono da anni l’efficacissimo strumento di questa linea ideologico-pastorale dall’afflato “globale” ma dagli evidenti risvolti europei, vista la presenza dell’islam come seconda religione (in espansione demografica galoppante) in tutte le grandi metropoli del vecchio continente. Solo in un’ottica un “piccina” si può pensare che con l’investitura di Scola, seguace di don Giussani, Ratzinger paghi il debito di gratitudine verso CL, lobby trainante della sua elezione. In realtà,
Ratzinger vede in Scola il successore capace di proseguire con più coerenza e successo degli altri papabili la sfida oscurantista della rivincita di Dio sui lumi che caratterizza il suo pontificato: intransigenza dogmatica, “fronte integralista” con l’islam, presenza decisiva della fede cattolica nella legislazione civile, spregiudicatezza nel confronto pubblico con l’ateismo, accompagnati da un’affabilità pastorale superiore alla sua.
DON PAOLO FARINELLA - Milano, entri Scola ed esca il popolo di Dio *
Habemus Scolam. Come volevasi dimostrare. Il cardinale Martini, malato, è andato a Roma a perorare Milano, il cardinale Tettamanzi è andato a Roma a supplicare il papa perché non interrompesse una linea pastorale che da Montini, a Colombo, a Martini e a Tettamanzi ha mantenuto di fatto la rotta sulla indicazione del concilio ecumenico Vaticano II, facendo di Milano in un certo senso il «contr’altare» della Curia Romana, il segno, seppur debole, di una ecclesiologia plurale, eppure il papa sceglie l’antico, e guarda al passato.
Amico personale del papa, garante delle idee di Joseph Ratzinger, ipergarante di Comunione e Liberazione che ora ingrassa anche all’ombra della «Madunnina», l’ex patriarca Angelo Scola prende possesso della Chiesa che fu Ambrogio con grande cipiglio e anche un pizzico di vendetta. Quando era in seminario a Milano fu mandato via per le sue impurità nei confronti di CL e ora ritorna a consacrare CL come «modello di ecclesialità» rampante che sguazza bene anche nel malaffare attraverso la Compagnia delle Opere, vero sigillo di satana.
Il papa non ha tenuto conto delle consultazioni, degli appelli dei credenti milanesi e non, dell’identikit che gruppi ecclesiali hanno prospettato, ma ha scelto «motu proprio» non secondo gli interessi della Chiesa milanese e universale, ma secondo gli esclusivi interessi suoi personali e dei gruppi che egli protegge. E’ indubbio che l’elezione di Scola a Milano è un regno di transizione, quanto basta per rompere la «tradizione ambrosiana» aperta al futuro. Il passaggio infatti di Scola da patriarca ad arcivescovo (il cardinalato è a sé anche perché resta una carnevalata), formalmente è una retrocessione perché per il protocollo il patriarca di Venezia è titolo onorifico che precede il cardinale e l’arcivescovo.
Se addirittura c’è una retrocessione protocollare, significa che la posta è alta e gli interessi sono cogenti: Scola deve garantire la rottura, anzi la discontinuità tra i suoi predecessori e il suo successore. Milano deve rientrare nell’orbita della Curia Romana e non deve permettersi di assumere posizioni differenziate nei confronti della società civile (non credenti, divorziati, matrimonio, politica e politica governativa) e tutto deve essere riportato all’obbedienza «pronta e cieca» di memoria fascista.
Scola vuol dire: sguardo, cuore, reni, fegato e frattaglie rivolte a Trento, anzi più indietro, verso il tempo avanti Cristo, quando si stava sicuri anche dei sospiri perché chi dissentiva veniva fatto fuori, come poi imparò bene la chiesa medievale. La nomina di Scola è una lettura del pontificato ratzingheriano sul quale ormai è morta non solo la speranza, ma anche l’ipotesi di speranza. Un papato chiuso in se stesso, diffidente di se stesso, un papato che ha come segretario di Stato un Bertone qualunque (perché un qualunquista come Bertone, è difficile trovarlo anche con la lanterna di Diogene) non può che volere uno Scola a Milano.
