Il cardinale Martini e il sogno deluso di una chiesa “nuova” *
L’81enne Carlo Maria Martini, già arcivescovo di Milano, in una lunga intervista tira le somme di un’esistenza trascorsa nella costante ricerca di Dio e dentro la Chiesa, riflettendo su questioni profonde di fede, di etica, di società e di Chiesa. Proprio alla chiesa il cardinale Martini indirizza un accorato appello per una sua rapida e profonda riforma ed aggiunge che, in passato, “ho sognato una Chiesa nella povertà e nell’umiltà ... Oggi non ho più di questi sogni. Dopo i settantacinque anni ho deciso di pregare per la Chiesa".
"Ho sognato una Chiesa nella povertà e nell’umiltà, che non dipende dalle potenze di questo mondo. Una Chiesa che concede spazio alla gente che pensa più in là. Una Chiesa che dà coraggio, specialmente a chi si sente piccolo o peccatore. Una Chiesa giovane. Oggi non ho più di questi sogni. Dopo i settantacinque anni ho deciso di pregare per la Chiesa". Sono le parole del card. Carlo Maria Martini raccolte nei “Colloqui notturni a Gerusalemme", libro recentemente edito in Germania dalla casa editrice Herder.
L’81enne gesuita, già arcivescovo di Milano, tira le somme di un’esistenza trascorsa nella costante e travagliata ricerca di Dio, vissuta dentro la Chiesa. E confida queste riflessioni all’amico padre Georg Sporschill, anch’egli gesuita, in un testo che assume la forma del colloquio o dell’intervista. I 7 capitoli del volume affrontano questioni profonde di fede, di etica, di società e di Chiesa.
A quest’ultima Martini indirizza un accorato appello per una rapida e profonda riforma. Ad esempio, di fronte alla crisi vocazionale che investe la Chiesa cattolica soprattutto in Occidente, considera inefficaci le soluzioni proposte fino ad ora delle gerarchie. "La Chiesa dovrà farsi venire qualche idea", afferma, come ad esempio "la possibilità di ordinare viri probati" (uomini sposati ma di provata fede, ndr) o di riconsiderare il sacerdozio femminile, sul quale riconosce la lungimiranza delle Chiese protestanti.
Ricorda persino di aver incoraggiato questa posizione in un incontro con il primate anglicano George Carey: "Gli dissi di farsi coraggio - spiega Martini - che questa audacia poteva aiutare anche noi a valorizzare di più le donne e a capire come andare avanti".
Se le sue tesi sull’organizzazione della Chiesa appaiono già fortemente riformatrici, ancora più avanti guarda nell’affrontare i temi etici legati alla sessualità. Critica l’Humanae Vitae di Paolo VI sulla contraccezione, enciclica scritta "in solitudine" dal papa e che proponeva indicazioni poco lungimiranti.
"Questa solitudine decisionale a lungo termine non è stata una premessa positiva per trattare i temi della sessualità e della famiglia". Sarebbe opportuno, afferma, gettare "un nuovo sguardo" sull’argomento. La Bibbia, in definitiva, non condanna a priori né il sesso né l’omosessualità.
È la Chiesa, invece, che nella storia ha spesso dimostrato insensibilità nel giudizio della vita delle persone. Tra i miei conoscenti - ricorda ancora Martini - ci sono coppie omosessuali. Non mi è stato mai domandato né mi sarebbe venuto in mente di condannarli". Dunque la Chiesa, invece di educare il popolo di Dio alla libertà e alla "coscienza sensibile", ha preferito inculcare nel credente una dogmatica moralistica ed acritica.
Il contatto con le altre religioni, saggiato in prima persona durante il lungo soggiorno a Gerusalemme, ha rappresentato per Martini un punto di non ritorno, una scuola di vita e di fede. La ricerca di Dio in quelle terre - peraltro, come lui stesso afferma, estremamente travagliata ed attraversata spesso da lunghe ombre - costringe a ripensare il dialogo interreligioso perché, dice, "Dio non è cattolico", "Dio è al di là delle frontiere che vengono erette".
È l’uomo che sente la necessità di razionalizzare in apparati normativi e istituzionali la gestione del sacro.
In realtà, le istituzioni ecclesiastiche "ci servono nella vita, ma non dobbiamo confonderle con Dio, il cui cuore è sempre più largo". Incontrare e (perché no) pregare insieme all’amico di altra religione, dice, "non ti allontanerà dal cristianesimo, approfondirà al contrario il tuo essere cristiano". E invita: "Non aver paura dell’estraneo".
Il grande comandamento invita ad amare l’altro come se stessi. "Ama il tuo prossimo - afferma - perché è come te". Il "giusto" - e in questo caso Martini prende in prestito la II sura del Corano - è colui che "pieno di amore dona i suoi averi ai parenti, agli orfani, ai poveri e ai pellegrini".
* Articolo di Giampaolo Petrucci tratto da Adista n.41 del 31 Maggio 2008
Sul tema, nel sito, si cfr.:
BENEDETTO XVI, BUSH E BERLUSCONI. GLI INCONTRI DEI "CATTOLICI" SIGNORI DELLA GUERRA "UNIVERSALE".
1. CARLO MARIA MARTINI LETTERA PASTORALE (1990-1991) “EFFATÀ, APRITI”. (in http://www.odg.mi.it/node/236)
2. CARLO MARIA MARTINI LETTERA PASTORALE (1991-1992) “IL LEMBO DEL MANTELLO” -(in http://www.odg.mi.it/node/237)
3. Carlo Maria Martini: “Sull’uso dei cinque talenti, ovvero sul corretto rapporto tra media e società” (1996). (in http://www.odg.mi.it/node/228)
L’AZIONE PASTORALE DELLA CHIESA CATTOLICA E IL NATALE DEL 2022: IL CATTOLICESIMO-ROMANO DI COSTANTINO (NICEA 325 d. C) ESISTERA’ ANCORA NEL 2025 d. C.?! *
La pietà popolare: il pellegrinaggio cristiano
di Michele La Rocca (Insula Europea, 15 Dicembre 2022
La Chiesa rivolge la sua attenzione alla pietà popolare in vasti settori della sua azione pastorale, perché come in passato era stata efficace per arginare gli effetti negativi del movimento protestante, così ora si dimostra valida per contrastare le suggestioni corrosive del razionalismo. La fissa in rapporto con la Liturgia. Si tratta di due espressioni legittime del culto cristiano, che non sono da opporre, né da equiparare, ma da armonizzare. Liturgia e Pietà Popolare sono ordinate alla ricerca di un rapporto armonico in cui la seconda è oggettivamente subordinata e finalizzata alla prima. Un rapporto che va guardato alla luce delle direttive impartite dalla Costituzione Sacrosanctum Concilium: «I pii esercizi del popolo cristiano siano ordinati in modo da essere in armonia con la sacra Liturgia, da essa traggano in qualche modo ispirazione, e ad essa, data la sua natura di gran lunga superiore, conducano il popolo cristiano» (Cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. sulla sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, 13).
Da una parte la pietà popolare è uno spazio adeguato per celebrare in modo libero e spontaneo la «Vita» e le sue molteplici espressioni, insomma uno spazio reale e semplice per la vita di preghiera: attraverso i credenti esercizi, infatti, il fedele dialoga veramente con il Signore, con «discorsi» che egli comprende pienamente e che sente propri; parlando direttamente all’uomo, ne coinvolge il cuore, lo spirito, il corpo. La ritualità attraverso cui si esprime è recepita e accolta dal fedele, perché vi è corrispondenza tra il suo mondo culturale e il linguaggio rituale. Dall’altra la Liturgia invece, pur centrata sul «Mistero di Cristo» e anamnetica per sua natura, proibisce la spontaneità e risulta ripetitiva e formalistica; non riesce a coinvolgere il fedele nella totalità del suo essere, nella sua corporeità e nel suo spirito. Al contrario, ponendo sulle sue labbra parole non sue e spesso estranee al suo mondo culturale, più che un mezzo si rivela un impedimento per la vita di preghiera. La sua stessa ritualità è invece incompresa, perché i suoi moduli espressivi provengono da un mondo culturale che il fedele sente diverso e lontano.
È importante ricordare cosa suggerisce l’ultimo Concilio ecumenico: «ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza, e nessun’altra azione della Chiesa ne uguaglia l’efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado» (Cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. sulla sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, 7).
Un altro aspetto significativo della Pietà Popolare è il pellegrinaggio, simbolo della condizione di ogni essere umano in quanto homo viator: «Il pellegrinaggio è icona del cammino che ogni persona compie nella sua esistenza. La vita è un pellegrinaggio e l’essere umano è un viator, un pellegrino che percorre una strada fino alla meta agognata» (Francesco, Misericordiae Vultus, 11 aprile, 2015, 14).
La vita dell’uomo nella Bibbia viene presentata come il grande Pellegrino che va alla ricerca dell’uomo e della creazione, fino ad assumere poi in Gesù Cristo la stessa carne della creatura, con cui farà ritorno al Padre. Si parla di un linguaggio semplice e naturale perché i credenti, come tutti gli altri uomini, esprimono il loro sentimento religioso e curano la dimensione della trascendenza. Esso ha un chiaro significato antropologico, descrive e definisce l’essere umano con un’identità definita, in quanto racconta la vita di Cristo e dei cristiani in viaggio verso la casa del Padre, equipaggiati del senso della vita in quanto si sentono amati da Dio.
In passato, raggiungere alcune mete comportava una vita totale: perché partire significava molte volte il non ritorno a causa dei mezzi non potenti, di malattie inguaribili; e questo trasformava il pellegrinaggio in un vero e proprio viaggio verso l’eterno.
L’immagine dell’uomo, che il pellegrinaggio propone, è un ideale rimedio alla rottura antropologica del postmoderno, che spesso descrive l’uomo come un individuo lacerato, senza patria, senza riferimenti e senza prospettiva (Cfr. Z. Bauman, Da pellegrino a turista, in “Rassegna Italiana di Sociologia” 36 (1995/1) 3-26, qui 13-21); una umanità aperta, labile ma senza progettualità. Invece il pellegrinaggio esprime la totalità della vita cristiana e l’autentica immagine dell’uomo, che sa dove lo conduce la strada della vita. L’essere pellegrino e il tema del viaggio appartengono non solo alla Bibbia ma al grande tema dell’umanità, dai filosofi ai poeti, agli scrittori; sono uno dei miti letterari più presenti da Omero con Ulisse, all’inquieto cuore di Agostino.
Come indica la Bolla di indizione del Giubileo, il pellegrinaggio «è esercizio di ascesi operosa, di pentimento per le umane debolezze, di costante vigilanza sulla propria fragilità, di preparazione interiore alla riforma del cuore» (Cfr. L. Pozzoli, L’apostolo e il personaggio-uomo: due nomadi su strade diverse, in AA. VV., Fede e cultura dagli Atti degli Apostoli, EDB, Bologna 1988, 27-55).
Il pellegrinaggio è un evento assai complesso, che abbraccia diversi momenti successivi: «la partenza del pellegrinaggio sarà opportunamente caratterizzata da un momento di preghiera, compiuto nella chiesa parrocchiale oppure in un’altra più adatta, consistente nella celebrazione dell’Eucaristia o di una parte della Liturgia delle Ore o in una peculiare benedizione dei pellegrini. L’ultimo tratto del cammino sarà animato da più intensa preghiera; è consigliabile che quell’ultimo tratto, quando il santuario è già in vista, sia percorso a piedi, processionalmente, pregando, cantando, sostando presso le edicole che eventualmente sorgono lungo il tragitto.
L’accoglienza dei pellegrini potrà dar luogo a una sorta di “liturgia della soglia”, che ponga l’incontro tra i pellegrini e i custodi del santuario su un piano squisitamente di fede; ove sia possibile, questi ultimi muoveranno incontro ai pellegrini, per compiere con loro l’ultimo tratto del cammino.
La permanenza nel santuario dovrà ovviamente costituire il momento più intenso del pellegrinaggio e sarà caratterizzata dall’impegno di conversione, opportunamente ratificato dal sacramento della riconciliazione; da peculiari espressioni di preghiera quali il ringraziamento, la supplica o la richiesta di intercessione, in rapporto alle caratteristiche del santuario e agli scopi del pellegrinaggio; dalla celebrazione dell’Eucaristia, culmine del pellegrinaggio stesso. La conclusione del pellegrinaggio sarà caratterizzata convenientemente da un momento di preghiera, nello stesso santuario o nella chiesa da cui esso è partito; i fedeli ringrazieranno Dio del dono del pellegrinaggio e chiederanno al Signore l’aiuto necessario per vivere con più generoso impegno, una volta tornati nelle loro case, la vocazione cristiana» (Cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. sulla sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, 287).
Il momento finale del pellegrinaggio è il «commiato»: essa rivela una forte alleanza tra i presbiteri al servizio del santuario e i pellegrini che incaricano i sacerdoti a continuare la loro lode nel luogo più santo. Non deve mai terminare il contatto con Dio, questo dialogo tra Dio e il popolo. Il pellegrinaggio non è un camminare erratico, senza una meta ben precisa. Il pellegrinare verso chiese, santuari, memorie della nostra fede, luoghi della nostra miseria e della misericordia di Dio ci porta a riconsiderare il ministero della Parola e della nostra fede. Inoltre entrare nel santuario in cui Cristo ha già fatto il suo ingresso fa riscoprire all’uomo la paternità e la maternità di Dio.
Al ritorno, il pellegrinaggio ricalca la discesa da Gerusalemme a Gerico e invita tutti di farsi prossimo dei pellegrini di ogni genere, sostando con loro, mettendo a disposizione anche i propri beni, con amore e affetto. Le differenze non devono dividere ma integrare nel piano di Dio e portare all’unione di tutti gli uomini in un solo corpo che è Cristo stesso. Le diversità sono doni di cui si serve lo Spirito per costruire la casa del Padre. Quando Dio rivolge gli occhi verso il suo popolo: «i cristiani scoprono paternità di Dio; l’illusione mitica che li faceva ricondurre alla terra della patria e credere di essere stati creati in diverse caste è distrutta; essi sanno che sono tutti di una stessa famiglia, e perciò veramente fratelli. La fede demitologizza il mondo, smaschera l’errore razzistico, i dogmi sociali, frutti di menzogna, allontanando gli uomini per condurli alla verità che rende liberi. La fede posseduta in comune, crea nello stesso tempo la comprensione tra gli uomini, continua il miracolo della Pentecoste, trionfa sulla confusione babilonica delle lingue, non, del resto per l’unità esteriore del linguaggio ma per l’unità dello spirito che essa stabilisce» (J. Ratzinger, Fraternitè, in Dictionnaire de Spiritualitè, V, 1159).
Il primo pellegrinaggio di ogni uomo dimora nel rinnovamento del cuore: convertirsi è farsi pellegrini verso sé stessi per ricomprendere la propria vita e la propria identità; è volgersi al proprio cuore «là dove lo aspetta quel Dio che scruta i cuori (Cfr. 1 Sam 16,7; Ger 17,10), là dove sotto lo sguardo di Dio egli decide del suo destino» (Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. past. Gaudium et spes, 1965 dic. 7: cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, in AAS, 58 (1966), 14).
Infatti, «non è tanto il mutamento da un luogo all’altro che ci rende più vicini a Dio, ma una dimora ben preparata, dove Dio possa abitare. A nulla, infatti, servirebbe visitare i Luoghi Santi, fosse pure il Golgota, se non si è in grazia di Dio» (S. Gregorio di Nissa, Epist. 81). La conversione è l’invito all’amore e alla fedeltà a colui che resta fedele sempre anche se noi non lo siamo quasi mai e questa è la certezza che Dio non si è stancato di noi.
«Ravvediti» (Cfr. Ap 2,5): un ritornello continuo dello Spirito che è quasi una dichiarazione di amore da parte del Signore nei riguardi di ogni singolo uomo. La prima parola che il Vangelo annuncia è «conversione» perché compito proprio del ministero apostolico è la predicazione nel nome di Gesù della conversione e del perdono dei peccati a tutte le genti (Cfr. Lc 24,47). Anche noi oggi siamo chiamati ad accettare colui che viene e fa «nuove tutte le cose» (Cfr. Ap 2,5), attraverso un confronto e un «dialogo» aperto e coraggioso con Gesù; l’unico che può permettere la conversione: questo passaggio a un essere nuovo, ma non in qualche aspetto o verso l’interiorità, ma il completo rinnovamento. La meta cristiana del pellegrinaggio «non è più un luogo, una città, un tempio, bensì la persona stessa del Maestro e Signore che il pellegrino deve seguire, portando la propria croce, entrando per la propria parte nel mistero della sua Pasqua» (Commissione Ecclesiale per la pastorale del tempo libero, turismo e sport della Cei, “Venite saliamo sul monte del Signore”, il pellegrinaggio alle soglie del III millennio, nota pastorale, 8).
L’essere cristiani possiamo considerarlo come un invito a superare sé stessi, al cercare di essere sempre gli uni per gli altri, ma soprattutto comporta il seguire il Signore, il mistero della sua Croce che è completamente dedita agli altri e lontana «dall’egoismo dell’io» (J. Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo, Quiriniana, Brescia, 1996, 203).
«Chi vuol venga dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Cfr. Mt 16,24.) Questo è anche il senso del Crocifisso, delle sue braccia spalancate che testimoniano il gesto della preghiera; un senso di abbraccio, di fraternità, di amore, di servizio tra uomini e glorificazione a Dio. Sotto questo profilo il pellegrinaggio è un annuncio di fede e i pellegrini sembrano diventare «araldi itineranti di Cristo»; perché «pellegrinare» rappresenta, in qualche modo, quella di Gesù e dei suoi discepoli, che percorrono le strade della Palestina annunciando il Vangelo di salvezza.
* NOTA
#ANTROPOLOGIA, #LINGUISTICA, #FILOLOGIA E MESSAGGIO EVANGELICO: IN #PRINCIPIO ERA IL #VERBO.
CHI HA VISTO L’ A O ... RISTO? Un omaggio a Salvo Micciché e a Carlo Pulsoni e una nota a margine di un articolo sulla #pietà popolare, sul #pellegrinaggio, apparso su Insula Europea...
#MARIAEGIUSEPPE, #GESÙ, E IL #PRESEPE. MA CHE NATALE è questo #Natale2022, con "La pietà popolare: il pellegrinaggio cristiano" ... e la vita e l’#idea platonica di un "#Gesù" segnato da tragico #androcentrismo e costruito ad uso e strumento della casta sacerdotale? #STORIA E #MEMORIA. "È significativo che l’espressione di Tertulliano: «Il cristiano è un altro Cristo», sia diventata: «Il prete è un altro Cristo»" (Albert Rouet, arcivescovo di #Poitiers, 2010).
#APOCALISSE (1,8). Non è il caso e il tempo di riflettere un po’ di più sull’ AO...risto ("Io sono l’Alfa e l’Omega"), sulla delfica #conoscenza di sé, e su #comenasconoibambini? Ricordare che fra pochi giorni inizia il nuovo anno e che #Eleusi, città greca legata alla memoria dei #MisteriElesusini, sarà una delle capitali europea della cultura: #Eleusis2023.
#BUONNATALE E #BUON2023, #BUONANNO
Chi è effettivamente l’ospite *
Come si legge in tutti i vocabolari dell’italiano contemporaneo, ospite ha un duplice significato: è sia chi dà ospitalità (un ospite premuroso) sia, più comunemente, chi la riceve (un ospite gradito). Con il primo significato si ritrova soprattutto in contesti formali e letterari (nel GDLI si riscontrano esempi a partire dalla prima metà del XIV secolo fino ad autori quali Foscolo, Manzoni, Pascoli ecc.).
