Martin Lutero, che gettò le basi della laicità
Al padre della Riforma protestante, che visitò Roma nel 1510, la capitale dedica due giornate e forse pure una strada...
di Roberto Monteforte (l’Unità, 08.10.2010)
Celebrare Martin Lutero a Roma, nella città del Papa, la capitale della cattolicità. Quello che forse sino a ieri era impensabile, ora è possibile. Non per provocazione, ma quasi a sottolineare l’apertura al confronto della capitale. L’occasione è un anniversario: i cinquecento anni della visita del padre della Riforma protestante a Roma, avvenuta nel 1510.
Due e non a caso distinti i momenti per ricordarlo. Quello «laico», legato all’attualità del suo pensiero, si terrà lunedì 11 ottobre presso la sala della Protomoteca in Campidoglio. Il secondo, invece, religioso, sarà la celebrazione ecumenica e intereligiosa prevista per il 31 ottobre presso il Tempio valdese di piazza Cavour. Data non casuale: è quella in cui Lutero presentò le sue 95 tesi ed è considerata la nascita della Chiesa Luterana.
L’UTILE ERESIA
Non deve stupire che in tempi come questi, in una Europa che ricerca la sua anima, ci si interroghi sul contributo dato dal teologo «eretico» per eccellenza alla costruzione dell’identità dell’uomo contemporaneo.
Non si devono forse anche al suo insegnamento quella separazione tra Stato e Chiesa, quell’affermazione della libertà religiosa e di coscienza che è alla base della moderna idea di laicità?
Lo chiarisce il teologo e storico valdese Paolo Ricca che ieri con Dora Bognandi della Chiesa Avventista, il pastore luterano Jens-Martin Kruse e la coordinatrice dell’iniziativa «Lutero a Roma», Anne marie Dupré con il direttore della rivista Confronti, Gian Maria Gillio, ha presentato l’iniziativa. La mattina incontro con gli studenti. Nel pomeriggio confronto sull’attualità del suo pensiero.
L’obiettivo è guardare all’oggi. Non solo approfondire il valore storico della proposta di Lutero, che portò «alla frattura della cristianità occidentale», alla nascita delle Chiese riformate e ad una stagione di radicale cambiamenti anche nella Chiesa di Roma, con il Concilio di Trento e con la Controriforma.
Il teologo Ricca attualizza la provocazione di Lutero. Invita ad interrogarsi su cosa posa rappresentare oggi «la buona notizia cristiana». Su cosa si costruisce «attorno a questo annuncio di verità e di libertà». È un invito a riavviare il confronto ecumenico osserva fattosi negli ultimi anni più difficile. «Non vi è più alcun tavolo nazionale dove confrontarci con la Chiesa italiana. E non si aiuta l’ecumenismo quando ciascuno pretende di parlare per tutti». I temi da approfondire non mancano dal fine vita, all’aborto, all’educazione religiosasu cui verificare convergenze o dissensi.
L’appuntamento «Lutero a Roma» dovrebbe servire anche a questo. A riconoscere quanto la cultura contemporanea, l’idea stessa di laicità, sia debitrice nei confronti del monaco agostiniano. Per questo le Chiese della Riforma hanno chiesto all’amministrazione capitolina di intitolare una strada a Martin Lutero.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"ORCOD...", URBI ET ORBI. LA "NUOVA" TEOLOGIA DEI "DUE PAPI"
PER RATZINGER, PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI. L’Acca in fuga
PER UNA RIMEDITAZIONE DELLA "LIBERTA’ DEL CRISTIANO" DI LUTERO, LA LEZIONE E LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
FLS
ANTROPOLOGIA #TEOLOGIA E #STORIOGRAFIA: "SAPERE AUDE!" (#ORAZIO - #KANT).
AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE": MEMORIA DI #MARTIN #LUTERO E DELLA #RIFORMAPROTESTANTE (1517) E DELLA #RIFORMA #ANGLICANA (1534), IN RICORDO DELLA "PRIMA RINASCITA" (GIOACCHINO DA FIORE, FRANCESCO DI ASSISI, E DANTE ALIGHIERI)
IL #NODO ANTROPOLOGICO (E TEOLOGICO-POLITICO) DEL #MATRIMONIO E DELLA #CONOSCENZA "BIBLICA", OGGI (#14DICEMBRE 2024). Ricordando che Lutero e Katharina von Bora si sposarono nel 1525, forse, è bene ricordare che la cultura dominante (meglio, la filosofia egemone) è quella della tradizione socratico-platonica, rilanciata da Niccolò #Cusano (con la sua "dotta ignoranza" e la sua paolina "pace della fede"), e, che, quando Lutero in un’omelia tenuta nel 1531, così parla (v. oltre), fa tremare tutto l’ordine tragico della antropologia e della teologia conosciuta e "giustficata", anche e ancora da un Erasmo da Rotterdam, che confonde "Cristo" con "Socrate"!
IL TEMA DEL #PRESEPE E DEL "#COMENASCONOIBAMBINI. Lutero, in verità, riprende coraggiosamente il filo evangelico (francescano e dantesco) e riscopre l’#alleanza di #fuoco tra l’uomo e la donna, altro che la vecchia o la nuova tragica "alleanza": «La parola di Dio è in realtà iscritta nel coniuge. Quando l’uomo guarda sua moglie come fosse l’unica donna sulla terra, e quando una donna guarda suo marito come se fosse l’unico uomo sulla terra, allora proprio lì siete faccia a faccia con Dio che parla». (cfr. #Luciano Moia, "Riscoperte. Amoris laetitia e Lutero, quegli incroci sorprendenti", Avvenire, 13 dicembre 2024).
BUON NATALE 2024
CRISTIANESIMO E GEOPOLITICA, SENZA PREGIUDIZI, ALLA LUCE ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA DEI "DUE SOLI" (DANTE 2021):
STORIA DI EUROPA, DI IERI E DI OGGI: "THE BOOK OF SIR THOMAS MORE". Partendo dal suo tempo (quasi cento anni dopo), Shakespeare cerca di chiarire il percorso che l’Inghilterra di EnricoVIII ed Elisabetta ha fatto e che cosa ha guadagnato, a partire dagli eventi del 1517 e dopo la rottura con la Chiesa Cattolica e dopo la Riforma Anglicana!
Una possibile chiave interpretativa sta proprio nella natura del conflitto teologico-politico (e nel legame di Tommaso Moro con le indicazioni di san Paolo, e del Papa):
" Voi volete schiacciare gli stranieri [...]"Supponiamo adesso che il re, nella sua clemenza verso i trasgressori pentiti, giudicasse il vostro grave reato limitandosi a punirvi con l’esilio: dove andreste, allora?
Quale paese vi accoglierebbe vedendo la natura del vostro errore? Che andiate in #Francia o nelle #Fiandre, in qualsiasi provincia della #Germania, in #Spagna o in #Portogallo, anzi no, un luogo qualunque #diverso dall’Inghilterra, vi ritroverete inevitabilmente stranieri.
Vi farebbe piacere trovare una nazione dal carattere così barbaro che [...] vi cacciasse via come cani, quasi che Dio non vi avesse creati né vi riconoscesse come suoi figli [...]?". Questo il problema, a mio parere.
Tubinga.
Addio a Eberhard Jüngel, maestro della teologia
Il pensatore luterano è scomparso martedì all’età di 86 anni. Al centro della sua opera come pensare e dire Dio nell’epoca che ne ha sentenziato la morte e l’Amore agapico
di Giuseppe Lorizio (Avvenire, mercoledì 29 settembre 2021)
All’inizio anni ’70 del secolo scorso il teologo di Tubinga Eberhard Jüngel, morto martedì all’età di 86 anni, pubblicava un breve saggio intitolato Tod. Ho sempre pensato che alla morte bisognasse iniziare a pensare da subito e non attendere le fasi finali della vita. Ne fui molto colpito e gli scrissi, anche perché, con padre Xavier Tilliette, stavo scrivendo sull’argomento, in quello che poi sarebbe diventato il mio saggio Mistero della morte come mistero dell’uomo (Dehoniane, 1981). Mi rispose con grande affabilità e dimostrando interesse verso il mio umile lavoro di giovanissimo studente di teologia.
Cosa ho imparato da quel libro? Intanto che «l’essenza della morte è l’irrelazionalità», ossia la solitudine, ma che questa è anche la condizione dell’esistenza autentica. Ma, aggiungeva: «La morte deve essere e deve diventare ciò che l’ha resa Gesù Cristo», ovvero l’attestazione del primato di Dio e non di altri sulla nostra esistenza terrena, perché: «Là dove non possiamo fare nulla, egli è presente per noi». Penso e ne sono profondamente convinto che abbia affrontato la cupa signora di Samarcanda con questo spirito.
L’ho incontrato sia alla Lateranense, nei colloqui teologici ispirati dall’allora rettore Angelo Scola, sia a Tubinga per la presentazione dei risultati della ricerca interconfessionale. Ciò che mi ha stupito nella sua riflessione intorno a Dio mistero del mondo (Queriniana, 1982) è l’attenzione che da parte di un teologo certamente di matrice luterana veniva rivolta alla dimensione cosmico-antropologica della Rivelazione e l’elaborazione della dottrina dell’analogia, ritenuta comunemente monopolio dell’ambito propriamente cattolico-tomista.
Da teologo protestante egli, che pure all’epoca assumeva come interlocutore il pensiero del cattolico Erich Przywara, ha continuato a sostenere una radicale incompatibilità fra analogia entis e analogia fidei, in rapporto alla contrapposizione paolina fra giustizia della legge e giustizia della fede, e ciò in nome di un’assoluta e radicale fedeltà alle originarie intenzioni di Karl Barth, che nella fase dialettica del suo pensiero riteneva l’analogia entis un’invenzione dell’Anticristo. Quest’ultimo ha anche vissuto una radicale conversione a riguardo, approdando all’analogia charitatis, anch’essa analogia entis e analogia fidei nello stesso tempo, in quanto non solo esige di essere pensata nel duplice orizzonte della dimensione cosmico-antropologica e storico-escatologica della Rivelazione. E qui ci viene incontro un ulteriore fondamentale contributo offerto dal pensiero di Jüngel non solo al pensare teologico, ma alla stessa filosofia, in dialogo con Paul Ricoeur: si tratta della metafora come luogo e modalità propria del linguaggio credente. Sicché la “metaforica” diviene per chi scrive la “metafisica dell’Evangelo”.
Questa prospettiva reclama, dietro le spinte sia della critica filosofica all’ontoteologia, sia della rivendicazione teologica della prospettiva credente, l’elaborazione di una “metafisica della carità”, ossia agapica, capace di indicarne l’orizzonte di senso e nella quale la metafora del Padre e del suo rapporto generativo col Figlio e, insieme a Lui, con lo Spirito, possa finalmente assumere la forma dell’“icona verbale”, capace di sconfiggere ogni idolatria e di aiutarci a recuperare l’orizzonte eucologico e poetico originario della metafora, che eccede ogni analogia e ogni ulteriore concettualizzazione, esprimendosi semplicemente nella preghiera che “obbedienti al comando del Salvatore, osiamo” ripetere quotidianamente.
E così torniamo al tema della morte, pensata e vissuta dal teologo, come luogo nel quale sorge un nuovo rapporto con Dio, in quanto Egli stesso, scrive ancora in Morte, «subisce l’irrelazionalità della morte che aliena da Lui gli uomini. Dio si inserisce proprio là dove i rapporti e le relazioni vengono meno». Sicché «dove tutte le relazioni sono state interrotte, solo l’amore ne crea di nuove».
L’irruzione dell’Amore agapico e incondizionato sconfigge la morte e al tempo stessa ri-crea una nuova relazione con Dio e con gli altri, ossia con l’a(A)ltro. E ciò può accadere in quanto «Che Dio sia divenuto uomo implica ch’egli partecipi con l’uomo della miseria della morte», così come accaduto a lui e accadrà a ciascuno di noi.
Intervista a Paolo Ricca
VAI, METTITI IN VIAGGIO
Realizzata da Michele Colafato, Gianni Saporetti (Una Città n° 244 / 2017 novembre)
Già il Concilio aveva fatto sue alcune idee-forza luterane: il valore della parola di Dio, le due mense, word und sacrament, poi il laico che è sacerdote e la collegialità dei vescovi; il depotenziamento di un primato del papato, che non trova alcun fondamento nelle scritture e che resta l’ostacolo maggiore all’incontro fra le chiese cristiane; il rapporto con la politica che divise le chiese riformate, causando, con l’avallo di Lutero, la tragica repressione dell’anabattismo. Intervista aPaolo Ricca è pastore e teologo valdese. Ha insegnato dal 1976 al 2002 Storia della Chiesa alla Facoltà valdese di teologia.
È il cinquecentenario della Riforma e forse per la prima volta la chiesa cattolica si pone il problema dell’eredità della riforma. Questo in cosa si esprime e a cosa può portare?
Guarda, si spiega innanzitutto con il fatto che il Concilio vaticano secondo ha accolto nei suoi documenti tutta una serie di principi che sono praticamente protestanti. Naturalmente inquadrati nella sintesi cattolica sono depotenziati, non hanno più quell’effetto esplosivo, dirompente, che avevano avuto nel sedicesimo secolo, però sono lì. Quali sono? Intanto il ruolo della parola di Dio, il fatto che nel documento sulla sacra liturgia si parli delle due mense, la mensa eucaristica e la mensa della parola, quindi word und sacrament, che è il principio luterano, parola e sacramento. In secondo luogo, l’idea della chiesa come popolo, come assemblea, e non più come società gerarchicamente ordinata, in cui il clero è la parte costitutiva e il laico se c’è bene, se non c’è fa lo stesso. Anche questo è un capovolgimento totale. L’idea della chiesa come assemblea è l’idea della confessione di Augusta del 1530, la prima confessione di fede luterana. Poi la stessa idea della chiesa come mistero, che lì nel documento conciliare viene sviluppata secondo una mistica della chiesa, corpus umano, divino, il corpo di cristo, eccetera, in sé può benissimo essere sviluppata in direzione luterana o protestante, cioè nel senso che la chiesa che vedi non corrisponde necessariamente alla chiesa che è; c’è uno scarto tra la chiesa visibile, organizzata, quella appunto papale, vescovile, conciliare, che appare continuamente in televisione, e la chiesa reale, quella che Lutero chiamava l’assemblea dei cuori.
Poi la collegialità. La collegialità è una categoria antica, precede la Riforma ma nella Riforma è diventata principio costitutivo dell’ecclesiologia di Calvino: nella chiesa non c’è nessun ministero, nessun ufficio che sia solo personale, tutti gli organismi sono collegiali, dal livello più basso, parrocchiale, al livello più alto, sinodale. Il governo della chiesa è collegiale. È il sacerdozio comune dei credenti, dei fedeli, com’è chiamato nella dottrina di Lutero, che sostiene che ogni laico è un sacerdote, che ogni laico può, non è che deve, ma può esercitare qualunque ministero cristiano, compresa la celebrazione della messa, dell’eucarestia, quindi confessare, assolvere, predicare, giudicare, eccetera. Il laico in quanto battezzato diventa partecipe del sacerdozio, della regalità e della profezia di Cristo. Cristo sacerdote, re, profeta: il battesimo ti innesta in questa realtà di Cristo. Una delle grandi parole del Concilio è stata "la collegialità dei vescovi”, poi lì, come ho detto, è tutto depotenziato, però c’è.
Quindi, come vedete, la Riforma era già entrata in casa cattolica attraverso i documenti. Per esempio, nella Gaudium et spes, sulla coscienza, ci sono affermazioni che qualunque protestante poteva scrivere e sottoscrivere: la libertà religiosa è stato un cavallo di battaglia del protestantesimo liberale, mentre mai la chiesa cattolica ne aveva parlato. Mai! L’ha fatto per la prima volta al Concilio vaticano II. E così via, insomma.
Le mie sono considerazioni personali che possono anche essere sbagliate, ma a me sembra che per la prima volta la Riforma protestante sia entrata a far parte dell’orizzonte del cattolico. Penso cioè che il cattolico medio consideri ormai che la Riforma riguarda anche lui, e non solo i protestanti, che sia un’interpellazione alla quale anche lui, come cattolico, debba rispondere.
Ma non temi una reazione di tipo identitario?
Sì, certo. Io parlo del cattolicesimo che conosco, non di quello che non conosco, che è quello che odia il papa, che dice che il papa è eretico. Quindi può darsi che la mia visione sia parziale, che valga solo per una parte del cattolicesimo, però, ripeto, quello che ho descritto è un fatto. L’altro fatto è legato a questo pontificato. Un papa che va a Lund, a partecipare al culto inaugurale delle celebrazioni della Riforma come se fosse un luterano, beh, queste sono cose che non solo non sono mai accadute ma hanno un valore simbolico immenso.
Puoi dirci qualcosa su questo?
Mentre fino a ieri, il papato è stato considerato dagli ortodossi e dai protestanti come una struttura inaccettabile, una struttura, cioè, che non poteva avere un futuro ecumenico, se questo pontificato diventasse un modello per pontificati futuri, e questa, lo si capisce, è la condizione, le cose cambierebbero assai. Qual è il punto fondamentale? È che questo papa non utilizza e non dà valore ai poteri che ha, che sono poteri spropositati, immensi. Ha inaugurato il pontificato dicendo che era il vescovo di Roma, non il vescovo del mondo, non il signore dell’universo, ma della diocesi di Roma. Ecco, se questo diventasse il modello allora si potrebbe riaprire il dossier del rapporto tra chiese cristiane e papato. Lo diceva anche Paolo VI, che è stato un grande papa e soffriva per i poteri che aveva: "So che purtroppo il papato è l’ostacolo maggiore all’unità cristiana”. Lo disse in un discorso alla curia. E quindi se questo modello papale dovesse affermarsi, allora si aprirebbe uno spazio del tutto nuovo.
Che poi non sarebbe un modello neppure così nuovo...
Infatti. Sarebbe nuovo rispetto a tutto il millennio che sta alle nostre spalle, da Gregorio VII in avanti. Nel Dictatus Papae di Gregorio VII, uno dei 27 articoli diceva che l’imperatore doveva baciare le pantofole del papa. E solo quelle, non osasse baciarne altre. Guarda, un capolavoro: "Solo quelle”! Ecco, quel tipo di papato può solo morire.
In un’altra intervista ci raccontavi questa gerarchia del bacio.
Sì, ho fatto in tempo a vedere non l’imperatore, ma tutti i cardinali che baciavano l’anello. E ho visto la gerarchia del bacio, una cosa che mi ha lasciato esterrefatto. Quando Paolo VI riaprì il Concilio (perché il Concilio con la morte di Giovanni si chiuse), ci fu appunto la liturgia dell’inizio che comprendeva anche l’atto di sottomissione all’autorità del papa. I cardinali, uno dopo l’altro, salirono, si inginocchiarono e baciarono l’anello, poi una rappresentanza dei vescovi baciò il ginocchio, e infine una rappresentanza degli ordini religiosi, monastici e non, una dozzina, baciarono la pantofola. Quindi piena sottomissione di tutti, ma all’interno di questa una gerarchia. Una gerarchia nella gerarchia: allucinante. Io che ero poi un ragazzino, avevo 25 anni, mi dicevo: "Ma dove sono?”. Avevo visto anche quella che adesso non esiste più, la sedia gestatoria, con Giovanni XXIII, quando ci fu l’inaugurazione del Concilio. Tutti quegli schiavi sotto, in ventiquattro, a reggere questa immensa pedana, con sopra un trono e con a fianco il ventaglio tutto pennuto. Un pascià orientale. E quello sarebbe il successore di Gesù Cristo! Il vicario di Gesù Cristo! Allora si capisce che qualcuno abbia pensato che invece era l’Anticristo. Va beh, ora tutto questo è passato.
Dicevi che questo c’è solo da un certo punto in poi. Prima il capo della chiesa era più accettabile?
Prima non era così. Gregorio Magno, sesto secolo, è stato un papa straordinario, un asceta, un uomo della Bibbia, ha scritto dei commentari stupendi alla Sacra scrittura, ha mandato i monaci in mezza Europa a evangelizzare. Il papato era tutta un’altra cosa, erano dei veri pastori, non c’era nulla di quello che è venuto dopo, quando, nel conflitto con l’impero, la chiesa ha affermato la sua superiorità all’impero, "il sole e la luna”, la chiesa è il sole, l’impero la luna, e ha rivendicato con la famosa donazione di Costantino il fatto di detenere il potere politico e delegarlo. Tutto era in delega: la spada del potere temporale apparteneva alla chiesa, che lo affidava al re e al soldato, purché lo esercitassero ad nutum sacerdotis, secondo la direttiva, le indicazioni del sacerdote, cioè del papa. E di questo lo stato della Città del Vaticano è ancora un residuo. Ecco, tutto questo deve morire.
Ma quale può essere un compromesso, come ci si può venire incontro?
Un’unificazione nel senso di avere un unico corpo non è pensabile, ma avere la "diversità riconciliata” come viene chiamata da questo papa, che ne accenna senza elaborarla nell’Evangelii Gaudium, questo sì, è possibile. Diversità riconciliata, quindi rispetto delle diversità, e però, appunto, riconciliata, che vuol dire che ogni chiesa, o tradizione o confessione, riconosce l’altra come parte di un’unica chiesa di Cristo. Così il papato, nato all’origine come principio di unità dei vescovi e diventato invece nella storia motivo di divisione con l’Oriente e con il protestantesimo, potrebbe ritornare a quel ruolo originario. Il papa dovrebbe dire: "Io in questi millecinquecento anni, ho servito l’unità cattolica, d’ora in avanti voglio mettermi al servizio dell’unità cristiana”. E non sarebbe un rinnegamento, al contrario, perché il papato era nato per questo motivo.
Da dove veniva questa idea del papato?
Qui il discorso sarebbe lungo. Questa idea del papato non viene certo dalla Bibbia, né dal Nuovo Testamento, né dalla famosa scritta che c’è nella cupola di S. Pietro, "Tu sei Pietro...”. È nato prima il papato e poi è stato giustificato con la parola di Gesù in Matteo 16, parola che col papato non c’entra proprio niente. -Allora, se non viene dalla Bibbia da dove viene? Viene da Roma. Nel senso che il papato attua la cristianizzazione del principio romano dell’unità dell’impero. Per tenere insieme un impero così vasto, così articolato, con tante differenze di lingua e di religione (a Roma si parlava più greco che latino, Paolo scrive ai cristiani di Roma in greco), che lo rendevano un impero veramente ecumenico, non poteva bastare la grande tolleranza di Roma, e neppure era sufficiente un grande esercito; insieme a questo ci voleva un potere assoluto, che fosse superiore alla legge, superiore alle istituzioni del senatus populusque romanus. Paolo si appella a Cesare, non al senato, non al popolo romano. Si appella a Cesare perché è un potere assoluto, cioè superiore a qualunque altra istanza. Ecco, i vescovi di Roma si sono detti che quello era un principio buono anche per il cristianesimo, dovevano cristianizzarlo. E quindi hanno cominciato ad affermare il primato del vescovo di Roma, che diventava così più vescovo di tutti gli altri. E provocarono un putiferio di reazioni, a cominciare da Cipriano, di cui poi hanno manomesso il famoso scritto sull’unità della chiesa interpolando una serie di passi, per far sì che sembrasse un riconoscimento del primato del vescovo di Roma. Al contrario Cipriano sosteneva che tutti i vescovi avevano lo stesso identico potere, non c’era nessun super vescovo che potesse comandare sugli altri. Se tu vai alla chiesa del Laterano, nel vestibolo iniziale, troverai la scritta, ecclesia romana, mater et caput omnium ecclesarium. E questo processo ci ha messo diciotto secoli per arrivare al dogma, per arrivare a sancire come dogma, come articolo di fede, il primato del papa. Ma alla radice di tutto questo c’è questa idea geniale che per tenere insieme un corpo così vasto ci voleva un potere assoluto. Ma la domanda è: col cristianesimo tutto questo cosa c’entra? Niente! Che ci debba essere un principio di unità che si esprime attraverso una persona, una istituzione, questo sì, va bene. Ripeto, il papato è nato per questo motivo, non perché i vescovi di Roma diventassero più superbi dei vescovi di Antiochia o di Alessandria d’Egitto.
Ecco, se il papato si proponesse non più come principio di unità cattolica, ma di unità cristiana, e deponesse i poteri assurdi che la chiesa cattolica gli ha attribuito, trovando forme accettabili, che sono da inventare, allora credo che diventerebbe possibilissimo entrare in una fase completamente nuova.
Intervista a Paolo Ricca
VAI, METTITI IN VIAGGIO
Realizzata da Michele Colafato, Gianni Saporetti (Una Città n° 244 / 2017 novembre)
Già il Concilio aveva fatto sue alcune idee-forza luterane: il valore della parola di Dio, le due mense, word und sacrament, poi il laico che è sacerdote e la collegialità dei vescovi; il depotenziamento di un primato del papato, che non trova alcun fondamento nelle scritture e che resta l’ostacolo maggiore all’incontro fra le chiese cristiane; il rapporto con la politica che divise le chiese riformate, causando, con l’avallo di Lutero, la tragica repressione dell’anabattismo. Intervista aPaolo Ricca è pastore e teologo valdese. Ha insegnato dal 1976 al 2002 Storia della Chiesa alla Facoltà valdese di teologia.
