Sègoléne donna da corsa
di Barbara Spinelli *
La bellezza, il sorriso che non scema, la composta linea dei tailleur, e lo sguardo che trasmette in assoluta trasparenza desiderio di vincere, desiderio d’emozione, desiderio non di apparire quel che è ma di coincidere perfettamente con quel che appare: donna fino in fondo, diversa da tutti i politici precedenti perché tutti i politici precedenti sono maschi. Dunque misurabile con metro diverso proprio perché donna, che seduce e ha la quiete di chi, in fondo, non teme competizione perché lei è la prima, l’unica, non ha nemmeno bisogno di definire se stessa perché non è la cultura a determinarla ma la natura, la biologia. Ségolène Royal che vince le primarie socialiste e si candida all’Eliseo ha tutte queste qualità, che adopera con istinto sinuoso e senza che ancora si sappia l’essenziale: se l’apparenza sia una sua tecnica o la sua sostanza.
Se questa è l’epoca della cultura del corpo - L’uomo senza qualità la vede nascere, nel romanzo di Musil, il giorno in cui un giornale annuncia la vittoria d’un «geniale cavallo da corsa» - lei si fa corpo.
Se questa è l’epoca in cui gli uomini politici son guardati con sfiducia, lei offre l’alternativa: potete credere in me, perché io non sono evidentemente loro. La politica stessa cambia, assieme al vocabolario: si materializza, si semplifica. Una parola ricorrente, per descrivere Ségolène Royal, è incarnazione. Ricorre anche l’aggettivo concreto.
Domenico Quirico illustra bene questa rivoluzione della concretezza, inaugurata dalla star-Segò. Dal cielo delle idee la politica scende, si sostanzia nel fisico d’una donna che è al tempo stesso figlia, madre, moglie, aspirante re. Figlia di un severo militare di provincia, madre di quattro figli e dunque esperta di vita quotidiana, compagna di un uomo (il segretario del partito socialista Hollande, che ha scalzato). I francesi avevano l’impressione di traversare un deserto, e all’orizzonte non vedevano più il corpo del re. Adesso lo vedono, lo sentono incredibilmente vicino.
Un’altra parola di Ségolène Royal è prossimità. Prossimità distante tuttavia, aureolata come sono aureolate le stelle. Geniale donna da corsa: è la star che seduce, e Ségolène Royal lo intuisce anche quando agisce da politico consumato. Sa che non è la persona che oggi conta ma la personalità, e che decisivo è il modo in cui il big vive il privato e lo esibisce, mescolandolo oculatamente col pubblico, sorridendo imperturbata sotto i riflettori, facendosi ritrarre nelle più varie circostanze.
C’era una volta il populismo, che era un movimento nato per rompere le regole politiche e che creava sorpresa con parole aggressive. Il populista usava il linguaggio della folla per ammaliarla e condurla dove voleva. Oggi assistiamo a una metamorfosi del fenomeno: non è più il popolo che il politico insegue ma il mondo-people, quello che si contempla sfogliando l’omonimo settimanale americano. Il mondo segreto e privato delle stelle del cinema, dei calciatori, dei monarchi: People fruga e il suo raggio d’azione s’estende. Il politico si mette nelle sue mani e la politica stessa si fa people, paillette. Sono i rotocalchi a larghissima diffusione che fanno le carriere, che aboliscono l’ultimo confine che esisteva tra vita politica e privata: confine ancor ieri rigido in Europa.
La forza del politico-people è nella mimesi, l’imitazione delle star deve esser perfetta, la vita privata e la continua esposizione del corpo diventano ingredienti della vita pubblica. I francesi che amano coniare concetti parlano di «pipolisation» della politica. Per la verità la Royal non ha approfittato per prima dell’effetto-people. Ha cominciato Nicolas Sarkozy, l’avversario gollista: lasciando che venisse messa in mostra, quasi fosse una piccante serie tv, la storia del suo matrimonio con Cecilia: prima idilliaco, poi infranto, poi salvato. I rotocalchi che imitano People (Voici, Closer) si sono impossessati del melodramma e i giornali si son messi al passo.
Ségolène Royal si è presto adeguata, apparendo sulle riviste-people: in giardino coi figlioletti e in costume da bagno e facendosi fotografare in mille modi. Tutto questo col suo consenso, perché l’obiettivo era di affascinare la Francia che legge i rotocalchi o la provincia più che gli apparati socialisti o la capitale. Gli apparati andavano anzi aggirati: dovevano trovarsi davanti al fatto compiuto dell’ascesa della star e prenderne atto, come si prende atto leggendo People che George Clooney è l’uomo più sexy del pianeta e che Tom Cruise e Katie Holmes sono per sempre uniti grazie a Scientology.
Si discute molto in Italia attorno alla rivincita femminile, alla Royal che mostra la via alle donne che aspirano alle massime cariche. Si sono detti favorevoli anche il Presidente della Repubblica, il Presidente del Senato. Perché anche da noi c’è stanchezza della politica, perché tutti in cuor loro sanno che il candidato-donna che ha vinto le primarie è un politico di lunga esperienza ma non come tale si presenta. Si presenta come ricominciamento assoluto, come pagina bianca su cui nulla è scritto tranne un appetito strepitoso di quote rosa a ogni livello.
