ELUANA, "NO A FINE VITA ATTRAVERSO UNA SENTENZA"
SYDNEY - "Non possiamo tacere" la nostra "preoccupazione" "se si dovesse procedere a una consumazione di una vita per una sentenza". Lo ha detto il presidente dei vescovi italiani Angelo Bagnasco interpellato sul caso Eluana durante una conferenza stampa a Sydney nell’ambito della Giornata mondiale della gioventù".
"Da una parte - ha osservato il cardinale Bagnasco rispondendo a una domanda sul caso di Eluana - sono doverosi sentimenti di partecipazione al dolore, di rispetto per una situazione di grandissima sofferenza". "Ma - ha aggiunto - non possiamo tacere che si tratta di un momento delicato, difficile, drammatico: se si dovesse procedere a una consumazione di una vita per sentenza". "Togliere idratazione e nutrimento nel caso specifico è come togliere da mangiare e da bere a una persona che ne ha bisogno, come ne ha bisogno ognuno di noi". Si tratta dunque, ha concluso di un "momento di forte preoccupazione, che deve far preoccupare e riflettere seriamente tutti noi e tutte le persone di buona volonta".
ELUANA, CHIESTO RICOVERO A HOSPICE DI AIRUNO
MILANO - Se c’e’ una certezza nel caso di Eluana Englaro e’ che la famiglia, anzi il papa’-tutore Beppino, ha intenzione di andare sino in fondo con in mano il provvedimento che consente di staccare il sondino della nutrizione alla donna, da 16 anni in stato vegetativo. Lunedi’ la Procura generale di Milano ha fatto sapere che entro la meta’ della settimana prossima decidera’ se impugnare o meno la decisione della Corte d’Appello.
In una nota Gianfranco Montera, procuratore generale facente funzione, ha sottolineato il bisogno di ’’un adeguato approfondimento delle complesse problematiche giuridiche’’ nella convinzione che ’’da parte di tutti i protagonisti di cosi’ dolorosa e problematica vicenda ci si ispiri alla massima cautela e ponderazione’’. Queste osservazioni, pero’, non sembrano preoccupare la famiglia. Il legale Vittorio Angiolini ha liquidato la nota dicendo che ’e’ un atto che non ha alcun effetto giuridico e non cambia nulla’’. Anzi ha aggiunto di ’’non capire cosa potrebbero scrivere nel ricorso’’ visto che la vicenda di Eluana ’’e’ passata per otto gradi di giudizio tra cui ben due volte in Cassazione e che quest’ultima lo scorso ottobre ha tracciato in maniera vincolante la strada’’.
Lunedi’ sera nel suo studio c’e’ stato un incontro, a cui hanno partecipato il papa’ di Eluana, Beppino Englaro, il medico Carlo Alberto Defanti e la curatrice speciale Franca Alessio, per definire le ultime decisioni. ’’Sui modi e sui tempi preferiamo non dire nulla - ha spiegato l’avv.Alessio in seguito - mentre confermiamo che si procede’’. Ed e’ ormai questione a breve.
L’hospice Il Nespolo di Airuno, in provincia di Lecco, che il papa’ di Eluana ha visitato due giorni fa, ha confermato la disponibilita’ ad ospitare i suoi ultimi giorni, una volta che le e’ stato staccato il sondino. Anzi, in un comunicato, ha detto di aver ricevuto da Beppino Englaro la richiesta di ricovero per Eluana e di aver deciso di accoglierla, a condizione che le sia tolto prima dell’arrivo il sondino nasogastrico con cui viene nutrita, che in tal modo diventi una ’morente’. E il professor Carlo Alberto Defanti, ex primario di neurologia al Niguarda, ha confermato la disponibilita’ a togliere il sondino alla donna. Lunedi’ Defanti e’ andato alla casa di cura Talamoni di Lecco e ha visitato Eluana per accertare il suo stato neurologico. Si tratta, infatti, di una ’’cosa necessaria - ha spiegato Beppino Englaro - per procedere al meglio dal punto di vista clinico’’. ’’Poi - ha aggiunto - la decisione spetta a me’’.
Intanto la vicenda di Eluana continua ad essere al centro dell’attenzione. Ieri in 1.100 parrocchie ambrosiane si e’ pregato per lei. Nel numero di questa settimana di Famiglia Cristiana, il direttore don Antonio Sciortino, definisce ’’un via libera all’eutanasia’’ la decisione della Corte. Lunedi’ sera erano una sessantina le bottiglie d’acqua (alcune corredate da messaggi) posate sul sagrato del Duomo, come aveva chiesto di fare Giuliano Ferrara come protesta per la fine della nutrizione e dell’idratazione alla donna.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Il diritto di morire nel nostro Medioevo
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 21.07.2008)
Una antica rissa cristiana sembra essersi riaccesa in Italia intorno al più cupo dei diritti, quello di morire: suore uscite per un attimo dall’ombra di una vita di carità, prelati e dotti teologi offrono gli argomenti della religione a un movimento assai composito di gente comune e di affannati politicanti. Ed è un dolce nome di donna quello a cui tocca ancora una volta il compito di portare il simbolo dell’offesa e della violenza patita. Ma la schiuma della cronaca talvolta nasconde piuttosto che rivelare le correnti profonde. Per questo non faremo quel nome. Per una volta almeno non sarà pronunziato il nome di donna a cui tocca oggi - in attesa di altri candidati che non mancheranno - il compito di rappresentare nella piazza mediatica il dramma della nostra impotenza davanti alle crudeltà della natura e di offrire il suo volto indifeso alle bandiere di un "partito" contro un altro - un sedicente partito della vita in lotta contro un improbabile partito della morte. Tacerlo è la sola cosa che resta da fare, non solo per pudore e per pietà, ma anche perché tutto il necessario è stato detto e tutte le risorse e i saperi delle istituzioni sono stati messi a frutto.