Il rapporto con la politica ha tormentato anche il mondo della Riforma?
Sì, parliamo dell’anabattismo, di cui i battisti sono gli eredi, non diretti, ma spirituali sì. L’anabattismo, o Riforma radicale, come viene anche chiamato dagli studiosi, pur essendo nato dalla Riforma, con la predicazione di Zwingli a Zurigo, diventa il nemico numero uno della Riforma di Lutero e Calvino, quella detta "magisteriale” perché si è appoggiata al magistrato, cioè al potere politico. Questo è un punto fondamentale del dissidio che porterà a una vera tragedia.
La Riforma fu un fenomeno di chiesa, nato nella chiesa e per la chiesa, da esigenze religiose, unicamente religiose, però la sua affermazione dipese dal fatto che venne adottata, per scelta dell’autorità politica, in staterelli che componevano l’impero cristiano di Carlo V, in Germania e anche in Svizzera. Un certo numero di principi e di consigli cittadini nelle città libere, che erano città relativamente democratiche, scelsero questo tipo di cristianesimo, e non si può negare che questo favorì fortemente la sua diffusione, al pari di un grande lavoro di predicazione e di insegnamento. Così, del resto, è stato per la Church of England, la chiesa anglicana: quel tipo di cristianesimo diventa il cristianesimo dell’Inghilterra, o della Scozia. Ma questo è possibile soltanto con l’intervento dell’autorità politica.Ecco, questo è uno dei due punti chiave della critica dell’anabattismo. L’altro è il battesimo dei bambini che loro consideravano non biblico, perché non attestato nella Sacra scrittura dove i battesimi raccontati, a cominciare da quello di Gesù, sono tutti battesimi di credenti, di gente adulta, che decidono consapevolmente di chiederlo. Quindi "Riforma radicale” perché accusavano Lutero di non esserlo abbastanza: "Tu dici che la Bibbia deve essere la prima regola, però ti contraddici facendo valere la tradizione contro la Bibbia”.
L’altra critica riguardava appunto il ruolo dello stato nella questione della gestione religiosa. Gli anabattisti dicevano: lo stato non c’entra, la chiesa è una cosa autonoma che non deve essere appoggiata, se il principe vuole frequentare la chiesa va bene, ma non deve mettere il suo potere politico al servizio della causa religiosa, perché questa deve andare avanti con le proprie forze, la forza della fede, della convinzione religiosa. La grande parola degli anabattisti era absond, separazione, la "chiesa separata”. Mentre prima nel corpus cristiano era mescolata con le strutture della società, adesso ci voleva la separazione. E questo portava gli anabattisti a rifiutare qualunque lavoro della polis, della città, a cominciare da quello del magistrato. Loro dicevano: "Se io divento magistrato e la legge prevede la condanna a morte per tutta una serie di reati -e a quel tempo, era così, non ci pensavano due volte!- allora io dovrò applicare la legge e quindi condannare a morte una persona. Questo è contro la mia coscienza cristiana, non lo posso fare, quindi rinuncio a fare il magistrato”. Ecco, qui c’è un punto fondamentale. Qual era l’obiezione di Lutero? Per Lutero la conseguenza di questo absonderung era gravissima. E arriva a dire, con un paradosso, che è più importante la salvezza della città che la salvezza della tua anima. Lutero in questo è più moderno: uno degli aspetti della vocazione cristiana è proprio quello di servire la città, cioè tutti, e non soltanto la propria santità. Quindi c’era un conflitto che tutto sommato riguardava problemi veri, era un conflitto sano, su posizioni diverse, anche opposte, entrambe molto serie. La tragedia qual è stata? Che mentre Lutero in un primo tempo aveva detto che bruciare gli eretici era contro lo Spirito santo -questa è una delle 41 proposizioni in base alle quali era stato scomunicato e che gli si chiedeva di ritrattare- a un certo punto, visto il dilagare dell’anabattismo, che era un movimento di martiri, un movimento popolare che si stava diffondendo a macchia d’olio, invocò il soccorso del potere politico per reprimerlo. E così fu e l’anabattismo fu praticamente annientato.
Tutti i teologi anabattisti, e ce n’erano, anche se il movimento era sostanzialmente popolare, furono giustiziati (ho scritto delle pagine su questo perché in Italia nessuno ne sa nulla). Chi bruciato, chi impiccato, chi affogato. Tutti, tranne uno che morì nel suo letto. Quindi sì, Lutero rinnegò la sua posizione, anche se lui non chiese mai la morte, quello mai, però chiedeva l’espulsione, che voleva dire perdere la casa, il lavoro, dover andar via senza sapere dove. Era comunque una tragedia.
Torniamo all’attualità. Mi pare che tu abbia scritto che al di là degli articoli di fede, la novità più significativa della Riforma sia stata quella di un rilancio della predicazione. E della conoscenza del Vangelo. E scrivendo questo mi pare che tu riconoscessi che il punto principale poi è il rapporto con il mondo, con le persone, con gli uomini, più o meno cristiani, più o meno cattolici o più o meno quello che sono. Secondo te, adesso, al giorno d’oggi, le chiese cristiane che cosa possono portare al mondo? Qui, per esempio, mi torna in mente Bonhoeffer, che diceva, se non sbaglio, che bisogna far finta che la religione non ci sia. E che non bisogna dare per scontato nulla, nel momento in cui ci si apre al mondo.
Sì, tutto quello che abbiamo detto finora in fin dei conti riguarda solo i cristiani. Sono problemi che per quanto abbiano una loro suggestione, riguardano pur sempre la "cucina interna”, mentre il vero problema è il mondo, è l’evangelizzazione, il messaggio al mondo. E qui le cose da affrontare diventano ben più gravi. Il vero nodo è il rapporto con la secolarizzazione. Dunque, ci sono due temi. Uno, quello che tu evochi, è la centralità del messaggio. È vero che la Riforma ha un poco spostato il baricentro della fede dal sacramento alla parola, alla predicazione, all’annuncio. Questo è importante perché effettivamente la rivelazione di Dio, se vogliamo dire così, cioè il suo apparire nella storia degli uomini, è un apparire attraverso un logos, una parola, un messaggio. Un messaggio che si iscrive nella storia del popolo di Israele attraverso l’esodo, l’uscita cioè, da dove sei per incamminarti verso una meta, che poi non raggiungi mai. Perché questo è de facto: la terra promessa è la terra sempre promessa e mai raggiunta.
Dove Mosè non entra mai.
Mosè non entra mai, Israele entra ma poi esce, viene cacciato. E si accorge che la terra non è quella, che la terra promessa, come dice Paolo, è il cielo, tra virgolette. Dunque, allora, c’è l’esodo. Questo è fondamentale: tu ti muovi da dove sei, non puoi restare lì. Anche Abramo, lui stava benissimo, era a posto, aveva il suo clan, le sue cose, le sue divinità, aveva tutto: "No, parti!”. Dio è colui che ti fa partire, che non ti lascia dove sei, che ti mette in viaggio. È l’ebreo errante. Però è un cammino non assurdo, non insensato, è anche regolato, c’è una legge, ma c’è comunque una parola che ti chiama, che ti spinge. E questo oggi resta attualissimo perché l’uomo è tale attraverso la parola. In fondo, il fatto che ci sia la guerra è la sconfitta dell’umano. Perché all’uomo dovrebbe bastare la parola. Il fatto che io debba usare la violenza per avere ragione su di te, oltre che un delitto, è la mia sconfitta. Quindi questo che dicevi del messaggio, del fatto che tutto si gioca sulla parola, che la nostra esistenza si gioca così, è una cosa importantissima, costitutiva, indipendentemente adesso dal contenuto della parola.
Che cosa porti al mondo? Una parola. Una parola! Non ho altro. Perché credo che nella parola ci sia tutto. O comunque l’essenziale. E che cos’è questa parola? Allora, in un’ottica cristiana la parola è Gesù, la sua vita, la sua storia, la sua morte, la risurrezione. Questa è la parola. Dove mi porta questa parola? Mi porta a due punti cruciali: il primo è che in Gesù l’uomo, l’umanità e la divinità si incontrano e confondono. Ecco. Quindi è una finestra sul mistero di Dio. Tu puoi dire che non vuoi guardare, va bene, non guardare, ma io ti dico che è una finestra da dove puoi vedere qualcosa, Dio come amore, Dio come libertà, eccetera. E due, il modello umano, cioè l’umanità di Gesù, come umanità possibile. Tu non credi in Dio? Va bene, però l’uomo è una realtà; Dio è una favola? Va bene, ma l’uomo non è una favola. Cosa vuol dire uomo, che cosa è umano, che cosa è disumano, che cosa è l’antiuomo: io ti dico che qui c’è uno specchio, dove tu puoi vedere che cosa può significare umanità. Ecco, credo che questo sia un discorso non settario, non apologetico, non prepotente. Un discorso che si può fare e che val la pena fare, io credo; non è un lusso, perché moriamo di disumanità.
Bonhoeffer ha intuito in profondità, in tempi non sospetti, quando nessuno ci pensava, il carattere a-religioso del mondo prossimo venturo, cioè il nostro, e allora ha suggerito di reinterpretare i concetti biblici in termini laici. Lui purtroppo non l’ha potuto fare perché è stato ucciso. Sarebbe un po’ il nostro compito. Un compito arduo, perché non si può, credo io, in tutta umiltà, non si può tradurre tutto in termini laici. Per dire, il Padre nostro è una preghiera sostanzialmente laica, perché parla del perdono, del pane quotidiano, della libertà dal male, che sono temi laici, però c’è anche il nome di Dio, da santificare, "venga il tuo regno”; sono metafore finché vuoi però è linguaggio religioso. Quindi ci sono dei limiti. Però l’importanza di Bonhoeffer è che lui ci aiuta a sentirci più liberi e a non ingabbiare Dio nella religione e a capire che c’è una laicità di Dio. E allora da lì si può lavorare, si può andare avanti. Ecco, io penso che tutto questo non sia un lusso per anime troppo raffinate, penso che sia pane, proprio pane quotidiano. Pensiamo alla sofferenza dell’Europa, che è così evidente che non sa prendere una decisione praticamente su nulla. Quando tu non sai decidere è perché non hai una visione. Quella che avevi l’hai persa. E non voglio certo dire che quella dell’Europa colonialista, imperialista, fosse quella giusta, voglio dire che l’uomo ha, deve avere, una dimensione profonda. L’appiattimento della coscienza non aiuta.
(a cura di Michele Colafato e Gianni Saporetti)
#ACHEGIOCOGIOCHIAMO?! #TRACCE PER UNA #SVOLTA_ANTROPOLOGICA.
#EUROPA #SPAGNA #DUE ANNI DOPO LA MORTE DI #CARLOV nel 1560, in #Italia, a #Roma si pubblica il testo di #Anatomia di #GiovanniValverde: si riconosce il ruolo attivo della donna nella #concezione del problema #comenasconoibambini
La sollecitazione di #Michelangelo (1512), #GiovanniValverde (1560), #LuigiCancrini (2005) e #MarioDraghi (2021) a finirla con "il farisaico rispetto della #legge"
#VITAEFILOSOFIA. #COMENASCONOIBAMBINI (#ENZOPACI). Fermare il #giogo, #uscire dall’orizzonte della #tragedia e imparare a #contare
FLS
Primato e infallibilità
A 150 anni dalla proclamazione dei dogmi
di Sergio Centofanti (L’Osservatore Romano, 17 luglio 2020)
Centocinquant’anni fa, il 18 luglio 1870, veniva promulgata la costituzione Pastor Aeternus che definiva i due dogmi del primato del Papa e dell’infallibilità pontificia.
Lunghe e agitate discussioni
La costituzione dogmatica venne approvata all’unanimità dai 535 padri conciliari presenti «dopo lunghe, fiere e agitate discussioni», come ebbe a dire Paolo VI durante un’udienza generale, descrivendo quella giornata come «una pagina drammatica della vita della Chiesa, ma non per questo meno chiara e definitiva» (Udienza generale 10 dicembre 1969). Ottantatré i padri conciliari che non parteciparono al voto. L’approvazione del testo arrivò nell’ultimo giorno del concilio Vaticano i, sospeso in seguito alla guerra franco-prussiana iniziata il 19 luglio 1870 e prorogato “sine die” in seguito alla presa di Roma da parte delle truppe italiane, il 20 settembre di quello stesso anno, che sancì di fatto la fine dello Stato pontificio. La costituzione rispecchia una posizione intermedia tra le varie riflessioni dei partecipanti, escludendo per esempio che la definizione di infallibilità fosse estesa integralmente anche alle encicliche o ad altri documenti dottrinali. Ai contrasti emersi nel concilio, seguì lo scisma dei vetero-cattolici che non vollero accettare il dogma sul magistero infallibile del Papa.
Il dogma sulla razionalità e soprannaturalità della fede
I due dogmi vennero proclamati dopo quello sulla razionalità e la soprannaturalità della fede, contenuto nell’altra costituzione dogmatica del concilio Vaticano i Dei Filius del 24 aprile 1870. Il testo afferma che «Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza al lume naturale della ragione umana attraverso le cose create; infatti, le cose invisibili di Lui vengono conosciute dall’intelligenza della creatura umana attraverso le cose che furono fatte (Romani, 1, 20)». Questo dogma - spiegava Paolo VI nell’udienza del 1969 - riconosce che «la ragione, con le sue sole forze, può raggiungere la conoscenza certa del Creatore attraverso le creature. La Chiesa difende così, nel secolo del razionalismo, il valore della ragione», sostenendo da una parte «la superiorità della rivelazione e della fede sulla ragione e sulle sue capacità», ma dichiarando, d’altra parte, che «nessun contrasto può esserci tra verità di fede e verità di ragione, essendo Dio la fonte dell’una e dell’altra».
Il dogma sul primato
Nella Pastor Aeternus, Pio IX, prima della proclamazione del dogma sul primato, ricorda la preghiera di Gesù al Padre perché i suoi discepoli siano «una cosa sola»: Pietro e i suoi successori sono «l’intramontabile principio e il visibile fondamento» dell’unità della Chiesa. Quindi, afferma solennemente: «Proclamiamo dunque ed affermiamo, sulla scorta delle testimonianze del Vangelo, che il primato di giurisdizione sull’intera Chiesa di Dio è stato promesso e conferito al beato Apostolo Pietro da Cristo Signore in modo immediato e diretto (...) Ciò che dunque il Principe dei pastori, e grande pastore di tutte le pecore, il Signore Gesù Cristo, ha istituito nel beato Apostolo Pietro per rendere continua la salvezza e perenne il bene della Chiesa, è necessario, per volere di chi l’ha istituita, che duri per sempre nella Chiesa la quale, fondata sulla pietra, si manterrà salda fino alla fine dei secoli (...) Ne consegue che chiunque succede a Pietro in questa Cattedra, in forza dell’istituzione dello stesso Cristo, ottiene il Primato di Pietro su tutta la Chiesa (...) tutti, pastori e fedeli, di qualsivoglia rito e dignità, sono vincolati, nei suoi confronti, dall’obbligo della subordinazione gerarchica e della vera obbedienza, non solo nelle cose che appartengono alla fede e ai costumi, ma anche in quelle relative alla disciplina e al governo della Chiesa, in tutto il mondo. In questo modo, avendo salvaguardato l’unità della comunione e della professione della stessa fede con il Romano Pontefice, la Chiesa di Cristo sarà un solo gregge sotto un solo sommo pastore. Questa è la dottrina della verità cattolica, dalla quale nessuno può allontanarsi senza perdita della fede e pericolo della salvezza».
Il Magistero infallibile del Papa
Nel primato del Papa - scrive Pio IX - «è contenuto anche il supremo potere di magistero», conferito a Pietro e ai suoi successori «per la salvezza di tutti», come «conferma la costante tradizione della Chiesa (...) Ma poiché proprio in questo tempo, nel quale si sente particolarmente il bisogno della salutare presenza del ministero Apostolico, si trovano parecchie persone che si oppongono al suo potere, riteniamo veramente necessario proclamare, in modo solenne, la prerogativa che l’unigenito Figlio di Dio si è degnato di legare al supremo ufficio pastorale. Perciò Noi, mantenendoci fedeli alla tradizione ricevuta dai primordi della fede cristiana, per la gloria di Dio nostro Salvatore, per l’esaltazione della religione Cattolica e per la salvezza dei popoli cristiani, con l’approvazione del sacro Concilio proclamiamo e definiamo dogma rivelato da Dio che il Romano Pontefice, quando parla ex cathedra, cioè quando esercita il suo supremo ufficio di Pastore e di Dottore di tutti i cristiani, e in forza del suo supremo potere Apostolico definisce una dottrina circa la fede e i costumi, vincola tutta la Chiesa, per la divina assistenza a lui promessa nella persona del beato Pietro, gode di quell’infallibilità con cui il divino Redentore volle fosse corredata la sua Chiesa nel definire la dottrina intorno alla fede e ai costumi: pertanto tali definizioni del Romano Pontefice sono immutabili per se stesse, e non per il consenso della Chiesa».
Quando ricorre l’infallibilità
Giovanni Paolo II ha spiegato il senso e i limiti dell’infallibilità nell’udienza generale del 24 marzo 1993: «L’infallibilità - ha affermato - non è data al Romano Pontefice come a persona privata, ma in quanto adempie l’ufficio di pastore e di maestro di tutti i cristiani. Egli inoltre non la esercita come avente l’autorità in se stesso e da se stesso, ma “per la sua suprema autorità apostolica” e “per l’assistenza divina a lui promessa nel Beato Pietro”. Infine, egli non la possiede come se potesse disporne o contarvi in ogni circostanza, ma solo “quando parla dalla cattedra”, e solo in un campo dottrinale limitato alle verità di fede e di morale e a quelle che vi sono strettamente connesse (...) il Papa deve agire come “pastore e dottore di tutti i cristiani”, pronunciandosi su verità riguardanti “fede e costumi”, con termini che manifestino chiaramente la sua intenzione di definire una certa verità e di richiedere la definitiva adesione ad essa di tutti i cristiani. È quanto avvenne - per esempio - nella definizione dell’Immacolata Concezione di Maria, circa la quale Pio IX affermò: “È una dottrina rivelata da Dio e dev’essere, per questa ragione, fermamente e costantemente creduta da tutti i fedeli”; o anche nella definizione della Assunzione di Maria Santissima, quando Pio XII disse: “Con l’autorità di Nostro Signore Gesù Cristo, dei Beati Apostoli Pietro e Paolo, e con la nostra autorità, dichiariamo e definiamo come dogma divinamente rivelato... ecc.”. A queste condizioni si può parlare di magistero papale straordinario, le cui definizioni sono irreformabili “di per sé, non per il consenso della Chiesa” (...) I Sommi Pontefici possono esercitare questa forma di magistero. E ciò è di fatto avvenuto. Molti Papi però non lo hanno esercitato».
Cos’è un dogma
I dogmi sono verità di fede che la Chiesa insegna come rivelate da Dio (cfr. Catechismo della Chiesa cattolica, 74-95). Sono punti fermi del nostro credere. I principali sono questi: Dio è Uno e Trino; il Padre è creatore di tutte le cose; Gesù, il Figlio, è vero Dio e vero uomo, incarnato, morto e risorto per la nostra salvezza; lo Spirito Santo è Dio; la Chiesa è una, così come uno è il Battesimo. E poi ancora: il perdono dei peccati, la risurrezione dei morti, l’esistenza di Paradiso, Inferno e Purgatorio, la transustanziazione, la maternità divina di Maria, la sua verginità, la sua Immacolata concezione e la sua Assunzione. Tutte queste verità non sono astratte e fredde, ma vanno comprese nella grande verità di Dio che è amore e vuole partecipare la vita divina alle sue creature. Gesù rivela quali sono i comandamenti più grandi: l’amore di Dio e del prossimo (Matteo, 22, 36-40). Alla fine della vita saremo giudicati sull’amore.
Dogmi e sviluppo della dottrina
Un dogma, dunque, è un punto saldo per la vita di fede. Viene definito dal Magistero della Chiesa che lo riconosce nella Sacra Scrittura come rivelato da Dio e in stretto legame con la Tradizione. La Tradizione, tuttavia, non è qualcosa di immobile e statico, ma - come dice Giovanni Paolo II (Lettera apostolica Ecclesia Dei) sulla scia dell’ultimo concilio - è viva e dinamica in quanto cresce l’intelligenza della fede. Non cambiano i dogmi, ma grazie allo Spirito Santo comprendiamo sempre di più l’ampiezza e la profondità delle verità di fede. Così, Papa Wojtyła può affermare «che l’esercizio del magistero concretizza e manifesta il contributo del Romano Pontefice allo sviluppo della dottrina della Chiesa» (Udienza generale, 24 marzo 1993).
Primato, collegialità, ecumenismo
Paolo VI, nell’udienza del 1969, rivendicava l’attualità del concilio Vaticano i e la connessione con il concilio successivo: «I due Concili Vaticani, primo e secondo, sono complementari» anche se differiscono non poco «per tanti motivi». Così, l’attenzione alle prerogative del Pontefice nel Vaticano i viene estesa nel Vaticano II a tutto il popolo di Dio con i concetti di «collegialità» e «comunione», mentre la focalizzazione sull’unità della Chiesa che ha in Pietro il punto di riferimento visibile si sviluppa in un forte impegno al dialogo ecumenico.
Tanto che Giovanni Paolo II nella Ut unum sint può lanciare un appello alle Comunità cristiane affinché si trovi una forma di esercizio del primato che, «pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova», come «servizio di amore riconosciuto dagli uni e dagli altri» (Ut unum sint, 95). E Papa Francesco nella Evangelii gaudium parla di una «conversione del papato». «Il Concilio Vaticano II - osserva - ha affermato che, in modo analogo alle antiche Chiese patriarcali, le Conferenze episcopali possono “portare un molteplice e fecondo contributo, acciocché il senso di collegialità si realizzi concretamente” (Lumen gentium, 23). Ma questo auspicio non si è pienamente realizzato, perché ancora non si è esplicitato sufficientemente uno statuto delle Conferenze episcopali che le concepisca come soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale. Un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria» (Evangelii gaudium, 32). E occorre ricordare che, secondo quanto affermato dal concilio Vaticano II, «l’infallibilità promessa alla Chiesa risiede pure nel corpo episcopale quando esercita il supremo magistero col successore di Pietro» (Lumen gentium, 25).
Amare il Papa e la Chiesa è costruire su Cristo
Al di là dei dogmi, Pio X ricordava, in una udienza del 1912, la necessità di amare il Papa e di obbedirgli e si diceva addolorato quando questo non accadeva. Don Bosco esortava i suoi collaboratori e i suoi ragazzi a custodire nel cuore i “tre amori bianchi”: l’Eucaristia, la Madonna e il Papa.
E Benedetto XVI il 27 maggio 2006, parlando a Cracovia con i ragazzi cresciuti con Giovanni Paolo II, spiega in parole semplici quanto affermano quelle verità di fede proclamate nel lontano 1870: -«Non abbiate paura a costruire la vostra vita nella Chiesa e con la Chiesa! Siate fieri dell’amore per Pietro e per la Chiesa a lui affidata. Non vi lasciate illudere da coloro che vogliono contrapporre Cristo alla Chiesa! C’è un’unica roccia sulla quale vale la pena di costruire la casa. Questa roccia è Cristo. C’è solo una pietra su cui vale la pena di poggiare tutto. Questa pietra è colui a cui Cristo ha detto: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (Matteo, 16, 18). Voi giovani avete conosciuto bene il Pietro dei nostri tempi. Perciò non dimenticate che né quel Pietro che sta osservando il nostro incontro dalla finestra di Dio Padre, né questo Pietro che ora sta dinanzi a voi, né nessun Pietro successivo sarà mai contro di voi, né contro la costruzione di una casa durevole sulla roccia. Anzi, impegnerà il suo cuore ed entrambe le mani nell’aiutarvi a costruire la vita su Cristo e con Cristo».
Chiesa.
Il primato del Papa e l’infallibilità, i due dogmi compiono 150 anni
Approvati dal Concilio Vaticano I, affrontano temi dibattuti per secoli. Lo storico Fantappiè: una scelta per ribadire la sovranità spirituale della Chiesa. Il Vaticano II aprirà poi alla collegialità
di Filippo Rizzi (Avvenire, sabato 18 luglio 2020)
Era il 18 luglio 1870, esattamente centocinquanta anni fa, quando veniva promulgata la Costituzione Pastor Aeternus approvata dal Concilio Vaticano I. Con questa Costituzione il Concilio presieduto dal futuro beato il papa Pio IX ha definito due dogmi della Chiesa cattolica: il primato di giurisdizione del Vescovo di Roma e l’infallibilità papale. Un evento di portata storica che suscitò reazioni fortissime sia all’esterno sia in alcuni settori della Chiesa, provocando lo scisma dei “vecchi cattolici”.
Il documento venne approvato due mesi prima della fine del potere temporale dei Papi che avvenne con l’ingresso delle truppe piemontesi a Porta Pia a Roma.
A giudizio di Carlo Fantappiè, docente di storia del diritto canonico alla Pontificia Università Gregoriana di Roma, il testo conciliare «rappresentò il coronamento di un processo di verticalizzazione interna alla Chiesa, dall’età gregoriana al Concilio di Trento, dopo la sconfitta delle tesi conciliariste intorno al primato del Concilio sul Papa e la consacrazione delle sue prerogative magisteriali dopo secolari discussioni intorno alla infallibilità del Papa».