Chi mantiene i nervi a posto reagisce con qualche scetticismo, come Emma Bonino quando osserva che le quote rosa sono utili, ma solo nell’emergenza: in Afghanistan per esempio. Altrimenti, confida al Corriere della Sera, «vedo con orrore una società a quote (...). È tempo che decidiamo di farci valere per i nostri meriti e non per i numeri». Ségolène Royal di meriti ne ha molti. Meriti di carattere soprattutto: che è duro, tenace, calmo. È il suo programma che si conosce davvero poco.
Il politico-people ha in comune col populista la non-ortodossia, la parola cruda, fatta per le classi popolari. Ma per il resto non si somigliano: il populista trascina, il politico-people si mette dietro la folla senza dar l’aria di guidarla: «Sono uno come voi - dice al pubblico - solo un po’ più fotografato». Le commesse nei negozi sono il traguardo, e alle commesse s’ha da parlare terra terra: è Sarkozy a dirlo, quando si scaglia contro l’insegnamento a scuola della Principessa di Clèves e dice che una commessa, dei deliziosi romanzi amorosi del ’600, non sa che farsene. Il politico-people si mette al rimorchio delle folle, ne studia gli umori, le paure, e dà forma a tutte queste emozioni.
Il colmo l’ha raggiunto Ségolène Royal in un dibattito sulla politica estera alla vigilia delle primarie. Interrogata sull’ingresso della Turchia in Europa e anticipando un no francese al referendum ha detto: «La mia opinione è quella del popolo francese». È stata una vera bomba, ha commentato il direttore di Charlie Hebdo, Philippe Val: «È come se Mitterrand candidato avesse detto, a proposito della pena di morte: “La mia opinione è quella del popolo francese”. Oggi avremmo ancora la ghigliottina».
Il vuoto di programmi e gli appelli emotivi («Non abbiate paura del nuovo») possono dar risultati pessimi o non pessimi, a seconda. Anche Clinton all’inizio aveva qualcosa d’inconsistente e anche Roosevelt, stando all’analisi di William Pfaff sull’Herald Tribune. Forse le idee verranno, con la carica e le prove. E comunque, le poche idee fin qui esposte sono vaghe, populiste, ma son divenute dominanti (sull’ordine giusto, sulla centralità dell’insegnamento). Sono idee che vedono Ségolène Royal inseguire Sarkozy ma altri temi sono suoi, come lo stato di diritto e l’autonomia della giustizia. Il vuoto può addirittura essere un’opportunità: Ségolène Royal libera dagli apparati non sarà condizionata. Inoltre il suo partito non è meno inconsistente, mentre accanto le stanno uomini liberi come Delors.
Il fenomeno people non è caduto dal cielo. Nasce da una profondissima crisi che si è creata in Francia nei rapporti fra società e classe politica, fra società e istituzioni. Alain Supiot, esperto di diritto del lavoro, parla di defezione di massa dalle istituzioni, indicandone le quattro tappe cruciali: le presidenziali del 2002, quando in lizza non rimasero che Chirac e Le Pen; i tumulti nelle banlieue; il no alla costituzione europea; la rivolta dei giovani contro il contratto che acuiva la precarietà dei giovani (Cpe). La sfiducia nelle istituzioni è totale perché i politici stessi non le rispettano più.
Quando un uomo come Sarkozy adopera la carica di ministro dell’Interno per parlare di periferie canaglie (racaille), da ripulire al karcher (la pompa a pressione che pulisce i marciapiedi) «non è come politico che s’esprime ma come gangster», svilendo leggi e istituzioni (Alain Supiot, London Review of Books, 8 giugno 2006). La politica privatizzata, usata a fini personali: negli anni scorsi è stato un male italiano, ma il pericolo esiste anche altrove. Sarkozy e Ségolène Royal son figli di questa democrazia alterata. Sarà già molto se riusciranno a restituire dignità alla politica, dopo essersi nutriti delle sue patologie.
BUSSOLE
Francia, elezioni sempre più mediatiche Royal, Sarkozy, Bayrou: è "berlusconisation"
di Ilvo Diamanti*
C’è qualcosa di nuovo, nell’aria, anzi d’antico, in queste elezioni presidenziali francesi, per chi sia reduce da quasi vent’anni di anomalia italiana. (In Francia continuano a pensarci così. Una anomalia democratica). I due candidati più importanti, Nicolas Sarkozy, leader dell’UMP, e la socialista Ségolène Royal, si confrontano ormai da più di un anno. Manco si trattasse delle presidenziali americane. O della campagna elettorale italiana, durata un’eternità, e ancora non finita, con gli stessi candidati di dieci anni prima. La Royal si è affermata sugli altri candidati socialisti affrontando le primarie (senza vincitore annunciato, in questo caso). Ma "primarie": la novità sperimentata dal centrosinistra italiano che, da molto tempo a questa parte, abbia avuto maggiore successo, in Francia. La Royal e Sarkozy sono molto "mediatici".