L’elezione di Scola a Milano è anche un contro bilanciamento all’elezione «laicista» di Pisapia a palazzo Marino, eletto da buona parte di cattolici. Ora le distanze torneranno di sicurezza, di sorveglianza e tutto quello che varerà la giunta in materia di diritti civili ecc. sarà spiato, soppesato, contraddetto, distanziato.
Che pena vedere le foto di Scola che brilla nei suoi polsini dorati, nel suo orologio d’oro, nella sua croce d’oro, nella sua gualdrappa rosso porpora, nel suo cappello a tre punte, rigorosamente rosso. Mi chiedo se uno vestito così poteva entrare nel cenacolo o se non stava meglio alla corte di Nabucodònosor tra i satrapi e gli eunuchi di corte. Ora è l’ora della Chiesa intesa come popolo di Dio: o rialza la coscienza e la schiena, magari piegando le ginocchia, o si sotterra e perde il diritto di lamento perché il «mugugno» solo a Genova è gratis.
E’ il tempo dei laici che non possono più lasciarsi trattare da chierichetti cresciuti e rincitrulliti. Ora è il tempo delle sorprese. Le sorprese del popolo di Dio che può essere capace di convertire i vescovi come i poveri fecero con Mons. Oscar Romero, con Mons. Hélder Cámara e tanti altri. Entri Scola ed esca il popolo di Dio.
Don Paolo Farinella
* MICROMEGA, 29 giugno 2011
http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2011/06/29/don-paolo-farinella-milano-entri-scola-ed-esca-il-popolo-di-dio/
A "SCOLA" DI AUTORITARISMO: VESCOVI E CARDINALI CHE SI TOLGONO LA TESTA. Don Primo Mazzolari diceva ai suoi parrocchiani: «Quando entrate in chiesa vi togliete il cappello, non vi togliete la testa»
Operazione sant’Ambrogio
di Aldo Maria Valli (Europa, 29 giugno 2011)
Nel 1972, durante la sua visita a Venezia, Paolo VI, nel bel mezzo di piazza San Marco e davanti alla folla, si tolse la stola e la mise sulle spalle di un imbarazzatissimo Albino Luciani, allora patriarca della Serenissima. Gesto eloquente, una vera e propria investitura. Che ebbe conferma e pratica realizzazione sei anni più tardi, alla morte di papa Montini, quando dal conclave uscì eletto proprio il timido patriarca.
All’inizio dello scorso maggio, nel corso della visita in laguna, Benedetto XVI non si è tolto la stola e non l’ha deposta sulle spalle del patriarca Angelo Scola. Non è nello stile di Joseph Ratzinger compiere gesti plateali. Ma, se non l’ha fatto, c’è anche una ragione sostanziale. Ratzinger, a differenza di molti altri dentro la Chiesa, crede nelle regole e nella collegialità.
In queste settimane che hanno preceduto la nomina di Scola a Milano si è detto e ripetuto che il patriarca di Venezia è approdato sotto la Madonnina perché fortemente voluto da Benedetto XVI. Adesso, a nomina avvenuta, sappiamo che è una verità parziale. Che Benedetto stimi Scola da molti anni è fuori discussione. Che ne ammiri le capacità di animatore culturale e di organizzatore è altrettanto certo. Ma non è vero che il papa si sia battuto per la nomina di Scola nonostante le opinioni divergenti degli altri vescovi chiamati a sottoporre al pontefice le candidature.
Anzi, è vero il contrario. Da fonti vaticane risulta infatti che per ben tre volte, davanti a una maggioranza di vescovi che, riuniti nella plenaria della congregazione, indicava una terna di nomi con Scola come candidato più forte per Milano, il papa ha rimandato indietro la proposta chiedendo un ulteriore approfondimento (o, come si dice in ecclesialese, un discernimento).