Infatti, se fin dai primi secoli fu riconosciuto il ruolo del Vescovo di Roma come «custode della fede», nell’età moderna, prima Lutero e i riformatori, poi i gallicani e i giansenisti, tentarono più volte di negare o di limitare l’infallibilità papale.
Il professore che è anche ordinario di diritto canonico all’Università Roma Tre si sofferma sul legame stretto che si venne a creare nel corso dell’Ottocento fra l’affermazione del potere assoluto di governo del Papa nella Chiesa, sollecitato dalle correnti ultramontane e dal pensiero controrivoluzionario di De Maistre, e la formazione della sovranità negli Stati-nazione.
«Il conflitto fra Stati e Chiesa romana si venne a focalizzare sul problema della sovranità e dell’appartenenza dei fedeli alla Chiesa o alla nazione. Pio IX volle affermare la sovranità spirituale della Chiesa con i due dogmi del Vaticano I contro la sovranità temporale degli Stati che assoggettavano le strutture della Chiesa ai poteri secolari e minacciavano lo Stato pontificio».
In questo secolo e mezzo si è avvalso della prerogativa dell’infallibilità papale Pio XII per la proclamazione nel 1950 del dogma dell’Assunzione della Vergine in anima e corpo in Cielo.
Fantappié si sofferma su alcuni aspetti della Pastor Aeternus che, visti con gli occhi di oggi, possono apparire controversi. «Il testo definitivo che noi conosciamo - spiega - è concentrato sulle prerogative del Papa. In verità si pensava di elaborare una seconda Costituzione che completasse gli aspetti mancanti ma, a causa della sospensione del Vaticano I, ciò non fu possibile.
Anche per questo il Vaticano I fu un “Concilio monco”. In questa Costituzione avviene un sbilanciamento dottrinale a favore delle funzioni e dei poteri del Vescovo di Roma mentre vengono sottaciuti i diritti e le prerogative dell’episcopato come la partecipazione della “comunità dei fedeli” all’elaborazione del magistero e della vita della Chiesa. Per la verità diversi padri conciliari si resero conto di questo “sbilanciamento”. Una lacuna che sarà colmata cento anni dopo solo con il Vaticano II».
Inoltre osserva: «I padri conciliari ebbero l’avvertenza di restringere le prerogative del Pontefice quando egli parla “ex cathedra” nella sua veste di “pastore e dottore di tutti i cristiani” in materia di fede e di costumi, cioè lasciando lo spazio all’idea che anche un Papa quando esprime una semplice opinione può errare....». Bisogna distinguere infatti fra infallibilità e inerranza.
Fantappié legge soprattutto il filo rosso di continuità «non solo ideale di magistero» che i successori di Pio IX (in particolare Giovanni XXIII e Paolo VI, «entrambi grandi estimatori di papa Giovanni Maria Mastai Ferretti») hanno intravisto nel Vaticano II come «il completamento di ciò che non fu possibile realizzare durante l’assise conciliare del 1869-1870».
Di qui la riflessione finale: «In un certo senso lo stesso cardinale e oggi santo John Henry Newman comprese prima di altri che ogni Concilio, incluso il Vaticano I, doveva essere letto alla luce di quelli precedenti. Egli era convinto che, proprio perché il Vaticano I fu oggetto di “grandi opposizioni e prove” a livello di discussioni teologiche, avesse avuto bisogno di un riassetto e di un riequilibrio che ridefinisse quelle verità di fede che rimanevano valide. E cento anni dopo il suo auspicio fu esaudito con il Vaticano II. Per questo Newman per le sue intuizioni è considerato tra i migliori ermeneuti del Vaticano I e il precursore, secondo Jean Guitton, del Concilio successivo».
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31 ottobre 1517
Rivoluzionario per caso
di Massimo Firpo (Il Sole-24 Ore, Domenica 08 Gennaio 2017)
Quando affisse le sue 95 tesi sulla porta della Schlosskirche di Wittenberg il 31 ottobre 1517, vigilia di Ognissanti, Martin Lutero non aveva nessuna intenzione di provocare lo sconquasso che ne sarebbe seguito. Era un pio monaco agostiniano, educato a una fede e immerso in una teologia ancora tutte medievali. Era entrato in monastero per onorare un voto pronunciato in un momento di paura e smarrimento, e aveva studiato sui testi della tarda scolastica la dottrina che insegnava dalla sua cattedra universitaria.
Lontanissime da lui erano le raffinatezze letterarie e filologiche della grande cultura umanistica che dall’Italia irradiava in tutta Europa e trovava in Erasmo il suo più illustre maestro. Sempre più però quella fede e quella teologia gli erano apparse inadeguate a rispondere alle sue inquietudini religiose, alla devastante convinzione che mai e poi mai, per quanto si impegnasse nella più severa disciplina ascetica e penitenziale, egli avrebbe potuto essere degno della giustizia di Dio e quindi conseguire l’eterna salvezza.
Per anni Lutero si tormentò su questo nodo cruciale, finché trovò la risposta nelle lettere di san Paolo che leggeva nei suoi corsi: «Iustus ex fide vivit» (Rom. I, 17; Gal. III, 11), «il giusto vivrà per la fede». Nulla che l’uomo possa fare è in grado di renderlo giusto agli occhi di Dio, ma nella sua infinita misericordia Dio dona («imputa») la sua giustizia agli uomini, purché essi credano nel valore salvifico del sacrificio di Cristo sulla croce. Nessuna opera buona, nessuna penitenza può diventare un merito agli occhi di Dio, e anzi illudersi di conquistare il regno dei cieli con le proprie forze è una sicura strada di perdizione. Non sono le opere buone a rendere giusto l’uomo, ma è l’uomo reso giusto dalla fede a compiere opere buone.
Si comprende quindi l’indignazione di Lutero per la brutale rozzezza con cui il domenicano Johann Tetzel predicava le indulgenze, di fatto mettendo in vendita pezzi di carta che - grazie all’inesauribile patrimonio dei meriti di Cristo custodito dalla Chiesa - avrebbero consentito ai fedeli di conquistarsi il perdono di Dio o di liberare i propri cari dalle pene del purgatorio. Uno sconcio mercimonio simoniaco, insomma, a sua volta frutto di una complicata operazione finanziaria tra la curia romana e l’arcivescovo di Magonza, Alberto di Hohenzollern, i cui frutti erano destinati a rimpinguare l’insaziabile scarsella di papa Leone X e a finanziare la costruzione della basilica di San Pietro.
Fu la sua esperienza di pastore e confessore a fargli capire il pericolo in cui tante anime ignare venivano gettate da quelle spregiudicate menzogne. «Su tutto questo io non potevo tacere più oltre», ebbe il coraggio di scrivere allo stesso arcivescovo, ammonendolo severamente per quanto avveniva nella sua diocesi: «Di ciò dovrai rendere duramente conto e il conto sale ogni giorno».
Per questo decise di affiggere le tesi, che tuttavia non intendevano incendiare il mondo, ma solo sfidare i teologi alla discussione accademica e mettere un argine dottrinale agli eccessi del Tetzel, anche se vi si potevano leggere affermazioni dirompenti. Per esempio che «qualunque vero cristiano, sia vivo che morto, ha la parte datagli da Dio a tutti i beni di Cristo e della Chiesa, anche senza lettere di indulgenza» (37); che «chi vede un bisognoso, e trascurandolo dà per le indulgenze, si merita non l’indulgenza del papa ma l’indignazione di Dio» (45); che «se il papa conoscesse le esazioni dei predicatori di indulgenze, preferirebbe che la basilica di San Pietro andasse in cenere piuttosto che essere edificata sulla pelle, la carne e le ossa delle sue pecorelle» (50); che «chi si oppone alla cupidigia e alla licenza del parlare del predicatore di indulgenze, sia benedetto» (72).
Lo stesso monaco sassone fu ben lungi dal percepire subito tutte le conseguenze della giustificazione per fede. Se solo quest’ultima, infatti, è in grado di salvare gli uomini ed essi non sono in grado di fare alcunché per ottenerla, ne consegue che solo Dio donando la fede decide, o per meglio dire ha deciso ab aeterno, chi si salva e chi no: con tutti gli inesorabili labirinti e le antinomie in cui sfocia la dottrina della predestinazione.
E se solo la fede è in grado di salvare gli uomini, si esaurisce ogni funzione della Chiesa visibile come mediatrice carismatica tra il popolo cristiano e Dio. Non più istituzione gerarchica, la Chiesa diventa solo la comunità dei credenti, senza più un clero distinto dal laicato in virtù dell’unzione sacerdotale, e quindi non più vincolato all’obbligo del celibato, e la sua tradizione magisteriale perde ogni legittimazione, perché la dottrina cristiana è affidata esclusivamente alla parola di Dio.
Sola fides e sola Scriptura diventeranno così i due fondamenti della Chiesa luterana. Ne conseguiranno l’abolizione della messa, la riduzione dei sacramenti a battesimo ed eucarestia, il rifiuto dei voti monastici, del purgatorio, del culto dei santi, della venerazione delle immagini, dei digiuni.
Insinuandosi tra i molteplici conflitti interni di una Germania immensa e frammentata, dove debolissima era l’autorità imperiale, la parola infiammata di Lutero non tardò a diffondersi con la straordinaria rapidità garantita dalla nuova arte della stampa. I conventi e i monasteri cominciarono a svuotarsi, mentre diffuse tensioni profetiche e millenariste sarebbero poi sfociata nella sanguinosa guerra dei contadini del 1524-25.
Lo stesso Lutero intorno al 1519 si convinse che la fine dei tempi era ormai imminente e che pertanto il papa romano, invenzione di Satana, era né più né meno che l’Anticristo che la annunciava. In breve tempo gli spazi di accordo e di mediazione si esaurirono. I grandi trattati di Lutero apparsi nel ’20, veri e propri testi fondativi della Riforma, La libertà del cristiano, La cattività babilonese della Chiesa di Roma e Alla nobiltà cristiana di nazione tedesca accompagnarono la coeva scomunica proclamata da Leone X con la bolla Exsurge Domine, che il riformatore sassone diede alle fiamme insieme con il codice di diritto canonico sulla piazza di Wittenberg.
Convocato alla dieta di Worms, al cospetto del giovane Carlo V d’Asburgo, re di Spagna, principe di Borgogna e sacro romano imperatore, Lutero si rifiutò di ritrattare una sola parola dei suoi scritti se non gli fosse stato dimostrato Bibbia alla mano dove e perché sbagliava. Messo al bando dall’Impero, si rifugiò in una castello dell’elettore di Sassonia, dove tradusse la Bibbia in tedesco, offrendo così a tutta la Germania la lingua comune in cui veniva predicata la parola di Dio.
È bene tener presente che abolire il clero e la Chiesa papale significava cancellare il pilastro più solido e antico dell’ordine politico e sociale, un formidabile potere materiale e morale, fondato sulla sacralità della religione, dei suoi riti, delle sue parole, delle sue gerarchie, su enormi risorse fondiarie e finanziarie, su un prestigio radicato in un millennio e mezzo di cristianesimo, diventato modo di essere e sentire, di capire e giudicare, di temere e sperare.
Non stupisce dunque che le città e i principi tedeschi fossero rapidamente coinvolti nelle vicende della Riforma, impadronendosi di quel messaggio religioso e di quelle ricchezze per liberarsi per sempre dal potere imperiale.
È bene ricordare che il lungo e faticoso processo storico che nell’Ottocento avrebbe dato vita a uno Stato unitario tedesco non si sviluppò intorno agli Asburgo, eredi di Carlo Magno e di Carlo V, ma intorno a uno dei principali beneficiari della secolarizzazione dei beni ecclesiastici, quel margravio del Brandeburgo di casa Hohenzollern, che con il tempo sarebbe diventato duca e poi re di Prussia e infine Kaiser del Reich.
Del resto, fu solo dove principi e sovrani aderirono alla Riforma che essa ebbe duraturo successo, come in Danimarca, in Svezia, in Inghilterra, mentre ciò non avvenne in Francia e in Spagna, dove un forte potere sovrano era già riuscito ad assumere il controllo della Chiesa e delle sue risorse economiche.
Tra le molte battaglie che Lutero dovette affrontare, particolarmente insidiosa fu quella con Erasmo che, dopo aver taciuto per anni lasciando che Eleutherium audacem combattesse la sua battaglia contro una curia romana corrotta e una fede oggettualizzata e superstiziosa, lo attaccò in difesa del libero arbitrio, fondamento della responsabilità morale di ogni uomo, costringendolo a difendere la tesi contraria e con essa la predestinazione, a contrapporre a un cristianesimo etico tutto fondato sull’ispirazione di fratellanza e carità del vangelo, il suo cristianesimo teologico tutto fondato sulla lettera della parola di Dio.
Negli anni seguenti egli potrà infine vedere il successo in tutta l’Europa del Nord delle nuove Chiese scaturite dal suo magistero, tutte sottoposte al potere dei principi e fondate sul testo della confessione presentata nel ‘30 alla dieta di Augusta (la confessio Augustana, appunto) che per secoli avrebbe costituito il fondamento della dottrina luterana.
Sarebbe morto il 18 febbraio 1546, a 63 anni, circondato dall’affetto della moglie, Katharina von Bora, sposata nel ’25, dei numerosi figli avuti da lei, da nugoli di discepoli adoranti, compiaciuto di quanto aveva fatto, ma attribuendone il merito solo al volere di Dio: «Io mi sono schierato contro tutti i papisti; mi sono costituito oppositore implacabile del papa e delle indulgenze. Ma io non ho fatto appello alla forza, alla persecuzione, alla ribellione. Io non ho fatto altro che diffondere, predicare, inculcare la parola di Dio: altro non ho fatto. Di modo che quando io dormivo e quando bevevo la birra a Wittenberg [...] la parola di Dio ha operato di cotali cose che il papato è caduto, come nessun principe e nessun imperatore avrebbero potuto farlo cadere. Nulla io feci: la parola di Dio ha determinato il successo della mia predicazione». Tutto in lui era fede, o meglio la sua fede, anche la dirompente violenza con cui seppe proporla, lasciando una traccia indelebile sull’intera storia europea.
Con la nascita della Chiesa luterana si esauriva definitivamente la respublica christiana, sempre più frammentata dai processi di confessionalizzazione che a fianco e dopo Lutero videro affacciarsi sulla storia europea altri e ancor più radicali riformatori, Zwingli, Calvino, le Chiese svizzere e olandesi, gli anabattisti e gli antitrinitari poi diventati sociniani, i puritani, i quaccheri, l’irriducibile mondo settario e radicale che durante la rivoluzione inglese avrebbe indotto qualcuno a denunciare la Gangraena delle mille eresie che avevano invaso la Chiesa anglicana.
Nato da una ribellione, insomma, il mondo protestante non avrebbe potuto impedire nuove ribellioni al suo interno e sarebbe diventato, anche a dispetto dei suoi padri fondatori, un mondo plurale in cui convinzioni e pratiche religiose sono libere e in cui gli uomini hanno via via imparato a convivere anche se hanno opinioni diverse su Dio e i suoi precetti e lo onorano in modo differente, o magari non credono in alcun Dio.
Quella che nel 1688 Jacques Benigne Bossuet denunciava come l’eterna condanna del mondo riformato a dividersi e frantumarsi, una volta venuto meno il fondamento ultimo dell’autorità papale, in una perenne Histoire de variations des Églises protestantes, sarebbe diventata col tempo una ricchezza e una risorsa. Eterogenesi dei fini, come sempre nella storia.
Oggi i teologi cattolici e luterani si armano di nuove utopie ecumeniche per sottoscrivere formule di concordia sulle questioni religiose che mezzo millennio fa divisero l’Europa lungo aspri confini religiosi e politici segnati da guerre, stragi, persecuzioni e violenze d’ogni sorta. Vivaddio, meglio la pace della guerra, la tolleranza che l’intolleranza, ma è bene non dimenticare quelle persecuzioni e violenze, anche per non trattare la storia (e la teologia) come un’ondivaga bandierina che ogni volta si ridipinge per adattarla alle esigenze del presente.
Né con Roma né con Lutero
L’amore di Erasmo per Cicerone non gli impedì di stilare un pamphlet contro la retorica della curia con la quale fu persino più duro dei protestanti
di Massimo Firpo (Il Sole-24 Ore, Domenica, 04.12.2016)
Il dialogo Ciceronianus di Erasmo fu pubblicato a Basilea nel marzo del 1528; l’anno dopo ne comparvero altre due edizioni e una quarta nel ’30. Un immediato successo, come in genere accadeva a tutti gli scritti del grande umanista olandese, maestro delle bonae litterae in ogni angolo d’Europa. Lo era da tempo, del resto, almeno dalla pubblicazione degli Adagia (1500), la raccolta di proverbi antichi più volte arricchita e ristampata, come molti dei suoi scritti, cui erano poi seguiti l’ Enchridion militis christiani (1503), l’Elogio della Follia (1511), il testo critico del nuovo Testamento in greco e l’ Institutio principis christiani (1516), i Colloquia (1517), la Querela pacis (1521), i commenti biblici, le monumentali edizioni dei Padri della Chiesa, le antologie di lettere, per citare solo le opere più celebri.
Tutto era cambiato però negli ultimi dieci anni, dopo che nel 1517 Martin Lutero aveva affisso sulla porta del castello di Wittenberg le sue 95 tesi. L’unità della respublica christiana, vale a dire lo stesso spazio fisico, storico, culturale e religioso del magistero erasmiano, si veniva infatti disgregando in un crescendo di polemiche, di controversie, di odii inestinguibili, di condanne, di persecuzioni. Lo stesso Erasmo aveva finito con il trovarsi nell’occhio del ciclone, accusato dagli uni di essere stato la gallina che aveva deposto le uova poi covate da Lutero, e dagli altri di aver vilmente rinunciato al suo impegno per la riforma della Chiesa e di essersi alla fin fine schierato a fianco di quei monaci corrotti, di quei frati ignoranti, di quel papato simoniaco che in passato non aveva perso occasione di mettere alla gogna.
In realtà, dopo la comparsa in scena di quel monaco sassone sempre più irruento e tonante, lontanissimo dal suo modo di essere e di pensare, Erasmo aveva taciuto, aveva lasciato correre, aveva fatto finta di non vedere, consapevole che contribuire a spegnerne gli ardori avrebbe anche comportato la fine di ogni speranza di riforma della Chiesa. Per questo non aveva preso posizione quando Lutero aveva pubblicato i suoi grandi trattati del 1520, anche quando aveva denunciato nel pontefice di Roma la bestia dell’Apocalisse, né quando aveva dato alle fiamme la bolla di condanna di Leone X e il Corpus iuris canonici nel ’21, né quando - sempre in quell’anno - aveva rifiutato di piegarsi e ritrattare le sue dottrine di fronte a Carlo V.
Aveva aspettato sino al ’24, senza intervenire sulle questioni che più infervoravano gli animi da ambo le parti, sulle indulgenze, sul ruolo dei preti, sul purgatorio, sui sacramenti. Per sfidare Lutero aveva scelto la questione tutta umanistica del libero arbitrio, e con essa della dignità dell’uomo: una questione cruciale che investiva il modo stesso di essere cristiani, contrapponendo a una fede tutta teologica, fondata sulla parola di Dio e i suoi insondabili misteri, una fede tutta morale, fondata invece sulla capacità del vangelo di ispirare carità, giustizia, concordia. Fu Lutero stesso, che pure detestava con tutte le sue forze quel raffinato letterato, incapace di capire e accettare lo scandalo della fede, a riconoscerne la grandezza, dandogli atto di essere stato il solo capace di morderlo alla gola.
Tutto ciò, naturalmente resta tra le righe del Ciceronianus, ma ne costituisce al tempo stesso una cornice imprescindibile. Contribuisce cioè a far capire come Erasmo, grande ammiratore di Cicerone, decidesse poi di prenderne le distanze. Non perché avesse cambiato idea, tutt’altro, anzi proprio per essere fedele al modello autentico di Cicerone, alla sua capacità di mettere l’eloquenza al servizio degli obiettivi che perseguiva, e dunque di adattarsi alle circostanze, di mirare all’utile e all’efficace, tutt’altro che bloccata in un algido purismo che ne tradiva profondamente lo spirito.
Non era Cicerone, insomma, l’obiettivo polemico di questo libro, ma i ciceroniani, e in particolare i letterati romani che quello stile avevano eretto a modello esclusivo non solo delle esercitazioni retoriche con cui celebravano la Roma papale quale erede della Roma imperiale e la esaltavano come Geusalemme eterna in cui si era realizzata una sorta di suprema sintesi tra civiltà classica e cristianesimo di cui essi erano i rappresentanti e i sacerdoti.
Una cultura sterile e vacua, tanto compiaciuta di se stessa da ignorare la torbida decadenza in capite et in membris che infettava la Chiesa a partire dalla curia papale, insensibile a ogni proposta di rinnovamento e sorda alle istanze religiose che trovavano in Erasmo e Lutero due pur diversi rappresentanti. Una cultura tutta letteraria, ridotta a pedissequa imitazione e quindi incapace di rinnovamento, intrisa di neopaganesimo, che presumeva di aver raggiunto il culmine nel riprodurre nella lingua di Cicerone la stessa dottrina cristiana, i suoi misteri, le sue liturgie, dando vita a quella che è stata definita come una «teologia retorica», intessuta di citazioni classiche, come nel Liber sententiarum di Paolo Cortesi (1504), per esempio, in cui i santi diventavano heroes, Tommaso d’Aquino l’Apollo christianorum, i sacerdoti flamines, l’inferno Orcus e così via.
Primo volume di una collana Corona Patrum Erasmiana (di cui altri sono imminenti) promossa dal Centro europeo di studi umanistici «Erasmo da Rotterdam», questa eccellente traduzione con testo latino a fronte e un dotto commento in apparato si apre con un’introduzione che contestualizza finemente lo scritto erasmiano sia negli sviluppi del suo pensiero e del suo modo di intendere valore e significato della cultura sia nella specifica tradizione umanistica cui faceva riferimento (Ermolao Barbaro, Lorenzo Valla, Angelo Poliziano, Giovan Francesco Pico) e quindi delle polemiche che investivano il presente.
Se proprio in quegli anni il grande successo della stampa, l’affermarsi degli Stati assoluti, la frattura religiosa in atto contribuivano all’inarrestabile affermazione delle lingue volgari, Erasmo rimaneva fedele a quel latino che era e restava lo strumento linguistico di una comunicazione europea; ma lungi dall’imbalsamarlo in un vacuo perfezionismo formale, lo riproponeva come una lingua viva e vitale, talora anche frettolosa proprio in quanto funzionale anzitutto ai contenuti che trasmetteva, ai principi che difendeva, agli scopi che si proponeva, all’azione concreta che stimolava nei termini propriamente politici di una appassionata militanza culturale e religiosa. Di qui i continui interventi di Erasmo sulle nuove edizioni dei suoi scritti, per migliorarli e correggerli laddove necessario, e soprattutto per riproporne un continuo aggiornamento in funzione delle esigenze del presente.
Per capire il Ciceronianus, del resto, occorre tener presente che esso fu scritto all’indomani del terribile sacco di Roma del 1527, quando i lanzi imperiali avevano fatto scempio della città papale in un indicibile crescendo di violenze, saccheggi, sopraffazioni, atrocità d’ogni genere. Segnò la fine della grande stagione rinascimentale dei pontificati borgiani, rovereschi e medicei, delle Stanze di Raffaello e della Sistina di Michelangelo. L’Europa tutta ne restò sconvolta, e dovunque si volle vedere in quella tragedia una giusta punizione di Dio per la corruzione della curia papale.
Ma tra i letterati si diffuse anche lo sgomento per i danni incalcolabili che quei soldatacci avrebbero potuto arrecare all’ineguagliabile patrimonio culturale di cui Roma era erede. Lo stesso braccio destro di Lutero a Wittenberg, Filippo Melantone, si disse preoccupatissimo per le biblioteche romane, custodi di un sapere e di una civiltà cui la Germania stessa era debitrice.
Al contrario il mite Erasmo da Rotterdam, anziché deprecare quanto era accaduto volle pubblicare quel Ciceronianus che condannava senza appello i letterati romani, «più ricchi di letteratura che di pietà». Non proprio un Erasmo moderato, insomma, un Erasmo convinto apologeta del cattolicesimo romano, un Erasmo opportunista e infingardo, «anguilla», «vir duplex», come lo definì Lutero e come ancora molti lo presentano; ma un Erasmo tanto coraggioso da combattere le sue battaglie culturali e religiose sull’uno e sull’altro fronte in difesa di un cristianesimo serio, operoso, moralmente responsabile, avverso al fasto mondanizzato della gerarchia ecclesiastica così come alle inutili dispute teologiche, utili solo a creare divisioni e conflitti. «Summa nostrae religionis est pax et unanimitas», scriveva nel ’23. Si capisce benissimo, quindi, perché i luterani lo detestassero cordialmente e i cattolici si affrettassero a inserire nell’Indice dei libri proibiti i suoi Opera omnia.
