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CHIESA CATTOLICA IN UN VICOLO CIECO: EMERGENZA TEOLOGICA ED ANTROPOLOGICA. L’orologio della sua storia è fermo da secoli. Un’analisi (un’autocritica parziale) di Fulvio De Giorgi - con note di Federico La Sala

Con un esercizio di ‘fantasia pastorale’ spostiamo decisamente in avanti l’orologio, anzi il calendario della storia. Quale sarà la Chiesa nel 2113? Forse ci sarà già stato il Concilio Vaticano III o forse no...
mercoledì 13 febbraio 2013.
 

[...] Quando oggi, a cinquant’anni dal Concilio Vaticano II, ci si chiede se è ormai giunta “l’ora dei laici” nella Chiesa, la risposta forse un po’ estremizzata (ma sincera) appare essere: è giunta... ed è passata... e non ci siamo accorti quasi di nulla. [...]


Cosa blocca l’orologio della storia?

di Fulvio De Giorgi (“Presbyteri”, n. 2, febbraio 2013)

1. Nella Chiesa del XXII secolo

Con un esercizio di ‘fantasia pastorale’ spostiamo decisamente in avanti l’orologio, anzi il calendario della storia. Quale sarà la Chiesa nel 2113? Forse ci sarà già stato il Concilio Vaticano III o forse no... La Chiesa si articolerà nelle tante piccole comunità ecclesiali viventi, sparse sul territorio. Rifulgeranno le due ‘vocazioni’ fondamentali: alla verginità consacrata e al matrimonio. E dalla prima verranno, prevalentemente, i vescovi a reggere le diocesi, indicati - se non proprio eletti - da tutti i cristiani di quelle chiese locali. Prevalentemente dai coniugati, invece, dopo una lunga e provata testimonianza di vita, le piccole comunità eleggeranno gli ‘anziani’ (maschi o femmine), chiamati a presiedere l’eucaristia e a guidare spiritualmente quelle ‘chiese tra le case’: il vescovo vaglierà gli eletti e li ordinerà per quel ministero. Non si chiameranno ‘sacerdoti’, perché ovviamente tutti i battezzati adulti, cioè i ‘santi’ o ‘cristiani’, sapranno di essere sacerdoti, in forza del battesimo. Saranno appellati ‘anziani’ (o, che è lo stesso, ‘presbiteri’, ‘preti’), chiamati al sacerdozio ministeriale.

Non ci potranno essere mai, allora, pochi preti e l’espressione ‘crisi di vocazioni’, riferita al sacerdozio ministeriale, non avrà senso: le vocazioni principali saranno, come si è detto e come è sempre stato, al matrimonio e alla verginità consacrata. Tra loro emergeranno i vari carismi, poi riconosciuti in ministeri (compreso quello presbiterale), da parte della comunità, in comunione e sotto la guida del vescovo. E ogni piccola comunità potrà avere, ovviamente, più di un presbitero, avrà anzi normalmente un collegio presbiterale, con uomini e donne.

Lo sforzo maggiore (anche economico) delle diocesi sarà la cura dei giovani, per formare buoni coniugi e buoni celibi consacrati. Ci saranno pertanto cammini formativi ed esistenziali, con diverse ‘tappe provvisorie’ (ma talvolta stabili) e ‘passaggi’ volontari, per giungere ai consacrati con voti perpetui e ai coniugati con matrimonio indissolubile: i primi chiamati ad essere segno escatologico delle realtà ultime, del Regno di Dio che non è di questo mondo; i secondi ad essere segno di Cristo Sposo unito in un sol corpo, in una carne sola, con la Chiesa Sposa. Pertanto i piccoli e i poveri avranno sempre il primo posto e tutte le scelte ecclesiali saranno fatte ‘dal loro punto di vista’.

E non si potrà dare, in tale situazione, una realtà di ‘clericalismo’, cioè una separazione castale di una parte del Popolo di Dio dall’altra: del clero dal laicato. Né potranno darsi presbiteri sconosciuti alle comunità e imposti loro.

