[...] Quando oggi, a cinquant’anni dal Concilio Vaticano II, ci si chiede se è ormai giunta “l’ora dei laici” nella Chiesa, la risposta forse un po’ estremizzata (ma sincera) appare essere: è giunta... ed è passata... e non ci siamo accorti quasi di nulla. [...]
Cosa blocca l’orologio della storia?
di Fulvio De Giorgi (“Presbyteri”, n. 2, febbraio 2013)
1. Nella Chiesa del XXII secolo
Con un esercizio di ‘fantasia pastorale’ spostiamo decisamente in avanti l’orologio, anzi il calendario della storia. Quale sarà la Chiesa nel 2113? Forse ci sarà già stato il Concilio Vaticano III o forse no... La Chiesa si articolerà nelle tante piccole comunità ecclesiali viventi, sparse sul territorio. Rifulgeranno le due ‘vocazioni’ fondamentali: alla verginità consacrata e al matrimonio. E dalla prima verranno, prevalentemente, i vescovi a reggere le diocesi, indicati - se non proprio eletti - da tutti i cristiani di quelle chiese locali. Prevalentemente dai coniugati, invece, dopo una lunga e provata testimonianza di vita, le piccole comunità eleggeranno gli ‘anziani’ (maschi o femmine), chiamati a presiedere l’eucaristia e a guidare spiritualmente quelle ‘chiese tra le case’: il vescovo vaglierà gli eletti e li ordinerà per quel ministero. Non si chiameranno ‘sacerdoti’, perché ovviamente tutti i battezzati adulti, cioè i ‘santi’ o ‘cristiani’, sapranno di essere sacerdoti, in forza del battesimo. Saranno appellati ‘anziani’ (o, che è lo stesso, ‘presbiteri’, ‘preti’), chiamati al sacerdozio ministeriale.
Non ci potranno essere mai, allora, pochi preti e l’espressione ‘crisi di vocazioni’, riferita al sacerdozio ministeriale, non avrà senso: le vocazioni principali saranno, come si è detto e come è sempre stato, al matrimonio e alla verginità consacrata. Tra loro emergeranno i vari carismi, poi riconosciuti in ministeri (compreso quello presbiterale), da parte della comunità, in comunione e sotto la guida del vescovo. E ogni piccola comunità potrà avere, ovviamente, più di un presbitero, avrà anzi normalmente un collegio presbiterale, con uomini e donne.
Lo sforzo maggiore (anche economico) delle diocesi sarà la cura dei giovani, per formare buoni coniugi e buoni celibi consacrati. Ci saranno pertanto cammini formativi ed esistenziali, con diverse ‘tappe provvisorie’ (ma talvolta stabili) e ‘passaggi’ volontari, per giungere ai consacrati con voti perpetui e ai coniugati con matrimonio indissolubile: i primi chiamati ad essere segno escatologico delle realtà ultime, del Regno di Dio che non è di questo mondo; i secondi ad essere segno di Cristo Sposo unito in un sol corpo, in una carne sola, con la Chiesa Sposa. Pertanto i piccoli e i poveri avranno sempre il primo posto e tutte le scelte ecclesiali saranno fatte ‘dal loro punto di vista’.
E non si potrà dare, in tale situazione, una realtà di ‘clericalismo’, cioè una separazione castale di una parte del Popolo di Dio dall’altra: del clero dal laicato. Né potranno darsi presbiteri sconosciuti alle comunità e imposti loro.
I celibi consacrati si asterranno dal trafficare con le realtà temporali, ma, annunciando i novissimi, denunceranno le ingiustizie di questo mondo, insieme con tutta la comunità. I vescovi e i presbiteri si guarderanno bene dall’ingerirsi nella vita politica e nella dialettica partitica, ma a tutti ricorderanno le verità evangeliche, le Beatitudini, dialogando fraternamente con ogni persona. Dagli altri cristiani - coniugati o celibi non consacrati - verranno coloro che si occuperanno della vita sociale e civile e, in particolare, della politica, con opzioni partitiche diverse, ma tutti tesi alla realizzazione della Civiltà dell’Amore, dalla parte dei poveri.
Gli storici della Chiesa avranno allora un grande problema da risolvere e si affaticheranno, con lunghi studi, a capire come mai la Chiesa - tra XX e XXI secolo - abbia impiegato tanto tempo, nonostante il Concilio Vaticano II, per superare definitivamente il ‘paradigma tridentino’, con le molteplici difficoltà e contraddizioni (tra cui la cosiddetta ‘crisi vocazionale’) che, nel mutato contesto storico, esso determinava.
A tali storici apparirà evidente che una forma organizzativa elaborata, con grande intelligenza e giusta intuizione, nel XVI secolo non potesse funzionare più in un’epoca storica completamente diversa, com’era ormai quattrocento anni dopo, quando tuttavia permaneva ancora. E si chiederanno perciò cosa determinasse tali e tante resistenze.
Qualche teologo-storico denominerà allora il XX-XXI secolo “l’età della Grande Anoressia”: quando, per la resistente permanenza di strutture organizzative desuete, il Popolo di Dio resisteva al soffio dello Spirito e quasi volontariamente rifiutava di nutrirsi dell’eucaristia (poco disponibile per scarsezza di clero) e dimagriva a vista d’occhio, riducendosi pressoché ad uno scheletro.
2. L’ora dei laici e l’ora dei preti
Quando oggi, a cinquant’anni dal Concilio Vaticano II, ci si chiede se è ormai giunta “l’ora dei laici” nella Chiesa, la risposta forse un po’ estremizzata (ma sincera) appare essere: è giunta... ed è passata... e non ci siamo accorti quasi di nulla. Certo è giunta: quante trasformazioni e cambiamenti, con nuove ministerialità laicali, nuovi movimenti, nuovi consigli pastorali!
Certo il laicato ‘regolare’ (cioè quello dei Movimenti, che hanno ciascuno proprie regole, un proprio Fondatore, propri dirigenti) è stato molto lanciato, anche se forse ha ormai espresso tutto quello che poteva esprimere.
Ma il laicato ‘secolare’, quello che continua a frequentare le parrocchie territoriali, con il loro carisma ‘universale’, che partecipa alle eucaristie domenicali: perché è stato dimenticato, emarginato, reso afono? Perché è stata ridimensionata l’Azione Cattolica, mortificando il suo carisma e rendendola sempre più simile a un Movimento tra gli altri? Perché non si parla più di “apostolato dei laici” ma di “aggregazioni laicali”: cioè non più laici apostoli, ma laici gregari?
C’era un vecchio indovinello. Un barcaiolo doveva traghettare, da una sponda all’altra di un fiume, un lupo, una pecora e un cavolo: e come poteva fare senza che la pecora mangiasse il cavolo e il lupo mangiasse la pecora? La soluzione era: traghetterà prima la pecora, poi tornerà indietro e prenderà il lupo, ma portatolo all’altra sponda, lo lascerà e riprenderà la pecora per riportarla indietro. Lasciata la pecora, prenderà allora il cavolo e lo depositerà dall’altra parte. Infine tornerà indietro a prendere la pecora.