La parola ospite deriva dal latino hospes, -ĭtis, che aveva già il doppio significato di ‘colui che ospita e quindi albergatore’ e di ‘colui che è ospitato e quindi forestiero’, significato - comune alla parola greca xénos - che si è tramandato in quasi tutte le lingue romanze (antico francese (h)oste; francese moderno hôte; occitano e catalano oste; spagnolo huésped; portoghese hóspede). Ed è dunque proprio alla storia della lingua latina che dovremo guardare per rispondere alla curiosità che questa parola suscita.
L’etimologia del termine latino hospes risulta spesso incerta nei più comuni dizionari della lingua italiana e, se vengono date delle spiegazioni, esse risultano parziali e non rispondono pienamente alla nostra domanda. Ad esempio, il Devoto-Oli 2012 e il Sabatini-Coletti 2008 fanno risalire la voce a un più antico *hostipotis, composto da hŏstis ‘straniero’ e pŏtis ‘signore, padrone’, cioè ‘signore dello straniero’, ma non dicono niente di più. Il Vocabolario Treccani scrive sinteticamente che il termine ha “tutti e due i significati fondamentali, in quanto la parola alludeva soprattutto ai reciproci doveri dell’ospitalità”, in accordo con il Dir Dizionario italiano ragionato (D’Anna, 1988).
Tra gli etimologici, il DELI riconosce il doppio significato del termine, ma aggiunge “senza etimologia evidente”. L’etimologico di Nocentini approfondisce invece la questione e rimanda all’indoeuropeo *ghos(ti)-potis ‘signore dello straniero’ cioè il padrone di casa che esercitava il diritto di ospitalità nei confronti del forestiero, composto da *ghostis ‘straniero’ e *potis ‘signore’. A favore di tale ipotesi cita i corrispettivi gospodĭ ‘padrone, signore’ in antico slavo e gospodín ‘signore’ in russo.
Hospesin origine è dunque il “padrone di casa” che dà ospitalità al forestiero; i rapporti che si istauravano tra chi accoglieva e chi era accolto erano così stretti - legati anche al fatto che chi era ospitato si impegnava a sua volta a ricambiare l’ospitalità - che, sin dai tempi più antichi, hospes ha indicato anche la persona accolta in casa d’altri. La reciprocità del patto di ospitalità è dunque all’origine del doppio significato della parola ospite. Riconoscendo questa “squisita umanità degli antichi”, anche Leopardi nello Zibaldone scriveva: “di tal genere è ancora quella tanta ospitalità esercitata dagli antichi con tanto scrupolo, e protetta da tanto severe leggi, opinioni religiose ecc. quei diritti d’ospizio ecc. affinità d’ospizio ecc. Ben diversi in ciò dai moderni” (5 luglio 1827).
Vale la pena soffermarsi un po’ di più sulla parola hostis che, insieme a potis ‘signore’, è all’origine di hospes. Emile Benveniste introduce così la questione:
Benveniste ricorda, infatti, che hostis è usato nella Legge delle XII tavole con il valore arcaico di ‘straniero’, ma riporta anche un’interessante testimonianza di Sesto Pompeo Festo (II secolo d.C.) da cui si ricava che il termine hostis indicava colui a cui erano riconosciuti gli stessi diritti del popolo Romano (quod erant pari iure cum populo Romano). A conferma di ciò Festo ricorda anche che il verbo hostire aveva lo stesso significato di aequare (con valore simile si trovano hostire in Plauto, hostus in Varrone e il nome della dea Hostilina in sant’Agostino). Il legame di hostis con i concetti di uguaglianza e di reciprocità è confermato anche da una parola più conosciuta, hostia, che nel rituale romano indica propriamente ‘la vittima che serve a compensare l’ira degli dei’ (l’offerta è considerata quindi di un valore tale da bilanciare l’offesa), in contrapposizione con il termine meno specifico victima che indica un semplice ‘animale offerto in sacrificio’ (cioè senza nessun intento riparatorio).
Si ricava dunque che il significato originario di hostis non era quello di ‘straniero’ in generale, né tanto meno di ‘nemico’, ma quello di ‘straniero a cui si riconoscono dei diritti uguali a quelli dei cittadini romani’, a differenza del peregrinus che indica invece ‘colui che abita al di fuori del territorio’.
Il legame di uguaglianza e reciprocità che si stabilisce tra un hostis e un cittadino di Roma conduce alla nozione di ospitalità.
In un dato momento dunque hostis ha indicato ‘colui che è in relazione di compenso’ e di scambio nei confronti del civis e quindi, in ultima analisi, l’ospite. Di questo erano ben consapevoli gli scrittori classici, come scrive Cicerone nel De officiis: “hostis enim apud maiores nostros is dicebatur, quem nunc peregrinum dicimus” [infatti i nostri antenati chiamavano hostis quello che noi oggi chiamiamo peregrinus (‘forestiero’)].
Più tardi, quando alle relazioni di scambio tra clan e clan sono subentrate le relazioni di inclusione o di esclusione dalla civitas, hostis ha assunto un’accezione negativa e ha preso il significato classico di ‘nemico’ (da cui deriva, per esempio, la parola italiana ostile), e in tal senso la storia di hostis riassume il cambiamento che le istituzioni romane hanno attraversato nei secoli.
In conseguenza del vuoto semantico lasciato da hostis si è dovuto pertanto ricorrere a un nuovo termine per indicare la nozione di ospitalità e si è creato, come già detto, partendo dalla stessa parola hostis, il termine hospes. Hospes dunque eredita e conserva in sé il valore intrinseco di reciprocità e di mutuo scambio: è forse anche per questo che la stessa parola nelle lingue derivate dal latino ha facilmente continuato a indicare sia chi ospita sia chi è ospitato.
Un’ultima osservazione. Un lettore, un po’ infastidito dalla polisemia di ospite e preoccupato che nella lingua comune non ci sia una parola per indicare ‘colui che ospita’, propone di usare due termini diversi come nella lingua inglese, che ha host per ‘ospitante’ e guest per ‘ospitato’ (da notare che entrambi i termini derivano dalla stessa radice indoeuropea *ghostis, anche se host passa attraverso il francese antico (h)oste). Ci suggerisce, come sostantivo per indicare chi ospita, il termine ospitante (o addirittura trimalcione). Ma in realtà, come spesso accade nei fatti di lingua, sarà probabilmente l’uso alla fine a trovare da solo la soluzione. E a ben guardare, quando è necessario distinguere tra i due significati di ospite, l’italiano ha già preso delle decisioni e mette a disposizione un ventaglio di scelte. Se per ospite ormai si intende comunemente ‘colui che è ospitato’, per indicare ‘colui che ospita’ invece, in relazione al contesto e al grado di formalità, si può oggi già scegliere tra: il forse troppo letterario ospitatore (cfr. GDLI), il padrone di casa o semplicemente l’amico che mi ospita. Infine, il termine ospitante con il valore di ‘chi dà ospitalità’ esiste già in italiano, ad esempio nelle espressioni squadra ospitante e famiglia ospitante, e può darsi che prima o poi riuscirà a imporsi pienamente sul termine ospite con lo stesso valore.
Per approfondimenti:
E. Benveniste, Il vocabolario della istituzioni indoeuropee. Economia, parentela, società, I, edizione italiana a cura di Mariantonia Liborio, Torino, Einaudi, 1976, pp. 64-75
Dictionnaire Étymologique de la langue latine, a cura di A. Ernout e A. Meillet, Parigi, Librairie C. Klincksieck, 1967, s.v. hospes
E. Forcellini, Lexicon Totius Latinitatis, Padova, Tipografia del Seminario, 1771, s.v. hospes
Thesaurus linguae Latinae, Leipzig, Teubner, 1900 e sgg.,.s.v. hospes
F. Venier, La corrente di Humboldt. Una lettura di La lingua franca di Hugo Schuchardt, Roma, Carocci, 2012
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A cura di Angela Frati e Stefania Iannizzotto
Redazione Consulenza Linguistica
Accademia della Crusca (13 luglio 2012).
Liturgia.
Via libera del Papa alla nuova traduzione italiana del Messale
Probabilmente saranno necessari alcuni mesi prima che il “rinnovato” libro liturgico entri in vigore. Tra le novità principali quelle su Padre Nostro e Gloria
di Giacomo Gambassi (Avvenire, mercoledì 22 maggio 2019)
La nuova traduzione italiana del Messale è pronta ad arrivare nelle parrocchie della Penisola. Ancora non c’è una data certa ma è giunto il “via libera” del Papa. Durante la prima giornata di lavori dell’Assemblea generale della Cei, il cardinale presidente Gualtiero Bassetti ha annunciato ai vescovi che Francesco ha autorizzato la promulgazione della terza edizione in italiano del Messale Romano di Paolo VI. Il testo italiano è passato al vaglio della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei Sacramenti per la necessaria confirmatio. Ancora è prematuro sapere quando cambieranno alcune formule con cui viene celebrata l’Eucaristia nella nostra lingua. Probabilmente saranno necessari alcuni mesi prima che il “rinnovato” libro liturgico entri in vigore.
La nuova traduzione era stata approvata lo scorso novembre dall’Assemblea generale della Cei. Fra le novità introdotte quelle sul Padre Nostro: non diremo più «e non ci indurre in tentazione», ma «non abbandonarci alla tentazione». Inoltre, sempre nella stessa preghiera, è previsto l’inserimento di un «anche» («come anche noi li rimettiamo »). In questo modo il testo del Padre Nostro contenuto nella versione italiana della Bibbia, approvata dalla Cei nel 2008, e già recepito nella rinnovata edizione italiana del Lezionario, entrerà anche nell’ordinamento della Messa. Altra modifica riguarda il Gloria dove il classico «pace in terra agli uomini di buona volontà» è sostituito con il nuovo «pace in terra agli uomini, amati dal Signore».
Le variazioni giungono al termine di un percorso durato oltre 16 anni. Un arco temporale in cui «vescovi ed esperti hanno lavorato al miglioramento del testo sotto il profilo teologico, pastorale e stilistico, nonché alla messa a punto della presentazione del Messale», aveva spiegato la Cei in una nota. Nelle intenzioni, infatti, la pubblicazione della nuova edizione non è solo un fatto “editoriale”, ma «costituisce l’occasione per contribuire al rinnovamento della comunità ecclesiale nel solco della riforma liturgica». L’utilizzo del nuovo Messale verrà accompagnato da una sorta di «riconsegna al popolo di Dio», tramite un sussidio che rilanci l’impegno della pastorale liturgica.
La nuova traduzione italiana è quella della terza edizione tipica del Missale Romanum latino che risale al 2002. La prima editio typica, che recepiva la riforma liturgica del Vaticano II e seguiva le indicazioni della Sacrosanctum Concilium, è stata pubblicata nel 1970; la seconda porta la data del 1975. E proprio la traduzione italiana dell’edizione del 1975 - traduzione del 1983 - è quella ancora in uso.
Il Vangelo dalla parte della Maddalena
Escono in un libro gli esercizi spirituali che il cardinale Carlo Maria Martini tenne in Israele tra la fine del 2006 e l’inizio del 2007. Sono dedicati alla figura della santa peccatrice
di Vito Mancuso (la Repubblica, 16.03.2018)
La simpatia del cardinal Martini per Maria Maddalena appare evidente dalla prima all’ultima parola degli esercizi spirituali da lui tenuti in Israele tra la fine del 2006 e l’inizio del 2007, come evidente è la sua simpatia per le consacrate dell’Ordo Virginum della diocesi di Milano per le quali aveva preparato gli esercizi e alle quali diceva: «Vi riconosco nella vostra bellezza interiore ed esteriore, perché quando l’anima rimane nella sua costante proposta di servizio a Dio, rimane bella e questa bellezza si diffonde».
Io penso sia proprio così, e penso che Martini sia stato a sua volta un esempio di questa misteriosa connessione tra etica ed estetica avvertita già dagli antichi greci con l’ideale della kalokagathía, perché il morbo di Parkinson contro cui già allora combatteva, e che l’avrebbe portato alla morte il 31 agosto 2012, non giunse mai a privarlo della sua originaria e nobile bellezza.
Cosa siano gli esercizi spirituali lo spiega lo stesso Martini dicendo che non sono un corso di aggiornamento, né una lettura spirituale della Bibbia, né un’occasione di preghiera; sono invece “un ministero dello Spirito Santo”, nel senso che “è lo Spirito Santo che parla al mio cuore per dirmi ciò che vuole da me adesso”.
Gli esercizi spirituali sono quindi un tempo di ascolto e di raccoglimento per capire la propria situazione qui e ora, e come tali prevedono «un silenzio assoluto a tavola e anche negli altri momenti», perché, avverte Martini, «soltanto una parola detta qua e là disturba tutti».
Maria Maddalena è «il segno dell’eccesso cristiano, il segno dell’andare al di là del limite, il segno del superamento»: nell’eccedere della sua vita travagliata ma sempre dominata dall’amore, si dà per Martini la chiave privilegiata per «essere introdotti nel cuore di Dio».
Il cuore di Dio. Mediante la storia della Maddalena, Martini giunge a parlare di Dio, e parlando di Dio giunge a illuminare la logica e il ritmo dell’essere, cogliendo nell’amore il suo segreto più profondo: «Dio è tutto dono, è tutto al di là del dovuto e questo è il segreto della vita».
Individuare “il cuore di Dio” significa quindi per Martini individuare “il segreto della vita”. In questa prospettiva egli illumina magistralmente il paradosso dell’esistenza segnalando la dinamica profonda secondo cui ci si compie superandosi, ci si arricchisce svuotandosi, si raggiunge l’equilibrio perdendolo.
È la pazzia evangelica. La quale però, in quanto verità dell’essere, è universale, e quindi è avvertita anche al di là del cristianesimo, per esempio già da Platone che coglieva la medesima logica di eccedenza scrivendo che «la mania che proviene da un dio è migliore dell’assennatezza che proviene dagli uomini» ( Fedro 244 d). Maniaca in senso platonico, la Maddalena è definita da Martini “amante estatica”, cioè letteralmente “fuori di sé” e in questo modo è indicata quale via privilegiata per accedere al cuore di Dio.
Per lui è infatti evidente che «non può comprendere Dio chi cerca solo ragioni logiche», mentre lo può comprendere «chi vive qualche gesto di uscita da sé, di dedizione al di fuori di sé, al di fuori del dovuto», perché Dio, simbolo concreto del mistero dell’essere, “è uscita da sé”, “dono di sé”.
In questa prospettiva la Maddalena, perfetta esemplificazione della logica evangelica, fa capire che “solo l’eccesso salva”. Per “eccesso” Martini intende “uno squilibrio dell’esistenza”. E proprio questo è il punto: che la vita si alimenta di tale squilibrio. Il nostro universo non viene forse da un eccesso, cioè dalla rottura di simmetria all’origine del Big Bang? E la vita non è a sua volta squilibrio, essendo la morte, come disse Erwin Schrödinger nelle lezioni al Trinity College di Dublino, “equilibrio termico”? E cosa sono l’innamoramento e le passioni di cui si nutre la nostra psiche, se non, a loro volta, squilibrio?
Afferma Martini: «Quando definisco me stesso, mi definisco di fronte al mistero di Dio e mi definisco come qualcuno che è destinato a trovarsi nel dono di sé... e tutto questo si dà perché Dio è dono di sé». Prosegue dicendo che molti non capiscono Dio perché non lo collegano a questa dinamica di uscita da sé, visto che «soltanto quando accettiamo di entrare in questa dinamica della perdita, del dare in perdita, possiamo metterci in sintonia con il mistero di Dio».
In questa prospettiva Martini giunge a parlare di Dio secondo una teologia della natura che avrebbe fatto felice il confratello gesuita Pierre Teilhard de Chardin, riferendosi a «quella forza che potremmo dire trascendente, perché è in tutta la natura fisica, morale, spirituale ed è la forza che tiene insieme il mondo... la forza che si può concepire come una lotta continua contro l’entropia e il raffreddamento».
Anche il voto di verginità delle consacrate alle quali rivolgeva i suoi esercizi appare a Martini un segno di quell’eccesso di amore che fa sì che nel mondo non vi sia solo la forza di gravità che tira verso il basso, ma anche «una forza che tira verso l’alto, verso la trasparenza, la complessità e anche verso una comprensione profonda di sé e degli altri fino ad arrivare a quella trasparenza che è la rivelazione di ciò che saremo». Ovvero, conclude Martini, “la vita eterna”.
La categoria dell’eccesso
Maria Maddalena secondo il cardinale Martini *
L’eccesso è per Martini la “categoria” che ci consente non solo di comprendere il mistero di Dio adombrato nella passione, morte e risurrezione di Gesù, ma ciò che esprime il senso profondo dell’essere cristiano, della maturità cristiana.
Ancora una volta è attraverso i personaggi di Giovanni che Martini costruisce questa sua visione, in particolare è Maria di Magdala a guidarci in questo ultimo tratto di cammino. «Maria di Magdala è una figura particolarmente importante nei Vangeli, è il prototipo della persona che accede alla fede nel Risorto. Se gli altri due episodi narrati da Giovanni rappresentano piuttosto una comunità che accoglie il mistero della Risurrezione, l’episodio che ha per protagonista la Maddalena è piuttosto dedicato al singolo credente o meglio al non credente che diventa credente».
Chi è Maria Maddalena? Tutti i vangeli la annoverano tra le donne che si recano al sepolcro. Forse, dice Martini, tale menzione indica «una qualche funzione di leadership», ma non abbiamo elementi sufficienti. Compare inoltre nei racconti della passione e nella vita pubblica di Gesù, dove è messa «sullo stesso piano dei discepoli». La sua figura però si può comprendere anche grazie al confronto con altre figure femminili presenti nel vangelo. Per esempio la peccatrice in casa di Simone, le «Marie di Betania» e, infine, la sposa del Cantico; come lei, la Maddalena «ha cercato Gesù con una passione inesausta, con una perseveranza invincibile e di conseguenza è una figura della ricerca di Gesù e del Signore risorto». Tutte rimandano in qualche modo a un «eccesso d’amore».
Nel testo si legge che il primo giorno dopo il sabato Maria si reca al sepolcro «di buon mattino», quando era ancora buio. Un atteggiamento inusuale e anche un po’ rischioso, che la dipinge fin da subito come una «donna che supera le convenzioni». Esce di casa perché non si dà pace e non si preoccupa di ciò che può capitarle o di ciò che può pensare la gente. Quando arriva al sepolcro ha una prima intuizione degli eventi, ma ancora parziale, distorta. -Sconvolta, va da Simon Pietro e dagli altri discepoli, ma, fa notare Martini, riferisce una sua versione dei fatti. In fondo cosa ha visto? La pietra ribaltata e il sepolcro vuoto; su questi elementi costruisce una storia; il corpo di Gesù è stato rubato. L’inquietudine di non sapere dove lo hanno portato non le dà pace.
* L’Osservayore Romano, 17 luglio 2017
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MICHELANGELO E LA SISTINA (1512-2012). I PROFETI INSIEME ALLE SIBILLE PER LA CHIESA UN GROSSO PROBLEMA .... DOPO 500 ANNI, PER IL CARDINALE RAVASI LA PRESENZA DELLE SIBILLE NELLA SISTINA E’ ANCORA L’ELEMENTO PIU’ CURIOSO. Materiali sul tema, per approfondimenti
Federico La Sala
“NON SIAMO CAPOMASTRI, MA MANOVALI”. LA PREGHIERA DEL PAPA PER LA CURIA SCONCERTA ALCUNI CONSERVATORI
di Ludovica Eugenio (Adista - Notizie, 9 GENNAIO 2016 • N. 1)
CITTÀ DEL VATICANO-ADISTA. Una preghiera, non molto nota, comunemente attribuita a mons. Oscar Romero ma composta da mons. Kenneth Edward Untener, vescovo di Saginaw dal 1980 al 2004, e pronunciata per la prima volta dal card. John Dearden, storico vescovo di Detroit (dal 1958 al 1980), ha concluso, il 21 dicembre scorso, il discorso natalizio di papa Francesco alla Curia Romana.