I celibi consacrati si asterranno dal trafficare con le realtà temporali, ma, annunciando i novissimi, denunceranno le ingiustizie di questo mondo, insieme con tutta la comunità. I vescovi e i presbiteri si guarderanno bene dall’ingerirsi nella vita politica e nella dialettica partitica, ma a tutti ricorderanno le verità evangeliche, le Beatitudini, dialogando fraternamente con ogni persona. Dagli altri cristiani - coniugati o celibi non consacrati - verranno coloro che si occuperanno della vita sociale e civile e, in particolare, della politica, con opzioni partitiche diverse, ma tutti tesi alla realizzazione della Civiltà dell’Amore, dalla parte dei poveri.

Gli storici della Chiesa avranno allora un grande problema da risolvere e si affaticheranno, con lunghi studi, a capire come mai la Chiesa - tra XX e XXI secolo - abbia impiegato tanto tempo, nonostante il Concilio Vaticano II, per superare definitivamente il ‘paradigma tridentino’, con le molteplici difficoltà e contraddizioni (tra cui la cosiddetta ‘crisi vocazionale’) che, nel mutato contesto storico, esso determinava.

A tali storici apparirà evidente che una forma organizzativa elaborata, con grande intelligenza e giusta intuizione, nel XVI secolo non potesse funzionare più in un’epoca storica completamente diversa, com’era ormai quattrocento anni dopo, quando tuttavia permaneva ancora. E si chiederanno perciò cosa determinasse tali e tante resistenze.

Qualche teologo-storico denominerà allora il XX-XXI secolo “l’età della Grande Anoressia”: quando, per la resistente permanenza di strutture organizzative desuete, il Popolo di Dio resisteva al soffio dello Spirito e quasi volontariamente rifiutava di nutrirsi dell’eucaristia (poco disponibile per scarsezza di clero) e dimagriva a vista d’occhio, riducendosi pressoché ad uno scheletro.

2. L’ora dei laici e l’ora dei preti

Quando oggi, a cinquant’anni dal Concilio Vaticano II, ci si chiede se è ormai giunta “l’ora dei laici” nella Chiesa, la risposta forse un po’ estremizzata (ma sincera) appare essere: è giunta... ed è passata... e non ci siamo accorti quasi di nulla. Certo è giunta: quante trasformazioni e cambiamenti, con nuove ministerialità laicali, nuovi movimenti, nuovi consigli pastorali!

Certo il laicato ‘regolare’ (cioè quello dei Movimenti, che hanno ciascuno proprie regole, un proprio Fondatore, propri dirigenti) è stato molto lanciato, anche se forse ha ormai espresso tutto quello che poteva esprimere.

Ma il laicato ‘secolare’, quello che continua a frequentare le parrocchie territoriali, con il loro carisma ‘universale’, che partecipa alle eucaristie domenicali: perché è stato dimenticato, emarginato, reso afono? Perché è stata ridimensionata l’Azione Cattolica, mortificando il suo carisma e rendendola sempre più simile a un Movimento tra gli altri? Perché non si parla più di “apostolato dei laici” ma di “aggregazioni laicali”: cioè non più laici apostoli, ma laici gregari?

C’era un vecchio indovinello. Un barcaiolo doveva traghettare, da una sponda all’altra di un fiume, un lupo, una pecora e un cavolo: e come poteva fare senza che la pecora mangiasse il cavolo e il lupo mangiasse la pecora? La soluzione era: traghetterà prima la pecora, poi tornerà indietro e prenderà il lupo, ma portatolo all’altra sponda, lo lascerà e riprenderà la pecora per riportarla indietro. Lasciata la pecora, prenderà allora il cavolo e lo depositerà dall’altra parte. Infine tornerà indietro a prendere la pecora.

Sembrerebbe quasi che sia avvenuta qualcosa del genere nel traghettare la Chiesa dalla sponda preconciliare a quella postconciliare. I laici (le pecorelle del gregge) sono stati i primi ad essere traghettati dai Vescovi nel postconcilio. Ma poi ci sono stati vari ritorni indietro, in particolare proprio per i laici. Oggi siamo al punto che Vescovi-traghettatori e laici sono nella sponda preconciliare, in attesa di ripartire ancora. Ma le acque del fiume non sono calme e c’è da aspettare. Ogni esempio zoppica e anche questa applicazione ha molte sbavature: ma forse rende l’idea...

In molti dei laici ‘secolari’ c’è una sensazione di ritorno indietro. Proprio chi è stato allevato a ‘pane e Concilio’ ha oggi l’impressione che si voglia rivalutare il preconcilio, quasi come se finora si fosse scherzato: ma sarebbe veramente un brutto scherzo (e non voglio dire “uno scherzo da prete”, perché non ci trovo nulla da ridere).

