Il vero tesoro delle scuole cattoliche
Oltre 250 milioni trovati in finanziaria c’è un fiume di denaro che arriva da Comuni e Regioni
di Gianmaria Pica (il Fatto, 14.11.2010)
Le scuole cattoliche sono “scuole pubbliche non statali” ci tiene a precisare il segretario di Stato Vaticano, il cardinale Tarcisio Bertone, all’indomani dell’aumento dei contributi alle scuole paritarie previsto dalla legge di stabilità. “L’istituto madre Cabrini e le altre scuole cattoliche di Milano ha sottolineato il cardinale sono scuole pubbliche non statali. Sono paritarie, non private come hanno scritto alcuni giornali. Bisogna mettersi in testa la dizione corretta”.
Il problema non è tanto nella dicitura “scuola privata-scuola paritaria”, ma nel fatto che vengono tagliati i contributi all’istruzione pubblica a favore di quella paritaria. L’Istat calcola che le scuole private (dati 2008) sono 12.532, numero che rappresenta il 21,8 per cento del totale delle scuole italiane (57.579). E quelle cattoliche, secondo l’istituto di statistica, sono ben 7.116.
IL MINISTRO dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, ieri ha sottolineato che “le scuole paritarie negli anni scorsi avevano subito una riduzione di trasferimenti molto più forte della scuola pubblica e il provvedimento di questa notte (venerdì notte, ndr) ha integrato i fondi per le paritarie”. Dunque, come in fondo riconosce anche Bertone (secondo cui “le scuole cattoliche sono paritarie”), i contributi andranno anche a quelle gestite dalla Chiesa.
La legge 62 del 10 marzo 2000 recita che le scuole paritarie “svolgono servizio pubblico”, cioè quello che dovrebbero fare le scuole statali. E dov’è la differenza tra statali e paritarie? Nei soldi. La scuola paritaria, rispetto a quella statale, è a pagamento, cioè può decidere di aumentare quanto vuole la retta d’iscrizione. A questa facoltà si aggiunge anche il contributo pubblico. Ma non è tutto.
Per le paritarie ci sono anche i finanziamenti regionali, provinciali e comunali (che spesso raggiungono il loro picco proprio nei mesi a ridosso delle elezioni amministrative). Vediamo qualche esempio.
L’ufficio scolastico regionale del Veneto con atto del 12 novembre 2009 ha disposto l’acconto dei contributi alle scuole paritarie della provincia di Verona per l’anno scolastico 2009-2010. Cifra erogata: 3,7 milioni di euro. Il comitato bolognese “Scuola e Costituzione” denuncia che una sezione di scuola materna paritaria a Bologna, oltre al contributo statale di circa 16mila euro, ha ricevuto in seguito a convenzione comunale, altri 14mila euro; 3mila euro come contributo di miglioramento previsto dalla legge regionale numero 26 del 2001: il totale fa 33mila euro per sezione.
DI CASI SIMILI ce ne sono a migliaia in tutto il paese. Una delle regioni più “generose” è senza dubbio la Lombardia. Per esempio, per il solo anno scolastico 2007-2008, è stato assegnato il contributo di di 2.500 euro a ciascuna delle 185 scuole paritarie di primo grado per un totale regionale di 462.500 euro, cifra a cui si sommano altri 275.647 euro. Altri soldi arrivano per le scuole paritarie che accolgono allievi con handicap: 948.155 euro. Insomma, solo per le scuole secondarie di primo grado paritarie, la Lombardia ha concesso nel 2008 la bellezza di 1,7 milioni di euro.
Dopo l’incremento in Finanziaria di quasi 100 milioni di euro per il contributo alle paritarie, parte dell’opposizione è partita all’attacco, accusandolo di voler affossare definitivamente il sistema di insegnamento pubblico. Ma non tutti dentro al Pd la pensano così. Infatti, secondo l’ex ministro dell’Istruzione Beppe Fioroni che in vista delle elezioni punta ai consensi dei cattolici “la cifra che il governo Berlusconi ha reintegrato è inferiore al consolidato che è stato dato alle scuole paritarie dai governi D’Alema e Prodi: così prendono in giro le scuole cattoliche perché gli danno meno di quello stanziato dai governi di centrosinistra con Rifondazione comunista dentro”.
Corte dei Conti
Soldi alla Chiesa sotto accusa
“Chiesa e 8 per mille, troppi lati oscuri”
I vescovi accusati di scarsa trasparenza
Per la prima volta i giudici contabili contestano la ripartizione dei fondi ricavati dalle scelte dei contribuenti e criticano l’inerzia del governo
di Marco Lillo (il Fatto, 29.11.2014)
La Corte dei conti per la prima volta mette in stato di accusa il sistema dell’8 per mille. Le 109 pagine della relazione depositata il 19 novembre dovrebbero essere pubblicate sul sito del governo e diffuse in tv quando si fa la dichiarazione dei redditi. Probabilmente se fossero conosciute, cambierebbero le scelte di molti italiani. La delibera è scritta da Antonio Mezzera, un magistrato che già nel 2009 si era segnalato per una relazione coraggiosa, non a caso bloccata per mesi dai suoi capi, sul Mose di Venezia, ed è firmata dal dirigente del settore, Luciana Troccoli, e dal presidente aggiunto Giorgio Clemente.
Cosa scrivono i giudici contabili
I soldi concessi, mediante il meccanismo dell’8 per mille alla Chiesa cattolica e alle altre religioni sono troppi. “L’onere finanziario”, spara in apertura la Corte, “si comprende dalla comparazione con quanto assegnato al ministero dei Beni culturali e del Turismo, che, per il 2013 non ha raggiunto il miliardo e 700 milioni. Ciò significa che, negli ultimi anni la contribuzione alle confessioni religiose ha superato i due terzi delle risorse destinate per la conservazione del patrimonio artistico del Paese”.
La Corte mette sul banco degli imputati il sistema perché avvantaggia le confessioni religiose attribuendo loro anche la percentuale di gettito di chi non opta per nessuno (né Stato, né Chiesa né altre confessioni) in dichiarazione. “Grazie al meccanismo di attribuzione (previsto da una legge del 1985, ai tempi di Bettino Craxi, ndr) delle risorse dell’8 per mille” scrive la Corte, “i beneficiari ricevono più dalla quota non espressa che da quella optata godendo di un notevole fattore moltiplicativo”.
Per esempio, nel 2011 la Chiesa cattolica ha beneficiato dell’82,28 per cento nonostante solo il 37,93 dei contribuenti abbiano optato in suo favore. La somma totale a disposizione per il 2014 è davvero impressionante: un miliardo 278 milioni dei quali l’82,45 per cento va alla Chiesa cattolica: un miliardo e 54 milioni. Solo 170 milioni allo Stato, per le finalità speciali previste ma in gran parte disattese e le altre confessioni si devono accontentare (si fa per dire) di poco più di 52 milioni dei quali la fetta più grande (40,8 milioni) va alla Chiesa evangelica valdese.
L’impegno dello Stato a ridurre le erogazioni
Lo Stato si era impegnato a ridurre questo enorme fiume di denaro 18 anni fa. “Già nel 1996, la Parte governativa della Commissione paritetica Italia-Conferenza Episcopale Italiana incaricata delle verifiche triennali dichiarava che (...) ‘la quota dell’8 per mille si sta avvicinando a valori, superati i quali, potrebbe rendersi opportuna una proposta di revisione (...) dell’aliquota”. Nel 1996 la Chiesa percepiva ‘solo’ 491 milioni di euro. Meno della metà di oggi. “Tuttavia - scrive la Corte dei conti - negli anni seguenti, il tema non è stato più riproposto dalla parte governativa”.