Lo ha fatto, sicuramente, non per scarsa fiducia in Scola, ma per grande considerazione della collegialità episcopale e del ruolo delicatissimo che la plenaria della congregazione per i vescovi è chiamata a ricoprire, specie quando in ballo c’è una nomina importante come quella che riguarda Milano. Solo che, dai vescovi, è arrivato sempre lo stesso responso: tre nomi, con due candidature oggettivamente deboli e una sola, quella di Scola, in grado di poter essere presa davvero in considerazione.
Al che il papa, proprio in ossequio al rispetto della collegialità, ha dato il via libera. Ora, perché la maggioranza dei vescovi (circa due terzi, a quanto risulta) ha puntato così decisamente su Scola? Paradossalmente l’ha fatto pensando di compiacere il papa. Poiché una campagna di stampa e di persuasione, sapientemente condotta e orchestrata, ha tambureggiato a lungo indicando il patriarca come candidato più gradito a Benedetto XVI, la maggioranza dei vescovi riuniti nella plenaria si è prontamente adeguata e, non volendo risultare in dissonanza con il pontefice, è diventata più realista del re (o meglio, più papista del papa).
Più che dalla strenua volontà di Benedetto XVI, il trasloco di Scola da Venezia a Milano nasce quindi da un’abile strategia di comunicazione e di persuasione messa al servizio di un candidato. Cosa che si ripeterà, c’è da scommetterlo, in caso di conclave, visto il successo di questa che, parafrasando il celebre film Operazione san Gennaro, possiamo ribattezzare Operazione sant’Ambrogio.
Sicuramente il papa non è scontento della scelta di Scola: la sua ammirazione per l’uomo e per il teologo è certa e si è consolidata nel tempo. Quanto al nuovo arcivescovo di Milano, difficile che in lui non emerga, in queste ore, un certo senso di rivincita, visto che diventa il capo di quella diocesi, che è poi la sua diocesi di nascita, nella quale quarant’anni fa non riuscì a essere ordinato prete (dovette “emigrare” a Teramo).
Sullo sfondo, in ogni caso, resta il problema: il funzionamento degli organi decisionali della Chiesa e la capacità di giudizio e di scelta di coloro (oggi i vescovi, domani i cardinali) che sono chiamati a decidere in un’epoca in cui la macchina dell’informazione, se pilotata in un certo modo, può diventare un soggetto determinante nell’orientare il consenso.
A MILANO, TUTTI A "SCOLA" DI "LATINORUM": "DEUS CARITAS EST"! ORDINE DI BENEDETTO XVI.... E SIGILLO DI GARANZIA DEL FILOSOFO EMANUELE SEVERINO ....
Severino: «È stato mio allievo. Da laico gli ho dato 30 e lode»
intervista a Emanuele Severino,
a cura di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 28 giugno 2011)
«Eh sì, è stato mio studente. Lucido. E bravo, molto bravo. Allora, in Cattolica, avevo la cattedra di Filosofia morale. Lui stesso mi ha fatto venire in mente che all’esame gli diedi trenta e lode, ha scritto anche delle nottate passate assieme ai suoi compagni a studiare un mio libro, La struttura originaria...» .
Il filosofo Emanuele Severino tradisce un pizzico d’orgoglio da professore, è bello vedere i propri ragazzi fare strada. Il giovane Angelo Scola si laureò verso la fine degli anni Sessanta con Gustavo Bontadini, il pensatore che fu maestro dello stesso Severino («vale tre Maritain» ), poco prima che il grande filosofo bresciano fosse allontanato dalla Cattolica, nel ’ 70, dopo aver subito un «processo» dall’ex Sant’Uffizio. Acqua passata. Con il patriarca di Venezia si rividero nel 2003, a Ca’ Foscari, per un convegno su Bontadini organizzato dall’università.
E come fu l’incontro, professore, dopo più di trent’anni?