500 anni dopo Lutero
Parmentier: «La riconciliazione parla con voce di donna»
Parla la teologa luterana Elisabeth Parmentier: «A favorire l’ecumenismo è anche l’atteggiamento sempre più materno assunto dalla Chiesa nella società»
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, 14.11.2016)
Qualche anno fa, invitata a parlare sul futuro dell’Unione Europea, la teologa luterana Elisabeth Parmentier aveva proposto una similitudine che molti ancora ricordano. È come se una donna fosse incinta di due gemelle, spiegava: una si chiama Paura, l’altra Speranza. Tutto sta a vedere chi avrà la meglio. Ora come ora la pastora Parmentier sembra un po’ meno ottimista: «La mia impressione - dice - è che in Europa e nel mondo sia la paura a prevalere. Ma questa può essere un’opportunità per i cristiani. Anzi, è un invito a proseguire con convinzione ancora maggiore nel cammino del dialogo ecumenico».
Docente di Teologia pratica alla Faculté de théologie di Ginevra, Elisabeth Parmentier è nota anche al lettore italiano grazie ai saggi editi nel nostro Paese da Edb (La Scrittura viva, 2007) e Qiqajon (Donne in concorrenza?, sull’episodio evangelico di Marta e Maria, 2014). Nei giorni scorsi ha partecipato al convegno su “Giubileo della Misericordia, giubileo della Riforma: una prossimità feconda?”, organizzato a Padova dalla Facoltà teologica del Triveneto. Un’occasione di studio resa straordinariamente attuale dal viaggio di papa Francesco in Svezia, durante il quale è stata sottoscritta a Lund la Dichiarazione congiunta tra la Chiesa cattolica e Chiese luterane: «Abbiamo imparato - si legge nello storico documento - che ciò che ci unisce è più importante di ciò che ci divide». Detto altrimenti, quello che un tempo divideva oggi può unire. La lettura della Parola di Dio, per esempio.
«È vero - ammette la professoressa Parmentier - per un lungo periodo l’interpretazione della Scrittura ha rappresentato un elemento di scontro fra le Chiese, ma in questo momento è diventata finalmente luogo di incontro e di confronto. Questo non significa che l’avventura dell’interpretazione possa considerarsi conclusa. Al contrario, la Scrittura, in quanto realtà viva, resta sempre in discussione. Distinzioni e sottolineature differenti si riscontrano ancora oggi e, per paradossale che possa apparire, risultano più accentuate all’interno del mondo protestante».
A che cosa si riferisce?
«Al letteralismo che contraddistingue alcune confessioni evangelicali e che si risolve spesso in un atteggiamento di tipo esclusivamente morale. È come se, per ribadire l’autorità della Scrittura, si volesse rinunciare al patrimonio della critica storica e filologica. Bisogna evitare le generalizzazioni, è chiaro. Ma non possiamo dimenticare come il dialogo attuale affondi le sue radici nella tradizione dell’Umanesimo, dal quale ci viene la capacità di leggere in chiave critica il testo biblico».
Qualcosa che divide cattolici e protestanti però c’è ancora. Di che cosa si tratta?
«A mio avviso il problema fondamentale è costituito dalla visione della Chiesa. Da parte delle denominazioni protestanti si potrebbe anche arrivare al riconoscimento del Papa come primus inter pares, ma questo passo dovrebbe essere preceduto da una revisione della struttura ecclesiale da parte cattolica. Non è solo questione di organizzazione gerarchica, ma di articolazione e visione della Chiesa. Ed è precisamente da questo che discende la possibilità di instaurare un dialogo ecumenico capace di arrivare a un accordo più vasto e puntuale».
Il discrimine, dunque, non sta più nella dottrina sulla giustificazione?
«Su questo la controversia si è chiusa definitivamente nel 1999, con la Dichiarazione congiunta sottoscritta da cattolici e luterani. Da allora siamo consapevoli che tra i cristiani non esiste più alcun disaccordo in merito alla natura e alla portata della salvezza. Lo stesso tema della misericordia, che tanta rilevanza ha avuto quest’anno nella Chiesa cattolica per via del Giubileo, appartiene fin dalle origini alla spiritualità protestante. Sul versante sacramentale, poi, la consonanza è ormai completa non solo per quanto riguarda il Battesimo, ma anche per l’Eucaristia, nella quale anche i luterani, pur non adottando la definizione cattolica di transustanziazione, riconoscono comunque la vera presenza di Cristo».
Eppure l’ordinazione ministeriale rimane un punto critico.
«Per il motivo che sottolineavo in precedenza, ossia la diversa visione di Chiesa che ci caratterizza. Il pastore luterano non ha alcuna investitura sacramentale e questo non può non porre un problema di reciprocità nei confronti del cattolicesimo».
Anche la valorizzazione del carisma femminile va considerata in questa prospettiva?
«La mia convinzione è che già adesso, all’interno della Chiesa cattolica, molte donne svolgano un servizio pastorale al di fuori del ministero ordinato. Sarà proprio questa esperienza concreta a far progredire la coscienza dell’importanza della donna in ambito ecclesiale, probabilmente attraverso la strada del diaconato. Più complesso è semmai il discorso del celibato sacerdotale, che per i cattolici costituisce una componente molto forte e direi quasi irrinunciabile della propria identità simbolica».
Quali sono le novità introdotte da papa Francesco nel dialogo ecumenico?
«Bergoglio ha il carisma di una grande intelligenza teologica. La sua è una visione radicalmente cristologica della realtà, che lo porta a trasformare in messaggio di riconciliazione la sua stessa persona e le sue stesse azioni. In questo mi pare evidente il portato degli Esercizi spirituali ignaziani e, nella fattispecie, dalla pratica del discernimento, che porta a distinguere continuamente fra ciò che è prudente e ciò che è urgente, nell’ecumenismo così come nella Chiesa cattolica».
In che modo il contesto della secolarizzazione influisce sulla riconciliazione fra i cristiani?
«Negli ultimi decenni i cambiamenti sociali hanno fatto sì che la Chiesa assumesse una funzione diversa. Al riferimento normativo del passato è subentrato un atteggiamento che definirei terapeutico, diaconale, materno. Più femminile, se così vogliamo considerarlo. Questo, lo ripeto, dipende da una domanda sempre più diffusa, che sicuramente ha nella solitudine prodotta dalla secolarizzazione una della sue motivazioni più riconoscibili. A ben pensarci, però, anche gli obiettivi primari indicati dalla Dichiarazione congiunta di Lund, come la cura dell’ambiente e l’accoglienza dei migranti, chiamano in causa questa dimensione terapeutica e materna, squisitamente femminile, della Chiesa».
Ma per lei, personalmente, che cosa significa essere luterana?
«Per me la libertà del cristiano sta al cuore della spiritualità di Lutero. È un dono straordinario e, in quanto tale, non va frainteso. Non si traduce nella licenza di fare tutto quello che si vuole, ma implica la consapevolezza di essere stati liberati, una volta per tutte, dalla preoccupazione di noi stessi. Questo induce a vivere nella gratitudine e, nello stesso tempo, permette di rivolgersi agli altri senza più timore. Nei suoi scritti Lutero insiste molto nella presenza del diavolo, del peccato e della morte nelle nostre esistenze. Il suo è il linguaggio dell’epoca, ma il messaggio rimane inalterato nel tempo. La separazione tra Dio e l’uomo oggi assume l’aspetto di una solitudine assoluta, che induce a un’assoluta disperazione. Essere luterana, per me, significa sapere di non essere mai sola, nella certezza che perfino la morte, l’ultimo nemico, è già stata sconfitta da Cristo».
Dalla donna ideale alle donne inquietanti: le cristiane rivelatrici di crisi d’identità e iniziatrici di cambiamenti di Elisabeth Parmentier, teologa e pastora luterana francese, professoressa di teologia pratica alla Facoiltà dio teologia protestante di Strasburgo.
500 anni dopo Lutero.
Padre Puglisi: «Una sola lingua per cattolici e luterani»
L’esperto di ecumenismo padre James Puglisi: «Uno dei nodi principali resta il reciproco riconoscimento dei ministri ordinati. Ma le incomprensioni di cinque secoli oggi possono essere superate»
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, 15.11.2016)
Per padre James Puglisi l’ecumenismo è, alla lettera, una questione di famiglia. «Mia nonna era nata anglicana - ricorda il religioso originario della cittadina di Amsterdam, nello Stato di New York - e solo in seguito divenne cattolica». Proprio come è accaduto all’altra famiglia, religiosa, di cui padre Puglisi fa parte: i francescani dell’Atonement, ossia delle redenzione. Il nome, ispirato a un brano della Lettera ai Romani, fu scelto alla fine dell’Ottocento dal pastore episcopaliano statunitense Lewis Wattson, iniziatore dell’Ottavario di preghiera per l’unità dei cristiani. Poco tempo più tardi, nel 1909, Wattson passò al cattolicesimo e la congregazione da lui fondata fu ammessa alla piena comunione con la Chiesa di Roma. Attualmente i francescani dell’Atonement animano il centro Pro Unione di Roma (www.prounione.urbe.it), attivissimo nelle promozione del dialogo ecumenico. Padre Puglisi, che lo dirige, è considerato un’autorità in materia: a lui si deve, tra l’altro, la cura dell’Enchiridion Oecumenicum pubblicato in numerosi volumi fin dalla metà degli anni Ottanta. «Il quinto centenario della Riforma - dice - può segnare una tappa importante, se non altro per il riconoscimento dei progressi compiuti negli ultimi decenni».
In quale direzione: pastorale o teologica?
«Mi pare indubbio che sul piano dottrinale si sia ormai superato ogni equivoco tra cattolici e luterani. E questo già dal 1999, dalla firma della Dichiarazione congiunta sulla giustificazione, grazie alla quale siamo arrivati a una nuova comprensione degli elementi che ci avevano diviso in passato. I cattolici riconoscono che i luterani non sono più soggetti all’anatema del Concilio di Trento e, nello stesso tempo, i luterani ammettono che i cattolici non sono più estranei alla giusta comprensione del mistero centrale della fede in Cristo. Quanto sta accadendo in questi mesi, compreso lo storico viaggio di papa Francesco in Svezia, si pone nel segno di questa continuità».
Quali potrebbero essere i prossimi passi?
«Mi rifaccio a un documento che si intitola appunto On the way, “In cammino”, sottoscritto di recente negli Stati Uniti da cattolici e luterani. Lì sono indicati tre aspetti particolarmente rilevanti per il dialogo: la Chiesa, l’Eucaristia, il ministero. Per ciascuno di questi ambiti vengono valutati gli elementi di accordo e di disaccordo. Sull’Eucaristia le differenze sono ridotte al minimo, dato che anche i luterani concordano sulla vera presenza di Cristo, per la quale pure forniscono una spiegazione alternativa rispetto a quella in uso nella teologia cattolica. Più complessa è la questione della Chiesa, nella quale i luterani sono ancora restii a riconoscere uno strumento per l’opera di salvezza. Ma il vero punto critico, alla fine, è costituito dal riconoscimento reciproco del ministero. Fino a quando non verrà superato questo ostacolo, l’unità non potrà dirsi raggiunta».
Si riferisce all’ordinazione delle donne?
«Nel mondo luterano le donne ordinate sono molto numerose, ma la Chiesa cattolica non contempla questa possibilità: come pensare, allora, di arrivare a un’effettiva reciprocità? Sono convinto che nei prossimi anni la teologia cattolica dovrà molto riflettere su questo snodo, considerando con grande serietà le obiezioni che vengono da parte protestante».
Quali?
«Il fatto che nulla, nel Nuovo Testamento, esclude espressamente il sacerdozio femminile. Gli apostoli erano tutti uomini, si ripete. Ma se è per questo erano anche ebrei, circostanza che non ha impedito l’ingresso dei gentili nella Chiesa. La riflessione, a questo punto, deve andare in un’altra direzione, approfondendo la dimensione del sacerdozio comune dei fedeli. Il legame, insomma, non è tra sacerdozio e ordinazione, ma tra Battesimo e sacerdozio».
Non sarà un percorso facile.
«Più che altro non può essere un percorso imposto dall’alto, come si tentò a fare nel Quattrocento con il fallimentare Concilio di Ferrara e Firenze che mirava a ricomporre lo scisma d’Oriente. Il dialogo ecumenico, al contrario, ottiene i risultati migliori quando si configura come un movimento dal basso. Ecco perché bisognerebbe insistere sulla formazione dei ministri nelle varie Chiese. L’ecumenismo non può essere considerata soltanto una materia di studio da affiancare alle altre, ma deve diventare anche una visione trasversale, capace di informare di sé tutta l’azione pastorale. Del resto, è l’azione che ci unisce, prima ancora della dottrina. Mi pare che sia questo, da ultimo, il significato più profondo dell’ecumenismo praticato da papa Francesco, nella cui riflessione è centrale il riconoscimento del comune Battesimo ricevuto dai cristiani».
Ma lo scisma di mezzo millennio fa poteva essere evitato?
«La mia impressione è che alla base della rottura ci sia stata una forte incomprensione linguistica. La forma mentis di Lutero era di tipo settentrionale, direi quasi anglosassone, ma si esprimeva attraverso le formule della Scolastica latina, finendo così per irrigidirsi ancora di più. Ogni lingua ha in sé la sua logica, infatti, e la transizione da un contesto all’altro non avviene in modo indolore. Nella fattispecie, Lutero non ha mai rinunciato al procedimento binario della reciproca esclusione. Per lui l’Eucaristia, per esempio, non può essere nello stesso tempo sacrificio e rendimento di grazie, perché una definizione viene a contraddire l’altra e questo impedisce di raggiungere la sintesi del sacrificium laudis. Questo, peraltro, vale anche per la posizione assunta da Lutero sull’ordinazione. Per strano che possa apparire, fu proprio l’eredità della Scolastica a rendere impossibile la riconciliazione nei primi anni della Riforma. Adesso spetta a noi trovare un linguaggio e un pensiero veramente innovativi».
Antisemitismo
L’ombra di Lutero
di Federico Vercellone (La Stampa, 16.11.2016)
Con l’approssimarsi di un anniversario importante come quello dei Cinquecento anni della Riforma con l’affissione da parte di Lutero delle 95 tesi, nell’autunno del 1517, sulla porta della chiesa del castello di Wittenberg, si riapre un capitolo fondamentale della formazione della modernità. L’autonomia del fedele nell’approccio alle Scritture e la centralità di Cristo come motivo centrale della fede al di là della mediazione ecclesiale costituirono una potente spinta al ritorno ai motivi ispiratori del cristianesimo delle origini.
Nondimeno nessun passaggio storico è privo di macchie. E questo vale anche per l’insegnamento di Lutero come testimonia il suo atteggiamento di profonda avversione nei confronti degli ebrei foriero di conseguenze tenebrose sino al nazionalsocialismo. È quanto ci rammenta il libro di Thomas Kaufmann, professore di Storia della chiesa presso la Facoltà teologica di Göttingen, Gli ebrei di Lutero recentemente edito dalla Claudiana.
A un atteggiamento di iniziale tolleranza, testimoniata dallo scritto giovanile Gesù Cristo è nato ebreo del 1523 fa seguito una prassi apertamente antisemita che si riflette in particolare nello scritto Degli ebrei e delle loro menzogne del 1543, risalente dunque all’ultima fase dell’attività del grande Riformatore. Proprio l’uomo che aveva guardato con il massimo interesse alla Bibbia ebraica a scapito della Vulgata latina si scaglia contro gli ebrei rei di non aver visto in Gesù il Messia annunziato dall’ Antico Testamento.
In Degli ebrei e delle loro menzogne Lutero giunge persino ad auspicare il rogo delle Sinagoghe in quanto gli ebrei sarebbero ineluttabilmente posseduti dal male. Nell’attesa del giubileo della Riforma è quanto mai benvenuta da parte di un editore protestante l’edizione di un volume molto documentato che insegna a distinguere il grano dal loglio che inficia uno dei grandi eventi generatori della modernità, del sorgere di un’etica della responsabilità e dell’autonomia dell’individuo.
Il Papa in Svezia, per i 500 anni dalla riforma di Martin Lutero
Appello di Bergoglio ai media: ’Viaggio importante, fate che la gente capisca’
di Redazione ANSA *
Il Papa è in Svezia per partecipare alla cerimonia di commemorazione dei 500 anni della Riforma di Martin Lutero.
"Questo viaggio è importante perché è un viaggio ecclesiale, molto ecclesiale nel campo dell’ecumenismo. Il vostro lavoro aiuterà tanto a capire, che la gente capisca bene. Grazie tante", ha detto Bergoglio ai giornalisti.
Si deve "riconoscere" con "onestà" "che la nostra divisione si allontanava dal disegno originario del popolo di Dio" "ed è stata storicamente perpetuata da uomini di potere di questo mondo più che per la volontà del popolo fedele", ha detto il papa nella omelia per la preghiera ecumenica nella cattedrale di Lund. "L’esperienza spirituale di Lutero ci interpella e ci ricorda che non possiamo fare nulla senza Dio. ’Come posso avere un Dio misericordioso?’, questa la domanda che costantemente tormentava Lutero" e la "questione del giusto rapporto con Dio è la questione decisiva della vita". [...]
* ANSA 01 novembre 20160 0:13 (ripresa parziale).
Il Papa apre ai luterani, imparare da loro: Riforma e Scrittura
Alla vigilia del viaggio in Svezia: ’E’ un passo di vicinanza’
di Redazione ANSA *
"Riforma e Scrittura" sono le due "parole" che vengono in mente al Papa, interpellato da C. Cattolica su cosa i cattolici potrebbero imparare dalla tradizione luterana". "All’inizio quello di Lutero era un gesto di riforma in un momento difficile per la Chiesa". E "Lutero ha fatto un grande passo per mettere la Parola di Dio nelle mani del popolo". E nelle "Congregazioni prima del conclave la richiesta di una riforma" è stata "sempre viva e presente".
"Mi vengono in mente - ha risposto il Papa a Civiltà cattolica - due parole: ’riforma’ e ’Scrittura’. Cerco di spiegarmi. -La prima è la parola ’riforma’. All’inizio quello di Lutero era un gesto di riforma in un momento difficile per la Chiesa. Lutero voleva porre un rimedio a una situazione complessa. Poi questo gesto - anche a causa di situazioni politiche, pensiamo anche al ’cuius regio eius religio’ (la norma per cui i popoli dovevano professare la stessa confessione dei loro principi, ndr) - è diventato uno ’stato’ di separazione, e non un ’processo’ di riforma di tutta la Chiesa, che invece è fondamentale, perché la Chiesa è ’semper reformanda’.
La seconda parola - ha proseguito papa Francesco - è ’Scrittura’, la Parola di Dio. Lutero ha fatto un grande passo per mettere la Parola di Dio nelle mani del popolo. Riforma e Scrittura sono le due cose fondamentali che possiamo approfondire guardando alla tradizione luterana. Mi vengono in mente adesso - ha aggiunto - le Congregazioni Generali prima del Conclave e quanto la richiesta di una riforma sia stata viva e presente nelle nostre discussioni".
Il Papa invita a proseguire sulla strada del dialogo teologico, e per i cattolici che vivono in Svezia (alla vigilia del viaggio nel Paese) pensa a ’una sana convivenza, dove ognuno può vivere la propria fede ed esprimere la propria testimonianza vivendo uno spirito aperto ed ecumenico’.
Anniversari storici (1517 - 2017)
Annus lutheranus
L’incontro di papa Francesco con il vescovo (donna) primate di Svezia apre le celebrazioni della riforma di Lutero
di Gianfranco Ravasi (Il Sole-24 ore, Domenica, 30.10.2016)
Domani papa Francesco varcherà la soglia della chiesa più antica e importante di Svezia, la Domkyrkan della città di Lund, sede della prestigiosa università verso la quale era diretto il vecchio professor Isaac Borg per ricevere il premio a suggello della sua carriera, come ricordano tutti coloro che hanno visto e amato Il posto delle fragole, lo stupendo film che Bergman girò nel 1957. All’interno di quel capolavoro dell’architettura romanica nordica - che i turisti ammirano soprattutto per il trecentesco orologio astronomico della facciata con la sua sfilata di Magi a ogni battere d’ora - ad accogliere il papa sarà l’arcivescovo di Uppsala, primate luterano di Svezia, che attualmente è una donna, Antje Jackelén. Precedentemente questa teologa occupò proprio la sede episcopale di Lund ove era anche docente presso la già citata università: io stesso ho avuto occasione di incontrarla varie volte e di svolgere con lei un importante dialogo nell’Accademia delle Scienze di Stoccolma.
Come è noto, la data scelta per questo atto ecumenico è legata a quel mercoledì 31 ottobre 1517 quando Martin Lutero affisse (secondo una tradizione non strettamente documentata) le celebri 95 tesi alle porte della chiesa del castello di Wittenberg, cittadina sull’Elba in Sassonia, ideale manifesto del protestantesimo. In realtà, come dice il titolo dell’editio princeps, quelle asserzioni ruotavano attorno alla questione dibattuta delle indulgenze, Disputatio pro declaratione virtutis indulgentiarum, ma già vi si intravedevano i germi della futura Riforma.
Col gesto ecumenico di papa Francesco si apre l’anno dedicato a Lutero e alla sua opera, ma si manifesta in modo incisivo la distanza che intercorre rispetto alla tensione e alla divisione che imperavano cinquecento anni fa e nel prosieguo dei secoli successivi.
Naturalmente avremo occasione di rievocare ancora questo centenario che domani ha il suo avvio. Ci accontentiamo ora solo di qualche segnalazione bibliografica recente, per certi versi marginale. Una particolare sottolineatura merita subito il breve saggio di un cardinale tedesco noto teologo, Walter Kasper, che fu per più di un decennio a capo del dicastero vaticano per la promozione dell’unità dei cristiani. Il suo è un ritratto di Lutero in “prospettiva ecumenica”, posto all’insegna del dialogo: infatti, «abbiamo bisogno di un ecumenismo accogliente, in grado di imparare gli uni dagli altri» e non di esorcizzarci a vicenda, frapponendo subito il muro delle differenze dottrinali ed ecclesiali che pure devono essere riconosciute.
Proprio per questo è necessaria un’opera di contestualizzazione perché Lutero è intimamente intrecciato nei fili aggrovigliati di un’epoca storica ove religione e politica si arruffavano e si azzuffavano, un grembo oscuro ma fecondo dal quale sarebbe nata la modernità. Il grande riformatore, perciò, si rivela certamente rivestito degli abiti consunti di un passato ormai remoto, ma al tempo stesso svela un’attualità intima profonda, anche perché egli «con inaudita energia pone al centro la più centrale di tutte le questioni, la questione su Dio» e, di conseguenza, «la questione teologica decisiva del rapporto tra teonomia e autonomia». Il suo impulso primario non era quello di fondare una Chiesa separata ma di rinnovare la cristianità, riportandola alla sua matrice, cioè la gloria e la grazia di Dio e la fede dell’uomo.
Come scrive Kasper, al di là della vis polemica, di cui pure non difettava, e delle derive a cui fu costretto dal contesto socio-politico e dall’infausta e dura reazione cattolica, «il vangelo per Lutero ... era un messaggio vivo che interpella esistenzialmente la persona, un incoraggiamento e una promessa pro me et pro nobis. Era il messaggio della croce, il solo che dona pace».
Per cogliere questa temperie spirituale radicale di un uomo dal fascino magnetico, che talora era persino rozzo e brutale ma che sapeva essere anche mistico e delicato, può essere utile - all’interno dell’immensa sua produzione teologica - ritagliare alcune sue preghiere. È ciò che hanno fatto un teologo valdese, Fulvio Ferrario, e una funzionaria consolare, Berta Ravasi, con una suggestiva selezione di invocazioni che coprono l’arco intero dei momenti spirituali e liturgici della giornata dall’alba alla sera, della contemplazione e della tentazione, del peccato e del perdono, del matrimonio e della famiglia, della vita ecclesiale e di quella civile, per approdare all’ultima ora, quando la morte, spesso evocata, verrà abbracciata perché essa conduce all’incontro con l’amato Signore e alla sua pace infinita.
Certo, la Riforma protestante va oltre il suo primo artefice e si rivela più complessa e non sempre facilmente accessibile. Un docente di storia di un’università americana, Glenn S. Sunshine, propone allora un profilo un po’ “impressionistico” della Riforma «per chi non ha tempo», puntando soprattutto su quella traiettoria storica dalle mille ramificazioni che giunge alla pace di Vestfalia quando, il 24 ottobre 1648, tutte le potenze europee coinvolte nell’aspra guerra politico-religiosa dei Trent’anni giunsero a un accordo, facendo calare il sipario sul Sacro Romano Impero.
Il percorso, necessariamente semplificato, accompagnato dalle vignette un po’ grossolane di Ron Hill, è delineato da un’angolatura protestante ma sostanzialmente equilibrata e lineare e si allarga a tutto l’orizzonte europeo comprendendo perciò lo scisma di Enrico VIII, le scelte radicali di Zwingli, l’opera di Calvino e anche quella Svezia da cui siamo partiti (nella imponente cripta della cattedrale di Lund, sorretta da 28 colonne, riposa l’ultimo arcivescovo cattolico, Birger, morto nel 1519 e artefice del restauro di quel tempio), mentre un’appendice di Carlo Papini si interessa anche del protestantesimo italiano.
Un protestantesimo minoritario costretto a confrontarsi, spesso aspramente, con la prevalente cattolicità. Senza voler entrare in questo territorio accidentato, vorremmo proporre solo un curioso documento recentemente pubblicato dal Comitato Edizioni Gobettiane. Si tratta di un breve saggio sulla Rivoluzione protestante (e il titolo è significativo) di un amico di Gobetti, il noto pensatore antifascista sostenitore di un liberalismo progressista: è il calabrese Giuseppe Gangale (1898-1978), prima cattolico, poi ateo, successivamente massone e infine convertito al protestantesimo, con un forte impegno intellettuale e sociale e un’esperienza di esilio in paesi protestanti.
