Epigrafe di PIERO CALAMANDREI *
Lo avrai
camerata Kesselring
il monumento che pretendi da noi italiani
ma con che pietra si costruirà
a deciderlo tocca a noi.
Non coi sassi affumicati
dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio
non colla terra dei cimiteri
dove i nostri compagni giovinetti
riposano in serenità
non colla neve inviolata delle montagne
che per due inverni ti sfidarono
non colla primavera di queste valli
che ti videro fuggire.
Ma soltanto col silenzio dei torturati
Più duro d’ogni macigno
soltanto con la roccia di questo patto
giurato fra uomini liberi
che volontari si adunarono
per dignità e non per odio
decisi a riscattare
la vergogna e il terrore del mondo.
Su queste strade se vorrai tornare
ai nostri posti ci ritroverai
morti e vivi collo stesso impegno
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama
ora e sempre
RESISTENZA
*
Nota: Processato nel 1947 per crimini di Guerra (Fosse Ardeatine, Marzabotto e altre orrende stragi di innocenti), Albert Kesselring, comandante in capo delle forze armate di occupazione tedesche in Italia, fu condannato a morte. La condanna fu commutata nel carcere a vita. Ma già nel 1952, in considerazione delle sue "gravissime" condizioni di salute, egli fu messo in libertà. Tornato in patria fu accolto come un eroe e un trionfatore dai circoli neonazisti bavaresi, di cui per altri 8 anni fu attivo sostenitore. Pochi giorni dopo il suo rientro a casa Kesselring ebbe l’impudenza di dichiarare pubblicamente che non aveva proprio nulla da rimproverarsi, ma che - anzi - gli italiani dovevano essergli grati per il suo comportamento durante i 18 mesi di occupazione, tanto che avrebbero fatto bene a erigergli... un monumento.
A tale affermazione rispose Piero Calamandrei, con questa famosa epigrafe (recante la data del 4.12.1952), dettata per una lapide "ad ignominia", collocata nell’atrio del Palazzo Comunale di Cuneo in segno di imperitura protesta per l’avvenuta scarcerazione del criminale nazista.
FASCISMO E LEGGI PER LA DIFESA DELLA RAZZA (1938).
BELLA CIAO!
La storia lunga, complessa e affascinante di una canzone-mito. Le sue tante interpretazioni ed esecuzioni, da una ballata del 500 francese fino ad oggi. Buon 25 Aprile! (di Chiara Ferrari, "Patria Indipendente")
25 APRILE 2010. Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a Milano esalta la Resistenza e l’unità nazionale. Il discorso integrale
LA MADRE DEL PARTIGIANO
Sulla neve bianca bianca
c’è una macchia color vermiglio;
è il sangue, il sangue di mio figlio,
morto per la libertà
Quando il sole la neve scioglie
un fiore rosso vedi spuntare:
o tu che passi, non lo strappare,
è il fiore della libertà
Quando scesero i partigiani
a liberare le nostre case,
sui monti azzurri mio figlio rimase
a far la guardia alla libertà.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Carlo Smuraglia
con Francesco Campobello
Con la Costituzione nel cuore
Conversazioni su storia, memoria e politica
Antifascismo, Resistenza, Costituzione: sono il leitmotiv di questo libro intervista in cui si intrecciano eventi e questioni fondamentali della Repubblica. È una lunga storia che si sviluppa dal 1943 a oggi e che Carlo Smuraglia ha vissuto con intensità e con occhi particolari. Gli occhi dell’avvocato, impegnato in grandi processi politici (da quelli contro i partigiani a quelli per i fatti di Reggio Emilia del 1960). Gli occhi del professore universitario, punto di riferimento nel settore dei diritti e della salute dei lavoratori. Gli occhi dell’uomo delle istituzioni, protagonista nelle assemblee locali, nel Consiglio superiore della magistratura e in Parlamento; e infine nell’Anpi. Il risultato è un affresco efficacissimo proiettato sull’Italia di oggi, sull’Europa e sulla sua crisi, sui nazionalismi, sui muri e i fili spinati in una prospettiva in cui, nonostante tutto, prevale l’ottimismo della volontà.
* http://www.edizionigruppoabele.it/products-page/ebook-2/con-la-costituzione-nel-cuore/
25 Aprile: la memoria, la festa, la Costituzione
di Carlo Smuraglia *
C’è bisogno di un cambiamento radicale, di una rigenerazione della politica, di investimenti e piani per creare nuovo lavoro, di maggior correttezza ed eticità nella vita politica e in quella privata. Ma c’è bisogno soprattutto di partecipazione
Ci stiamo avviando al 25 aprile, festa della Liberazione, che “celebreremo”, come ogni anno, non tanto con spirito commemorativo, anche se il ricordo dei combattenti e dei Caduti per la libertà è sempre vivo, quanto con l’intento di compiere un atto di memoria attiva che vuol dire ricordare gli eventi, la Resistenza, la Liberazione, ma riflettere soprattutto sulle attese e le speranze di allora e su quante di esse si sono realizzate o si stanno realizzando.
Un 25 aprile, dunque, di ricordo, ma anche di festa, perché è sempre bello ritrovarsi fra noi e con le cittadine e i cittadini, con la gioia e il piacere dell’incontro e dell’impegno. Non dobbiamo perdere mai il concetto di festa, perché la Liberazione fu un grande giorno di gioia, per esserci liberati dai tedeschi e dai fascisti e perché si trattava di cominciare una nuova vita, sotto il profilo sociale, politico, economico, etico. La felicità e la gioia sono sentimenti che non contrastano con i ricordi anche più dolorosi, perché dobbiamo saper vivere nel presente con la consapevolezza di sempre, ma anche con quella capacità di sorriderci ed abbracciarci che è il simbolo della fratellanza, della solidarietà, dell’uguaglianza nella libertà. E ce n’è bisogno, in periodi così difficili e duri, con vicende terribili e guerre che scuotono il mondo ed i Paesi, spesso con una violenza che speravamo di aver superato e “dimenticato” ed invece è ancora lì a ricordarci la brutalità, la cattiveria, il sopruso, sempre in agguato ovunque.
Dobbiamo dirlo a tutti, che abbiamo il diritto ad un giorno di festa, se essa non significa dimenticanza, oblio, abbandono del ricordo, ma si pone come contrasto ai lati peggiori della vita odierna.
Al tempo stesso, il 25 Aprile è una festa dedicata all’impegno a realizzare e diffondere i valori per i quali si combatté nella Resistenza e che si sono trasfusi nella Costituzione, ed a sconfiggere invece, tutto ciò che sa di egoismo, di revisionismo, di autoritarismo; tutti mali che pervadono il mondo ed anche il nostro Paese, dove c’è troppa corruzione, troppa cattiva politica, troppe disuguaglianze, troppa povertà. C’è bisogno di un cambiamento radicale, di una rigenerazione della politica, di investimenti e piani per creare nuovo lavoro, di maggior correttezza ed eticità nella vita politica e in quella privata. Ma c’è bisogno soprattutto di partecipazione, perché solo questa ci può garantire davvero la democrazia; la quale si esprime nel governo “di molti” e non di pochi, nel concorso dei cittadini alla gestione della cosa pubblica, nel superamento di quella indifferenza e di quella rassegnazione che devono considerarsi tra i mali più gravi di un Paese e tra i peggiori nemici, appunto, della democrazia. Quest’anno ricorre l’anniversario della Costituente, dell’anno in cui fu discussa e approvata la Costituzione, con uno sforzo di avvicinamento di posizioni, in partenza anche assai distanti e diversificate. Fu compiuto il miracolo di realizzare un documento tra i più avanzati, che aggiunge ai diritti politici i diritti sociali ed integra l’affermazione di princìpi con indicazioni precise ai Governi per la loro attuazione.
Quella Costituzione è viva e fresca, ha resistito a molti attacchi più o meno aperti; e costituisce il fondamento della nostra convivenza civile e il faro dell’azione dei singoli e della collettività. C’è solo bisogno di attuarla, questa Costituzione, nelle parti che non hanno ancora trovato realizzazione concreta, rendendo così effettivi diritti e valori fondamentali come il lavoro, la dignità, l’etica, la libertà e l’uguaglianza. Dobbiamo impegnarci sempre per questo fine, per evitare che i giovani non abbiano futuro e siano indotti, o costretti, a recarsi all’estero per cercare lavoro o per disporre di strumenti per migliorare la propria professionalità e le proprie competenze.
Dobbiamo anche ricordare che la Costituzione prevede, oltre ai diritti, alcuni doveri, fra i quali primeggia quello della solidarietà. Ai muri ed ai fili spinati, auspicati o realizzati da altri Paesi, dobbiamo sostituire l’uguaglianza e l’accoglienza, con le cautele del caso, ma con l’umanità e la solidarietà che la Costituzione ci impone. Dobbiamo, dunque, combattere gli egoismi e i razzismi, che la Resistenza non conobbe e neppure noi vogliamo conoscere, in un Paese che in altri tempi ha superato le difficoltà e la durezza dell’espatrio e dove vi sono luoghi (Lampedusa, ma anche tanti altri) in cui Comuni e cittadini hanno saputo introdurre e praticare solidarietà e fratellanza.
E non dobbiamo dimenticare, in una giornata come questa, il valore e l’importanza dell’antifascismo. La nostra Repubblica è definita “democratica” dalla Costituzione; ma è definita come “antifascista” da tutto il contesto delle norme costituzionali, che rappresentano sempre il contrario di ciò che sono i fascismi di sempre (quelli del passato, quelli del presente e quelli che verranno).
L’impegno antifascista, dunque, non può mancare il 25 Aprile, perché si collega strettamente alla Costituzione, da un lato, ed alla volontà dei combattenti per la libertà, dall’altro. Un impegno che va esteso ed approfondito nei confronti dei tanti fenomeni del mondo contemporaneo, in cui le destre divengono sempre più spesso “nere”, dove egoismo, razzismo ed autoritarismo si confondono insieme e riescono ad arrivare, talora, ai vertici dei pubblici poteri e dove restano ancora rigurgiti più o meno nostalgici che cercano di farci dimenticare gli orrori del passato.
Un antifascismo militante, impegnato sul fronte culturale e sul fronte politico e rivolto a coinvolgere la maggior parte delle cittadine e dei cittadini, ma soprattutto i giovani. Il passato, ci dicono gli storici più autorevoli, può sempre tornare, non nelle stesse forme, ma con aspetti diversi. E bisogna essere pronti a cogliere i pericoli e predisporre per tempo gli antidoti.
Non c’è odio, né rancore, in noi; ma solo la volontà di vivere in una società serena, priva di violenza e di guerra, imperniata sull’uguaglianza e sulla solidarietà e radicata sui fondamenti della nostra democrazia.
Tutto questo significa, per noi, la Festa del 25 Aprile. Al ricordo di uno splendido passato (la Resistenza), alla fiducia in un magnifico documento (la Costituzione), affidiamo la speranza e la volontà di un futuro migliore, che si potrà realizzare solo se collaboreremo e parteciperemo tutti, ognuno per la propria parte e ognuno con le proprie capacità e i propri mezzi, per raggiungere l’obiettivo della pace, della serenità, della giustizia sociale e dell’eguaglianza.
Carlo Smuraglia, Presidente nazionale dell’ANPI, da ANPInews n. 242 - 11/19 aprile 2017
25 aprile: il senso etico della Resistenza
di Gianfranco Pasquino *
Chi avesse bisogno, ancora oggi (e sembrano essere in molti in Italia, ma anche in alcuni paesi europei, specialmente all’Est), di capire qual era e continua a essere il significato della Resistenza, dovrebbe assolutamente leggere le Lettere dei condannati a morte della Resistenza europea (in Italia pubblicato da Einaudi). Noterebbe, anzitutto, che la Resistenza non fu, in nessun paese europeo, un fenomeno esclusivamente di classe. Certo, furono i settori medio-bassi delle diverse società ad attivarsi. Erano anche stati i più oppressi dai rispettivi regimi autoritari, ma nel complesso l’aggettivo “interclassista” si attaglia ottimamente alla Resistenza.
Dunque, per chi ha una visione equilibrata di che cosa è un popolo, la Resistenza fu guerra di popolo. In quelle lettere, scritte da combattenti di tutti i paesi europei, invasi e travolti dal nazismo, è possibile, anzi, facilissimo riscontrare alcuni elementi comuni, in particolare riguardo alle motivazioni e alle aspirazioni. La motivazione più forte e più diffusa è la (ri)conquista della libertà. È in nome della ricerca della libertà che milioni di uomini e donne europee presero le armi e rischiarono consapevolmente la vita, perdendola, come rivelano molte struggenti lettere, con grande serenità.
In queste lettere, i desideri di vendetta e le manifestazioni di odio sono sostanzialmente assenti. Sono, invece, molto presenti e visibili gli auspici che le loro morti siano utili, che contribuiranno a preparare un mondo migliore. Ancora una volta, in maniera sorprendente, certo con toni e accenni diversi che derivano, sì, dalle diversificate sensibilità e culture dei condannati a morte, si notano straordinarie somiglianze concernenti il mondo che quei resistenti avrebbero voluto costruire.
Sullo sfondo, per tutti, sta ovviamente l’aspirazione alla pace, vale a dire a porre termine alle ricorrenti guerre. Tuttavia, ancora più chiara è la richiesta di giustizia sociale nella consapevolezza che nessuna pace può essere duratura se non è una pace riconosciuta come giusta ovvero basata su un assetto che protegga e promuova i diritti dei cittadini e che stabilisca criteri condivisi per la suddivisione delle risorse. No, non è né ricerca né anelito alla prosperità, ma l’obiettivo indicato è anche l’accesso ai frutti del proprio lavoro.