Curano l’immagine, la comunicazione, le loro interviste sono ben preparate. Belle foto, mai improvvisate. Ogni giorno un tema e un argomento diverso, rivolto a un segmento di elettori diverso. Il lavoro, le donne, i giovani, la sicurezza, la protezione dello Stato. Siamo incerti se parlare di "americanizzazione". Ma in Francia si preferisce usare la formula "berlusconisation".
Senza più il tono sanzionatorio e stigmatizzatore di poco tempo fa. Certo: non è un complimento. Suona, invece, come una constatatazione un po’ amara. Una formula descrittiva e non prescrittiva. Fra i due candidati maggiori si è inserito François Bayrou, leader dell’UdF. Un partito moderato, fino a ieri, in Italia, avremmo detto di centrodestra.
Naturalmente alleato con l’UMP, guidata dai gollisti. Oggi solo di centro. Ambisce a intercettare il voto fra coloro che non ne possono più del bipolarismo francese. I sondaggi lo incoraggiano, indicano come molti "moderati", fra i ceti più istruiti e responsabili, siano attratti dal suo messaggio. Ha promesso che finite le elezioni non tornerà nella casa del centrodestra. Cercherà di allargare lo spazio del centro.
La frammentazione, la moltiplicazione dei candidati è sempre elevata. Qualche giorno fa un editoriale non firmato di "Le Monde", quindi riconducibile al Direttore, ha sostenuto l’opportunità di bilanciare il doppio turno, alle elezioni legislative, con una quota di proporzionale. Per evitare che tutti i partiti e i candidati, vista l’impossibilità di accedere al Parlamento, con questa legge, cerchino visibilità alle Presidenziali.
Naturalmente i francesi, tanto più dopo la recente crisi politica delle settimane scorse, continuano a sostenere che noi italiani siamo un po’ matti, che non ci capiscono. Siamo una anomalia. E noi siamo d’accordo con loro. Ci sentiamo un po’ folli, non riusciamo a comprenderci. Ci riteniamo anomali.
Però, ripeto, in tutto ciò che succede in Francia, c’è qualcosa di antico, già visto. Quasi il remake di un film a cui ho già assistito. E partecipato, come comparsa.
* la Repubblica, 8 marzo 2007
Cento idee per la nuova Francia
di Gianni Marsilli *
La campagna elettorale di Ségolène Royal ha finalmente cambiato passo. È accaduto ieri verso il sessantesimo minuto del suo discorso programmatico. Ségolène si è imporporata, ha alzato la voce, ha gridato che il suo era «più di un programma», era «un patto d’onore, un contratto presidenziale» sul quale prestava giuramento solenne, lì, davanti a tutti: «Voglio per tutti quello che ho voluto per i miei figli!». Si è quasi commossa, sembrava trasfigurata, tesissima nello sforzo dell’autocontrollo. Le era uscito d’improvviso un grido del cuore, e per la prima volta - lei che non conosce i trucchi dell’oratoria tribunizia - comunicava affettivamente, e non solo concettualmente, con quei dieci, quindicimila militanti accorsi a Villepinte, alle porte di Parigi, e con un paio di milioni di telespettatori.
Per cinque lunghi minuti è stato un delirio di applausi e ovazioni. È rimasta ferma e muta a riceverli, come per immagazzinare il coraggio e la forza di cui avrà bisogno nelle prossime settimane. Le labbra hanno avuto come un tic, due, tre volte. Appariva< scossa dal suo stesso exploit, in un momento si era scoperta trascinatrice, capace di leadership. François Hollande, il suo compagno, la guardava dal basso non si capiva se più preoccupato per la sua salute o estasiato per la performance. Laurent Fabius, il rivale più aspro, l’oratore più brillante del Ps, la fissava stupefatto. Elisabeth Guigou, Martine Aubry, le grandi escluse dalla corsa, stralunavano gli occhi davanti al miracolo: dal bozzolo nasceva la farfalla, chi l’avrebbe mai detto. Il vecchio Pierre Mauroy, che l’aveva sostenuta fin dall’inizio, assentiva immobile, gli occhi umidi. L’ora successiva è stata in discesa: Ségolène è andata via sciolta e dritta, senza esitazioni, la voce lievemente arrocchita. Sapeva di tenere finalmente il timone della «gauche». Sapeva che tutta quella gente le aveva trasmesso il bastone del comando, per acclamazione di popolo.
Ma se questo è stato l’indispensabile valore aggiunto, il suo discorso di ieri è servito soprattutto a render nota all’universo mondo la sua idea della Francia. Finora, si sa, aveva ascoltato: seimila «dibattiti partecipativi», due milioni di persone alle quali «è stata resa la parola». Ieri la dettagliatissima (anche troppo, forse) sintesi, dei dibattiti e del programma che il Ps aveva già approvato lo scorso giugno, in un catalogo che conta un centinaio di proposte concrete. La nota sociale appare quella prevalente. Innalzamento del salario minimo a 1500 euro mensili. Rivalorizzazione dei salari più bassi. Aumento delle pensioni minime del 5 per cento. Sanità gratuita per i giovani fino ai 16 anni. Scolarizzazione generale fin dai tre anni di età. Scorporo in diverse scuole di tutti gli istituti che contino più di 600 allievi. Piani massicci di formazione professionale da affidare alle regioni. Formazione professionale immediata per i 180mila giovani che oggi escono dalla scuola anzitempo, privi di uno straccio di diploma. Incoraggiamento alla sindacalizzazione attraverso la detrazione fiscale dei costi di adesione. Detrazioni fiscali per le imprese costrette a delocalizzare, ma in cambio di posti di lavoro.