Ebbene, la sua analisi lo conduce ad assumere, tra l’altro, una delle componenti della visione protestante, il richiamo alla coscienza individuale, per abbozzare una “rivoluzione” da far serpeggiare nel terreno sociale italiano, contaminato da quella sorta di zizzania che era ai suoi occhi il cattolicesimo, definito senza esitazione «il male d’Italia». Si propone, così, come osserva uno dei nostri maggiori teologi protestanti, Paolo Ricca, nella sua puntuale postfazione critica, una religione (e una concezione civile) in cui «l’uomo è sacerdote a se stesso e l’autorità non è più esteriore ma interiore, fondata sulla coscienza autonoma e non più eteronoma». Da queste pagine si riesce a intuire per contrasto quanto sia complesso ma necessario un serio dialogo in tutte le sue forme, per evitare fraintendimenti e stereotipi, semplificazioni ed equivoci, ma scoprire anche coincidenze e valori comuni.
Papa in Svezia a commemorare 500 anni Riforma Lutero
Bergoglio partito da Fiumicino, per il 17.mo viaggio internazionale del pontificato
di Redazione ANSA *
Papa Francesco è partito per la Svezia. L’airbus A321 di Alitalia è decollato alle 8.25 dall’aeroporto di Fiumicino. L’arrivo è previsto per le 11 all’aeroporto internazionale di Malmoe.
Il Papa parte per il 17.mo viaggio internazionale del pontificato che lo porta in Svezia: è stato invitato dalla Federazione luterana mondiale (LWF) a partecipare alla cerimonia di commemorazione dei 500 anni della Riforma di Martin Lutero. Il viaggio ha questa forte connotazione ecumenica, e quando papa Francesco ha accolto il desiderio della piccola comunità cattolica svedese e dei paesi vicini, di celebrare una messa, ha voluto che avvenisse in un altro giorno e in un altro luogo rispetto alle celebrazioni ecumeniche, proprio per rimarcare l’importanza e la specificità di queste.
Oggi dunque avrà due incontri ecumenici - un rito nella cattedrale di Lund e un evento con testimonianze nella Malmo Arena - e domani, festa di Ognissanti, celebrerà la messa presso lo stadio di Malmo, alla quale sono invitati anche gli esponenti della LWF. Durante il viaggio in Svezia il Papa pronuncerà quattro interventi pubblici, tra omelie, discorsi e Angelus, ed è previsto che parli in spagnolo.
La Svezia ha già accolto un papa nel 1989, quando Giovanni Paolo II ha compiuto un viaggio in Scandinavia. Papa Francesco dunque, arriverà alle 11 all’aeroporto di Malmo, dove ci sarà l’accoglienza ufficiale ai piedi della scaletta, da parte del premier svedese, Stefan Lofven e del ministro della Cultura, signora Alice Bah-Kuhnke. Ci saranno anche altre autorità e alcuni membri della LWF. L’accoglienza è semplice e non ci saranno discorsi. Subito dopo, nella sezione Vip dell’aeroporto, papa Bergoglio incontrerà privatamente il premier e il ministro della Cultura.
Subito dopo, trasferimento in macchina per circa 42 chilometri a Igelosa, dove presso una grande struttura di ricerca medica che ha già ospitato gli incontri della Conferenza episcopale svedese, papa Francesco alloggerà durante questo viaggio. Percorsi circa dieci chilometri in automobile, il Pontefice raggiungerà Lund, dove presso il Palazzo Reale renderà alle 13,35 una visita di cortesia al re Carlo Gustavo XVI e alla regina Silvia. Con i reali, poi, il Papa percorrerà i centro metri che separano la Residenza reale dalla cattedrale di Lund.
Qui alle 14,30 ci sarà la preghiera ecumenica comune comune, e sia il Papa che il presidente della LWF, Munib Younan, pronunceranno un discorso. Alla fine, percorrendo in pullmino 28 chilometri, i leader religiosi si recheranno alla Malmo Arena, dove, introno alle 16,40, è previsto un evento ecumenico con l’ascolto di quattro testimonianze di impegno comune tra LWF e Caritas internationalis.
Prima dell’evento, i leader religiosi si incontreranno nella Green Room della Arena. Alle 18,10 nella Malmo Arena, poi, il Papa e il segretario generale della LWF, Martin Junge e il presidente del Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, card. Kurt Koch, saluteranno individualmente i 30 capi delle delegazioni cristiane presenti alla commemorazione dei 500 anni della Riforma. Alle 19 papa Francesco sarà a Igelosa, per la cena e la notte.
Domattina l’arrivo allo stadio di Malmo per la messa è fissato alle 9,15 e, dopo la messa e l’Angelus papa Francesco ripartirà dall’aeroporto di Malmo alle 12,45, e l’arrivo a Roma Ciampino è previsto intorno alle 15,30.
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Nel segno di poveri e rifugiati il viaggio luterano di Francesco
I significati della missione che porterà il Papa a Lund, in Svezia in occasione del cinquecentesimo anniversario della Riforma
di Alberto Melloni (la Repubblica, 27.10.2016)
Il vento è una grande figura biblica. È il Soffio che accarezza il mondo vuoto, la Voce dell’impalpabile silenzio che parla ai profeti, l’irruento Respiro che divide il mare della liberazione. Ed è un vento di questa caratura biblica quello che percorrerà l’Europa e porterà il Papa di Roma a Lund,in Svezia, luogo di fondazione, della federazione mondiale delle Chiese evangeliche - quelle che il gergo chiama protestanti o luterane.
Francesco infatti parteciperà ad un giubileo non suo: quello che prepara il 500° anniversario dell’inizio della riforma di Lutero (quando, si racconta, vennero affisse le 95 tesi alla porta del duomo di Wittenberg), con cui egli manifestava cos’è la sete cristiana di salvezza e l’insofferenza per l’abuso nella chiesa.
Quello di Francesco sarà «un gesto senza precedenti», ripeteranno enfaticamente tutti. Pur sapendo che vedere un Papa fare qualcosa di mai fatto prima, non sorprende ormai nessuno. E anzi, volendo andare di fino, si potrebbe dire che anche questa usuale ricerca dell’inusuale potrebbe apparire come una scivolosa analogia col registro della politica e della sua fame di exploit, e potrebbe far correre al magistero il rischio di venir ascoltato quando fa cose strane e di venir ignorato - come ad esempio accade davanti alla tragedia di Aleppo o di Mosul - quando annuncia il vangelo della pace.
In realtà ciò che c’è di storico nel gesto di Lund non consiste nel fare a favore di telecamera qualcosa di “nuovo”: ma nel dimostrare che alla fine del mondo latinoamericano, dove la teologia europea ha spesso visto dilettantismi e pericoli, una chiesa aveva custodito i grandi semi del Concilio e del Novecento, vivi e vitali. E fra quei semi c’è l’ecumenismo.
Un movimento che in Occidente s’è talmente rinsecchito fra cortesie di capi e negoziati fra teologi che il termine ha finito per essere utilizzato da non pochi cialtroni per indicare il rapporto fra cristianesimo e religioni.
Però il seme ecumenico che Francesco riporta al centro della scena era ed è altro: non compromessi tessuti all’ombra dei rapporti di forza, ma il desiderio di sperimentare che anche la Chiesa può vivere una unità come tensione che continuamente la riforma e la aduna.
Per i cattolici era stata una gigantesca conversione dall’utopia del “ritorno” dei fratelli separati alla chiesa del papa alla ricerca. Nella quale la maggiore o minore prossimità rituale e dottrinale costituiva un banco di prova: Roma si sarebbe fermata al dialogo apparentemente più “facile” con l’ortodossia o avrebbe cercato l’unità anche con le Chiese della e dopo la riforma?
Questa domanda ha segnato la primavera ecumenica del cattolicesimo romano: e ha avuto un grande peso nel dialogo cattolico- luterano. Il centenario della nascita di Lutero nel 1983 fu l’occasione per un primo grande passo: grazie a un lavoro storico intenso l’intensità cristiana di Lutero ricominciava a parlare ad entrambe le chiese. Liberava Lutero dai miti e dagli anti-miti e consegnava a tutte le Chiese la passione di un un uomo che dopo un secolo in cui la riforma da tutti attesa era stata rinviata, la imboccava a proprio rischio e pericolo, ritenendo ogni compromesso impossibile in vista della salvezza.
Questa testimonianza luminosa e irruenta, non portò però a passi di comunione fra le Chiese: neppure il fondamentale accordo sulla dottrina della giustificazione del 1999, che riconosceva come le due dottrine sulle quali i cristiani si erano divisi e uccisi erano compatibili e convergenti, veniva seguito da gesti di comunione effettiva. Fornendo argomenti non piccoli a chi riteneva che l’ecumenismo fosse giunto al capolinea: o perché aveva conseguito l’enorme risultato di disarmare cristiani che si erano odiati e che imparavano a stimarsi; o perché aveva fallito l’unità dell’altare, celebrando ancora e sempre eucarestie divise.
A Lund, dunque, il papato di Francesco riprende il filo di quella ricerca: a partire da una dimensione del Corpo di Cristo, che è il Corpo del povero. Là dove era stata massima per Roma l’asimmetria fra il rapporto con l’Oriente e il rapporto coi Protestanti, Francesco reinventa un ecumenismo nel corpo del povero e del rifugiato.
Questo, che sarà uno dei contenuti della dichiarazione di Lund siglata dal Papa di Roma e dal presidente della Federazione Luterana mondiale può avere due significati: trovare ancora una volta un modo per evitare il problema di fondo - e cioè quanta unità dottrinale serve per poter celebrare la stessa eucarestia; o un modo per aprire quel capitolo a partire da un corpo nel quale c’è una presenza reale del Cristo.
In attesa che da quella sottomissione alla verità cristiana spiri un altro Vento che darà alla Chiesa quella unità che non serve ad avanzare pretese più violente, ma a mostrare al mondo che è il soffio del perdono che ne impedisce il crollo sotto il peso della crudeltà e della indifferenza umane.
Per i protestanti la parola «Jubiläum» indica il 500esimo anniversario delle 95 Tesi che si celebrerà nel 2017. Papa Francesco ha voluto giocare d’anticipo?
di Lorenzo Tomasin (Il Sole-24 Ore, Domenica, 10.01.2016)
La parola giubileo, di origine ebraica, in alcune lingue europee significa «anniversario», «ricorrenza calendariale». In tedesco, ad esempio, tale è oggi il significato comune di Jubiläum: e nella terra Martin Lutero - ma anche in quelle di Calvino, Farel, Beda e Knox, i riformatori effigiati su un famoso muro di Ginevra - un giubileo s’attende per il 2017. È il cinquecentesimo anniversario della pubblicazione delle 95 tesi di Lutero. La suggestiva quasi-coincidenza del giubileo della Riforma e del giubileo proclamato, con un anno d’anticipo su quello, dalla chiesa di Roma, è stata notata in terra protestante, dove qualcuno ha persino temuto che l’uno rischi di (o addirittura miri a) mettere in ombra l’altro.
L’attenzione alla storia da parte del mainstream cattolico contemporaneo porterebbe a escludere una studiata sovrapposizione. Si tratta, forse, di una casualità, ma è pur vero che in tal modo un giubileo «straordinario», cioè non previsto dal calendario, dedicato alla «misericordia» (tutti i giubilei cattolici, a ben vedere, lo sono, visto che in questione c’è sempre la remissione dei peccati) finisce curiosamente per coincidere con i cinquecento anni dal 1516.
In quei mesi, che Lutero ricordava come quelli in cui «cominciai a scrivere contro il papato», la dottrina cattolica della misericordia fu messa in discussione nel suo presupposto fondamentale, cioè nella prerogativa papale di gestire il perdono e la remissione dei peccati come un patrimonio a sua disposizione, amministrandoli in modo ordinario o straordinario, a seconda delle necessità di fare cassa, o di monopolizzare un’anche più redditizia audience.
Ancora nella bolla emessa per l’attuale giubileo si parla ad esempio del perdono di «peccati che sono riservati alla Sede Apostolica». Dove riservati andrà sperabilmente riferito alla loro remissione, non - come la formula potrebbe far supporre - alla facoltà di commetterli.
Il testo delle tesi luterane del 1517 verteva in effetti su una disputa che non era né politica, né economica, ma appunto teologica, giacché di teologia, a quel tempo, il papato si occupava ancora tanto intensamente quanto strumentalmente. Una riduttiva vulgata connette la polemica luterana al mero impiego del denaro nella compravendita delle indulgenze: Leone X, come è noto, aveva bisogno di rimpinguare le esauste casse pontificie, giacché il Rinascimento oltre ai suoi splendori ebbe pure i suoi costi.
Ma è ben noto, almeno fuori d’Italia, che buona parte delle 95 degnità luterane verte proprio sul tema della misericordia e della remissione dei peccati, rovesciando la prospettiva per cui il perdono parte da un’indizione papale e piove sui fedeli e proponendo la conversione individuale del fedele come vera, unica e costante fonte della misericordia. L’obiezione valeva, peraltro, anche a rivisitare, contestualizzandola, la riflessione cristiana sulla povertà materiale (tesi 59: «San Lorenzo ha detto che il tesoro della chiesa sono i poveri, ma l’impiego di questo vocabolo esprimeva la concezione del suo tempo»: si trattava in effetti di uno degli argomenti che inducevano i fedeli a devolvere offerte).
Le 95 tesi vi contrappongono, come è noto, una visione spirituale più impegnativa - seppur ancora confusa e abbozzata -, ma insieme più concretamente storica, della chiesa (tesi 62: «Il vero tesoro della chiesa è il santo vangelo della gloria e della grazia di Dio»).
Per un’altra curiosa e - ancora - certo casuale coincidenza, le parole di Lorenzo chiosate dalla luterana tesi 59 sono state ripetute qualche settimana fa dall’attuale papa. La concezione del nostro tempo (parafrasando Lutero) ha reso quella frase ben gradita ai media, soprattutto a quelli italiani, in cui i temi giubilari ricorrono con intensità maggiore che altrove, e generalmente in assenza di riferimenti diversi dalla prospettiva attuale del Vaticano o di pochi altri colli tiberini.
Così, le parole sul tesoro della chiesa sono state presentate come profondamente rivoluzionarie e innovative. Come in molti altri casi, la loro immediata efficacia ha coperto ogni riferimento alla loro storia, alla loro percezione e alla loro sedimentazione nel dibattito cristiano.
Da espressione coperta di una scaltra strategia di fund raising, esse sono state promosse a efficace slogan di un pauperismo che pure riconduce, in forme nuove, la religione a una funzione che pare prioritariamente economica, cioè a un discorso sui beni terreni, punto di partenza e punto d’arrivo di una misericordia tutta strumentale.
Del resto, anche nella pratica cinquecentesca delle indulgenze il bando papale si traduceva in un’omelia sul denaro, che i banditori pontifici deprecavano nel momento stesso in cui invitavano a devolverlo per ottenere misericordia.
Avidità e pauperismo possono talora essere due facce della stessa medaglia, cioè della stessa ossessione per i beni secolari.
Cinquecento anni dopo (e in un cattolicesimo ormai dimentico di quella storia), denominazione, natura e cronologia del giubileo della misericordia non sembrano filtrate da un’adeguata considerazione storica. Apparire innovativi, se non rivoluzionari, diventa così possibile nel solco di una indisturbata continuità e in un contesto culturale sempre più schiacciato sul presente, che tende semplicemente a ignorare la lunga prospettiva storica in cui atti e testi - quindi anche bolle e giubilei - vanno letti.
Adattandosi abilmente a un’epoca ormai indisponibile alla riflessione storica (e figurarsi a quella teologica...), la grande kermesse giubilare ritorna in forme e in parole che forse paiono talor a nuove, sui passi di una vicenda antica e, forse, semplicemente rimossa.
Martin Lutero ed Erasmo da Rotterdam
L’eterno dilemma teologico
Sul tema della libertà o schiavitù del volere umano si è consumato lo scontro epocale tra il rigido riformatore e il raffinato umanista
di Gianfranco Ravasi s.j. (Il Sole-24 Ore, Domenica, 25.10.2015)
Sarà tra due anni, ma in Germania e in molte altre nazioni ci si sta già preparando per celebrare il mezzo millennio di un evento da alcuni giudicato fatale e da altri fatidico: come è noto, il 31 ottobre 1517 a Wittenberg, cittadina sul fiume Elba, un teologo frate agostiniano trentaquattrenne (era nato il 10 novembre 1483) rendeva pubbliche le celebri “95 Tesi” che avrebbero segnato per i cattolici lo “scisma d’Occidente” e per i protestanti la “Riforma” evangelica per eccellenza. In preparazione a quella commemorazione abbiamo pensato di proporre qualche testo luterano di facile approccio.
Il primo volumetto, destinato «a spiegare ai semplici laici» il Padre nostro, la preghiera-vessillo del cristiano, fiorì da un quaresimale tenuto proprio nel 1517 da un Lutero ancora formalmente cattolico, tant’è vero che quando - anni dopo - il testo, rielaborato e ampliato dall’autore, fu pubblicato anonimo a Venezia in italiano, il censore ecclesiastico cattolico si lasciò andare a questo elogio sorprendente: «Beate le mani che hanno scritto queste cose, beati gli occhi che le vedono, beati i cuori che credono a questo libro e così gridano a Dio». Effettivamente il commento - che procede parola per parola sulla versione dell’orazione offerta dall’evangelista Matteo (6,9-13; Luca 11,2-4 ne presenta un’altra parallela ma non identica) - è segnato da una freschezza, un’essenzialità e una finezza interpretativa da meritare la comparazione che Lutero adotta in apertura quando ricorre alla metafora musicale.
Scrive infatti: «La musica è quando facciamo poche parole, ma con riflessione intensa. Quanto più parca di parole, tanto migliore è la preghiera, quanto più verbosa, tanto peggiore è la preghiera; poche parole e molto senso è cristiano, molte parole e poco senso è pagano... Chi vuole adorare Dio, lo deve adorare in spirito e verità». Questa sobrietà verbale e spirituale riaffiora in un altro scritto celebre di Lutero ormai pienamente “protestante” perché è databile 1529. Si tratta del cosiddetto Piccolo Catechismo che nasce come una sorta di divagazione che il riformatore elabora a margine, mentre sta approntando il ben più ponderoso Catechismo tedesco o Grande Catechismo.
È lui stesso in premessa a spiegare lo stimolo che lo spinge a questa operazione secondaria: visitando le comunità di Sassonia, s’era accorto della «deplorevole, misera situazione» in cui esse versavano, così da vedersi «costretto e obbligato a redigere questo Catechismo in forma breve, sobria e semplice. Buon Dio, quanta miseria ho visto! L’uomo comune non sa nulla della dottrina cristiana, in particolare nei villaggi, e purtroppo molti pastori sono quasi inetti e incapaci di insegnare, e tuttavia tutti si vedono chiamare cristiani, devono essere battezzati e ricevere i santi sacramenti, ma non conoscono il Padre nostro, il Credo, né i Dieci Comandamenti. Vivono come il buon bestiame e le scrofe irragionevoli!». È per questo che egli stila un vivace compendio catechistico attorno ai temi sopra citati.
Così, si ha un altro commento al Padre nostro a domande e risposte («Che cosa significa? Come avviene» e così via). Si passa, poi, ai Dieci Comandamenti, al Credo, ai sacramenti, cioè battesimo, eucaristia, confessione. A proposito di quest’ultima si intuisce un Lutero ancora “cattolico” che esige non solo la confessione del peccato commesso nella sua fattispecie teologico-morale, ma anche una sorta di assoluzione esterna, pronunciata dal ministro in nome di Dio a conferma che la colpa è stata perdonata. L’eucaristia o “sacramento dell’altare” «è il vero corpo e sangue del nostro Signore Gesù Cristo, che egli stesso ha dato a noi cristiani affinché sia mangiato e bevuto sotto le specie del pane e del vino». Siamo, perciò, ben lontani dalla concezione meramente simbolica sostenuta poi da Zwingli, l’altro riformatore svizzero, ben più radicale.
Nella linea di questo fermento preparatorio alla commemorazione del 2017, possiamo segnalare la nascita, avvenuta nel 2011, dell’Accademia laica ed ecumenica di Studi luterani in Italia (ASLI). Uno dei frutti di questa istituzione è la celebrazione di convegni sul pensiero luterano: segnaliamo, allora, la recente pubblicazione degli atti di un incontro del 2012 dedicato al rapporto tra Lutero e la mistica. È, infatti, indubbia una temperie fortemente spirituale nella fede personale e nella stessa visione teologica del riformatore: emblematiche in questo senso sono sia la sua esegesi delle pagine della Genesi dedicate ad Abramo e alla prova terribile del monte Moria, base anche di quel gioiello che sarà Timore e tremore di Kierkegard, sia la sua ripresa della mistica nuziale che si consuma nell’incontro sponsale tra l’anima redenta e Cristo. In questa luce è interessante anche l’eredità di matrice agostiniana di s. Bonaventura che pervade il pensiero luterano (talora in modo anche critico), movendosi sull’oscillazione tra i due poli dell’amore e della fede.
Ci sembra, alla fine, suggestivo introdurre in una specie di controcanto o di contrappunto con Lutero un’altra imponente figura di quegli anni, Erasmo di Rotterdam. Lo facciamo non tanto con uno dei molti ponderosi saggi dedicati a questo straordinario umanista, bensì con una delle varie biografie romanzate composte dall’ebreo viennese Stefan Zweig, vero e proprio maestro di questo genere letterario. L’opera nasce nell’anno in cui lo scrittore si è stabilito a Londra, il 1934-35, per sfuggire alla barbarie nazista che aveva già messo al rogo le sue opere. Non si era, però, ancora davanti alle ulteriori atrocità hitleriane che spingeranno uno Zweig sconvolto e la sua giovane seconda moglie al suicidio a Rio de Janeiro durante il carnevale del 1942.
Per lo scrittore austriaco è una iattura che «la gloria più alta e più luminosa di quel secolo» sia ora votata all’oblio e che «le sue opere innumerevoli, redatte in una lingua supernazionale ora dimenticata, il latino degli umanisti, dormano indisturbate nelle biblioteche».Ecco, allora, il tentativo di abbozzare un ritratto vivo e raffinato di colui che «è stato il primo europeo cosciente, il primo bellicoso amico della pace, l’avvocato più facondo dell’idealità umanistica». Questi e altri lineamenti della fisionomia di Erasmo non potevano che entrare in collisione con la figura intransigente, spigolosa e rigorosa di Lutero, pur intercorrendo tra i due alcune sintonie, come l’amore per la Parola di Dio da tutelare, anche in sede critico-filologica. Famoso per la dialettica tra i due è già il titolo di quel De libero arbitrio (1524) erasmiano che rivela la sua distanza e l’incompatibilità col riformatore che gli opporrà l’anno dopo un lapidario De servo arbitrio.
Zweig riserva pagine appassionate a questo confronto tra il raffinato umanista, invitato «in tono perentorio a tralasciare ogni discorso caustico, retorico o fiorito», e l’«avversario gigantesco», dotato di una «superiorità combattiva». Ma uno dei nodi capitali dello scontro - continua lo scrittore viennese - è «l’eterno dilemma per la teologia: la questione della libertà o schiavitù del volere umano». Ed Erasmo ribadisce in modo folgorante che «non dobbiamo cercare di evitare la Scilla dell’orgoglio per lasciarci trascinare nella Cariddi del fatalismo». Secondo Zweig, lo studioso di Rotterdam non ebbe il coraggio di abbandonare il suo essere a metà del guado tra i due scogli per compiere la scelta audace di progredire verso la modernità piena.
La svolta sulla Riforma
Il Papa sarà in Svezia all’anniversario di Lutero
Per i 500 anni scelta ecumenica di cattolici e protestanti
di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 26.01.2016)
CITTÀ DEL VATICANO L’inizio della Riforma è considerato il 31 ottobre del 1517, l’affissione delle 95 tesi sul portone della chiesa di Wittenberg, ma il momento più drammatico è quando il monaco Martin Lutero parlò alla Dieta di Worms, 18 aprile 1521, per dire «non confido né nel Papa né nel solo Concilio, poiché è certo che essi hanno spesso errato e contraddetto loro stessi» e affidarsi alla sola scriptura e alla propria coscienza «prigioniera della Parola di Dio».
Bisogna partire da qui, per misurare la portata del gesto epocale del Papa, mezzo millennio più tardi: Francesco parteciperà a una cerimonia congiunta fra la Chiesa cattolica e la Federazione luterana mondiale per commemorare il cinquecentesimo anniversario della Riforma. In un comunicato congiunto, si spiega che la «commemorazione ecumenica» si svolgerà il 31 ottobre di quest’anno nella città svedese di Lund, e sarà presieduta dal pontefice assieme al vescovo Munib A. Younan e al reverendo Martin Junge, presidente e segretario generale della Federazione luterana mondiale.