Infine, ma assolutamente non come elemento marginale, questi condannati a morte condividono un elemento, forse embrionale, ma che si affaccia alle loro menti: il superamento dei gretti nazionalismi guerrafondai. L’idea che una pace giusta debba essere costruita superando, se non abolendo del tutto i nazionalismi, circola in molte lettere. È l’idea alla quale daranno sostanza fortissima Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni con il Manifesto di Ventotene (1941) redatto nel mezzo della guerra civile europea. Gli Stati nazionali sono fonti di guerre. Per renderle impraticabili è essenziale costruire un’Europa dei popoli che, naturalmente, è molto di più di un grande mercato. È uno spazio di diritti civili, politici, sociali, di convivenza, per l’appunto, nella pace, dove il perseguimento di politiche di potenza non ha più nessun senso.
Celebrare degnamente la Resistenza oggi (e domani) obbliga a riconoscere il messaggio delle lettere dei condannati a morte. Sono le loro ultime, nobili, solenni, mai retoriche, mai vendicative, parole. Quelle parole hanno un senso storico che, quindi, esclude dalle celebrazioni tutti coloro che allora stavano con i repressori e che oggi riadattano alcuni slogan di quei repressori. Hanno un senso politico che riguarda la costruzione di condizioni che impediscano il ripetersi dei fenomeni che portarono all’oppressione dei popoli europei. Hanno, infine, un potentissimo senso etico: cercare la pace nella giustizia sociale. Celebrare la Resistenza significa anche adoperarsi per un’Europa che sappia perseguire la giustizia sociale per i suoi cittadini e per tutti coloro, da dovunque vengano, che ripongono molte speranze nella giustizia.
Pubblicato AGL il 23 aprile 2017
notte 3-4 aprile 44
Fratello mio, sono morto sereno, anzi quasi con gioia.
All’altare della Patria e della Fede occorre immolare vittime. La mia vita è stata necessaria e l’ho data.
Negli ultimi momenti ho avuto tutti in mente, tutti a me davanti, ma tra tanti giganti, giganteggiava il Babbo.
Sarai orgoglioso anche di tuo fratello.
Tu conservati: pensa a Mammetta nostra: pensa a Gianna e a Marcella.
Addio, un bacio
tuo fratello
* QUALCOSACHESO, 23/25.04.2017 (ripresa parziale - senza immagini).
L’attentato di via Rasella e le Fosse Ardeatine
risponde Sergio Romano (Corriere della Sera, 04.05.2016)
Caro Galli,
Le Fosse Ardeatine sono diventate nella vita pubblica italiana il necessario contraltare del monumento al Milite ignoto, il secondo pilastro della ideologia italiana. L’Italia ufficiale rende omaggio al Vittoriano quando vuole celebrare il Risorgimento, l’unità nazionale, la vittoria del 1918. Ma deve visitare le Fosse Ardeatine quando vuole ricordare che la Resistenza è un secondo Risorgimento, il simbolo doloroso del riscatto morale della nazione. È molto probabile che i devoti del Vittoriano abbiano opinioni alquanto diverse da quelli delle Fosse Ardeatine. Ed è molto probabile che queste divergenze, in molti casi, riflettano giudizi diversi sull’attentato di via Rasella: atto eroico per una parte del Paese, inutile provocazione per altri. Ma i rappresentanti delle istituzioni sanno che entrambi i simboli, se il Paese vuole restare unito, sono diventati ormai indispensabili e che nessuno dei due può essere trascurato a vantaggio dell’altro. Giova all’immagine delle Fosse Ardeatine, inoltre, il fatto che le vittime fossero straordinariamente rappresentative della collettività italiana: monarchici e repubblicani, comunisti e liberali, civili e militari, borghesi e popolani, ebrei e cristiani.
La storiografia, nel frattempo, continua a scavare nelle vicende di quei giorni. Una studiosa della Università di Pavia, Donatella Bolech Cecchi, ha ora pubblicato per le edizioni Rubbettino un libro su un diplomatico tedesco, Eitel Friedrich Moellhausen, che era a Roma come console generale di Germania,quando l’attentato di via Rasella, il 23 marzo 1944, uccise 33 soldati tedeschi del reggimento di polizia SS Bozen e fece qualche decina di feriti.
Il racconto di Donatella Bolech Cecchi è particolarmente interessante là dove descrive il dibattito delle autorità tedesche sulla rappresaglia. Il generale Kurt von Maelzer, comandante militare della città, voleva radere al suolo l’intero blocco di case fra via Rasella e via Quattro Fontane. Moellhausen e Dollmann, collaboratore del generale Wolff, comandante della Waff-SS, si opposero. Maelzer, furioso, si appellò al maresciallo Kesselring comandante in capo delle forze tedesche in Italia.
Si formarono così due partiti: quello che voleva una rappresaglia diffusa contro la popolazione civile e quello dei «moderati» che temevano le reazioni popolari. Furono persino avviati i preparativi per la deportazione di migliaia di uomini, voluta da Himmler, ma i militari obiettarono che l’operazione avrebbe comportato l’uso di due divisioni in un momento in cui nessun reparto poteva essere allontanato dal fronte. Moelhausen, nel frattempo, continuava a ripetere che «la Germania non poteva trattare Roma come un agglomerato di selvaggi; mai la storia glielo avrebbe perdonato».
La formula adottata, alla fine, fu quella di Kesselring: dieci italiani per ciascuno dei morti tedeschi, da scegliere fra i «Todeskandidaten», vale a dire fra coloro che erano già stati condannati a morte o erano comunque passibili di una tale condanna. Fu questa una delle ragioni per cui Kesselring fu condannato a morte da un tribunale britannico a Venezia il 6 maggio 1947. Ma la sentenza, grazie a un intervento di Winston Churchill, fu successivamente rivista e il condannato tornò in libertà nell’ottobre del 1952. Un anno dopo apparvero le sue memorie intitolate Soldat bis zum Letzten Tag (soldato sino all’ultimo giorno).
Santa Libera, ovvero tutta la cenere covata dal fuoco
Saggi. «Per sempre partigiano» di Pino Tripodi per DeriveApprodi. 1946. Tra Langhe e Monferrato, una rivolta trascurata dalle pagine sulla resistenza
di Guido Caldiron (il manifesto, 27.04.2016)
È una pagina dimenticata della storia della resistenza. O meglio di ciò che la resistenza avrebbe potuto continuare a essere anche dopo il 1945. O è più semplicemente un frammento di quella storia ribelle che come tale ha attraversato il movimento partigiano ma si è manifestata anche ben prima di tutto ciò. E che dopo di allora, pur con esiti altalenanti e a prima vista sempre più incerti non ha mai smesso di fare irruzione nella realtà.
La vicenda che Pino Tripodi racconta in Per sempre partigiano (DeriveApprodi, pp. 246, euro 16,00), è però prima di tutto un potente antidoto alla pacificazione della memoria, al suo trasformarsi in oggetto museale, valido per le celebrazioni e le ricorrenze ma mai e poi mai per la vita vera. Questo libro intenso, solcato dal timbro narrativo del memoir come dal linguaggio della poesia, colpisce invece allo stomaco, chiede partecipazione, induce all’indignazione come alla speranza, alla rabbia in egual misura che al riso.
Vi si narra dell’insurrezione di Santa Libera, scoppiata nell’estate del 1946 tra le colline comprese tra le province di Cuneo, Asti e Alessandria e che Tripodi ricostrusce a partire dalla figura di Giovanni «Primo» Rocca, già comandante della Stella rossa, poi divenuta la IX divisione d’assalto Garibaldi, che di quegli eventi fu uno dei protagonisti; testimone di una volontà di mutamento radicale della società che fu anche e prima di tutto volontà di trasformare se stessi.
Non arrendersi
Per molti combattere nazisti e fascisti durante la guerra ha rappresentato infatti solo l’inizio. La vera sfida è ora rappresentata dalla possibilità di costruire un nuovo paese «sui principi di giustizia sociale di partecipazione di massa di democrazia e di uguaglianza sperimentati nelle formazioni della resistenza». Ma, dopo la liberazione i mesi passano invano e con essi svaniscono molte illusioni. Per tanti partigiani che nel corso dell’ultimo anno non hanno smesso di veder sfumare uno dopo l’altro i veri motivi che li avevano spinti in montagna e che spesso hanno scelto di non consegnare le proprie armi, cresce la delusione ma anche la volontà di non arrendersi.
«Molti partigiani me compreso rifiutano la consegna delle armi perché ritengono la resistenza non ancora conclusa. Non si può sognare prima di mettersi a dormire, non si può scendere dalla nave se non si è approdati in porto. il fascismo è finito, ma l’italia è infettata di fascisti, non consegnare le armi è un segnale della volontà di continuare la battaglia della pace nelle terre nelle fabbriche nei palazzi del potere».
Al nord, specie in Piemonte ma anche in Veneto, Lombardia, Liguria, Emilia e Toscana, e in modo meno sistematico in moltre altre realtà, si susseguono gli incontri, si tornano a tessere i legami che si sono costruiti durante la guerra clandestina. Per quanta insoddisfazione covi anche nei confronti dei vertici del Pci, più preoccupati di irregimentare, oltre che la propria base, anche i partigiani che di accoglierne stimoli e proposte come annota il protagonista, «togliatti mi dona subito l’impressione di un uomo che la realtà la porta sempre stampata sulle lenti dalla parte interna quella che guarda solo lui», l’obiettivo è prima di tutto quello di riprendere il cammino interrotto, collocare «nella giusta dimensione l’esperienza della resistenza nell’Italia postfascista».
Memoria pubblica
Il resto, inteso come rivendicazioni legate ai diritti nel lavoro, al nord, e alla terra, al sud, verranno poi. Così, nell’estate del 1946, dopo che la caduta del governo Parri aveva già segnato in precedenza la fine di ogni idea di trasformazione radicale del paese, l’uno-due rappresentato dall’accordo tra Italia e Belgio che scambia decine di migliaia di giovani spediti a crepare in miniera in cambio del carbone, e dalla cosiddetta «amnistia Togliatti» che fa uscire i criminali fascisti di galera, si decide che è venuto il momento di agire.
Epicentro dell’insurrezione, fissata per il 20 di agosto, sarà la località di Santa Libera, nel territorio di Santo Stefano Belbo, dove nel corso di una vacanza nei luoghi pavesani lo stesso Pino Tripodi rintraccerà oltre cinquant’anni più tardi la vicenda. Incruenta, per quanto armata, sostenuta da centinaia di partigiani in armi in tutto il nord, sessanta quelli che terranno Santa Libera per una settimana, la rivolta scuoterà il paese più di quanto sia rimasto nella memoria pubblica.
Dopo 4 giorni una delegazione, ancora una volta in armi, sarà ricevuta a Roma dal vicepresidente del Consiglio Pietro Nenni che si impegnerà ad esaudire le prime richieste riguardanti il riconoscimento giuridico dei partigiani.
Incendi improvvisi
La smobilitazione non arriverà a causa delle minacce proferite dagli americani, dall’esercito o dai carabinieri, ma per volontà dei vertici comunisti che ricorreranno al carisma di un leggendario ex comandante partigiano per far desistere i rivoltosi, temendo che da quel primo fuoco, mentre già altri episodi analoghi si andavano diffondendo nelle zone dove la resistenza popolare tra il 43 e il 45 era stata più forte e attiva, potesse divampare un vasto e incontrollabile incendio.
Con la fine di Santa Libera, ammette il narratore di Per sempre partigiano, la resistenza finisce davvero.
Non però il senso di una rivolta che non si può interrompere, perché «per finire di essere ribelli dobbiamo vedere un mondo giusto come lo vogliamo noi, ma quel mondo è impossibile è solo un parto della nostra fantasia». Perciò, di ribellarsi non si potrà mai smettere.
La “logica” dei carnefici
L’Atlante delle stragi nazifasciste in Italia permette di avere una visione completa, accurata e aggiornata della violenza esercitata dalle truppe tedesche di occupazione e dai loro collaboratori fascisti. Il quadro che ne emerge è quello di una violenza estrema, diffusa su tutto il territorio nazionale, che veniva esercitata contro tutta la popolazione, spesso anche contro le donne e i bambini, in genere considerati dai tedeschi come collaboratori e complici dei partigiani, e dai fascisti come «traditori della patria».
Avere un quadro completo, attraverso l’analisi di fonti spesso poco note o comunque non utilizzate in maniera sistematica, permette di capire la «logica» di queste azioni. Gli studiosi possono quindi capire il «punto di vista» dei perpetratori, il loro modus operandi, le loro strategie di occupazione e repressione, seguendo gli esempi delle ricerche di Carlo Gentile e Lutz Klinkhammer, e quindi di abbandonare il punto di vista delle vittime e dei testimoni, per i quali, ovviamente, le stragi non avevano alcuna «logica» e alcuna «giustificazione». Quando nel dopoguerra gli ufficiali tedeschi si giustificarono dicendo «ho soltanto obbedito agli ordini», dicevano quindi la verità, ma contemporaneamente ammettevano di aver obbedito a ordini evidentemente criminali.
L’Atlante permette anche di capire quali fossero i rischi a cui si esponevano non solo i partigiani, ma anche le popolazioni che li appoggiavano. La brutalità apparentemente gratuita e i massacri permettono di capire quale tasso di violenza, quanta ferocia venisse impiegata durante i rastrellamenti, le operazioni antiguerriglia, le «ritirate aggressive», insomma in quella prassi quotidiana dell’occupazione che ha tormentato l’Italia nel 1943-1945.
Questa ricerca dimostra quindi che la guerra civile, e la guerra di liberazione nazionale, furono scelte obbligate, per la difesa di una popolazione che si trovava esposta a deportazioni e stragi di massa.