Qui si tratta piuttosto di capire la sostanza dei problemi che agitano la società e che muovono ciascuno di noi a partecipare intensamente, coi sentimenti e con le idee, alla tempesta che ogni volta si scatena intorno a questi casi. Ogni volta questa speciale forma di morte chiama in gioco la medicina e il diritto, la religione e la politica. È la moderna danza macabra di un nuovo Medioevo, ossessionato come l’antico dalla paura di un nemico terribile: che non è più la morte improvvisa e senza sacramenti della peste, ma è la minaccia congiunta di una vita che non è vita e di una morte debole, inavvertita e sfuggente.
Le ragioni del diritto le ha esposte ieri con la solita inappuntabile precisione Stefano Rodotà. Ma è la medicina che viene prima di tutto. A lei, in una celebre intervista del 1957, un lungimirante Pio XII lasciò il compito e la responsabilità di individuare il segno del confine tra la vita e la morte. E ben prima di allora i medici hanno cercato di fare propria l’antica certezza di Re Lear: «Io so ben riconoscere quando uno è morto e quando vive». Ci sono riusciti? non sembra. Oggi negli Stati Uniti d’America può accadere che una persona - la stessa persona - sia ritenuta legalmente morta in California e ancora in vita nel Missouri. Il caso (reale) è raccontato dal professor Carlo Alberto Defanti, nella prima pagina di un libro che sembra scritto apposta per guidare con l’aiuto della scienza medica i lettori dei nostri tempi, in sosta angosciati davanti al passaggio estremo: Soglie. Medicina e fine della vita (Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp.270).
Quali le soglie su cui si è attestato nel nostro provvisorio presente il limite estremo della vita umana? sono ancora quelle antiche, in contrasto da secoli: il battito del cuore, la scintilla del cervello. La medicina si è impadronita della questione quando, col ritorno alla pratica anatomica alla fine del Medioevo, la foresta degli organi è cominciata ad emergere dietro l’unità della pianta umana. E fin da allora la pratica medica concepì quella fame di corpi che non doveva più lasciarla: la "fabbrica del corpo umano" (il titolo fu di Andrea Vesalio) doveva essere chiamata nel ‘900 - dopo la celebre operazione di Christian Barnard - a fornire tanti pezzi di ricambio. Questo non è un dettaglio ma un punto nodale dei problemi attuali. L’offerta di corpi umani, possibilmente ancora palpitanti di una vita residua, ha alimentato i progressi della medicina.
Ma per ottenerli è stata necessaria una alleanza coi poteri della religione e dello Stato: fin dagli inizi. Come si racconta in un libro collettivo, uscito contemporaneamente a quello di Defanti (Misericordie, Confessioni sotto il patibolo, Edizioni della Normale 2007) si ricorse per secoli alle forniture dei patiboli e alle membra più "vili", quelle dei condannati a morte. E ci volle uno speciale investimento di pratiche e di rituali per saldare il necessario circuito tra potere e religione, tra erogazione della morte e promessa di vita - quella dell’aldilà ai condannati e quella di questo mondo agli ammirati spettatori delle meravigliose operazioni della scienza medica. Da allora in poi quel circuito doveva ripresentarsi costantemente, sia pure sotto altre forme.
Le tappe successive della storia scientifica della questione ci portano ancora alla diarchia cuore-cervello. Il "miracolo" della rianimazione (dall’inglese "resuscitation") aprì la strada alle moderne cure intensive con le tecniche per far ripartire un cuore arrestato e ventilare chi non era in grado di respirare autonomamente (il polmone d’acciaio è del 1927). Ma quando si scoprì nel 1959 che in determinati stati di coma l’elettroencefalogramma non rilevava più onde elettriche cerebrali, si pose il problema se valesse la pena proseguire l’assistenza ventilatoria. Dalla scoperta del coma irreversibile derivò la proposta del comitato della Harvard Medical School di considerare questo stato come "sindrome della morte cerebrale" e di fissarlo come nuovo criterio di morte. La data del documento (1968) segna una svolta storica importante, come mostra Defanti che ne analizza il contesto e le ragioni, scientifiche ed economiche, e segnala la cautela con cui fu cercato l’avallo delle autorità religiose. È su questa base che fu definita la procedura per ottenere organi utilizzabili per trapianti, pezzi per l’officina delle riparazioni chirurgiche. Ma, come sanno o dovrebbero sapere tutti coloro che hanno nel portafoglio l’autorizzazione all’espianto dei propri organi, quel criterio fu scelto per ragioni pratiche da chi sapeva quanto fosse difficile fissare l’attimo decisivo su di un orologio della morte che è capace di misurare solo un processo graduale e differenziato. Così anche il documento di Harvard non segnò la fine della questione. Da un lato la diffusione clamorosa con Barnard del trapianto di cuore spinse potentemente in direzione dell’eutanasia attiva e dell’espianto di cuori funzionanti; dall’altro l’esplorazione del cervello ha dissolto l’unità di questo organo in entità diverse, ognuna con una vita e una morte propria.
Se lasciamo l’ancoraggio delle ricerche mediche, ci si apre davanti l’universo dei sentimenti: specialmente di quella paura della morte di sé che in ciascuno si scatena davanti alla morte degli altri. E qui la realtà del nostro tempo rivela la sua irrecuperabile lontananza dall’antica religione che oggi lotta con tutte le sue forze contro i suoi nemici di sempre. Eutanasia, questa è la parola: parola ambigua, odiata e ripudiata quando si presenta con l’orrendo volto nazista della soppressione forzata di un’umanità difettiva, ma che cela nel suo benevolo suono la voce di una sirena antica: il desiderio e l’augurio - per sé e per i propri cari - di una morte rapida e totale, senza sofferenze; ma anche la convinzione ormai acquisita che disporre della sorte del proprio corpo rientra fra i diritti dell’individuo.