Un discorso, come hanno riportato i media, improntato sulla metafora degli “antibiotici curiali” da opporre come rimedio alle malattie di cui la Curia soffre, perché «Ecclesia semper reformanda».
La preghiera pronunciata dal papa in quell’occasione è particolarmente significativa, sia per il contenuto - che consente di leggere in filigrana un riferimento al proprio pontificato - sia per la figura dalla quale è stata pronunciata per la prima volta, un cardinale che ha avuto un ruolo di rilievo nella Conferenza episcopale statunitense fino alla fine degli anni ’80 ma che, soprattutto, ha partecipato in qualità di padre conciliare ai lavori del Vaticano II, contribuendo alla stesura della Gaudium et spes e della Lumen gentium e ed è stato molto attivo nel campo della lotta alla discriminazione razziale negli Usa.
Ma non solo. La figura del card. Dearden ha un valore anche simbolico, e lo ha dimostrato il fatto che il riferimento da parte del papa abbia inquietato gli animi di un settore conservatore della Chiesa cattolica, soprattutto anglofona, come il blog inglese Torch of the Faith, che parla di un «sentimento di scoraggiamento » trasmesso dal papa con il suo discorso e del fatto che «i cattolici tradizionalisti del mondo aggrotterebbero le sopracciglia per questa “preghiera”, che suggerisce che “nessun credo porta la perfezione”».
Ma soprattutto, è il riferimento stesso a Dearden a provocare sconcerto presso i cattolici più conservatori, i quali lo hanno sempre considerato un «progressista riservato» per il suo stile di governo basato sul consenso, quando fu primo presidente della Conferenza episcopale Usa (1966-1971): fu sotto la sua guida che negli Usa vennero autorizzati i ministri straordinari dell’Eucaristia e venne ripresa una pratica ormai abbandonata da secoli, l’ordinazione diaconale di laici sposati.
Nel 1976, quando venne lanciata l’iniziativa “Call to Action” con lo scopo di coinvolgere la comunità cattolica statunitense nella ricerca della libertà e della giustizia (poi dando vita all’omonima associazione), Dearden ne fu alla guida, con una massiccia consultazione dei laici.
Naturalmente, il suo coinvolgimento in quella che sarà poi giudicata dall’ala più tradizionalista della Chiesa un’associazione ai limiti dell’apostasia - per la critica al magistero sui temi delle donne prete, dell’aborto, della contraccezione e dei divorziati risposati; venne anche posto sotto inchiesta dal Vaticano nel 2006 - ne fece un “radicale”.
Così come radicale è considerato, dalla stessa ala, papa Francesco, specialmente riguardo alla sua agenda sul clima: «Quella conferenza del 1976 - si legge sul blog Torch of the Faith - mostra alcuni interessanti paralleli con i giorni di papa Francesco e la saga che circonda il Sinodo di Roma sulla famiglia e l’agenda sul cambiamento climatico». In sintesi: «Alla luce di tutto questo possiamo solo chiederci se l’inclusione di quella “preghiera” del radicale John Francis Dearden indica qualcosa di più del semplice fantasma di un’idea».
Il Regno non è solo oltre i nostri sforzi, è anche
oltre le nostre visioni. /
Nella nostra vita riusciamo
a compiere solo una piccola parte di quella
meravigliosa impresa che è l’opera di Dio. /
Niente di ciò che noi facciamo è completo. Che
è come dire che il Regno sta più in là di noi stessi./
Nessuna affermazione dice tutto quello che
si può dire. /
Nessuna preghiera esprime completamente
la fede. /
Nessun credo porta la perfezione./
Nessuna visita pastorale porta con sé
tutte le soluzioni. /
Nessun programma compie
in pieno la missione della Chiesa. /
Nessuna meta
né obbiettivo raggiunge la completezza. Di questo
si tratta: /
noi piantiamo semi che un giorno
nasceranno. /
Noi innaffiamo semi già piantati,
sapendo che altri li custodiranno. /
Mettiamo le
basi di qualcosa che si svilupperà. /
Mettiamo il
lievito che moltiplicherà le nostre capacità. /
Non
possiamo fare tutto, però dà un senso di liberazione
l’iniziarlo. /
Ci dà la forza di fare qualcosa
e di farlo bene. /
Può rimanere incompleto, però
è un inizio, il passo di un cammino. /
Una opportunità
perché la grazia di Dio entri e faccia il
resto. /
Può darsi che mai vedremo il suo compimento,/
ma questa è la differenza tra il capomastro
e il manovale. /
Siamo manovali, non capomastri,
servitori, non messia. /
Noi siamo profeti
di un futuro che non ci appartiene.
Quel debito del Papa a Martini, il «sogno» della Chiesa dei poveri
di Marco Garzonio (Corriere della Sera, 11 ottobre 2013)
C’ è senz’altro una gran dose di novità nel papato di José Mario Bergoglio. Ma chi vede solo quell’aspetto fa torto a lui e alla Chiesa. E applica solo categorie di tipo politico o comunque di comodo, figlie d’una cultura usa a distinguere tra cattolici «buoni», aperti alla modernità, e cattolici attaccati a tradizione, riti, potere. Le dichiarazioni di Francesco riportate da Scalfari vanno lette nella chiave di un uomo di Dio che s’è posto un compito di cui sa l’arditezza: trasformare in fuoco scoppiettante le braci che covavano sotto una pesante coltre di cenere, la quale ha rischiato, anche in tempi recenti, di soffocare ogni afflato vitale, prima che spinte riformatrici. Braci vive, però.
Alcuni esempi li ha offerti lo stesso Papa. Ha citato due volte Carlo Maria Martini. Ed già è un bell’attestato per il cardinale scomparso poco più d’un anno fa trovarsi in una galleria che va da Francesco d’Assisi a Sant’Agostino, da San Paolo a Sant’Ignazio.
A quegli che fu Arcivescovo di Milano in oltre un ventennio difficilissimo Francesco esprime pubblicamente un debito di riconoscenza straordinario: l’aver per anni indicato ai pontefici allora regnanti, Wojtyla e Ratzinger, il modello di una Chiesa «sinodale», cioè un’istituzione in cui il Papa governa non da monarca assoluto, ma per «servizio», aiutato da vescovi e cardinali. Ascoltando questi e potendo contare sul loro apporto egli diviene effettivamente capo di tutta la Chiesa, perché tiene conto delle voci di altri continenti, di altri bisogni, di altre sollecitazioni, rispetto a quel Vaticano ripiegato su se stesso e sulla gestione. E, come vescovo di Roma, senza cioè pretese egemoniche e di proselitismo («una solenne sciocchezza», dice Bergoglio) spiana la via a ecumenismo e dialogo interreligioso su cui Martini incentrò il suo episcopato, prendendosi più di un rimbrotto ufficiale in quanto poco attento, appunto, al proselitismo.
Quando Martini, nel 1981, come bilancio del primo anno di episcopato e quindi dei contatti con Cei e Santa Sede, cominciò a parlare di «Chiesa sinodale», dovette porre la sua intuizione personale e la via di sviluppo della Chiesa sotto la categoria del «sogno». Da uomo di fede e persona realista, oltreché prudente gesuita, aveva capito che le sue argomentazioni non costituivano materia gradita ai vertici. Pose le sue idee come meta magari lontana, ma non tacque. E pagò di persona.
Ancora di «sogno» dovette parlare quasi vent’anni dopo, con amarezza e delusione verso il profilarsi del nuovo millennio quando cresceva la decadenza di forze di Wojtyla e aumentava di potere della «corte» come oggi Bergoglio chiama chi attornia il pontefice. E ancora fu non capito, da alcuni, avversato dai più, dagli stessi confratelli vescovi e cardinali riuniti in Sinodo. Martini ci credeva e non rinunciò mai al «sogno», che ora Bergoglio cerca di far camminare perché si trasformi in realtà.
Nell’intervista dell’8 agosto 2012, pubblicata il 1° settembre, giorno successivo la morte, sul Corriere della Sera, col tono grave del lascito testamentario e del monito profetico indicò anche la via pratica: il Papa si contorni di 12 vescovi e cardinali se vuole che la barca di Pietro non venga sommersa dai flutti interni e da una società che non le crede più, indietro com’è di 200 anni su temi quali la famiglia, i giovani, il ruolo della donna (argomento questo su cui Francesco ha promesso di parlare ancora). Martini tenne la barra del timone dritta sino all’ultimo. E per dare ancora più incisività ed elevatezza al suo dire aveva precisato che non sognava più «sulla» Chiesa, ma pregava «per» la Chiesa.
Le preghiere devono aver bussato molto in alto se il Conclave sei mesi fa ha scelto Bergoglio e lui ha accettato dopo una crisi quasi mistica. Ma è certo che se Francesco riprende quei temi ed esprime riconoscenza pubblica a chi l’ha ispirato è perché Martini non era poi così solo e isolato come molta pubblicistica cattolica ha cercato di far credere per anni.
A smentita dell’opinione pubblica ufficiale, fatta filtrare dai vertici della Santa Sede e della Conferenza episcopale italiana, e di un certo manicheismo laico cui è sempre piaciuto indicare un Martini «contro» Papa, dottrina, magistero, ecco che un grande fiume carsico scorreva sotto i sagrati, gli altari, i sacri palazzi. Erano quei vescovi e quei preti, quei laici e quei dirigenti o volontari di movimenti per i quali non v’era da temere affatto che la Chiesa perdesse potere temporale.
A partire dal Convegno ecclesiale di Loreto del 1985 presieduto da Martini (e di quello di Palermo degli anni 70, con Martini, Lazzati e gesuiti quali padre Sorge) furono in molti a riconoscersi nell’immagine di una Chiesa che, oltreché sinodale fosse povera tra i poveri, ispirata al vangelo delle Beatitudini, lievito e granello di senape.
Da parte di una componente della gerarchia si cercò di contrastare quel corso, di recuperare anzi la gestione diretta («clericale» la chiama ora Bergoglio) del potere e dei rapporti con la politica al momento della fine della Dc e della diaspora dei cattolici, in aperto dissenso con Martini che invece pensava sarebbe servita da «purificazione» la lontananza dei cattolici dal potere.
Francesco riparte di lì, certo con le dichiarazioni ai giornali, ma anche con atti di governo interni (Segreteria di Stato, Ior, Gruppo degli 8 cardinali) e rivolti alla Cei. Ci si avvia, infatti, all’elezione del capo dei vescovi italiani da parte degli stessi vescovi, con maggioranze e minoranze, legittimazione del dibattito e di posizioni differenti, non più a designazioni ufficiali e gestione autocratica.
Certo, si appresta a essere una Chiesa diversa quella che Francesco delinea e che già si intravede. Ma se davvero sarà così anche alla cultura laica toccherà di compiere un po’ di autocritica. Facciamo un esempio. Bergoglio ha dichiarato a Scalfari: «Io credo in Dio. Non in un Dio cattolico, non esiste un Dio cattolico, esiste Dio».
Nel 2007 Martini disse in Conversazioni notturne a
Gerusalemme : «Non puoi rendere Dio cattolico. Dio è al di là dei limiti e delle definizioni che noi
stabiliamo». Si stracciarono le vesti in molti. Nel mondo cattolico ad alcuni parve quasi una
bestemmia. Ma pure tra i laici molti sussultarono.
Per quel libro Martini fu attaccato anche
all’interno del Gruppo dell’Espresso , il Gruppo di Scalfari. E non fu né la prima né l’ultima volta.
Ecco, il lavoro da fare è molto se si punta davvero a una società e a una politica in cui ciascuno possa dare il proprio contributo, per quello che può e sa. Con onestà e coerenza, disposto a mettersi in discussione. Allora stupore e ammirazione per il Papa saranno autentici e lo si aiuterà nelle riforme, in quanto vescovo di Roma, come lui tiene a ribadire, pastore di un popolo intero che con lui cammina. Esaltarlo troppo rischia di distanziarlo da quel popolo che per larga parte era già vicino alle sue idee e lo aspettava. E di danneggiare la sua opera.
MESSAGGIO EVANGELICO, SPIRITO CRITICO, E INSEGNAMENTO: CHI INSEGNA A CHI CHE COSA E COME?
(...) quella che affrontiamo non è semplicemente una questione esegetica. La posta in gioco è ben più alta. Dietro la domanda: «Perché Gesù parlava in parabole», sta infatti una questione attualissima e gravissima: quella del «linguaggio religioso», del come parlare adeguatamente di Dio oggi (...)
Oggi il Cardinal Martini ha terminato la sua corsa terrena. Scompare dai nostri occhi uno dei personaggi principali della vita della chiesa nell’ ultimo trentennio, un (quasi) Papa, molto letto, molto ascoltato dai media (anche se non è mai stato, a differenza di Wojtyla, l’ uomo delle folle e del gesto). Se ne va il Gigante, il principale riferimento religioso, morale, intellettuale della mia giovinezza. L’ ho seguito fin dal suo arrivo in diocesi, ho avuto la fortuna di conoscerlo personalmente e di confidarmi con Lui come fosse mio padre. A lungo mi sono vantato di essere un "martiniano", poi ho smesso, visto che lui stesso mi ripeteva: di Maestro ce n’è uno solo!
Martini si è speso fino all’osso per farci conoscere la Parola. "In principio la Parola" è il titolo della sua più intensa lettera pastorale e ben sintetizza il cuore del suo magistero. "Leggi la Parola... sottolinea la Parola", quante volte l’ ha ripetuto. La Parola che parla di Gesù è Gesù stesso, e come lui incessantemente in moto, senza fine nel movimento di dare tutto di se stessa. Se ascoltata e "ruminata", susciterà in noi le parole giuste per quest’ epoca di alto sbandamento, le parole gocciolanti in grado di "rimettere al mondo il mondo".
Con le sue parole intorno alla Parola, Martini mi ha cambiato Dio. Non più il Dio lombardo, cupo, controriformista, il Dio col vocione che produce l’ inflazione del senso di colpa. Ormai Dio è vento sottile e sua volontà la nostra liberazione: la partenza da tutti i varchi, l’ apertura di tutte le gabbie. Ah, le gabbie...
In Martini ho visto da vicino la fatica di star dentro le tante costrizioni in cui s’ infossa la vita della chiesa cattolica d’Occidente, sia dal punto di vista morale sia dal punto di vista pastorale. Alla fatica si è presto aggiunta (metà degli anni ottanta) anche la viva preoccupazione di non apparire l’anti-Papa, l’anti-Wojtyla, e di riuscire a sottrarsi al continuo controllo vaticano. A mio avviso, era in battaglia continua, fuori e dentro di sé, con il marmo di sacra romana chiesa. Da un certo punto in poi il campo di questa battaglia è diventato il suo stesso corpo, come se il tremolio parkinsoniano non foss’altro che la costante lotta tra la spinta ad essere se stesso e la controspinta a non esserlo, per non disobbedire all’ autorità costituita. Alla fine il controllo estremo ha avuto il sopravvento e il Gigante si è trovato rinchiuso dentro una corazza. Ha dovuto rinunciare alla sua originalità, alla sua "martinità".
E’ stato bello, sì, molto bello conoscere e frequentare padre Carlo. E il modo migliore di ricordarlo sarà quello di seguire la strada che lui stesso aveva intravisto dal suo personale monte Nebo e di cui parlò tanti anni fa durante la messia esequiale di uno dei suoi più cari amici, don Luigi Serenthà: "procedere per una più grande scioltezza nella Chiesa, per una più grande libertà di spirito, per una più grande creatività, soltanto in questo modo si manifesta la vitalità della Parola, del mistero pasquale della morte e della risurrezione di Gesù". Aveva capito assai bene quant’ è indispensabile alleggerire e, in tal senso, è riuscito a fare più di quanto lasciasse prevedere la sua estrazione alto borghese, la sua impostazione perfetta e il suo ruolo di "principe della Chiesa". Oggi, finalmente sciolto da pesi obblighi dolori, è giunto "nella pienezza totale che non è cancellazione delle singole individualità ma affermazione piena dell’ individualità di ciascuno in una perfetta armonia in Dio" (citazione dell’ Inno all’ universo di un altro gesuita, Teilhard de Chardin, che Martini stesso usava per spiegare come sarà in Cielo). Adesso tocca a noi, che restiamo per qualche giorno ancora su questa terra di terra e sassi, non farci frenare dalle pesantezze del vivere e volteggiare in libertà di spirito sopra ogni pietra tombale.
Saluti chiari come gli occhi di padre Carlo
Giovanni
Giovanni Ambrogio Colombo
Milano
L’ultima intervista: «Chiesa indietro di 200 anni. Perché non si scuote, perché abbiamo paura?»
intervista a Carlo Maria Martini
a cura di Georg Sporschill e Federica Radice Fossati Confalonieri (Corriere della Sera, 1 settembre 2012)
Come vede lei la situazione della Chiesa?
«La Chiesa è stanca, nell’Europa del benessere e in America. La nostra cultura è invecchiata, le nostre Chiese sono grandi, le nostre case religiose sono vuote e l’apparato burocratico della Chiesa lievita, i nostri riti e i nostri abiti sono pomposi. Queste cose però esprimono quello che noi siamo oggi? (...) Il benessere pesa. Noi ci troviamo lì come il giovane ricco che triste se ne andò via quando Gesù lo chiamò per farlo diventare suo discepolo. Lo so che non possiamo lasciare tutto con facilità. Quanto meno però potremmo cercare uomini che siano liberi e più vicini al prossimo. Come lo sono stati il vescovo Romero e i martiri gesuiti di El Salvador. Dove sono da noi gli eroi a cui ispirarci? Per nessuna ragione dobbiamo limitarli con i vincoli dell’istituzione».
Chi può aiutare la Chiesa oggi?
«Padre Karl Rahner usava volentieri l’immagine della brace che si nasconde sotto la cenere. Io vedo nella Chiesa di oggi così tanta cenere sopra la brace che spesso mi assale un senso di impotenza. Come si può liberare la brace dalla cenere in modo da far rinvigorire la fiamma dell’amore? Per prima cosa dobbiamo ricercare questa brace. Dove sono le singole persone piene di generosità come il buon samaritano? Che hanno fede come il centurione romano? Che sono entusiaste come Giovanni Battista? Che osano il nuovo come Paolo? Che sono fedeli come Maria di Magdala? Io consiglio al Papa e ai vescovi di cercare dodici persone fuori dalle righe per i posti direzionali. Uomini che siano vicini ai più poveri e che siano circondati da giovani e che sperimentino cose nuove. Abbiamo bisogno del confronto con uomini che ardono in modo che lo spirito possa diffondersi ovunque».
Che strumenti consiglia contro la stanchezza della Chiesa?
«Ne consiglio tre molto forti. Il primo è la conversione: la Chiesa deve riconoscere i propri errori e deve percorrere un cammino radicale di cambiamento, cominciando dal Papa e dai vescovi. Gli scandali della pedofilia ci spingono a intraprendere un cammino di conversione. Le domande sulla sessualità e su tutti i temi che coinvolgono il corpo ne sono un esempio. Questi sono importanti per ognuno e a volte forse sono anche troppo importanti. Dobbiamo chiederci se la gente ascolta ancora i consigli della Chiesa in materia sessuale. La Chiesa è ancora in questo campo un’autorità di riferimento o solo una caricatura nei media?