«Ci fu il ritorno di un rapporto che non esito a dire affettuoso, di simpatia reciproca. Non so cos’avessero i vaporetti, ma quel giorno arrivai in ritardo e il cardinale Scola era già lì da tempo, puntuale, circondato da gente con l’aria ossequiosa e compunta. Il patriarca invece non aveva affatto quell’aria e mi aspettava tranquillo, all’ingresso dell’aula magna Ca’ Dolfin, seduto su un termosifone. Simpatico, semplice, affettuoso. Ci siamo incontrati di nuovo due anni fa, all’università di Padova, per un convegno sulla morte voluto da un’altra mia bravissima allieva e docente, Ines Testoni».
Che arcivescovo si devono aspettare i milanesi?
«Di altissima qualità. Un uomo che sarà capace anche di entusiasmare, e lo dico con convinzione: oltre a essere un intellettuale di grosso calibro, ha tratti di semplicità e naturalezza che non è facile trovare negli uomini di Chiesa».
Certo avete idee diverse, lei sul «Corriere» replicò al cardinale che aveva proposto di uscire dalla «immagine vecchia dell’idea e della pratica della laicità...
«È una considerazione diffusa, nel mondo cattolico. Scola diceva di non condividere la persuasione di Habermas, secondo il quale "una democrazia costituzionale, per giustificarsi, non ha bisogno di un presupposto etico o religioso". Per Scola invece ne ha bisogno. Né lui né Habermas, però, approfondivano la radice di quella persuasione. Ma proprio questo è il punto da discutere. Così io obiettavo che, impostando il problema del laicismo in quel modo, prendendosela al solito con il "relativismo", la Chiesa corre il rischio - ma è più di un rischio - di trascurare il nemico autentico della religiosità e della tradizione: la forza con cui la filosofia degli ultimi due secoli elimina la tradizione e, da Leopardi a Nietzsche a Gentile, dimostra l’impossibilità di ogni verità assoluta e quindi di ogni "presupposto".
Scola e la Chiesa non vedono l’autentico pensiero contemporaneo?
«Se è per questo non lo vede neanche il mondo laico, che continua a presentarsi in modo debole, erede com’è di una fortuna che ignora di possedere. Bisogna saper guardare il sottosuolo del pensiero contemporaneo, oltre la superficie. È come quando, nel Simposio di Platone, si dice che Socrate è un sileno: fuori è bruttissimo, è vero, però dentro è Socrate! Il sottosuolo del pensiero contemporaneo - che peraltro non dice affatto l’ultima parola, bisogna andare ben oltre - è una potenza che non viene non dico riconosciuta, ma nemmeno intravista».
L’arcivescovo saprà confrontarsi, in una città come Milano, con il mondo laico?
«Ah, questo sì, ne ha tutte le capacità ed è un uomo aperto: per quanto lo conosco, credo proprio di poterlo dire. E penso che l’incrocio con Milano sia estremamente positivo, anche perché torna un po’ dalle sue parti. Conoscendo la sua intelligenza filosofica, lo ritengo incapace di prepotenze politiche o ideologiche. È invece un uomo capace di innovazioni senza vantarsene, senza marcare troppo le differenze».
C’è chi si è mostrato preoccupato per la sua estrazione ciellina...
«Anche questa faccenda, andiamo... Francamente non me lo vedo, rinchiuso nel ruolo di animatore di un movimento, con tutto il rispetto di quel movimento: la sua statura intellettuale è superiore e va oltre».
Il cardinale Scola nuovo arcivescovo di Milano
Teologo e rettore, lascia il Patriarcato di Venezia. Prende il posto di Dionigi Tettamanzi
12:51 - Benedetto XVI ha nominato il cardinale Angelo Scola nuovo arcivescovo di Milano. Scola, fino a oggi Patriarca di Venezia, prende il posto del cardinale Dionigi Tettamanzi, che ha guidato la diocesi del capoluogo lombardo dal 2002. Il nuovo arcivescovo, 70 anni, è un teologo ed è stato anche rettore della Pontificia università lateranense a Roma. "Ho accolto questa decisione del Papa, perché è il Papa", sono state le sue prime parole.