«Sono profondamente convinto che adoperandoci per la riconciliazione fra Luterani e Cattolici operiamo per la giustizia, la pace e la riconciliazione in un mondo lacerato dai conflitti e dalla violenza», spiega il reverendo Junge. Il cardinale Kurt Koch ha spiegato che la commemorazione ecumenica sarà possibile «concentrandosi insieme sulla centralità della questione di Dio e su un approccio cristocentrico».
Il cammino di riavvicinamento prosegue dal Concilio. Un momento importante è stata la «Dichiarazione congiunta sulla Dottrina della giustificazione» che nel 1999 superò secoli di dispute teologiche. Resta memorabile il gesto di Benedetto XVI a Erfurt, il 23 settembre 2011, nella chiesa dell’ex convento degli agostiniani dove Lutero si formò dal 1505 al 1511: l’elogio di Lutero e della sua «passione profonda, molla della sua vita e dell’intero suo cammino» per «la questione su Dio» e le considerazioni di Ratzinger sul «pensiero» e la «spiritualità del tutto cristocentrica» del padre della Riforma, «la sua scottante domanda: come mi trovo davanti a Dio?, deve diventare di nuovo, e certo in forma nuova, anche la nostra domanda».
Il cammino è ancora lungo. Ma non a caso l’annuncio è arrivato, ieri, alla fine della settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. «Mentre siamo in cammino verso la piena comunione tra noi, possiamo già sviluppare molteplici forme di collaborazione per favorire la diffusione del Vangelo. E camminando e lavorando insieme, ci rendiamo conto che siamo già uniti nel nome del Signore», ha detto ieri Francesco durante i Vespri celebrati nella basilica di San Paolo fuori le Mura con i rappresentanti delle altre confessioni cristiane. Francesco, la sera dell’elezione nella Sistina, si presentò come vescovo della Chiesa di Roma «che presiede nella carità tutte le Chiese»: una citazione di Ignazio di Antiochia, Padre della Chiesa indivisa del II secolo, come segnale a tutti i cristiani.
Le parole di Bergoglio hanno richiamato ieri sera i mea culpa di Wojtyla: «In questo Anno giubilare straordinario della Misericordia, teniamo ben presente che non può esserci autentica ricerca dell’unità dei cristiani senza un pieno affidarsi alla misericordia del Padre. Chiediamo anzitutto perdono per il peccato delle nostre divisioni, una ferita aperta nel Corpo di Cristo. Come vescovo di Roma e pastore della Chiesa cattolica, voglio invocare misericordia e perdono per i comportamenti non evangelici tenuti da parte di cattolici nei confronti di cristiani di altre Chiese. Allo stesso tempo, invito tutti i fratelli e le sorelle cattolici a perdonare se, oggi o in passato, hanno subito offese da altri cristiani». Il Papa ha concluso: «Non possiamo cancellare ciò che è stato, ma non vogliamo permettere che il peso delle colpe passate continui a inquinare i nostri rapporti. La misericordia di Dio rinnoverà le nostre relazioni».
Il dilemma su opere e fede
di Giuseppe Galasso (Corriere della Sera, 26.01.2016)
È difficile non percepire il rilievo storico della partecipazione di papa Francesco all’avvio nel prossimo ottobre, a Lund, delle celebrazioni in vista del cinquecentesimo anniversario di quell’affissione delle 95 Tesi di Lutero alla porta della chiesa del castello di Wittenberg (31 ottobre 1517), che è stata da sempre assunta come data di nascita della Riforma protestante. Molti colloqui tra protestanti e cattolici vi furono nei primissimi tempi della Riforma, e puntò le sue carte su una loro conciliazione Carlo V come sovrano del Sacro romano impero.
Nel 1541 si tenne l’incontro sostanzialmente decisivo di questi ripetuti tentativi. Vi fu presente per i cattolici il cardinale Gasparo Contarini, noto esponente dell’ala moderata della Curia romana. Da parte protestante vi parteciparono Filippo Melantone e Martin Bucer, personalità eminenti del campo opposto.
L’incontro si arenò del tutto sulla questione della Dottrina della giustificazione del cristiano (solo per la fede, come per Lutero, o per la fede e per le opere, come per la Chiesa cattolica?), che implicava quella del ruolo della Chiesa nella vita dei fedeli e nel mondo, nonché quella della posizione e del ruolo del papa nella Chiesa.
In seguito il solco tra cattolici e protestanti si fece molto più largo e profondo di quanto si sarebbe mai potuto pensare fra credenti che si rifacevano tutti al nome e alla parola del Cristo, con conseguenze sanguinose e devastanti nella storia d’Europa e all’interno di ciascuna delle due confessioni cristiane, di cui l’una considerava l’altra come l’impero del male.
Tranne poche eccezioni, un diverso orizzonte si aprì solo col Concilio Vaticano II e con i papi Giovanni XXIII e Paolo VI. Dal Concilio uscì una dottrina dell’ecumenismo come dimensione essenziale della condizione di una vera confessione cristiana, cui si accompagnò pure l’istituzione di un Segretariato vaticano per la ricerca dell’unità fra i cristiani. Sono due prospettive diverse. L’ecumenismo va molto oltre i confini tra i cristiani e abbraccia tutte le altre maggiori religioni.
Quanto a protestanti e cattolici, si è svolto dopo il Concilio un lavoro intensissimo, che giunse nel 1999 a una dichiarazione congiunta sul punto dottrinario di maggiore contrasto, quello della giustificazione. Il documento è, peraltro, più una registrazione sinottica delle due diverse posizioni che una loro effettiva mediazione. Nel frattempo si sono moltiplicate le cerimonie comuni, le concelebrazioni, gli incontri e le altre iniziative che attestano il grande miglioramento del clima dei rapporti fra le due confessioni.
La presenza del Papa a Lund - una novità assoluta, si dica pure gigantesca, del tutto imprevedibile fino a ieri - potrà significare o portare a qualcosa di diverso? Il peso di un passato non casuale né immotivato rende difficile pensare a una totale vanificazione di contrasti di idee che ebbero ragioni profonde e per nulla pretestuose. Ma neppure si pensava che dal Concilio Vaticano II si giungesse fin dove ora si è giunti. Il passato ammonisce anche, infatti, a essere molto prudenti nelle previsioni.
Roma, una piazza a Lutero vicino al Colosseo. E’ polemica. Marino: "Rispetto per ogni fede"
Scoperta al Colle Oppio la targa dedicata al padre della Riforma Protestante che diede il via allo scisma.
E’ polemica, Fdi: "E’ un affronto a cattolici, a tre mesi dal Giubileo". Pucci: "Dopo 500 anni possiamo sopportarlo" *
Da oggi al Parco del Colle Oppio c’è la nuova "Piazza Martin Lutero", omaggio al padre della Riforma Protestante. A scoprire a targa dedicata al "teologo tedesco" che diede il via allo scisma, il sindaco di Roma, Ignazio Marino, insieme all’assessore alla Cultura e Sport, Giovanna Marinelli. Una inaugurazione che ha già suscitato diverse polemiche. "E’ un affronto a cattolici e al Giubileo", ha attaccato FdI. "E’ il contributo al dialogo interreligioso", ha replicato Sel.
Per il sindaco intitolare una piazza a Martin Lutero "significa il rispetto che Roma ha per ogni religione e fede. È più facile frantumare un atomo che un pregiudizio diceva Einstein. Noi oggi abbiamo frantumato dei pregiudizi. Roma è il centro della cristianità. Ne è orgogliosa. Lo è da 2000 anni e lo sarà in eterno. Roma è una città che accoglie, che rispetta le culture, le religioni e che vuole costruire un mondo migliore e questo lo si può fare solo se si superano le barriere, gli steccati e i pregiudizi", ha aggiunto il primo cittadino. A placare gli animi anche l’assessore ai Lavori pubblici con delega al Giubileo, Maurizio Pucci: "Penso che dopo 500 anni possiamo anche sopportarlo...", ha detto durante l’audizione in commissione capitolina Trasparenza.
La giunta aveva deciso di dedicare una piazza a Lutero nel marzo scorso. Una decisione arrivata sei anni dopo la richiesta della Chiesa evangelica luterana in Italia (Celi) in vista del V Centenario della venuta di Lutero a Roma. E ora dopo 5 secoli il fondatore del protestantesimo avrà una piazza dedicata nel cuore di Roma, capitale della chiesa cattolica. Alla cerimonia al Parco del Colle Oppio, vicino via della Domus Aurea e all’incrocio tra via Mecenate e via Bonghi, avvenuta dopo l’incontro tra il sindaco e la delegazione di deputati tedeschi del gruppo della Cdu sul tema "La capitale italiana: sfide e rapporto con i rifugiati a livello locale", hanno partecipato Dora Bognardi, direttore associato del Dipartimento affari pubblici e libertà religiosa (Aplr) dell’Uicca della Consulta delle Chiese evangeliche di Roma, il pastore luterano Jens-Martin Kruse, il sindaco di Eisleben, città natale di Lutero, Jutta Fischer, Michael Kretschmer, vice chairmen del Cdu/Csu Bundestagsfraktion. Roma, Marino inaugura piazza Martin Lutero
Ma la decisione del Campidoglio di intitolare una piazza al padre della riforma protestante ha però suscitato polemiche tra gli esponenti politici romani. "La nostra è una contestazione civile non contro l’intitolazione di una piazza a Lutero - precisa Federico Mollicone, esponente di Fratelli d’Italia - ma che il Parco di Colle Oppio è abbandonato al degrado. E questo avviene alla vigilia del Giubileo". Ieri invece altre proteste. "Solo con Marino al governo di Roma accade che una Capitale che a breve celebrerà l’Anno Santo indetto da Papa Francesco si appresti a intitolare una piazza a Martin Lutero", aveva detto il consigliere capitolino di Fdi-An Lavinia Mennuni, secondo la quale "l’inaugurazione a Colle Oppio ci sembra francamente un oltraggio al cattolicesimo, inopportuno a meno di tre mesi esatti dall’inizio del Giubileo". La replica era arrivata da Sel, dal coordinatore romano Paolo Cento e il capogruppo in I Municipio Mauro Cioffari, per i quali "contrapporre in maniera strumentale la cerimonia di inaugurazione della piazza dedicata al teologo all’imminente apertura del Giubileo della Misericordia è un’offesa al principio della libertà religiosa sancito dalla nostra Costituzione e al costante dialogo portato avanti dalle confessioni religiose. L’intitolazione della piazza al riformatore tedesco contribuisce alla promozione di un pluralismo culturale e religioso utile a contrastare ogni forma di pregiudizio in uno Stato laico".
Emozionato invece Marino: "Credo che l’inaugurazione di questa piazza in un luogo così centrale vicino a monumenti come il Colosseo nella città della cristianità, sia davvero importante". Dopo aver ringraziato le autorità e Paolo Masini che ha iniziato tempo fa il percorso per avere una piazza intitolata a Martin Lutero, il sindaco ha osservato: "Penso che quello che sta facendo la Germania, l’Italia e noi oggi sia un segno di quanto sia importante che tutti cerchiamo di lavorare ogni giorno per aiutare chi è rimasto indietro. Voglio leggere la frase che scrisse Lutero poco prima della sua morte, una frase impressionante perché collega questa piazza, il gesto che stiamo compiendo nei confronti dei nostri fratelli protestanti: ’Siamo mendicanti, questa è la verità".
Una inaugurazione molto sentita dalla comunità delle Chiese evangeliche presenti in piazza. "Esprimo la nostra gioia e gratitudine. E’ per noi un giorno che ha un’importanza speciale - ha detto pastore della Chiesa Luterana di S. Andrea - Siamo grati al Comune e al sindaco per aver appoggiato la nostra iniziativa. Piazza Martin Lutero è importante per diversi motivi: ricorda il suo soggiorno romano, è una piccola tessera del mosaico della città di Roma, ricorda la riforma che fu un evento religioso, è segno di una Roma aperta al mondo". Diverse le autorità presenti tra cui: l’ambasciatore della Repubblica federale della Germania, Susanne Wasum-Rainer, l’ambasciatore della Repubblica federale di Germania presso la Santa Sede, Annette Schavan, il sindaco di Lutherstadt Eisleben, città natale di Martin Lutero, Jutta Fischer. "Al sindaco prometto che nel 2017 verrò", ha concluso il primo cittadino di Roma accogliendo così l’invito fatto dal sindaco di Lutherstadt Eisleben, città natale di Martin Lutero, Jutta Fischer durante la cerimonia.
Tra la folla c’è anche chi ha viaggiato da Lutherstadt Eisleben, città natale di Martin Lutero, fino a Roma solo per non perdere la dedica della Città Eterna al padre della Riforma protestante. Torsten Lange Klemmstein è venuto in Italia proprio per non perdere questo appuntamento e oggi si è presentato alla cerimonia vestito in talare e cappello nero e camicia bianca come Martin Lutero. "Volevo essere qui in questo giorno così importante", ha commentato.
* la Repubblica, 16 settembre 2015 (ripresa parziale).
Francesco “riformatore”
di Giancarla Codrignani (“Koinonia-forum” n. 363 del 20 ottobre 2013)
Non c’è professore di storia che, trattando la Riforma luterana, non abbia evocato il danno subito dall’Italia per non aver avuto parte al fenomeno che ha agitato la Germania e il Nord Europa. Il quinto centenario è in dirittura d’arrivo e avremo modo di riparlare della questione. Intanto solo una fantasia: volete vedere che ci arriveremo "riformati" anche noi?
Lutero era un monaco agostiniano di vocazione adulta, prete, teologo: inviato a Roma, si dice che, in onore ai martiri che l’avevano bagnata con il loro sangue, si inginocchiasse entrando nella città, per come la immaginava lui, santa. Si accorse dello stile di vita del clero romano e se ne scandalizzò. Poco dopo (Lutero era tornato in Germania) Leone X deliberò la concessione dell’indulgenza a chi andasse pellegrino a Roma e, confessato e comunicato, devolvesse un’offerta per la costruzione di san Pietro. I dubbi di Lutero diventarono 95 tesi teologiche che inchiodò sulle porte del duomo di Wittemberg con le note conseguenze. Anche se l’intento del cattolico Lutero era la denuncia, non necessariamente lo scisma.
In questi ultimi anni non solo in Italia si sono diffuse pubblicazioni che preconizzavano lo "scisma silenzioso" interno alla Chiesa, fatto di secolarizzazione, di abbandoni crescenti, di cattolici (e cattoliche) non più praticanti, di disobbedienti alle norme ecclesiastiche sulla morale sessuale. Era la conseguenza deleteria dell’aver tarpato le al Vaticano II.
Repentinamente lo Spirito Santo ha portato al soglio papa Francesco: prima che la barca di Pietro imbarcasse altra acqua e andasse a fondo, il papa gesuita ha promosso una voglia di Riforma, inchiodandola per ora metaforicamente alle interviste. Se nel 1517 Papa, cardinali e curia avessero avuto lo stesso coraggio, il Concilio di Trento sarebbe stato diversamente famoso e ci saremmo risparmiati la Controriforma e qualche rogo.
Il nuovo Papa e Vescovo di Roma - in una situazione inedita per la presenza del papa dimessosi - ha toccato quasi tutti i temi bisognosi di innovazione: manca solo un intervento sul celibato obbligatorio da cancellare, sull’ordinariato militare da sopprimere restituendo i relativi stipendi allo Stato italiano e sulle donne. Sembra che su quest’ultimo tema abbia una gran voglia di esprimersi, mentre le donne, che l’hanno sentito già negare il sacerdozio e rifare i discorsi tradizionali sulla vita, embrione compreso, non vorrebbero mai che, come arriva a prevedere Juan Arias, credesse di risolvere la questione regalando loro un cardinalato femminile, segno di omologazione al modello unico maschile e non di riconoscimento di una soggettività esclusa.
Fin qui ha parlato da "peccatore" a dei peccatori e da vescovo ai cristiani; si è richiamato costantemente al Vangelo e ai valori umani; ha valorizzato il fatto religioso senza discriminare le confessioni non cattoliche e le altre religioni; ha dato il primato alla coscienza a tutti gli uomini di buona volontà, compresi gli atei, attribuendo la salvezza anche a chi non crede. Chi si era sentito allontanato e chi era anticlericale riceveva la comprensione del Papa ("io sono anticlericale") e anche chi resta pervicacemente ateo è contento di un rapporto amicale imprevisto. Se la Chiesa si riprenderà dalla depressione, sarà per la difesa a partibus infidelium.
Tutto questo è passato dentro una relazione con il mondo assolutamente inedita. Ma esiste anche - non dobbiamo esasperarla, ovviamente, e ancora una volta è Francesco il primo a sostenerlo - la dottrina. Bello, infatti, ragionare in libertà, ma bisognerà anche trarre qualche conseguenza non astratta. Bisognerà buttare via un sacco di paragrafi del "nuovo" Catechismo, rileggere quasi tutti i dogmi, consolidare le amabili conversazioni che ci hanno confortato in questi mesi. Bisognerà tenere conto di quelli a cui tutto quello che nella pubblica opinione produce entusiasmo non piace.
Non dico i lefevriani, ma i devoti, quelli che hanno speso la vita baciando la mano ai vescovi, andando in pellegrinaggio a Medjugorya o da padre Pio, ascoltando da molti parroci e vescovi esattamente l’opposto di quanto viene dicendo papa Francesco. E il clero che è sempre stato "obbediente" ai superiori per convinzione e per convenzione.
Il Papa gesuita potrà essere meno ingenuo di Lutero (e più "furbo" di Leone X) e darei per certo cheuserà sapientemente del tempo. Sempre che sia aiutato - non solo a parole ma con l’intervento attivo fin dai Consigli pastorali - dai laici, vincerà la partita e riscatterà il ritardo dei duecento anni recriminati da Carlo Maria Martini. Giusto il tempo di arrivare al 2017, anno dell’altra Riforma.
L’appello del Papa a cattolici e luterani
“Chiedano perdono gli uni agli altri”
Il Pontefice: «Le difficoltà non spaventino, bisogna confrontarsi sulla realtà storica della riforma» *
«Cattolici e luterani chiedano perdono per il male arrecato gli uni agli altri e per le colpe commesse davanti a Dio» dal quale invocare «il dono dell’unità», per la quale «le difficoltà non mancano e non mancheranno e richiederanno pazienza, dialogo, comprensione reciproca». Ma «non ci spaventiamo!». È quanto afferma papa Francesco, ricevendo in udienza in Vaticano una delegazione della Federazione Luterana mondiale e i membri della Commissione luterano-cattolica per l’Unità.
Il Papa non manca di riconoscere «i numerosi passi che le relazioni tra luterani e cattolici hanno compiuto negli ultimi decenni: non solo attraverso il dialogo teologico ma anche mediante la collaborazione fraterna in molteplici ambiti pastorali e soprattutto nell’impegno a progredire nell’ecumenismo spirituale, che costituisce l’anima del nostro cammino verso la piena comunione e ci permette di pregustarne già ora qualche frutto, anche se imperfetto». E sottolinea che «nella misura in cui ci avviciniamo con umiltà di spirito al Signore, siamo sicuri di avvicinarci anche fra di noi e nella misura in cui invocheremo dal Signore il dono dell’unità stiamo certi che Lui ci prenderà per mano e sarà la nostra guida».
Per Bergoglio, «è davvero importante per tutti lo sforzo di confrontarsi in dialogo sulla realtà storica della Riforma» di Martin Lutero, che diede vita al movimento religioso “protestante”, «sulle conseguenze e sulle risposte che ad essa vennero date. Cattolici e luterani - invita Francesco - possono chiedere perdono per il male arrecato gli uni agli altri e per le colpe commesse davanti a Dio e, insieme, gioire per la nostalgia di unità che il Signore ha risvegliato nei nostri cuori e che ci fa guardare avanti con uno sguardo di speranza». Il pontefice si dice «certo che sapremo portare avanti il nostro cammino di dialogo e di comunione, affrontando anche le questioni fondamentali come anche le divergenze che sorgono in campo antropologico ed etico. Certo - riconosce il Papa - le difficoltà non mancano e non mancheranno, richiederanno ancora pazienza, dialogo, comprensione reciproca. Ma non ci spaventiamo!», è l’esortazione finale di Francesco.
* La Stampa, 21/10/2013
“Non c’è bene senza legge non c’è libertà senza trasgressione”
intervista a Paolo Ricca,
a cura di Franco Marcoaldi (la Repubblica, 10 gennaio 2013)
Per un agnostico, o un ateo, affidarsi al “giudizio di Dio” e dunque alla sua Legge, può suonare come la definitiva resa di ogni possibile giudizio critico individuale. Paolo Ricca, pastore valdese, curatore delle opere di Lutero per l’editrice Claudiana, teologo finissimo e di grande apertura mentale, la pensa esattamente all’opposto: proprio la Legge di Dio offre la massima libertà all’essere umano. «Il discernimento del bene e del male è possibile là dove si sa che cosa siano il bene e il male. Nella visione biblica questa capacità l’uomo non ce l’ha. E quindi anche il suo discernimento è offuscato. Perciò è necessaria la parola di Dio».
Ma nella modernità occidentale, diciamo da Montaigne in avanti, l’uomo presume, a torto o a ragione, di disporre di quella capacità. Cosa la spinge, nel 2012, a cercarla ancora nella parola di Dio?
«Almeno due buone ragioni. La prima ha a che fare con Kant, il grande maestro critico della modernità, e con la sua idea di imperativo categorico. Ovvero con la rinuncia della singola persona a decidere che cosa può “imperare” nella sua propria coscienza. Seconda ragione: l’evidenza di ciò che accade intorno a noi, ogni giorno. Le pare che l’umanità nel suo insieme, e non parlo dell’arbitrio del singolo individuo, sia in grado di organizzare un sistema di leggi volte al bene comune?».
Però esistono tradizioni di pensiero, penso ad esempio al confucianesimo, in cui il fondamento etico-sociale della legge ha una base tutta mondana.
«Sì, ma l’aspetto più sorprendente del discorso biblico è che la Legge viene dopo l’Esodo. Ovvero, Dio prima libera il suo popolo e soltanto dopo gli dà la legge, fondata dunque sulla libertà raggiunta, che impedirà di tornare a uno stato di schiavitù. Lei porta l’esempio del confucianesimo, per dimostrare che non è necessario Dio per avere una legge. Ma Dio, che peraltro non è mai “necessario”, ci indica la strada per dare alla legge il suo vero significato: non come sottrazione di libertà, ma come suo massimo dispiegamento. Io penso che dobbiamo liberarci da questa idea secondo cui Dio deve esserci. Bonhoeffer parla di “un Dio che c’è, non c’è”, proprio per riaffermare che Dio non è necessario. Che Dio è libertà, non necessità. La rivelazione della Bibbia è tale proprio per questo. Rivelare, togliere il velo, vuol dire aiutare l’uomo a capire ciò che non vede: Israele ha creduto in un Dio liberatore, prima che in un Dio giudice e legislatore. È un messaggio formidabile. Certo, sempre se uno ci crede!».
Per chi è cresciuto tra le braccia della Chiesa cattolica la prima parola che viene in mente pensando alla religione, non è certo “liberazione”. Semmai il trittico dostoevskjiano “mistero, miracolo, autorità”.
«Lo capisco. Ma Dio non è la Chiesa. Sono due piani del discorso che vanno tenuti accuratamente separati».
Veniamo al Dio legislatore e dunque ai dieci comandamenti. Lei li trova ancora utili per il nostro tempo?
«Assolutamente sì. Pensi al primo comandamento, che impone di distinguere tra gli idoli e Dio. Più attuale di così! Oppure, pensi al comandamento del riposo applicato a una società come la nostra, in cui il tempo libero è ancor più schiavizzato di quello del lavoro. Purtroppo, nella cultura religiosa italiana i dieci comandamenti sono poco predicati. Alcuni sono stati addirittura stravolti: per esempio, quello sul riposo è diventato “santifica le feste”, una definizione del tutto impropria. Obbedendo a una tendenza gnosticizzante del cattolicesimo romano, l’Antico Testamento è stato messo progressivamente da parte, a esclusivo vantaggio del Vangelo. Il che spiega varie cose anche sul fronte morale. Perché il discorso sulla centralità dell’amore va bene, ma quando si arriva al comandamento “non rubare”, le cose si fanno un po’ più complicate».
Ha appena accennato al nuovo comandamento di Gesù: ama il prossimo tuo come te stesso.Gesù, però, oltre a obbedire, trasgredisce la legge.
«Certo, perché non c’è libertà senza trasgressione: bisogna trasgredire alcune leggi degli uomini in nome della legge di Dio, nella quale si manifesta appieno la nostra libertà».
Mi faccia un esempio.
«Gesù viene condannato a morte per due motivi: come trasgressore della legge del sabato e come distruttore del tempio. E perché trasgredisce la legge del sabato? Perché i teologi avevano costruito attorno a quel comandamento una serie di norme assolutamente fuori luogo. Del tipo: nel giorno del riposo puoi fare al massimo dieci passi. Così, se l’uomo caduto a terra è lontano da te dodici passi, non puoi aiutarlo. Ma mille altri sono i casi in cui è giusto trasgredire le leggi umane, in nome di una superiore legge divina. Pensi all’obiezione di coscienza: non prendo in mano il fucile per ammazzare il prossimo, anche se lo Stato me lo impone».
Capisco cosa intende dire. Però intravedo anche il rischio opposto: ogni legge dello Stato laico può essere messa in forse sulla base di una legge superiore. Pensi all’aborto.