Sembrerebbe quasi che sia avvenuta qualcosa del genere nel traghettare la Chiesa dalla sponda preconciliare a quella postconciliare. I laici (le pecorelle del gregge) sono stati i primi ad essere traghettati dai Vescovi nel postconcilio. Ma poi ci sono stati vari ritorni indietro, in particolare proprio per i laici. Oggi siamo al punto che Vescovi-traghettatori e laici sono nella sponda preconciliare, in attesa di ripartire ancora. Ma le acque del fiume non sono calme e c’è da aspettare. Ogni esempio zoppica e anche questa applicazione ha molte sbavature: ma forse rende l’idea...
In molti dei laici ‘secolari’ c’è una sensazione di ritorno indietro. Proprio chi è stato allevato a ‘pane e Concilio’ ha oggi l’impressione che si voglia rivalutare il preconcilio, quasi come se finora si fosse scherzato: ma sarebbe veramente un brutto scherzo (e non voglio dire “uno scherzo da prete”, perché non ci trovo nulla da ridere).
Si ritorna ad una liturgia di parata, da celebrazioni estetizzanti di massa, neo-barocche: il battezzato è riportato ad una presenza spettatoriale, sempre più segnata da applausi. Si ritorna all’infantilizzazione del laicato: il popolo-bambino, che non può crescere mai e non può diventare adulto e maturo (quasi da Tamburo di latta per colonna sonora...), e va imboccato in tutto, specialmente in politica. E i suoi talenti diventano ‘non negoziabili’ (tutta l’attenzione è concentrata appunto sul non-negoziare).
Si ritorna al trionfalismo di facciata: tutto va benissimo, in modo perfettissimo (e se qualcuno segnala problemi, si sbaglia: è lui il problema!). E poi basta con la medicina della misericordia, si ritorni alle armi della condanna. Anzi si ritorni tout court alle armi, per la santa battaglia e la crociata: i laici si compattino in quadrate legioni di Cristo e vadano allo scontro.
È questa l’ora dei laici? Forse dobbiamo onestamente ammettere che il clericalismo non è stato scalfito ed è ancora, più o meno evidentemente, dominante: acuito dall’angoscia per le poche vocazioni, a cui si pensa di ovviare, da una parte, ridando un ruolo ‘appetibile’, cioè leaderistico e superiore, al prete e, dall’altra, allargando le maglie della selezione dei candidati al sacerdozio ministeriale (preparando così, più o meno consapevolmente, delle ‘bombe ad orologeria’ che esploderanno più tardi). Un tempo si pregava perché il Signore mandi santi preti alla Chiesa, mentre oggi ci si accontenta di pregare perché mandi comunque qualche prete. Ma non bisognerebbe pregare (e operare) per avere sante famiglie? Da dove ‘spuntano’ mai i preti?
Non si tratta allora di parlare solo dei “laici”, quasi isolando questo “problema” per analizzarlo a sé. Si tratta di mettere a tema il “clericalismo”, cioè le patologie dei laici e del clero, nelle diverse forme, caratteri ed ambiti dei loro reciproci rapporti. Naturalmente non serve a nulla parlare polemicamente e con asprezza. Nell’attuale fallimento pastorale - che il clericalismo (come una spia infallibile) segnala - ci siamo dentro tutti e solo tutti insieme, aiutandoci l’un l’altro, possiamo sperare di uscirne. È possibile discuterne serenamente?
3. Gli effetti contemporanei del paradigma clericale tridentino
La società europea dell’età moderna - quella che si può chiamare di “antico regime” - era una società di ceti o di ordini, strutturalmente e rigidamente divisa in “stati”: Nobiltà; Clero; Terzo Stato. In questa società viveva un regime di “Cristianità”, sia pure ormai diviso e perciò confessionalmente definito: Paesi Cattolici e Paesi Protestanti, cuius regio eius religio.
Conseguentemente e coerentemente, la Chiesa cattolica, con il Concilio di Trento, puntava su una profonda riforma, spirituale e organizzativa, che faceva fulcro sul clero diocesano. Si toglievano precedenti abusi e scandali. Si istituivano i Seminari per formare in profondità coloro che dovevano costituire l’ossatura fondamentale della Chiesa e, insieme, della Cristianità: essendo riconosciuti come un ordine a sé.
La Chiesa, cioè, si strutturava in modo speculare allo Stato moderno. Se lo Stato moderno presentava Monarchia assoluta (con una Corte e un governo centrale), Burocrazia, Esercito, la Chiesa cattolica a sua volta si organizzava con Monarchia papale assoluta (con una Curia e un centralismo romano), Clero diocesano (uniformemente educato nei Seminari), Compagnia di Gesù.
Il ‘paradigma tridentino’, a trazione clericale, ha efficacemente operato per tutta l’età moderna, ripensandosi poi, con difficoltà, ma comunque permanendo anche nell’Ottocento e nel Novecento.
Il Concilio Vaticano II ha, a sua volta, promosso una altrettanto profonda riforma cattolica: se il Concilio di Trento ha fatto centro sul clero, il Vaticano II ha fatto centro sul laicato. Perciò se non si promuove veramente il laicato, non si promuove veramente la riforma cattolica e perciò la nuova evangelizzazione, indicate e ispirate dal Vaticano II.
Ma perché ciò si realizzi è pur necessaria una fase storica di progressiva evoluzione e di superamento del paradigma tridentino. Non siamo più infatti in una società cetuale di antico regime e in situazione di Cristianità: viviamo in una società democratica, laica e fortemente secolarizzata, pluralistica, con crescenti presenze multireligiose. Siamo in un multiverso, normalmente non gerarchizzato, di corpi collettivi, enti sociali, realtà associative, con una pluralità di ordinamenti normativi e perfino giuridici, di portata diversa.
La Chiesa cattolica non è più complanare all’intera società, riconosciuta concordemente (e perciò concordatariamente) da tutti, come società giuridicamente perfetta, a cui si appartiene anagraficamente, per nascita, ma è una associazione volontaria, tra altre, e il clero non ha più un riconoscimento cetuale, gerarchicamente superiore al ‘terzo stato’. Che effetti provoca allora, inevitabilmente, il paradigma tridentino in questo contesto storico così sociologicamente mutato?
Immaginiamoci un’Associazione che ponga il suo maggiore sforzo economico nel formare, per un lungo periodo, un corpo di funzionari: in luoghi separati, con un sapere specialistico loro proprio, con un forte spirito di corpo, con una netta identità, marcata perfino da un abito-divisa uniforme (e con le distinzioni gerarchiche di grado). Aggiungiamo che questi funzionari non debbano avere famiglia, ma siano obbligatoriamente celibi, che perciò si dedichino alla loro funzione a tempo pieno e che la loro carriera intrassociativa avvenga per cooptazione e designazione dall’alto.
Ora a me pare che sia inevitabile - per legge sociologica necessaria - che tali funzionari diventino una casta separata dagli altri membri dell’associazione e che la loro funzione di servizio si trasformi in una inespugnabile e immodificabile posizione monopolistica di potere, talmente ovvia da essere considerata normale e giusta dagli stessi funzionari (e, per comodità, perfino dai meno interessati degli altri membri).