"Voi comprenderete quanto la notizia, che mi è stata comunicata solo qualche giorno fa, trovi il mio cuore ancora oggi in un certo travaglio. Lasciare Venezia dopo quasi dieci anni domanda sacrificio. D’altro canto la Chiesa di Milano è la mia Chiesa madre. In essa sono nato e sono stato simultaneamente svezzato alla vita e alla fede". Questo il primo messaggio del nuovo arcivescovo di Milano, il cardinale Angelo Scola.
"L’obbedienza è l’appiglio sicuro per la serena certezza di questo passo a cui sono chiamato - continua il cardinale Scola -. Attraverso il papa Benedetto XVI l’obbedienza mia e vostra è a Cristo Gesù. Per lui e solo per lui io sono mandato a voi. E comunicare la bellezza, la verità e la bontà di Gesù risorto è l’unico scopo dell’esistenza della Chiesa e del ministero dei suoi pastori".
Il suo predecessore, cardinale Dionigi Tettamanzi, arrivò anche lui a Milano già cardinale dopo un breve episcopato a Genova. Lascia dopo 9 anni per ragioni di età e diventerà amministratore apostolico della diocesi ambrosiana fino al momento dell’ingresso di Scola, che avverrà con molta probabilità nella seconda metà di settembre.
Tettamanzi: "Lascio testimone a un confratello carissimo"
Mentre le campane del Duomo suonavano a festa, l’arcivescovo di Milano, dopo aver ringraziato il Papa per i due anni di proroga nell’incarico, che gli hanno consentito di portare a compimento molte opere, ha salutato il suo successore. "Ora - ha detto - con serenità di cuore e con spirito di fede che so condivisi dall’intera comunità diocesana, sono lieto di trasmettere il testimone della guida pastorale di questa splendida chiesa al carissimo confratello cardinale Angelo Scola"
* TGCOM, 28.6.2011:
http://www.tgcom.mediaset.it/cronaca/articoli/1013941/il-cardinale-scola-nuovo-arcivescovo-di-milano.shtml
Scola alla conquista di Milano
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 28 giugno 2011)
Il cardinale Angelo Scola arriva a Milano. Lascia la sede del patriarcato veneziano per assumere la guida della più grande diocesi d’Europa. Stamane verrà dato l’annuncio ufficiale nella Sala stampa vaticana.
Benedetto XVI lo voleva sulla cattedra ambrosiana e Benedetto XVI ve lo ha messo. I sondaggi preliminari contano poco per papa Ratzinger. Quando nel 2006 si profilava la partenza del cardinale Ruini dalla carica di presidente della conferenza episcopale italiana il nunzio dell’epoca mons. Paolo Romeo - su mandato dell’allora Segretario di Stato cardinale Sodano - fece un sondaggio riservato tra i vescovi italiani per individuare una rosa di successori. In testa emerse il nome di Tettamanzi. Ma il papa non ne tenne conto. Nel 2007 - su pressione di Ruini e del nuovo Segretario di Stato Bertone - fu scelto Angelo Bagnasco.
È accaduto così anche in occasione delle dimissioni annunciate del cardinale Tettamanzi. Non corrispondeva a Scola il profilo del successore che la diocesi ambrosiana avrebbe desiderato. Ma papa Ratzinger - invece di andare alla ricerca di nuove personalità da fare crescere (come accadde quando papa Wojtyla d’improvviso scelse il biblista Carlo Maria Martini per mandarlo a Milano) - sempre più si sta circondando di persone che considera facenti parte della cerchia dei suoi intimi, teologicamente parlando.