L’Italia ha semplicemente rinunciato. Non a caso, nota la Corte dei conti, tutto viene fatto in gran segreto: “Manca trasparenza sulle erogazioni: sul sito web della Presidenza del Consiglio dei ministri, infatti, nella sezione dedicata, non vengono riportate le attribuzioni annuali alle confessioni, né la destinazione (...) Al contrario, la rilevanza degli importi e il diretto coinvolgimento dei cittadini imporrebbero un’ampia pubblicità e la messa a disposizione dell’archivio completo”. Renzi è avvertito: oggi stesso dovrebbe pubblicare il link al documento pdf (come faremo su ilfattoquotidia no.it ) sulla home page del sito di Palazzo Chigi.
Soprattutto visto il momento di crisi: “In un contesto di generalizzata riduzione delle spese sociali a causa della congiuntura economica - scrivono i giudici - le contribuzioni a favore delle confessioni continuano, in controtendenza, a incrementarsi avendo, da tempo, ampiamente superato il miliardo di euro”.
Il modello spagnolo spiegato dai magistrati
La Corte spiega cosa accadrebbe se fosse eliminato il meccanismo della suddivisione della parte non optata dell’8 per mille, come in Spagna: “L’applicazione della normativa spagnola all’Italia comporterebbe per la fiscalità generale un risparmio annuo di 600 milioni di euro”. Ovviamente non bisogna dimenticare il ruolo sociale svolto nei fatti - anche grazie ai soldi dell’8 per mille - dalla Chiesa cattolica e dalle altre confessioni. Per esempio le Assemblee di Dio dichiarano di destinare più del 99 per cento a interventi caritativi. La Corte ricorda che solo il 23,22 per cento dei fondi dell’otto per mille della Chiesa cattolica sono andati nel 2012 verso interventi caritativi; il 33,15 per cento al sostentamento dei ministri del culto, scopo iniziale della legge, mentre il 43,62 per cento delle somme sono destinate alle misteriose ‘esigenze di culto e pastorale’. La Corte riporta un passo della relazione del 2005 della Commissione paritetica Cei-Italia che, da parte italiana, ribadisce che la crescita della quota degli interventi caritativi “non appare ancora proporzionata all’aumento del flusso finanziario”.
Poi la Corte bacchetta lo Stato
Le somme attribuite dai contribuenti che decidono di devolvere all’Italia la loro quota di 8 per mille dovrebbero essere destinate a finalità come la lotta alla fame nel mondo, l’assistenza ai rifugiati, le calamità naturali e la conservazione dei beni culturali. Per la Corte però: “la quota destinata allo Stato è stata drasticamente ridotta e dirottata su finalità antitetiche rispetto alla volontà dei contribuenti, violando l’affidamento derivante dalla sottoscrizione sull’utilizzo della stessa”. Secondo la Corte “le distrazioni rappresentano oltre i due terzi delle somme assegnate”, In pratica lo Stato ha dirottato finora 1,8 miliardi in 24 anni.
Nel 2011 e nel 2012 la quota di intervento dello Stato è stata addirittura azzerata e nel 2013 portata alla ridicola somma di 404 mila euro destinati a 4 progetti per la lotta alla fame in Africa che non si sa se facciano più sorridere o piangere. I contribuenti che optano per lo Stato (invece che per la Chiesa) non sanno che spesso i loro soldi sono usati per risanare le chiese. “Non appare coerente con la ratio dell’istituto - scrive la Corte dei conti - l’accentuata propensione al finanziamento di opere di restauro di edifici di culto o di proprietà di confessioni”. Nel 2010, per esempio, il 48,8 per cento dei fondi dello Stato paria a ben 53 milioni sono andati al risanamento di beni culturali della Chiesa cattolica. Gli edifici dello Stato invece hanno attinto a questo capitolo di spesa solo per 51,8 milioni.
La Corte dei conti denuncia poi, anche per la parte dello Stato, “la ancora non soddisfacente quantità di risorse destinate agli interventi caritativi”. Più in generale “lo Stato - secondo la Corte dei conti - mostra disinteresse per la quota di propria competenza, cosa che ha determinato, nel corso del tempo, la drastica riduzione dei contribuenti a suo favore”.
Come correggere il sistema
Secondo i giudici “a ciò ha contribuito la totale assenza (negli oltre 20 anni di vigenza dell’istituto) di promozione delle iniziative, risultando lo Stato l’unico competitore che non sensibilizza l’opinione pubblica sulle proprie attività con campagne pubblicitarie”. Alla fine la Corte dei conti non si limita a presentare l’elenco delle doglianze ma propone anzi dispone i correttivi: “al fine di garantire la piena esecuzione della volontà di tutti, la decurtazione della quota dell’8 per mille di competenza statale va eliminata: è, infatti, contrario ai principi di lealtà e di buona fede che il patto con i contribuenti venga violato. Peraltro, sono penalizzati solo coloro che scelgono lo Stato e non gli optanti per le confessioni, le cui determinazioni, al contrario, non sono toccate, cosa incompatibile con il principio di uguaglianza”.
8x1000, opere di bene ma soprattutto televisione e spot
A chi finiscono i quattrini
Gli scontri tra prelati
di Carlo Tecce (il Fatto, 29.11.2014)
QUASI DIECI MILIONI SPESI SOLTANTO PER LA CAMPAGNA SULLE RETI MEDIASET. POI C’È IL CAPITOLO DEI GIORNALI E DALLA SATELLITARE TV2000: EROGAZIONE IN CRESCITA
Quanto fa 8x1000 per la Chiesa cattolica? Un miliardo e poco più di 55 milioni di euro. Il calcolo è trasparente, la ripartizione viziata dall’ultimo Concordato tra lo Stato italiano e il governo vaticano. Il resto è buio. Questa somma di denaro, che puntualmente il Tesoro versa ai vescovi italiani, proviene da 41.499.535 milioni dichiarazioni dei redditi. L’8per1000 è una donazione volontaria e obbligatoria: sì, un paradosso. Perché soltanto in 15 milioni hanno barrato la casella Chiesa cattolica quest’anno, ma un complesso meccanismo di moltiplicazione per legge, consente la distribuzione di oltre l’82% del ricavato totale (1,276 miliardi) alla Conferenza episcopale italiana.
Quel che avanza, viene diviso fra lo Stato e cinque organizzazioni religiose, Ebrei, Valdesi, Luterani, Avventisti e Assemblee di Dio. Il bonifico con in calce la firma italiana viene incassato da Cei e il miliardo poi viene gestito sul conto di Deutsche Bank che la Santa Sede ha intestato in Germania. Questioni di vincoli e controlli. A papa Francesco non sono sconosciute le disfunzioni dell’8x1000 e, pare, non siano mancate proteste dettagliate e invocazioni di intervento tramite documenti spediti presso la sua abitazione in Santa Marta.
A chi finiscono i quattrini
Ogni anno, a maggio, i vescovi italiani si riuniscono e approvano il bilancio Cei. Mentre dentro si consumano le consuete battaglie, all’esterno viene diffuso un frontespizio che, in maniera poco esaustiva come certifica la stessa Corte dei Conti, illustra le voci di spesa. Ci sono tre categorie onnicomprensive: 433 milioni di euro per le esigenze di culto e pastorale, 245 milioni gli interventi caritativi e 377 milioni per il sostentamento del clero. Nei rivoli di un abbondante miliardo di euro, però, si possono celare i flussi di denaro per giornali, propaganda, televisioni, seminari, convegni. Soltanto lo stanziamento per il “terzo mondo”, pari a 85 milioni di euro, né aumenta né diminuisce mai. Tutto è variabile. Tutto può significare opere di bene o niente. Tutto può contenere la costruzione di una casa di accoglienza per giovani madri emigrate, un campetto di calcio per l’oratorio oppure un grande parata per adunate di prelati e politici. Quando la somma viene stabilita e i moduli Irpef sono consegnati ai commercialisti, s’interrompono i video in tv che reclamizzano l’8x1000 con il ritornello “Chiedilo a loro”.