Esortazioni costanti al dialogo sociale, fin dalla Conferenza nazionale sulla questione salariale che, qualora eletta, Ségolène convocherebbe già nel prossimo giugno. Giusta valorizzazione del lavoro femminile, la cui retribuzione, a parità di qualifica, è oggi del 25 per cento inferiore a quella maschile. Garanzia di un alloggio per tutti: quote di edilizia popolare da rispettare per tutti i comuni, pena l’intervento diretto dello Stato a spese delle municipalità inadempienti, possibilità di requisizione di case vuote da almeno due anni, contributi agli inquilini che rischiano lo sfratto per cambiamento e aumento vertiginoso dell’affitto. Riforma dell’indice dei prezzi, che oggi non riflette la realtà del carovita. Quanto al finanziamento di tutto ciò, è un fronte che si è aperto ieri, e che gli avversari bombardavano già dalla prima serata.
L’altro punto forte ci è sembrato essere il capitolo delle riforme istituzionali, tale di configurare «una nuova Repubblica». Riforma del Senato (che oggi non è sottoposto al suffragio degli elettori, ma solo degli eletti), abolizione dell’articolo costituzionale (il celebre 49.3) che consente al governo di porre la fiducia saltando il dibattito parlamentare, la presidenza della Commissione finanze da affidare automaticamente ad un membro dell’opposizione, l’introduzione del referendum di iniziativa popolare. Ma soprattutto un massiccio trasferimento di competenze dallo Stato centrale «colbertista e giacobino, pesante e farraginoso», alle regioni, che in Francia contano più o meno come da noi le Province: elementi di federalismo, in un paese che l’ha sempre respinto come il diavolo fugge dall’acquasanta.
In molti avevano rimproverato a Ségolène Royal mancanza di visione internazionale, inesperienza, provincialismo. Ha voluto rassicurare gli europeisti. «Voglio che la Francia torni al tavolo europeo», e ha prefigurato un altro referendum costituzionale. Ha cantato «l’Europa potenza politica, che sarà oggetto da parte nostra di un ardore particolare». Al grande e trasversale partito del «no» ha offerto un nuovo articolo da inserire nello statuto della Banca centrale europea, dedicato «a crescita e occupazione».
Ha esaltato la Francia dei diritti dell’uomo, e ne ha fatto un parametro fisso della sua politica internazionale: verso la Cina, verso la Russia di Putin, verso le autocrazie e le dittature del mondo. Ha garantito «amicizia» per gli Stati Uniti, ma ha rivendicato il diritto di critica: «La taglia non ha nulla a che fare con i principi!». Ha posto in cima ai suoi pensieri presidenziali «l’eccellenza ambientale», le energie rinnovabili, occasione, oltretutto, «della creazione di almeno centomila posti di lavoro».
Ha prefigurato non un’uscita dal nucleare, ma la chiusura progressiva delle centrali più vecchie e obsolete. Il catalogo programmatico è stato lungo, due ore intere. È servito senz’altro a dare a Ségolène, che era rimasta troppo a lungo allo stato di icona, gambe per camminare, agganci solidi, risposte da fornire: nessuno potrà più irridere il «programma fantasma» della candidata socialista. Ségolène è di nuovo in piedi sul ring, ma la battaglia non fa che cominciare. Anche Nicolas Sarkozy era in campo ieri, alla Sala della Mutualité, luogo storico della sinistra in pieno Quartiere Latino. Ha ripetuto che la classica contrapposizione destra/sinistra non gl’interessa, nel momento in cui aspira a diventare il presidente di tutti i francesi: «Delle etichette me ne frego. Le convinzioni le rispetto». Vuole essere il presidente «dell’unione e della riconciliazione», e pesca a 360° nella storia e nel paesaggio politico nazionale. Il messaggio di Ségolène si vuole invece di rottura, di cambiamento radicale. Per ora hanno in comune una cosa sola: incarnano ambedue un netto salto generazionale.
* l’Unità, Pubblicato il: 12.02.07, Modificato il: 12.02.07 alle ore 11.02
Parigi, Ségolène si gioca tutto
di Gianni Marsilli *
Ora o mai più: per Ségolène Royal è questa la settimana cruciale. Ha perso quota, mentre Sarkozy ne guadagnava. Lei «ascoltava», l’altro parlava. Al dibattito manca una voce, la sua. Da settimane si è creata un’attesa, ogni giorno più carica di aspettativa. Che cosa dirà Ségolène? Perché non si esprime compiutamente? Perché non svela al Paese il suo programma? O meglio, in buona sintesi: qual è la Francia che ha in mente? Ormai glielo chiedono tutti: gli avversari con sufficienza e anche scherno, gli amici e compagni con angoscia mal dissimulata. Lei ha resistito, ma i tempi si fanno brevi e il respiro diventa corto. Finalmente una data per il discorso che dovrà essere per forza fondatore, memorabile: domenica 11 febbraio. Aumenta l’attesa, ma più aumenta l’attesa più crescono i rischi di una delusione. Per questo sono giorni decisivi per Ségolène. Rappresentano un crinale: di qua l’abbrivio ritrovato, di là la fatica dell’inseguimento.