È questo, mi pare, l’anacronistico e distorcente effetto del paradigma tridentino nel mondo contemporaneo: stanno qui la sociogenesi e la psicogenesi del clericalismo. E ciò spiega pure la ‘coscienza infelice’ ma anche la sostanziale impotenza di tanti generosi presbiteri, che pure vorrebbero superare ogni clericalismo. A parole, poi, sono ormai pochi coloro così vetero-autoritari da difendere il clericalismo: molti di più sono quelli che di fatto lo perpetuano con i loro pensieri, opere ed omissioni.
4. Abituarsi a convivere
Realisticamente il clericalismo non sarà superato velocemente (e del resto forse non sarebbe neppure auspicabile, nel senso che una smobilitazione rapida avrebbe effetti disorientanti imprevedibili).
Da giovane, leggendo i documenti del Concilio Vaticano II, ero convinto che il clericalismo fosse una patologia ecclesiologica dai giorni contati e la combattevo con passione e fierezza laicale. Oggi sono giunto a quell’età in cui i medici quando ti diagnosticano qualche più o meno lieve malanno ti dicono: non ne può guarire, ci deve convivere.
Ecco, penso proprio che non vedrò la guarigione dal clericalismo (non potendo giungere al XXII secolo) e che ormai non mi resti che abituarmi a conviverci. Può sembrare una conclusione deprimente e minimale, ma non credo poi che sia così: c’è infatti un importante spazio di movimento e di graduale miglioramento. Possibile e perciò doveroso: se si può, allora si deve.
È da ricordare innanzi tutto - anche se può sembrare scontato - che i più veri e forti antidoti per combattere il clericalismo sono la Parola di Dio e l’Eucaristia. Quanto più la Chiesa cerca di conformarsi al Vangelo, quanto più è realmente comunità eucaristica tanto più si declericalizza.
Un secondo passaggio è riprendere il magistero del Concilio Vaticano II e perciò mirare - se non proprio alla corresponsabilità (tanto evocata in Lettere pastorali, omelie, prediche quanto poco praticata nella realtà) - a rapporti fraterni tra clero e laicato. Non tanto ai ‘rapporti familiari’ (di cui pure parla il Concilio): perché il termine può essere ambiguo e coprire un paternalismo dissimulato.
Meglio dunque ‘rapporti fraterni’: “I Presbiteri sono stati presi fra gli uomini e costituiti in favore degli uomini stessi nelle cose che si riferiscono a Dio, per offrire doni e sacrifici in remissione dei peccati: vivono quindi in mezzo agli altri uomini come fratelli in mezzo a fratelli. [...] Per raggiungere questo scopo, di grande giovamento risultano quelle virtù che giustamente sono molto apprezzate nella società umana, come ad esempio la bontà, la sincerità, la fermezza d’animo e la costanza, la continua cura per la giustizia, la gentilezza e tutte le altre virtù che raccomanda l’Apostolo Paolo” (Presbyterorum Ordinis, n. 3).
La cortesia, secondo l’insegnamento del Beato Giovanni XXIII, è la prima forma della carità. Sarebbe troppo sperare di avere preti cortesi e gentili? Certo è bene che tutti nella comunità ecclesiale si sforzino di essere rispettosi, cortesi e gentili. Ma ciò mi pare assolutamente necessario per i pastori.
Non è il caso di addentrarci in minuti e articolati approfondimenti sulle caratteristiche psicologiche e sulle dinamiche sociali fondamentali della società contemporanea, che attraversa cambiamenti veloci. Ma mi pare che, nel nostro contesto storico, la nuova evangelizzazione resterà un puro slogan se non sorreggerà vere, autentiche, significative relazioni personali tra i preti e gli altri cristiani: la qualità della relazione diventa fondamentale.
La relazione è, insieme, passaggio ineludibile di pre-evangelizzazione e spia della sincerità esistenziale dell’evangelizzatore quale testimone. Coloro che vogliono essere maestri devono essere prima di tutto testimoni: e la testimonianza non è credibile se non irrora una relazione diretta, piena, sincera, appunto veramente fraterna. La capacità di tessere relazioni interpersonali innervate di spirito evangelico è il nuovo nome della santità pastorale.
Mons. Luigi Serenthà, Rettore Maggiore dei seminari milanesi al tempo del card. Martini e precocemente scomparso, affermava, con grande lucidità: “Il prete che fa tutto da solo, che gestisce come un padrone la propria parrocchia, sganciato da una struttura presbiterale più ampia (il decanato, la città, la diocesi, eccetera) e sganciato da ogni reale collaborazione con tutte le forme carismatiche e ministeriali presenti nella comunità, presenti in tutti coloro che hanno una vocazione (da vivere in questo o in quell’altro ambiente), è una figura inaccettabile, è una figura improduttiva. Soltanto un prete che vive intensamente la fraternità, la comunione con gli altri fratelli del presbiterio, e con tutti i fratelli di fede variamente impegnati nei ministeri, intra ed extra parrocchiali, è un prete che interpreta le esigenze di ritorno al Vangelo, di obbedienza allo Spirito e di fedeltà alla croce, che è l’esigenza tipica della vita pastorale contemporanea. [...] Per cui, anche un bravissimo ragazzo che ha tutte le doti di questo mondo, ma ha poca capacità relazionale, non penso che sia adatto a fare il prete nella diocesi di Milano, oggi, perlomeno. Deve abituarsi, quasi, ad una vita relazionale che non sia soltanto un obbligo di galateo, o di convivenza civile, o un obbligo di generica fraternità cristiana, ma uno stile pastorale, un’abitudine a tener conto degli altri, a lavorare insieme con gli altri, a pensare insieme con gli altri la vita”.
Non è semplice e gli ostacoli sono tanti. Ma non è impossibile avere preti con questo stile pastorale, che sanno costruire vere relazioni umane, spirituali, collaborative. Certo c’è chi, anche a questo proposito, auspica passi indietro, verso tradizionalismi ierocratici, che forse possono rassicurare piccolissimi gruppi (di personalità psicologicamente insicure, ma che risultano totalmente fuori dalla realtà umana di oggi).
Ma preti e laici che amano sinceramente la Chiesa e si amareggiano per le sue difficoltà contemporanee non troveranno vere e giustissime le parole di mons. Serenthà? Signore Gesù, dona santi battezzati, sante famiglie, santi presbiteri alla tua Chiesa: tutti figli dell’unico Padre, fratelli tuoi e perciò fratelli tra loro.
* FONTE: FINESETTIMANA.ORG
Materiali per rifletterere:
Della giustizia educativa
di Fulvio De Giorgi
in “Viandanti (www.viandanti.org) del 29 maggio 2013
Il 90° anniversario della nascita di don Lorenzo Milani (27 maggio 1923) è giunto pressoché contemporaneamente al referendum bolognese sulla scuola dell’infanzia che ha riacceso un dibattito nazionale ancora sui diritti e sulla natura pubblica della scuola cattolica.