* La Stampa, 06.04.2016
Nazi-fascisti, l’orrore nella Rete
Si presenta oggi a Roma l’Atlante delle stragi in Italia nel ’43-45. Consultabile online, documenta una realtà finora sconosciuta nelle sue effettive dimensioni
di Mirella Serri (La Stampa, 06.04.2016)
Donne e ragazzini arrivavano trascinando borse e carretti, con le scarpe sfondate e i vestiti a brandelli. Nella mattinata dell’11 settembre 1943 si era sparsa la voce che i reparti militari di stanza a Torino nell’Opificio di corso Belgio, angolo corso Regina Margherita, si erano dati alla fuga. La gente accorreva al deposito per impadronirsi di calzature, coperte, stoffe: beni assai rari e preziosi quando si è in guerra. All’improvviso una pattuglia tedesca era sbucata sparando all’impazzata e lanciando granate. I morti furono 17 e numerosi i feriti che riportarono gravissime menomazioni. Nei primi giorni dell’occupazione torinese, i nazisti non si erano risparmiati negli eccidi, eliminando 49 persone a cui si aggiungevano circa 100 feriti: non erano scontri tra militari, ma esecuzioni di inermi cittadini avvenute a Porta Nuova, in via Nizza, corso Stupinigi.
Al Nord, ma anche al Sud
Dal Nord al Sud, la distanza è breve se si parla di stragi dopo l’8 settembre: 14 carabinieri e un nutrito gruppo di impiegati, artigiani e operai vengono deportati da Napoli a Teverola, in provincia di Caserta. La colpa? Hanno tentato di difendere il palazzo dei telefoni. Prima di essere uccisi sono costretti a scavarsi la fossa. E non basta. La sera del 4 ottobre, ancora nei dintorni di Caserta, a San Clemente, un’esplosione provoca il crollo di alcune case. Muoiono 25 persone, tra cui 10 bambini. Le costruzioni ostacolano il transito delle truppe tedesche e le mine vengono innescate e fatte brillare senza che siano stati avvertiti gli abitanti.
Da Torino a Caserta i massacri insanguinano la penisola occupata dall’esercito di Hitler: dati e vicende fino a oggi completamente sconosciuti nelle loro dimensioni adesso li potremo visionare online. È stato messo a punto da un folto gruppo di studiosi l’Atlante delle stragi naziste e fasciste: l’impresa, realizzata grazie a un finanziamento del governo tedesco e a cui hanno dato tra l’altro il loro apporto l’Istituto per la storia del movimento di liberazione (Insmli) e l’Associazione partigiani (Anpi), sarà presentata domani a Roma al ministero degli Esteri.
«Questi numeri non ce li aspettavamo e il quadro è veramente impressionante», avverte Paolo Pezzino, responsabile del progetto. «Abbiamo censito 5.429 episodi di violenza e 23.371 vittime. In un recente passato eravamo convinti che il tetto massimo fosse di 15.000 decessi. Anche le categorie classificate riservano elementi di novità: agli antifascisti, agli sbandati, ai prigionieri di guerra e ai partigiani si sono aggiunti gli ebrei, i religiosi, i renitenti alla leva passati per le armi». Sono circa 4-500 - prosegue lo studioso - i reparti del Terzo Reich e della Rsi responsabili di stragi, in particolare la 16ª divisione SS e la Hermann Göring.
«Sono eccidi di massa compiuti spesso con un obiettivo “pedagogico”, per disinnescare qualsiasi desiderio di opposizione», commenta lo storico Bruno Maida. «Questa ricerca di livello europeo ci permette di ricostruire dinamiche e ragioni di tanta ferocia». L’Atlante porta nuove acquisizioni alla storia del conflitto mondiale e ricompone l’inaspettato mosaico di una guerra nella guerra: quella contro la gente comune. Fino a oggi si pensava che il Mezzogiorno fosse stato esente dall’oltraggio nazista. Invece non fu risparmiato dalla Wehrmacht: in Campania, per esempio, vi furono 430 episodi di violenza e 1.585 vittime dal settembre al dicembre 1943. Il triste primato degli omicidi in Italia se lo conquista la Toscana, con 4.465 vittime, seguita dall’Emilia con 4.313.
Cosa porta i nazisti a impegnarsi in questi gesti di estrema crudeltà? «Tutto può nascere dal caso: come reazione spropositata di fronte a banali forme di autodifesa, quando sono in atto dei rastrellamenti», osserva la studiosa Isabella Insolvibile. «Oppure, è un altro esempio, quando in campagna non si capiscono gli ordini, oppure come dimostrazione di forza e di superiorità».
Non solo tedeschi
Censire tutto questo vuol dire raccontare forme e modalità inedite di uno scontro in cui tedeschi e fascisti non fecero alcuna distinzione tra combattenti della Resistenza e persone che non avevano imbracciato le armi. «Il 30 marzo 1944 i partigiani uccidono un caporale tedesco, per cui vengono immediatamente arrestati tutti i componenti del Comitato militare regionale piemontese. Subito dopo, sempre a Torino, due gappisti, Giuseppe Bravin e Giovanni Pesce, freddano Ather Capelli, condirettore della Gazzetta del Popolo», ricostruisce la storica Barbara Berruti. «Il 2 aprile per rappresaglia saranno fatti fuori 32 uomini». Con questa azione, osserva la studiosa, si verifica un’ulteriore escalation. L’esecuzione avviene senza arresto né processo. I cadaveri verranno esposti in strada.
L’Atlante smentisce infine una vulgata storica assai consolidata: che i nazisti fossero gli unici attori sul palcoscenico di morte dell’Italia occupata. I tedeschi compirono da soli il 61 per cento degli eccidi e gli adepti di Mussolini fecero da supporto alle loro razzie (nel 14 per cento dei casi). Ma questi ultimi compirono molte imprese in piena autonomia (nel 18 per cento delle stragi), contraddicendo il mito dei fascisti e dei repubblichini trascinati nel fango e nell’ignominia dall’esercito del Reich. Tanti tasselli del puzzle sono così rimessi a posto e tutto è consultabile su www.straginazifasciste.it.
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Stragi nazifasciste, l’"Armadio della vergogna" adesso consultabile online
La Camera pubblica i 695 fascicoli sugli eccidi commessi in Italia dai nazisti fra il ’43 e il ’45: da Marzabotto a Sant’Anna di Stazzema. Le battaglie di Franco Giustolisi sull’Espresso perché fossero condannati i colpevoli
di Pier Vittorio Buffa (l’Espresso, 15 febbraio 2016)
L’ “Armadio della vergogna”, adesso, si potrà quasi toccare con mano. Dal proprio computer si potrà entrare nei singoli fascicoli, leggere documenti, chiederne copia. Vedere, personalmente, senza intermediari, quello che per decenni è rimasto chiuso in un archivio, sepolto, sottratto alla ricerca della verità.
Da domani, 16 febbraio, la Camera dei deputati mette online le tredicimila pagine dei documenti della Commissione parlamentare che aveva indagato sulle stragi nazifasciste e sull’occultamento dei fascicoli in quello che è stato poi chiamato l’ “Armadio della vergogna”. Fu Franco Giustolisi, che per primo, sull’Espresso, ne denunciò l’esistenza, a battezzare così un archivio ritrovato nel 1994 in uno scantinato della procura generale militare. Dentro vi erano 695 fascicoli che riguardavano gli eccidi commessi dai nazisti e dai fascisti durante gli anni della guerra in Italia, dal 1943 al 1945. Fascicoli con nomi e cognomi dei colpevoli, elenchi di vittime, testimonianze raccolte da carabinieri o da militari inglesi e americani, spesso anche a pochi giorni dai fatti. Fascicoli in cui è scritta la terribile storia della guerra condotta da nazisti e fascisti contro la popolazione italiana. La guerra contro i civili che causò almeno 15.000 morti.
Quei fascicoli, nel 1960, furono “provvisoriamente archiviati”, un provvedimento abnorme non previsto da alcuna norma, e che è consistito, semplicemente, nella loro “sepoltura nell’ “Armadio della vergogna”. La ragione fu politica. Processi che mettevano alla sbarra ex ufficiali dell’esercito tedesco con l’accusa di centinaia di omicidi non avrebbero giovato ai buoni rapporti tra Italia e Germania occidentale.
Nel 1994 i fascicoli riappaiono durante le indagini su Erich Priebke, poi condannato per l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Il primo articolo che ne parla, firmato da Alessandro De Feo e Franco Giustolisi, esce sull’’Espresso nel 1996. Da Roma i fascicoli partono per le procure militari competenti. Vengono riprese, dopo cinquant’anni, le indagini, si celebrano processi dove sfilano a decine i testimoni diretti di quegli orrori, i sopravvissuti. Gli imputati sono ufficiali e sottufficiali delle forze armate tedesche. Molti vengono assolti, una cinquantina condannati all’ergastolo. Ci sono i responsabili delle stragi di Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, Fivizzano, Civitella in val di Chiana... Ma le sentenze non vengono mai eseguite, nessuno ne chiede mai davvero l’esecuzione.
La pressione dell’opinione pubblica aumenta, Giustolisi e l’Espresso sono in prima linea. Nel 2003 viene istituita una Commissione parlamentare di inchiesta. I documenti inviati dai tribunali vengono catalogati e studiati, le audizioni sono numerose ma alla fine le relazioni saranno due. Una di maggioranza che non attribuisce a una precisa volontà politica l’affossamento delle inchieste. Una di minoranza, firmata dal deputato dei Democratici di sinistra Carlo Carli, che dice esattamente l’opposto.
Adesso l’accesso diretto ai documenti della Commissione dovrebbe consentire una più ampia presa di coscienza sulla profonda ingiustizia perpetrata ai danni delle vittime di quelle stragi. Dice la presidente della Camera Laura Boldrini: “Sono contenta che il percorso di trasparenza di Montecitorio si arricchisca di un nuovo e importante capitolo perché un Paese veramente democratico non può avere paura del proprio passato”. Restano, nella coscienza del nostro Paese e oltre al silenzio durato mezzo secolo, quelle condanne all’ergastolo dei criminali nazisti che nessuno ha mai cercato di eseguire. E il destino di altre decine di fascicoli che non sono mai stati oggetto di vere indagini e che sono simbolicamente tornati nell’ “Armadio della vergogna ”.
1943-45, il sangue degli innocenti
Da Marzabotto a Vicovaro, la mappa delle stragi compiute dalle forze armate naziste
di Corrado Stajano (Corriere della Sera, 04.05.2015)
Si potrebbe definire un’enciclopedia dell’orrore, un trattato di criminologia militare, la storia sociale di una dittatura del Novecento, un saggio di antropologia della violenza, un pallottoliere della morte questo gran libro dello storico Carlo Gentile sulla tragedia del nazismo nella seconda guerra mondiale. Si intitola I crimini di guerra tedeschi in Italia (1943-1945) , l’ha pubblicato Einaudi. È un libro totale, definitivo nel raccontare le stragi che insanguinarono il nostro Paese dall’armistizio alla Liberazione. Anche se la bibliografia esistente è sterminata e spesso seria.
Gentile, che insegna all’Università di Colonia ed è stato perito in alcuni dei principali processi sulle stragi celebrati in Italia, ha lavorato per molti anni a questo libro scritto con una minuzia persino ossessiva su quanto accadde in quel tempo crudele. Per la sua ricerca ha letto, studiato, usato tutte le possibili fonti, gli archivi tedeschi, i fondi della Wehrmacht, delle SS, della polizia, della Hitlerjugend, della Luftwaffe, ha analizzato i materiali alleati, le commissioni d’inchiesta del dopoguerra, ha consultato gli atti dei processi dei tribunali tedeschi e soprattutto quelli delle procure militari italiane, ha ascoltato i sopravvissuti, ha visto le carte degli archivi nostrani, da quello Centrale dello Stato a quelli degli Istituti della Resistenza e dei Comuni, ha visto i documenti nascosti nei più o meno segreti «armadi della vergogna», ha studiato gli stati di servizio degli ufficiali tedeschi, gli schedari delle decorazioni, le piastrine di riconoscimento dei soldati, gli elenchi dei caduti, con i nomi degli assassini e dei reparti in cui hanno servito, compagnie, battaglioni, reggimenti, divisioni, corpi d’armata, armate.
Forse è andato a vedere i cimiteri dei carnefici e le tombe delle vittime, vecchi, donne, bambini «arsi vivi nel rogo dei casali», dispersi «nei poveri cimiteri di montagna» (Calamandrei). Leggendo questo libro viene da pensare al lavoro anche doloroso dello storico che non sia un trovarobe o un leggicarte indifferente. La lingua (il libro è tradotto dal tedesco, in Germania uscì con polemiche tre anni fa) è piatta ma talvolta si avverte un sussulto nel racconto rigoroso di fatti sanguinanti.
Il saggio spiega ancora una volta che cosa è la guerra, con la sua ferocia e la sua gratuità. Spiega come fu temuto dai nazisti il movimento partigiano italiano, giudicato di grande importanza dai vertici militari tedeschi che per combatterlo misero in piedi massicce strutture, uno stato maggiore operativo delle SS e comandi regionali per la lotta alle bande. La Wehrmacht e le SS furono preda della «psicosi del partigiano»: i soldati si sentivano assediati e minacciati, condizione che accresceva il potere e la forza degli uomini della montagna, ma rendeva ancora più indifesi gli abitanti dei paesi considerati dai nazisti potenziali nemici della loro guerra di annientamento.
E questo serve anche a smentire i negazionisti e i minimizzatori della Resistenza. Il libro di Gentile è utile anche per far capire a chi abbia ancora dubbi quale fu lo spirito della violenza nazista. Le armate che operarono in Italia - quasi 600 mila uomini - violarono ogni regola dell’onor militare che in guerra potrebbe persino esistere anche al di là della legge, la Convenzione dell’Aja del 1907, quella di Ginevra del 1929, il codice penale militare di guerra.
Quel che commisero i nazisti fu atroce. Incendiarono villaggi, uccisero persone che non avevano alcun rapporto con il mondo della Resistenza: «Il numero spaventosamente alto di donne, adolescenti e bambini tra le vittime delle stragi evidenzia il carattere fondamentalmente criminale di molte delle uccisioni commesse dai soldati della Wehrmacht e della Waffen-SS» scrive Gentile.