Non è lo scenario che lei avrebbe voluto. Pensava di trarre maggiori benefici dalla «fase d’ascolto», queste migliaia di riunioni, soprattutto in provincia, che danno vita alla «democrazia partecipativa», brevetto politico del quale è la sola e testarda titolare. Un tema, una sala, migliaia di inviti. Nessuna vedette al microfono, il quale invece passa alla gente. Si raccolgono umori, ma anche idee. I dirigenti politici fanno più i notai che i tribuni, e non a tutti piace. Poi fanno pervenire il rendiconto al quartier generale di Ségolène, che rielabora e sintetizza. Educazione, ambiente, energia, sicurezza, trasporti, carovita, salari, tutto viene recepito e inoltrato. Dura da due mesi e i media trovano qualche difficoltà, e riottosità, a seguire correttamente simili dibattiti poco spettacolari, privi di primedonne, senza posta in gioco che non sia la possibilità offerta a tutti di parlare, spesso, inevitabilmente, dei propri guai, anche piccoli, anche noiosi, non certo da prima pagina. Ma lei ha insistito, contro venti e maree e soprattutto contro lo scetticismo degli «elefanti» del partito, piegatisi di malavoglia all’esercizio. Per loro, e per molti altri, sarebbe stato meglio dar vita ad una campagna classica e intensa: meeting e comizi e molta tv, in modo da creare «una dinamica». Ségolène avrebbe voluto continuare per tutto il mese di febbraio, e appena in marzo (si vota il 22 aprile) trarre le conclusioni e accendere i motori della vera campagna elettorale. Ma le cose non sono andate come lei aveva immaginato.
È successo infatti che Nicolas Sarkozy abbia indovinato subito il tono e il ritmo della sua campagna. Dal 14 gennaio, giorno del suo discorso d’investitura, campeggia sulla scena. Canta da solo, e canta bene. Come dice Olivier Duhamel, professore a Scienze politiche e già deputato europeo socialista, è riuscito a "raccontare una storia" ai francesi. Gli ha fornito cioè subito, appena entrato in scena, la sua idea della Francia, e ancor di più del sentimento forte, fortissimo che ad essa lo lega. Senza roboante grandeur, ma con passione. Ha parlato, e continua a parlare, da presidente di tutti. Ecumenico, si rivolge alla sinistra ponendo al centro del suo programma «il lavoro», citando splendide frasi di Jaurés e Blum, che della sinistra, socialista e comunista, sono i padri fondatori. Dice ogni volta che può: «Perché la sinistra non ascolta più la voce di Jaurés?». «Giù le mani da Jaurés», gli gridano dall’altra parte, ma si avverte la sorpresa, e un certo sconcerto, più che l’oltraggio per l’indebita appropriazione. Una buia e gelida mattina alle quattro è lui, Sarkozy, che si presenta ai mercati generali di Rungis, immenso (il più grande del mondo) e brulicante centro di vita lavorativa: facchini, magazzinieri, macellai, pescivendoli, fruttaroli, medici, veterinari, chimici, trasportatori, agricoltori, allevatori, tutta la folla che converge lì a quell’ora perché la capitale sia correttamente e igienicamente foraggiata di ogni ben di dio. A quell’ora Rungis è ancora una pagina di Zola, è uno dei cuori pulsanti del paese, un suo gene identitario. Ed è lui che si ferma a disputare uno per uno voti popolari che vanno a Le Pen («Perché lo voti? Sai benissimo che non sarà mai eletto»), o ai socialisti («Non sarebbe meglio lavorare di più e guadagnare di più, invece delle 35 ore?»). È sempre lui che il giorno dopo va a pranzo dal laburista Tony Blair, per lodarne la capacità innovativa e i successi economici e sociali, e per prenderne nettamente le distanze a proposito dell’Iraq. È lui che ogni volta che apre bocca parla al «popolo», perché sa che il primo partito tra gli operai è il Fronte nazionale e il secondo l’astensionismo, mentre la metà dei «quadri» è pronta a votare Ségolène, e che se li tenga. E naturalmente con Sarkozy viaggiano le telecamere che ne captano anche i sospiri, e chi non c’era non si perde nulla. Conclusione: 10 sondaggi di fila raccontano ormai di uno scatto e di una fuga di Sarkozy, vincitore - se si votasse oggi - con un bottino tra il 52 e il 55%. Ségolène, che era la lepre, è diventata l’inseguitrice.