«Ma non c’è nessuna legge divina che vieta l’aborto. Quella è una legge della Chiesa, che naturalmente ha il suo peso e il suo valore. Però nella Bibbia non si parla di aborto. Di nuovo, bisogna saper distinguere tra legge divina, legge ecclesiastica e legge civile».
Qual è il luogo simbolico per eccellenza in cui si manifesta il giudizio di Dio?
«La croce di Gesù, e questo è il paradosso dei paradossi: ovvero, il giudizio di Dio viene “giudicato” nell’uomo, e nell’uomo messo in croce. “Dio mio, perché mi hai abbandonato”, dice Gesù. È il momento della lacerazione completa dell’idea stessa di Dio. Paolo definisce la croce “pazzia” per i greci, i laici, e “scandalo” per i giudei, per i religiosi come me. La verità è che se si va alla radice del discorso cristiano, il giudizio di Dio ci conduce a un’afasia totale. Perché si assiste al capovolgimento completo tra un Dio giudicante e un Dio giudicato».
Il primo a portare Dio “in tribunale” è Giobbe, quando verifica sulla propria pelle che l’idea secondo cui se fai il bene ti ritorna il bene, non è così automatica.
«Il suo è il grido di disperazione dell’innocente che soffre ingiustamente. E protesta. La risposta di Dio, in verità non tanto chiara, lo metterà a tacere. Ancora non si dà quel rovesciamento in cui il Dio giudicante viene giudicato. Anche se già nell’Antico Testamento si affaccia l’idea secondo cui il giudizio di Dio si associa alla misericordia e non alla giustizia retributiva. E questo ci porta dritti al Nuovo Testamento, alla vita di Gesù, alla sua passione, quintessenza dell’ingiustizia: un processo farsa, la condanna, la flagellazione, la condanna a morte. Gesù subisce, ma non partecipa. Dice a un certo punto: potrei chiamare dodici legioni di angeli, ma non lo faccio. Non mi metto sullo stesso piano di Pilato, di Erode. Ed ecco il salto ulteriore, sul piano della fede. Non soltanto io non rispondo al tuo male con la stessa moneta, ma prendo su di me la tua colpa. E muoio non soltanto per la tua malvagità, ma perché ti perdono. Ora tutto questo è straordinario. Il paradosso è che le ragioni per cui uno crede o non crede, potrebbero essere le stesse. E rimandano sempre alla figura della croce. Ecco perché non posso prendermela con gli atei. Loro dicono: come posso credere a un Dio messo in croce? E io obietto: gli credo proprio perché è stato messo sulla croce».
Le ripropongo la domanda iniziale, rovesciata. Non c’è il rischio che affidandosi al giudizio di Dio si verifichi una de-responsabilizzazione dell’individuo?
«Se intende un atteggiamento fatalista nei confronti di tutto ciò che accade, come se tutto fosse sempre e comunque frutto della volontà di Dio, allora sì, c’è questo rischio. Ma cito ancora Bonhoeffer quando dice: non tutto quello che accade è volontà di Dio, mentre in tutto ciò che accade c’è un sentiero che porta a Dio. Siamo partiti dalla parola discernimento. Ebbene, io credo che Dio, inteso come libertà d’amare, sia innanzitutto luce. E questa luce illumina il nostro cammino, aiutando o addirittura determinando il nostro discernimento. In fin dei conti, è la luce che ci consente di vedere. E discernimento vuol dire capacità di vedere, quindi capacità di giudicare, dopo aver visto. Non alla cieca».
Ciò che serve all’unità
di Fulvio Ferrario
Il 31 ottobre le chiese evangeliche di tutto il mondo ricordano l’inizio della Riforma protestante, in occasione dell’anniversario dell’affissione delle famose «tesi» sulle indulgenze da parte di Martin Lutero: 31 ottobre, appunto, 1517. L’evento ha originato un moto rinnovatore di straordinaria potenza, che ha ridisegnato l’Europa e ne ha determinato la storia e la cultura. Si è trattato però, essenzialmente, di un movimento di fede: a Lutero interessavano Dio, Gesù Cristo, l’essere umano e la sua salvezza. Gli interessava anche, naturalmente, la chiesa, come luogo nel quale la parola di Dio è ascoltata, vissuta e annunciata: l’unica chiesa di Gesù Cristo, la chiesa universale, che egli amava profondamente e che, certo, andava, nel suo insieme e dunque anche nella sua unità, rinnovata.
L’idea di fondare qualcosa come una nuova chiesa non lo ha mai sfiorato. Molti però continuano ad associare il nome di Lutero alla divisione della chiesa occidentale. Da parte cattolica, oggi, si riconosce volentieri che le istanze di Lutero erano buone e giuste; peccato però, si aggiunge, che egli abbia «diviso la chiesa». È stato troppo impaziente, si dice. Non è vero: è la storia che non sempre ha la pazienza di aspettare i tempi del Vaticano. Lutero è stato scomunicato e sarebbe stato ucciso, come molti altri profeti della Riforma, se qualcuno non l’avesse messo al sicuro. La repressione inquisitoriale è stata fermata e, per questo, la chiesa ha potuto essere rinnovata. In parte: l’altra parte, sotto la guida del papa, non ha accolto le proposte che cinque secoli dopo si riconoscono costruttive e per questo, in effetti, l’unica chiesa si è spezzata in due: quella della Riforma e quella del suo rifiuto, cioè della Controriforma.
Nel 2017 si ricorderà il quinto centenario di questo evento dello Spirito santo. Qualcuno ha detto che non si potrà celebrarlo, appunto perché è stato un evento di divisione e la divisione non può essere celebrata. Merita riflettere, su questo: applicando lo stesso criterio, si dovrebbe dire che anche Gesù ha diviso il popolo di Dio, Israele. Lutero, certo, non è Gesù: ne è stato, però, un servitore ed è il rifiuto di tale servizio che ha spaccato la chiesa occidentale. Il 31 ottobre, non si ricorda la nascita di una nuova chiesa, bensì la proclamazione dell’evangelo nella comunità cristiana e nella società. L’unità della chiesa non ha bisogno di altro.
“Ecumenismo adesso!”
di esponenti del mondo politico, scientifico, culturale, sportivo tedesco
in “oekumene-jetzt.de” del 5 settembre 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Il superamento della separazione confessionale è lo scopo della nostra iniziativa di persone appartenenti a varie sfere della vita pubblica: politica, scienza, economia, cultura, sport ed altri ambiti sociali.
“Non vogliamo una conciliazione che mantenga la separazione, ma un’unità vissuta nella consapevolezza della molteplicità che storicamente si è andata formando”, si dice nel nostro appello, che presentiamo pubblicamente anche con questa pagina web e per il quale chiediamo il sostegno delle gerarchie ecclesiali e delle comunità.
Ecumenismo adesso: un solo Dio, una sola Fede, una sola Chiesa
“Cercate di conservare l’unità dello spirito per mezzo della pace che vi unisce. Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti.” (Lettera di Paolo agli Efesini, 4,3-6)
Nei prossimi anni i cristiani in tutto il mondo ricordano due particolarissimi eventi della storia della
Chiesa:
50 anni del Concilio Vaticano II
500 anni di Riforma.
In Germania la “Decade di Lutero” (Luther-Dekade*) deve servire alla preparazione e al riconoscimento di una data storica che, vista in uno sguardo retrospettivo, rappresenta una cesura nella storia, non solo del nostro paese.
I due eventi non riguardano ognuno la rispettiva confessione, ma sono una sfida per tutti ed una opportunità in particolare per le Chiese, ma non solo per loro. Parteciperemo con impegno alla preparazione e alla realizzazione di manifestazioni, mostre, pubblicazioni e liturgie per ricordare e riconoscere il Concilio Vaticano II e la Riforma, e intendiamo fare di tutto affinché dopo i giubilei non rimanga tutto come prima.
Poiché Dio nel battesimo ci ha donato la comunione con Gesù Cristo, i battezzati sono uniti gli uni agli altri come fratelli e sorelle. Formano come popolo di Dio e corpo di Cristo l’unica Chiesa che riconosciamo nel Credo. È perciò urgente che questa unità spirituale possa assumere anche una forma visibile.
Martin Lutero voleva rinnovare, non spaccare la Chiesa. Voleva l’unità della Chiesa, “affinché il mondo creda” (cf anche Gv 17,9-23). Egli riteneva espressamente che l’introduzione di una molteplicità confessionale all’interno di una regione fosse inattuabile e inadeguata. Anche la Confessio Augustana di Lutero sottolinea la necessità dell’unità della Chiesa: “Per la vera unità della Chiesa è sufficiente essere d’accordo [il latino dice: consentire] sulla dottrina dell’evangelo e sull’amministrazione dei sacramenti.” (Confessio Augustana 7).
Tuttavia si è giunti alla separazione delle Chiese. C’erano gravi differenze e malintesi, ma la scissione aveva non solo motivazioni teologiche, ma anche grandi motivazioni politiche: a questo si giunse non per una convinzione di fede di voler diventare evangelici o romano-cattolici, ma in base al luogo dove si abitava. I signori di una regione determinavano la confessione dei suoi abitanti. Per la lunga separazione delle Chiese sono state più determinanti le questioni di potere che le questioni di fede. Era quindi una logica conseguenza che il desiderio di essere un’unica Chiesa cristiana fosse ripetutamente ripreso anche dopo la separazione delle Chiese, benché con diversa intensità.
L’aspirazione all’unità delle Chiese ha ricevuto un’espressione particolare con il Concilio Vaticano II (1962-1965), che fu convocato per un rinnovamento non solo pastorale, ma anche ecumenico. Un documento fondamentale del Concilio, il decreto sull’ecumenismo (Unitatis Redintegratio) sottolineò il dovere per le cristiane e per i cristiani di impegnarsi per la ricostituzione dell’unità della Chiesa: “Da Cristo Signore la Chiesa è stata fondata una e unica, eppure molte comunioni cristiane propongono se stesse agli uomini come la vera eredità di Gesù Cristo.
Tutti invero asseriscono di essere discepoli del Signore, ma hanno opinioni diverse e camminano per vie diverse, come se Cristo stesso fosse diviso (1 Cor 1,13). Tale divisione non solo si oppone apertamente alla volontà di Cristo, ma è anche di scandalo al mondo e danneggia la più santa delle cause: la predicazione del Vangelo ad ogni creatura” (Unitatis Redintegratio, n° 1). In questo modo, il decreto romano-cattolico non si pone solo nella tradizione dell’apostolo Paolo, ma anche nella prosecuzione del desiderio di Lutero. Indica contemporaneamente dove cercare la responsabilità per l’aspirazione all’unità.
Non solo i pastori, ma anche e specificamente i fedeli sono esortati a impegnarsi per la ricostituzione dell’unità. “La cura di ristabilire l’unione riguarda tutta la Chiesa, sia i fedeli che i pastori, e tocca ognuno secondo le proprie possibilità, tanto nella vita cristiana di ogni giorno quanto negli studi teologici e storici.” (Unitatis Redintegratio, n° 5) Non possiamo e non dobbiamo abbandonare l’impegno per l’unità dell’intera Chiesa fino a che non sia raggiunta tra le gerarchie ecclesiastiche una unità teologica sul modo di intendere la missione e l’eucaristia. E non dobbiamo neppure accontentarci di avere come meta il fatto che le Chiese si riconoscano reciprocamente come Chiese. Anche se attualmente ne siamo ancora lontani: questa meta è necessaria, ma insufficiente! Non vogliamo una conciliazione con il mantenimento della separazione, ma un’unità vissuta nella consapevolezza della molteplicità che storicamente si è andata formando.
Oggi la scissione delle Chiese non è né fondata né voluta politicamente. Sono sufficienti motivi teologici, abitudini istituzionali, tradizioni ecclesiali e culturali per mantenere la separazione delle Chiese?
Noi non lo crediamo.
È evidente che, per quanto riguarda cristiani cattolici ed evangelici sono più le cose che uniscono
che quelle che dividono.
È incontestabile che ci sono posizioni diverse nel modo di intendere l’eucaristia, la missione e le
Chiese.
È però determinante il fatto che queste differenze non giustificano il mantenimento della
separazione.
In entrambe le Chiese è grande la nostalgia per l’unità. Le conseguenze della separazione vengono vissute dolorosamente nel quotidiano da cristiane e cristiani.
Apprezziamo gli sforzi fatti negli ultimi anni per fare dei passi avanti nell’ecumenismo. Siamo riconoscenti per il fatto che l’esperienza della comunità nella fede e la collaborazione pratica di comunità cattoliche ed evangeliche localmente si sia sviluppata più velocemente del processo istituzionale e teologico.
Ci appelliamo alle gerarchie delle Chiese, affinché accompagnino gli effettivi sviluppi che avvengono localmente nelle comunità, in modo che l’ecumenismo non emigri in una terra di nessuno tra le confessioni, ma superi la separazione tra le nostre Chiese. Ci appelliamo alle comunità affinché pratichino ulteriormente l’ecumenismo, modellino insieme la vita ecclesiale, usino in comunione gli spazi e cerchino di realizzare l’unità da un punto di vista organizzativo. Come cristiani in una terra di Riforma abbiamo una particolare responsabilità di porre dei segni e di contribuire a vivere la nostra comune fede anche in una Chiesa comune.
Primi firmatari:
Thomas Bach, avvocato, presidente del Deutscher Olympischer Sportbund e vicepresidente del
Comitato Olimpico Internazionale (CIO), campione olimpionico nel 1976
Andreas Barner, manager in ambito industriale, portavoce della direzione aziendale della
Boehringer Ingelheim GmbH, membro del Consiglio scientifico e preside dell’evangelischer
Kirchentag
Günter Brakelmann, teologo evangelico, fino al 1996 professore di Dottrina sociale cristiana alla
Facoltà di teologia evangelica della Ruhr-Universität di Bochum
Andreas Felger, artista, pittore e scultore. Dal 1960 attività indipendente come artista.
Christian Führer, pastore protestante, cofondatore delle “preghiere per la pace” della Chiesa Sankt
Nikolai di Lipsia
Gerda Hasselfeldt, economista, presidente del gruppo regionale CSU al Bundestag, vicepresidente
del Bundestag dal 2005 al 2011
Günther Jauch, giornalista, moderatore e produttore. Moderatore del Talk-show ARD “Günther
Jauch”. Nel 2000 fondazione di una propria azienda di produzione “I & U TV”
Hans Joas sociologo e filosofo sociale, permanent fellow presso il Freiburg Institute for Advanced
Studies (FRIAS).
Friedrich Kronenberg, economista, segretario generale del Comitato centrale dei cattolici tedeschi
(Zentralkomitee der Deutschen Katholiken (1966-1999), membro del Bundestag dal 1983 al 1990
Norbert Lammert, studioso di scienze sociali, presidente del Bundestag, membro del Bundestag
dal 1980.
Hans Maier, studioso di scienze politiche, presidente del Comitato centrale dei cattolici tedeschi
(1976-1988), ministro del Land Baviera per istruzione e culto (1970-1986)
Thomas de Maizière, giurista, Ministro della Difesa, Ministro degli interni (2009-2011).
Eckhard Nagel, medico e filosofo, direttore medico della clinica universitaria di Essen, direttore
del Institut für Medizinmanagement und Gesundheitswissenschaften (scienze della salute - IMG)
dell’Università di Bayreuth, membro del Ethikrat tedesco, membro del Consiglio direttivo del
presidio del Kirchentag evangelico, presidente evangelico del II Kirchentag ecumenico di Monaco
del 2010.
Otto Hermann Pesch, teologo cattolico-romano. Fino al 1998 professore di teologia sistematica
all’Università di Amburgo.
Annette Schavan, teologa, studiosa di pedagogia, ministro dell’Istruzione e della Ricerca,
vicepresidente del partito CDU
Uwe Schneidewind, economista, presidente del Wuppertal Institut für Klima, Umwelt, Energie
GmbH
Arnold Stadler, scrittore, vincitore, oltre ad altri premi, del Büchner-Preis (1999) e del Kleist-Preis
(2009).
Frank-Walter Steinmeier, giurista, presidente di una frazione del SPD, Ministro degli esteri (2005-
2009); vicecancelliere (2007-2009)
Wolfgang Thierse, studioso di aspetti culturali, germanista, vicepresidente e presidente del
Bundestag (1998-2005). Membro del Bundestag dal 1990.
Günther Uecker, scultore e artista di oggetti, numerose esposizioni e onorificenze internazionali.
Nel 1998-99 allestimento di un luogo di raccoglimento nell’edificio del Reichstag
Michael Vesper, sociologo, direttore generale del Deutscher Olympischer Sportbund (DOSB),
ministro dei lavori pubblici, casa, cultura e sport (1995-2005).
Antje Vollmer, teologa e studiosa di pedagogia, vicepresidente del Bundestag (1994-2005).
Membro del Bundestag (1983-1990 e 1994-2005).
Richard von Weiszäcker, presidente della Re pubblica Federale di Germania dal 1984 al 1994,
presidente del Kirchentag evangelico (1964-1970 e 1979-1981). Membro del Bundestag (1969-
1981).
Alla data dell’11 settembre 2012, alle ore 17, sono 3880 i sostenitori che hanno aderito
all’appello “Ökumene Jetzt!” firmando on line. L’elenco è consultabile sul sito:
http://oekumene-jetzt.de/index.php/unterstuetzer?view=foxpetition
*La “Luther-Dekade" è una serie di manifestazioni iniziate il 21 settembre 2008 in vista del cinquecentesimo anniversario, nel 2017, dell’affissione delle 95 tesi di Martin Lutero a Wittenberg.
Friburgo, il fantasma di Martin Lutero
Preti in rivolta contro il Papa
di Marco Politi (il Fatto, 21.06.2012)
I preti tedeschi si ribellano al Vaticano. Duecento preti e diaconi della diocesi di Friburgo hanno firmato un appello su Internet, sostenendo la legittimità della comunione ai divorziati risposati. Il luogo è simbolico. La diocesi di Friburgo è retta dall’arcivescovo Robert Zollitsch, presidente della Conferenza episcopale tedesca. È come se a Genova, sede del cardinale Bagnasco presidente della Cei, duecento sacerdoti comunicassero ufficialmente di dare regolarmente l’ostia ai fedeli in secondo matrimonio.
A Friburgo i duecento contestatori dichiarano che verso i divorziati risposati bisogna usare “misericordia” e non nascondono la loro scelta: “Nelle nostre comunità i divorziati risposati prendono parte alla comunione con il nostro consenso. Sono presenti nel consiglio parrocchiale e partecipano ad altri servizi pastorali”. È una contestazione frontale delle istruzioni vaticane, ma soprattutto una rivolta contro l’inazione del pontefice che da anni - già da prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede - si occupava della questione e non ha mai preso una decisione per superare un divieto, che colpisce dolorosamente proprio i fedeli più assidui.
A FRIBURGO il vicario generale della diocesi ha tentato di persuadere il clero a non firmare o a ritirare il consenso. Soltanto due dei firmatari lo hanno ascoltato. In realtà dietro l’appello c’è una galassia di preti in tutta la Germania, ma anche in tante parti del mondo. Italia compresa, dove molti parroci non infieriscono contro i divorziati risposati negando loro l’eucaristia.
Stephan Wahl, uno dei preti più noti in Germania per avere predicato il vangelo alla televisione per dodici anni nella popolare trasmissione “La parola della domenica” (Wort am Sonntag), ha commentato in maniera pregnante: “Come cattolico e come sacerdote mi è insopportabile che, secondo l’attuale normativa (ecclesiastica), è più facile che un sacerdote colpevole di abusi possa distribuire il sacramento (dell’eucaristia) piuttosto che un divorziato riceverlo”. I preti contestatori tedeschi rimarcano di essere ben consapevoli di “agire contro le norme canoniche attualmente in vigore nella Chiesa cattolica romana”, ma sostengono che in base all’attuale Codice di diritto canonico il principio supremo, a cui orientarsi, è la “salvezza delle anime”. Perciò ribadiscono: “Consideriamo urgentemente necessaria una nuova normativa canonica per i divorziati risposati”.
LO STESSO Ratzinger, da teologo, era del parere che di fronte ad un primo matrimonio “spezzatosi da lungo tempo e in maniera irreparabile”, e alla luce di una seconda unione rivelatasi negli anni un’autentica “realtà etica”, fosse giusto - su testimonianza del parroco e della comunità - “concedere la comunione a coloro che vivono un simile secondo matrimonio”. Correva l’anno 1972, quando Ratzinger difendeva tesi del genere.
Da allora il pontificato di Giovanni Paolo II e quello di Benedetto XVI hanno battuto ossessivamente sul tasto dell’indissolubilità del matrimonio, rifiutando qualsiasi soluzione. Benché - come ha fatto notare lo scrittore cattolico Messori durante le giornate della famiglia a Milano, benedette dal Papa - il cattolicesimo sia l’unica tra le confessioni cristiane e le religioni mondiali a negare la possibilità del divorzio. Di una presunta “legge naturale”, in proposito, è inutile parlare.
Il presidente dell’episcopato tedesco Zollitsch, sebbene attaccato a sua volta dai preti tradizionalisti riuniti nella “Rete dei sacerdoti cattolici”, ha deciso dopo qualche esitazione di ricevere una delegazione dei contestatori. Dovrebbe accadere oggi. Un atteggiamento molto diverso da quello del cardinale Scola, il quale - come riferito dall’agenzia Adista - ha impedito nel gennaio scorso al consiglio presbiterale milanese di mettere all’ordine del giorno anche la mera analisi e discussione del tema “divorziati risposati e accesso ai sacramenti”.
Dopo un netto intervento contrario del cardinale la proposta avanzata dai sacerdoti Aristide Fumagalli e Giovanni Giavini ha ottenuto 7 sì, 13 no e 27 astensioni (segno evidente di come tanti preti attendano un cenno dall’alto per parlare finalmente liberamente). IL CASO di Friburgo è solo la punta dell’iceberg dell’insoddisfazione per lo stallo totale di ogni riforma. Si sono già mobilitati i preti austriaci con l’“Iniziativa dei parroci”. Chiedono la riforma della Chiesa, la fine del cumulo di parrocchie affidate a un solo parroco, l’accesso al sacerdozio di sposati e donne.
VATICANO
Papa, omaggio a Lutero "Dio, la sua passione profonda"
Ratzinger in visita a Erfurt, città dove il padre della protestantesimo fu ordinato monaco. "Per me emozionante incontrare qui i rappresentati della Chiesa evangelica in Germania" *
ERFURT - Il Papa visita la città dove fu ordinato il monaco tedesco che nel Cinquecento ruppe col papato e dette avvio alla più vasta riforma della storia del cristianesimo e sottolinea l’attualità della sua fede in confronto al tiepido atteggiamento di molti credenti odierni.
"Come posso avere un Dio misericordioso?", ha detto Ratzinger citando il padre del protestantesimo. "Che questa domanda sia stata la forza motrice di tutto il suo cammino mi colpisce sempre nuovamente. Chi, infatti, si preoccupa oggi di questo, anche tra i cristiani? Che cosa significa la questione su Dio nella nostra vita? Nel nostro annuncio? La maggior parte della gente, anche dei cristiani, oggi dà per scontato che Dio, in ultima analisi, non si interessa dei nostri peccati e delle nostre virtù". E invece "il male non è un’inezia", ha detto ancora il Papa. "Esso non potrebbe essere così potente se noi mettessimo Dio veramente al centro della nostra vita. La domanda: qual è la posizione di Dio nei miei confronti, come mi trovo io davanti a Dio? - questa scottante domanda di Martin Lutero deve diventare di nuovo, e certamente in forma nuova, anche la nostra domanda".
"Per me, come vescovo di Roma, è un momento emozionante incontrare qui, nell’antico convento agostiniano di Erfurt, rappresentanti del consiglio della chiesa evangelica in Germania", ha detto il Papa. "Qui Lutero ha studiato teologia. Qui è stato ordinato sacerdote nel 1507. Contro il desiderio del padre, egli non continuò gli studi di giurisprudenza, ma studiò teologia e si incamminò verso il sacerdozio nell’ordine di Sant’Agostino. In questo cammino non gli interessava questo o quello. Ciò che non gli dava pace era la questione su Dio, che fu la passione profonda e la molla della sua vita e dell’intero suo cammino. ’Come posso avere un Dio misericordioso?’: questa domanda gli penetrava nel cuore e stava dietro ogni sua ricerca teologica e ogni lotta interiore. Per lui la teologia non era una questione accademica, ma la lotta interiore con se stesso, e questo, poi, era una lotta riguardo a Dio e con Dio".
* la Repubblica, 23 settembre 2011
DIO E L’UMANITA’ POSSONO ATTENDERE!!! FEDI, AMMINISTRATORI DELEGATI, ED ECUMENISMO ...
ACCORDO TRA GLI AMMINISTRATORI DELEGATI DELLA FEDE CATTOLICA E DELLA FEDE LUTERANA.
Nel 2017, “una dichiarazione congiunta cattolico luterana sull’ospitalità eucaristica”!!!