Il secondo la Parola di Dio. Il Concilio Vaticano II ha restituito la Bibbia ai cattolici. (...) Solo chi percepisce nel suo cuore questa Parola può far parte di coloro che aiuteranno il rinnovamento della Chiesa e sapranno rispondere alle domande personali con una giusta scelta. La Parola di Dio è semplice e cerca come compagno un cuore che ascolti (...). Né il clero né il Diritto ecclesiale possono sostituirsi all’interiorità dell’uomo. Tutte le regole esterne, le leggi, i dogmi ci sono dati per chiarire la voce interna e per il discernimento degli spiriti.
Per chi sono i sacramenti? Questi sono il terzo strumento di guarigione. I sacramenti non sono uno strumento per la disciplina, ma un aiuto per gli uomini nei momenti del cammino e nelle debolezze della vita. Portiamo i sacramenti agli uomini che necessitano una nuova forza? Io penso a tutti i divorziati e alle coppie risposate, alle famiglie allargate. Questi hanno bisogno di una protezione speciale. La Chiesa sostiene l’indissolubilità del matrimonio. È una grazia quando un matrimonio e una famiglia riescono (...).
L’atteggiamento che teniamo verso le famiglie allargate determinerà l’avvicinamento alla Chiesa della generazione dei figli. Una donna è stata abbandonata dal marito e trova un nuovo compagno che si occupa di lei e dei suoi tre figli. Il secondo amore riesce. Se questa famiglia viene discriminata, viene tagliata fuori non solo la madre ma anche i suoi figli. Se i genitori si sentono esterni alla Chiesa o non ne sentono il sostegno, la Chiesa perderà la generazione futura. Prima della Comunione noi preghiamo: "Signore non sono degno..." Noi sappiamo di non essere degni (...). L’amore è grazia. L’amore è un dono. La domanda se i divorziati possano fare la Comunione dovrebbe essere capovolta. Come può la Chiesa arrivare in aiuto con la forza dei sacramenti a chi ha situazioni familiari complesse?»
Lei cosa fa personalmente?
«La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio? Comunque la fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio. Io sono vecchio e malato e dipendo dall’aiuto degli altri. Le persone buone intorno a me mi fanno sentire l’amore. Questo amore è più forte del sentimento di sfiducia che ogni tanto percepisco nei confronti della Chiesa in Europa. Solo l’amore vince la stanchezza. Dio è Amore. Io ho ancora una domanda per te: che cosa puoi fare tu per la Chiesa?».
«Voleva che l’ultima intervista fosse inserita nel testamento»
intervista a Federica Radice
a cura di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 4 settembre 2012)
«Quando ho incontrato per l’ultima volta il cardinale era il 23 agosto. Avevamo fatto avere a don Damiano Modena il testo della conversazione che il cardinale Martini aveva avuto con padre Georg Sporschill e me due settimane prima, l’8. Padre Sporschill aveva limato il testo in tedesco, io l’avevo ritradotto in italiano per poi mandare a Gallarate le due versioni, il cardinale aveva letto e approvato.
Quel giorno don Damiano mi disse: il testo è stupendo ma è molto forte, aspettiamo a renderlo pubblico dopo la morte. Tutti avevamo la consapevolezza che fosse una sorta di testamento. E ormai sapevamo che era una questione di giorni. L’idea era che quel testo facesse parte anche del suo lascito testamentario, don Damiano lo aveva già consegnato all’esecutore». Federica Radice Fossati Confalonieri non fa la giornalista, vive a Vienna e ha impegni più urgenti, «mi occupo dei miei tre bambini», è una delle persone che in questi anni è stata più vicina al cardinale, «un amico, un padre spirituale, un confessore: fu padre Georg a presentarmelo, nella Pasqua del 2008 a Gerusalemme».
La eco mondiale della «conversazione» con Martini pubblicata dal Corriere l’ha colta di sorpresa, ma fino a un certo punto. Il lamento per una Chiesa «stanca» e «rimasta indietro di 200 anni», l’invito a «liberare la brace dalla cenere», il bisogno di «uomini che ardono in modo che lo Spirito possa diffondersi ovunque», le domande: «Come mai non si scuote? Abbiamo paura?», l’esortazione: «Fede, fiducia, coraggio».
E gli occhi di Martini che sembravano ardere a loro volta, racconta Federica Radice Fossati Confalonieri, quando chiese secco a padre Georg: «E tu, che cosa puoi fare tu per la Chiesa?». La signora sorride: «L’ho visto vacillare, e far vacillare un uomo come Sporschill non è facile: uno che cercava i bambini nelle fogne in Romania, che ne ha salvati più di mille, un santo vivente. Lo dico per spiegare a chi il cardinale ha aperto l’ultima volta il suo cuore».
Non «un’intervista» dice, «piuttosto l’ultima conversazione, l’epilogo delle Conversazioni notturne a Gerusalemme che è diventato il libro più letto di Martini». Una conversazione che ha stupito loro per primi: «Pensavamo di parlare dieci minuti e siamo andati avanti due ore, padre Sporschill in tedesco, il cardinale in italiano e io, una donna laica, che traducevo e mi trovavo ad essere testimone di quel dialogo tra due grandi gesuiti».
Avevano deciso di andare a trovarlo quando don Damiano Modena era andato a Vienna in giugno. «Per Martini era un figlio spirituale, gli aveva detto: dopo la mia morte andrai da padre Georg». Decisero di rivedersi all’Aloisianum di Gallarate, la casa dei gesuiti dove Martini ha passato gli ultimi anni. Rimasero tutto il giorno, quell’otto agosto: la messa al mattino, dopo il pranzo e il riposo quella conversazione serrata di due ore nel pomeriggio. E Martini che, nonostante la fatica, sembrava sentisse l’urgenza di proseguire: «Continuava a parlare, andava avanti, io ero sbigottita. Poi, quando abbiamo finito, ha detto sollevato: adesso prendiamo il tè».
Non un attacco alla Chiesa, piuttosto un atto d’amore: «Non ha parlato di persone. L’attacco, semmai, è alla struttura rigida che vincola la Chiesa, i "vincoli dell’istituzione". La necessità di fare breccia, di aprirsi. Quando parlava dell’apparato burocratico ci ha detto: "Il nostro patrimonio culturale che dobbiamo conservare è ancora in grado di servire l’evangelizzazione e gli uomini? Oppure intrappolano le nostre forze in modo da paralizzarci quando un bisogno ci schiaccia?"».
Federica Radice Fossati Confalonieri si concede una breve risata: «Diceva che c’era bisogno di cardinali un po’ matti, di gente fuori dalle righe, persone che rompessero le barriere e sapessero portare novità. Come Madre Teresa». Poi ricorda quel 23 agosto: «Mi ha chiesto della mia famiglia, dei figli. Io gli ho domandato la sua benedizione. Sono uscita in lacrime. È difficile salutarsi quando sai che, su questa terra, non ti rivedrai più».
Morto cardinal Martini
Nel 2002 si ritirò a Gerusalemme, tornò nel 2008
E’ morto il cardinale Carlo Maria Martini. Lo comunica l’arcivescovo di Milano, Angelo Scola. Pochi istanti fa, dal cancello del collegio Aloisianum è uscito un anziano sacerdote, che non ha voluto rendere noto il proprio nome, e che però ha detto ai giornalisti che lo hanno avvicinato per chiedergli se sapesse qualcosa del Cardinale, "Martini è morto". "Era un grande uomo - ha aggiunto l’anziano sacerdote - un grande studioso, ci ha lasciato tanti insegnamenti, era un uomo di Dio". Poi si è allontanato in auto.
La camera ardente per Carlo Maria Martini, l’ex arcivescovo di Milano morto oggi a Gallarate, sarà allestita in Duomo dalle 12 di domani. I funerali saranno celebrati sempre in cattedrale lunedì alle 16. Lunedì a Milano sarà lutto cittadino.
Con il cardinale Carlo Maria Martiniscompare un protagonista degli ultimi decenni nella vita della Chiesa cattolica, che ha interpretato spesso posizioni ’avanzate’, non solo sui temi etici, e non di rado in contrasto con le linee ufficiali della gerarchia vaticana. Di lui si può parlare anche come di un "mancato Papa", essendo arrivato al Conclave del 2005, quello che elesse Benedetto XVI, come uno dei "papabili", sostenuto - si disse allora - dall’ala più progressista del Collegio cardinalizio. Già dal 2002 arcivescovo emerito di Milano, trasferitosi a Gerusalemme per riprendere i suoi prediletti studi biblici, in realtà - secondo le successive ricostruzioni - in quel Conclave Martini ottenne meno consensi del previsto e il duello nelle quattro votazioni si restrinse ai soli Ratzinger e Bergoglio.
Eccelso biblista, grande propulsore dell’ecumenismo tra le varie Chiese e confessioni cristiane, promotore del dialogo tra cristianesimo ed ebraismo, il gesuita Martini ha avuto più volte anche posizioni critiche su decisioni dell’attuale Papa, spesso ’scomode’, o comunque non in linea con l’ufficialità. Ad esempio, nel luglio 2007, con un’intervista al Sole 24 Ore, Martini criticò il ’motu proprio’ "Summorum Pontificum" con cui Benedetto XVI aveva liberalizzato la messa in latino col rito tridentino.
"Amo la messa preconciliare e il latino ma non celebrerò la messa con l’antico rito", disse in sostanza il porporato, apprezzando comunque "la volontà ecumenica a venire incontro a tutti" mostrata dal Pontefice tedesco. Nel marzo 2010, poi, nel pieno dello scandalo pedofilia nella Chiesa cattolica, venne riportato un suo pronunciamento favorevole al ripensamento dell’obbligo di celibato dei preti. In un comunicato diffuso però dall’arcidiocesi di Milano, Martini smentì tali dichiarazioni, sostenendo anzi di ritenere "una forzatura coniugare l’obbligo del celibato per i preti con gli scandali di violenza e abusi a sfondo sessuale".
Ma è in particolare sui temi etici che le sue prese di posizione ha fatto più volte scalpore. Nell’aprile del 2006 avevano fatto molto discutere le aperture di Martini sull’uso del profilattico, indicato come "male minore" nel caso di prevenzione dal contagio Hiv. "Lo sposo affetto dall’Aids - spiegava in un dialogo per L’Espresso con il chirurgo Ignazio Marino, poi diventato parlamentare Pd - è obbligato a proteggere l’altro partner e questi pure deve potersi proteggere". In quel dialogo, Martini manifestava anche prudenza nell’esprimere giudizi sulla fecondazione eterologa ed invitava ad approfondire la strada per l’adozione di embrioni, anche da parte delle donne single, pur di impedirne la distruzione. Disco verde veniva dato anche all’adozione per i single: in mancanza di una famiglia "composta da uomo e donna che abbiano saggezza e maturità", anche "altre persone, al limite anche i single, potrebbero dar di fatto alcune garanzie essenziali. Non mi chiuderei perciò a una sola possibilità".
E sull’eutanasia: "neppure io vorrei condannare le persone che compiono un simile gesto su richiesta di una persona ridotta agli estremi e per puro sentimento di altruismo". Tuttavia "é importante distinguere bene gli atti che arrecano vita da quelli che arrecano morte. E questi ultimi non possono mai essere approvati". Tutti temi finiti anche nel recente libro "Credere e conoscere", di Martini e Marino (Einaudi), in cui non mancano ’aperture’ esplicite su questioni come, oltre che il profilattico, le coppie di fatto, sia etero che omosessuali. A proposito di chi ha partner dello stesso sesso, ad esempio, Martini diceva che "tale comportamento non può venire né demonizzato né ostracizzato".
Mentre, anche se la famiglia va difesa, "non è male, in luogo di rapporti omosessuali occasionali, che due persone abbiano una certa stabilità e quindi in questo senso lo Stato potrebbe anche favorirli. Non condivido - affermava l’arcivescovo emerito - le posizioni di chi, nella Chiesa, se la prende con le unioni civili". Anche se in contrasto con alcune delle posizioni di Benedetto XVI, comunque, Martini non ha mai fatto mancare il rapporto di vicinanza e fedeltà con l’attuale Papa, suo coetaneo, al quale, nell’ultimo incontro avuto a Milano il 3 giugno scorso, in occasione del Meeting mondiale delle Famiglie, ha espresso anche solidarietà per la vicenda dei documenti trafugati. "Ho voluto dire al Papa che accettare queste cose dolorose come dono è purificatorio. Lui soffre e noi soffriamo con lui. Ma la verità si compirà", aveva commentato Martini all’indomani dell’incontro in Curia.
CHIESA
E’ morto Martini, il vescovo del dialogo
"Ha rifiutato l’accanimento terapeutico"
L’annuncio del decesso dal cardinale Scola. Il neurologo Gianni Pezzoli aveva in cura da anni
l’arcivescovo emerito di Milano: "E’ rimasto lucido fino alle ultime ore e ha rifiutato i trattamenti"
E’ morto a 85 anni il cardinale Carlo Maria Martini. La notizia del decesso è stata data personalemente dall’arcivescovo di Milano, Angelo Scola. Il decesso è avvenuto alle 15.45 a Gallarate, nel sonno, e i funerali saranno celebrati in Duomo a Milano. Le campane delle chiese della Diocesi di Milano hanno suonato a morto dopo la notizia.
Dopo un’ultima crisi, cominciata a metà agosto, il cardinale Martini non era più stato in grado di deglutire né cibi solidi né liquidi. Ma è rimasto lucido fino all’ultimo e ha rifiutato ogni forma di accanimento terapeutico", aveva spiegato poche ore prima del decesso il neurologo Gianni Pezzoli, che da anni aveva in cura l’arcivescovo emerito di Milano. Papa Benedetto XVI era stato informato già ieri sera sull’aggravamento delle condizioni di salute del cardinale. Il cardinale, che era stato arcivescovo di Milano dal 1979 al 2002, era da anni malato di Parkinson, una malattia che lo aveva costretto a ridurre sempre di più le sue uscite pubbliche. Dal 2008 viveva all’Aloisianum, la casa dei gesuiti a Gallarate (Varese).
"Il cardinale Martini ha sempre dichiarato la sua malattia", ricorda Pezzoli, responsabile del Centro per la malattia di Parkinson e i disturbi del movimento degli Istituti clinici di perfezionamento (Icp) di Milano. Il neurologo, cofondatore e presidente dell’Associazione italiana parkinsoniani (Aip), ha seguito l’arcivescovo emerito "negli ultimi dieci anni" e l’ha visto "anche questa mattina". Nel 2002 il cardinale Martini aveva scelto di vivere a Gerusalemme ed è tornato in Italia nel 2008 "per complicanze non necessariamente legate alla sua patologia. Va infatti considerata anche l’età anagrafica", precisa Pezzoli. "Fino al rientro in Italia le sue condizioni sono rimaste discrete, ma il cardinale ha cercato di vivere una vita normale fino all’ultimo, praticamente fino all’ultima crisi". "Il cardinale non è più stato in grado di deglutire nulla - continua il neurologo - ed è stato sottoposto a terapia parenterale idratante. Ma non ha voluto alcun altro ausilio: né la peg, il tubicino per l’alimentazione artificiale che viene inserito nell’addome, né il sondino naso-gastrico. E’ rimasto lucido fino alle ultime ore e ha rifiutato tutto ciò che ritiene accanimento terapeutico".
La struttra che ha ospitato il cardinal Martini negli ultimi anni di vita è l’Aloisianum, un importante Istituto di studi filosofici gestito dai Gesuiti in cui il sacerdote in anni passati aveva studiato. L’ultimo piano del complesso è attrezzato per ospitare gesuiti anziani lungodegenti o con necessità di cure. Il nome della struttura deriva da Aloisius (Luigi in latino) ed è dedicata a san Luigi Gonzaga. L’istituto è nato nel 1839 per ospitare un seminario degli aspiranti gesuiti, grazie a una generosa donazione della contessa Rosa Piantanida Bassetti Ottolini. Sorge alla periferia di Gallarate, nel rione Ronchi, un tempo proprietà dei Bassetti. Il nucleo centrale dell’Aloisianum è costituito dal complesso universitario, fronteggiato da cedri del Libano e affiancato da biblioteca, sala convegni e refettorio. A occidente del complesso ci sono un un orto e un frutteto. Una fattoria è collegata al complesso e serve l’intera zona con prodotti ortofrutticoli e di allevamento.
CHIESA
E’ grave il cardinale Martini
Scola: "Preghiamo per lui"
Le condizioni di salute dell’arcivescovo emerito di Milano "si sono particolarmente aggravate",
si legge in una nota della Diocesi ambrosiana. Per evitargli sofferenze i medici lo hanno sedato
di ZITA DAZZI *
"Le condizioni di salute del cardinale Carlo Maria Martini si sono particolarmente aggravate. L’arcivescovo Angelo Scola invita i fedeli e quanti l’hanno a cuore a pregare per lui in questo delicato momento ". È contenuto tutto nelle poche parole di uno scarno comunicato, diramato in serata dalla Curia di Milano, il senso di quanto sta avvenendo in queste ore all’Aloisianum di Gallarate, la residenza dei padri gesuiti in cui da quattro anni abita il cardinale Martini, 85 anni, arcivescovo emerito di Milano, grande esegeta e studioso di fama mondiale dei testi biblici, teologo ed ebraista, voce inimitabile di un cattolicesimo aperto al rinnovamento pur senza tradire il pensiero ufficiale. L’alto prelato da anni soffre di Parkinson, una malattia che nelle ultime ore lo ha colpito alla respirazione, provocandogli forti attacchi di tosse. Per evitargli dolorose convulsioni, i medici hanno scelto di sedarlo. Al suo capezzale ci sono i nipoti Giulia e Giovanni, che saranno raggiunti domani dalla sorella del cardinale, Maris Martini.
Da anni Martini aveva dovuto rinunciare ai suoi studi biblici nell’amata Gerusalemme, dove si era ritirato nel settembre del 2002, alla fine dei 23 anni di episcopato milanese, proprio per le sue precarie condizioni di salute. Malato da tempo, sette anni fa era dovuto rientrare in Italia per farsi assistere in modo appropriato. Da Gallarate, Martini in questi anni ha continuato a predicare e a studiare, celebrando messa fin a quando ha potuto e ricevendo in visita privata fedeli e cittadini che chiedevano di incontrano.
Alla fine di maggio, quando papa Benedetto XVI è arrivato a Milano per il settimo Incontro mondiale delle famiglie, il cardinale, pur sofferente, sempre più in difficoltà nel parlare e nella deambulazione, aveva deciso di venire nel capoluogo per incontrare personalmente il Pontefice, in quella che con tutta probabilità lui intuiva sarebbe stata l’ultima visita. Dopo quell’ultima uscita pubblica, per Martini sono iniziate le ultime difficili settimane, segnate da crescenti difficoltà respiratorie.
Martini è nato a Torino nel 1927 e aveva manifestato fin da giovane la vocazione. Nel ’44 era entrato in seminario, nella Compagnia di Gesù, cominciando il corso di studi in filosofia e teologia. Nel 1952 era stato ordinato sacerdote, ma le sue doti lo misero presto in evidenza, tanto che già nel ’62 venne chiamato a Roma al Pontificio istituto biblico, nel ’78 è nominato rettore della Pontificia Università Gregoriana. Nel ’79 Wojtyla lo volle sulla cattedra di sant’Ambrogio a Milano, ancora prima di nominarlo cardinale, cosa che avvenne nel 1980. Arrivato giovane e misconosciuto nella Milano del terrorismo e delle contestazioni giovanili, Martini seppe subito farsi conoscere e ascoltare anche da chi non era tradizionalmente vicino alla Chiesa cattolica.