Lo schema della violenza non muta. Il rastrellamento segue come ritorsione a un’azione partigiana e fa parte della strategia dei comandi nazisti che poi, il più delle volte, inventano giustificazioni fallaci. Terra bruciata, case perquisite, saccheggiate, incendiate, donne stuprate dai soldati sotto gli occhi assenti o compiaciuti degli ufficiali, uomini uccisi con la normalità di un gesto ovvio. Ci furono in quegli anni vendette per azioni partigiane, ci furono non poche stragi di innocenti che non c’entravano assolutamente nulla con le azioni di guerra senza alcuna verifica dei comandi sui possibili coinvolgimenti di poveri contadini legati con fil di ferro al collo ai pali delle viti o ai tronchi degli alberi e falciati dalle mitragliatrici. «In nessun paese occidentale si verificarono eccessi paragonabili a quelli commessi in Italia» scrive Gentile.
Il libro racconta per filo e per segno come avvennero le grandi stragi, Marzabotto, per esempio: il maresciallo Kesselring, dopo il massacro, inviò le sue congratulazioni per «la buona riuscita dell’operazione antibande» (Gentile si occupa poco dei feldmarescialli e dei vertici militari nazisti che dopo la guerra se la cavarono a buon mercato: Karl Wolff, il generale comandante delle SS, negli anni Settanta del secolo scorso, viveva tranquillamente a Darmstadt e concedeva interviste ai giornalisti della Rai-tv. Duecentomila lire d’epoca ognuna).
Si conoscono i nomi delle grandi stragi: con Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema e anche Boves, Meina, Civitella in Val di Chiana, la Certosa di Farneta, ma non si ha notizia o quasi delle infinite stragi che insanguinarono la penisola: al Sud dopo l’8 settembre 1943, in Italia centrale dopo la liberazione di Roma, in Toscana, soprattutto, nell’estate-autunno del 1944 quando, come sempre accade, l’esercito tedesco in ritirata sentì l’onta della sconfitta e si incrudelì ancora di più.
Il libro di Gentile è una mappa preziosa e dolente degli infiniti plotoni di esecuzione che uccisero innocenti nelle piccole città e nei villaggi, tra le case messe a fuoco: Capistrello, Filetto di Camerda, Onna, San Paolo dei Cavalieri, Vallucciole, Borgiola Foscalina, Vicovaro, Roccalbegna, Forno, Montemignaio, Guardistallo, Padule di Fucecchio. E innumerevoli altri nomi di luoghi di cui non si ha più memoria.
Sotto il microscopio dello storico sono soprattutto le due divisioni che più di tutte le formazioni naziste si macchiarono di delitti e di stragi: la 16ª SS Panzer-Grenadier Division «Reichsführer-SS» e la Fallschirm-Panzer Division «Hermann Göring». Perché tanta ferocia? Erano corpi speciali, formati da giovani ideologizzati, cresciuti nelle organizzazioni naziste, spesso reduci dall’esperienza mortale della guerra nell’Est Europa dove la Wehrmacht e le SS furono protagoniste di raccapriccianti azioni di sterminio di massa. Le stragi, anche in Italia, ubbidivano a una rigorosa regia militare. È sufficiente per farlo capire il fatto che le modalità delle azioni sanguinarie sono identiche.
I repubblichini, «i ragazzi di Salò» - 160.000 uomini - sono un po’ trascurati da Gentile. Spesso affiorano qua e là, subalterni, non certo dalla parte dei loro compatrioti. Non vogliono esser da meno dei modelli nazisti e qualche volta, riescono a essere sinistramente più feroci.
I crimini di guerra tedeschi in Italia, libro di grande importanza scientifica e anche umana, offre un contributo essenziale per la storia di quei terribili anni. Una registrazione ben documentata di eventi da non dimenticare mai.
Milano, nasce la Casa della memoria per tutte le vittime: dal nazifascismo alle stragi dei migranti
I volti dei martiri della Resistenza sono dipinti sui muri dell’edificio. All’interno mostre, convegni e gli uffici per le associazioni. Pisapia: "E’ un luogo fondamentale soprattutto per i giovani" *
Sarà la casa del ricordo, ma anche un luogo dove costruire una nuova memoria condivisa. Dove, per il sindaco Giuliano Pisapia, potrebbero trovare spazio anche i temi della giustizia sociale e della testimonianza di una nuova strage quotidiana, quella dei migranti.
In via Confalonieri, all’Isola, nasce la Casa della memoria, dove troveranno spazio le associazioni dei partigiani e degli ex deportati, delle vittime delle stragi e del terrorismo, ma sarà utilizzata anche per mostre e iniziative culturali. Nasce, la Casa della memoria, il giorno prima del 70esimo anniversario della Festa della Liberazione, e questo - per il Comune - é un grande risultato, una promessa mantenuta.
L’edificio è stato realizzato all’interno del complesso di Porta Nuova, tra i nuovi grattacieli e la vecchia Milano, grazie anche alla Fondazione Catella. Un parallelepipedo di mattoni, progettato dallo studio Baukuh, sulle cui facciate sono riprodotte, con un mosaico, immagini simbolo della Milano liberata e dei momenti di dolore collettivo (la scena dell’annuncio della Liberazione in piazza Duomo, il 25 Aprile del 1945, l’interno della Banca nazionale dell’agricoltura dopo la strage di Piazza Fontana e altre) e 19 volti di persone comune, ritratte al lavoro.
All’interno c’è un piano terra che sarà adibito a luogo per mostre e tre piani per uffici e archivio, per un totale di 2.400 metri quadri, collegati da una scala a spirale gialla. Gli uffici saranno sede delle associazioni, e su ogni porta di vetro c’è già l’indicazione di chi sarà ospitato: l’Aned (associazione nazionale ex deportati), l’Anpi (l’associazione partigiani), l’Aiviter (l’associazione delle vittime del terrorismo), l’associazione familiari vittime di Piazza Fontana e l’Istituto nazionale di studi sul movimento di liberazione. Il ministero dei Beni culturali, Dario Franceschini, ha dato il via libera per un progetto futuro: la Casa della memoria potrebbe diventare la sede del futuro museo nazionale multimediale della Resistenza.
"Milano non dimenticherà mai il passato - ha detto il sindaco Pisapia all’inaugurazione, con la sua vice Ada Lucia De Cesaris - La Casa della memoria è e sarà un luogo fondamentale per tutti noi e soprattutto per le giovani generazioni". Il 25 Aprile l’edificio ospiterà una serata di letture, musica e performance curate da Andrea Kerbaker sui valori della Resistenza.
Il tema della memoria e del negazionismo sono al centro del dibattito anche di Camera e Senato. Il Ddl sul negazionismo è un atto di concreto contrasto a una delle forme più sottili di diffamazione razziale, xenofoba, antisemita e di incitazione all’odio - afferma la senatrice Silvana Amati (Pd) prima firmataria del Ddl approvato l’11 febbraio in Senato e ora all’esame della Camera - Un atto che dà finalmente seguito alle dichiarazioni che si susseguono ogni anno in occasione del Giorno della Memoria, affinché simili orrori non possano mai più accadere. Il negazionismo è un inaccettabile abuso di diritto, che non può essere protetto dal diritto alla libertà d’espressione o di ricerca, così come stabilito dalla stessa Corte Europea dei Diritti dell’Uomo".
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Milano, tre piani di storia: è nata la Casa della memoria -- galleria fotografica 1 di 18
Rendina, partigiano e gentiluomo
risponde Furio Colombo (il Fatto, 11.02.2015)
Caro Furio Colombo
ho visto tante celebrazioni di Massimo Rendina, bravo giornalista e brava persona, che merita certamente un buon ricordo. -Ma poi arriva la celebrazione partigiana e io non posso fare a meno di dire: ma neppure i garibaldini dello sbarco dei Mille sono stati ricordati e ri-celebrati così a lungo. A parte le doti della persona, non è scaduto il tempo?
Francesca
NON CREDO CHE sia scaduto il tempo e provo a darle alcune ragioni. Due o tre sere fa, la polizia è dovuta intervenire perché un intero condominio di Milano era disturbato da schiamazzi notturni. La polizia ha accertato che il rock a tutto volume veniva dalla casa del senatore e vicepresidente del Senato, Ignazio La Russa. Appena richiesto di smettere il disturbo, lo statista ha dichiarato alla polizia: “Ma a voi vi mandano le zecche comuniste!”.
Negli stessi giorni, Isabella Rauti, figlia di Pino Rauti e moglie dell’ex sindaco di Roma Alemanno, ha convocato un po’ di nostalgici e di ex fascisti al Teatro Adriano per mettere insieme una ennesima aggregazione di “nuova destra”.
La “nuova destra italiana”, come dimostra l’intera costellazione di gruppi del genere (da Casa Pound a Fratelli d’Italia a Forza Nuova, ma la lista è molto più lunga) non è “nuova destra”, come si ama dire (e anche i media stanno al gioco) ma vecchio fascismo.
È intatto il razzismo contro “negri” e stranieri, intatto il disprezzo per “il nemico” (“le zecche comuniste”) anche se il nemico non esiste più, intatta l’ossessione di armi, confini e pugnali, tutto sacro perché il fascismo è una religione. E intatta è la persuasione che la nostra Costituzione sia partigiana e comunista.
La triste morale della favola balza fuori facilmente da questa Italia: il fascismo non ha smesso un momento di essere fascista, come se non fosse stato spazzato via dall’unico vero conflitto di civiltà: mondo libero contro nazifascismo. Perché, quando esistono (quando sono esistiti) personaggi come Massimo Rendina, che hanno rischiato, combattuto, comandato, giocandosi sempre la vita per liberare il futuro dell’Italia dal morbo fascista, perché non dovremmo onorarli in vita e ricordarli da morti con immensa gratitudine?
Se i fascisti sono ancora fascisti, perché fingere di non vedere e smettere di essere antifascisti? Per questo un Paese civile sceglie per forza Rendina, lo ricorda con amore e gli dedica l’onore che si è meritato di un liberatore del Paese.
Non è fuori luogo ricordare ai veterofascisti, a cui piace chiamarsi “nuova destra”, che sono stati fortunati. Ha vinto Rendina. Se avessero vinto coloro che essi ancora celebrano, il loro destino sarebbe stato di fare, a tempo pieno, e per sempre, i guardiani dei campi di sterminio.
Lettera agli amici,
di Giacomo Ulivi
Cari Amici,
Vi vorrei confessare innanzi tutto, che tre volte ho strappato e scritto questa lettera. L’avevo iniziata con uno sguardo in giro, con un sincero rimpianto per le rovine che ci circondano, ma, nel passare da questo argomento di cui desidero parlarvi, temevo di apparire "falso", di inzuccherare con un patetico preambolo una pillola propagandistica. E questa parola temo come un’offesa immeritata: non si tratta di propaganda ma di un esame che vorrei fare con voi. Invece dobbiamo guardare ed esaminare insieme: che cosa? Noi stessi. Per abituarci a vedere in noi la parte di responsabilità che abbiamo dei nostri mali. Per riconoscere quanto da parte nostra si è fatto, per giungere ove siamo giunti.
Non voglio sembrarvi un Savonarola che richiami il flagello. Vorrei che con me conveniste quanto ci sentiamo impreparati, e gravati di recenti errori, e pensassimo al fatto che tutto noi dobbiamo rifare. Tutto dalle case alle ferrovie, dai porti alle centrali elettriche, dall’industria ai campi di grano.
Ma soprattutto, vedete, dobbiamo fare noi stessi: è la premessa per tutto il resto. Mi chiederete: perché rifare noi stessi, in che senso? Ecco per esempio, quanti di noi sperano nella fine di questi casi tremendi, per iniziare una laboriosa e quieta vita, dedicata alla famiglia e al lavoro? Benissimo: è un sentimento generale, diffuso e soddisfacente.
Ma, credo, lavorare non basterà; e nel desiderio invincibile di "quiete", anche se laboriosa è il segno dell’errore. Perché in questo bisogno di quiete è il tentativo di allontanarsi il più possibile da ogni manifestazione politica. È il tremendo, il più terribile, credetemi, risultato di un’opera di diseducazione ventennale, di diseducazione o di educazione negativa, che martellando per vent’anni da ogni lato è riuscita ad inchiodare in molti di noi dei pregiudizi.
Fondamentale quello della "sporcizia" della politica, che mi sembra sia stato ispirato per due vie. Tutti i giorni ci hanno detto che la politica è un lavoro di "specialisti". Duro lavoro, che ha le sue esigenze: e queste esigenze, come ogni giorno si vedeva, erano stranamente consimili a quelle che stanno alla base dell’opera di qualunque ladro e grassatore.
Teoria e pratica concorsero a distoglierci e ad allontanarci da ogni attività politica. Comodo, eh? Lasciate fare a chi può e deve; voi lavorate e credete, questo dicevano: e quello che facevano lo vediamo ora, che nella vita politica - se vita politica vuol dire soprattutto diretta partecipazione ai casi nostri - ci siamo stati scaraventati dagli eventi.
Qui sta la nostra colpa, io credo: come mai, noi italiani, con tanti secoli di esperienza, usciti da un meraviglioso processo di liberazione, in cui non altri che i nostri nonni dettero prova di qualità uniche in Europa, di un attaccamento alla cosa pubblica, il che vuol dire a sé stessi, senza esempio forse, abbiamo abdicato, lasciato ogni diritto, di fronte a qualche vacua, rimbombante parola?
Che cosa abbiamo creduto? Creduto grazie al cielo niente ma in ogni modo ci siamo lasciati strappare di mano tutto, da una minoranza inadeguata, moralmente e intellettualmente. Questa ci ha depredato, buttato in un’avventura senza fine; e questo è il lato più "roseo", io credo: Il brutto è che le parole e gli atti di quella minoranza hanno intaccato la posizione morale; la mentalità di molti di noi.