Non intendo riprendere la questione della libertà educativa , peraltro segnalata dal card. Bagnasco nella sua recente prolusione all’assemblea della CEI, nella quale ha affermato: “ancora una volta chiediamo che si riconosca concretamente il diritto dei genitori a educare i figli secondo le proprie convinzioni. Sempre di più, invece, sono costretti a rinunciare sotto la pressione della crisi e la persistente latitanza dello Stato”.
Ascoltare il racconto di chi soffre
Senza negare la questione della “libertà”, mi pare più urgente, alla luce dei segni dei tempi, sviluppare qualche considerazione, proprio alla luce della lezione milaniana, sulla questione della giustizia educativa . Siamo infatti, come ha detto il papa ai vescovi italiani, “consapevoli della debolezza della nostra libertà, insidiata com’è da mille condizionamenti interni ed esterni, che spesso suscitano smarrimento, frustrazione, persino incredulità. Non sono certamente questi i sentimenti e gli atteggiamenti che il Signore intende suscitare; piuttosto, di essi approfitta il Nemico, il Diavolo, per isolare nell’amarezza, nella lamentela e nello scoraggiamento”. Ritroveremo, invece, “la gioia di una Chiesa serva, umile, fraterna”, se saremo “capaci di ascoltare il silenzioso racconto di chi soffre e di sostenere il passo di chi teme di non farcela; attenti a rialzare, a rassicurare e a infondere speranza. Dalla condivisione con gli umili la nostra fede esce sempre rafforzata: mettiamo da parte, quindi, ogni forma di supponenza, per chinarci su quanti il Signore ha affidato alla nostra sollecitudine”.
“Esclusivamente o di preferenza”
Queste bellissime parole del papa - delle quali avvertiamo l’importanza e che speriamo siano presto valorizzate, sul piano pastorale complessivo, dalla Chiesa italiana - ci suggeriscono che, nel discutere delle “scuole cattoliche” con un atteggiamento di dialogo verso tutti, non dobbiamo dimenticarci il loro carisma d’origine, quasi direi la loro ‘ragione sociale’: che se per qualche congregazione insegnante è stata l’educazione delle classi dirigenti, per la maggior parte è stata l’educazione del popolo.
Il Concilio Vaticano II ha invitato Pastori e fedeli ad aiutare le scuole cattoliche affinché possano “venire incontro soprattutto alle necessità di coloro che non hanno mezzi economici o sono privi dell’aiuto e dell’affetto della famiglia o sono lontani dal dono della fede” ( Gravissimum educationis , n. 9). E la Congregazione per l’Educazione Cattolica ha precisato: “Poiché l’educazione è un efficace mezzo di progresso sociale ed economico dell’individuo, se la Scuola Cattolica rivolgesse le sue cure esclusivamente o di preferenza ai membri di alcune classi sociali più abbienti contribuirebbe ad affermare la loro posizione più vantaggiosa rispetto ad altre e favorirebbe un ordine sociale ingiusto” (La scuola cattolica, n. 58).
La lezione di don Milani
E questo, appunto, ci ricorda don Milani. In Lettera a una professoressa i ragazzi della scuola di Barbiana rimproveravano la scuola statale di far parti uguali tra poveri e ricchi. E aggiungevano: “Certe scuole di preti sono più leali. Sono strumento della lotta di classe e non lo nascondono a nessuno. Dai barnabiti a Firenze la retta d’un semiconvittore è di 40.000 lire al mese. Dagli scolopi 36.000. Mattina e sera al servizio d’un padrone solo. Non a servire due padroni come voi”.
Oggi la situazione è molto cambiata, ci sono congregazioni religiose silenziosamente impegnate sulla frontiera della povertà, ma vale, comunque, sempre la domanda: che dire di una Chiesa povera e per i poveri (secondo la prospettiva conciliare, riaffermata da papa Francesco) che gestisse scuole per i ricchi? Sarebbe certo un suo diritto, legale e legittimamente acquisito, ma avrebbe senso? Sarebbe segno evangelico? Renderebbe veramente manifesta e comprensibile a tutti la sincerità (senza interessi o secondi fini) dell’azione della Chiesa? Non dice il Concilio che la Chiesa “rinunzierà all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso potesse far dubitare della sincerità della sua testimonianza” (Gaudium et spes, n. 76)?
Fare strada ai poveri senza farsi strada
Sul presente delle scuole cattoliche è difficile dire una parola unica, tanto diverse sono le esperienze. Sicuramente, tuttavia, il loro futuro, come le loro origini, sta nel fuggire - per usare le parole del papa - “la lusinga del denaro e i compromessi con lo spirito del mondo”, e dunque - per usare accenti milaniani - nel fare “strada ai poveri senza farsi strada”. Gli allievi delle scuole cattoliche dovrebbero essere, nella maggioranza, figli dei poveri, degli extra-comunitari, degli emarginati o senza famiglia o disabili. Se la libertà educativa vuole che le scuole cattoliche siano aperte a tutti, la giustizia educativa vuole che esse diano il meglio delle loro energie pedagogiche agli ultimi. E solo così - nella classifica evangelica ed escatologica delle scuole - saranno le prime.
E certamente un gesto significativo - per segnare una svolta pastorale verso una nuova evangelizzazione, cioè verso un annuncio del Vangelo, non delle strutture - sarebbe se la CEI dedicasse una parte dell’8 per mille ad aiutare quelle scuole - senza differenze tra statali, comunali o autonome paritarie - che danno il meglio per i figli dei poveri. Sarebbe veramente la “parte milaniana”.
Fulvio De Giorgi
Docente di Storia dell’Educazione all’Università di Modena e Reggio Emilia. Coordinatore del
Gruppo di Riflessione e Proposta di Viandanti.
PER MATERIALI SUL CASO BOLOGNA, CFR:
BOLOGNA-REFERENDUM. COSTITUZIONE E FINANZIAMENTI ALLE SCUOLE PRIVATE.
UN APPELLO PER LA PACE: UN NUOVO CONCILIO, SUBITO!
Caro Cardinale Martini
“Era””, “è ”: GESU’, IL SALoMONE, IL PESCE (“Ixthus”), sempre libero dalle reti del Pastore-Pescatore (del IV sec.)!
di Federico La Sala *
Karol Wojtyla, il grande Giovanni Paolo II è morto! E se è vero che “il mondo - come ha detto il nuovo papa - viene salvato dal Crocifisso e non dai crocifissori”, è anche vero che nel IV secolo - con il ‘pallio’ ... di Roma, comincia “la grande politica” - muore il cristianesimo e nasce l’impero cattolico-romano. La religione ebraica diventa passato, archeologia, e la religione cattolico-romana diventa storia, presente e futuro. Contro ogni tentennamento, la “Dominus Jesus” non è stata scritta invano e la prima Omelia (24 aprile 2005) di Ratzinger - Benedetto XVI ha chiarito subito, senza mezzi termini, a tutti i fratelli e a tutte le sorelle, chi è il fratello maggiore (e chi sono - i fratelli maggiori)... chi è il nuovo Papa, e qual è la “nuova Gerusalemme”.