La musica suscita emozioni, le immagini attirano l’attenzione, si vedono suore o preti che arrancano in luoghi di dolore, bambini, malattie, disperazione. Come per la vendita di un prodotto tradizionale, la Cei si affida a martellanti campagne pubblicitarie, per un decennio ideate da Saatchi&Saatchi, una azienda che promuove le esplorazioni petrolifere di Eni, le macchine elettriche di Toyata o le cialde da caffé di Illy. Oggi viene coinvolta anche “Another Place”, le gigantografie di volti segnati dalla sofferenza sono a cura di questa brillante società. Perché sono davvero numerosi i “cantieri” aperti con l’8x1000 fra parrocchie, ristrutturazioni, beneficienza.
I canali per la pubblicità e i mezzi di comunicazione
In Italia la raccolta pubblicitaria è crollata negli ultimi anni, le concessionarie rimediano con sconti altissimi, ma la Cei è un investitore importante, perché garantisce almeno 10 milioni di euro. I dati ufficiali Nielsen, relativi al 2013, ci consentono di quantificare in 9,824 milioni la spesa su Mediaset & C. dei vescovi per convincere gli italiani a destinare l’8x1000 alla Chiesa italiana. In quattro anni, la Cei ha investito quasi 45 milioni di euro. Non vanno definiti sprechi, possiamo aggiungere con un po’ di ironia, perché, nota persino la Corte dei Conti, la presenza in tv della Conferenza episcopale ha oscurato lo Stato in questa competizione per l’8x1000.
Nel rendiconto stilato da Cei non c’è traccia dei contributi ai media di proprietà dei vescovi: il quotidiano Avvenire, il canale satellitare Tv2000, l’emittente Radio In Blu e l’agenzia di stampa Sir. Per rispettare le regole italiane, la Cei finanzia i suoi media attraverso due fondazioni: la “Santi Francesco e Caterina”, la prima in ordine di costituzione che porta i nomi dei patroni nazionali si occupa e preoccupa di Avvenire e Sir; la “Comunicazione e Cultura” è depositaria del pacchetto di maggioranza di “Rete Blu”, la società che edita la radio e il giornale. A “Rete Blu”, la Cei ha conferito 37 milioni di euro per il 2013. Quest’anno l’erogazione potrebbe crescere, perché i vescovi pensano di poter consolidare la posizione di Tv2000, da qualche mese diretta da Paolo Ruffini, ex di Rai3 e di La7, e in fase di sperimentazione. Sarà una rete quasi “generalista”, per dirla con termini ormai desueti.
A parte questi 37 milioni per “Rete Blu”, ce ne sono di solito 15 per Avvenire e 7 per la Sir. Non è finita. Perché le iniziative dell’ufficio per la Comunicazione sociali, che riempie un calendario sempre denso di appuntamenti, sono molto dispendiose. I fondi per l’8x1000 servono anche a rifocillare l’ambizioso Ente per lo spettacolo. Per confrontare queste cifre qui esposte con i diretti protagonisti, il Fatto Quotidiano ha contattato i responsabili per i rapporti con i media dei Vescovi. Ci hanno cortesemente risposto senza commenti particolari. Gli scontri tra prelati
Il potere Cei è in capo a monsignor Angelo Bagnasco, che presiede la Conferenza episcopale da 7 anni, e fu indicato da Benedetto XVI. La sostituzione del segretario generale Mariano Crociata con Nunzio Galantino è soltanto il preludio all’uscita di Bagnasco. Le ultime assemblee hanno ospitato accese dispute tra i vescovi proprio sull’8x1000. I vescovi di Trento (Luigi Bressan), Como (Diego Coletti) e di Mantova (Roberto Busti) non tollerano l’eccessiva generosità con cui si sovvenziona il sistema di comunicazione. Il gruppo non è sempre coeso e le scelte non vengono prese tra implacabili entusiasmi. Qualunque siano le decisioni della Conferenza Episcopale, un po’ di informazione in più per i cittadini-paganti non guasterebbe. Non ci sono dogmi a rischio.
1929-1984
Dai Patti Lateranensi di Mussolini al Concordato di Bettino Craxi *
IN PRINCIPIO furono i Patti Lateranensi del 1929 voluti da Benito Mussolini, con cui - fra le altre cose - l’Italia s’impegnava a pagare lo “stipendio ai preti” (la cosiddetta “Congrua”). Il meccanismo fu poi aggiornato dal Concordato del 1984, premier Bettino Craxi, che inventò l’attuale meccanismo dell’8 per mille. Come dovrebbe funzionare. Volontariamente- cioè attraverso un atto formale durante la dichiarazione dei redditi - un pezzo del gettito Irpef del singolo contribuente (l’8 per mille appunto) viene devoluto alla Chiesa per il sostegno del clero.
L’accordo prevede pure che se il gettito è superiore agli impegni concordatari, l’aliquota venga rivista al ribasso. Alla bisogna esiste un’apposita commissione mista italo-vaticana, che però a giudicare dai curricula dei partecipanti sembra più vaticano-vaticana: nonostante, infatti, gli “stipendi” siano ormai all’ingrosso solo un terzo dei circa 900 milioni di gettito dell’8 per mille che finisce ai vescovi italiani, il tema di abbassare l’aliquota non è mai stato posto all’ordine del giorno.
L’escamotage. L’8 per mille si basa su un meccanismo discutibile: quel pezzo di Irpef, infatti, viene distribuito tutto, anche quello di chi non firma per alcuna confessione. In sostanza, il fondo da un miliardo totale viene ripartito “proporzionalmente sul totale delle scelte espresse”, che sono poco più del 40% dei contribuenti. Tradotto: negli ultimi anni la Chiesa cattolica col 37% circa delle “preferenze” si accaparra assai più dell’80% del malloppo. In soldi si traduce così: gli italiani avrebbero dato ai vescovi meno di 400 milioni, invece lo Stato gliene dà più del doppio. Se non è carità cristiana questa.
* il Fatto, 29.11.2014
Le contraddizioni della scuola paritaria
di NADIA URBINATI (la Repubblica, 22 Luglio 2014)
La vicenda dell’insegnante messa sotto inchiesta dalla madre superiora di una scuola privata di orientamento cattolico e parificata non ha dell’incredibile. È incredibile che ci si stupisca e si continui a sostenere - come da anni si fa - che la scuola pubblica comprende sia le scuole statali sia quelle private parificate. Il pubblico è uno, dicono i sostenitori del finanziamento pubblico alle scuole private per raggirare l’Art. 33 della Costituzione che afferma chiaramente essere le scuole private libere e “senza oneri per lo Stato”. I retori che non vedono di buon occhio questa norma hanno sofisticamente ridefinito il pubblico e... abracadabra, ecco che tutte le scuole paritarie sono pubbliche come quelle statali!
All’insegnante (che per proteggere l’anonimato si presenta come Silvia) la madre superiora della scuola cattolica in questione ha detto di voler verificare le “voci secondo le quali lei aveva una compagna”. Poiché era suo dovere «tutelare questo istituto cattolico” se quelle voci fossero state fondate allora il suo contratto sarebbe stato a rischio (l’insegnante ha un contratto annuale rinnovabile). Perché è quanto meno irragionevole stupirsi?
Questo caso ci fa toccare con mano la tensione non facilmente sanabile tra scuola privata identitaria e scuola pubblica: la prima selettiva proprio per garantire la propria libertà di continuare a essere identitaria; la seconda aperta a tutti gli insegnati che lo meritano (e qui il merito è misurato con norme e regole pubbliche uguali per tutti) e per tutti gli allievi che lo vogliono (o che i loro genitori vogliono, nel caso si tratti di minori). Indubbiamente la suora nella storia di questi giorni ha le sue buone ragioni a voler “tutelare” l’istituto cattolico. Nulla da eccepire: ai cattolici non si può chiedere di approvare l’aborto o l’omosessualità o le scelte libere in materia di morale. C’è una dottrina della Chiesa e nessun cattolico praticante può prendere in mano la propria volontà e scegliere secondo la propria coscienza. Appartenere a una chiesa implica accettare dei vincoli, senza di che l’identità si diluisce e tutto diventa simile.