Qui si incontrano i bisogni profondi del nostro tempo. E si capisce perché ci colpisce tanto la storia di quella dolce figura femminile, che appare oggi ancora viva almeno nella cronaca lacerata del paese: è la nostra storia, una possibile, sempre più probabile storia della fine che aspetta ciascuno di noi. Qui si misura l’arretramento drammatico del senso cristiano della morte, di quella morte gioiosa del credente che dettò a Martin Lutero uno dei suoi scritti più belli e che doveva animare la fede dei martiri della Riforma mentre salivano lietamente sui patiboli dell’Inquisizione. Oggi solo la deliberata ambiguità della scelta di una parola, la vita - termine che i credenti possono intendere nel senso di vita dell’aldilà e tutti gli altri sono liberi di applicare alla vita che abbiamo qui - sostiene le incongrue alleanze costruite per battere le leggi sull’aborto e le proposte di testamento biologico.
Il filo che ci porta al presente cominciò quando nella cultura europea del ‘700 razionalista prese corpo il rischio della morte apparente. Come ha raccontato anni fa Claudio Milanesi furono allora elaborate norme precise tuttora valide per scongiurare il pericolo della sepoltura di persone in stato di catalessi; e tutti conoscono in che modo la fantasia romantica di Edgar Allan Poe desse poi corpo a quei fantasmi dei morti viventi che abitano oggi negli incubi del nostro presente e ci vengono incontro nelle corsie delle cliniche.
Dunque, una conclusione si impone. La storia ci ha condotti a questo punto, per molte e complicate vie che fanno parte incancellabile della realtà di un paese moderno. Pertanto non ci sono alternative alla messa in opera delle regole faticosamente elaborate per conciliare il diritto individuale a disporre del proprio corpo con l’obbligo istituzionale a fornire tutte le cure necessarie alla persona malata: obbligo che non si deve tuttavia spingere alla "tortura inutile" di cui scriveva Paolo VI nella lettera del 1970 citata da Rodotà. E se le attuali gerarchie cattoliche farebbero bene a meditare quelle parole, spetta invece allo Stato italiano affrontare sia il gravissimo problema delle carenze delle strutture sanitarie che oggi obbligano le famiglie a sostenere il peso anche morale di situazioni dolorosissime, sia introdurre finalmente una regolamentazione adeguata del testamento biologico. Nell’immediato, spetta a noi tutti fare un passo indietro, recedere dal clamore indecente che oggi assedia chi ha diritto al rispetto e al silenzio.
Eluana, quando la sacralità è disumana
Sradichiamo la violenza dall’apparato mummificato delle culture del sacro
di don Enzo Mazzi (l’Unità, 20.07.2008)
Eluana Englaro cesserà di vivere o ricomincerà a vivere? Questo interrogativo scuote le coscienze di fronte alla interruzione dell’alimentazione forzata di una donna da sedici anni in coma irreversibile. La vita di Eluana è identificabile col battito cardiaco o con la funzione digestiva assicurate non dalla autonomia del proprio sistema biologico ma solo dalla potenza della tecnologia medica, oppure è forza vitale in continuo divenire che preme per essere liberata da un corpo che da se stesso non sarebbe più in grado di contenerla? E chi ama di più la vita: la suorina che vorrebbe continuare ad alimentare forzatamente la donna in coma o il padre che ha scelto di generare di nuovo la figlia liberando la forza vitale di lei imprigionata da sedici anni in un corpo incapace di funzioni vitali autonome? E non è tutto. Perché l’interrogativo riguardante la vita e la morte di Eluana è forse la domanda fondamentale che accompagna l’umanità fin dalla sua origine e che costituisce la spinta della trasformazione creatrice. Eluana è tutti noi, è ogni donna e ogni uomo.
Mia figlia - ha detto a più riprese il padre di Eluana - aveva un senso del morire come parte del vivere e non avrebbe accettato di essere una vittima sacrificale di una concezione sacrale della morte come realtà separata e opposta alla vita. Può darsi che sfugga la pregnanza di un simile messaggio. Ma è proprio lì in quell’angoscioso intreccio di vita/morte che si radica da sempre ed oggi in modo particolarmente intenso la spinta della evoluzione culturale.
Al fondo della crudeltà insensata che tutt’ora insanguina il mondo c’è la persistenza di un senso alienato della vita derivante dal dominio del sacro e dalla sua penetrazione nella società moderna. La vita è sacra. È un principio etico fondamentale. Ma è sacra in quanto parte della sacralità di un tutto in divenire che comprende finitezza e morte. Questo dice la saggezza dei secoli a chi ha orecchi per intendere. La cultura sacrale invece separa la vita dalla sua finitezza. La vita viene sacralizzata come dimensione astratta contrapposta alla dimensione altrettanto astratta della morte. La sacralità, intesa come astrazione, separazione e contrapposizione fra le varie dimensioni della nostra esistenza, è la proiezione di un’angoscia irrisolta, di una frattura interna, di una mancanza di autonomia e infine di una alienazione della propria soggettività nelle mani del potere.
La critica che è rivolta alla gerarchia cattolica ormai da molti credenti, compresi tanti teologi e teologhe di valore, riguarda proprio la incapacità a liberarsi e liberare dal dominio del sacro. "La proprietà dell’Evangelo è quella di metterci in una intransigente lotta contro il sacro ... in quanto la sacralizzazione è la stessa cosa che l’alienazione dell’uomo ... ma noi dobbiamo constatare che la fede cristiana si è come corrotta, imputridita ...". Queste affermazioni forti di padre Ernesto Balducci sono condivise da molti nella Chiesa e sono alla base della critica per l’intransigenza della gerarchia verso le posizioni etiche espresse da Eluana e dai genitori di lei. È un compito immane la liberazione del profondo dalla cultura sacrale che genera violenza. Bisogna andare finalmente alle radici, individuare e tentar di sradicare il gene della violenza che cova in tutto l’apparato mummificato, simbolico e normativo, delle culture del sacro tanto laiche che religiose.