Scola ha fatto parte del gruppo della rivista “Communio”, sorta per “raddrizzare” in senso moderato e a tratti conservatore gli sviluppi del dopo-concilio e contrastare espressamente l’ala marciante dei teologi riformatori riuniti nella rivista “Concilium”. Da una parte il riformismo conseguente, rappresentato da personalità come Yves Congar, Karl Rahner, Hans Kueng, Johann Baptist Metz, Edward Schillebeeckx, dall’altra le personalità intimorite dalla rivoluzione conciliare, convinte della necessità di salvaguardare il rapporto con la Tradizione. Con Henri de Lubac e Hans Urs von Balthasar Joseph Ratzinger fonda perciò la rivista “Communio” nel 1972.
Trentatré anni dopo Ratzinger diventa pontefice. Immediatamente, a Natale del 2005, condanna ufficialmente la teologia che considera il Vaticano II (inevitabilmente) una rottura con molti elementi della Chiesa tridentina. Collaboratore di “Communio” è stato il cardinale canadese Marc Ouellet, diventato recentemente responsabile del dicastero vaticano che si occupa dei preti di tutto il mondo (Congregazione del clero), collaboratore di “Communio” è stato Angelo Scola.
NON È TANTO l’origine ciellina che procura uno shock a quanti nella diocesi milanese sono stati fautori della linea Martini-Tettamanzi. Un cardinale che cresce di peso - come Scola - e che è arrivato nella lista dei papabili non può rimanere attaccato ad una matrice, per quanto attivissima, come Comunione e liberazione.
È la consapevolezza che - per volontà del pontefice - adesso si volterà decisamente pagina a Milano. La linea Martini-Tettamanzi ha significato che con omelie, interventi diretti o lasciando silenziosamente fare gli arcivescovi di Milano hanno favorito nell’ultimo trentennio una di riflessione teologica non sempre totalmente adagiata sul pensiero unico vaticano.
Sul piano politico, poi, Tettamanzi non ha nascosto - seppure in forme ponderate e nonostante l’asse vaticano con il centrodestra - la sua avversione alle derive becere del berlusconismo e del leghismo. E’ indubbio che alle ultime elezioni non ha ostacolato la forte mobilitazione cattolica a favore di Pisapia.
Scola, il “cardinale manager” come lo chiama Cacciari, vorrà tenere tutto sotto controllo. Teologicamente e politicamente. Ma anche per lui la realtà variegata della Chiesa milanese rappresenta una sfida
La teologia di Ratzinger nella scelta di Scola
di Giancarlo Zizola (la Repubblica, 30 giugno 2011)
Un pontificato che si narra come proiezione dell’autobiografia di Joseph Ratzinger nelle scelte istituzionali. La nomina di Angelo Scola a Milano è l’ultima conferma della plausibilità di questa chiave interpretativa. Benedetto XVI ha un occhio di riguardo per le persone incrociate in passato.
È accaduto per Tarcisio Bertone, che deve il ruolo di segretario di Stato poco più che alla scrivania di segretario della Congregazione per la Dottrina accanto all’ufficio del prefetto. Come se un pezzo di burocrazia condivisa potesse garantire qualità per qualsiasi altro ruolo. In modo analogo, con il canadese Marc Ouellet a capo della Congregazione dei Vescovi e il patriarca Scola a Milano, si proietta ai vertici della Chiesa il club teologico di Communio, la rivista teologica fondata nel 1972 da Ratzinger con Urs von Balthasar e Henri de Lubac per competere con le visioni del riformismo radicale di Concilium. E l’ammirazione di Ratzinger per don Giussani, i cui funerali volle concelebrare a Milano, è la fonte riconosciuta di una predilezione papale per Cl, un movimento di cui Scola era seguace, anche se da anni non aveva ruoli privilegiati al suo interno.