Il torinese Martini riuscì a entrare nel cuore della Milano secolarizzata e sempre più laica istituendo fra le altre iniziative la ’Cattedra dei non credenti’ per dialogare con atei ed esponenti di altre fedi. In uno dei momenti più difficili della storia Repubblica, proprio da lui i terroristi andarono a consegnare le armi. E quello fu forse uno dei primi segnali che la stagione della lotta armata stava per finire.
* la Repubblica, 30 agosto 2012
La Chiesa, Martini e i gay
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 24 marzo 2012)
Nell’arco di neanche un mese tre colpi di maglio sono calati sulla pretesa della Chiesa di bloccare in Italia una legge sulle coppie di fatto. Prima c’è stato il clamoroso funerale di Lucio Dalla a Bologna: celebrato in cattedrale con tutti i crismi, permettendo al compagno omosessuale del defunto omosessuale di commemorarlo a pochi passi dall’altare.
Poi, il 15 marzo, è venuta la sentenza della Corte di Cassazione, che pur respingendo la trascrizione in Italia di un matrimonio omosessuale celebrato all’estero, ha sancito per la coppia gay, in presenza di specifiche situazioni, il diritto a un “trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata”.
ORA SI FA sentire direttamente dall’interno della Chiesa il cardinale Martini, affermando che non ha senso demonizzare le coppie omosex e impedire loro di stringere un patto. Con la pacatezza che lo contraddistingue l’ex arcivescovo di Milano sfida, dunque, quella “dottrina Ratzinger” che consisterebbe nell’obbligo dei politici cattolici di uniformarsi ai “principi non negoziabili” proclamati dalla cattedra vaticana, impedendo il varo di una legislazione sulle unioni civili e meno che mai sulle unioni gay.
Da molti anni Carlo Maria Martini esercita la sua notevole libertà di giudizio, esortando con mitezza la Chiesa a non scambiare il nocciolo della fede con la fossilizzazione di posizioni non sostenibili per il sentire contemporaneo. Vale anche per la posizione da adottare nei confronti dei rapporti omosessuali, dove l’istituzione ecclesiastica è ferma da anni in mezzo al guado. Perché quando era prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede Joseph Ratzinger aveva emanato documenti per esortare al rispetto delle persone omosessuali e ripudiare ogni tipo di discriminazione, irrisione e persecuzione. Ma al tempo stesso aveva ribadito che la pratica omosessuale rappresenta una grave offesa all’ordine morale: di qui la condanna senza appello delle relazioni uomo-uomo oppure donna-donna. Con la conseguenza di sabotare in Italia i tentativi dell’ultimo governo Prodi di approvare una legge sulle coppie di fatto.
Nel libro Credere e conoscere (ed. Einaudi), dove dialoga con il chirurgo cattolico Ignazio Marino esponente del Pd, il cardinale Martini afferma invece che vi sono casi in cui “la buona fede, le esperienze vissute, le abitudini contratte, l’inconscio e probabilmente anche una certa inclinazione nativa possono spingere a scegliere per sé un tipo di vita con un partner dello stesso sesso”. Nel mondo attuale, sostiene il porporato, questo comportamento non può venire “né demonizzato né ostracizzato”. E perciò Martini si dichiara “pronto ad ammettere il valore di un’amicizia duratura e fedele tra due persone dello stesso sesso”.
L’EX ARCIVESCOVO di Milano, peraltro, sottolinea il significato profondo del fatto che Dio ha creato l’uomo e la donna e quindi il valore primario del matrimonio eterosessuale e aggiunge anche di non ritenere un “modello” l’unione di coppia dello stesso sesso. E tuttavia, attento ai bisogni delle persone nella loro umanità, il cardinale afferma che se due partner dello stesso sesso “ambiscono a firmare un patto per dare una certa stabilità alla loro coppia, perché vogliamo assolutamente che non sia?”. Le motivazioni del matrimonio tradizionale, spiega, sono talmente forti che non hanno bisogno di essere puntellate con mezzi straordinari.
D’altronde molti nella Chiesa, vescovi e parroci, la pensano come lui. Anche se non parlano. Nel 2008 la rivista dei gesuiti milanesi Aggiornamenti sociali pubblicò uno studio per dire che - ferma restando la dottrina - dal punto di vista del bene sociale era positivo dare la possibilità alle coppie gay di avere una relazione stabile regolamentata dal diritto. E quindi era giusto legiferare in materia.
I VERTICI ecclesiastici, sulla questione, chiudono occhi e orecchie. Eppure è un segnale che alla televisione, intervenendo a Otto e mezzo, il leader cattolico Pier Ferdinando Casini si sia detto pubblicamente d’accordo con la sentenza della Cassazione, rimarcando che le “coppie omosessuali hanno diritto alla loro affettività e a essere tutelati nei loro diritti”. Casini ha fatto un esempio concreto: “Se convivo da trent’anni con una persona, in tema di asse ereditario bisogna essere sensibile a quella persona che ha convissuto con me”. È uno dei motivi per cui una legge è necessaria. Ed è bene che in parlamento si torni a parlare di alcune proposte di legge sin qui congelate.
Martini, sognare secondo il Concilio
di Enzo Bianchi (La Stampa, 15 ottobre 2011)
«Una memoria umile e grata»: è questo lo spirito che animò, ormai dieci anni fa, l’ultima lettera pastorale del cardinal Martini alla sua diocesi di Milano. Nell’accomiatarsi da quella chiesa cui aveva dedicato il meglio di sé durante ventidue anni di servizio pastorale, esplicitò «l’assillo quotidiano», la domanda decisiva che l’aveva accompagnato: «Ciò che sto proponendo è davvero secondo il Vangelo?». Umiltà di chi si è interrogato ogni giorno sull’essenziale del proprio ministero e gratitudine verso chi ha assecondato, accompagnato, arricchito quel lavoro quotidiano. Ma una memoria umile e grata è anche la qualità che ha guidato Aldo Maria Valli nel raccontare la Storia di un uomo (Ancora, pp. 206, € 16: un «ritratto di Carlo Maria Martini» che ridà voce all’ormai anziano cardinale, reso afono dall’implacabile morbo di Parkinson.
Valli è uno dei giornalisti che ha seguito più da vicino il cardinal Martini durante tutti gli anni del suo ministero a Milano, ed è anche un «cattolico ambrosiano», un credente che nell’accostarsi a colui che è stato per lunghi anni il «suo» pastore, ha sempre saputo conservare un prezioso e fecondo equilibrio tra il professionista al lavoro e il credente in ricerca di una conferma alla propria fede. In questo avvincente percorso tra libri, scritti, omelie, gesti e aneddoti del cardinal Martini vi è una parola che ritorna e che il libro aiuta a cogliere nel suo significato più profondo: «sogno».
Personalmente diffido di chi abusa di questo termine, come se la realtà che siamo chiamati a vivere e le responsabilità che dobbiamo assumere nei confronti di quanti ci sono accanto o verranno dopo di noi dovessero essere relegate nel mondo onirico, minacciate costantemente dall’inevitabile risveglio. Ma per il cardinal Martini il «sogno» non è questo.
È, invece, un altro nome della contemplazione cristiana, è, secondo le sue stesse parole, ridestare con la riflessione e l’agire concreto «quella capacità di sognare che il Concilio aveva comunicato alla nostra Chiesa e che ci procurò tanta gioia»; è quel «mondo visto con gli occhi di Dio, con gli occhi della fede, con gli occhi della preghiera» che l’arcivescovo di Milano va a contemplare da Gerusalemme una volta terminato il suo ministero episcopale.
Così si esprimeva il cardinale in un’intervista circa il suo lascito a Milano: «Spero di aver lasciato l’amore per la parola di Dio, la coscienza della sua esistenza e la certezza che questa parola ci guida in ogni momento». Dalle pagine amorosamente curate da Aldo Maria Valli, possiamo dire che questa speranza è esaudita e che la «memoria umile e grata» di tanti credenti e non credenti si aggiunge a quella dei suoi fedeli ambrosiani e degli abitanti di quella metropoli che il cardinale ha saputo capire, servire e amare.
I diritti di noi credenti
di Paola Gaiotti De Biase ("Europa”, 14 ottobre 2011)
Mauro Ceruti su Europa così chiude un discorso, peraltro largamente condivisibile, anche se non mi pare rifletta tutti i dati reali delle scelte politiche dei cattolici in questo ventennio. «Queste idee e queste esperienze sono state elaborate nei vitali laboratori della cultura e dell’associazionismo cattolici: tuttavia non hanno trovato un modo per fare rete fra loro e tanto meno adeguate forme per affermare una loro più ampia rilevanza politica. Ma è proprio la rilevanza di questo patrimonio culturale e organizzativo che impone ai cattolici un rinnovato impegno politico, al servizio di un grande progetto (da condividere laicamente con tutti, senza distinzioni e senza steccati) per il bene comune della nazione».
Tutto bene: ma non dovremmo anche domandarci, se si ritiene che questa rete da condividere laicamente non siamo riusciti a costruirla, perché questo è avvenuto.
Chi ha impedito che i cattolici si ritrovassero tutti sulla linea di Amartya Sen in economia, su una cultura della pace e un’idea della globalizzazione e del ruolo dell’Europa, che guidasse la nostra politica internazionale, sul rapporto dell’uomo con la natura? Chi ha indebolito sistematicamente l’autonomia politica dei laici che si muovevano in questa direzione? Chi li ha indirizzati sistematicamente verso sponde politiche altre da quelle declinate nell’articolo di Cerruti? Chi ha irriso ai cattolici adulti, da Prodi alla Bindi a Franceschini che si sono mossi in queste direzioni?
Chi ha ignorato le molte militanze cattoliche che si muovevano sulla linea di quel patrimonio ideale? Perché è importante che l’associazionismo cattolico si ritrovi su alcune grandi griglie ideali, e perfino anche che sappia definire in modo corretto le divisioni strutturalmente inevitabili nel concreto delle scelte politiche in una democrazia (insomma voglio dire che esista anche grazie ai cattolici una destra decente): ma non possiamo dimenticare due cose, semplici e irrefutabili.
La prima è che questo è possibile solo in un contesto esplicito di ricerca, di approfondimento, di competenza tecnica e dunque di autonomia laicale e di responsabilità diretta, non delegata da nessuno. Sono stata colpita dall’invito del Papa ai cattolici a impegnarsi politicamente. Mi pare che sia nella storia difficile del regno sia in quella della repubblica i cattolici non abbiano avuto bisogno di inviti e sollecitazioni: lo hanno fatto in molti da soli, in nome del loro essere cittadini come gli altri, e talora non senza difficoltà.
La seconda è che l’associazionismo cattolico non pensi di sostituire con l’impegno politico quello che è il nostro vero problema di credenti, da affrontare da laici insieme ma con coraggio: la coerenza della Chiesa di fronte alle aspettative svegliate dal Concilio Vaticano II, al necessario equilibrio per cui logica della profezia e logica dell’istituzione trovino la loro mediazione, non limitandosi la prima ai discorsi e la seconda ai fatti, ma innovando il modo concreto di essere Chiesa.
Ad Assisi niente preghiera comune fra le religioni
Assisi, leader religiosi non pregheranno
per la Pace: paura di confondere i fedeli
di Franca Giansoldati *
CITTA’ DEL VATICANO - Il nome di Dio non verrà invocato. Stavolta niente preghiere ad Assisi: i leader religiosi invitati dal Papa a riunirsi sulla tomba di San Francesco per riflettere sul tema della pace non pregheranno nè da soli, nè collettivamente. La «Giornata di riflessione, dialogo e preghiera» ideata da Papa Wojtyla 25 anni fa sarà solo una «Giornata di riflessione e dialogo» tra diverse fedi. In questo modo Benedetto XVI vuole evitare ogni possibile rischio di sincretismo religioso, confondendo i fedeli; e così nella cittadina umbra, il 26 ottobre prossimo, non si invocherà il nome del Signore. Anche da cardinale Papa Ratzinger aveva manifestato qualche perplessità al suo predecessore proprio su questo punto, pur condividendo ovviamente l’importanza di un momento di dialogo.
Cambiamenti a parte il venticinquesimo anniversario dello storico summit promosso da Papa Wojtyla nel 1986 sarà comunque importante e significativo. A cominciare dalle presenze. Hanno aderito in parecchi. Solo le delegazioni cristiane sono già una trentina e c’è il problema di contenerle. Saranno presenti l’Arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams, il Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I, l’arcivescovo ortodosso di Cipro, l’arcivescovo metropolita di Astana, Alexander, uomo di fiducia del Patriarca di Mosca, Kirill. Ortodossi, anglicani, luterani, evangelici, ma anche ebrei, rappresentanti del World Jewish Congress e rabbini di peso, poi induisti, animisti, buddisti.
Solo i musulmani saranno sotto rappresentati dal momento che l’università del Cairo di Al-Azhar, il maggiore centro teologico sunnita, ancora immensamente irritato con il Papa per il discorso fatto l’anno scorso davanti al Corpo Diplomatico, ha fermamente declinato l’invito (anche se al summit di Sant’Egidio a Monaco, nel settembre scorso, lo sceicco Al Tayyeb aveva inviato due rappresentanti). Sulla tomba di san Francesco ci sarà però il Principe Ghazi di Giordania, al quale spetterà l’onore di sedere accanto al pontefice al momento del pranzo.
Per la prima volta arriveranno anche 5 atei incalliti, tra cui Julia Kristeva, celebre psicanalista francese, allieva di Lacan, di origini bulgare. I nomi degli intellettuali atei sono stati forniti dal cardinale Gianfranco Ravasi, ideatore del Cortile dei Gentili, un think thank per il dialogo con i ’lontani’. La giornata si compone, grosso modo, in tre momenti. Un primo, nella basilica degli Angeli, dove gli ospiti parleranno (sono previsti una decina di interventi) e prenderanno visione di un filmato con le immagini di quel 26 ottobre 1986 ormai entrato nella Storia. Seguirà un frugale pranzo, nel rispetto delle regole alimentari previste dalle varie religioni e, infine, una visita alla tomba del santo seguita dalla lettura, in piazza, di un testo sulla pace nel mondo.
Papa Ratzinger, come aveva già fatto il suo predecessore, partirà con tutte le delegazioni dalla stazione vaticana con un convoglio con le insegne vaticane, messo a disposizione dalle Ferrovie dello Stato. Partenza alle 8 di mattina per circa trecento persone tra leader religiosi, prelati, autorità italiane e uomini della sicurezza. Al ritorno il treno rallenterà alle stazioni di Terni e Foligno per permettere al Pontefice di salutare i fedeli.
Venerdì 07 Ottobre 2011
* Articolo tratto dal sito: http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=165697&sez=HOME_NELMONDO
* Il Dialogo, Domenica 09 Ottobre,2011 Ore: 17:49
Hanno una rivista che si chiama "Bonus Miles Christi", il buon soldato di Cristo. Ma siamo sicuri sia proprio Cristo ad arruolare soldati "buoni" che bombardano figli, figlie e anziani di popoli che nemmeno conoscono?
I cappellani militari chiedono più soldi per fare le guerre
di don Paolo Farinella *
Un’amica mi ha passato un articolo di Manlio Dinucci con il titolo «Aggressioni “benedette”». Fin dalle parole d’incipit ci si chiede se ancora a dieci anni del terzo millennio, dobbiamo ancora subire come cristiani parole che sono il segno di una vita più indecente conclamata in nome di Cristo. Il vescovo castrense (non equivocare, dicesi castrense il vescovo insignito della carica vescovile e contemporaneamente di quella di generale di corpo di armata, con stellette incorporate ); il vescovo castrense guida diocesi dei militari (si chiama Ordinariato militare) che hanno una rivista il cui titolo è - indovinate un po’? - «Bonus Miles Christi - Il buon soldato di Cristo». Sì, proprio così: Cristo è uno che arruola soldati e per giunta buoni, anche quando vanno a sparare ai figli, figlie, bambini, bambine, anziani di popoli che non ci conoscevano nemmeno se non per avere a capo del governo un degenerato, pazzo e tronfio piccoletto dai tacchi rialzati.
Fin dove può arrivare la mistificazione! Si mescola l’acqua santa col diavolo, Dice il capo di questa diocesi di soldati di Cristo armati ed educati alla violenza con armi sofisticate per ammazzarne più che sia possibile; dice che «prova amarezza di fronte a chi invoca lo scioglimento degli eserciti, l’obiezione contro le spese militari» perché «il mondo militare contribuisce a edificare una cultura di responsabilità globale, che ha la radice nella legge naturale e trova il suo ultimo fondamento nell’unità del genere umano». Monsignor Vincenzo Pelvi continua, e non s’accorge delle bestialità: «l’Italia, con i suoi soldati fa la sua parte per promuovere stabilità, disarmo, sviluppo e sostenere ovunque la causa dei diritti umani». Parole messe in fila una dopo l’altra dal giornale dei vescovi «Avvenire» (2 giugno 2011), segno che la presidenza approva. Sia benedetto l’esercito e gli eserciti che tanto bene fanno all’umanità con amore e compassione: sparando, squartando, bruciando, violentando, stuprando, bestemmiando. Cosa importa! Alla rientro da queste battaglie di civiltà c’è sempre un pincopallo di cappellano, con aspersorio e stola, pronto ad assolvere e con la penitenza di andare ancora contro il nemico e «di farlo fuori prima che ti faccia fuori lui».
Manlio Dinucci, Manifesto, ricorda alcuni momenti topici che dovrebbero fare impallidire anche la Madonna nera, mentre di questi fatti, i preti di ieri e di oggi non se ne fanno un baffo:
1. Nel 1911, nella chiesa di S. Stefano dei Cavalieri in Pisa, parata con bandiere strappate ai turchi nel Cinquecento, il cardinale Maffi invitava i soldati in partenza per la guerra di Libia, a «incrociare le baionette con le scimitarre» per portare nella chiesa «altre bandiere sorelle» e in tal modo «redimere l’Italia, la terra nostra, di novelle glorie».
2. Il 2 ottobre 1935, all’annuncio di Mussolini che iniziava la guerra di Etiopia, Mons. Cazzani, vescovo di Cremona, da perfetto fascista indirizzava al popolo una sua pastorale, dove si leggono queste perle: «Veri cristiani, preghiamo per quel povero popolo di Etiopia, perché si persuada di aprire le sue porte al progresso dell’umanità, e di concedere le terre, ch’egli non sa e non può rendere fruttifere, alle braccia esuberanti di un altro popolo più numeroso e più avanzato». 3. Il 28 ottobre 1935, ricorrendo il 13° anniversario della marcia su Roma, nel Duomo di Milano, il cardinale Alfredo Ildelfonso Schuster così celebrava: «Cooperiamo con Dio, in questa missione nazionale e cattolica di bene, nel momento in cui, sui campi di Etiopia, il vessillo d’Italia reca in trionfo la Croce di Cristo, spezza le catene agli schiavi. Invochiamo la benedizione e protezione del Signore sul nostro incomparabile Condottiero».