Ognuno deve fare la sua parte, dovunque si trova ad operare, usando gli strumenti di conoscenza e di saggezza che gli sono stati forniti dall’esperienza di vita e dalla rete delle relazioni che ha potuto intrecciare. Eluana e suo padre stanno facendo la propria parte. Seminano senso positivo della vita con sofferenza e con forza. A loro dobbiamo essere profondamente grati.
Dopo le polemiche, il primo presidente Carbone difende l’operato dei giudici
"La Corte d’Appello di Milano ha deciso in autonomia applicando la legge"
Caso Eluana, la Cassazione precisa
"Mai travalicato i propri compiti"
Confermata la correttezza della sentenza che consente la sospensione delle cure
ROMA - La Corte di Cassazione "non ha in alcun modo travalicato il proprio specifico compito istituzionale di rispondere alla domanda di giustizia del cittadino, assicurando la corretta interpretazione della legge, nel cui quadro si collocano in modo primario i principi costituzionali e la Convenzione di Oviedo". E’ quanto precisa in una nota il primo presidente della Cassazione, Vincenzo Carbone, in relazione al caso di Eluana Englaro.
Il comunicato è stato diffuso in seguito alle polemiche sulla decisione della Corte d’Appello di Milano che il 9 luglio ha autorizzato l’interruzione dell’idratazione e dell’alimentazione forzata che da 16 anni tiene in vita Eluana. Riferendosi alla propria pronuncia dell’ottobre 2007 con la quale la Cassazione ha accolto il ricorso del padre della ragazza, Beppino Englaro, ed ha chiesto alla Corte d’appello di Milano di pronunciarsi sulla vicenda, nella nota si ricorda che "la Corte con tale pronuncia si è limitata ad affermare un principio di diritto sulla base della interpretazione costituzionalmente orientata delle legislazione vigente".
"In applicazione di siffatto principio - afferma ancora Carbone - la Corte d’Appello di Milano, nella sua autonomia e valutando nel concreto le circostanze di fatto e le prove raccolte, ha deliberato che potessero essere sospesi alla Englaro i presidi che tuttora ne prolungano il riconosciuto stato vegetativo permanente".
Il primo presidente di Cassazione ricorda quindi come "il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma (...) altresì eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale".
Nel caso in cui il malato non possa decidere, interviene il tutore, ma i vincoli sono precisi. "Nel consentire il trattamento medico o nel dissentire dalla prosecuzione dello stesso sulla persona dell’incapace - sottolinea ancora Carbone- la rappresentanza del tutore è sottoposta a un duplice ordine di vincoli: egli deve, innanzitutto, agire nell’esclusivo interesse dell’incapace; e, nella ricerca del best interest, deve decidere non ’al posto’ dell’incapace, né ’per’ l’incapace, ma ’con’ l’incapace".
"Quindi - prosegue il presidente di Cassazione - ricostruendo la presunta volontà del paziente incosciente, già adulto prima di cadere in tale stato, tenendo conto dei desideri da lui espressi prima della perdita della coscienza, ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche".
* la Repubblica, 18 luglio 2008
La mozione chiede di avviare una discussione per chiarire se la magistratura si sia sostituita al Parlamento
"Eventuale conflitto di attribuzione"
Eluana, il Senato avvia procedura
La famiglia: "Noi andiamo avanti. La sentenza della Cassazione rimane esecutiva"
ROMA - La Giunta per il Regolamento ha accolto la proposta avanzata dal presidente del Senato, Renato Schifani, di deferire alla commissione Affari Costituzionali la questione di un’eventuale conflitto di attribuzione da sollevare davanti alla Consulta tra il Senato e la Corte di cassazione in merito alla vicenda di Eluana Englaro. La decisione definitiva spetterà all’aula di Palazzo Madama.
La reazione della famiglia. "Noi andiamo avanti. Per il momento non cambia niente, e la famiglia di Eluana porrà in atto la sentenza della Cassazione, sospendendo l’alimentazione della figlia quando lo riterrà opportuno". L’avvocato della famiglia Englaro, Vittorio Angiolini, spiega che la decisione della Commissione Affari Costituzionali del Senato non sposta di una virgola i progetti della famiglia: dopo tanti anni di attesa, la sentenza della Cassazione "rimane esecutiva, a meno che non la blocchi la Consulta in attesa della sentenza, cosa che non è mai successa". Angiolini commenta con durezza l’iniziativa del Senato, che contesta alla Cassazione di aver concesso la sospensione dell’alimentazione della giovane sulla base di una sentenza della maigstratura azichè su una legge. "Sono stupito dal presidente Schifani - continua Angiolini - che mobilita il Senato per questa vicenda: l’istituzione non ha più rispetto di sè stessa. Dicono che non c’è la legge, ma dov’era il Senato negli ultimi 16 anni?. Sollevando il conflitto di attribuzione, il Senato stesso si autoaccusa di inerzia, non avendo fatto una legge necessaria". "Mi dispiace conclude il legale - perchè stanno trasformando questo caso in un carnevale".
La mozione. La richiesta di Schifani ha, in buona sostanza, lo scopo di chiarire se la magistratura si sia sostituita al Parlamento su una materia così delicata come l’eutanasia. Se il Senato decidesse effettivamente di sollevare conflitto di attribuzioni con la Cassazione davanti alla Corte Costituzionale, si tratterebbe di un’iniziativa senza precedenti. La Cassazione, infatti, non è mai stata parte di un conflitto sollevato dal potere legislativo per una sua sentenza. Il vicecapogruppo del Pdl, Gaetano Quagliariello, ha precisato che la discussione della mozione in aula verrà calendarizzata nella prossima riunione della conferenza dei capigruppo, fissata per lunedì.