Ma che cosa succede se la scuola cattolica che vuole preservare la propria identità riceve soldi pubblici? Soldi che vengono cioè da tutti, non solo dai cattolici, e soprattutto che sono e devono essere distribuiti tenendo fede alla Costituzione e non al dettato della Chiesa? Succede che la scuola cattolica deve essere costretta a perdere la propria identità. Il paradosso è chiaro: la difesa dell’identità è un diritto della scuola privata che però non può essere finanziato con i soldi pubblici.
Le scuole private che accettano di ricevere i soldi dello Stato devono sottostare alle stesse norme delle scuole pubbliche vere. Certo, questo urta contro la loro libertà. Certo, questo rischia di far perdere loro l’indentità. Si comprende quanto sia sofistico e ipocrita l’argomento che vuole che tutte le scuole siano pubbliche (statali e paritarie): per amore dei soldi si baratta la libertà - salvo sperare che in un paese dove il 95% dei cittadini è di formazione cattolica non si sia costretti a barattare proprio nulla. E invece...
Succede che la libertà individuale che la Costituzione difende dà alle persone l’opportunità di vivere le proprie scelte senza che nessuno (non lo stato, non il datore di lavoro se pubblico) interferisca con il loro contenuto - purché si rispetti la libertà altrui e la legge, lo Stato non può interferire con le scelte del singolo. Ma una chiesa e una scuola che ad essa vuole restare fedele può interferire e in qualche modo è prevedibile che lo faccia. E quindi, se davvero le scuole private vogliono onorare e difendere la loro libertà di esistere e prosperare devono avere la forza di farlo con le proprie risorse: questa loro autonomia è garanzia e segno della loro libertà. Diversamente, quanto successo all’insegnante Silvia non deve succedere.
Delle due l’una: o una scuola privata confessionale vuole i soldi pubblici o vuole proteggere la propria libertà e identità. Le due cose non stanno insieme e lo si vede proprio in casi come questo, quando si apre un conflitto tra libertà della scuola e libertà del singolo. Quale delle due deve prevalere in caso di conflitto? Lo Stato ha il dovere di essere al fianco del singolo sempre, soprattutto nei casi in cui questo si trova ad essere sfidato dalla direzione scolastica dell’istituto dove lavora con incarico annuale. I diritti servono a proteggere non chi ha potere, ma chi non ce l’ha.
I soldi pubblici alle scuole private devono quindi essere condizionati da limiti inderogabili: come il rispetto dei diritti eguali, ovvero della libertà del singolo. Ciò significa, per esempio, che la scuola privata se vuole ricevere finanziamenti dallo Stato deve attingere alle graduatorie pubbliche degli insegnanti e non scegliere a discrezione. Ma attingere a graduatorie pubbliche può voler dire che un insegnante mussulmano possa essere chiamato ad insegnare in una scuola cattolica, o vice versa. Un’eventualità insopportabile e che prova quanto oneroso sia per il privato prendere soldi pubblici.
Dunque chi sono i veri amici della libertà dell’offerta educativa, coloro che chiedono soldi pubblici o coloro che pensano che le scuole private debbano sostenersi autonomamente? Ai sostenitori delle scuole parificate sembra impensabile che il denaro pubblico comporti questa “limitazione” di libertà - e hanno ragione. Per questo dovrebbero rifiutare i soldi dello Stato. “
Imu Chiesa, esenzione facile per scuole e cliniche private
di Valentina Conte (la Repubblica, 03.07.2014)
ROMA. Scuole paritarie e cliniche convenzionate con il sistema sanitario nazionale sono di fatto esentate dal pagamento di Imu e Tasi. E con ogni probabilità in modo ben più ampio di quanto avviene ora, specie per le scuole. La vicenda “Imu Chiesa” dopo ben due anni dal decreto Monti - quello che introdusse l’uso misto degli edifici di proprietà degli enti non commerciali (con le sole porzioni adibite ad attività di lucro soggette al pagamento dell’imposta) - arriva dunque ad una fine. Sancita ora, al terzo esecutivo dopo Monti e Letta, dall’atteso decreto del ministero dell’Economia firmato da Padoan il 26 giugno. Che rimanda al nuovo modello di dichiarazione Imu-Tasi per gli “Enc” (enti non commerciali) di color violetto e alle relative “Istruzioni”. Laddove si assegna, per le scuole, un parametro di retta annuale al di sotto del quale l’istituto è esentato dalle tasse. Un parametro assai generoso, dai 5.700 ai circa 7 mila euro l’anno. In grado di escludere anche chi fin qui pagava. Per gli ospedali basta l’accreditamento pubblico.
Più difficile sfuggire al fisco per alberghi e bed&breakfast. Dimezzate anche le sanzioni per chi non ottempera, fino a 258 euro (in base alla vecchia legge Ici e non a quella Tasi). Il termine per presentare le dichiarazioni relative al 2013 e 2012 (anni in cui non si è di fatto versato nulla) è il 30 settembre.
La scuola come dio vuole
di Luca Kocci (il manifesto, 4 maggio 2013)
Il programma per la scuola che il cardinal Bagnasco consegna al governo Letta-Alfano appena insediato si articola in un unico punto: più soldi alle scuole cattoliche. Con buona pace della Costituzione che, è vero, stabilisce che i soggetti privati possano aprire delle scuole a condizione che non vi siano «oneri per lo Stato»; ma in realtà, sostiene il presidente della Conferenza episcopale italiana nella sua interpretazione revisionista dell’articolo 33 della Carta, i padri costituenti non volevano intendere che lo Stato non dovesse finanziarie le scuole private. Quindi, conclude Bagnasco, è «pretestuoso» invocare la Costituzione per difendere la scuola statale e criticare il sostegno economico a quella paritaria. Come sta facendo, per esempio, il Comitato bolognese “Articolo 33”, che ha promosso un referendum consultivo - si voterà il prossimo 26 maggio - per bloccare i finanziamenti del Comune di Bologna alle scuole dell’infanzia paritarie private e destinarli interamente a quelle comunali e statali.
Sembrava aver cominciato bene il suo intervento di ieri, Bagnasco, al convegno “La Chiesa per la scuola”, promosso dalla Cei e in corso fino a questa mattina all’Hotel Ergife di Roma, a due passi dalla sede centrale dei vescovi italiani. «Una società che non investa energie economiche e umane nella scuola, nella formazione e nell’innovazione, finisce per subordinare l’uomo al lavoro e al denaro, come appare in modo drammatico nella finanziarizzazione dell’economia e nella conseguente subordinazione del lavoro alla finanza», aveva detto il presidente della Cei, lamentando anche «l’insufficiente sostegno delle istituzioni, come mostrano non da ultimo i tagli al personale e ai fondi stanziati per le attività e la strumentazione. Da qui il disagio vissuto da tanta parte degli insegnanti, spesso scoraggiati e disillusi perché scarsamente valorizzati e non pienamente riconosciuti nel loro importante e delicato compito formativo».
Poi però è risultato chiaro a chi e a cosa si riferiva: alla scuola «paritaria» cattolica, penalizzata, secondo Bagnasco, dalle scarse risorse che lo Stato le destinerebbe, in spregio del «principio di sussidiarietà». La Costituzione «riconosce alla famiglia il dovere e il diritto di educare e istruire i figli secondo una linea educativa liberamente scelta», sostiene il presidente della Cei. «Si tratta di una grave manipolazione perché questa affermazione non è affatto contenuta nella Costituzione», rileva Antonia Sani, coordinatrice dell’associazione “Per la scuola della Repubblica”.
Da qui discenderebbe il diritto per i genitori di mandare i propri figli nelle scuole cattoliche, mantenute dallo Stato. La stampella normativa - e su questo punto è difficile dar torto a Bagnasco - è la legge 62 del 2000, fortemente voluta dall’allora ministro della Pubblica istruzione Luigi Berlinguer, la quale stabilì che «il sistema nazionale di istruzione è costituito dalle scuole statali e dalle scuole paritarie private e degli enti locali». Nonostante queste disposizioni, protesta Bagnasco, «permangono svariate difficoltà applicative della legge» per quanto riguarda «l’incertezza della disponibilità finanziaria» e «la lentezza nell’erogazione dei fondi». La parità, chiede il cardinale, «deve divenire effettiva». Quindi lo Stato deve allentare i cordoni della borsa. Del resto Bagnasco parla ad un governo amico, zeppo di cultori della sussidiarietà - dai ciellini Lupi e Mauro allo stesso Letta -, per incoraggiarlo ad essere più generoso del precedente, che pure nella legge di stabilità riuscì a trovare 223 milioni di euro per le scuole paritarie, tagliandone contestualmente 700 milioni alla statale.