4. L’8 novembre 1935, sempre in relazione alla guerra di Etiopia Mons. Valeri, arcivescovo di Brindisi e Ostuni, scrive anch’egli una pastorale al suo popolo: «L’Italia non domandava che un po’ di spazio per i suoi figli, aumentati meravigliosamente da formare una grande Nazione di oltre 45 milioni di abitanti, e lo domandava a un popolo 5 volte meno numeroso del nostro e che detiene, non si sa perché e con quale diritto, un’estensione di territorio 4 volte più grande dell’Italia senza che sappia sfruttare i tesori di cui lo ha arricchito la Provvidenza a vantaggio dell’uomo. Per molti anni si pazientò, sopportando aggressioni e soprusi, e quando, non potendone più, ricorremmo al diritto delle armi, fummo giudicati aggressori». 5. Oggi dopo 76 anni, un altro cappellano militare, anima persa e senza Dio, tale don Vincenzo Caiazzo, che celebra messa sulla portaerei Garibaldi, che di fatto è la sua parrocchia, popolata di caccia, missili bombe con cui lui e quelli come lui bombardano la Libia - garantisce che «l’Italia sta proteggendo i diritti umani e dei popoli, per questo siamo in mezzo al mare» perché la motivazione teologica è chiara: «I valori militari vanno a braccetto con i valori cristiani». (Oggi, 29 giugno 2011).
Di fronte a questo rinnegamento del Vangelo viene solo voglia di dire «Povero Cristo!». Costoro dovrebbero essere le «guide», coloro che dovrebbero insegnare a «discernere» il grano dal loglio, la violenza dalla non-violenza, il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto, la pace dalla guerra. Costoro sono l’autorità nella Chiesa che si annettono Cristo a loro uso e consumo, lo militarizzano, lo circondano di armi e di morte e poi vanno nei salotti clericali a difendere la vita. Che Dio li perdoni, se può, perché costoro non hanno smarrito solo la fede, ma «c’hanno perduto il ben de l’intelletto» (Dante, Inf. III,18).
* DOMANI/ARCOIRIS. 13-10-2011
http://domani.arcoiris.tv/i-cappellani-militari-chiedono-piu-soldi-per-fare-le-guerre/
COSTITUZIONE, EVANGELO, e NOTTE DELLA REPUBBLICA (1994-2011): PERDERE LA COSCIENZA DELLA LINGUA ("LOGOS") COSTITUZIONALE ED EVANGELICA GENERA MOSTRI ATEI E DEVOTI ...
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
Il rischio della fede
Pagine drammatiche e scandalose quelle di ’Conversazioni notturne a Gerusalemme’ del cardinale Martini
di Eugenio Scalfari *
Ho letto il libro del cardinale Carlo Maria Martini, ’Conversazioni notturne a Gerusalemme’ qualche giorno prima che uscisse nelle librerie: un amico suo e mio me l’aveva fatto avere insieme ai saluti dell’autore. Quel libro ha un sottotitolo molto significativo: ’Sul rischio della fede’. L’autore ne parla ad ogni pagina, si vede che è stato proprio quel rischio ad affascinarlo, la sua fede ha avuto in esso il suo nutrimento e il suo fondamento.
Per me non credente quest’approccio ha catturato la mia attenzione ed anche il mio affetto per l’autore che so molto ammalato e in costante dialogo con la morte. Si direbbe che quella prossimità abbia reso esplicita nei suoi pensieri e nelle sue parole una testimonianza di libertà e di giustizia così profonda da superare ogni steccato e ogni ortodossia. Il rischio della sua fede sta proprio in quella testimonianza che lo avvicina in nome del suo Gesù ad ogni altro testimone che sia altrettanto votato alla giustizia e alla libertà, quale che sia la religione che professa e la cultura che lo ispira.
Mi aspettavo che il libro stimolasse un dibattito ampio soprattutto nella comunità cattolica che ne è la principale destinataria, ma non mi pare che questo dibattito sia avvenuto o almeno non nello spazio pubblico. Molte recensioni al suo apparire, soprattutto sui giornali laici; ma anche quelle dedicate agli aspetti edificanti, all’amore per i giovani, alla speranza del bene e della contemplazione della morte. Sentimenti che abbondano in quelle pagine ma che non fanno trasalire chi le legge e non esprimono il rischio cui si richiama chi le ha scritte.
Voglio qui trascrivere i passi più significativi e più emozionanti delle ’Conversazioni notturne’. Riguardano la Chiesa, i cattolici, i giovani, le donne, l’ecumenismo, l’accoglienza e - prima d’ogni altro valore - la giustizia e la fratellanza.
Non omologate questa testimonianza d’un cardinale arcivescovo con frettolosa compunzione, voi uomini di Chiesa, voi politici che vi dichiarate devoti, voi che avete il Cristo sulle labbra con sospettabile frequenza. Queste pagine non sono rassicuranti ma drammatiche e scandalose nel senso evangelico del termine. Proprio per questo loro spessore sarà difficile omologarle e dimenticarle in qualche polveroso scaffale.
"Nella mia vita mi sono imbattuto in molte cose terribili, la guerra, il terrorismo, le difficoltà della Chiesa, la mia malattia, la mia debolezza. Ma la mia infelicità è poca cosa in confronto alla felicità. La felicità va condivisa. E soprattutto la felicità non è qualcosa che arriva e che dobbiamo solo aspettare. Dobbiamo cercarla".
"Chi ha imparato ad avere fiducia non trema, ha il coraggio di darsi da fare, di protestare quando viene detta qualcosa di spregevole, di cattivo, di distruttivo. E soprattutto ha il coraggio di dire ’sì’ quando si ha bisogno di lui".
"Chi legge la Bibbia e ascolta Gesù scoprirà che lui si meraviglia della fede dei pagani. In un passo del Vangelo egli non propone come modello il sacerdote, ma l’eretico, il samaritano. Quando pende dalla croce accoglie in cielo il ladrone. Il migliore esempio è Caino: Dio segna Caino per proteggerlo. Nella Bibbia Dio ama gli stranieri, aiuta i deboli, vuole che soccorriamo e serviamo tutti gli uomini. Gli uomini invece e anche la Chiesa, corrono sempre il rischio di porsi come assoluti".
"Non si può rendere Dio cattolico. Dio è al di là dei limiti e delle definizioni che noi stabiliamo. Egli non si lascia dominare o addomesticare. Se esaltiamo Gesù e guardiamo i poveri, gli oppressi, i malati, andiamo verso di loro e li tocchiamo, Dio ci conduce fuori, nell’immensità. Ci insegna a pensare in modo aperto".
"Paura e indifferenza sono entrambi presenti nella Chiesa. Gesù risveglierà e scuoterà gli indifferenti e incoraggerà i timorosi. Oggi è difficile far parte della Chiesa ed esserne soltanto un membro passivo. Ma chi agisce e assume responsabilità può cambiare molte cose. Da giovane ed anche da Vescovo il lavoro con i giovani è stato quello che mi ha più aiutato ad essere cristiano. Cristo non ha oggi altre mani e altra bocca che la tua e la mia".
Osservazioni sulle "conversazioni notturne" di Carlo Maria Martini e Georg Sporschill
di Pietro De Marco
La forma di questo libro, una ben costruita intervista scandita in capitoli introdotti da brevi testi, spesso domande, di "giovani", ne fa un testimone importante della mente del cardinale Carlo Maria Martini. E di quanti lo seguono dentro e fuori i confini ecclesiali.
Del libro sottolineerò quello che non mi sento di approvare e specialmente quella che mi appare l’intima contraddizione, una contraddizione che segna forse l’intera vicenda pubblica del gesuita, già arcivescovo di Milano. Ma rendo omaggio, anche filiale, alla personalità grande che si rivela, ancora una volta, in queste pagine, scritte assieme a Georg Sporschill, anch’egli un religioso della Compagnia di Gesù.
Parto dalla risposta del cardinale alla domanda: "come dovrebbe essere oggi l’educazione religiosa?" (p.19). Che equivale a: come educare qualcuno a essere un "buon cristiano"? Il cardinale aveva poco prima detto: un buon cristiano si distingue "perché crede in Dio, ha fiducia, conosce Cristo, impara a conoscerlo sempre meglio e lo ascolta".
Nello stile del libro, che sembra risolvere tutto nella dimensione quotidiana, nella verità dei "mondi vitali", Martini inizia con l’evocare scene familiari e "semplici usanze". Tra queste ultime fa impressione vedere indicati anche il Natale e la Pasqua. Ci tornerò su. L’educazione religiosa proposta dal cardinale è di "ascoltare le domande e le scoperte dei giovani e accettarle", per arrivare al suo fondamento, la Bibbia: "Non pensare in modo biblico ci rende limitati, ci impone dei paraocchi, non consentendoci di cogliere l’ampiezza della visione di Dio" (p.20).
Va certamente apprezzato tale fiducioso e ragionato primato dato alla Scrittura, in anni in cui c’è chi propone nel cristianesimo una “religione della ragione", ovvero una ricerca di Dio che elimina la Bibbia quale coacervo di falsità. Ma quando il cardinale va a spiegare in che cosa si esprime la "ampiezza della visione di Dio" dischiusa dalla Scrittura, la indica in Gesù che si meraviglia della fede dei pagani e accoglie in cielo il ladrone, o in Dio che protegge Caino che ha ucciso il fratello. "Nella Bibbia Dio ama gli stranieri, aiuta i deboli", prosegue il cardinale. E con ciò slitta nel troppo detto, nel sermone, che prosegue nella risposta alla domanda successiva: "Dobbiamo imparare a vivere la vastità dell’essere cattolico. E dobbiamo imparare a conoscere gli altri. [...] Per proteggere questa immensità non conosco modo migliore che continuare sempre a leggere la Bibbia. [...] Se ascoltiamo Gesù e guardiamo i poveri, gli oppressi, i malati, [...] Dio ci conduce fuori, nell’immensità. Ci insegna a pensare in modo aperto". Si coglie qui un compendio di pensiero che merita un commento.
Intanto, se la fede/fiducia in Dio e la conoscenza/ascolto di Cristo sono l’essenza della condizione cristiana, questa bella formula non può essere usata come già per sé sufficiente. Il solo rimando a un leggere/pensare biblico e ad una "apertura" di cuore resta del tutto indeterminato. L’unica, minima determinatezza nelle parole del cardinale è quella che procede dalla “apertura agli altri” alla Scrittura, per ritrovare in questa quella medesima apertura. Una simile circolarità, per quanto importante, è veramente poco rispetto all’immensità del tesoro scritturistico. Che ne è della conoscenza delle cose divine? Del timore e dell’amor di Dio? Della economia trinitaria? Se la Rivelazione ci trasforma è perché essa implica “infinitamente” di più che un pensare "in modo aperto" alla maniera dei moderni; un "aperto" che si oppone a ciò che Sporschill liquida come "mentalità ristretta".
Questo orizzonte, che tanto piace all’intelligencija laica e cattolica, spiega anche la riduzione che Martini fa delle grandi festività dell’anno liturgico a "semplici usanze". Riduzione forse involontaria, eppure rivelatrice. Quando mai nel pensoso e spesso profondo ragionare del cardinale si intravvedono la "lex orandi" e la pienezza del mistero liturgico? A lui sfugge il legame tra l’immensità del "pensare in modo biblico" e l’immensità del culto cristiano che davvero ci apre a una liturgia cosmica, anche se non siamo né diventiamo per questo degli "spiriti aperti" alla maniera moderna. Non è questione da poco né recente. I cattolici e ancor più gli ortodossi sono in questo su sponde opposte rispetto alle comunità protestanti, alle quali non è bastato, per far fronte alla modernità, il frequentare la Scrittura e "pensare in modo biblico".
Il "vivere la vastità dell’essere cattolico" non si compie neppure nel guardare "i poveri, gli oppressi, i malati". Quello che il cardinale chiama il "rischio" della Chiesa di porsi come un assoluto non mi pare evocato in maniera pertinente. L’assolutezza della incarnazione del Logos nel cosmo e nella storia non è un "rischio" ma è il fondamento di quella "vastità", è ciò che davvero ci fa "aperti".
Senza sottovalutare i "mondi vitali" che il cardinale predilige, è nell’assolutezza che si radicano da sempre universalità e responsabilità cristiane. Solo qualche pensatore laico insiste ancora, specialmente in Italia, sull’equazione tra "pretesa di verità" e "chiusura" intellettuale e morale. Mi preoccupa il passaggio in cui Martini dice: "Gli uomini si allontanano dai [...] dieci comandamenti e si costruiscono una propria religione; questo rischio esiste anche per noi. Non puoi rendere Dio cattolico. Dio è al di là dei limiti e delle definizioni che noi stabiliamo. Nella vita ne abbiamo bisogno, è ovvio, ma non dobbiamo confonderli con Dio". Mi preoccupa perché è rischiosissima l’idea che una religione positiva sia in sé allontanamento da un fondamento indeterminato che la precede e le è superiore. Anche dal punto di vista della scienza delle religioni non sussiste per sé un religioso indeterminato, comune e primario. Solo le religioni sono religione.
Trovo infelice anche la formula del "Dio cattolico", quasi che le teologie su Dio della "Catholica Ecclesia" rappresentino un’indebita appropriazione e perdita del divino, invece che l’amorosa e gelosa sollecitudine spirituale e gerarchica per quanto è rivelato in Cristo. Certamente Dio è al di là delle nostre definizioni; ma non è "per la vita", cioè per motivi di praticità, che noi stabiliamo delle "definizioni"; infatti è molto più pratico non definire, come preferiscono tanti moderni e postmoderni. La mirabile teologia trinitaria dei concili e le "summae" teologiche sono più e altro che contingenze. Sono monumenti di lode al Dio di Gesù Cristo eretti dalla ragione cristiana. Forse è difficile per l’esegeta moderno, anche cattolico e della generazione di Martini, capirlo.
Tutto il percorso di queste conversazioni notturne nasconde molti passaggi rischiosi. Forse l’antica perizia da rocciatore di Martini li predilige, li cerca. Per restare nel capitolo primo, a p. 18 il cardinale dice: "Gesù si è battuto in nome di Dio perché viviamo secondo giustizia". E a p. 24: "Gesù ha osato intervenire e mostrare che l’amore di Dio deve cambiare il mondo e i suoi conflitti. Per questo ha rischiato la vita, sacrificandola infine sulla croce. La sua abnegazione, però, la vediamo già in precedenza. [...] Credo che questo sia il suo amore, che sento nella comunione, nella preghiera, con i miei amici, nella mia missione". Non ho alcun timore di impopolarità nel dire che questa cristologia di taglio liberazionista sarà anche pastoralmente utile con alcuni giovani aperti al progresso, ma mi appare seriamente lacunosa. È inutile che io ricordi a un grande conoscitore dei testi del Nuovo Testamento quanto sia criticamente infondato, oltre che profondamente riduttivo del significato della Rivelazione, affermare che Gesù "si è battuto in nome di Dio" come uno dei tanti ribelli religiosi, ed è morto sulla croce per cambiare il mondo secondo le contingenti istanze del mondo (pace e giustizia secondo chi e per chi?). Ammettiamo che la lettura che Martini fa di Gesù implichi un antagonismo più spirituale e meno “politico”; non vi scorgo, comunque, quasi niente della tradizione trinitaria e cristologica. Tradizione che innerva invece profondamente il "Gesù di Nazaret" di Joseph Ratzinger, sul quale il padre Sporschill ironizza (“il buon Gesù di Ratzinger”) con scarsa intelligenza.
Inappropriati sul terreno ecclesiologico sono, poi, diversi passaggi del capitolo quinto dedicato all’enciclica di Paolo VI "Humanae vitae", che hanno naturalmente fatto scalpore. Anche il sincero dispiacere che il cardinale mostra per quella che egli considera una disavventura nel pontificato di papa Montini finisce con una coda polemica. Il papa pubblicò l’enciclica "con un solitario senso del dovere e mosso da profonda convinzione personale", dice Martini, marcandone fortemente il volontario isolamento. Ma ci si domanda: di chi Paolo VI poteva fidarsi, fuori di Roma, nel 1968? Di episcopati travolti dalle crisi del postconcilio? O di teologi trasformati in intelligencija ribelle? Appare poco accorto anche lasciar scrivere provocatoriamente a padre Sporschill: "Supponiamo che Benedetto XVI si scusi e ritiri l’enciclica Humanae Vitae". Sbaglia Martini a coprire con la sua autorità la propensione di correnti ecclesiali a "chiedere scusa", naturalmente non dei propri errori ma di quelli della gerarchia: uno sport irresponsabile e senza discernimento.
Anche la metafora dei quarant’anni trascorsi dopo la "Humanae Vitae", da intendere come i quarant’anni di Israele nel deserto (p. 93), è ambigua. Chi avrebbe guidato chi, in questa traversata costellata di infedeltà? Pensa il cardinale Martini, come si pensa negli sparsi focolai della contestazione, che sia il popolo di Dio a guidare alla Terra Promessa una gerarchia resistente al richiamo dello Spirito? O riconosce che è avvenuto il contrario: la profonda conferma della insostituibilità della Chiesa "madre e maestra"? Il coraggio di Paolo VI, fondato nella sua coscienza del ruolo di Pietro, fu enorme e, nella lunga durata della sollecitudine della Chiesa per l’uomo, salutare, come possiamo valutare oggi, dopo decenni di disorientamento e presunzione modernizzante.
Insomma, anche apprezzando in queste pagine tante osservazioni misurate e di grande delicatezza pastorale, trovo nel cardinale una troppo debole consapevolezza di ciò che è in gioco nell’attuale passaggio di civiltà. Prevale in lui l’ascolto delle opinioni, delle preoccupazioni e delle proteste, interne ed esterne alla Chiesa, e una programmatica sintonia con esse, tipica dell’intellettuale. Valga la considerazione, davvero eccessiva, che riserva alle tesi del filosofo tedesco Herbert Schnädelbach in un saggio del 2000 sulle "colpe del cristianesimo".
Trovo rivelatrice anche la risposta di Martini alla domanda se ha mai avuto paura di prendere decisioni sbagliate (p. 64): "Per paura delle decisioni ci si può lasciar sfuggire la vita. Chi ha deciso qualcosa in modo troppo avventato o incauto sarà aiutato da Dio a correggersi. [...] Non mi spaventano tanto le defezioni dalla Chiesa. Mi angustiano, invece, le persone che non pensano. [...] Vorrei individui pensanti. [...] Soltanto allora si porrà la questione se siano credenti o non credenti. Chi riflette sarà guidato nel suo cammino. Ho fiducia in questo".
Intravedo in queste formule un metodo talvolta adottato da uomini di Chiesa e in particolare dalla Compagnia di Gesù: attrarre le persone che pensano, non importa se credenti; non smarrirsi per le passate o presenti defezioni dall’istituzione; avere fiducia nella guida e nella correzione di Dio in questo genere di impresa. Questo coraggio spesso appare efficace, anche se non sappiamo cosa ne scaturirà di più profondo e decisivo per la formazione alla fede e per la Chiesa stessa. Ma c’è qualcosa di essenziale che sfugge. Chi giudica delle "persone pensanti"? E pensanti che cosa? Cosa intende esattamente il cardinale, se andiamo oltre le generali e generose formule educative ed entriamo nel cuore dell’istruzione cristiana?
È evidente che quella espressa dal cardinale è stata anche la scommessa di parte della Chiesa nella lunga crisi di uomini e di fede del postconcilio. È evidente anche l’ottimismo che regge una simile pedagogia della provvidenziale realizzazione di sé nella libertà. Così, però, si è sottovalutata e alla fine favorita la falcidie degli uomini dell’istituzione, del clero. Non era difficile, in anni ancora vicini a noi, sentir dire dai pastoralisti che la mancanza di clero è un falso problema ed è anzi una chance per il rinnovamento della trasmissione della fede e per la sua purificazione, naturalmente in senso "non clericale".