Credetemi, la "cosa pubblica" è noi stessi: ciò che ci lega ad essa non è un luogo comune, una parola grossa e vuota, come "patriottismo" o amore per la madre in lacrime e in catene vi chiama, visioni barocche, anche se lievito meraviglioso di altre generazioni. Noi siamo falsi con noi stessi, ma non dimentichiamo noi stessi, in una leggerezza tremenda. Al di là di ogni retorica, constatiamo come la cosa pubblica sia noi stessi, la nostra famiglia, il nostro lavoro, il nostro mondo, insomma, che ogni sua sciagura è sciagura nostra, come ora soffriamo per l’estrema miseria in cui il nostro paese è caduto: se lo avessimo sempre tenuto presente, come sarebbe successo questo? L’egoismo - ci dispiace sentire questa parola - è come una doccia fredda, vero?
Sempre tutte le pillole ci sono state propinate col dolce intorno; tutto è stato ammantato di rettorica; Facciamoci forza, impariamo a sentire l’amaro; non dobbiamo celarlo con un paravento ideale, perché nell’ombra si dilati indisturbato. È meglio metterlo alla luce del sole, confessarlo, nudo scoperto, esposto agli sguardi: vedrete che sarà meno prepotente. L’egoismo, dicevamo, l’interesse, ha tanta parte in quello che facciamo: tante volte si confonde con l’ideale. Ma diventa dannoso, condannabile, maledetto, proprio quando è cieco, inintelligente. Soprattutto quando è celato. E, se ragioniamo, il nostro interesse e quello della "cosa pubblica", insomma, finiscono per coincidere.
Appunto per questo dobbiamo curarla direttamente, personalmente, come il nostro lavoro più delicato e importante. Perché da questo dipendono tutti gli altri, le condizioni di tutti gli altri. Se non ci appassionassimo a questo, se noi non lo trattiamo a fondo, specialmente oggi, quella ripresa che speriamo, a cui tenacemente ci attacchiamo, sarà impossibile. Per questo dobbiamo prepararci. Può anche bastare, sapete, che con calma, cominciamo a guardare in noi, e ad esprimere desideri. Come vorremmo vivere, domani? No, non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere. Pensate che tutto è successo perché non ne avete più voluto sapere!
Ricordate, siete uomini, avete il dovere se il vostro istinto non vi spinge ad esercitare il diritto, di badare ai vostri interessi, di badare a quelli dei vostri figli, dei vostri cari. Avete mai pensato che nei prossimi mesi si deciderà il destino del nostro Paese, di noi stessi: quale peso decisivo avrà la nostra volontà se sapremo farla valere; che nostra sarà la responsabilità, se andremo incontro ad un pericolo negativo? Bisognerà fare molto. Provate a chiedevi in giorno, quale stato, per l’idea che avete voi stessi della vera vita, vi pare ben ordinato: per questo informatevi a giudizi obbiettivi.
Se credete nella libertà democratica, in cui nei limiti della costituzione, voi stessi potreste indirizzare la cosa pubblica, oppure aspettare una nuova concezione, più egualitaria della vita e della proprietà. E se accettate la prima soluzione, desiderate che la facoltà di eleggere, per esempio sia di tutti, in modo che il corpo eletto sia espressione diretta e genuina del nostro Paese, o restringerla ai più preparati oggi, per giungere ad un progressivo allargamento? Questo ed altro dovete chiedervi. Dovete convincervi, e prepararvi a convincere, non a sopraffare gli altri, ma neppure a rinunciare.
Oggi bisogna combattere contro l’oppressore. Questo è il primo dovere per noi tutti: ma è bene prepararsi a risolvere quei problemi in modo duraturo, e che eviti il risorgere di essi ed il ripetersi di tutto quanto si è abbattuto su di noi.
Termino questa lunga lettera un po’ confusa, lo so, ma spontanea, scusandomi ed augurandoci buon lavoro.
Il raduno delle città italiane decorate per la Resistenza
di Roberto Fiori (La Stampa, 12.10.2014)
«Era giunta l’ora di resistere; era giunta l’ora di essere uomini: di morire da uomini per vivere da uomini». Quell’ora, così ben descritta nelle parole di Piero Calamandrei, ad Alba era giunta 70 anni fa. Un anniversario che la città Medaglia d’oro ha deciso di commemorare con un cartellone di eventi intitolato «Resistenze», ricordando «I ventitre giorni della città di Alba» e l’uccisione di Leonardo Cocito, il professore partigiano che insegnò italiano e latino a Beppe Fenoglio.
L’evento clou il 2 novembre, quando l’amministrazione comunale ha invitato ad Alba le città italiane Medaglia d’Oro per la Resistenza, per ricordare insieme la lotta di Liberazione con la presenza del presidente dell’Anpi nazionale, Carlo Smuraglia. In serata, lo scrittore Paolo Di Paolo proporrà un approfondimento sui «Ventitre giorni», con una sessione di TwLetteratura. Il 27 novembre sarà presentato «Diario Albese 1944-1945», il volume delle memorie di Oscar Pressenda durante la Resistenza.
I ventitré giorni di Alba
Caleidoscopio partigiano
A settant’anni dai fatti immortalati dal racconto di Beppe Fenoglio i protagonisti, vivi e morti, raccontano ognuno una storia diversa
di Piero Negri (La Stampa, 12.10.2014)
Diceva Paolo Farinetti, il «comandante Paolo» della XXI Brigata Matteotti, socialista, che chi è andato più vicino a raccontare la vera storia dei ventitré giorni della città di Alba è il vescovo, monsignor Grassi, nel libro «La tortura di Alba e dell’Albese». Naturale, del passaggio dalla guarnigione fascista al governo partigiano il vescovo fu architetto e organizzatore. Beppe Fenoglio, invece, raccontando l’epopea non fece storia, ma letteratura. «Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944» è il celebre incipit dei Ventitre giorni della città di Alba, in cui si narra della libera repubblica partigiana di 70 anni fa.
Non importa se i numeri sono giusti, importa che la scrittura eroicomica di Fenoglio abbia trasformato quell’episodio in un affresco senza tempo delle grandezze e piccolezze umane. I troppi capi sul balcone del municipio («In proporzione la truppa doveva essere di ventimila e non di duemila uomini»), le ragazze dei postriboli che «quel giorno e nei giorni successivi fecero cose da medaglie al valore» e il colpo finale sui partigiani, autoinferto: «Ma non erano tutti a puttane, naturalmente, anzi i più erano in giro a requisir macchine, gomme e benzina. Non senza litigare tra loro con l’armi fuor di sicura, scovarono e si presero una quantità d’automobili con le quali iniziarono una emozionante scuola di guida nel viale di circonvallazione».
Ciò che meno stupisce, di tutta la vicenda, è che nel 1952, quando il racconto uscì con Einaudi, nella raccolta che porta quello stesso titolo, segnando così l’esordio dello scrittore di Alba, a molti sia andato di traverso. L’Unità lo definì «una cattiva azione», e molti ex combattenti più vicini a Fenoglio, magari così vicini da aver partecipato ai ventitré giorni, non glielo perdonarono mai.
Pietro Chiodi, filosofo esistenzialista e professore di Fenoglio al liceo, spiegava che in questo consisteva l’antifascismo, nello sferzare con la critica e l’ironia se stessi e la propria parte, ma probabilmente anche lui sapeva che non c’era abbastanza distanza dai fatti, nel tempo e nei sentimenti, per capire che grande narratore fosse Fenoglio e cosa stesse cercando di fare.
Alba fu abbandonata dalla guarnigione fascista la mattina del 10 ottobre 1944. «Alle 16 non ve n’è più alcuno - scrisse il vescovo - e, a somme fatte, non c’è che un ferito leggero tra i civili».
L’ingresso in città fu spettacolare, troppo per Fenoglio, ma non per i ragazzi delle colline che da mesi erano in clandestinità, con poco o nulla da mangiare e pochi improvvisati posti in cui dormire. «Dovete capirci - dice Felice Marino, partigiano della II Divisione Langhe, di cui farà parte anche Fenoglio -. Avevamo conquistato Alba senza sparare un colpo. Forse non l’avremmo tenuta a lungo, ma che importava?».
Molti ragazzi di Alba iniziarono ora a sentirsi partigiani. Per loro - e Fenoglio tra questi - i ventitré giorni furono il punto di non ritorno: quasi tutti misero allora al collo un fazzoletto azzurro, quello degli autonomi, apartitici, in buona parte ex militari, in molti casi monarchici.
I ventitré giorni segnarono la loro vittoria politica. Enrico Martini «Mauri», gran capo degli autonomi di tutte le Langhe nel 1961 lo spiegherà così: «I fatti di Alba devono essere considerati in stretto rapporto con la situazione della regione circostante - le Langhe - un paese interamente partigiano, un piccolo Stato libero nel territorio della repubblica fascista. Il sogno di dare una capitale a quell’area di libertà, conquistata a prezzo di tanto sangue e di tanti sacrifici, era nel cuore di tutti».
Ciascuno insomma da quei giorni cercò (e ottenne) qualcosa di diverso. Come Neville Darewski, detto Temple, agente del servizio segreto britannico Soe, che ebbe un ruolo fondamentale nel governo della città e che da lì si spostò più volte a Torino per vedere Vittorio Valletta, amministratore delegato della Fiat (lo descriverà «molto filobritannico e avanti di diverse miglia rispetto agli altri industriali italiani»). Per lui la libera repubblica di Alba fu un test di ciò che sarebbe potuto accadere in Italia alla Liberazione: e anche questo va ricordato, quando si pensa al piccolo esperimento di autogoverno di settant’anni fa.
Il sogno di libertà durò ventitré giorni, forse un paio di settimane, durante le quali «sembrava di essere in un giorno di mercato tanta era la ressa, la moltitudine, l’andirivieni», si scriverà sulla Gazzetta Piemontese, il giornale nato per l’occasione. Un’euforia confermata anche da una relazione fascista: «Il mercato del sabato è stato particolarmente ricco come da tempo non lo era più».
Si sventa un primo attacco, poi appare chiaro che la resistenza potrà essere solo formale. All’alba del 2 novembre, due, tremila fascisti passano sul ponte sul Tanaro di Pollenzo, che i partigiani avevano minato senza distruggerlo. Alle 10 del mattino la sirena del municipio suona a lungo e annuncia una battaglia che finisce intorno alle 14. Il vescovo fa sostituire il tricolore sul campanile con una bandiera bianca, anzi con «un asciugamano di tela bianca del lavabo», come scrive poi. Molti se ne vanno, non solo i partigiani: «La gente cominciò a uscire affrettatamente dalle case e a correre verso le colline con lacrime, invocazioni e grida», racconta ancora.
Sul giornale fascista Noi e loro si raccontò così la vittoria: «Chiesi a uno squadrista notizie sulla città: “Pare morta, disse, poca gente e ostile, quasi tutti i negozi chiusi. Niente donne festanti, bambini accorsi a battere le mani, niente: ma ostilità quasi contenuta e trasfusa nel volto delle cose”».
Beppe Fenoglio ora è un pianeta *
Da qualche giorno, nel Sistema solare c’è anche un pianetino battezzato con il nome di Beppe Fenoglio. Ha un diametro di 10-15 km e si trova a metà strada tra l’orbita di Marte e quella di Giove. A proporre il nome e la motivazione sono stati l’astronomo Mario Di Martino e il giornalista scientifico Piero Bianucci. L’Unione astronomica internazionale ha accolto la proposta, riconoscendo in Fenoglio «uno dei più grandi scrittori italiani del Novecento e un combattente per la libertà».
* La Stampa 12.10.14
Il partigiano Chiodi
Grande studioso di Heidegger, raccontò la sua Resistenza in Banditi e divenne un personaggio del romanzo di Fenoglio
Mostra ad Alba nel centenario del filosofo
di Bruno Quaranta (La Stampa, 14.09.2015)
Quando morì, alle Molinette di Torino, il 22 settembre 1970, a tenergli la mano era Giovanni Arpino. Se montalianamente «ognuno riconosce i suoi», il filosofo Pietro Chiodi e lo scrittore all’Ombra delle colline non potevano non fraternizzare. Estranei l’uno e l’altro agli accademismi, liberi fino alla solitudine, spalancati all’abbraccio funesto e splendido che è la vita, non invocando scorciatoie, salvagenti, belletti.
Aveva appena 55 anni Chiodi, quando scomparve, essendo nato il 2 luglio 1915, a Corteno Golgi, nel Bresciano. A ricordarne il centenario, dopo il paese d’origine, chi se non il suo liceo, il «Govone» di Alba, dove insegnò a lungo (ma fu in cattedra pure nel torinese liceo «Alfieri»), tra gli allievi Beppe Fenoglio, che lo accoglierà nel Partigiano Johnny «battezzandolo» Monti? («Monti s’era alzato, nella sua orsina massiccità di montanino corretto da anni di esistenza pianurale»).
Un filosofo, Pietro Chiodi, che «discendeva» dalla Storia. Finita la «guerra civile» (come guerra di civiltà) raggiunse il suo «maggiore», Nicola Abbagnano, che ricorderà: «Nell’androne dello stabile di via Andrea Peyron 29, lo stabile dove abitavo, si affacciò un giovane col moschetto, spaventando il portiere. Salì la scala a grandi falcate. Giunto alla porta del mio appartamento suonò. Appena mi affacciai mi investì: “E adesso che cosa devo fare?”. “Occuparti di filosofia, con la stessa tenacia con cui hai combattuto per la libertà”».
E così il «bandito» Pietro Chiodi, in seguito ordinario a Torino di Filosofia della Storia, tradurrà, primo in Italia, Heidegger, Essere e tempo, correva il 1953, consultandosi, confrontandosi, con don Natale Bussi, altra figura cruciale nella formazione di Beppe Fenoglio (e delle ulteriori indigene «energie nove»), profondo conoscitore della lingua e della cultura tedesca, sacerdote conciliare ante litteram.
La stagione nelle file di Gl
Studioso di assoluta caratura, e, quindi, mai incline a ritenersi un monumento. Non a caso Chiodi donerà a Giovanni Arpino un saggio su Heidegger con parole spicce, non imparruccate: «Leggi da pagina 247 a pagina 296. Il resto sono balle, ma quelle pagine devi leggerle proprio tu». Ricordava l’amico: «Lo disse con fermezza e pudore: come una donna gentile, che avendo cotto un bel coniglio ti dà la coscia e si tiene per sé le costole, dove c’è ben poco da rodere».