Si ritorna ad una liturgia di parata, da celebrazioni estetizzanti di massa, neo-barocche: il battezzato è riportato ad una presenza spettatoriale, sempre più segnata da applausi. Si ritorna all’infantilizzazione del laicato: il popolo-bambino, che non può crescere mai e non può diventare adulto e maturo (quasi da Tamburo di latta per colonna sonora...), e va imboccato in tutto, specialmente in politica. E i suoi talenti diventano ‘non negoziabili’ (tutta l’attenzione è concentrata appunto sul non-negoziare).

Si ritorna al trionfalismo di facciata: tutto va benissimo, in modo perfettissimo (e se qualcuno segnala problemi, si sbaglia: è lui il problema!). E poi basta con la medicina della misericordia, si ritorni alle armi della condanna. Anzi si ritorni tout court alle armi, per la santa battaglia e la crociata: i laici si compattino in quadrate legioni di Cristo e vadano allo scontro.

È questa l’ora dei laici? Forse dobbiamo onestamente ammettere che il clericalismo non è stato scalfito ed è ancora, più o meno evidentemente, dominante: acuito dall’angoscia per le poche vocazioni, a cui si pensa di ovviare, da una parte, ridando un ruolo ‘appetibile’, cioè leaderistico e superiore, al prete e, dall’altra, allargando le maglie della selezione dei candidati al sacerdozio ministeriale (preparando così, più o meno consapevolmente, delle ‘bombe ad orologeria’ che esploderanno più tardi). Un tempo si pregava perché il Signore mandi santi preti alla Chiesa, mentre oggi ci si accontenta di pregare perché mandi comunque qualche prete. Ma non bisognerebbe pregare (e operare) per avere sante famiglie? Da dove ‘spuntano’ mai i preti?

Non si tratta allora di parlare solo dei “laici”, quasi isolando questo “problema” per analizzarlo a sé. Si tratta di mettere a tema il “clericalismo”, cioè le patologie dei laici e del clero, nelle diverse forme, caratteri ed ambiti dei loro reciproci rapporti. Naturalmente non serve a nulla parlare polemicamente e con asprezza. Nell’attuale fallimento pastorale - che il clericalismo (come una spia infallibile) segnala - ci siamo dentro tutti e solo tutti insieme, aiutandoci l’un l’altro, possiamo sperare di uscirne. È possibile discuterne serenamente?

3. Gli effetti contemporanei del paradigma clericale tridentino

La società europea dell’età moderna - quella che si può chiamare di “antico regime” - era una società di ceti o di ordini, strutturalmente e rigidamente divisa in “stati”: Nobiltà; Clero; Terzo Stato. In questa società viveva un regime di “Cristianità”, sia pure ormai diviso e perciò confessionalmente definito: Paesi Cattolici e Paesi Protestanti, cuius regio eius religio.

Conseguentemente e coerentemente, la Chiesa cattolica, con il Concilio di Trento, puntava su una profonda riforma, spirituale e organizzativa, che faceva fulcro sul clero diocesano. Si toglievano precedenti abusi e scandali. Si istituivano i Seminari per formare in profondità coloro che dovevano costituire l’ossatura fondamentale della Chiesa e, insieme, della Cristianità: essendo riconosciuti come un ordine a sé.

La Chiesa, cioè, si strutturava in modo speculare allo Stato moderno. Se lo Stato moderno presentava Monarchia assoluta (con una Corte e un governo centrale), Burocrazia, Esercito, la Chiesa cattolica a sua volta si organizzava con Monarchia papale assoluta (con una Curia e un centralismo romano), Clero diocesano (uniformemente educato nei Seminari), Compagnia di Gesù.

Il ‘paradigma tridentino’, a trazione clericale, ha efficacemente operato per tutta l’età moderna, ripensandosi poi, con difficoltà, ma comunque permanendo anche nell’Ottocento e nel Novecento.

Il Concilio Vaticano II ha, a sua volta, promosso una altrettanto profonda riforma cattolica: se il Concilio di Trento ha fatto centro sul clero, il Vaticano II ha fatto centro sul laicato. Perciò se non si promuove veramente il laicato, non si promuove veramente la riforma cattolica e perciò la nuova evangelizzazione, indicate e ispirate dal Vaticano II.