Per Ratzinger - BenedettoXVI non c’è nessun dubbio e nessun passo indietro da fare. Finalmente un passo avanti è stato fatto. Guardino pure i sudditi dell’Urbe, e dell’Orbi: il “distintivo” cattolico è qui! Ma Wojtyla? Giovanni Paolo II? La visita alla Sinagoga di Roma? Toaff? - La Sinagoga?! Toaff?! Gerusalemme?!: “Roma omnia vincit”, non Amor...! Rilegga l’Omelia (www.ildialogo.org/primopiano): la Chiesa cattolico-romana è viva, vince alla grande, im-mediaticamente! Rifletta almeno su questi “passaggi”:
"Cari amici! In questo momento non ho bisogno di presentare un programma di governo [...] Il mio vero programma di governo è quello di non fare la mia volontà, di non perseguire mie idee, ma di mettermi in ascolto, con tutta quanta la Chiesa, della parola e della volontà del Signore e lasciarmi guidare da Lui, cosicché sia Egli stesso a guidare la Chiesa in questa ora della nostra storia. Invece di esporre un programma io vorrei semplicemente cercare di commentare i due segni con cui viene rappresentata liturgicamente l’assunzione del Ministero Petrino; entrambi questi segni, del resto, rispecchiano anche esattamente ciò che viene proclamato nelle letture di oggi". "Il primo segno è il Pallio, tessuto in pura lana, che mi viene posto sulle spalle. Questo antichissimo segno, che i Vescovi di Roma portano fin dal IV secolo, può essere considerato come un’immagine del giogo di Cristo, che il Vescovo di questa città, il Servo dei Servi di Dio, prende sulle sue spalle. Il giogo di Dio è la volontà di Dio, che noi accogliamo. [...]
"E questa volontà non è per noi un peso esteriore, che ci opprime e ci toglie la libertà. Conoscere ciò che Dio vuole, conoscere qual è la via della vita - questa era la gioia di Israele, era il suo grande privilegio. Questa è anche la nostra gioia: la volontà di Dio non ci aliena, ci purifica magari in modo anche doloroso e così ci conduce a noi stessi. [...] In realtà il simbolismo del Pallio è ancora più concreto: la lana d’agnello intende rappresentare la pecorella perduta o anche quella malata e quella debole, che il pastore mette sulle sue spalle e conduce alle acque della vita. La parabola della pecorella smarrita, che il pastore cerca nel deserto, era per i Padri della Chiesa un’immagine del mistero di Cristo e della Chiesa.[...]. Così il Pallio diventa il simbolo della missione del pastore, di cui parlano la seconda lettura ed il Vangelo. La santa inquietudine di Cristo deve animare il pastore [...]. I deserti esteriori si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati così ampi”.
In verità, Nietzsche, uno dei tre grandi - con Marx e Freud - maestri del sospetto che stimava Gesù, ma nient’affatto il cattolicesimo - definito da lui, un platonismo per il popolo, l’aveva già detto - e anche in modo più profetico: “il deserto avanza. Guai a chi nasconde il deserto dentro di sé!” (Così parlò Zarathustra).
Cosa pensare? Che fare, intanto? Aspetterò. Sì! Aspetterò! Per amore di tutta la Terra e “per amore di Gerusalemme non mi darò pace, finché non sorga come stella la sua giustizia e la sua salvezza non risplenda come una lampada. Allora tutti i popoli vedranno la tua giustizia, tutti i re la tua gloria”(Isaia).
Federico La Sala
Quando il Papa lascia l’incarico
Non succedeva da 600 anni
Padre Lombardi: «Al momento
dell’annuncio i cardinali non sapevano cosa stava accadendo»
di Giacomo Galeazzi (La Stampa, 11/02/2013)
CITTÀ DEL VATICANO. Il primo ad abdicare dopo seicento anni. “Il Papa ci ha preso un po’ di sorpresa”, afferma il portavoce vaticano, Federico Lombardi, in merito all’annuncio delle dimissioni di Benedetto XVI. I cardinali hanno ascoltato il Papa “con il fiato sospeso, credo che la massima parte dei presenti non avesse informazione precedente di quello che il Papa stava per annunciare”. Quella del Papa di lasciare il pontificato è stata una «decisione personale, profonda, presa in clima di preghiera». Il «motivo fondamentale è l’esame di coscienza sulle sue forze in rapporto al ministero da svolgere». Benedetto XVI rinuncia al soglio pontificio e lascerà il 28 febbraio.
Una decisione di portata storica che ha pochi precedenti in epoca recente. Come riporta l’agenzia Agi, i casi storici di rinuncia, comunque, non mancano, soprattutto nei tempi più remoti del Papato: San Clemente, quarto pontefice romano, arrestato ed esiliato per ordine di Nerva nel primo secolo dopo cristo, abdico’ dal Sommo Pontificato indicando come suo successore Evaristo, affinché i fedeli non restassero senza pastore. Nella prima metà del III secolo, Ponziano lo imito’ poco prima di essere esiliato in Sardegna; al suo posto venne eletto Antero.
Silverio, 58esimo vescovo di Roma, fu deposto da Belisario e in punto di morte (11 marzo 537) rinunciò in favore di Vigilio, fino ad allora considerato un usurpatore. Vi sono poi molti altri casi, più problematici, in cui si discute se vi sia stata rinuncia o addirittura rinuncia tacita, come nel caso di Martino (VII secolo). Altro caso più difficilmente inquadrabile è quello di Benedetto IX, che prima venne deposto in favore di Silvestro III, salvo poi riassumere la carica per poi rivenderla a Gregorio VI, il quale, accusato di simonia, fece atto di rinuncia dopo aver ammesso le sue colpe. Siamo nella prima metà dell’anno Mille.
Il più celebre caso di rinuncia all’ufficio di Romano Pontefice fu quello di Celestino V, detto anche «il Papa che fece per vitla’ lo gran rifiuto», che portò all’elezione di Bonifacio VIII nel 1294; poiché quest’ultimo fu un pontefice non affine a Dante Alighieri, egli nella sua Divina Commedia pone, probabilmente, Celestino V nell’Antinferno tra gli ignavi: non è però certo chi il Sommo Poeta volesse indicare nel seguente passo, potrebbe trattarsi infatti, secondo alcuni critici di Ponzio Pilato, Esau’ o Giano della Bella: con il cardinale Benedetto Caetani, e si fece confermare dal concistoro dei cardinali che un’abdicazione dal soglio pontificio era possibile, quindi, in data 10 dicembre 1294, emanò una costituzione sull’abdicazione del papa, confermò la validità delle disposizioni in materia di Conclave anche in caso di rinuncia, ed appena tre giorni dopo rese note le sue intenzioni ed abdico’.