L’ottimismo che accompagna la conversazione notturna del cardinale Martini non può essere, dunque, proposto semplicemente alla futura sperimentazione. Ha già segnato pratiche del passato. E i risultati di questo ottimismo sono sotto il giudizio di tutti. Si può sospettare che, dietro il fascino delle formule e il consenso di tanti amici non credenti, tale ottimismo abbia alimentato quell’intima contraddizione di cui il cardinale appare portatore: da un lato una visibilità cristiana dotata di un profilo “aperto”, dall’altro un messaggio reticente quanto a completezza della confessione di fede. Nel suo modello pedagogico, tra frequentazione della Bibbia e confidenza con gli articoli del Credo lo squilibrio è vistoso: uno squilibrio in cui la Tradizione e il Credo vivono in sordina come fosse superfluo menzionarli.
Una contraddizione simile segna paradossalmente anche le pagine di Carlo Maria Martini sugli esercizi spirituali di sant’Ignazio. Essi sono per il cardinale "esercizi pratici e semplici che mantengono vivo l’amore. È un po’ come nella vita familiare [...]. Anche l’amore per Gesù e l’intimità con Dio vivono di una condotta quotidiana. Non riesco ad immaginare la mia vita senza l’acquasanta ecc.". Accolgo queste formule delicate, e alla base di esse la distinzione tra gli esercizi "nella loro forma completa, solo per pochi", e i "numerosi esercizi facili" per tutti (p. 88). Però perché riservare ai semplici la prima settimana, dedicata (dico per semplicità) all’esame di coscienza, e non farli accedere almeno alla seconda? Nel testo italiano del 1555, che traduce la cosiddetta "vulgata", si legge: "La seconda settimana è contemplare il regno di Iesù Christo per similitudine de uno re terreno il quale chiama li suoi soldati alla guerra". L’autografo di Ignazio è più secco: "El llamamiento del rey temporal ayuda a contemplar la vida del rey eternal", ma non muta la sostanza. La regalità di Cristo e la sua chiamata sono forse irrilevanti per il "buon cristiano" e per la sua vita di fede?
Evidentemente per il cardinale Martini non è essenziale, anzi è imbarazzante "considerare Christum vocantem omnes suos sub vexillum suum", salvo forse in una versione tutta spirituale. Ma credo che anche parte della Chiesa abbia troppo offuscato i propri "vexilla" e si sia autolimitata al domestico, sia familiare sia comunitario. Ne hanno sofferto i suoi necessari profili universali e pubblici. Ne ha sofferto la sua stessa dedizione e chiamata alla Verità; poiché se a una famiglia possono bastare la consuetudine privata del Pater Noster e la lettura dei Vangeli o dei Salmi, questo non basta alla fede e alla missione. Né può bastare, penso, alla Compagnia di Gesù, ai suoi uomini, alla sua ragione di vita.
È stato necessario che fosse la cattedra di Pietro a fare attiva e autorevole memoria di tutto questo, negli ultimi decenni.
Firmata al termine dell’incontro
La dichiarazione conclusiva del primo seminario del forum cattolico-musulmano
Pubblichiamo in una nostra traduzione italiana il testo della dichiarazione comune firmata a conclusione dell’incontro del forum cattolico-musulmano. *
Il forum cattolico-musulmano è stato creato dal Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso e da una Delegazione dei 138 firmatari musulmani della Lettera aperta intitolata Una Parola Comune, alla luce di tale documento e della risposta di Sua Santità Benedetto XVI tramite il suo segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone.
Il suo primo seminario si è svolto a Roma dal 4 al 6 novembre 2008. Sono intervenuti 24 partecipanti e cinque consiglieri di ciascuna delle due religioni. Il tema del seminario è stato "Amore di Dio, amore del prossimo". Il dibattito, condotto in un caldo spirito conviviale, si è concentrato su due grandi temi: "fondamenti teologici e spirituali", "dignità umana e rispetto reciproco".
Sono emersi punti di similitudine e di diversità che riflettono lo specifico genio distintivo delle due religioni.
1. Per i cristiani la fonte e l’esempio dell’amore di Dio e del prossimo è l’amore di Dio per suo Padre, per l’umanità e per ogni persona. "Dio è amore" (1 Giovanni, 4, 16) e "Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna" (Giovanni, 3, 16). L’amore di Dio è posto nel cuore dell’uomo per mezzo dello Spirito Santo. È Dio che per primo ci ama permettendoci in tal modo di amarlo a nostra volta. L’amore non danneggia il prossimo nostro, piuttosto cerca di fare all’altro ciò che vorremmo fosse fatto a noi (cfr. 1 Corinzi, 13, 4-17). L’amore è il fondamento e la somma di tutti i comandamenti (cfr. Galati, 5, 14). L’amore del prossimo non si può separare dall’amore di Dio, perché è un’espressione del nostro amore verso Dio. Questo è il nuovo comandamento "che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati" (Giovanni, 15, 12). Radicato nell’amore sacrificale di Cristo, l’amore cristiano perdona e non esclude alcuno. Quindi include anche i propri nemici. Non dovrebbero essere solo parole, ma fatti (cfr. 1 Giovanni, 4, 18). Questo è il segno della sua autenticità.
Per i musulmani, come esposto nella lettera Una Parola Comune, l’amore è una forza trascendente e imperitura, che guida e trasforma il rispetto umano reciproco. Questo amore, come indicato dal Santo e amato profeta Maometto, precede l’amore umano per il Dio uno e trino. Un hadit mostra che la compassione amorevole di Dio per l’umanità è persino più grande di quella di una madre per il proprio figlio (Muslim, Bab al-Tawba: 21). Quindi esiste prima e indipendentemente dalla risposta umana dell’unico che è "amorevole". Questo amore e questa compassione sono così immensi che Dio è intervenuto per guidare e salvare l’umanità in modo perfetto, molte volte e in molti luoghi, inviando profeti e scritture. L’ultimo di questi libri, il Corano, ritrae un mondo di segni, un cosmo meraviglioso di maestria divina, che suscita il nostro amore e la nostra devozione assoluti affinché "coloro che credono hanno per Allah un amore ben più grande" (2: 165) e "in verità il Compassionevole concederà il suo amore a coloro che credono e compiono il bene" (19: 96). In un hadit leggiamo che "Nessuno di voi ha fede finquando non ama il suo prossimo come ama se stesso" (Bukhari, Bab al-Iman: 13).
2. La vita umana è un dono preziosissimo di Dio a ogni persona, dovrebbe essere quindi preservata e onorata in tutte le sue fasi.
3. La dignità umana deriva dal fatto che ogni persona è creata da un Dio amorevole per amore, le sono stati offerti i doni della ragione e del libero arbitrio e, quindi, le è stato permesso di amare Dio e gli altri. Sulla solida base di questi principi la persona esige il rispetto della sua dignità originaria e della sua vocazione umana. Quindi ha diritto al pieno riconoscimento della propria identità e della propria libertà di individuo, comunità e governo, con il sostegno della legislazione civile che garantisce pari diritti e piena cittadinanza.
4. Affermiamo che la creazione dell’umanità da parte di Dio presenta due grandi aspetti: la persona umana maschio e femmina e ci impegniamo insieme a garantire che la dignità e il rispetto umani vengano estesi sia agli uomini sia alle donne su una base paritaria.
5. L’amore autentico del prossimo implica il rispetto della persona e delle sue scelte in questioni di coscienza e di religione. Esso include il diritto di individui e comunità a praticare la propria religione in privato e in pubblico.
6. Le minoranze religiose hanno il diritto di essere rispettate nelle proprie convinzioni e pratiche religiose. Hanno anche diritto ai propri luoghi di culto e le loro figure e i loro simboli fondanti che considerano sacri non dovrebbero subire alcuna forma di scherno o di irrisione.
7. In quanto credenti cattolici e musulmani siamo consapevoli degli inviti e dell’imperativo a testimoniare la dimensione trascendente della vita attraverso una spiritualità alimentata dalla preghiera, in un mondo che sta diventando sempre più secolarizzato e materialistico.
8. Affermiamo che nessuna religione né i suoi seguaci dovrebbero essere esclusi dalla società. Ognuno dovrebbe poter rendere il suo contributo indispensabile al bene della società, in particolare nel servizio ai più bisognosi.
9. Riconosciamo che la creazione di Dio nella sua pluralità di culture, civiltà, lingue e popoli è una fonte di ricchezza e quindi non dovrebbe mai divenire causa di tensione e di conflitto.
10. Siamo convinti del fatto che cattolici e musulmani hanno il dovere di offrire ai propri fedeli una sana educazione nei valori morali, religiosi, civili e umani e di promuovere una attenta informazione sulla religione dell’altro.
11. Professiamo che cattolici e musulmani sono chiamati a essere strumenti di amore e di armonia tra i credenti e per tutta l’umanità, rinunciando a qualsiasi oppressione, violenza aggressiva e atti terroristici, in particolare quelli perpetrati in nome della religione, e a sostenere il principio di giustizia per tutti.
12. Esortiamo i credenti a operare per un sistema finanziario etico in cui i meccanismi normativi prendano in considerazione la situazione dei poveri e degli svantaggiati, siano essi individui o nazioni indebitate. Esortiamo i privilegiati del mondo a considerare la piaga di quanti sono colpiti più gravemente dall’attuale crisi nella produzione e nella distribuzione alimentare, e chiediamo ai credenti di tutte le denominazioni e a tutte le persone di buona volontà di cooperare per alleviare la sofferenza di chi ha fame e di eliminare le cause di quest’ultima.
13. I giovani sono il futuro delle comunità religiose e delle società in generale. Vivranno sempre di più in società multiculturali e multireligiose. È essenziale che siano ben formati nelle proprie tradizioni religiose e ben informati sulle altre culture e religioni.
14. Abbiamo concordato di prendere in considerazione la possibilità di creare un Comitato cattolico-musulmano permanente, che coordini le risposte ai conflitti e ad altre situazioni di emergenza, e di organizzare un secondo seminario in un Paese a maggioranza musulmana ancora da definire.
15. Attendiamo dunque il secondo seminario del Forum cattolico-musulmano che si svolgerà entro due anni, in un Paese a maggioranza musulmana ancora da definire.
Tutti i partecipanti sono stati grati a Dio per il dono di questo tempo trascorso insieme e per questo scambio proficuo. Alla fine del seminario, Sua Santità Papa Benedetto XVI e, dopo gli interventi del professor Seyyed Hossein Nasr e del Grand Mufti Mustafa Ceric, ha parlato al gruppo. Tutti i presenti hanno espresso soddisfazione per i risultati del seminario e la loro aspettativa di un dialogo più proficuo.
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POSTMODERNO
Il rischio della fede contro le illusioni dell’edonismo e dell’individualismo che oggi trovano terreno fertile specie tra i giovani.
Il cardinal Martini riflette sulle nuove sfide della Chiesa cattolica
Quale cristianesimo nel mondo
di Carlo Maria Martini *
Che cosa posso dire sulla realtà della Chiesa cattolica oggi? Mi lascio ispirare dalle parole di un grande pensatore ed uomo di scienza russo, Pavel Florenskij, morto nel 1937 da martire per la sua fede cristiana: «Solo con l’esperienza immediata è possibile percepire e valutare la ricchezza della Chiesa». Per percepire e valutare le ricchezze della Chiesa bisogna attraversare l’esperienza della fede.
Sarebbe facile redigere una raccolta di lamentele piena di cose che non vanno molto bene nella nostra Chiesa, ma questo significherebbe adottare una visione superficiale e deprimente, e non guardare con gli occhi della fede, che sono gli occhi dell’amore. Naturalmente non dobbiamo chiudere gli occhi sui problemi, dobbiamo tuttavia cercare anzitutto di comprendere il quadro generale nel quale essi si situano.
UN PERIODO STRAORDINARIO NELLA STORIA DELLA CHIESA
Se dunque considero la situazione presente della Chiesa con gli occhi della fede, io vedo soprattutto due cose.
Primo, non vi è mai stato nella storia della Chiesa un periodo così felice come il nostro. La nostra Chiesa conosce la sua più grande diffusione geografica e culturale e si trova sostanzialmente unita nella fede, con l’eccezione dei tradizionalisti di Lefebvre.
Secondo, nella storia della teologia non vi è mai stato un periodo più ricco di quest’ultimo. Persino nel IV secolo, il periodo dei grandi Padri della Cappadocia della Chiesa orientale e dei grandi Padri della Chiesa occidentale, come San Girolamo, Sant’Ambrogio e Sant’Agostino, non vi era un’altrettanto grande fioritura teologica. È sufficiente ricordare i nomi di Henri de Lubac e Jean Daniélou, di Yves Congar, Hugo e Karl Rahner, di Hans Urs von Balthasar e del suo maestro Erich Przywara, di Oscar Cullmann, Martin Dibelius, Rudolf Bultmann, Karl Barth e dei grandi teologi americani come Reinhold Niebuhr - per non parlare dei teologi della liberazione (qualunque sia il giudizio che possiamo dare di loro, ora che ad essi viene prestata una nuova attenzione dalla Congregazione della Dottrina della fede) e molti altri ancora viventi. Ricordiamo anche i grandi teologi della Chiesa orientale dei quali conosciamo così poco, come Pavel Florenskij e Sergei Bulgakov.
Le opinioni su questi teologi possono essere molto diverse e variegate, ma essi certamente rappresentano un incredibile gruppo, come non è mai esistito nella Chiesa nei tempi passati. Tutto ciò è avvenuto in un mondo carico di problemi e di sfide, come la ingiusta distribuzione delle ricchezze e delle risorse, la povertà e la fame, i problemi della violenza diffusa e del mantenimento della pace. È poi particolarmente vivo il problema della difficoltà di comprendere con chiarezza i limiti della legge civile in rapporto alla legge morale. Questi sono problemi molto reali, soprattutto in alcuni Paesi, e sono spesso oggetto di differenti letture che generano una dialettica anche molto accesa.
A volte sembra possibile immaginare che non tutti stiamo vivendo nello stesso periodo storico. Alcuni è come se stessero ancora vivendo nel tempo del Concilio di Trento, altri in quello del Concilio Vaticano Primo. Alcuni hanno bene assimilato il Concilio Vaticano Secondo, altri molto meno; altri ancora sono decisamente proiettati nel terzo millennio. Non siamo tutti veri contemporanei, e questo ha sempre rappresentato un grande fardello per la Chiesa e richiede moltissima pazienza e discernimento.
Ma preferisco accantonare almeno per il momento questo genere di problemi e considerare piuttosto la nostra situazione pedagogica e culturale con le conseguenti questioni collegate all’educazione e all’insegnamento.
UNA MENTALITÀ POSTMODERNA
Per cercare un dialogo proficuo tra la gente di questo mondo ed il Vangelo e per rinnovare la nostra pedagogia alla luce dell’esempio di Gesù, è importante osservare attentamente il cosiddetto mondo postmoderno, che costituisce il contesto di fondo di molti di questi problemi e ne condiziona le soluzioni.
Una mentalità postmoderna potrebbe essere definita in termini di opposizioni: un’atmosfera e un movimento di pensiero che si oppone al mondo così come lo abbiamo finora conosciuto. È una mentalità che si distacca spontaneamente dalla metafisica, dall’aristotelismo, dalla tradizione agostiniana e da Roma, considerata come la sede della Chiesa, e da molte altre cose.
Il pensare postmoderno è lontano dal precedente mondo cristiano platonico in cui erano dati per scontati la supremazia della verità e dei valori sui sentimenti, dell’intelligenza sulla volontà, dello spirito sulla carne, dell’unità sul pluralismo, dell’ascetismo sulla vitalità, dell’eternità sulla temporalità. Nel nostro mondo di oggi vi è infatti una istintiva preferenza per i sentimenti sulla volontà, per le impressioni sull’intelligenza, per una logica arbitraria e la ricerca del piacere su una moralità ascetica e coercitiva. Questo è un mondo in cui sono prioritari la sensibilità, l’emozione e l’attimo presente. L’esistenza umana diventa quindi un luogo in cui vi è libertà senza freni, in cui una persona esercita, o crede di poter esercitare, il suo personale arbitrio e la propria creatività.
Questo tempo è anche di reazione contro una mentalità eccessivamente razionale. La letteratura, l’arte, la musica e le nuove scienze umane (in particolare la psicoanalisi) rivelano come molte persone non credono più di vivere in un mondo guidato da leggi razionali, dove la civiltà occidentale è un modello da imitare nel mondo. Viene invece accettato che tutte le civiltà siano uguali, mentre prima si insisteva sulla cosiddetta tradizione classica. Oggi un po’ tutto viene posto sullo stesso piano, perché non esistono più criteri con cui verificare che cosa sia una civiltà vera e autentica.
Vi è opposizione alla razionalità vista anche come fonte di violenza perché le persone ritengono che la razionalità può essere imposta in quanto vera. Si preferisce ogni forma di dialogo e di scambio per il desiderio di essere sempre aperti agli altri e a ciò che è diverso, si è dubbiosi anche verso se stessi e non ci si fida di chi vuole affermare la propria identità con la forza. Questo è il motivo per cui il cristianesimo non viene accolto facilmente quando si presenta come la ’vera’ religione. Ricordo un giovane che recentemente mi diceva: «Soprattutto, non mi dica che il cristianesimo è verità. Questo mi dà fastidio, mi blocca. È diverso che dire che il cristianesimo è bello...». La bellezza è preferibile alla verità.
In questo clima, la tecnologia non è più considerata uno strumento al servizio dell’umanità, ma un ambiente in cui si danno le nuove regole per interpretare il mondo: non esiste più l’essenza delle cose, ma solo l’utilizzo di esse per un certo fine determinato dalla volontà e dal desiderio di ciascuno.
In questo clima, è conseguente il rifiuto del senso del peccato e della redenzione. Si dice: «Tutti sono uguali, ma ogni persona è unica». Esiste il diritto assoluto di essere unici e di affermare se stessi. Ogni regola morale è obsoleta. Non esiste più il peccato, né il perdono, né la redenzione e tanto meno il «rinnegare se stessi». La vita non può più essere vista come un sacrificio o una sofferenza.
Un’ultima caratteristica della postmodernità è il rifiuto di accettare qualunque cosa che sa di centralismo o di volontà di dirigere le cose dall’alto.
In questo modo di pensare vi è un «complesso anti-romano». Siamo ormai oltre il contesto in cui l’universale, ciò che era scritto, generale e senza tempo, contava di più; in cui ciò che era durevole e immutabile veniva preferito rispetto a ciò che era particolare, locale e datato. Oggi la preferenza è invece per una conoscenza più locale, pluralista, adattabile a circostanze e a tempi diversi.
Non voglio ora esprimere giudizi. Sarebbe necessario molto discernimento per distinguere il vero dal falso, che cosa viene detto con approssimazione da ciò che viene detto con precisione, che cosa è semplicemente una tendenza o una moda da ciò che è una dichiarazione importante e significativa. Ciò che mi preme sottolineare è che questa mentalità è ormai dappertutto, soprattutto presso i giovani, e bisogna tenerne conto.
Ma voglio aggiungere una cosa. Forse questa situazione è migliore di quella che esisteva prima. Perché il cristianesimo ha la possibilità di mostrare meglio il suo carattere di sfida, di oggettività, di realismo, di esercizio della vera libertà, di religione legata alla vita del corpo e non solo della mente. In un mondo come quello in cui viviamo oggi, il mistero di un Dio non disponibile e sempre sorprendente acquista maggiore bellezza; la fede compresa come un rischio diventa più attraente. Il cristianesimo appare più bello, più vicino alla gente, più vero. Il mistero della Trinità appare come fonte di significato per la vita e un aiuto per comprendere il mistero dell’esistenza umana.