Sono queste, in sostanza, le ragioni che spingono Ségolène a scendere direttamente nell’arena questa settimana. Già in questi ultimi giorni i «dibattiti partecipativi» cambiavano natura, assomigliavano di più a meeting elettorali, quelli dove si galvanizzano le truppe e si scaldano i cuori. Martedì ci sarà un’anteprima, comizio a Parigi con il sindaco Delanoe. Lei stessa ha cominciato a precisare qualche intento programmatico: qui la chiusura progressiva delle centrali nucleari più desuete, lì la patente gratuita per i giovani con un diploma professionale, qui la nomina di un vicepremier addetto allo «sviluppo compatibile e durevole», lì diecimila euro di prestito gratuito per i debuttanti nel mondo del lavoro, qui una legge che punisce le violenze coniugali, lì la gratuità della contraccezione «per tutte le ragazze di meno di 25 anni».
Ma Ségolène appare ancora compilativa. Manca la sintesi, il messaggio forte. Per questo cresce l’attesa per l’11 febbraio. Cresce pericolosamente, tanto che i collaboratori di Ségolène tendono talvolta a minimizzare l’evento: la candidata fornirà «i grandi orientamenti», riservandosi il do di petto per una data più vicina alle elezioni. Bene per i «grandi orientamenti», obiettano in molti, purché sul podio, domenica prossima, ci metta il cuore, l’anima, insomma il reattore nucleare di un candidato presidenziale. Anche perché eventuali vuoti saranno presto riempiti: sono già cinque, i candidati a sinistra, compreso l’altermondialista José Bové che invita tutti «all’insurrezione elettorale antiliberale». Più il centrista europeista François Bayrou, che approfitta di ogni punto che Ségolène lascia per strada. Lo danno al 10-12 per cento, alla pari con Le Pen l’immarcescibile.
* l’Unità, Pubblicato il: 04.02.07 Modificato il: 04.02.07 alle ore 15.07
Ségolène rivoluzione delle parole
Dal «pensare contro» al «pensare insieme» con naturalezza. Anche da noi prese piede il «gentese» più popolaresco, ma anche più rozzo e sbracato
di GIAN LUIGI BECCARIA *
Si è fatto un gran bel parlare, su La Stampa di ieri del nuovo corso anche linguistico di «Ségolène donna da corsa», come recita il titolo dell’intervento di Barbara Spinelli. Ségolène Royal - si dice - sembra possedere più di altri la tecnica del sedurre la gente, portarla dove vuole, e questo proprio nel momento in cui gli uomini politici sono guardati con una certa sfiducia. E lei invece si offre come una che dice «di me potete fidarvi», perché io non sono diversa da voi, sono voi, e parlo come voi. Anche in un vuoto di programmi un appello verbale-emozionale del genere funziona. Innanzitutto, uscire dal repertorio, ed entrare invece nel linguaggio-dialogo; e poi uscire dal pensare contro, da un’esclusiva pars destruens, e passare al pensare insieme, una «malizia» comunicativa che sta dando i suoi frutti.
E venne il teatrino blaterato
Nel comunicare coi francesi Ségolène non usa il vocabolario «ortodosso» della politica, ma preferisce la parola semplice, cruda. Anche da noi, con l’avvento della «seconda Repubblica», prese piede il cosiddetto «gentese», il discorso che si voleva chiaro, diretto, esplicito, non «difficile», che doveva parlare alla gente comune. Occorreva svecchiare il linguaggio politico nostrano, così prudente e oscuro. Ma è dilagato subito un linguaggio più popolaresco, più parlato, più disinvolto ma anche più rozzo e sbracato. Si è rapidamente diffusa l’oralità di tono medio-basso, più blaterata che parlata, hanno avuto corso parole a effetto, spesso dialettali e informali: remare contro, picconare, mettersi di traverso, tirare per la giacca, e inciucio, e ribaltone, qualcuna al limite dell’ermetico o del volgare, malpancisti, cerchiobottismo, sdoganare, buonista, celodurismo. E c’è stata la rincorsa alla battuta, quella che ti assicura il titolo in prima pagina, e le sequele di esternazioni, sopra il rigo. Il teatrino.
Pochi vocaboli, tanti discorsi
Quel che succede con Ségolène è però completamente diverso. Innanzitutto, non un dire «Io sono come voi, dunque mi metto a capo dell’armata», come successe in terra nostra. Il suo porgere un vocabolario «terra terra» non è il populismo spicciolo, ma per un verso «naturalezza», «stile naturale» e «senso del positivo», proprio nella scelta decisa di abbandonare 1) l’aggressivo 2) il lessico dell’apparato: tutto ciò insomma che ha stancato gli elettori. La vetusta terminologia non serve più, alla gente si parla con le parole che la gente consuma, soltanto così raggiungi disoccupati, commesse, casalinghe, li raggiungi con termini semplici, con locuzioni elementari, tratti dalla vita quotidiana. Meglio dire (lo fa notare Domenico Quirico) «la vita è sempre più cara» che non «assistiamo alla diminuzione del potere d’acquisto», basta con la «pausa di riflessione» quando invece vuol dire «adesso veniamo alla resa dei conti», basta con eufemismi e metafore già morte per tedio. Basta con l’edonismo esibito, il drammatizzato, la rissa, il sensazionalismo, la messa in scena. In questi campi noi siamo stati imbattibili. Il nostro lessico è diventato un vociare intorno a un piccolo e limitato numero di vocaboli che ha continuato a essere il materiale di tanti discorsi, oppure un eccesso di polemica e di conflitto, di animosità e aggressività, di ironia e pittoresco che sta allontanando gli elettori: i quali, in Francia, sceglieranno probabilmente il «lessico familiare» di Ségolène.