Nel 1415 un altro Papa, Gregorio XII, eletto all’epoca dello Scisma d’Occidente a Roma, dopo molti anni di lotte e di contese giuridiche, belliche e diplomatiche, fece atto di sottomissione ai decreti emessi dai padri conciliari, durante il Concilio di Costanza, che era stato convocato dall’antipapa Giovanni XXIII e presieduto dall’Imperatore Sigismondo per dirimere ogni questione. Uno di questi decreti intimava a tutti i contendenti di abdicare, nel caso che non si trovasse una soluzione e non si raggiungesse l’accordo fra i tre pretendenti al Soglio. Davanti al rifiuto di Benedetto XIII (rappresentante dell’obbedienza avignonese) e alla fuga di Giovanni XXIII (poi ricondotto in Concilio e deposto), alla fine Gregorio XII acconsenti’ ad abdicare, dopo aver riconvocato con una sua bolla il medesimo Concilio. All’abdicazione però non seguì l’elezione di un nuovo Papa, che si verificò passati due anni e solo successivamente alla scomparsa di Gregorio XII, dopo la quale venne convocata un’assemblea mista di cardinali e di padri conciliari, che elesse Martino V nel 1417.
I due pontefici in Vaticano
di Vito Mancuso (la Repubblica, 12 febbraio 2013)
A partire da Pasqua la Chiesa cattolica avrà due papi, uno solo de facto, ma tutt’e due de iure? A parte il celebre caso di Celestino V e Bonifacio VIII alla fine del Duecento, una situazione del genere non si era mai verificata in duemila anni di storia, senza considerare che papa Celestino passò il tempo da ex-papa prima ramingo e poi imprigionato a molta distanza da Roma, mentre Benedetto XVI continuerà ad abitare in Vaticano a poche centinaia di metri dal successore. Costituirà per lui un’ombra o una sorgente di luce e di ispirazione? Ovviamente nessuno lo sa, neppure lo stesso Benedetto XVI, il quale certamente è una persona discreta e assai rispettosa delle forme, ma il cui peso intellettuale e spirituale non può non esercitare una pressione su chiunque sarà a prendere il suo posto. Una cosa però deve essere chiara: a Pasqua non ci saranno due papi, ma uno solo, perché Joseph Ratzinger non sarà più vescovo di Roma ed essere papa significa prima di tutto ed essenzialmente essere “vescovo di Roma”.
L’inedita situazione determinata dalle dimissioni di Benedetto XVI è di grande aiuto per comprendere che cosa significa veramente fare il papa. Fino a ieri “essere papa” e “fare il papa” era la medesima cosa. Fino a ieri la persona e il ruolo si identificavano, non c’era soluzione di continuità, ed anzi, se tra le due dimensioni doveva prevalerne una, era certamente quella di “essere papa” a prevalere, facendo passare in secondo piano il fatto di avere o no le piene possibilità di poterlo fare.
Tutti ricordano, ai tempi della conclamata malattia di Giovanni Paolo II, le ripetute assicurazioni della Sala stampa vaticana sulle sue condizioni di salute. Giovanni Paolo II non poteva più fare il papa, ma lo era, e ciò bastava. Prevaleva la dimensione sacrale, legata all’essenza, al carisma, allo status, all’essere papa a prescindere anche dal proprio corpo. E non a caso Giovanni Paolo II, quando qualcuno gli prospettava l’ipotesi delle dimissioni, era solito ripetere che «dalla croce non si scende».
Benedetto XVI vuole forse scendere dalla croce? No, si tratta di altro, semplicemente del fatto che egli ha prima riconosciuto dentro di sé e poi ha dichiarato pubblicamente che il calo progressivo delle forze fisiche e psichiche non gli permette più di “fare il papa” e quindi intende cessare di “essere papa”. La funzione ha avuto la meglio sull’essenza, il ruolo sull’identità.
Io aggiungo che la laicità ha avuto la meglio sulla sacralità. Si è trattato infatti di una decisione laica, perché opera una distinzione, e laddove c’è distinzione, c’è laicità.
La distinzione tra la persona e il ruolo introdotta ieri da Benedetto XVI con le sue dimissioni si concretizza in queste parole dette in latino ai cardinali: «Le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino». C’è un ministero, una funzione, un ruolo, un servizio, che ha la priorità rispetto all’identità della persona.
La parola decisiva nell’annuncio papale di ieri è però un’altra, la seguente: «Nel mondo di oggi». Ecco le sue parole: «Nel mondo di oggi per governare la barca di san Pietro è necessario anche il vigore sia del corpo sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito». Nel mondo di ieri, fa intendere Benedetto XVI, la distinzione tra persona e ruolo poteva ancora non emergere e un Joseph Ratzinger indebolito avrebbe ancora potuto continuare a svolgere il ruolo di Benedetto XVI.
Nel mondo di oggi, invece, non è più così. Io considero queste parole non solo una grande lezione di auto-consapevolezza e di laicità, ma anche una grande occasione di ripensamento per il governo della Chiesa. Le dimissioni di Benedetto XVI possono condurre a una riforma della concezione monarchica e sacrale del papato nata nel Medioevo, e riprendere la concezione più aperta e funzionale che il ruolo del papa aveva nei primi secoli cristiani?
È difficile che ciò avvenga, ma rimane l’urgenza di rimettere al centro del governo della Chiesa la spiritualità del Nuovo Testamento, passando da una concezione che assegna al papato un potere assoluto e solitario, a una concezione più aperta e capace di far vivere nella quotidianità il metodo conciliare. Non si tratta infatti solo delle condizioni di salute di Joseph Ratzinger che vengono meno.
Occorre procedere oltre e giungere a porsi l’inevitabile interrogativo: “nel mondo di oggi” è in grado un unico uomo di guidare la barca di Pietro? Si obietterà che il papa non è solo, ma è circondato da numerosi collaboratori. Ma si tratta di collaboratori ossequienti, spesso scelti tra plaudenti yes-men e senza capacità di istituire un vero confronto e una serrata dialettica interna, condizioni indispensabili per assumere decisioni in grado di far navigare la barca di Pietro “nel mondo di oggi”.
All’inizio però non era così. San Pietro aveva certamente un ruolo di guida nella prima comunità, come si apprende dal libro degli Atti, ma non esercitava tale funzione con potere assoluto, perché altrimenti non si capirebbe il concilio tenutosi a Gerusalemme verso l’anno 50 e l’aperta opposizione di San Paolo verso di lui nell’episodio di Antiochia.
L’annuncio papale di ieri è avvenuto nel contesto di alcune canonizzazioni, una delle quali riguardava i Martiri di Otranto, gli 800 cristiani uccisi dagli ottomani nel 1480 per non aver rinnegato la fede. Martirio è testimonianza. La tradizione della Chiesa però oltre al martirio rosso del sangue versato conosce il martirio verde della vita itinerante per l’apostolato e il martirio bianco per l’abbandono di tutti i propri beni.
Nel caso di Benedetto XVI abbiamo a che fare con un martirio-testimonianza di altro colore, quello del riconoscimento della propria debolezza, della propria incapacità, del proprio non essere all’altezza. È la fine di una modalità di intendere il papato, e può essere la nascita di qualcosa di nuovo.
Prove del fallimento di un papa
Errori e occasioni sprecate: dalla macata condanna dei tedeschi ad Auschwitz alla comunione per i divorziati
di Marco Politi (il Fatto, 13.02.2013)
E se fossero stati otto anni persi? Otto anni in cui tanti problemi già maturi ai tempi di Giovanni Paolo II sono stati semplicemente rimandati senza nemmeno essere avviati a soluzione. Dalla carenza di preti al ruolo delle donne, ad un nuovo approccio alla sessualità, alla rilancio dei rapporti ecumenici.