Le polemiche. Come è noto il riferimento è alla sentenza che ha autorizzato la sospensione del trattamento di idratazione e alimentazione nei confronti di Eluana Englaro. Nei giorni scorsi diversi parlamentari avevano contestato che la decisione su Eluana Englaro fosse stata assunta non in base ad una legge, ma con una sentenza della magistratura. Di qui la richiesta che il potere legislativo, e cioè le Camere, aprissero un conflitto di attribuzione davanti al potere giudiziario, la Corte di Cassazione.
I commenti. "Sul caso Englaro - ha detto la responsabile famiglia e politiche sociali dell’unione di centro, Luisa Santolini - ci auguriamo che il presidente Fini convochi con urgenza l’ufficio di presidenza per verificare e attivare le procedure necessarie. A nostro avviso la sentenza che condanna a morte Eluana ha origine da un’invasione della suprema corte nella sfera del potere legislativo". "Esprimiamo la nostra più viva preoccupazione - ha aggiunto la Santolini - di fronte ad atti della magistratura che si pongono in conflitto con il principio fondamentale della separazione dei poteri, ledendo le prerogative costituzionali del parlamento. Considerato il caso concreto, legato al tema dell’eutanasia, è ancor più evidente la necessità di agire con la massima urgenza di fronte a sentenze che intervengano in modo originale e innovativo su materie così sensibili dal punto di vista etico, scientifico e culturale".
"Il Parlamento faccia quello che crede" ha dichiarato invece Maria Gabriella Luccioli, presidente del collegio della Cassazione che si pronunciò proprio sul caso Englaro. "Alla Cassazione - ha concluso la Luccioli - era stata posta una domanda di giustizia e noi l’abbiamo resa. Credo che ora su questa vicenda bisogna fare un pò di silenzio".
* la Repubblica, 16 luglio 2008
Il presidente della Cei da Sydney aveva criticato la decisione dei giudici
"Non possiamo tacere la nostra preoccupazione"
Il papà di Eluana replica a Bagnasco
"Non si sta consumando la vita" *
SYDNEY - "Qui non si tratta di una consumazione di una vita, ma di fare in modo che la natura riprenda il suo corso che è stato interrotto" . Con queste parole, Beppino Englaro, padre di Eluana, risponde alle critiche del cardinal Bagnasco.
La delicata vicenda di Eluana Englaro, la ragazza in coma da 16 anni per la quale la Corte d’Appello civile di Milano ha autorizzato il distacco dei macchinari che la tengono in vita, aveva attraversato l’oceano ed è arrivata fino in Australia
Da Sydney, dove si trova per la giornata mondiale della gioventù, anche il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, interviene sulla delicata questione. Interpellato sul caso il presidente dei vescovi italiani ha espresso tutta la sua preoccupazione.
Viviamo - ha detto Bagnasco - un momento che deve far preoccupare e riflettere tutte le persone di buona volonta". "Togliere idratazione e nutrimento - ha aggiunto - è come togliere da mangiare e da bere a una persona che ne ha bisogno". Il cardinale, che ha poi voluto esprimere alla famiglia della ragazza, " il sentimento di condivisione e partecipazione per una situazione di grande sofferenza a nome di tutti i cattolici italiani" ha ricordato però che "non possiamo tacere che questo è un momento molto delicato, persino drammatico se si dovesse arrivare a consumare una vita per una sentenza".
* la Repubblica, 15 luglio 2008.
Eutanasia, lasciare le cose come stanno?
Ma la legge prevede 15 anni di carcere
Sulla questione non ci si può girare ancora dall’altra parte
di Marco Cappato (il Riformista, 15.07.2008)
Caro direttore,
quindici anni di carcere. Ecco la prima cosa che hanno in comune le storie che girano intorno alla parola «eutanasia», se con questa intendiamo non un concetto giuridico (che infatti non è mai menzionato dal nostro ordinamento), ma la scelta di una «buona morte». I quindici anni di carcere per omicidio del consenziente sono la minaccia che pende su tutti coloro - medici, familiari, amici, nemici - che "aiutano" quelle persone. La seconda cosa che hanno in comune quelle storie sono le scelte, drammatiche, che investono sempre più le fasi finali (sempre più lunghe della vita), indipendentemente dalla «tecnica» necessaria per realizzarle.
Lei, direttore, vuole lasciare le cose come stanno. Dopotutto, si potrebbe dire, Piergiorgio Welby ha ottenuto di interrompere le terapie; Beppino Englaro è stato autorizzato a interrompere l’alimentazione di Eluana; una signora a Modena ha nominato un amministratore di sostegno che ha impedito la tracheotomia necessaria per farla vivere contro la propria volontà; Giovanni Nuvoli ha ottenuto di essere lasciato morire. E chi invece vuole vivere può - sanità permettendo - vivere.
Lasciamo le cose così, dunque? No. No, perché il radicale Welby ha mosso il mondo per tre mesi prima di trovare un medico (su 400 mila in Italia) disposto ad aiutarlo, e quel medico ha aspettato un anno prima di uscire innocente dalle aule dei tribunali, mentre se avessero agito i medici belgi pronti a somministrare una dose letale, sarebbero stati condannati al carcere; no, perché Beppino Englaro di anni ne ha aspettati sedici, e se si fosse mosso prima avrebbe rischiato quindici anni di carcere; no, perché la signora di Modena ha avuto la fortuna di trovare un magistrato pronto e sensibile, altrimenti ora avrebbe un tubo non voluto in gola; no, perché Giovanni Nuvoli si è dovuto uccidere da solo autosospendendosi cibo e acqua per otto giorni visto che i carabinieri avevano fermato l’anestesista radicale Tommaso Ciacca, il quale affrontava il rischio di... quindici anni di carcere!