«Senza oneri per lo Stato è l’unico punto fermo della Costituzione, sagacemente previsto dai nostri padri costituenti, che va ribadito», spiega Antonia Sani. «Se fosse integralmente rispettato, e non calpestato dalle convenzioni e dalla legge istitutiva delle scuole private paritarie, si potrebbe rispondere alle esigenze di tutti quei cittadini che oggi si vedono costretti a frequentare scuole private, spesso a indirizzo religioso, a causa dell’insufficienza e dell’inadeguatezza di tanti edifici pubblici».
Romano Prodi contro Francesco Guccini:
il referendum sulla scuola che spacca Bologna
Endorsement del professore, in campo per mantenere il finanziamento alle scuole materne private: "E’ un accordo che funziona benissimo, perché bocciarlo?". In campo anche il cantautore, che invece scandisce: "Difendere la scuola pubblica" *
BOLOGNA - Scende in campo anche Romano Prodi in merito al referendum di domenica 26 maggio nel quale si dovrà decidere se il Comune dovrà continuare o no a finanziare le scuole materne private con un milione di euro l’anno. Il Professore, senza molti giri di parole, dice che voterà "B", ovvero l’opzione che mantiene la convenzione tra pubblico e privato. La stessa che hanno auspicato personalità come il cardinale Bagnasco. "Se, come spero, riuscirò a tornare in tempo da Addis Abeba, domenica prossima voterò sui quesiti riguardanti le scuole dell’infanzia e voterò l’opzione B" scrive l’ex premier sul suo sito.
Ma, a pochi minuti di distanza, arriva anche il messaggio di Francesco Guccini a sostegno dei referendari: "Accompagno con il cuore la vostra campagna". Un sostegno non isolato, quello del cantautore, visto che il primo firmatario dell’appello per la "A" è Stefano Rodotà. Insomma, non è solo uno scontro politico ma anche uno scontro di simboli per Bologna, mentre l’atmosfera si fa incandescente.
Prodi spiega anche il perché della sua scelta, partendo da una premessa: "Dico subito che, a mio parere, il referendum si doveva evitare perché apre in modo improprio un dibattito che va oltre i ristretti limiti del quesito stesso". E continua: "Il mio voto è motivato da una semplice ragione di buon senso: perchè bocciare un accordo che ha funzionato bene per tantissimi anni e che, tutto sommato, ha permesso , con un modesto impiego di mezzi, di ampliare almeno un po’ il numero dei bambini ammessi alla scuola dell’infanzia e ha impedito dannose contrapposizioni? Ritengo che sia un accordo di interesse generale".
Il professore critica poi il comitato referendario, che si batte per l’eliminazione dei contributi alle materne private: "La motivazione più forte di chi vota l’opzione A è che i mezzi forniti alla scuola statale e comunale siano così scarsi che le casse comunali non possono allargare il loro impegno al di fuori del loro stretto ambito. Credo tuttavia che le restrizioni che oggi drammaticamente limitano l’azione del Comune e in generale penalizzano la scuola siano dovute a una errata gerarchia nella soluzione dei problemi del Paese e non ad accordi di questo tipo".
Il messaggio di Guccini ai referendari. "Sono qui con il cuore ad accompagnare la vostra campagna - scrive invece il cantautore Francesco Guccini al Comitato articolo 33, che si batte per l’abolizione del finanziamento alle materne private -. Questa sera sono a Pistoia a discutere di viaggi e incontri ai Dialoghi sull’Uomo e questa coincidenza mi porta a pensare proprio alla scuola - e alla scuola dell’infanzia, pubblica laica e plurale - come uno dei luoghi fondamentali dove l’uomo prende forma e inizia il suo viaggio. Entrare alla scuola pubblica, ove si opera senza discriminazioni e senza indirizzi confessionali, è il primo passo di ogni individuo che voglia imparare l’alterità e la condivisione; è il primo passo di ogni essere umano per diventare uomo, per diventare donna... Insomma, non posso non fare mia la lezione di Piero Calamandrei, quella contenuta nel suo celebre Discorso in difesa della scuola nazionale, e da quelle parole traggo il mio augurio e il mio saluto per tutti voi: "Bisogna, amici, continuare a difendere nelle scuole la Resistenza e la continuità della coscienza morale."
"Con le paritarie si aiutano le donne a lavorare". Dalle colonne di Bologna sette, il settimanale di Avvenire, si difende il sistema integrato pubblico-privato perché sono un modo per aiutare le donne ad andare a lavorare. Nell’editoriale, a firma di Paolo Cavana, si contesta tanto il quesito "equivoco" del referendum quanto "il richiamo al principio di laicità". Infatti, "il quesito referendario ha per oggetto un segmento dell’offerta formativa, quello delle scuole dell’infanzia, non ricompreso nella fascia dell’istruzione obbligatoria e gratuita, la sola garantita dallo Stato". Del resto le scuole dell’infanzia "assolvono ad un compito non tanto di istruzione quanto di socializzazione primaria dei bambini, consentendo inoltre ai genitori e in particolare alla madre di poter accedere al mondo del lavoro". Perciò "l’attuale sistema, che rende accessibile la scuola dell’infanzia ad un maggior numero di bambini, risponde anche ad un interesse, costituzionalmente tutelato, della donna lavoratrice", garantito appunto dall’articolo 37. Tutti "valori e principi" questi, conclude poco dopo Cavana, "che i promotori del referendum sembrano aver completamente dimenticato".
FILOLOGIA E TEOLOGIA. A KAROL WOJTYLA, IN MEMORIA. "Se mi sbalio, mi coriggerete" (Giovanni Paolo II)
"VICO fa una netta distinzione tra carus - caritas ripettivamente col valore di ’caro, costoso, di alto prezzo’ e ’carestia, scarsità’ da una parte, e charus - charitas rispettivamente col valore di ’grazioso, amabile, richiesto’ e ’grazia, amore di Dio’ dall’altra, perché per il Vico questi due ultimi termini derivano etimologicamente" dai termini greci [’charìeis’ e ’charis’] (cfr. Vico, Varia: Il ’de mente Eroica’ e gli scritti latini minori, Alfredo Guida Editori, Napoli 1996, p. 31)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PER RATZINGER, PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI. L’Acca in fuga
Federico La Sala
E’ legge l’Intesa con Buddisti e Induisti: l’Italia è un Paese multireligioso
di Marco Ventura (Corriere della Sera, 29.01.2013)
Entrano in vigore venerdì le leggi che regolano i rapporti tra lo Stato italiano e, rispettivamente, l’Unione buddista italiana e l’Unione induista italiana, sulla base delle intese sottoscritte tra il governo e le due confessioni. È un momento storico per il nostro Paese. Mai sinora il Parlamento aveva approvato accordi con confessioni non cristiane, con l’eccezione, nel 1989, delle Comunità ebraiche e, per chi non ritiene cristiani i mormoni, nel luglio scorso, con la Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni.
Il valore simbolico è alto per tutti gli italiani e non solo per i circa duecentomila interessati. Stipulando un patto con Buddisti e Induisti, lo Stato riconosce la multireligiosità della società italiana, riafferma l’eguale libertà di tutte le confessioni religiose, scritta in Costituzione, e attua il principio supremo di laicità, dedotto dalla Corte costituzionale. Da quando non è più cattolico, lo Stato italiano non ha una religione e non può avere preferenze religiose. Perciò tutela la libertà di ogni credente e di ogni credo. Un principio lineare, in teoria, ma di tortuosa applicazione.