La cosa più sorprendente, il giorno dopo le dimissioni annunciate di Benedetto XVI, è la calma con cui il popolo cattolico le sta accogliendo. Certo c’è sorpresa e a tratti sconcerto, ma la gran massa ha digerito subito la novità e vuole semmai capire meglio dove papa Ratzinger ha sbagliato. Dove ha fallito. Perché a livello popolare si è capito da tempo che Benedetto XVI è stato “incapace” in termini di leadership e di governo dei problemi planetari della Chiesa cattolica.
D’altronde già l’anno scorso la sua popolarità era caduta al 39 per cento e quella della Chiesa nel 2013 (Eurispes) al 36. Segno di una grave disaffezione dei fedeli e dell’opinione pubblica nei confronti dell’istituzione ecclesiastica e del suo capo.
Ora, tra i difensori a oltranza del papato-idolo (dove tutto ciò che fa il pontefice è perfetto e a sbagliare sono sempre gli altri), si va diffondendo il mito della sua solitudine e di una Curia cattiva, che gli remava contro. Favole. Un papa è sempre solo, diceva Paolo VI. La questione è semmai quali collaboratori si sceglie e l’efficienza con cui realizza la sua strategia.
Le gaffe su gay e preservativi
Benedetto XVI troppe volte si è fermato a metà. Nel 2010 ha condannato con durezza gli abusi sessuali commessi dagli uomini di Chiesa e ha proclamato il dovere dei preti-criminali di recarsi davanti ai tribunali. Poi però non ha emanato un decreto per rendere obbligatorio che i vescovi denuncino i colpevoli. Né ha ordinato che si aprano gli archivi diocesani alla ricerca di denunce insabbiate, che corrispondono a migliaia di vittime inascoltate.
Lo stesso è accaduto con la trasparenza delle finanze vaticane. Nel 2010 il Papa costituisce un’alta autorità finanziaria (AIF), dotata di ampi poteri di ispezione non solo dello Ior ma di ogni movimento di denaro nella Santa Sede. Pochi mesi dopo il suo più stretto collaboratore il Segretario di Stato cardinale Bertone limita drasticamente le competenze dell’autorità finanziaria, incassando poi i rimbrotti della commissione finanziaria europea Moneyval.
Si può forse descrivere Bertone come un nemico accanito del pontefice? In realtà si possono trovare negli scritti di Benedetto XVI molti passi illuminanti sull’essere cristiani nel mondo d’oggi, ma la predicazione anche alta non basta. Serviva il governo concreto, serviva - e non c’è stata - la sensibilità geopolitica e il piglio del governante risolve le questioni aperte e non ne crea.
Troppi i passi falsi. A Regensburg nel 2006 Benedetto XVI non si rende conto che una frase sprezzante di un vecchio imperatore bizantino su Maometto offenderà milioni di musulmani.
Ad Auschwitz non si rende conto che non può attribuire solo ad una “banda di criminali” lo scivolamento della Germania nella barbarie nazista.
Volando in Africa, non si rende conto che affermare che il preservativo peggiora la diffusione dell’Aids è un affronto alla comunità scientifica e al buon senso di tante suore e missionari, che lo distribuiscono per frenare la pandemia.
Ancora poche settimane fa non si rende conto che stringere la mano all’udienza generale alla presidente del Parlamento ugandese, Rebecca Kadaga, che propugna la pena di morte per i gay, è un gesto impensabile mentre monta nelle strade di Roma l’odio anti-gay. Né la semplice lettura delle rassegne stampa gli impedisce di procedere all’annullamento della scomunica del vescovo lefebvriano Williamson, fanatico negatore dell’Olocausto. Glielo hanno tenuto nascosto? Non deve accadere per chi esercita un potere monarchico assoluto. Vuol dire che ha sbagliato nella scelta delle persone cui affida i dossier più delicati.
Le concessioni ai lefebvriani e il disamore dei cattolici
Gli ebrei sono rimasti amareggiati per la riedizione della preghiera del Venerdì Santo nella messa di Pio V, in cui si affaccia nuovamente il tema di una loro cecità rispetto alla venuta di Cristo.
I cattolici si sono disamorati per la sua decisione di reintrodurre a tutti i livelli la messa preconciliare. Ma più ancora la maggioranza dei cattolici è stata ferita dalle sue concessioni ai lefebvriani, permettendo che la retta interpretazione dei testi più importanti del Vaticano II diventassero oggetto di un negoziato con i nemici più fanatici del Concilio.
Quel Concilio che papa Ratzinger ha voluto leggere ossessivamente nell’ottica della “continuità” con la storia della Chiesa, quando i documenti conciliari più fecondi (sulla libertà religiosa, sulla fine dell’antisemitismo, sulla riforma liturgica, sull’ecumenismo, sui rapporti con l’Islam e le religioni orientali) rappresentano una svolta radicale con il passato.
Questioni irrisolte: corruzione e Ior
Iniziando il suo pontificato, Benedetto XVI ha dichiarato di non avere un programma di governo, ma di proporsi solo la sequela della parola di Dio. Non è una nota di merito. Un pontefice, che guida oltre un miliardo di fedeli, deve avere un programma di azione.
L’hanno avuto papi diversissimi come Paolo VI e Pio XII, Wojtyla e Giovanni XXIII. Non averlo ha significato lasciare marcire molte questioni. Il tema della comunione negata ai divorziati risposati papa Ratzinger si proponeva di “studiarlo” nel 2005, appena eletto, e otto anni dopo non aveva ancora una risposta.
Il tema della collegialità, cioè di un governo della Chiesa universale a cui partecipano i vescovi, lo aveva ben chiaro, quando da cardinale poche settimane prima dell’elezione disse che la Chiesa non può più essere governata in modo “monarchico”. Per otto anni ha deciso invece le strategia fondamentali del suo pontificato (verso i lefebvriani, i dissidenti anglicani o sulle questioni ecumeniche) in maniera solitaria e autoritaria.
La sua ripetizione ossessiva dei “principi non negoziabili” ha provocato uno scisma sotterraneo, silenzioso ma profondo, all’interno del Popolo di Dio. L’incapacità di reggere con mano ferma una Curia spaccata e dilaniata da forti conflitti interni, l’incapacità di andare a fondo alle denunce di corruzione di monsignor Viganò o di sostenere il presidente dello Ior Gotti Tedeschi nella richiesta di fare certificare da un’agenzia esterna i bilanci della banca vaticana, sono stati il colpo finale per l’autorità di Benedetto XVI. Il problema non è il maggiordomo infedele, il problema è che nessuno nel Vaticano di Ratzinger ha voluto discutere dei fatti maleolenti emersi dalle carte.
Non è un caso che lunedì una folla non sia precipitata in piazza San Pietro al grido di “non farlo... rimani! ”.
Chi ha il potere assoluto alla fine ne risponde senza mediazioni. Doveva essere un pontificato di transizione. Si è trasformato in una stagnazione. L’abdicazione per molti è arrivata come un sollievo.