* La Stampa, 27.11.2006
Il “terremoto rosa” nelle stanze del potere
L’autonomia insolita di Ségolène
di Lea Melandri (Liberazione, 24.11.2006)
Se gli uomini non avessero fissato in una immobilità senza tempo i ruoli opposti e complementari del maschio e della femmina, nessuno definirebbe un “terremoto” gli avvenimenti recenti che hanno visto l’elezione o la candidatura di alcune donne alle cariche più alte dello Stato. Ma così è andata la storia e oggi che le parti cominciano a confondersi ben vengano i “fiumi di inchiostro” che si interrogano per capire di che entità sia la scossa, da quali profondi squilibri sia stata provocata, quali nuovi assestamenti stia preparando e che nomi darle.
Nancy Pelosi, Hillary Clinton, Ségolène Royal, sono sicuramente le figure emblematiche di una “svolta” destinata a segnare profondamente l’immaginario e la coscienza collettiva, ma quanto sono tra loro assimilabili, quanto conta nella loro eccezionale riuscita il fatto di essere donne, e, soprattutto, di che successo si tratta? Da sponde diverse, viene fatto notare che «in politica non tutte le donne sono donne» (Il Foglio, 17.11.06), che «le donne al potere sono come gli uomini al potere» (Roudinesco, Liberazione, 18.11.06), da cui si deduce che la femminilità, su quella scena tutta maschile, o neutra come la si è sempre rappresentata, non può avere alcun peso, e se ce l’ha, è legittimo il sospetto che sia strumentale, “un’operazione di marketing”.
Tutti sanno che far carriera politica è ormai una professione - che vuol dire saperi, linguaggi, competenze particolari; ma è soprattutto l’esercizio di un potere “virile” fin dalle sue lontane origini. Se le donne che tentano la scalata, strada facendo si uniformano al sistema già dato, per subalternità, per adattamento o per il piacere della sfida ad armi pari, non dovrebbe sorprendere, almeno non quanto la capacità di alcune di loro di conciliare col duro apprendistato politico le tradizionali funzioni di moglie e madre.
Vedere la propria simile nei luoghi che sono stati storicamente appannaggio dell’altro sesso, sicuramente fa crescere bambine e giovani donne con una percezione diversa di sé, ma se non intervengono altri cambiamenti il rischio è di vivere una doppia colonizzazione. La maggiore fissità o permanenza di prototipi antichi è sicuramente quella che, incapace di cogliere i segni di un mutamento nel modo di essere di uomini e donne, si affanna a ricucirvi sopra le maschere note del maschile e del femminile.
La bellezza, l’eleganza, la pragmaticità, la seduzione, la capacità di reperire fondi, i legami affettivi, appartengono a un sesso quanto all’altro, ma a nessun commentatore verrebbe in mente, se avesse di fronte un uomo politico, di notare se ha denti perfettamente bianchi e allineati, se veste sobrio o vistoso, se ha fianchi larghi, se sorride troppo o poco, se sta con la schiena dritta o curva, se vuole sedurre o convincere. Tanto meno si soffermerebbe sulla sua vita privata, figli, mariti, amanti, attitudini domestiche. Ma è quello che quasi tutti i giornali hanno fatto, e che è apparso in tutta la sua evidenza, contraddittorietà e goffaggine proprio là dove si profilava una figura diversa, come quella di Ségolène Royal.
Ha fatto eccezione Bernardo Valli (Repubblica 18.11.06) che ha via via preso a delineare una figura complessa, portatrice di un nuovo linguaggio, un modo di far politica fuori dagli schemi tradizionali, un’autonomia da modelli sia femminili che maschili. «Ségolène ha sempre dato l’impressione di non far parte del circolo degli eletti. Ne ha rifiutato gli atteggiamenti e il linguaggio. Questo rifiuto la fa apparire non solo diversa ma nuova. Benché ne faccia parte, risulta estranea all’élite della classe politica, sempre più impopolare nella società civile... Attacca puntualmente la destra e gli abusi dell’economia di mercato. E lo strapotere dei ricchi e la disattenzione verso i deboli di chi governa. Ma senza i soliti slogan. Cita piuttosto esempi concreti e racconta le sue esperienze. Entra nei dettagli della vita quotidiana, nelle famiglie, nelle scuole, negli ospedali, nei luoghi di lavoro. C’è in Ségolène Royal il gusto della trasgressione. Che applica con un esemplare perbenismo...E’ riferendosi a lei che il panorama politico si ridisegna».