Roma (NEV), 15 dicembre 2010. Il presidente della Federazione luterana mondiale (FLM), vescovo Munib Younan, è in questi giorni a Roma per una visita in Vaticano e presso la Chiesa evangelica luterana in Italia (CELI). “L’occasione di questo viaggio - ha spiegato Younan - è l’incontro annuale tra lo staff della nostra Federazione e il Pontificio Consiglio per la promozione per l’unità dei cristiani per discutere delle linee generali e delle priorità del dialogo e della collaborazione ecumenica tra le nostre chiese”. Questo avverrà domani mattina e includerà un’udienza della delegazione con papa Benedetto XVI. “Nel colloquio con il papa sottolineeremo l’importanza del dialogo tra le nostre chiese e del comune lavoro diaconale a favore degli ultimi e degli svantaggiati. Faremo però anche presente una nostra proposta: arrivare nel 2017, anno del Cinquecentenario della Riforma protestante, a una dichiarazione congiunta cattolico luterana sull’ospitalità eucaristica” (NEV - Notizie Evangeliche http://www.fcei.it - cfr.: http://www.ildialogo.org/NotizieEcumeniche/Notizie_1292601804.htm )
L’EU-CHARIS-TIA E’ IL DONO DEL DIO DELL’AMORE PIENO DI GRAZIA ("CHARITAS") NON DI MAMMONA PIENO DI SOLDI (" CARITAS ")! NON E’ “CATTOLICO" E NEMMENO “LUTERANO”: “CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE... DEUS CHARITAS EST" (1 Gv., 4. 1-16). " Dio è al di là delle frontiere che vengono erette " (Carlo M. Martini, 2008).
Federico La Sala
VATICANO
Pedofilia, il Papa ai seminaristi:
"Colpevoli distruggono sacerdozio"
L’abuso sessuale di bambini e giovani, scrive Benedetto XVI ai futuri sacerdoti, "ha provocato distruzioni di cui proviamo profondo dolore e rincrescimento". Ma "l’abuso non può screditare la missione, che rimane grande e pura" *
CITTA’ DEL VATICANO - I sacerdoti pedofili "hanno sfigurato il loro ministero con l’abuso sessuale di bambini e giovani". È quanto afferma Benedetto XVI in una lettera che ha inviato ai seminaristi a conclusione dell’anno sacerdotale in merito allo scandalo degli abusi sessuali commessi dai preti 1. Violenze che "hanno provocato distruzioni di cui proviamo profondo dolore e rincrescimento", aggiunge il Pontefice che però avverte: "l’abuso non può screditare la missione sacerdotale, la quale rimane grande e pura".
"Ciò che è accaduto deve renderci più vigilanti e attenti - scrive il Papa rivolgendosi ai futuri sacerdoti - a causa di tutto ciò può sorgere la domanda in molti, forse anche in voi stessi, se sia bene farsi prete; se la via del celibato sia sensata come vita umana. Grazie a Dio, tutti conosciamo sacerdoti convincenti, plasmati dalla loro fede, i quali testimoniano che in questo stato, e proprio nella vita celibataria, si può giungere a un’umanità autentica, pura e matura".
"Gli anni nel seminario - raccomanda il Pontefice - devono essere anche un tempo di maturazione umana, e "di questo contesto fa parte anche l’integrazione della sessualità nell’insieme della personalità". Per il sacerdote, prosegue la lettera, "il quale dovrà accompagnare altri lungo il cammino della vita e fino alla porta della morte, è importante che egli stesso abbia messo in giusto equilibrio cuore e intelletto, ragione e sentimento, corpo e anima, e che sia umanamente ’integro’. La tradizione cristiana, pertanto - ricorda Ratzinger - ha sempre collegato con le virtù teologali anche le virtù cardinali, derivate dall’esperienza umana e dalla filosofia, e in genere la sana tradizione etica dell’umanità". Benedetto XVI cita in proposito San Paolo per il quale "quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode, questo sia oggetto dei vostri pensieri".
"La sessualità - dice il Papa nella lettera - è un dono del creatore, ma anche un compito che riguarda lo sviluppo del proprio essere umano". "Quando non è integrata nella persona - prosegue - la sessualità diventa banale e distruttiva allo stesso tempo", e "oggi vediamo questo in molti esempi nella nostra società.
* la Repubblica, 18 ottobre 2010
Lutero. II presidente Napolitano: "Apprezzamento per l’iniziativa ’Lutero e Roma’"
di Agenzia NEV del 13 ottobre 2010 *
Roma (NEV), 13 ottobre 2010 - Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha rivolto i suoi saluti e un augurio di buon lavoro alla Giornata di studi su "Lutero e Roma". La Giornata, promossa dal Comitato delle chiese evangeliche romane, si è tenuta lo scorso 11 ottobre presso la Sala della Protomoteca del Campidoglio, e ha riscosso un notevole successo di pubblico con la partecipazione di circa 500 studenti delle scuole superiori. Giorgio Napolitano, nel messaggio inviato ai promotori dell’incontro, ha espresso il suo apprezzamento per l’iniziativa "che ha costituito, anche in una prospettiva di approfondimento culturale, un’importante occasione per riflettere sulla significativa vicenda umana e spirituale del monaco tedesco”. Napolitano ha quindi espresso il suo saluto “nella condivisione dei principi del dialogo e della pace che hanno sempre ispirato il lungo cammino delle comunità riformate in Italia e che ne alimentano, oggi, le proficue relazioni con la Repubblica".
In occasione dell’incontro sia il presidente Nikolaus Schneider, presidente della Chiesa evangelica tedesca (EKD), che il decano della Chiesa evangelica luterana in Italia (CELI) Holgher Milkau, hanno ricordato il carattere ecumenico dell’iniziativa.
INTERVISTA
Holger Milkau: Lutero a Roma, un episodio simbolico da ricordare senza intenti polemici
a cura di Luca Baratto *
Roma (NEV), 6 ottobre 2010 - In questo mese di ottobre le chiese evangeliche della capitale si apprestano a ricordare il Cinquecentenario del viaggio di Martin Lutero a Roma (vedi notizie). La Chiesa evangelica luterana in Italia (CELI) ha deciso di dedicare a questo evento la prima edizione della Giornata della CELI, in programma sabato 9 e domenica 10 ottobre con il titolo “Lutero a Roma. Cristo ci ha liberati perché fossimo liberi”. Al pastore Hoger Milkau, decano della CELI, abbiamo rivolto alcune domande.
Quale importanza riveste il viaggio di Lutero a Roma nella vita del riformatore?
Non si tratta, in effetti, di un episodio molto noto al grande pubblico, né di un evento che ebbe delle dirette conseguenze sulla riflessione teologica di Lutero che maturò più tardi. La venuta a Roma di Lutero fu tuttavia l’unico momento di contatto diretto tra i due antagonisti della Riforma protestante: il monaco sassone e la realtà del potere papale.
Oggi, come chiese evangeliche orientate decisamente all’ecumenismo e al dialogo, vogliamo ricordare questo episodio non in chiave polemica, ma come momento simbolico: un giovane intellettuale carico di domande circa la verità e la giustizia si mise in cammino per cercare le risposte che non trovò nei centri prominenti dell’epoca, bensì nella inoffuscabile verità delle Sacre Scritture.
E’ così che nasce la visione protestante-evangelica di un individuo credente liberato dalle catene altrui, che vive della grazia di Dio e, consapevole di questo, si impegna con responsabilità per il bene nel mondo, senza costrizioni. Proprio l’idea della libertà sarà al centro della giornata CELI - una specie di “mini-Kirchentag” luterano italiano - che si svolgerà il 9 e il 10 ottobre con il motto: "Cristo ci ha liberati perché fossimo liberi".
La reazione di Lutero verso la Roma cinquecentesca fu di scandalo per non avervi trovato quella santità che si aspettava dalla capitale del cristianesimo occidentale. Oggi i luterani come vivono e come vedono Roma, sede del cattolicesimo mondiale?
Lutero incontrò a Roma una cultura diversa dalla sua. Nonostante la delusione, riteneva di grande importanza la sacralità dei luoghi: le tombe degli apostoli, le tracce del primo cristianesimo europeo, la testimonianza dei martiri. Come capitale del mondo romano-cattolico, Roma costituisce anche per i luterani di oggi un luogo importante per il dialogo fraterno ed ecumenico. Ci sono ancora molte domande aperte che aspettano impegno ed amore per essere affrontate e chiarite. Per coinvolgere in questo processo le nuove generazioni, la CELI insieme alla Facoltà valdese gestisce il Centro protestante di studi ecumenici Filippo Melantone, creato per favorire il contatto tra studenti protestanti e gli atenei romani, permettendo una maggiore consapevolezza reciproca delle condizioni di fede e di teologia.
Roma è poi una città che ha accolto in ogni tempo gente straniera. Anche i membri della nostra comunità di Roma, la più antica della CELI, si sono sentiti accolti e coinvolti. Oggi Roma è la città in cui vogliamo dare il nostro contributo di luterani per creare una società più libera e plurale, al servizio di chi ha bisogno del nostro aiuto. Vorrei poi esprimere con gratitudine un ulteriore aspetto: un po’ di tempo fa abbiamo proposto all’ufficio toponomastico del comune di dedicare una delle strade o piazze di Roma a Martin Lutero. La richiesta è stata accolta e siamo fiduciosi che il progetto possa andare in porto.
Nel 2017 cadrà il Cinquecentenario della Riforma protestante. Come si sta preparando la CELI a celebrare questo avvenimento?
La CELI ha aderito al calendario proposto dal progetto della “Decade di Lutero” (Luther-Dekade, www.luther2017.de). Ogni anno, da qui al 2017, sarà dedicato a un aspetto collegato alla Riforma che Lutero ha iniziato. Il 2010 è dedicato a “Riforma e educazione”, essendo l’anno il 450° anniversario della morte di Filippo Melantone, “praeceptor Germaniae”, il cui contributo alla cultura dello studio e dell’educazione è inestimabile. Gli impulsi della Riforma all’educazione riguardavano soprattutto la democratizzazione della formazione, l’unità di fede e formazione, e la formazione popolare.
Il 2011 sarà l’anno di “Riforma e libertà”, un tema che sottolinea la tesi fondamentale della Riforma secondo cui il cristiano è una persona “maggiorenne”, autonoma e responsabile per se stessa anche nell’ambito religioso e morale. Il credente è chiamato al sacerdozio universale e come tale ascolta la parola di Dio e si volge al suo prossimo liberamente e con responsabilità, senza costrizioni.
L’anno 2012 darà spazio all’ampio tema “Riforma e musica“: Bach, Schütz e Haendel sono compositori nati nel luteranesimo, impegnati nella diffusione della fede attraverso il mezzo della musica. L’amore di Lutero per la musica ha dato valore anche al canto dei credenti.
Nel 2013 cade il 450° anniversario del Concilio di Trento del 1563, l’assemblea della chiesa cattolica che condannò gli esiti della Riforma. Per ottenere una visione nuova e diversa di questa impostazione rinascimentale, si aprirà un anno su “Riforma e tolleranza”, tema molto attuale e bollente.
Seguirà nel 2014 “Riforma e politica”, nel 2015 “Riforma e Bibbia“ e nel 2016, con lo sguardo verso un mondo che oggi è molto diverso dai tempi di Lutero, il tema “Riforma e il mondo unico”, che apre lo sguardo al collegamento dei protestanti in tutto il mondo, valuta l’importanza della globalizzazione per la fede e il messaggio cristiano.
Così saremo in cammino verso il 2017, anno in cui l’affissione delle 95 tesi di Lutero alla porta della Schlosskirche di Wittenberg viene ricordato come inizio della Riforma luterana. La CELI, insieme alle chiese sorelle, in questo decennio intende offrire un ampio ventaglio di eventi e iniziative che rispecchieranno le varie tematiche menzionate, con l’obiettivo di rendere più colorita, più pluralista e più protestante la nostra realtà italiana nel contesto di un’Europa in crescita, moderna e libera.
Articolo tratto da
NEV - Notizie Evangeliche
Servizio stampa della Federazione delle chiese evangeliche in Italia
via Firenze 38, 00184 Roma, Italia
tel. 064825120/06483768, fax 064828728,
e-mail: nev@fcei.it
sito web: http://www.fcei.it
Sulle piste di sabbia. Folate di vento negli occhi e nei capelli. Ovvero la paura della libertà
di Angelo Casati ("mosaico di pace”, ottobre 2010)
Sento rinascermi in cuore di tanto in tanto e ancora non è spenta - eppure di anni se ne sono srotolati da allora, più di dieci - la nostalgia di un’estate in Giordania, nostalgia delle piste di sabbia del deserto. Piste infinite, inafferrabili, a smarrimento di occhi e folate di vento. Negli occhi e nei capelli. E fu desiderio una sera di fissare in righe quella straniante emozione, con gli occhi che già andavano ai giorni futuri:
Sulle piste di sabbia.
E mi sveglierò
su strade grigie
e griderò inascoltato
l’assenza.
Orfano
della magia del deserto
delle sabbie rosate
delle rocce
ubriache di colore.
E sognerò
folate di vento
di libertà
e sabbia nei capelli
spazi senza recinti
e l’eco dopo millenni
di messaggi segreti
i-ncisi da beduini
su rocce di basalto.
A segnalare
ai nomadi del futuro
piste segrete
d’indipendenza
nell’infuocato deserto.
Nostalgia di spazi e di libertà, che si fa ferita per restrizione, ora che le case, come fossero picchetti, fanno barriera da un lato e dall’altro della strada e negano sconfinamento alla sete degli occhi, cancellando l’oltre, impoverendo visioni. Mi odo camminare nel segno della restrizione e del contenimento. Quasi fosse scritto divieto, divieto a una sete che chiamo sete di libertà.
tra menzogna e verità
E sento, soffro sulla pelle a incisione la ferita della menzogna, la menzogna circa la libertà. Soffro lo svilimento, l’estenuazione, la sconsacrazione di una parola che è sacra, fatta oggetto di prostituzione. Scrivono libertà su ogni dove, perfino sul nome dei partiti, antichi e nuovi, proprio là dove è trasalimento di paura a ogni sussulto pur minimo di indipendenza, là dove è in sospetto il libero pensare e il libero comunicare.
C’è dunque nelle stanze alte del potere, anche se non confessata, una paura della libertà. Che non è
solo di oggi. Chi di noi ha più anni sulle spalle ricorda come non raramente si giustificasse
l’imposizione di regole dall’alto o una cieca obbedienza con il fatto che il popolo, la gente semplice
si diceva - è lontana dall’essere matura e dunque va indirizzata. Conseguenza fu la crescita di
uomini e donne dipendenti, che pensavano di essere virtuosi, affidando la navigazione della
coscienza e dell’intelligenza ad altri. La libertà fa paura a chi sogna un potere assoluto.
Meglio avere vassalli obbedienti, accoliti del nulla, esecutori plaudenti, meglio una massa pilotabile e acclamante che un popolo maturo di pensanti e resistenti. E, confessiamolo, non sempre abbiamo avuto e abbiamo occhi e vigilanza per questo esproprio strisciante della libertà. Le lusinghe del potere sono altamente seduttive. A tal punto la loro fascinazione che a volte neppure ci si accorge che per un pugno di vantaggi si è sul punto di vendere la libertà. Con esiti di raccapriccio, perché un popolo della dipendenza non può che prefigurare panorami di disgusto.
Non è forse vero che nei giorni di fame, di sete, di stanchezza nel deserto era accaduto agli israeliti, sfuggiti al giogo del faraone, di rimpiangere le pentole della carne e le cipolle d’Egitto? Come se vendere la libertà non costituisse baratto di cecità e di mostruosa insipienza.
La lusinga accompagnò nei secoli futuri il popolo di Dio, che si illuse, succede anche oggi, che rimedio ai problemi cruciali del tempo fosse l’entrata in scena dell’uomo forte, l’uomo della provvidenza. Così gli israeliti pretesero da Dio un re. Ma non erano forse usciti i loro padri dall’Egitto, per sfuggire a una sottomissione? Alla sottomissione a un re, il faraone, che si era fatto come Dio, Dio in terra?
Ebbene Dio rispettò la decisione, ma attraverso le parole del vecchio Samuele mostrò quali
sarebbero stati i costi di questa scelta, svelando ciò che sarebbe avvenuto in futuro.
Il futuro della
concentrazione del potere in uno solo sarebbe stato l’abuso e lo sfruttamento. Li mise
sull’avviso: il re, il capo assoluto, avrebbe preso i loro figli per l’esercito; avrebbe preso le loro figlie
per il suo harem; avrebbe preso i loro campi, le loro vigne, i loro oliveti più belli, e li avrebbe dati ai
suoi ministri, avrebbe preso mano d’opera e bestiame, li avrebbe adoperati per i lavori in casa sua e
dei suoi cortigiani.
Sembra di leggere una pagina dei nostri tempi, una descrizione impietosa dei meccanismi e degli esiti di un potere che si arroga il diritto di essere assoluto, assoluto e insindacabile, e piega tutto e tutti ai suoi interessi. La Bibbia conosce questa facile perversione del potere, ed è estremamente critica. La lusinga, dobbiamo riconoscerlo, accompagnò e ancora oggi accompagna, il popolo dei credenti.
Voci di Padri antichi, voci di vigilanti, già nei primi secoli, mettevano in guardia dall’esproprio
strisciante e sottile della libertà ad opera di atei devoti. Una delle voci lucide, quella di Ilario di
Poitiers, scriveva:
"Combattiamo contro un persecutore insidioso, un nemico che lusinga: non ci
flagella la schiena, ma ci accarezza il ventre; non ci confisca i beni per la vita ma ci arricchisce
per la morte; non ci sospinge col carcere verso la libertà ma ci riempie di incarichi nella sua
reggia per la servitù: non spossa i nostri fianchi ma si impadronisce del cuore; non taglia la testacon la spada ma uccide l’anima con il denaro; non minaccia di bruciare pubblicamente, ma accende la geenna privatamente. Non combatte per non essere vinto, ma lusinga per dominare; confessa il Cristo per rinnegarlo; favorisce l’unità per impedire la pace; reprime le eresie per sopprimere i cristiani; carica di onori i sacerdoti [...] costruisce le chiese per distruggere la fede. Ti porta in giro a parole, con la bocca [...]".
Così Ilario di Poitiers, grande padre della Chiesa. Parole che ci chiamano con forza alla vigilanza, non solo fuori ma anche dentro le Chiese. Non è forse vero che troppo disinvoltamente e presuntuosamente ci definiamo donne e uomini liberi? Ricordate quel gruppo di dirigenti Giudei che a Gesù obiettano: "Come puoi dire: sarete liberi? Noi non siamo schiavi di nessuno".
Anni fa mi capitò di leggere, tra gli aforismi di Luigi Erba, uno che registrava con sottile disincanto la situazione della nostra libertà, scriveva: "Si parla di società permissiva e si inventa un’illusione. In realtà si vive in una selva di divieti e di costrizioni. Molte libertà si conquistano solo con i privilegi e i privilegi si ottengono con la violenza. I privilegi sono di pochi potenti e, a discendere, dei loro portatori d’acqua con le orecchie. Un gran numero di formiche, lavorano per pochi e le poche cicale pretendono che le formiche cantino per intrattenerle". Un pessimismo forse in eccesso, ma non totalmente ingiustificato.
Può succedere purtroppo che perfino all’interno degli spazi ecclesiali a volte la sensazione sia di vivere in un regime di libertà vigilata. Succede quando la libertà viene evocata più per mettere in guardia dalle sue possibili derive che per annunciarne la bellezza e la forza, bellezza e forza di un messaggio che trascina, fa alzare il capo e sprigiona vento di insurrezione, di indipendenza dai mille faraoni che pretendono sudditi devoti. Ci accomuna una vocazione, quella ad essere donne e uomini liberi. Sì, una vocazione. Di tutti. Come dirà Paolo nella lettera ai Galati: "Voi, fratelli, siete stati chiamati a libertà" (Gal 5,13).E ancora: "Cristo ci ha liberati per una vita di libertà" (Gal 5,1).
e la nostra immagine?
Mi chiedo se quando entriamo negli spazi del vivere quotidiano, nel confronto con le donne e gli uomini del nostro tempo, l’immagine che diamo sia quella della libertà dello Spirito o quella di coloro che sono preoccupati di porre paletti o di disegnare recinti. Diamo una notizia buona?
Mi suonano lontane, quanto lontane, le parole che Paolo VI - e volevano essere parole profetiche
pronunciò in un’udienza generale, il 9 luglio 19 69 . Diceva: "Il nostro tempo di cui il Concilio si
fa interprete e guida, reclama libertà. Avremo un periodo nella vita della Chiesa, perciò nella vita di
ogni figlio della Chiesa, di maggiore libertà, cioè di minori obbligazioni legali e minori inibizioni
interiori. Sarà ridotta la disciplina formale, abolita ogni arbitraria intolleranza, ogni assolutismo,
sarà semplificata la legge positiva, temperato l’esercizio dell’autorità, sarà promosso il senso di
quella libertà cristiana che tanto interessò la prima generazione cristiana, quando si seppe esonerata
dalla legge mosaica e dalle sue complicate prescrizioni rituali".
Commentava Enzo Bianchi: "Sono parole di un Papa, del Papa che ha chiuso il Concilio. Oggi ci paiono distanti e quasi non più ripetibili senza destare sospetti, nella nuova situazione ecclesiale che si è delineata. Sono parole di cui occorre fare memoria". Da fissare a memoria con le parole di Paolo: "Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù" (Gal 5 ,1). Da niente e da nessuno. E sia vento di libertà sui nostri volti smunti
Nel 1543 l’ex monaco scrisse un violento pamphlet contro la «piaga» giudaica, che fu poi usato dai gerarchi della croce uncinata
di VITO PUNZI (Avvenire, 27.10.2010)
A l dosato battage orchestrato da Bompiani per far crescere l’attesa per il nuovo romanzo di Umberto Eco, Il cimitero di Praga, ha dato il proprio contributo anche la rivista
Pagine ebraiche , con un corposo dossier dedicato ai Protocolli dei savi anziani di Sion, il falso di cui periodicamente si torna a parlare. Il perché è presto detto: per quello che si sa, il Professore ha ambientato quest’ultimo libro nell’antico cimitero ebraico della città ceca, cioè nel luogo «dove alcuni grandi falsari dell’odio antiebraico hanno voluto immaginare si svolgessero le cospirazioni di ebrei intenzionati ad assumere il controllo del mondo» (così Guido Vitale, il direttore del mensile di cultura ebraica, nella presentazione del dossier).
L’idea di cogliere l’occasione del nuovo romanzo di Eco per ripercorrere la diffusione dell’antisemitismo nella cultura europea è certo lodevole. Ricordare l’odio antiebraico coltivato da autorevoli maestri del pensiero come Erasmo da Rotterdam, Schopenhauer, Kant, Hegel e Voltaire, come fa Donatella Di Cesare nel suo articolo «Quando il risentimento diventa filosofia», è semplicemente meritorio.
Così come è corretto rileggere i testi antisemiti dei citati umanisti e filosofi per tentare di comprendere l’humus nel quale ha potuto prendere forma la persecuzione sugli ebrei europei messa in atto nel secolo scorso dai nazisti. L’impressione, tuttavia, è che nel quadro generale disegnato da Di Cesare risulti minimizzato il ruolo antisemita svolto da Martin Lutero sul suolo tedesco. Già nel febbraio 2009 Giulio Busi, s’era avventurato nell’affermazione che i protestanti nei confronti degli ebrei «non hanno un corrispettivo tradizionalmente retrivo come quello cattolico». Lo studioso di giudaistica ignorò così, non si sa quanto coscientemente, il livoroso testo che Lutero scrisse nel 1543, Degli ebrei e delle loro menzogne , un libello di violenza inaudita nel quale, tra le altre nefandezze, si invitava a ripulire la Germania dalla «piaga» giudaica, dando «fuoco alle loro sinagoghe e alle loro scuole». Di Cesare da parte sua ricorda quel pamphlet,
indicandolo come «violento», e tuttavia evita di ricordare come solo le comunità protestanti attuali abbiano preso le distanze da quel testo. Gli stessi nazisti, più che negli scritti antisemiti di Hegel o di altri filosofi, trovarono materiale d’ispirazione per le proprie persecuzioni in quel terribile scritto luterano. Come non ricordare che la «notte dei cristalli», quando venne scatenato il pogrom in Germania, Austria e Cecoslovacchia, fu voluta proprio nel giorno che ricordava la nascita di Lutero? «Il 10 novembre 1938 - scriveva in quello stesso anno il vescovo evangelico-luterano di Eisenach, Martin Sasse, - bruciano in Germania le sinagoghe. Dal popolo tedesco viene finalmente distrutto il potere degli ebrei sulla nuova Germania e così viene finalmente incoronata la battaglia del Führer, benedetta da Dio, per la piena liberazione del nostro popolo». «In quest’ora - proseguiva Sasse - dev’essere ascoltata la voce dell’uomo che nel XVI secolo [Lutero, ndr ]
assunse il ruolo di profeta tedesco. Inizialmente come amico degli ebrei e tuttavia, spinto dalla propria coscienza, dall’esperienza e dalla realtà, sarebbe diventato il più grande antisemita del suo tempo, colui che lanciò al suo popolo l’allarme contro gli ebrei».
Come non ricordare poi che brani luterani trasudanti odio antiebraico vennero usati per manuali scolastici accanto a quelli di Hess, Göring, Goebbels e Hitler (vedi per esempio la parte settima di Hirts Deutsches Lesebuch, destinata alla classe 7, pubblicato nel 1940)? Il nazista Julius Streicher (giustamente citato da Di Cesare), a Norimberga, ebbe dunque un buon motivo per affermare che Lutero «oggi, sarebbe sicuramente al mio posto sul banco degli accusati».