Scoccata la «mezzanotte del mondo» con la barbarie nazifascista, Pietro Chiodi avvertirà e onorerà l’urgenza di riprendere i sentieri interrotti, di tornare al pensiero, come bussola l’esistenzialismo: «La guerra, l’odio, la distruzione, il tradimento, la sconfitta, l’amara vittoria, facevano emergere gli scogli perennemente frapposti fra il mare dell’esistenza ed il porto dell’assoluto: la morte, la colpa, il nulla, l’impotenza, il tempo». La morte. Che sospinse Pietro Chiodi a «farsi» bandito, banditen, come i tedeschi apostrofavano i partigiani: «Ripenso alla mia vita di studio, al mio lavoro su Heidegger interrotto. Perché ho abbandonato tutto questo? Mi ricordo con precisione: una strada piena di sangue e un carro con quattro cadaveri [...]. Il cantoniere che dice: “È meglio morire che sopportare questo”. Sì, è allora che ho deciso di gettarmi allo sbaraglio. Avevo sempre odiato il fascismo ma da quel momento avevo sentito che non avrei più potuto vivere in un mondo che accettava qualcosa di simile, fra gente che non insorgeva pazza di furore, contro quelle belve».
In Banditi, nel catalogo Einaudi («Non un romanzo, né una storia romanzata», bensì «un documentario storico»), Pietro Chiodi narrerà la sua stagione resistenziale in Giustizia e Libertà, tra Langhe e Roero, prima e dopo la deportazione in Germania dove contrasse la malattia che si rivelerà letale, nome di battaglia Valerio. Dalla religione alla pratica della libertà, dalla scuola («Parliamo sempre a lungo del Liceo») allo sten.
L’amico-collega Cocito
Come specchio (reciproco specchio) il collega del Govone Leonardo Cocito, di fede comunista, Corradi nel Partigiano Johnny, docente di Lettere, impiccato a Carignano dai tedeschi il 7 settembre 1944 («Cocito è morto. Non posso immaginare Cocito morto. Ucciso da loro») - sullo sfondo, un’istantanea, l’azionista Luigi Pareyson che invita a «andare il più possibile verso sinistra senza compromettere la libertà».
Monti e Corradi, Chiodi e Cocito, che di cresta in cresta, di imboscata in rastrellamento, rinnoveranno in Beppe Fenoglio il fascino dell’amatissimo liceo: Monti «che parlava degli stoici, mentre Corradi saltava Oriani per fare il fuoriprogramma Baudelaire», di tanto in tanto un richiamo a «folgorare la testa: “Johnny? qual è l’aoristo di lambano?».
Chiodi-Monti nel «suo» Govone, a rappresentare, fenoglianamente, la sconvolgente primavera di bellezza che è l’adolescenza, la promessa di nike che è la stagione liceale. Monti - ricordava Johnny - «sospirò, nella ineluttabilità della prestazione professionale: “Vedi, l’angoscia è la categoria del possibile. Quindi è infuturamento, si compone di miriadi di possibilità, di aperture sul futuro. Da una parte l’angoscia, è vero, ti ributta sul tuo essere, e te ne viene amarezza, ma d’altra parte essa è il necessario sprung, cioè salto verso il futuro...”».
Nove mesi di fame, torture, razzie
Roma sotto il dominio della svastica
di Paolo Conti (Corriere della Sera, 04.06.2014)
«Senza quelle truppe oggi non saremmo liberi e sicuramente non saremmo mai nati», ricordava ieri il presidente della Comunità ebraica romana, Riccardo Pacifici, celebrando la riapertura del Tempio ebraico maggiore il 4 giugno 1944, il giorno della Liberazione di Roma da parte degli alleati angloamericani. Un episodio straordinario. Un soldato americano di fede ebraica, Aron Colub, appena entrato nella Roma liberata, passa su una camionetta sul lungotevere. Chiede di fermarsi alla Sinagoga romana, vuole pregare. Ma scopre che è stata sigillata dai nazisti durante la feroce occupazione della capitale (gli occupanti tedeschi erano in fuga dall’alba). L’ufficiale scende, si arma molto semplicemente di un piede di porco, rompe i sigilli, riapre il portone e restituisce il Tempio agli ebrei romani scampati alla razzia e alla deportazione nazista nei campi di concentramento.
Oggi alla Camera dei deputati, nelle sale della Biblioteca a palazzo San Macuto in via del Seminario 76, il presidente Giorgio Napolitano inaugura alle 17 la bella mostra «1943-1944. Roma dall’occupazione alla liberazione», che rimarrà aperta fino al 4 luglio (tutti i giorni dalle 10 alle 18.30, sabato 10-12.30, domenica chiuso).
Un’ampia rassegna documentaria che conta, oltre ai contributi della stessa Biblioteca, numerosi apporti: Roma Capitale, Agenzia Ansa, Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico, Comunità ebraica romana, Fondazione museo della Shoah, Istituto Cinecittà Luce, Museo storico della Liberazione, Rai Storia. Ma ci saranno anche documenti e testimonianze affidate dalle famiglie Amendola, De Mata, Ghisalberti, Nenni, Osti Guerrazzi e Siglienti.
Il filo conduttore della mostra, organizzata sui due piani principali della Biblioteca, è il punto di vista della gente comune di Roma. Cioè le sofferenze quotidiane dei romani raccontate dalla caduta del fascismo il 25 luglio 1943 fino alla mattina del 4 giugno 1944, quando le truppe alleate entrarono in città guidate dal generale americano Mark Wayne Clark.
Un vasto capitolo riguarderà ovviamente l’occupazione tedesca dopo l’8 settembre 1943 e la Resistenza: e quindi i sabotaggi, le azioni «diffuse» nella città, i luoghi della repressione nazista, la prigione di via Tasso, le Fosse Ardeatine. Un altro racconterà la tragedia degli ebrei romani: la deportazione, il 16 ottobre 1943, i rastrellamenti successivi in tutti i quartieri di Roma (ora testimoniati dalle «pietre d’inciampo» collocate dall’artista tedesco Gunter Demnig).
La Comunità ebraica ha prestato numerosi documenti di proprietà del Museo ebraico di Roma, in particolare quelli che ricostruiscono la consegna dei cinquanta chili d’oro agli occupanti nazisti. Poi ci sarà la ricostruzione dello sbarco alleato ad Anzio, la cronistoria della rinascita della vita politica democratica. Infine l’arrivo degli Alleati, la fuga dei nazifascisti, i primi processi, le epurazioni, il ripristino delle libertà civili e del multipartitismo.
Colpirà sicuramente i più giovani quella paginata dedicata dal rotocalco in bianco e nero «La settimana» alla disperazione dei romani, poco dopo la Liberazione. Titolo in prima pagina: «La fame assedia Roma» , con un grafico molto esplicito e di grande effetto. Dentro, un reportage che testimonia l’epidemia di tubercolosi a Tormarancio, la mancanza di acqua, luce e gas, le altre malattie legate alla scarsa e cattiva alimentazione. Una donna di appena trent’anni, ma con l’aspetto di un’anziana cadente, si fa fotografare e grida: «Adesso, questi scatti appendeteli a palazzo Venezia!» Ovvero sotto al famoso balcone che era stato, per vent’anni, il pulpito usato da Benito Mussolini per i suoi discorsi da Duce del fascismo.
Ci sarà anche una sezione di audiovisivi: dall’Archivio Luce arrivano documentari storici e famosi come Giorni di gloria di Luchino Visconti e Marcello Pagliero del 1944-45 (le terribili riprese della dissepoltura dei martiri delle Fosse Ardeatine, del processo alla Banda Koch), Roma città indifesa di Iacopo Rizza del 1963 e Roma occupata di Ansano Giannarelli del 1984. Domenica 8 giugno, durante un’apertura straordinaria della mostra dalle 16 alle 21, è prevista anche la proiezione di Roma città aperta di Roberto Rossellini e del documentario 4 giugno 1944 .
L’anniversario della Liberazione
Gli americani entrano a Roma
“Il medioevo nazista è finito”
di Umberto Gentiloni (La Stampa, 04.06.2014)
Il 4 giugno di settant’anni fa la diffidenza della popolazione si trasformò in gioia Il 4 giugno 1944 è una domenica, 271mo giorno dell’occupazione nazista di Roma iniziata la sera di mercoledì 8 settembre 1943 a seguito dell’armistizio.
All’alba di Settant’anni fa le prime pattuglie statunitensi entrano in città. L’accesso è rischioso: imprevisti, rallentamenti e presenza di truppe tedesche nei punti di scorrimento verso il cuore della capitale. La Wehrmacht ripiega verso nord, i primi soldati alleati entrano con circospezione, spingendosi fin dentro le antiche mura. Non c’è quasi traccia degli occupanti, le vie sono sgombre, alcuni cecchini rimangono nascosti nelle proprie postazioni. Si spara fino a tarda sera; alle 21 in piazza di Spagna un conflitto a fuoco coinvolge gruppi di nazisti, fascisti e alleati. L’ultima strage avviene alla Storta dove vengono fucilati quattordici prigionieri prelevati dalla prigione nazista di via Tasso. L’esito dei combattimenti è scontato. Roma è libera. “Elefante!” la parola in codice diffusa da Radio Londra. Il 5 giugno viene colpito Ugo Forno, un bambino di dodici anni che aveva deciso di proteggere un ponte di ferro sul fiume Aniene.
La liberazione di Roma diventa un obiettivo strategico per il buon esito della campagna d’Italia: impegnare divisioni tedesche sul fronte meridionale e lanciare un messaggio d’incoraggiamento al movimento partigiano e ai diversi teatri di guerra. Nei piani degli alti comandi la presa della capitale avrebbe dovuto seguire di qualche settimana lo sbarco di Anzio del 22 gennaio 1944, Operazione Shingle. Ma il cammino viene presto interrotto dalle capacità di difesa dei tedeschi e dagli errori di una condotta che rallentò invece di accelerare la direzione di marcia.
La dialettica difficile tra Washington e Londra condiziona pesantemente la strategia militare e l’indirizzo politico delle operazioni sul territorio della penisola italiana. Per uscire dallo stallo, ai primi di maggio, prende avvio una nuova offensiva, l’Operazione Diadem articolata su due direttrici: lo sfondamento della Linea Gustav nei pressi di Monte Cassino, assegnato all’VIII Armata britannica, concluso il 18 maggio; la marcia verso Roma della V Armata americana, di stanza nel litorale sud. Se il progetto originario prevede il ricongiungimento dell’VIII e della V armata prima dell’ingresso in città, il generale Clark decide di non attendere l’arrivo degli inglesi: da Cisterna e Valmontone, gli americani puntano direttamente sulla capitale, attraverso la via Appia e la via Casilina.
Sullo sfondo della seconda guerra mondiale Roma appare inizialmente incredula e dubbiosa. Dalle memorie che ci sono arrivate prevale un senso di diffidenza; il timore di una nuova cocente delusione, dopo le speranze tradite del 25 luglio e dell’8 settembre 1943. Si cercano conferme, si guarda verso sud per vedere arrivare mezzi e truppe di chi poteva cacciare l’occupante.
Quando ci si rende conto di ciò che sta avvenendo la città sembra impazzire di gioia, stringendosi festante attorno ai nuovi arrivati e circondando monumenti e simboli antichi con una nuova speranza. Dormono in pochi, anche i soldati sono increduli per i segni di un’accoglienza diffusa che per le prime settimane avvolge in un clima idilliaco popolazioni e eserciti. Per gli uomini della Resistenza, per chi era passato all’azione, l’incontro con gli alleati si carica di speranze e sogni. «Sul piazzale Tiburtino (erano le 19 circa) incontrammo la prima camionetta americana». Sono le parole di Rosario Bentivegna, Sasà, giovane partigiano del movimento antifascista: «La gente le si avvicinava insospettita, non sapeva distinguere bene dalla foggia dell’elmetto ricoperto dalle reticelle mimetiche e dalle divise rese uniformi dalla guerra se si trattasse ancora del nemico o se fossero i nuovi amici. Anche quei soldati erano stanchi, ma con una gran voglia di riposarsi dalle loro fatiche in mezzo a quella folla che ancora diffidava, che temeva di sbagliare, ma che si sentiva dentro il bisogno di salutare la libertà. [...] Poi vennero fuori le sigarette - le Camel - e non ci furono più dubbi, e la gente corse impazzita intorno, nelle strade a urlare che erano arrivati gli americani. Forse questa volta il Medioevo nazista era finito davvero».
La mostruosa normalità di un sistema corruttivo
di Paolo Favilli (il manifesto, 25 aprile 2014)
L’uso senza limiti del linguaggio iperbolico in un dibattito politico quasi sempre privo di spessore analitico ci sta privando della possibilità di orientarci. Se la politica finanziaria connessa all’attuale gestione dell’euro diventa "Auschwitz". Se ogni approvazione di leggi da parte della maggioranza (spesso davvero ingiuste e intrise di conflitti d’interessi) diventa "colpo di stato". Se la reale tendenza al progressivo concentrarsi del potere in ristrette oligarchie diventa "ritorno al fascismo", ebbene la specificità e il peso di ogni fenomeno scompaiono ed orientarsi in «"una notte in cui tutte la vacche sono nere" è impresa assai difficile.
In un articolo apparso su questo giornale qualche giorno fa (15 aprile,Berlusconi-Napolitano «gli esiti criminali della politica separata») ho usato anch’io tinte molto forti. Si tratta, però, e credo che questa affermazione possa reggere l’onere della prova, di un linguaggio con alto grado di mimesi nei confronti della realtà. Il problema è che il fenomeno al centro di quello scritto, se analizzato davvero, è in grado di produrre disvelamenti, tanto sull’oggi che su un itinerario storico ventennale, che i facitori di opinione sembrano impossibilitati a sopportare. Meglio la rimozione.