Non è solo questione di fiducia personale, e neanche di medaglie al merito assegnate agli amici, ma di opzioni. Vi è bene un legame tra le ostinate affiliazioni lefebvriane del fratello prete Georg, da un lato, e - dall’altro - le precipitose assoluzioni dei vescovi dello scisma e le controriforme liturgiche con cui il papa ha dato via libera alla messa tridentina che va generando l’attuale baraonda intorno agli altari cattolici. Su un altro piano, una continuità autobiografica emerge tra il Ratzinger di professione teologo e un magistero papale dominato dall’inquietudine per la formazione anche intellettuale dei cattolici ad una fede matura, fino all’apogeo dell’opera anticamente sognata, i due volumi del Gesù di Nazareth, non a caso firmato insieme da "Joseph Ratzinger e Benedetto XVI".
Un papa ha bene il diritto di imprimere la propria impronta sulla vita della Chiesa. Ma la nomina di Scola rischia di diventare un caso imbarazzante, al di là delle qualità personali del prescelto, ben riconosciute, proprio perché fa esplodere alcune anomalie del sistema. Il "fattore Papa" ha giocato nella costruzione di una campagna di stampa martellante, che ha penalizzato la ricerca di altre candidature. Con due conseguenze: di intercettare il severo clima di segretezza in cui Roma avvolge le procedure di selezione dei vescovi (il cardinale Martini scriveva domenica di essere stato sorpreso dalla sua nomina a Milano). Poi, di contraddire il criterio raccomandato dallo stesso Papa, di scegliere come vescovi candidati che abbiano almeno dieci anni prima della rinuncia canonica a 75 anni, perché possano svolgere un piano pastorale decente. E invece per Milano è stato nominato un settantenne.
L’anomalia maggiore è visibile, ancora una volta, nelle procedure centralizzate. A metà dell ’Ottocento Antonio Rosmini dimostrava che il sistema verticistico non era in grado di tutelare la Chiesa dalle ingerenze del potere politico. Le campagne mediatiche a favore di un candidato sono la nuova forma delle pressioni dei poteri cesaro-papisti, che rendono attuali le lotte per le investiture di Gregorio VII. Benché la consultazione del nunzio in Italia Giuseppe Bertello nella diocesi di Milano sia stata più ampia del consueto, è evidente che quanto è successo invita a ripensare al monito di Rosmini circa i vescovi "intrusi", paracadutati dall’alto e dunque fattori di indifferenza religiosa e di divisione del popolo cristiano.
L’altra anomalia riguarda la situazione dell’episcopato italiano. Indubbiamente non mancano al suo interno delle intelligenze pastorali di grande sensibilità e zelo, tuttavia alcune analisi sociologiche, come quella di Luca Diotallevi, non si astengono dal documentarvi segnali di un criterio selettivo ancorato per oltre un ventennio alla presunta sicurezza di figure conformiste, col risultato che gli attuali risvegli dal basso mondo cattolico sembrano scarsamente recepiti dalla gerarchia e non sembra determinarsi una vera inversione di rotta. Paradossalmente la Chiesa italiana era più ricca sotto Pio XII di grandi figure episcopali, un certo Roncalli a Venezia, Montini a Milano, Fossati a Torino, Siri a Genova, Lercaro a Bologna, Dalla Costa a Firenze, Ruffini a Palermo: saranno igrandi protagonisti del Concilio Vaticano II.
Infine, da notare che Scola entra a Milano su due vigilie: quella del cinquantenario dell’apertura del Vaticano II (1962-2012) e quella dei 1700 anni dell’editto di Milano con cui aveva origine "l’età costantiniana" nel 313: statuto di libertà per il cristianesimo, divenuta "religione imperiale". Vigilie che si intrecciano organicamente.
Il maestro di Scola, Von Balthasar, era molto netto sulla necessità di finirla con la riproduzione del regime di cristianità. Diceva che «al cristiano è vietato il ricorso ai mezzi d’azione specificamente mondani per un preteso incremento del regno di Dio in terra». Criticava l’integralismo di gruppi di «mammalucchi cristiani che aspirano a conquistare il mondo» e ammoniva: «Chi fa tali cose non ha esatta idea né della impotenza della croce né della onnipotenza di Dio né delle leggi proprie della potenza mondana».