«ESAMINA TUTTO CON DISCERNIMENTO»
Insegnare la fede in questo mondo rappresenta nondimeno una sfida. Per essere preparati, bisogna fare proprie queste attitudini: Non essere sorpreso dalla diversità. Non avere paura di ciò che è diverso o nuovo, ma consideralo come un dono di Dio. Prova ad essere capace di ascoltare cose molto diverse da quelle che normalmente pensi, ma senza giudicare immediatamente chi parla. Cerca di capire che cosa ti viene detto e gli argomenti fondamentali presentati. I giovani sono molto sensibili ad un atteggiamento di ascolto senza giudizi. Questa attitudine dà loro il coraggio di parlare di ciò che realmente sentono e di iniziare a distinguere che cosa è veramente vero da ciò che lo è soltanto in apparenza. Come dice San Paolo: «Esamina tutto con discernimento; conserva ciò che è vero; astieniti da ogni specie di male» (1 Ts 5:21-22).
Corri dei rischi. La fede è il grande rischio della vita. «Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt. 16,25). Tutto deve essere dato via per Cristo e il suo Vangelo.
Sii amico dei poveri. Metti i poveri al centro della tua vita perché essi sono gli amici di Gesù che ha fatto di se stesso uno di loro.
Alimentati con il Vangelo. Come Gesù ci dice nel suo discorso sul pane della vita: «Perché il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo» (Gv. 6,33).
PREGHIERA, UMILTÀ E SILENZIO
Per aiutare a sviluppare queste attitudini, propongo quattro esercizi:
1. Lectio divina. È una raccomandazione di Giovanni Paolo II: «In particolare è necessario che l’ascolto della Parola diventi un incontro vitale, nell’antica e sempre valida tradizione della lectio divina che fa cogliere nel testo biblico la parola viva che interpella, orienta, plasma l’esistenza» ( Novo Millennio Ineunte, N. 39). «La Parola di Dio nutre la vita, la preghiera e il viaggio quotidiano, è il principio di unità della comunità in una unità di pensiero, l’ispirazione per il rinnovamento continuo e per la creatività apostolica» ( Ripartendo da Cristo, N. 24).
2. Autocontrollo. Dobbiamo imparare di nuovo che sapere opporsi alle proprie voglie è qualcosa di più gioioso delle concessioni continue che appaiono desiderabili ma che finiscono per generare noia e sazietà.
3. Silenzio. Dobbiamo allontanarci dalla insana schiavitù del rumore e delle chiacchiere senza fine, e trovare ogni giorno almeno mezz’ora di silenzio e mezza giornata ogni settimana per pensare a noi stessi, per riflettere e pregare. Questo potrebbe sembrare difficile, ma quando si riesce a dare un esempio di pace interiore e tranquillità che nasce da tale esercizio, anche i giovani prendono coraggio e trovano in ciò una fonte di vita e di gioia mai provata prima.
4. Umiltà. Non credere che spetti a noi risolvere i grandi problemi dei nostri tempi. Lascia spazio allo Spirito Santo che lavora meglio di noi e più profondamente. Non cercare di soffocare lo Spirito negli altri, è lo Spirito che soffia. Piuttosto, sii pronto a cogliere le sue manifestazioni più sottili. Per questo hai bisogno di silenzio.
* IL TESTO E L’AUTORE
Pubblichiamo a lato un articolo del cardinale Carlo Maria Martini, già ospitato nel maggio scorso su America, settimanale fondato e diretto dai gesuiti degli Stati Uniti. Il testo è stato adattato da un discorso fatto dal presule al quarantaquattresimo Capitolo generale dell’Istituto dei Fratelli delle Scuole Cristiane a Roma il 3 maggio 2007. Arcivescovo emerito di Milano, Martini è nato a Torino il 15 febbraio 1927.
Entrato nella Compagnia di Gesù a soli 17 anni, è stato ordinato sacerdote il 13 luglio 1952. Nel 1958 ha conseguito la laurea in Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana . Il 29 dicembre 1979 Papa Giovanni Paolo II lo ha eletto Arcivescovo di Milano, diocesi che ha guidato per oltre vent’anni.
Grande risonanza ha avuto la «Cattedra dei non credenti», iniziativa in favore di persone in ricerca della fede. Dall’11 luglio 2002, il cardinal Martini ha ripreso gli studi biblici, vivendo prevalentemente a Gerusalemme.
Ansa» 2008-06-29 15:13
PAPA: CHIESA NON SIA DI UN SOLO STATO MA DI TUTTI
CITTA’ DEL VATICANO - La "missione permanente di Pietro" capo della Chiesa è "far sì che la Chiesa non si identifichi mai con una sola nazione, con una sola cultura, con un solo Stato. Che sia sempre la Chiesa di tutti. Che riunisca l’umanità al di là di ogni frontiera e, in mezzo alle divisioni di questo mondo, renda presente la pace di Dio, la forza riconciliatrice del suo amore". Lo ha affermato il Papa nella omelia per la messa di san Pietro e Paolo, celebrata nella basilica vaticana con il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I e con gli arcivescovi metropoliti ai quali imporrà il pallio.
MONDO UNITO SU COSE MATERIALI CONFLIGGE.SERVE PACE DIO
Il mondo globalizzato, unito "sulle cose materiali" che fanno spesso "esplodere nuovi contrasti" ha sempre più "bisogno di unità interiore, che proviene dalla pace di Dio". E "missione permanente" del Papa e "compito particolare affidato alla Chiesa" è ricondurre a questa unità l’umanità. Lo ha affermato il Papa, nella omelia per la messa di san Pietro e Paolo che celebra nella basilica vaticana. "Grazie alla tecnica dappertutto uguale, grazie alla rete mondiale di informazioni, come anche grazie al collegamento di interessi comuni, - ha detto - esistono oggi nel mondo nuovi modi di unità, che però fanno esplodere anche nuovi contrasti e danno nuovo impeto a quelli vecchi". "In mezzo a questa unità esterna, basata sulle cose materiali, - ha sottolineato papa Ratzinger - abbiamo tanto più bisogno dell’unità interiore, che proviene dalla pace di Dio, unità di tutti coloro che mediante Gesù Cristo sono diventati fratelli e sorelle. E’ questa - ha rimarcato - la missione permanente di Pietro e anche il compito particolare affidato alla Chiesa di Roma".
PAPA CON BARTOLOMEO CELEBRA MESSA PER IMPOSIZIONE PALLIO
CITTA’ DEL VATICANO - Con a fianco il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I il Papa, nella basilica vaticana, ha dato inizio alla celebrazione per la festa di San Pietro e Paolo, durante la quale distribuirà il pallio - una stola simbolo della dignità arcivescovile e della unione con il Papa - a 40 arcivescovi metropoliti. Concelebrano con Benedetto XVI i 40 nuovi arcivescovi metropoliti nominati nell’ultimo anno. Ad altri 2 arcivescovi (William D’Souza, S.I., di Patna, India, e Edward Tamba Charles, di Freetown and Bo, Sierra Leone), il pallio verrà consegnato nelle loro sedi metropolitane.
Gli arcivescovi che riceveranno l’insegna, per l’Europa sono: Francisco Pérez Gonzàlez, di Pamplona y Tudela (Spagna); Paolo Pezzi, della Madre de Dio a Mosca (Federazione Russa); Tadeusz Kondrusiewicz, di Minsk-Mohilev (Bielorussia); Giancarlo Maria Bregantini, di Campobasso-Boiano (Italia); Reinhard Marx, di Munchen und Freising (Repubblica Federale di Germania); Willem Jacobus Eijk, di Utrecht (Paesi Bassi); José Francisco Sanches Alves, di E’vora (Portogallo); Giovanni Paolo Benotto, di Pisa (Italia); Stanislav Zvolensky, di Bratislava (Slovacchia); Francesco Montenegro, di Agrigento (Italia); Laurent Ulrich, di Lille (Francia);S?awoj Leszek G?odz, di Gdansk (Polonia); Marin Sraki, di Djakovo-Osijek (Croazia). Per l’Africa invece saranno: il card. John Njue, Arcivescovo di Nairobi (Kenya); Michel Christian Cartatéguy, di Niamey (Nìger); Matthew Man-Oso Ndagoso, di Kaduna (Nigeria); Laurent Monsengwo Pasinya, di Kinshasa (Repubblica Democratica del Congo); Richard Anthony Burke, di Benin City (Nigeria); Thomas Kwaku Mensah, di Kumasi (Ghana); Peter J. Kairo, di Nyeri (Kenya). Ancora per l’Asia: Sua beatitudine Fouad Twal, Patriarca di Gerusalemme dei Latini; John Hung Shan-Chuan, di Taipei (Taiwan); John Lee Hiong Fun-Yit Yaw, di Kota Kinabalu (Malesia).
Gli arcivescovi metropoliti americani che avranno il pallio sono: Edwin Frederick O’Brien, di Baltimore (Stati Uniti d’America); Lorenzo Voltolini Esti, di Portoviejo (Ecuador); Andrés Stanovnik, di Corrientes (Argentina); Anthony Mancini, di Halifax (Canada); Martin William Currie, di Saint John’s, Newfoundland (Canada); Mauro Aparecido dos Santos, di Cascavel (Brasile); O’scar Urbina Ortega, di Villavicencio (Colombia); Antonio José Lòpez Castillo, di Barquisimeto (Venezuela); Agustìn Roberto Radrizzani, di Mercedes-Lujàn (Argentina); Robert Rivas, di Castries (Santa Lucia); Louis Kébreau, di Cap Haitien (Haiti); Joseph Serge Miot, di Port-au-Prìnce (Haiti); Thomas John Rodi, di Mobile (Stati Uniti d’America); Donald James Reece, di Kingston in Jamaica (Giamaica); John Clayton Nienstedt, di Saint Paul and Minneapolis (Stati Uniti d’America). Luìs Gonzaga Silva Pepeu, O.F.M. Cap., di Vitòria da Conquista (Brasile). Infine per l’Oceania c’é l’arcivescovo John Ribat, M.S.C., di Port Moresby (Papua Nuova Guinea). Il pallio è una larga striscia di lana bianca a forma circolare chiusa, con i due capi che pendono nel mezzo del petto e del dorso, con ricamate delle piccole croci, che gli arcivescovi metropoliti indossano sopra la casula. E’ simbolo del vescovo buon pastore e insieme dell’Agnello crocifisso per la salvezza dell’umanità.
I testimoni di Gesù, le origini del cristianesimo
di Corrado Augias *
Gesù non ha mai detto di voler fondare una religione, una Chiesa, che portassero il suo nome; mai ha detto di dover morire per sanare con il suo sangue il peccato di Adamo ed Eva, per ristabilire cioè l’alleanza fra Dio e gli uomini; non ha mai detto di essere nato da una vergine che lo aveva concepito per intervento di un dio; mai ha detto di essere unica e indistinta sostanza con suo padre, Dio in persona, e con una vaga entità immateriale denominata Spirito.
Gesù non ha mai dato al battesimo un particolare valore; non ha istituito alcuna gerarchia ecclesiastica finché fu in vita; mai ha parlato di precetti, norme, cariche, vestimenti, ordini di successione, liturgie, formule; mai ha pensato di creare una sterminata falange di santi. Non è stato lui a chiedere che alcuni testi, i vangeli, riferissero i suoi discorsi e le sue azioni, né ha mai scritto personalmente alcunché, salvo poche parole vergate col dito nella polvere. Gesù era un ebreo, e lo è rimasto sempre; sia quando, in Matteo 5,17, ha detto: «Non pensiate che io sia venuto ad abolire la Legge o i profeti; non sono venuto per abolire ma per dare compimento»; sia quando, sul punto ormai di spirare, ha ripetuto l’attacco straziante del Salmo 22: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».
Davanti a queste incontestabili verità sorge con forza la domanda, la curiosità di sapere: ma allora com’è nato il cristianesimo? Chi e quando ne ha stabilito norme e procedure, riti e dogmi? Gesù non ha mai pensato di rendere obbligatori un comportamento o una verità certificati per decreto. Ha esortato, ha pregato, ha dato l’esempio. Soprattutto, nulla era più lontano da lui di una congerie di leggi, un’organizzazione monarchica, uno Stato sovrano dotato di territorio, moneta, esercito, polizia e giurisdizione, sia pure ridotti - ma solo dopo aspre lotte - a dimensioni simboliche. Torna di nuovo la domanda: ma allora chi ha elaborato tutto questo? perché? quando?
La vicenda del cristianesimo, ricostruita nel suo effettivo svolgimento secondo le leggi della ricerca storica e non della teologia, rappresenta una complessa avventura umana ricca di drammi, di contrasti, di correnti d’opinione che si sono scontrate sui piani più diversi: la dialettica, l’invenzione ingegnosa, la ricostruzione ipotetica di eventi sconosciuti a costo di affrontare i più inverosimili paradossi; l’amore per gli uomini, certo, nella convinzione di fare il loro bene, ma anche gli interessi politici, gli arbitrii e gli inganni; non di rado l’opposizione al mutamento spinta fino allo spargimento di sangue.
In breve: se si esaminano i fatti con la sola ottica della storia, nulla distingue la lenta e contrastata nascita di questa religione da quella di un qualsiasi altro movimento in grado di smuovere coscienze e interessi, di coinvolgere la società nel suo insieme e le singole persone che nella e della società vivono. Sigmund Freud ha scritto nel suo L’avvenire di un’illusione: «Dove sono coinvolte questioni religiose, gli uomini si rendono colpevoli di ogni sorta di disonestà e di illecito intellettuale». Forse l’espressione è eccessiva, nel senso che non sempre e non per tutti è stato così. E, se di disonestà si può parlare, si è spesso trattato di una «disonestà» particolare, concepita cioè per offrire agli esseri umani una consolazione che la vita raramente concede. Di sicuro, però, è vero il reciproco della frase di Freud e cioè che la ricerca storico-scientifica, condotta con criteri rigorosi, obbedendo solo alla propria deontologia, esclude ogni «disonestà», il suo fine essendo di arrivare a risultati certi.
Momentaneamente certi, aggiungo. Certi, cioè, fino a quando altre ricerche, altre scoperte, altri documenti falsificheranno quei risultati per proporne di nuovi. La differenza fra la storia (e qualunque altra attività scientifica) e la teologia è infatti soprattutto in questo: la scienza tende a un instancabile avvicinamento a verità perfettibili, la teologia tende a considerare immutabile la sua verità perfino quando le scoperte della scienza la rendono palesemente inverosimile. La ricerca scientifica e la fede religiosa, il perfezionamento di conferme verificabili e la fiducia in verità assolute si muovono su piani distinti.
Per ognuna delle due ci sono spazio e legittimità nella coscienza e nei sentimenti degli individui, assai meno nel campo delle attività razionali e pubbliche. La verità della politica e della convivenza, fatta di mediazioni e di incontri, è diversa dalla verità della fede, fatta di dogmi immutabili. Il filosofo Rousseau era arrivato a dire: «Il cristiano non può essere un buon cittadino. Se lo è, lo è di fatto, ma non di principio, perché la patria del cristiano non è di questo mondo». Vedremo quanto sia vero tale giudizio e quanto il principio abbia pesato nel momento in cui il cristianesimo lentamente si allontanò dal giudaismo originario per diventare una religione a sé.
Il professor Remo Cacitti insegna Letteratura cristiana antica e Storia del cristianesimo antico alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Milano, materie su cui ha grande competenza. Nel dialogo raccolto in questo libro, egli ricostruisce le vicende che hanno caratterizzato la nascita del cristianesimo secondo i risultati della più attendibile e aggiornata ricerca. Nulla che non sia storicamente verificabile entra nel suo racconto. Non mancheranno quindi al lettore le sorprese, come non sono mancate a me, mentre lo ascoltavo raccogliendo le sue parole. Una narrazione basata su documenti è cosa molto diversa da una costruzione teologica, che per suscitare la fede deve trasformare i fatti, filtrarli attraverso categorie sottratte al controllo della ragione.
Quando e come comincia la nuova fede chiamata cristianesimo? È una domanda alla quale si risponde malvolentieri sia perché non è facile sia perché la materia è controversa, per taluni aspetti imbarazzante, basata su fonti aleatorie. Si può allora provare a formulare la questione in modo diverso: quando si conclude la fase che possiamo considerare originaria, aurorale, di questa religione? Ma soprattutto, per cominciare, a quale metodo si affidano gli storici per cercare di ricostruire con fedeltà le varie fasi degli avvenimenti?
Per la dottrina esiste una data ufficiale di nascita della Chiesa: la Pentecoste. Cinquanta giorni dopo la morte di Gesù, lo Spirito santo si manifestò prima come un vento, poi in forma di fiammelle che si posarono sul capo di ciascuno dei discepoli riuniti in assemblea. Riattualizzando l’originale significato ebraico della ricorrenza (legata alle primizie del raccolto e alla rivelazione di Dio su monte Sinai), la Pentecoste cristiana viene vista come la nuova legge donata da Dio ai suoi fedeli.
Questo nella dottrina. Nella realtà storica le origini della nuova religione sono molto più movimentate e incerte. Le due sole frasi che potrebbero far pensare all’intenzione di Gesù di fondare una sua Chiesa sono o male interpretate («Tu sei Pietro e su questa pietra...») o aggiunte in un secondo tempo al testo originario («Andate e predicate a tutte le genti...»). Per la cerchia dei seguaci la realtà della sua morte - di quella morte - dovette rappresentare uno shock tremendo. L’uomo, il profeta, se si vuole il messia tanto atteso, nel quale avevano riposto ogni speranza, al cui messaggio avevano creduto con pienezza di cuore, era finito su un patibolo ignominioso. Di colpo, tutti coloro che avevano creduto in lui erano diventati complici di un criminale giustiziato. La sventura si era abbattuta su di loro e, nello stesso tempo, il regno dei cieli, da lui annunciato come imminente, tardava ad arrivare. La loro risorsa, la loro salvezza fu rifugiarsi nelle antiche scritture della Bibbia, dov’era detto che i giusti secondo Dio sarebbero stati salvati.
A questa consolazione si aggiunse la notizia che la sua tomba era stata trovata vuota: la salma martoriata era scomparsa. Gesù doveva, dunque, essere risorto a nuova vita. I vangeli affermano con assoluta certezza due cose: che Gesù era realmente morto sulla croce; che molte persone lo videro dopo la resurrezione. Videro, cioè, un essere capace di passare attraverso una porta chiusa, di materializzarsi all’improvviso davanti ai suoi seguaci proprio come fanno gli spiriti, ma anche di mangiare del pesce e di far toccare le sue piaghe come un vero essere umano. Secondo gli storici tali apparizioni non sono vere prove di un ritorno dalla morte, sono invece testimonianze molto convincenti della fede che i suoi discepoli avevano in lui. L’annuncio del risorto cominciò a diffondersi in un territorio sempre più vasto a mano a mano che coloro che avevano creduto in lui presero a viaggiare, utilizzando a fini religiosi la fitta rete di comunicazioni che l’Impero romano aveva creato a scopi militari e di commercio.
Tutte le indagini storiche e archeologiche dimostrano che la nuova religione si sviluppò in luoghi diversi e con modalità differenti a seconda di come il racconto delle parole e delle azioni di Gesù veniva riferito passando di bocca in bocca. Come sostengono gli storici, e conferma con convinzione il professor Cacitti, all’inizio non ci fu un solo cristianesimo, ma diversi cristianesimi che avevano rilevanti diversità l’uno dall’altro, erano più o meno radicali, più o meno vicini all’originaria matrice ebraica. Alcune di queste differenze saranno dottrinalmente composte nel corso dei secoli, di altre continua a esserci traccia anche oggi nelle diverse confessioni che si dicono cristiane.
Corrado Augias
* Fonte: la Repubblica, 30 agosto 2008