Ci penserei due volte prima di definire la recente evocazione del Lombardo-Veneto, fatta da Bossi, come una riedizione in chiave minore della Padania: cioè una pura invenzione priva di fondamento storico-culturale e dunque priva di qualunque prospettiva politica. Si direbbe, invece, che un Lombardo Veneto, se vogliamo chiamarlo così, esista innanzi tutto proprio a partire dai dati della politica. Fin dall’inizio della seconda Repubblica, Lombardia e Veneto infatti (specie le loro zone non urbane ma assai densamente popolate) costituiscono il bastione elettorale ormai consolidato della destra, così come ha confermato anche il referendum di domenica scorsa che ha visto Lombardia e Veneto, uniche tra tutte le regioni della penisola, dare la maggioranza al sì. Non a caso Milano è la sola grande città italiana dove ininterrottamente da quindici anni la destra ha nelle proprie mani l’amministrazione comunale. Insomma, proprio le due regioni di gran lunga alla testa dello sviluppo economico del Paese e suo cuore finanziario, dove si addensano Università prestigiose, celebri istituzioni culturali, grandi giornali e case editrici, dove hanno la loro sede storica fenomeni artistico-produttivi di punta come la moda e il design, proprio queste regioni non solo oppongono ormai da tempo una loro apparentemente invincibile specificità politica, ma, ciò facendo, sembrano per molti segni mostrare la consapevolezza di costituire qualcosa di profondamente diverso rispetto al resto del Paese, e in qualche modo la volontà che questa diversità pesi, forse si sviluppi e acquisti nuovi significati. Chi guarda le cose in una prospettiva storica è colpito innanzitutto dalla comune lontananza (lontananza non vuol dire estraneità) che sia il Veneto che la Lombardia hanno avuto rispetto alla costruzione dello Stato nazionale, specie se si paragona il loro ruolo a quello avuto, invece, dall’area ligure-piemontese. Diversi, naturalmente, a seconda delle loro diverse vicende storiche, i modi e i motivi di questa lontananza, ma alla fine convergenti. Principale tra tutti la fortissima identità delle due capitali e dei rispettivi ceti intellettuali: Milano, abituata da secoli di dominio straniero a viversi come una sorta di entità autonoma bastante a se stessa, e non a caso culla del federalismo cattaneano; e Venezia, orgogliosa capitale del più glorioso Stato regionale della penisola, incarnazione agli occhi dell’intera Europa di un vero e proprio grande mito politico. Si aggiunga, dal Ticino al Tagliamento, il vivo e vitale municipalismo di tanti centri urbani - da Pavia a Padova, da Como a Brescia - e delle loro élites aristocratico-borghesi, e dall’altra parte popolazioni contadine legatissime al cattolicesimo e assai poco predisposte a nuove mitologie politiche o fedeltà dinastiche. Sta di fatto che nei grandi momenti di crisi del 1848-49, del 1859-60 e del 1866, sia in Lombardia che in Veneto non è possibile riscontrare nulla che assomigli all’appassionato unitarismo filopiemontese che invece, specie a ridosso di Villafranca, caratterizza i gruppi dirigenti risorgimentali di Toscana ed Emilia (o ancor di più, poco dopo, quelli napoletani esuli a Torino). Ma come ho già accennato, a fare la maggiore differenza rispetto al resto d’Italia è il volto che storicamente Lombardia e Veneto presentano fuori dai centri urbani, nelle campagne. In nessun altro luogo della penisola vi è stato un altrettanto capillare e pervadente insediamento della cultura cattolica. Insediamento che qui però - ed è questo un fatto ancora una volta specifico e, inutile sottolinearlo, di enorme rilievo - lungi dal restare relegato ad una dimensione religiosa tradizionale, e dunque destinato fatalmente a declinare, è stato capace, viceversa, di mettere in piedi una fitta rete di istituzioni economiche: dalle cantine e i mulini sociali, alle associazioni artigiane, alle banche popolari, alle cooperative, ai consorzi più vari. Ciò ha prodotto in tutta l’area lombardo-veneta, mi sembra, e sia pure con tempi assai diversi da una regione all’altra, due effetti collegati di enorme rilievo storico, e dunque, oggi, anche politico. Innanzitutto la nascita fuori dai centri urbani