Caro direttore,
lei ha scritto che la scelta della madre malata che si toglie la vita è individuale e «tragicamente libera». E precisa: «Quando il malato è ancora in grado di fare da sé». Ma quando non è in grado di fare da sé? Davvero lei vorrebbe far dipendere tutto dal fatto che la persona ha ancora in sé un briciolo di energie per suicidarsi? Distinguere è bene, certo.
Distinguere tra interruzione delle terapie, testamento biologico, suicidio assistito, suicidio, e le altre categorie che si possono individuare. Alla base di queste scelte c’è però il dovere, per lo Stato, di distinguere soprattutto tra una scelta libera e responsabile e una imposizione (di vita o di morte che sia) subita da altri: che siano medici ideologizzati o parenti ingordi. Da una parte c’è la «buona morte», dall’altra c’è l’eutanasia clandestina, l’omicidio o l’accanimento tecno-sanitario.
Distinguere per legge non è «burocratico», ma è necessario per proteggere il cittadino da violenze, da suicidi di disperazione, da «cattive morti» che un aiuto della legge e dello Stato potrebbe trasformare sia in vite decenti che in buone morti, o «morti opportune», come le chiamava, con Jacques Pohier, Piero Welby.
Proprio come lei, la legge italiana oggi non distingue sulla base della scelta (se è libera o no), ma sulla «tecnica». Se il medico di Welby avesse usato qualche milligrammo in più di anestetico, sarebbe diventato un omicida. Se con Nuvoli un farmaco letale avesse interrotto la sua agonia di fame e di sete, sarebbe stato un omicidio, così come se qualcuno ritenesse che quella di Eluana ora non debba essere trasformata in «agonia dell’agonia», con lunghi giorni di tifoserie politico-religiose, ma medicalmente terminata in pochi attimi (dopo sedici lunghi anni).
Direttore, scrivere che «nessuna legge umana può regolare la morte», e al tempo stesso chiedere che «le cose restino come stanno», è semplicemente contraddittorio. Le leggi già ci sono: sono cattive leggi delle cattive morti, che ammettono eccezioni soltanto da parte di persone particolarmente preparate, agguerrite o fortunate. Ecco perché le buone leggi servono, e non ci si può girare dall’altra parte.
* segretario Associazione Coscioni e deputato europeo radicale
ADERIAMO ALL’APPELLO DI FERRARA
SI SCONGIURI IL PRECIPITARE DEGLI EVENTI
di MARCO TARQUINIO (Avvenire, 15.07.2008).
Continuano a dirci che, in fondo, si tratta di «staccare la spina». E si può persino coinvolgere emotivamente una qualche parte dell’opinione pubblica con questa espressione che evoca la fredda potenza di una macchina insignoritasi del fragile calore di una vita umana. Ma nel caso di Eluana Englaro non c’è una spina da staccare. C’è una persona, Eluana, che da sedici anni vive in stato vegetativo. Dorme e - in parte - si desta, al ritmo del cuore e del respiro, ma non può più provvedere da sola a placare fame e sete. Non c’è una spina, ci sono le spine di quest’immane vulnerabilità. E ci sono gesti irrimediabili, che in forza di una sentenza di Corte d’appello e della proclamata disponibilità di un medico, sono diventati possibili e - Dio non voglia - incombenti. Ormai cominciano a capirlo in tanti, sempre di più, sempre più toccati e sconvolti dalle voci di quegli uomini di legge e di medicina che a Eluana, e a noi tutti, hanno spiegato davanti una via di morte. Proprio così. Una via di morte è stata spalancata davanti a Eluana, che si è preteso di destinare «secondo giustizia» alla consunzione per fame e per sete. Ma anche davanti a ognuno di noi, chiamato a inchinarsi al verdetto e ad assistere compreso e silente alla prima «misericordiosa » esecuzione capitale nella storia della Repubblica italiana. Una pena di morte programmata, sentenziata e avviata ad applicazione da un autoproclamato ’supremo tribunale della salute’ composto da toghe nere e camici bianchi. Una mostruosità, difficile da affrontare e contrastare per chi - medico, giurista, magistrato, politico o semplice cittadino - si ritrova al cospetto dell’inedito e smisurato arbitrio assegnato a coloro che hanno sin qui manifestato la volontà di spegnere Eluana.
Questo è il punto. E questa è l’ambizione ’normativa’ della consorteria che ha deciso - in cadenzato e infine concitato crescendo - modi e tempi della «svolta». Ci sono voluti giusto nove mesi - il tempo della vita convertito nel suo contrario - perché da un’inopinata e deflagrante pronuncia autunnale della Corte di Cassazione si arrivasse a questo triste luglio di annunciate pratiche «terminali». Perché ci ritrovassimo, Eluana e noi tutti, affacciati su questo oscuro limitare, consegnati a un’angosciosa precarietà. E come ci si può, allora, rassegnare all’inchino? Come si può chiamare l’opinione pubblica a una dolente comprensione che non sia - da subito, e prima di tutto - una lucida capacità di capire il terrificante significato della decisione di permettere che non si dia più da bere e da mangiare a una persona incapace di provvedere da sola? Come si può rinunciare a mettere bene a fuoco il meccanismo di voleri e poteri costruito, in palese e oggettiva sinergia, da taluni giudici e da taluni medici?