Ma perché ciò si realizzi è pur necessaria una fase storica di progressiva evoluzione e di superamento del paradigma tridentino. Non siamo più infatti in una società cetuale di antico regime e in situazione di Cristianità: viviamo in una società democratica, laica e fortemente secolarizzata, pluralistica, con crescenti presenze multireligiose. Siamo in un multiverso, normalmente non gerarchizzato, di corpi collettivi, enti sociali, realtà associative, con una pluralità di ordinamenti normativi e perfino giuridici, di portata diversa.

La Chiesa cattolica non è più complanare all’intera società, riconosciuta concordemente (e perciò concordatariamente) da tutti, come società giuridicamente perfetta, a cui si appartiene anagraficamente, per nascita, ma è una associazione volontaria, tra altre, e il clero non ha più un riconoscimento cetuale, gerarchicamente superiore al ‘terzo stato’. Che effetti provoca allora, inevitabilmente, il paradigma tridentino in questo contesto storico così sociologicamente mutato?

Immaginiamoci un’Associazione che ponga il suo maggiore sforzo economico nel formare, per un lungo periodo, un corpo di funzionari: in luoghi separati, con un sapere specialistico loro proprio, con un forte spirito di corpo, con una netta identità, marcata perfino da un abito-divisa uniforme (e con le distinzioni gerarchiche di grado). Aggiungiamo che questi funzionari non debbano avere famiglia, ma siano obbligatoriamente celibi, che perciò si dedichino alla loro funzione a tempo pieno e che la loro carriera intrassociativa avvenga per cooptazione e designazione dall’alto.

Ora a me pare che sia inevitabile - per legge sociologica necessaria - che tali funzionari diventino una casta separata dagli altri membri dell’associazione e che la loro funzione di servizio si trasformi in una inespugnabile e immodificabile posizione monopolistica di potere, talmente ovvia da essere considerata normale e giusta dagli stessi funzionari (e, per comodità, perfino dai meno interessati degli altri membri).

È questo, mi pare, l’anacronistico e distorcente effetto del paradigma tridentino nel mondo contemporaneo: stanno qui la sociogenesi e la psicogenesi del clericalismo. E ciò spiega pure la ‘coscienza infelice’ ma anche la sostanziale impotenza di tanti generosi presbiteri, che pure vorrebbero superare ogni clericalismo. A parole, poi, sono ormai pochi coloro così vetero-autoritari da difendere il clericalismo: molti di più sono quelli che di fatto lo perpetuano con i loro pensieri, opere ed omissioni.

4. Abituarsi a convivere

Realisticamente il clericalismo non sarà superato velocemente (e del resto forse non sarebbe neppure auspicabile, nel senso che una smobilitazione rapida avrebbe effetti disorientanti imprevedibili).

Da giovane, leggendo i documenti del Concilio Vaticano II, ero convinto che il clericalismo fosse una patologia ecclesiologica dai giorni contati e la combattevo con passione e fierezza laicale. Oggi sono giunto a quell’età in cui i medici quando ti diagnosticano qualche più o meno lieve malanno ti dicono: non ne può guarire, ci deve convivere.

Ecco, penso proprio che non vedrò la guarigione dal clericalismo (non potendo giungere al XXII secolo) e che ormai non mi resti che abituarmi a conviverci. Può sembrare una conclusione deprimente e minimale, ma non credo poi che sia così: c’è infatti un importante spazio di movimento e di graduale miglioramento. Possibile e perciò doveroso: se si può, allora si deve.

È da ricordare innanzi tutto - anche se può sembrare scontato - che i più veri e forti antidoti per combattere il clericalismo sono la Parola di Dio e l’Eucaristia. Quanto più la Chiesa cerca di conformarsi al Vangelo, quanto più è realmente comunità eucaristica tanto più si declericalizza.

Un secondo passaggio è riprendere il magistero del Concilio Vaticano II e perciò mirare - se non proprio alla corresponsabilità (tanto evocata in Lettere pastorali, omelie, prediche quanto poco praticata nella realtà) - a rapporti fraterni tra clero e laicato. Non tanto ai ‘rapporti familiari’ (di cui pure parla il Concilio): perché il termine può essere ambiguo e coprire un paternalismo dissimulato.