Nel 1989 il Consiglio di Stato spianò la strada al riconoscimento dell’Unione buddista, sancendo che in Italia è una fede protetta anche quella di chi non è ebreo, cristiano o musulmano. Nel 2000 fu firmata l’intesa con i Buddisti, ma il Parlamento rimase muto. Nel 2007 vi fu una nuova firma, stavolta anche con l’Unione induista. Negli ultimi mesi infine, un pugno di parlamentari ha profittato della distrazione dei colleghi e ha chiuso la partita.
La svolta simbolica è ora alla prova della realtà. Sta ai governi e al Parlamento continuare sulla strada intrapresa, a cominciare dall’approvazione dell’intesa firmata già nel 2000 con i Testimoni di Geova.
Sta ai Cattolici superare i seguaci di Budda e Dattatreya nei fatti, oltre che nelle verità rivelate. Sta a Buddisti e Induisti smentire il timore diffuso che il Paese si disgreghi senza il cemento cattolico, e dimostrare di non aver voluto l’intesa solo per riempirsi le tasche di otto per mille.
Bagnasco senza fondo
di Luca Kocci (il manifesto, 1 dicembre 2012)
Il governo prova ad introdurre il pagamento dell’Imu anche per le scuole cattoliche paritarie e private a partire dal 2013, e la Conferenza episcopale italiana si affretta ad esprimere rumorosamente tutto il proprio disappunto: «Le scuole cattoliche si trovano in grandissima difficoltà. Sarebbe molto grave se dovessero chiudere, sia per i genitori, sia per l’intero sistema scolastico», ha detto ieri il presidente della Cei, il cardinal Angelo Bagnasco, a margine dell’avvio dell’XI Forum del progetto culturale della Chiesa italiana, paventando quindi che l’Imu - da cui gli immobili non commerciali di proprietà ecclesiastica sono esenti - possa essere il colpo di grazia per gli istituti scolastici cattolici.
Il ministro dell’Istruzione Profumo, che già pochi giorni fa si era mostrato sensibile alle rimostranze dei vertici delle associazioni delle scuole cattoliche («le scuole paritarie sotto il giogo dell’Imu», aveva gridato la Fidae; «chiuderemo e licenzieremo 200mila persone», aveva rincarato l’Agidae) e dei genitori che mandano i figli negli istituti dei religiosi («rimarranno aperte solo scuole paritarie per ricchi», profetizza l’Agesc), recepisce il messaggio e annuncia che si farà paladino delle scuole cattoliche in Consiglio dei ministri.
Eppure il regolamento attuativo per l’Imu sugli immobili commerciali di proprietà ecclesiastica, pubblicato in Gazzetta Ufficiale lo scorso 23 novembre, è meno netto di quanto appaia, tanto che lo stesso Consiglio di Stato - a cui il governo ha dovuto chiedere un parere non vincolante - non esclude che possa subire un altolà da parte dell’Unione europea proprio perché troppo ambiguo e «di manica larga». A pagare l’Imu, secondo il regolamento del governo, saranno tutti gli immobili tranne quelli in cui si svolgono attività «a titolo gratuito o con corrispettivo simbolico sottocosto». Mentre l’Europa adotta una definizione più rigida di attività commerciale: «beni e servizi offerti in un mercato», al di là del costo elevato, irrisorio o «simbolico». Il rischio è una multa all’Italia di tre miliardi e mezzo di euro per l’Ici prima e l’Imu ora non versato dagli enti ecclesiastici dal 2006 ad oggi.
Non c’è solo l’Imu da pagare nei pensieri di Bagnasco, ma anche nuovi finanziamenti statali per la
scuola cattolica. «C’è preoccupazione soprattutto - ha detto ancora il presidente della Cei - per la
mancanza di contributi» che «lo Stato sarebbe giusto riconoscesse non tanto agli istituti scolastici,
quanto alle famiglie, che hanno diritto a scegliere per i propri figli l’istruzione che ritengono più
idonea», secondo la filosofia del «buono scuola» da anni in vigore nella Regione Lombardia
dell’ormai ex governatore ciellino Formigoni. «Data la mancanza di questo contributo alle famiglie
aggiunge Bagnasco -, le scuole cattoliche si trovano in grandissima difficoltà» e potrebbero
chiudere. Eppure solo pochi giorni fa, nella legge di stabilità che ha tagliato 700 milioni alla scuola
statale, sono stati trovati 223 milioni di euro per le scuole paritarie, in deroga a tutte le esigenze di
bilancio.
«In Italia si assiste a un oltraggio perenne di quel «senza oneri per lo Stato» proclamato dalla Costituzione associato al riconoscimento della libertà di iniziativa dei privati di istituire scuole di tendenza che vengono poi finanziate dallo Stato», dichiara all’agenzia Adista Antonia Sani, coordinatrice nazionale dell’Associazione «Per la Scuola della Repubblica». «Si giunge a vette parossistiche: con la questione Imu lo Stato rischia di pagare una forte multa all’Ue e a incoraggiare il lavoro nero pur di compiacere il Vaticano. Questa dell’attività didattica ’gratuita’ o con ’corrispettivo simbolico’ è l’ultima perla per sottrarlo all’Imu: significa anche invito all’evasione, o sfruttamento autorizzato nei confronti dei docenti».
I requisiti del prof di religione
risponde Corrado Augias (la Repubblica, 23.11.2012)
Caro Augias,
insegno da 15 anni in una scuola primaria. Ora, entrata in ruolo dopo un concorso, non posso più insegnare religione se non in possesso di apposita idoneità rilasciata periodicamente dalla diocesi di appartenenza. È il Concordato, bellezza, direbbe Bogart. Così ho deciso di frequentare un apposito corso. Subito ci sono state illustrate le novità contenute ne “L’intesa per l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche” firmata il 18 giugno 2012 dal cardinal Bagnasco e dal ministro Profumo. Ero contenta perché avevo tutti requisiti, poi è arrivata la sorpresa. Dopo l’annuncio di un esame (!?) finale ci viene detto che avremmo dovuto consegnare un attestato del parroco dove si dice che siamo “persone coerenti con la fede professata nella piena comunione ecclesiale”. Qualcuno ha obiettato, ma ci è stato risposto che il diritto canonico non transige sul punto. Trovo questa “patente di buon cattolico” un insulto alla Fede e al Concilio Vaticano II, oltre che illogica. Chi come me non va a messa e per di più convive non potrà averla; al suo posto verrà nominata una persona scelta dalla diocesi.
Barbara Castellari
La prof Castellari definisce il provvedimento illogico. In realtà è peggio: è anticostituzionale. L’articolo 33 della Carta stabilisce perentoriamente che “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”. Vero peraltro che questa solenne dichiarazione è indebolita da un altro articolo della Carta, il discusso articolo 7, fonte di molte polemiche.
L’articolo sembra aprire bene: “Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”. Cavour sarebbe stato contento di leggerlo. Poi però arriva il secondo comma: “I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi” e questo mette in conflitto l’articolo 7 con l’articolo 33. Quale dei due vale di più? Una possibilità sembrerebbero darla le parole finali dell’articolo: “Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale”.
Con questa chiusa la questione da costituzionale diventa banalmente politica. Mettetevi d’accordo e cambiate, dice il costituente. Ma perché entri in azione la politica bisogna che ci sia la volontà, appunto “politica”, di farlo. Come accadde con Craxi presidente del Consiglio nel 1984 quando il Concordato venne rivisto lasciando cadere, tra l’altro, la nozione del cattolicesimo come “religione di Stato”. Non sembra questo il momento se si pensa che il ministro Profumo che ha co-siglato l’intesa con il capo dei vescovi è lo stesso che in settembre aveva dichiarato: “L’ora di religione così come viene insegnata non ha più senso”. Apriti cielo! S’è talmente aperto che siamo alla lettera della prof Castellari.