Il fatto che persino la Procura generale milanese, ieri, non sia potuta andare più in là di un preoccupato richiamo alla «responsabilità» e alla «ponderazione», sottolinea con forza il rischio di un tragico precipitare degli eventi. E l’altra faccia di questo rischio è un polemico e mortale senso d’impotenza che minaccia di prender piede nella società civile, persino tra coloro che per fede e ragione, o anche solo per ragione, non intendono arrendersi alle derive di morte. Questo è, invece, il momento della chiarezza e della generosità. Per farsi sentire, con l’urgente passione messa in campo da Giuliano Ferrara (al cui pensiero, mentre i fatti incalzano, diamo oggi volentieri ospitalità benché sul ’Foglio’ di ieri abbia rivolto all’arcivescovo di Milano Dionigi Tettamanzi e a questo giornale uno strano rimprovero di tiepidezza). Non è l’ora delle permalosità e degli inchini. Serve una pressante mobilitazione delle coscienze, laiche e cattoliche. E serve adesso.
La volontà di dominio
di Giuseppe D’Avanzo (la Repubblica, 15.07.2008)
Le idee di rifondazione della Repubblica, nelle parole di Berlusconi, affiorano sempre in modo graduale, ma assolutamente esplicite e manifeste. Arrestano il governatore della Regione Abruzzo, e molti dei suoi, per corruzione. Il processo ci dirà se con fonti di prova solide o dubbie. Il mago di Arcore non si cura di attenderne l’esito. Non ha alcuna prudenza. Sa di che cosa si tratta, nella sua chiaroveggenza. Due sole parole - corruzione (il reato contestato), politici (gli indagati) - gli sono sufficienti per sentenziare che si tratta di un «teorema». Che poi in matematica vuol dire «proposizione dimostrabile», ma nelle parole del mago di Arcore il significato si capovolge nel suo opposto e «teorema» diventa una costruzione artificiosa, infondata, priva di fatti e prove. E’ ai «teoremi» della magistratura che bisogna tagliare definitivamente la strada modificando radicalmente la magistratura ab imis fundamentis, dice, dalle più profonde fondamenta. Chi governa, di qualsiasi area politica sia (la giunta regionale abruzzese è di centro-sinistra), non deve più temere l’intervento della magistratura. Bisogna allora separare le carriere?, gli chiedono. «Di più, molto di più» risponde.
Forse per la prima volta, Berlusconi dichiara senza trucchi quel che intende fare. Separare la funzione requirente e giudicante non gli basta più. Il «di più» che invoca non è soltanto la riforma del Consiglio superiore della magistratura. Il «molto di più» che annuncia è il pubblico ministero diretto dall’esecutivo. Il pubblico ministero, infatti, o è indipendente, come il giudice, o è alle dipendenze del ministro. Non ci sono alternative. Solo con un pubblico ministero scelto, arruolato, orientato e gestito dal governo, il potere politico sarà protetto da quel «controllo di legalità» che comprime e umilia - per Berlusconi - la legittimità di chi governa. Il presidente del Consiglio non si è lasciato allora sfuggire l’occasione per riproporre il conflitto legittimità/legalità nel giorno in cui un’inchiesta giudiziaria non colpisce lui o uomini del suo partito, ma gli avversari in una regione governata dal centro-sinistra. Come a dire: cari signori, vedete, la magistratura non è una mia ossessione, ma l’ostacolo che tutti dovremmo avere interesse a rimuovere se vogliamo davvero governare.
In questa "chiamata alle armi" della politica non appare in gioco soltanto il terzo dei macro-poteri dello Stato (art. 104 della Costituzione: «la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere»). Non si tratta della pur consueta polemica tra Berlusconi e le toghe, tra la politica e la magistratura. Questo è soltanto il terreno dello scontro, non il senso del conflitto. Berlusconi ha cominciato a mettere a riparo se stesso con la «legge Alfano» ma cova un processo riformatore e l’avventura appare soltanto all’inizio. Se ne possono rintracciare gli indizi e la «filosofia» nelle decisioni dei primi cento giorni; nei provvedimenti con immediata forza di legge approvati dal governo; come anche nel voto di fiducia che ha spento ogni confronto parlamentare su un «decreto sicurezza» che inaugura un diritto della diseguaglianza e, con il reato di immigrazione clandestina, trasforma una semplice condizione personale in reato.
Questa piena volontà di comando e dominio, che Berlusconi pretende libera da ogni discussione parlamentare, controllo di legge, verifica di costituzionalità, mortifica la legalità. E’ una modificazione dell’architettura istituzionale che il mago di Arcore sta preparando con cura, passo dopo passo, iniziativa dopo iniziativa. Annuncia una forma di «Stato governativo» che dovrebbe - nei prossimi anni - ridurre al silenzio lo «Stato legislativo parlamentare», lo Stato di diritto disegnato dalla Costituzione. Si comprende perché Berlusconi senta lo Stato parlamentare come un vestito stretto, soffocante.
Nello Stato legislativo parlamentare governano le leggi, non gli uomini né le autorità né le magistrature. E’ un sistema che attribuisce al legislatore il compito e il potere, nell’interesse generale, di varare norme «impersonali, generali, prestabilite e perciò pensate per durare». E’ un sistema che separa. Chi decide della legge, non la applica. Chi legifera, non dà esecuzione alla norma. Chi esercita il potere e il dominio agisce «in base alla legge», «in nome della legge». Il principio costruttivo di fondo dello Stato legislativo, in cui «non sono gli uomini a governare ma le norme ad avere vigore», è il principio di legalità. Berlusconi non accetta di essere l’anonimo esecutore di leggi e norme. Vuole disfarsi del «principio di legalità» e con esso dello Stato legislativo. Ciò che nello Stato legislativo è separato, egli vuole unirlo nella sua persona. Un passo in avanti già può vantarlo. Un parlamento di nominati e non eletti, quindi Camere obbedienti e genuflesse. Il secondo passo "naturale", quasi obbligato, è quel che annuncia da Parigi: il pubblico ministero alle dipendenze del governo. Non c’è più nulla, quindi, che abbia a che fare con il braccio di ferro tra politica e magistratura del decennio scorso. Siamo di fronte a una strategia riformatrice e come tale va osservata. Berlusconi non vuole governare in nome della legge, ma in nome della «necessità concreta», in nome della «cogenza della situazione». Non vuole che il suo governo sia orientato dalle norme, ma pretende che si muova dietro lo stato delle cose, le «situazioni» che egli ritiene che siano prioritarie (altra cosa è che lo siano davvero). Lo «Stato governativo» si definisce appunto per la qualità particolare che riconosce al comando concreto, «eseguibile e applicabile immediatamente». Lo Stato governativo, scrive Carl Schmitt, «riconosce un valore giuridico positivo al decisionismo della disposizione prontamente eseguibile. Qui vale il detto: "Il meglio al mondo è un comando"».
