Ventotene

L’Italia e il mito europeo

venerdì 26 maggio 2006.
 

Di Ernesto Galli Della Loggia Corriere della Sera 26/05/06

A dispetto delle pretestuose critiche di Forza Italia e di Silvio Berlusconi - che ancora ieri lo ha bislaccamente rimproverato per il suo ottimismo sul futuro del governo Prodi (e che altro dovrebbe mai fare un presidente della Repubblica? Esprimere dubbi sulla tenuta del ministero?) - Giorgio Napolitano sembra aver compreso bene ciò che il Paese si aspetta da lui: la capacità di svolgere una funzione moderatrice e un ruolo di garanzia e di equilibrio. Di averlo compreso e di saperlo mettere in pratica. Non è un compito facile. Non è facile per un uomo politico, infatti, spogliarsi d’improvviso delle proprie idee per imporsi dall’oggi al domani una disciplina fatta di silenzi o di parole caute. Tanto più che la carica di capo dello Stato richiede sì equidistanza e capacità di essere al di sopra delle parti, ma è pur sempre una carica dai rilevantissimi contenuti politici, e che dunque implica opinioni politiche. Si è aggiunto poi, specie nell’ultimo quindicennio, un problema ulteriore: che il presidente della Repubblica ha visto crescere a dismisura il suo ruolo di custode - ma inevitabilmente anche di autore in prima persona - di quella che potrebbe chiamarsi l’ideologia ufficiale della Repubblica. Cioè di quell’insieme di principi e di insegnamenti del passato, di norme non scritte, che sono venuti via via costituendo una sorta di obbligatorio senso comune, di obbligatoria tavola delle leggi, della nostra vita collettiva. Ho detto che si tratta di un problema perché per le forze politiche è naturalmente molto utile identificarsi con tale ideologia ufficiale della Repubblica, e accusare invece i propri avversari di discostarsene, o addirittura di non riconoscervisi. È il meccanismo collaudatissimo e conosciutissimo nelle vicende italiane della delegittimazione, a cui non pare vero, per mettersi in moto, di potersi far forte delle parole e delle idee della massima autorità dello Stato. Al quale, quindi, sembra opportuno consigliare di essere molto cauto nell’estendere i confini dell’ideologia ufficiale della Repubblica, nell’ampliarla aggiungendovi nuovi segmenti di storia patria, nuovi principi politici, nuovi valori. In fondo la Costituzione, quale frutto dell’esperienza storica dell’antifascismo, con i suoi princìpi di democrazia liberale e di solidarietà sociale, credo che sia più che sufficiente alla bisogna: sta lì il significato etico-politico della nostra comunità nazionale, sono le sue parole che costituiscono il dettato civico che ognuno di noi è tenuto ad osservare, non dovrebbe esserci bisogno d’altro. Non dovrebbe esserci bisogno, non c’è bisogno, per esempio, di includere nell’ideologia ufficiale della Repubblica l’europeismo. Si può essere buoni cittadini, affezionati ai valori della democrazia e della Costituzione, e si ha diritto ad essere considerati da tutti come tali, anche se non si è pronti a giurare che l’avvenire dell’Italia è nell’Europa, ovvero che a Bruxelles si è costruito, o si sta costruendo, qualcosa di destinato a durare. Viene invece proprio questo sospetto - che ormai essere europeista (ed esserlo alla maniera che va per la maggiore) è un obbligo di ogni buon italiano - leggendo il primo discorso importante del presidente Napolitano dopo la sua elezione, pronunciato qualche giorno fa a Ventotene per l’anniversario della scomparsa di Altiero Spinelli, e dunque in ricordo del Manifesto federalista redatto nel 1941 da Spinelli medesimo insieme a Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, nell’isola dove erano tutti e tre confinati. Nel discorso di Napolitano l’europeismo non è più un «ismo» come altri, non è più una pur importante scelta politica in cui egli da tempo si riconosce e che ha caratterizzato la vita di una persona a lui personalmente cara come Spinelli, non è più un insieme di politiche, alcune delle quali palesemente fallimentari: no, esso diviene uno standard storico-morale superiore, una sorta di obbligo di coscienza, «un dovere non eludibile» da parte di alcuno, come egli stesso dice, innanzi tutto da parte delle «forze della cultura». Inutile dire che nelle parole del presidente le «rivendicazioni dell’interesse nazionale» non in armonia con tale standard sono per definizione «illusorie e meschine», frutto di «una stanca tentazione di ripiegamento», e che mostrarsi scettici verso «il progetto europeo» è solo «sterile». Parole che tanto più colpiscono - non si può fare a meno di osservare - se infine si pensa che chi le ha pronunciate ha militato per lunghi anni, ed è stato dirigente autorevolissimo, in un partito come il Partito comunista, che verso la costruzione europea fu a lungo molto sospettoso e spesso e volentieri la combattè senza mezzi termini. Naturalmente per giustificare simili affermazioni è giocoforza ricorrere a un’enfasi argomentativa che si presta a più di qualche obiezione in punta di fatto. Definire ad esempio, come fa il nostro capo dello Stato, il Manifesto di Ventotene «forse la prova maggiore della creatività dell’antifascismo militante» appare alquanto fuori misura, se si pensa che tale creatività ha prodotto opere come Socialismo liberale di Carlo Rosselli, i Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, alcuni testi memorabili di Salvemini e qualcos’altro che in questo momento senz’altro dimentico. Ma tant’è: la necessità di utilizzare il passato per rivestire di motivazioni etico-ideologiche il presente spinge inevitabilmente a mettere in secondo piano la realtà del passato stesso, in questo caso la realtà letterale del Manifesto , ciò che in esso sta realmente scritto. O meglio a dimenticare e insieme trasfigurarne il testo, secondo una prospettiva che è tipica di tutte le operazioni apologetiche, per le quali, giustamente, conta solo il fine al quale si vuole che oggi quelle righe servano. Poco conta dunque, come qualunque lettore può constatare facilmente, che il Manifesto si diffonda a lungo sul futuro socialista che dovrà stabilirsi sul continente europeo; che nell’annuncio di tale futuro, anzi, esso abbia un suo snodo fondamentale; poco conta che in esso non si mostri alcun apprezzamento per la democrazia politica quale la intendiamo noi e quale la intende la nostra Costituzione; poco conta che nelle sue pagine si arrivi addirittura a prospettare la inevitabile necessità di una rottura rivoluzionaria e di una dittatura al posto della «preventiva consacrazione da parte dell’ancora inesistente volontà popolare». Poco importa tutto ciò, perché la sola cosa che conta è costruire quello che con un termine di Sorel si potrebbe chiamare un «mito politico», il mito dell’europeismo come coronamento della democrazia. Ma è compito del presidente della Repubblica, sia pure con le intenzioni più pure, costruire o alimentare «miti politici» da includere nell’ideologia ufficiale della Repubblica, i quali a loro volta sono destinati a venire a far parte dei parametri di legittimazione del suo sistema politico, cioè oggetto di scontro tra i partiti? Ognuno dia da sé la risposta.


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