Luigi Pintor diceva che dopo mezzogiorno con il quotidiano si potevano incartare le patate. Visto con quanta facilità si dimentica, mi si scuserà se faccio riferimento all’articolo citato. I dati di fatto non sono controvertibili. Dall’insieme delle sentenze relative a Berlusconi, Previti, Dell’Utri (su quest’ultimo si attende ancora quella definitiva della Cassazione che, come ricordiamo, non è giudice di merito) emerge un quadro criminale impressionante.
Il centro del quadro è rappresentato da un enorme e ramificato sistema corruttivo espanso in tutte le possibili varianti. Il sistema corruttivo è necessità funzionale come uscita di sicurezza per una molteplicità di comportamenti delinquenziali. La politica è una delle varianti più importanti tanto come uscita di sicurezza che come luogo privilegiato del circuito potere-denaro.
La triade suddetta è stata il fulcro, il soggetto agente della costruzione di un soggetto politico che per lunghi anni ha esercitato il potere ad ogni livello della vita pubblica. Ancora oggi il soggetto creato vent’anni fa è tutt’altro che marginale e le sue prospettive non sono necessariamente perdenti.
Naturalmente sarebbe una sciocchezza pensare che il successo di quella forza politica sia derivato da una logica criminale, ma quella logica, tenuto conto del ruolo centrale della triade, ha informato di sé aspetti importantissimi delle pratiche di governo. Inoltre è stato punto di riferimento legittimante di analoghe pratiche locali: il paradigma Cosentino si comprende meglio nell’ambito di tale insieme strutturale.
Per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana i gangli fondamentali della vita politica si trovano ad essere intrinsecamente legati a una operazione criminale. Di fronte a tutto ciò ci troviamo a vivere in una situazione di "normalità mostruosa", come potremmo definirla con un ossimoro. Mostruosa: sia come fenomeno straordinario, che suscita stupore, sia come fenomeno orribile. Normalità: in quanto lo svolgimento della vita politica non è assolutamente toccato dalla mostruosità.
Si pensi solo alla leggerezza con cui autorevoli editorialisti di autorevoli quotidiani hanno trattato questo enorme peso che grava su tutta la nostra vita etico-civile. Commentando la sentenza che ha fissato la pena (si fa per dire) rieducativa per il delinquente, ci viene data l’immagine di un uomo "dolorante dietro l’eterno sorriso (...) un uomo che merita rispetto", un uomo i cui errori sono quelli di non aver fatto le riforme promesse, un uomo che però ha definitivamente superato una "guerra giudiziaria" finita da tempo (Massimo Franco, Corriere della sera, 16 aprile).
E anche dal fronte pervicacemente antiberlusconiano (la Repubblica), dopo aver messo giustamente in rilievo lo "status particolare" che spiega l’agibilità politica concessa al delinquente, non si fa una piega di fronte alla "necessità" di farne un padre della patria, visto che Renzi avrebbe avuto una via "quasi obbligata" (Massimo Giannini, 16 aprile).
L’espressione "non ci sono alternative", non casualmente una delle preferite da Margaret Thatcher per giustificare la durissima repressione sociale, è, in genere, causa delle maggiori nefandezze. Nel nostro caso non si tratta di "necessità» bensì di una conclamata «sintonia» per una prospettiva di bipartitismo forzoso su cui Renzi e Berlusconi giocano il futuro delle loro fortune politiche.
Ma la questione centrale su cui gli autorevoli opinionisti svolazzano entrambi, l’uno auspicando il superamento definitivo di «una guerra finita da tempo», l’altro facendo appello allo stato di necessità, è la compatibilità del quadro che esce dalle sentenze Berlusconi, Dell’Utri, Previti, con qualsiasi ruolo di rilevanza politica, figuriamoci con quello di «padre della patria». In realtà, su questo, la guerra non c’è mai stata.
Il dilemma, in fondo, è piuttosto semplice: le sentenze dicono il vero o sono il frutto della falsificazione di una magistratura politicizzata? La seconda ipotesi è sostenuta, con forza, non solo dai condannati, ma da aree politiche e d’opinione relativamente ampie. Gli autorevoli devono dirci se la condividono o meno. Penso di sì, perché è l’unica ipotesi in perfetta coerenza con i loro svolazzamenti. Diranno che Berlusconi ha i voti e il loro è semplicemente realismo politico. Non di realismo si tratta, invece, ma dell’accettazione, della condivisione di quello stato di necrosi che caratterizza il tessuto connettivo civile in Italia.
Ovviamente è del tutto inutile chiedere ai molti «autorevoli» di uscire dal recinto in cui stanno comodi e protetti, ma forse non è inutile chiedere a chi sta fuori il recinto, in vari e articolati modi, di assumere il quadro che emerge dalle sentenze come uno dei problemi essenziali delle iniziative politiche in corso.
Il berlusconismo non è il fascismo, certo, ma il solo modo di uscirne davvero è quello della cesura netta, sia pure in forme diverse, con la quale l’Italia è uscita dal fascismo. Sappiamo bene che nemmeno le cesure sono in grado di tagliare davvero la vischiosità profonda dei processi storici, pur tuttavia sono i soli momenti che possono segnare una, seppur parziale, discontinuità radicale.
I compagni, i professoroni, i professori qualsiasi (come chi scrive), devono prendere coscienza che anche questa via d’uscita dal berlusconismo, e da tutti gli affinismi col berlusconismo, è una «via maestra». La battaglia difficile per l’affermazione della lista L’altra Europa con Tsipras non può ignorare il problema. L’Italia deve presentarsi in Europa anche con una forza che rappresenti davvero l’antitesi a un volto del paese sfigurato dal morbo criminal-politico. Frutto di quella «passata di peste» che Paolo Volponi, profeticamente, aveva visto sopraggiungere più di vent’anni fa.
L’altra memoria
Il 24 marzo 1944 la strage nazista a Roma. Oggi la studiosa Adachiara Zevi svela come il mausoleo che la ricorda cambia il nostro sguardo sulla storia
Fosse Ardeatine, l’anti-monumento oltre la retorica
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 24.03.2014)
Siamo abituati a conoscerle come il luogo in cui molte storie finiscono. In realtà dalle Fosse Ardeatine riparte un’altra storia, che è un modo nuovo di vivere la memoria. Se è ormai sedimentato l’accadimento storico - trecentotrentacinque persone ammazzate dai nazifascisti per rappresaglia, il 24 marzo di settant’anni fa - è meno conosciuto il ruolo dirompente esercitato dal mausoleo che lo ricorda. Una svolta radicale nello sguardo sulla storia.
«I suoi meriti sono spesso ignorati», racconta Adachiara Zevi, storica dell’arte che ha a lungo lavorato sul rapporto tra architettura e memoria. Le Fosse Ardeatine occupano i primi capitoli del suo nuovo libro Monumenti per difetto, un’appassionante galleria di “antimonumenti” giocati più sull’afasia che sulla ridondanza (Donzelli, pagg. 226, euro 21).
«Per la prima volta il mausoleo romano propone non un oggetto da contemplare, ma un percorso da attraversare per rivivere anche emotivamente l’esperienza delle vittime ». Un’idea che nel lungo dopoguerra avrebbe fatto scuola, ripresa a Gerusalemme dal museo Yad Vashem e a Berlino dal memoriale di Peter Eisenman. Fino al museo diffuso delle “pietre d’inciampo”, piccoli sampietrini disseminati per le strade d’Europa che - ricordandone il nome e il destino tragico - restituiscono dignità a dieci milioni di deportati.
Questo capovolgimento architettonico cominciò nella Roma appena liberata dai tedeschi. Come tutte le piccole rivoluzioni, fu accompagnata da aspre contese che divisero architetti, artisti e famiglie di estrazione sociale molto diversa. Nel luglio del 1944 - appena quattro mesi dopo la strage e un mese dopo la liberazione di Roma - il Governo decise di dare degna sepoltura alle vittime in una forma monumentale che sarebbe dovuta diventare il simbolo della lotta al nazifascismo.
Si trattò del primo concorso pubblico dell’Italia democratica. La gara fu vinta dal progetto più sobrio ed essenziale, firmato da Mario Fiorentino, Giuseppe Perugini e Nello Aprile, che però scontentava le famiglie che avrebbero voluto una soluzione più altisonante. Dopo varie mediazioni, nel novembre del 1947, comincia la costruzione del mausoleo destinato a rovesciare lo sguardo sul passato. La conquista della libertà coincide con la vittoria sulla retorica e sul trionfalismo. «Non si assiste più alla rappresentazione statica della storia», spiega la Zevi, «ma si è costretti a riviverla, diventando testimoni. Meno il monumento parla, più si è lasciati liberi di elaborare una personale memoria».
Nel caso delle Fosse Ardeatine il centro del memoriale è un piazzale vuoto. «Per la prima volta il fulcro di un monumento è un’assenza. Sono le cose intorno che definiscono questo spazio: le cave, il sacrario, la scultura di Coccia con i tre personaggi dalle mani legate». In quel “vuoto”, nel piazzale centrale, furono risucchiati settant’anni fa 335 innocenti. Scaricati dai camion tedeschi che li avevano prelevati a Regina Coeli, in via Tasso e in ogni punto della città. Ebrei, cattolici, atei. Molti militari, ma anche liberi professionisti, studenti, impiegati, artisti, commercianti, agricoltori, artigiani, operai. Anche un sacerdote e un diplomatico.
Anche stranieri. Arrivano da tutti i quartieri di Roma, Trastevere e Montesacro, Torpignattara e Trionfale, Portico di Ottavia e Centocelle, Testaccio e La Storta. Furono presi perché esercitavano un impegno attivo nella resistenza o perché ebrei o per essersi trovati per caso nel luogo sbagliato. Il giorno prima un gruppo di partigiani aveva lanciato una bomba contro una colonna tedesca di poliziotti in via Rasella: trentadue persero la vita. La rappresaglia nazista fu immediata: dieci fucilazioni per ogni tedesco ammazzato.
«L’unica strage metropolitana avvenuta in Europa», la definisce Alessandro Portelli, che ha scritto sull’eccidio pagine fondamentali. «Non solo l’unica perpetrata dentro uno spazio urbano, ma l’unica che nella eterogeneità delle vittime riassuma tutta la complessa stratificazione di storie di una grande città».
Dal piazzale centrale del mausoleo si possono seguire le vittime dentro le cave di pozzolana, nel punto esatto dove furono sterminate. Un cancello in bronzo di Mirko delimita il luogo della carneficina. L’ombra della caverna è stemperata da un po’ di luce che filtra dall’alto: sono i crateri aperti dalle bombe fatte esplodere dai tedeschi perché i cadaveri non fossero mai ritrovati.
All’uscita dalle cave si può imboccare la strada del sacrario: 335 sepolcri in granito monzonite alleggerito dalla lama di luce che cade dalla fenditura in alto sulla parete. «Una soluzione che sembra anticipare le finestre di luce colorata progettate negli anni Settanta sulla costa californiana da Maria Nordman, Robert Irwin e James Turrell». Anche questa un’idea architettonica che lascerà una traccia nei memoriali successivi.
Così come sarà ripresa la mescolanza di codici espressivi distanti, «tra il carattere realistico della scultura di Coccia, l’astrazione geometrica del progetto di Perugini e Fiorentino e la contorsione espressionista di Mirko», allora contestata da alcune famiglie ma difesa da Argan e Venturi. «Il mausoleo », dice la Zevi, «evoca una sorta di palcoscenico dove sono esposti linguaggi artistici e architettonici nel punto in cui l’oscuranti-smo fascista li aveva interrotti». Ed è grazie all’arte, scrive Lewis Mumford, che «da vittime transitorie » i morti diventano «vincitori permanenti».
C’è meno armonia nella memoria dell’evento, che nonostante le ricerche storiche di Portelli rimane ancora divisa. Un nuovo senso comune, alimentato soprattutto negli anni Novanta nel segno dell’“anti antifascismo”, ha caricato di responsabilità gli artefici dell’attentato di via Rasella: la loro colpa sarebbe quella di non essersi costituiti. In realtà i documenti mostrano come da parte tedesca non ci fu nessuna richiesta di costituirsi per evitare la rappresaglia, che fu decisa immediatamente da Hitler. E nonostante ben tre sentenze assolvano mandanti ed esecutori di via Rasella, c’è ancora chi sporca la memoria partigiana.
Non c’è eco di queste divisioni nel memoriale delle Ardeatine, che anche oggi ospiterà la cerimonia ufficiale con il presidente della Repubblica. Ma un rito non meno importante avverrà nel pomeriggio in via Urbana, nel quartiere Monti, dove sarà rimessa a posto la pietra d’inciampo dedicata a don Pappagallo, il prete interpretato da Fabrizi in Roma Città aperta, una delle vittime delle Ardeatine. Tredici di loro hanno avuto il loro sampietrino, realizzato dall’artista tedesco Gunter Demnig.
L’idea è che nella storia si deva inciampare, soprattutto emotivamente. Qualcuno non gradisce, e la pietra di don Pappagallo è stata divelta per due volte. Oggi il sacerdote riavrà il suo Stolperstein, la sua pietra d’inciampo. Perché il verbo stolpern in tedesco significa inciampare ma anche ricordare.
La recita di un codardo che merita solo l’oblio
di Stefano Jesurum (Corriere della Sera, 18 ottobre 2013)
E adesso anche il video-testamento. Diciamolo: tutto ciò che è accaduto dopo la morte di Erich Priebke e intorno a quella salma è l’ultimo obbrobrio compiuto dal boia delle Fosse Ardeatine e dai suoi compari, a cominciare da Paolo Giachini. Un «avvocato», Giachini, che nella registrazione del centenario ergastolano e nostalgicamente intitolata Vae victis, Guai ai vinti, presenta il capitano delle SS secondo i più triti canoni del negazionismo come un soldato tedesco di stanza a Roma «con compiti di antiterrorismo e lotta alla guerriglia». L’intero copione è stato preparato con puntiglioso rigore e con la collaborazione del moribondo.