FISCO RIFORME E POLEMICHE
Le scuole cattoliche all’offensiva anti-Imu
E Bertone sottolinea il ruolo della Chiesa per il welfare italiano
di FRANCESCO GRIGNETTI (La Stampa, 26/02/2012)
ROMA Il giorno dopo la gran decisione del governo Monti di far pagare l’Imu anche alla Chiesa con un emendamento ad hoc al decreto-liberlizzazioni, è già controffensiva su tutti i fronti: politico, mediatico, giuridico. In Campidoglio c’è il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato vaticano, che presiede un convegno sul «welfare cattolico» che sembra fatto apposta. Sono presenti tutte le congregazioni religiose, ovvero i terminali da cui dipendono scuole, cliniche, alberghi, case di riposo, ostelli. Si sciorinano dati: sono 14.246 i servizi sanitari, sociosanitari e socioassistenziali direttamente o indirettamente collegati con la Chiesa, i quali «contribuiscono alla costruzione del welfare». Sono oltre 420 mila tra laici e religiosi, i dipendenti e i volontari impiegati. Ricorda quindi a buon diritto, Bertone, quanto il welfare cattolico lavori «per la promozione e il riconoscimento della dignità di ogni uomo». E pur senza citare la questione delle tasse, il cardinale rivendica un ruolo storico per l’Italia: «Una presenza capillare di opere benefiche e caritative ha contribuito in modo significativo alla maturazione nella società di una nuova sensibilità rispetto all’adozione di politiche assistenziali».
Il sottinteso del discorso del cardinal Bertone è evidente: se la sente il governo di fare a meno di questo apparato cattolico che comunque esiste e supporta il welfare pubblico? Soltanto in risparmi sulle scuole si calcola che lo Stato risparmi 5 miliardi di euro. Giunge a questo proposito un sonoro messaggio dal Quirinale che non manca di sottolineare quanto il mondo cattolico abbia concorso «allo sviluppo economico-sociale del Paese ed alla maturazione di valori, quali quelli della mutualità, della solidarietà e della convivenza pacifica, che trovano oggi consacrazione nella nostra Carta costituzionale».
In Parlamento, intanto, si fa sentire l’area cattolica. Da Maurizio Gasparri («Sarebbe errato penalizzare chi si occupa di poveri o di educazione») a Pier Ferdinando Casini («Decisione ineccepibile. Diverso è il caso egli enti assistenziali e delle scuole») a Gianni Alemanno («Non può e non deve essere un attacco agli istituti religiosi, perché senza di loro saremmo molto più deboli e più poveri»), a Paola Binetti («Tassiamo senza chiederci se è possibile fare di tutta un’erba un fascio, senza chiederci quanto effettivo è il risparmio che la scuola paritaria consente di far fare allo Stato»), al democratico Giorgio Merlo («C’è solo da augurarsi che non riparta la solita, noiosa litania anticlericale»). E intanto il senatore Salvatore Piscitelli (Coesione Nazionale) propone di cancellare l’emendamento o almeno posporlo al 2016.
Fissato il principio, la battaglia ora si sposta sull’interpretazione delle norme. Entro due mesi l’Agenzia delle Entrate dovrà stabilire se, come e quanto le scuole private cattoliche debbano pagare l’Ici. Così le case di cura o di riposo. «L’emendamento è chiaro e risolutivo - commenta il senatore Stefano Ceccanti, Pd - nel determinare il regime fiscale esclusivamente sulla base delle modalità dell’attività e non sulla natura dell’ente». «Sulla delicata questione scolastica, andranno commisurati i contributi richiesti agli utenti con il costo effettivo del servizio per valutare se si tratti di attività commerciale o meno».
Caso per caso sarà da verificare se un’attività sia effettivamente no-profit. E però don Alberto Lorenzelli, presidente della Conferenza Italiana dei Superiori Maggiori, è in grande apprensione: «Così rischiamo la chiusura perché solitamente le nostre scuole si trovano in complessi molto grandi e il contributo sarebbe proporzionale alla loro misura. Mi auguro che l’Imu riguardi solo gli spazi in cui ci sono vere realtà commerciali».
Ancora soldi al Vaticano
Con la legge di stabilità che sarà varata oggi il governo rifinanzia scuole private e autotrasporto
di Giorgio Meletti (il Fatto, 13.10.2011)
Per le scuole private ci sono 242 milioni di euro. Poi 20 milioni, meglio di niente, per le Università non statali legalmente riconosciute.Per l’autotrasporto 400 milioni. Le rispettive lobby (Vaticano nel primo caso, Confcommercio a nome degli altri nel secondo) festeggiano.
La legge di stabilità che questa mattina va all’approvazione del Consiglio dei ministri rispetta alcuni debiti d’onore, con il governo impegnato, nonostante il convulso clima politico, a pagare alcune cambiali irrevocabili. I contenuti del disegno di legge sono stati in parte anticipati in serata dall’agenzia Ansa, verosimilmente ispirata dai ministri competenti ansiosi di cantare vittoria, Maria Stella Gelmini dell’Istruzione per le scuole private e Altero Matteoli per i Trasporti. Complessivamente si parla di un’allocazione di risorse per 4.183 milioni di euro, a cui corrisponderanno tagli di spesa di eguale misura, le cui vittime saranno scoperte nei prossimi giorni. Il provvedimento, quello che una volta era la Finanziaria, è snello, di appena 9 articoli, dei quali il primo sul saldo netto da finanziare e l’ultimo sull’entrata in vigore.
NEL DOCUMENTO si fa riferimento alle due manovre estive, e per questo con la legge di Stabilità non ci sono “effetti correttivi sui saldi di finanza pubblica”, si legge nella Relazione Illustrativa. La politica del Tesoro non cambia: “L’azione del governo non può che essere rigorosamente vincolata al mantenimento della stabilità dei conti pubblici”, si legge nella bozza.
Tra gli impegni di spesa contenuti nelle bozze anticipate dall’Ansa c’è un miliardo di euro per rifinanziare gli ammortizzatori sociali nel 2012. Le risorse sono però destinate solo alla cassa integrazione “in deroga”, quella per chi non ne avrebbe diritto stando alla legislazione vigente: ma si tratta proprio delle categorie che in questo momento ne hanno più bisogno.
Le missioni militari internazionali vengono rifinanziate per 700 milioni di euro. Viene prorogato per il 2012 il cosiddetto “bonus produttività”, la tassazione agevolata al 10 per cento per premi, lavoro straordinario e lavoro notturno. La regola vale solo per i redditi fino a 40 mila euro. Viene confermata la dotazione di 400 milioni per il 5 per mille, la parte di tasse che ciascun contribuente può devolvere in favore delle onlus.
Confermato il pugno di ferro sulle spese dei ministeri. Per chi non raggiunge “gli obiettivi” di riduzione della spesa è prevista “una riduzione lineare delle dotazioni finanziarie delle missioni e dei programmi di spesa di ciascun ministero interessato”. Aumenta la cosiddetta flessibilità gestionale della spesa, cioè la possibilità di spostare i fondi da un capitolo di spesa all’altro: “Le rimodulazioni potranno riguardare anche le spese classificate tra quelle non rimodulabili”.
La Gelmini può cantare vittoria anche per l’Università, che otterrebbe secondo la bozza 150 milioni per il diritto allo studio e 400 milioni per aumentare il fondo ordinario di funzionamento dell’Università.
DELUSIONE per il ministro dello Sviluppo economico, Paolo Romani: il fondo aggiuntivo di 1,6 miliardi di euro proveniente dall’asta per le frequenze messe in vendita alle società telefoniche non andrà allo sviluppo della banda larga, ma verrà interamente incamerato per altri scopi: precisamente andrà per metà al fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato (cioè alla riduzione del debito pubblico) e l’altra metà a un fondo con diverse finanzlità, tra le quali aiuti all’istruzione e nuove risorse per eventi internazionali.