Meglio dunque ‘rapporti fraterni’: “I Presbiteri sono stati presi fra gli uomini e costituiti in favore degli uomini stessi nelle cose che si riferiscono a Dio, per offrire doni e sacrifici in remissione dei peccati: vivono quindi in mezzo agli altri uomini come fratelli in mezzo a fratelli. [...] Per raggiungere questo scopo, di grande giovamento risultano quelle virtù che giustamente sono molto apprezzate nella società umana, come ad esempio la bontà, la sincerità, la fermezza d’animo e la costanza, la continua cura per la giustizia, la gentilezza e tutte le altre virtù che raccomanda l’Apostolo Paolo” (Presbyterorum Ordinis, n. 3).

La cortesia, secondo l’insegnamento del Beato Giovanni XXIII, è la prima forma della carità. Sarebbe troppo sperare di avere preti cortesi e gentili? Certo è bene che tutti nella comunità ecclesiale si sforzino di essere rispettosi, cortesi e gentili. Ma ciò mi pare assolutamente necessario per i pastori.

Non è il caso di addentrarci in minuti e articolati approfondimenti sulle caratteristiche psicologiche e sulle dinamiche sociali fondamentali della società contemporanea, che attraversa cambiamenti veloci. Ma mi pare che, nel nostro contesto storico, la nuova evangelizzazione resterà un puro slogan se non sorreggerà vere, autentiche, significative relazioni personali tra i preti e gli altri cristiani: la qualità della relazione diventa fondamentale.

La relazione è, insieme, passaggio ineludibile di pre-evangelizzazione e spia della sincerità esistenziale dell’evangelizzatore quale testimone. Coloro che vogliono essere maestri devono essere prima di tutto testimoni: e la testimonianza non è credibile se non irrora una relazione diretta, piena, sincera, appunto veramente fraterna. La capacità di tessere relazioni interpersonali innervate di spirito evangelico è il nuovo nome della santità pastorale.

Mons. Luigi Serenthà, Rettore Maggiore dei seminari milanesi al tempo del card. Martini e precocemente scomparso, affermava, con grande lucidità: “Il prete che fa tutto da solo, che gestisce come un padrone la propria parrocchia, sganciato da una struttura presbiterale più ampia (il decanato, la città, la diocesi, eccetera) e sganciato da ogni reale collaborazione con tutte le forme carismatiche e ministeriali presenti nella comunità, presenti in tutti coloro che hanno una vocazione (da vivere in questo o in quell’altro ambiente), è una figura inaccettabile, è una figura improduttiva. Soltanto un prete che vive intensamente la fraternità, la comunione con gli altri fratelli del presbiterio, e con tutti i fratelli di fede variamente impegnati nei ministeri, intra ed extra parrocchiali, è un prete che interpreta le esigenze di ritorno al Vangelo, di obbedienza allo Spirito e di fedeltà alla croce, che è l’esigenza tipica della vita pastorale contemporanea. [...] Per cui, anche un bravissimo ragazzo che ha tutte le doti di questo mondo, ma ha poca capacità relazionale, non penso che sia adatto a fare il prete nella diocesi di Milano, oggi, perlomeno. Deve abituarsi, quasi, ad una vita relazionale che non sia soltanto un obbligo di galateo, o di convivenza civile, o un obbligo di generica fraternità cristiana, ma uno stile pastorale, un’abitudine a tener conto degli altri, a lavorare insieme con gli altri, a pensare insieme con gli altri la vita”.

Non è semplice e gli ostacoli sono tanti. Ma non è impossibile avere preti con questo stile pastorale, che sanno costruire vere relazioni umane, spirituali, collaborative. Certo c’è chi, anche a questo proposito, auspica passi indietro, verso tradizionalismi ierocratici, che forse possono rassicurare piccolissimi gruppi (di personalità psicologicamente insicure, ma che risultano totalmente fuori dalla realtà umana di oggi).

Ma preti e laici che amano sinceramente la Chiesa e si amareggiano per le sue difficoltà contemporanee non troveranno vere e giustissime le parole di mons. Serenthà? Signore Gesù, dona santi battezzati, sante famiglie, santi presbiteri alla tua Chiesa: tutti figli dell’unico Padre, fratelli tuoi e perciò fratelli tra loro.

* FONTE: FINESETTIMANA.ORG


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