In altri commenti, tra cui quello della psicanalista Elisabeth Roudinesco, la “novità” di Ségolène viene invece riportata a vecchie equivalenze tra femminile, emozioni, apparenza, seduzione. E’ interessante notare come questa visione semplificata e dicotomica si allarghi fino a includere in un femminile svalutato e minaccioso un’intera società, in quelli che sono oggi i suoi aspetti più nuovi, anche se discutibili. Dice Roudinesco, nell’intervista riportata da Liberazione: «La nuova generazione dei politici pratica una “politica-media”: una politica che fa leva sull’apparenza più che sui contenuti...La politica sta uscendo dai partiti e sta entrando nell’opinione. I partiti perdono potere e se questo finisce nelle mani delle emozioni della società civile, in balia delle immagini e dei media, allora siamo in pericolo». Apparentemente la critica di Roudinesco, come quella di altre politiche e femministe francesi, non si appunta sulla femminilità - «Non credo che abbia successo perché è una donna» - ma di fatto, ad essere confuso in un femminile che porta segni di negatività e pericolo, e come tale rifiutato, è tutto il lavoro di Ségolène, il rinnovamento che essa rappresenta per la sinistra francese e, in genere, per la politica tradizionale.
E’ proprio sul rapporto tra società civile, opinione pubblica, partito e sfera privata - coppia, figli, ruoli genitoriali - che Ségolène Royal sta dimostrando un’autonomia insolita da schemi noti, contrapposizioni e complementarietà date come naturali. Chi le rimprovera la solitudine e la forte convinzione personale, le incertezze e le inclinazioni autoritarie, repressive, sembra non voler vedere la difficoltà di aprire strade nuove, in un terreno minato da storiche complicità maschili, appartenenze, gerarchie, obblighi di fedeltà.
L’ascolto dell’opinione dei cittadini, soprattutto dei più svantaggiati, l’appello perché facciano sentire le loro idee e la loro volontà di agire, ha preso corpo in un Forum lanciato su Internet - “Desideri di avvenire” - a cui tutti possono partecipare, discutendo, facendo proposte; ma si è tradotto anche in un interessante laboratorio di democrazia partecipativa in un liceo, vicino a Poitiers, dove studenti, genitori, personale scolastico e funzionari della Regione decidono insieme in assemblea come destinare i fondi pubblici per la scuola. Quello che ad alcuni è parso il limite della formazione di Royal, essere passata attraverso ministeri poco “virili”, come l’Ambiente, l’Istruzione scolastica, la Famiglia e l’Infanzia, è, in realtà, l’esperienza che le ha permesso, non importa quanto consapevolmente, di ribaltare alcune priorità della tradizionale agenda politica e di cogliere alcuni dei problemi essenziali di una società in via di cambiamento.
Ordine, sicurezza, autorità, temi che la sinistra rimprovera a Ségolène di aver fatto propri, varcando uno dei confini ideologicamente più netti rispetto alla destra, se visti in un modo “giusto”, cercando di affrontare alla radice le cause che li muovono, possono colmare quel vuoto tra l’inquietudine delle classi popolari e l’intellettualità politica che è alla base della crisi dei partiti e, in generale, della democrazia. Oggi, nella “civile” Europa, che agita il fantasma dello straniero, barbaro e aggressivo, ci si affanna in realtà per arginare un’ondata di violenza, cinismo, indifferenza, che avanza dai suoi interni di famiglia, dalle sue classi sociali benestanti, dai suoi figli più curati, dalle sue scuole, dai luoghi primi essenziali della formazione dell’individuo e della società. Eppure, la classe politica sembra ancora lontana, sorda, incapace di affrontare l’onda che monta e che oggi ha nomi precisi: razzismo, sessismo, qualunquismo, indifferenza.
Il programma di Ségolène, che chiunque navighi in Internet può visitare in migliaia di siti, parla di educazione alla cittadinanza, di nuove forme di genitorialità e di convivenza, di alternative al carcere per la delinquenza minorile, di una campagna di sensibilizzazione contro la violenza: una responsabilizzazione collettiva che mette sullo stesso piano la giustizia sociale, i problemi del lavoro, l’immigrazione, le politiche internazionali con il deterioramento del legame sociale, il ripensamento dei processi educativi, a partire dalla prima infanzia. Alcune proposte sono discutibili, come l’idea di scuole per genitori i cui figli commettano atti di inciviltà, e la sospensione degli assegni famigliari; il progetto di impegnare i minori che delinquono in azioni umanitarie nel Terzo mondo, inquadrandoli in strutture militari. La figlia di un colonnello di artiglieria, quale è Ségolène, traspare dietro la donna politica che già si sente chiamata da una eccezionale investitura a un “grande dovere”, che dice di sé di non essere “autoritaria” ma “esigente”.
Anche del rapporto tra i sessi non viene detto niente esplicitamente, e neppure si fa accenno al femminismo, ma ci sono segnali indiretti, maturati dall’esperienza personale, che valgono quanto una lunga militanza. «Prima di abbracciare l’idea socialista, ciascuna e ciascuno di noi si è alzato contro un’ingiustizia che gli sembrava intollerabile. Quanto a me fu il rifiuto del ruolo assegnato alle donne dalla tradizione che mi ha aperto gli occhi e ha improntato sempre il mio impegno. Dalla padronanza del proprio corpo fino alla battaglia ancora incompiuta per l’uguaglianza professionale e politica, senza dimenticare la sorte toccata alle donne ridotte in schiavitù in troppe parti del mondo». (http: /hebdo. parti-socialiste. fr/2006/10/11/135/).