Berlusconi chiede che il suo governo, sia suo davvero, chiuso nella sua volontà personale, affidato al suo comando di capo che governa, che dispone di tutti i requisiti della legittimità, della piena rappresentanza. E’ un sistema che ha la necessità di liberarsi della "dittatura" della norma, del controllo della magistratura, delle discussioni parlamentari. Se tutto questo è vero, vale la pena capire se - quando si parla di «dialogo» - si ha chiaro che Berlusconi accetterà di discutere soltanto se le cose muoveranno nella direzione in cui è già in movimento.
Il corretto punto di vista sulla vita
È bene rendersi conto che la filosofia del salvare la vita ad ogni costo non riguarda solamente gli esperti di tecnologie mediche. Si tratta di un prodotto naturale della moderna filosofia secolare. Perché diciamo questo? Ebbene, se la vita attuale è tutto quello che c’è, può sembrare che la nostra vita debba essere salvata in qualsiasi circostanza e ad ogni costo. Ma in alcuni casi questa filosofia secolare ha dato luogo a situazioni veramente angosciose: persone in stato di incoscienza sono state mantenute “in vita” artificialmente per anni.
D’altro canto, ci sono quelli che credono nell’immortalità dell’anima. Secondo la loro filosofia, questa vita è solo un passaggio sulla strada che porta a qualcosa di meglio. Platone, che è tra coloro che diedero origine a questa filosofia, si espresse così:
“O è come un non esser più nulla, e chi è morto non ha più nessun sentimento di nulla; o è proprio, come dicono alcuni, una specie di mutamento e di migrazione dell’anima da questo luogo quaggiù a un altro luogo. . . . Se la morte è come un mutar sede di qui ad altro luogo, . . . quale bene ci potrà essere, o giudici, maggiore di questo?” - Platone, Opere complete, trad. di Manara Valgimigli, Bari, Laterza, 1987, Vol. I, pp. 67, 68.
Chi ha questa convinzione potrebbe considerare la morte un’amica, qualcosa di gradito e forse anche da affrettare. Tuttavia la Bibbia insegna che Geova considera sacra la vita. “Presso di te è la fonte della vita”, scrisse il salmista ispirato. (Salmo 36:9) Un vero cristiano dovrebbe dunque accettare di avere una parte in un caso di eutanasia?
Secondo alcuni, le Scritture fanno riferimento a questo soggetto nell’episodio in cui il re Saul, gravemente ferito, implorò il suo scudiero di ucciderlo. Considerano questo gesto una forma di eutanasia, un atto deliberato per affrettare la morte di qualcuno che stava già morendo. In seguito un amalechita asserì di avere ubbidito alla richiesta di Saul di metterlo a morte. Ma il gesto di quell’amalechita che pose fine alle sofferenze di Saul fu forse approvato? Tutt’altro. Davide, l’unto di Geova, ordinò che l’amalechita fosse ucciso per la sua colpa di sangue. Pertanto questo episodio biblico non legittima in alcun modo l’eutanasia per il cristiano.
Ma questo vuol forse dire che il cristiano debba fare tutto ciò che la tecnologia rende possibile per prolungare una vita che è agli sgoccioli? Bisogna prolungare l’agonia il più a lungo possibile? Le Scritture ci insegnano che la morte non è amica ma nemica dell’uomo. (1 Corinti 15:26) Inoltre i morti non si trovano né in un luogo di sofferenza né in un luogo di beatitudine, ma in una condizione simile al sonno. Le prospettive future di vita per i morti dipendono completamente dalla potenza che ha Dio di risuscitarli per mezzo di Gesù Cristo. Pertanto riscontriamo che Dio ci ha provveduto questa utile conoscenza: La morte non è qualcosa da desiderare, ma non c’è neppure l’obbligo di compiere sforzi disperati per prolungare l’agonia.
Infine, riflettete su questi punti. I cristiani desiderano moltissimo restare in vita per poter servire Dio. Si rendono conto, però, che nel sistema attuale moriamo tutti; in questo senso siamo tutti affetti da una malattia terminale. Solo per mezzo del sangue riscattatore di Gesù Cristo possiamo avere la speranza di capovolgere questa situazione.
Se un nostro caro muore, per quanto ne siamo addolorati, non dobbiamo tormentarci e rattristarci “come fanno anche gli altri che non hanno speranza”. Possiamo invece trarre conforto dal pensiero che abbiamo fatto tutto ciò che era ragionevolmente possibile per il nostro familiare malato e che qualsiasi assistenza medica gli sia stata prestata gli ha dato al massimo un aiuto temporaneo. Abbiamo tuttavia la rallegrante promessa di Colui che ci libererà da tutti questi problemi allorché l’‘ultimo nemico, la morte, sarà ridotto a nulla’.
Sì, in ultima analisi il migliore aiuto per chi sta morendo verrà dall’Iddio che diede la vita alle prime creature umane e che promette la risurrezione a coloro che esercitano fede in lui e in suo Figlio, Gesù Cristo.