di una società cattolica ma insieme anche moderna (perlomeno se si considera lo sviluppo economico un parametro decisivo della modernità). La quale proprio per questo ha mostrato la capacità di durare nel tempo, addirittura di crescere impetuosamente, mantenendo tuttavia un legame vitale con la sua matrice ideologico-religiosa. Il che ha voluto dire, sia in Lombardia che in Veneto, la capacità delle «campagne» di resistere alla spinta egemonica della «città» e dei suoi ceti politico-intellettuali, di evitare quel destino di subalternità culturale che altrove è stato la regola, mantenendo, all’opposto, una propria spiccata autonomia di orientamenti e di vita. E ha voluto dire, di conseguenza, la capacità di mantenere una propria strutturata identità politica talora in grado proprio essa, alla lunga, di prevalere anche dentro le cinte urbane. Infine, prima la straordinaria ricchezza del contado lombardo e il suo ruolo strategico nell’industrializzazione del Paese, poi, in tempi a noi più vicini, la propensione tipicamente italiana alla piccola e media azienda, sono stati altrettanti fattori determinanti che hanno reso possibile l’esistenza di una base materiale adeguata a sostenere l’autonomia culturale e politica di cui ho detto. La quale ha significato un fenomeno assolutamente inedito rispetto al resto della penisola: una diffusa modernità non urbana, imbevuta, anziché di valori laico-borghesi prettamente urbani, di valori cristiano-popolari radicati in un humus contadino. Va ricercata in questo nodo di questioni, a me pare, l’origine vera della forza particolare che in Lombardia e Veneto possiede la dimensione locale: questa non solo ha potuto fare tutt’uno con la modernizzazione, ma ha potuto altresì disporre di un apparato culturale-ideologico, fornito dal cattolicesimo, che anche organizzativamente è stato capace di accompagnarla e sostenerla sulla nuova strada. Si è così venuto stabilendo nelle due regioni di cui stiamo discutendo, almeno virtualmente, una sorta di sinergia: tra l’autonoma identità culturale del contado, di segno originariamente religioso, e perciò nella sostanza estranea al paradigma fondativo della comunità politica «italiana», da un lato, e dall’altro l’identità dei ceti intellettuali e borghesi urbani, di segno perlopiù laico liberal-illuministi, ma comunque - ed è questo il punto essenziale - espressione di una cultura anch’essa perlopiù lontana dalla koiné d’impronta statal-nazionale storicamente affermatasi nell’Italia postunitaria. Si è prospettata di fatto, cioè, o comunque è potenzialmente sempre all’ordine del giorno, una sorta d’ integrazione di contrari all’insegna di un dato che accomuna sia la cultura urbana che quella non urbana, e che è per l’appunto la forte specificità di entrambe. Quello che ho tratteggiato è tuttavia un quadro esclusivamente storico: in quanto tale vero, ma sul piano delle conseguenze pratiche esso ha un valore solo virtuale. Per produrre effetti anche su questo piano, perché dunque un Lombardo-Veneto potesse realmente esistere, sarebbe necessario un fatto che oggi appare invece quanto mai improbabile. E cioè che i ceti borghesi urbani, specie quelli intellettuali, decidessero di fare qualcosa delle specificità sopra dette, di mettere davvero mano ai materiali che la storia ha consegnato loro, per cercare di elaborarli e comporli creativamente in un progetto di grande portata identitaria e dopo semmai - solo dopo - anche di segno politico. Per fare ciò, però, essi dovrebbero prima sottrarsi all’egemonia ideologica «nazional-italiana», che nel loro caso specifico si esprime nella massiccia quanto inerte adesione della grande maggioranza di quei ceti stessi all’ideologia e alle posizioni della sinistra, verso la quale nulla li sospinge, paradossalmente, tanto quanto l’esistenza proprio della Lega. Cosicché, fino a quando l’istanza autonomistica sarà rappresentata dalla brutale trivialità ideologica e dalla patetica incultura del leghismo, è arcisicuro che il Lombardo-Veneto resterà nel mondo dei sogni. Bossi non lo sa: ma alla fin fine proprio lui e la sua gente sono i migliori custodi di ciò che detestano.
Ernesto Galli Della Loggia
da www.corriere.it