La relazione tecnica, stando alle bozze, giudica imprescindibile la destinazione di “risorse aggiuntive” ai fondi Fas, quelli per il sostegno allo sviluppo del Mezziogiorno, ma chiarisce che tutto ciò sarà possibile solo a partire dal 2015.
di Giulio Iacchetti (Il Sole 24 Ore, 14 novembre 2010)
Non ricordo con precisione il mio primo incontro con don Milani; nella fase che ha preceduto il servizio militare mi è capitato di approfondire il discorso sull’obiezione di coscienza e credo di averlo incontrato a quell’epoca, leggendo un volumetto postumo, L’obbedienza non è più una virtù, scritto da don Milani insieme ai suoi alunni della scuola popolare di Barbiana. Confrontandomi con quei contenuti ho scelto poi di farlo, il servizio militare, perché ritenevo di non essere ispirato da passioni sincere per fare obiezione di coscienza. Forse mi mancavano argomenti sufficienti per sostenere una scelta che a quell’epoca era molto rigorosa. Un giorno, all’inizio degli anni Novanta, di ritorno da Roma, in un viaggio assieme ad alcuni amici, abbiamo deciso di uscire all’uscita Mugello e di salire a Barbiana: è stato un momento molto forte dopo il quale ho iniziato a leggere e a informarmi maggiormente sull’argomento.
Poi ho incrociato Lettere ad una professoressa. Quando mi chiedono che libro voglio ricordare sopra ogni altro io non ho nessun dubbio, cito sempre Lettere ad una professoressa; per me è ancora uno stimolo fortissimo. Leggendolo, capisco che la sostanza diventa vita e le teorie diventano sangue e carne; mi ritrovo ogni volta commosso dall’esperienza di vita di una persona e di questi ragazzini che, insieme, scrivono un testo capace di azzerare ogni certezza e ogni precisa posizione, e così facendo riescono a costruire un’idea fatta di vissuto e di esistenza autentica, che porta dritti all’essenza del ruolo dell’insegnante e della formazione, visti come possibilità di riscatto dei più poveri.
La dedizione totale alla propria missione è, a mio avviso, una testimonianza spendibile da ognuno di noi, a prescindere dalla questione religiosa, che mi interessa relativamente. In qualità di progettista mi capita spesso di coprire il ruolo del docente, sebbene non sia per me una cosa continuativa; ogni anno ho un corso d’esame e capitano altri lavori presso il Politecnico o altre strutture universitarie. In queste situazioni la mia tensione è quella di trattare le persone con lo sguardo che potrebbe avere don Milani.
Trovo che sia molto semplice stigmatizzare il difetto, il problema, la mancanza, l’incapacità, l’insufficienza ma è più ardimentoso e più appassionante cogliere il buono da ogni idea, anche se mal espressa. Questa è la sfida di sempre: credo che nessuno di noi abbia diritto di bocciare e di rimandare gli alunni, come non aveva diritto la professoressa del libro.
All’epoca c’era una scuola classista, nella quale per i figli dei poveri o per chi abitava in montagna era preclusa ogni possibilità di proseguire gli studi; don Milani lo spiega molto chiaramente, dati alla mano, in termini di giornate scolastiche perse da coloro che non avevano accesso. Gli scolari si perdevano, non andavano più a scuola e interrompevano in anticipo gli studi, spesso venivano bollati come inadatti allo studio, respinti e rimandati nelle fabbriche e nei campi.
Adesso, forse, la situazione del diritto allo studio, grazie anche all’azione di don Milani, è cambiata; purtroppo è cambiata in peggio anche la qualità della scuola italiana.
Le sue passioni avevano a che fare con situazioni molto concrete, dall’organizzazione della scuola popolare, dove quelli più grandi insegnavano a quelli più piccoli, al suo odio verso la ricreazione, vissuta come una forma di impegno che portasse a dimenticarsi il dovere della formazione e per poter affrontare bene il mondo.
Aveva anche scritto a un regista francese per proporgli la trama di un film su Gesù Cristo, per dimostrare che la vita di Gesù Cristo era simile alla vita degli operai; non era solo una questione di fatti evangelici e sacri ma una vita di tristezza e restrizione. Sosteneva che i poveri, i suoi contadini e operai, andando al cinema potevano uscire con l’idea che Gesù Cristo aveva a che fare con la loro vita.
Aveva scritto a Bernabei, allora presidente della Rai, per chiedere che in televisione fossero insegnate le lingue straniere, perché diceva che i figli degli immigrati che tornavano in Italia non sapevano governare bene la lingua che avevano imparato e voleva che fosse forma di riscatto anche l’insegnamento della lingua inglese o tedesca.
Salendo sulla montagna che porta a Barbiana all’inizio si è molto baldanzosi, la strada è bella, in mezzo ai cipressi; poi c’è un ultimo tratto da fare a piedi. Di recente mi è capitato di arrivarci all’ora del crepuscolo, cominciava a fare freddo e quella tipica energia da gita in montagna, allegra, si era smarrita, lasciando il posto a una desolazione completa. Si vedono la canonica e il piccolo cimitero in cui è sepolto. Così ci si può ricondurre veramente allo spirito della sua lezione, alla volontà di mantenere tutto inalterato. Il suo allievo prediletto, che lui ha accolto come un figlio, Michele Gesuardi, in seguito diventato presidente della provincia di Firenze, ha voluto mantenere Barbiana inalterata; per fortuna don Milani non è diventato un’icona nel mondo della chiesa cattolica, ma è rimasto una figura scomoda, scomoda per tutti. A Barbiana non ci sono chioschi che vendono bibite, non c’è la santificazione che si percepisce quando si va in pellegrinaggio a Pietrelcina.
Ancora oggi è un paese difficile da raggiungere, proprio come il suo ispiratore. Visitando la terra in cui ha vissuto e operato, e naturalmente leggendo i suoi libri, si producono sempre dei dubbi. Don Milani, per me, resta un meraviglioso generatore di dubbi.
Quei 245 milioni di finanziamenti che ingabbiano le scuole paritarie
di Marco Ventura (Corriere della Sera, 15.11.2010)
Le scuole paritarie sono le scuole non statali, per lo più private, integrate nell’istruzione pubblica. Dar loro 245 milioni di euro può contribuire alla coesione e al futuro del Paese; ma può anche farci sprofondare nelle sabbie mobili dei vecchi vizi e dei vecchi conflitti. È questo, purtroppo, il caso del finanziamento infilato in extremis nella legge di stabilità. Tre motivi rendono questi soldi improduttivi e nocivi. Prima di tutto, lo squilibrio tra educazione pubblica statale, cui si toglie la vita, ed educazione pubblica dei privati, cui si elargisce con generosità. In secondo luogo, la coincidenza della misura con la doppia crisi dell’economia e del governo, che ingigantisce i 245 milioni e li rende di fatto una moneta per pagare il sostegno politico di chi investe in scuole paritarie, Chiesa cattolica in primis. Infine, terzo motivo, si tratta di soldi passivi, statici; la misura non risulta infatti accompagnata da nessun nuovo piano che subordini il finanziamento a migliori obiettivi e a una maggiore qualità.
Così configurati, i 245 milioni umiliano e offendono proprio i destinatari. Anzitutto chi crea e sostiene scuole non statali capaci di integrarsi nell’educazione pubblica e in particolare i cattolici. Il cui sforzo va premiato riconoscendo diritti e competenza, non elargendo favori e insinuando sospetti. Ma il prezzo più alto lo pagano le scuole paritarie stesse. Finanziarle in questo modo significa volerle in uno stato di soggezione, di minorità; ingabbiarle in consunte contrapposizioni e in vecchi «do ut des»; incatenarle ai rancori dell’opinione pubblica e alle ambizioni di questo o quel leader politico o religioso.
I prossimi 25 e 26 novembre a Roma la Federazione delle scuole cattoliche discuterà di nuova governance, di politiche pubbliche sui giovani, di formazione del personale. Da un lato i 245 milioni della legge di stabilità fotografano vizi e contrasti del passato. Dall’altro le scuole cattoliche si attrezzano per il futuro. E prefigurano un’Italia in cui di tutte le scuole pubbliche, statali e paritarie, è riconosciuta anzitutto la dignità.