Verso un’era collegiale
di Franco Cardini
in “Quotidiano.Net” (Il Giorno, Il Resto del Carlino, La Nazione) del 13 febbraio 2013
È ancora presto per aspettarsi risposte sicure o comunque più attendibili e verosimili alla domanda che tutti ci andiamo ponendo in queste ore: quali sono state, nello specifico, le vere grandi ragioni che hanno indotto Joseph Ratzinger a rinunziare al suo alto ufficio?
Dalla ridda delle ipotesi va emergendo una direzione interpretativa che non va sottovalutata: che cioè Benedetto XVI si sia tirato indietro non in quanto disorientato dinanzi all’enigma delle prove che ancora attendono il pontificato e la Chiesa bensì, al contrario, in quanto fin troppo conscio della loro qualità ed entità. Non è escluso che l’autentico nucleo del messaggio inviato con queste dimissioni sia che sta giungendo per l’intera comunità cristiano-cattolica il momento di voltare sul serio pagine.
La ‘Profezia di Malachia’, qualunque sia il valore che vogliamo attribuirle, assegna al prossimo pontefice, Petrus Romanus, il ruolo di ultimo papa: e poi? Fine della Chiesa e magari fine del mondo, si è detto. Ma forse - proseguiamo nel gioco dell’attribuzione di un qualche valore a quell’antico e dubbio testo - ciò cui si allude è semplicemente un sia pure rivoluzionario mutamento istituzionale. È la funzione pontificia che potrebbe venir messa in discussione ed esser fatta oggetto di cambiamenti radicali in un futuro magari prossimo. E potrebb’essere la consapevolezza di questa incombente rivoluzione ad aver suggerito a papa Benedetto che è ormai arrivata l’ora di farsi da parte. È a questo punto più chiaro il senso delle polemiche relative al valore e alla funzione del Concilio Vaticano II, che negli ultimi tempi erano arrivate a un livello d’intensità e di durezza che non si giustificava solo con la coincidenza del cinquantesimo anniversario di quell’evento.
In effetti potremmo affermare, parafrasando Marx ed Engels, che uno spettro si aggira nella storia della Chiesa cattolica moderna: il Concilio. L’assemblea dei capi delle singole comunità (le «chiese» vere e proprie) che nel loro insieme costituivano la comunità dei credenti nel Cristo, si affermò fino dai primi tempi di libera vita della Chiesa a partire dal IV secolo. I vescovi si riunivano periodicamente per regolare le questioni concernenti i dogmi, la liturgia e la disciplina comuni. Tali riunioni riunivano di solito solo alcune circoscrizioni locali, ma in casi di maggior importanza tutti i vescovi del mondo cristiano erano tenuti a partecipare: si aveva allora il «Concilio ecumenico», durante il quale si prendevano le grandi decisioni.
In tutto, la Chiesa ha fino ad oggi tenuto 21 Concilii ecumenici: fondamentali tra essi quelli del IV-V secolo (di Nicea, di Efeso, di Calcedonia), nei quali letteralmente si fondarono dogma, liturgia e disciplina; tra gli altri, ebbero speciale rilievo i quattro Concili lateranensi del 1123, del 1139, del 1179, del 1215, durante i quali si andò affermando, dopo lo scisma che aveva separato dal 1054 la Chiesa greca dalla latina, il principio - già del resto precedentemente proposto - del «primato di Pietro», cioè dell’autorità e del potere del vescovo di Roma come capo effettivo e supremo della compagine ecclesiale latina.
Il nucleo profondo della vita della Chiesa, espressa attraverso i vari Concili, era la continua
necessità di riformarne la vita e i costumi. Reformatio è quasi la parola magica che attraversa il
mondo ecclesiale soprattutto tra XI e XVI secolo. Ma appunto durante il medioevo apparve sempre
più chiaro che autorità personale del vescovo di Roma e autorità collegiale degli altri vescovi erano
in obiettivo conflitto tra loro. Esso divenne drammatico nella prima metà del Quattrocento allorché
dopo il lungo periodo avignonese e il cosiddetto «Grande Scisma d’Occidente» che lo aveva
seguito a ruota, tra 1378 e 1414 - la deposizione l’uno dopo l’altro di ben tre pontefici (Gregorio
XII, Benedetto XIII e Alessandro V) in soli cinque anni tra 1409 e 1414 e la successiva
convocazione di due grandi Concilii, a Costanza fra ’14 e ’17 e a Basilea (poi trasferito a Ferrara e
quindi a Firenze) fra ’39 e ’49, mise talmente in discussione l’autorità papale da consentir la nascita
di una nuova dottrina, detta appunto “conciliarismo”, che postulava la superiorità del Concilio sul
papa in termini di direzione della Chiesa.
Una di quelle coincidenze non infrequenti nella storia volle che fosse proprio l’intellettuale che come segretario del Concilio di Basilea aveva contribuito in modo determinante alla nascita della dottrina conciliaristica, il senese Enea Silvio Piccolomini, una volta divenuto papa col nome di Pio II si rivelò il più deciso e feroce paladino del monarchismo pontificio.
Dopo la metà del Quattrocento, i Concilii diventarono molto rari. Il V Concilio lateranense tra 1512 e 1517, che avrebbe dovuto decisamente riformare la Chiesa sconvolta dal malcostume dei pontefici e dei prelati del secolo precedente, si concluse con quella che è passata alla storia come la «Riforma» per eccellenza, la protestante, che coincise peraltro con un grande scisma all’interno della Chiesa d’Occidente.
Dopo allora, il fallimento al suo principale scopo del Concilio di Trento, che si svolse dal 1545 al 1563 con l’iniziale obiettivo del risanamento dello scisma avviato da Lutero, servì quasi da vaccino per i vertici della Chiesa romana: dopo allora non si convocarono più Concilii ecumenici prima del grande Vaticano I del 1870, che fu riunito appositamente per rafforzare l’autorità del papa di Roma e addirittura - in un grave momento di crisi politica, la fine del potere temporale - ne proclamò l’infallibilità ex cathedra.
Il Vaticano II emendò, modificò e corresse l’indirizzo del Concilio precedente e dette vita a una nuova stagione di teorie neoconciliariste, sostenute soprattutto dalla scuola dei teologi e degli storici dossettiani di Bologna. Dopo allora, il lungo pontificato di Giovanni Paolo II coincise con una rinnovata era di forte monarchismo papale, del quale Joseph Ratzinger fu il teologo. Ma è proprio lui, una volta divenuto papa, che dopo un governo di otto anni lascia significativamente l’incarico subito dopo un concistoro di cardinali che (non lo sappiamo) può essere stato tempestoso. E allora, la domanda che è legittimo formulare è questa: che la nuova età della Chiesa, quella che Benedetto XVI ha compreso necessaria ma non si è sentito di gestire, sia quella di una rinnovata proposta conciliaristica di direzione non più monarchica, bensì collegiale della Chiesa cattolica? Il prossimo conclave e il nuovo pontefice risponderanno a questa domanda.
di Franco Cardini