Ogni passaggio della macabra pagliacciata ricorda troppo la «banalità del male» che i grandi processi della Storia ci hanno insegnato. Per questo ho orrore per Priebke e per i suoi compari. Perché hanno fatto vincere ancora una volta l’odio, risvegliandolo. Quel carro funebre preso a calci dalla disperazione della Memoria, quelle braccia alzate nel saluto romano, il pianto dei sopravvissuti chiamati ancora una volta a ricordare, le domande dei nostri figli, dei nostri nipoti. Il sale di nuovo versato sulle ferite di chi, come noi, ha avuto pezzi di famiglia passati per i camini; di chi, come molti, ha avuto un parente o un amico torturato e ucciso perché antifascista; di chi ha ascoltato la sera i racconti su quel prete buono fucilato insieme ai suoi parrocchiani.
Le immagini e le parole del video-testamento sono le immagini e le parole di un vigliacco che accusa della strage delle Fosse Ardeatine i gappisti dell’attentato a via Rasella e i superiori che hanno impartito gli ordini. Non una volta che si sia preso le proprie responsabilità. Dice Giachini che Priebke si sarebbe pentito. Ad ascoltarlo non sembra proprio. E comunque non ci interessa. Il «pentimento» sarebbe servito a lui e alla sua coscienza, non alle persone che non torneranno a noi. Che scompaia nell’oblio.
Guardo il video e sento l’urlo muto di Primo Levi: «Meditate che questo è stato: vi comando queste parole. Scolpitele nel vostro cuore stando in casa andando per via, coricandovi, alzandovi. Ripetetele ai vostri figli. O vi si sfaccia la casa, la malattia vi impedisca, i vostri nati torcano il viso da voi»
Morto Priebke, negò l’Olocausto fino alla fine
Il boia delle Fosse Ardeatine è deceduto a Roma all’età di 100 anni
Il suo testamento: «Le camere a gas non c’erano, solo cucine. Le prove furono inventate dagli americani»
L’Anpi: «Assassino mai pentito»
di Gigi Marcucci (l’Unità 12.10.2013)
«Io ho conosciuto personalmente i lager. L’ultima volta sono stato a Mauthausen nel maggio del 1944 a interrogare il figlio di Badoglio, Mario, per ordine di Himmler. Ho girato quel campo in lungo e in largo per due giorni. C’erano immense cucine in funzione per gli internati e all’interno anche un bordello per le loro esigenze. Niente camere a gas». Nazista fino all’ultima intervista, e probabilmente fino all’ultimo dei suoi respiri. Convinto, nonostante documenti e qualche milione di testimonianze, che la verità e Dio militassero sullo stesso versante della barricata che nel lontano 1933 lo aveva visto schierarsi con Hitler e, pochi anni dopo, indossare la divisa delle Ss.
Erich Priebke, l’uomo agli ordini di Herbert Kappler che coordinò personalmente il massacro delle 335 vittime delle Fosse Ardeatine, è morto ieri a mezzogiorno nella sua abitazione romana, dopo aver doppiato la boa dei 100 anni. Immediato e laconico il commento del centro direttore del centro Wiesenthal, Efraim Zuroff: «L’età avanzata raggiunta da Priebke ci ricorda quanto sia importante perseguire i criminali nazisti ancora in vita. Molti di essi godono anche avanti negli anni di una salute robusta, per questo è giusto condurli davanti ad un tribunale».
«Per gli strani appuntamenti che la storia combina sottolinea Emanuele Fiano la morte di Priebke cade a poche ore dal settantesimo anniversario della deportazione degli ebrei dal ghetto di Roma», ricorda Emanuele Fiano. «Furono i colleghi di Priebke a strappare al ghetto 1023 ebrei romani per deportarli ad Auschwitz ricorda . Solo 16 di loro sopravvissero».
Lo “svizzero” rifugiatosi per molti anni in Argentina, a Bariloche, grazie alla complicità di alcuni sacerdoti in contatto con Odessa, la rete che permise a molti criminali nazisti di sottrarsi a processi e punizioni, è morto nel suo salotto. Consunzione dovuta all’età, hanno attestato i medici. «È stato trovato sul divano», dice il suo avvocato Paolo Giachini. «Io l’avevo sentito in mattinata. La sua morte non sembrava così imminente, ma in due o tre giorni ha avuto un crollo, quasi improvviso. Si è spento di vecchiaia ed è stato lucido fino alla fine», dice il legale, che parla di «dignità» del suo assistito, «nonostante la persecuzione subita».
Persecuzione che evidentemente non ha impedito all’ex capitano delle Ss di affermare, in una sorta di videotestamento, che lOlocausto è il prodotto di «una sottocultura storica appositamente creata e divulgata da televisione e cinematografia», che «si sono manipolate le coscienze lavorando sulle emozioni», che «le nuove generazioni, a cominciare dalla scuola, sono state sottoposte al lavaggio del cervello, ossessionate con storie macabre per assoggettarne la libertà di giudizio». Se il perseguitato «avesse mostrato segni di pentimento, avrebbe ottenuto le attenuanti generiche. Me lo disse il gup del tribunale militare», ha rivelato ieri l’avvocato Paola Severino, che, all’epoca del processo per il massacro delle Fosse Ardeatine, rappresentava come legale di parte civile l’Unione delle Comunità Ebraiche.
«Nelle fasi successive del processo spiega l’ex ministro della Giustizia si è poi potuta constatare questa volontà di Priebke di non pentirsi». «Non potrò mai dimenticare conclude Paola Severino la voce di quei familiari ancora rotta dal pianto quando parlavano delle torture cui erano stati sottoposti i loro parenti in via Tasso o di come le Ss li avevano caricati sui camion per portarli alle Fosse Ardeatine».
Priebke era nato a Hennigsdorf il 29 luglio 1913. Al partito nazionalsocialista aderì quando aveva 20 anni.Finita la guerra fuggì da un campo di prigionia vicino a Rimini e si rifugiò in Argentina. Fu estradato in Italia nel 1995 e al termine di un lungo processo. Nel 1998, fu condannato all’ergastolo, ma vista l’età avanzata aveva già 85 anni fu mandato ai domiciliari. Nel 2009 ha ottenuto il permesso di lasciare la sua casa «per fare la spesa, andare a messa, in farmacia» e affrontare «indispensabili esigenze di vita».
Recentemente abitava in una strada tra via Boccea e via Aurelia. «Aveva il ghiaccio negli occhi dice Lucia che abita nel palazzo di fronte a quello in cui è morto Priebke quando andava a passeggio era altero. Quando lo incontravo provavo disagio e fastidio».
Forse quello sguardo gelido l’avevano incrociato molti prigionieri dei fascisti repubblichni quando Priebke lavorò a Brescia, come ufficiale di collegamento con Guardia nazionale repubblicana.
Fu lì che diede un forte impulso alle perquisizioni e alle azioni di rastrellamento, allo scopo di individuare le cellule cittadine di supporto ai partigiani che presidiavano le montagne bresciane. Centinaia di arrestati, appartenenti alla resistenza o semplici sospetti, furono catturati e rinchiusi nella prigione di Canton Mombello, per poi essere condotti nel quartier generale delle Ss, dove Priebke svolgeva, spesso personalmente, gli interrogatori. Una palazzina in stile liberty , lontana da orecchie e sguardi indiscreti.
Esteban Buch. Storico e musicologo intervistò il nazista nel 1989
Nel libro uscito nel 1991 la rivelazione che il criminale di guerra viveva a Bariloche in Argentina
«Sicuro dell’impunità mi raccontò l’eccidio»
intervista di Jolanda Bufalini (l’Unità 12.10.2013)
ROMA Esteban Buch è a Roma per la messa in scena, ieri sera al Palladium nell’ambito di Romaeuropa Festival, di «Aliados» con il musicista Sebastian Rivas. «Aliados» è un opera di teatro musicale e politico contemporaneo. Gli alleati del titolo altri non sono che il generale August Pinochet e Margaret Thatcher.
Esteban Buch continua il lavoro avviato con il libro «Il pittore della Svizzera argentina», nel quale, intervistato, compare Erich Priebke. È da quelle pagine che ha inizio la lunga storia che portò alla estradizione e alla condanna del criminale nazista. Quelle pagine furono, infatti, la fonte della serie televisiva della statunitense Abc «I nazisti di Bariloche» che nel 1994 suscitarono l’indignazione dell’opinione pubblica italiana. Ha sentito? Erich Priebke è morto proprio oggi, a 100 anni. Che impressione le fa?
«Sono abbastanza sconvolto, ho appena appreso la notizia, penso alla atrocità delle Fosse Ardeatine e, anche, che un po’ di giustizia è stata fatta».
Come conobbe Priebke?
«Lo conobbi nel 1989 a Bariloche. Non soltanto era libero ma si sentiva molto sicuro, lo intervistai e lui raccontò spontaneamente la vicenda delle Fosse Ardeatine. Il libro è uscito nel 1991, il resto lo sapete, l’apertura dell’inchiesta, l’estradizione».
Non aveva la percezione che rivelare quella atrocità sarebbe stato pericoloso per lui?
«Viveva ormai in una logica da pensionato e, anche, come esponente della comunità tedesca di Bariloche, era convinto di godere di una sorta di impunità». Come nacque il libro “il pittore della Svizzera argentina”?
«Erich Priebke non è il protagonista del libro, che è un altro nazista. Un collaborazionista di origine belga, anche lui rifugiato a Bariloche. Si chiamava Antoon Maes e faceva il pittore. Bariloche è una città del sud dell’Argentina che viene paragonata alla Svizzera. Mi interessava mettere in luce cosa ci fosse dietro questa immagine da cartolina. Lo scopo del libro era chiedere come fosse possibile che questi personaggi vivessero indisturbati lì da 40 anni».
Lei è uno storico e anche un musicologo, uno studioso d’arte. Come si è creato il legame fra queste sue specializzazioni e la «caccia» ai nazisti?
«Mi interessava Bariloche e questa comunità tedesca nella quale vivevano alcuni nazisti. Quando si decise l’estradizione a Bariloche Priebke ebbe molte solidarietà. Mi interessava su un piano personale, civile. Antoon Maes era pittore e, così, nacque il soggetto che mi consentiva una riflessione fra arte e nazismo».
C’è un nesso fra questo suo impegno e la situazione dell’Argentina di allora?
«Senza alcun dubbio, sentivo la vicinanza fra la vicenda dei rifugiati nazisti, la dittatura argentina e il sentimento di impunità che nutrivano i militari argentini».
Ha affrontato lo stesso argomento con “Aliados”?
«Assolutamente, la storia del rapporto fra Pinochet e Margaret Thatcher è un altro capitolo della stessa ricerca sulla memoria dei crimini e la giustizia».
Incontrato in carcere
Un severo robot del Male nazista
di Furio Colombo (il Fatto, 12.10.2013)
Ho incontrato Erich Priebke in una cella spaziosa e appena imbiancata di Regina Coeli. Quattro brandine, ma lui era solo, dalla parte in cui arrivava una striscia di luce. Era in maglietta bianca, pantaloni da camminata in montagna, un militare che si è appena tolto la divisa. Si è alzato, forte, sano, molto alto. Sarebbe stato strano stringergli la mano e lui non ha fatto il gesto. Ha aspettato, senza l’ombra dell’impaccio o della timidezza, le braccia lungo il corpo, in attesa. Il mio compito di parlamentare in visita era di accertare le condizioni fisiche, le modalità di detenzione,il trattamento .
Lui non era il tipo che si offre di parlare e io a lui non avevo niente da chiedere. Ho sentito, dallo scambio di battute tra l’ufficiale e il direttore del carcere entrato in cella con me, che il suo italiano - sia pure in tre o quattro parole - era buono. C’erano libri, due, sullo sgabello di legno accanto al letto, con le copertine foderate con cura di carta a fiori, c’era acqua in un bicchiere di plastica e niente altro, salvo indumenti piegati con cura sulla brandina più lontana. Qualche minuto di silenzio, e il direttore ha preso l’iniziativa di guidarmi a uscire. C’è stato un saluto a voce. Il suo “buonasera” quasi non accentato. La porta è stata chiusa, senza rumore. E allora mi sono accorto che il rumore che non finisce mai, neppure nel cuore della notte, nella macchina carceri, qui non si sentiva. C’era l’impressione di una pausa, non di una fermata per sempre.
C’era un’immagine di sicurezza che gli veniva, ripenso adesso, dal vedere tutto e sempre da un lato solo della realtà, un lato che non cambia mai. Sicurezza non è la parola. Piuttosto decoro, nel senso di una scuola o accademia militare, dove l’ordine di ogni cosa, dalla posizione del corpo alla ripiegatura delle coperte, è il valore più alto.
Eppure non è il sapere chi è e che cosa ha fatto che ti dice di più di questo prigioniero speciale, responsabile di un frammento atroce di guerra, condotto nome per nome, persona per persona, scrivendo, includendo, lavorando a rifinire le liste, fino al momento, preciso e ordinato, di cominciare a sparare uccidendo a grappoli, uccidendo a raffica, non è da questa tremenda e incancellabile sequenza che capisci meglio la storia (la sua e la nostra). È lui, la persona, avvolta nella grandezza del suo delitto, dalla precisione impeccabile con cui ha svolto il mandato, la figura che ingombra la scena. Occupa molto spazio e questo ingombro va decifrato.
Qualunque cosa abbia mostrato o detto nel video e nel testo che ha lasciato per i suoi posteri o discendenti che aspettavano da lui una parola, Erich Priebke dimostra, contro la persuasione di Hannah Arendt (formata su Eichman e la sua vita impiegatizia al servizio dello sterminio) che il male non è banale. È intenzionale, intensamente partecipato, è vissuto come lo scopo stesso della propria esistenza, è la certezza della propria identità e della propria vita nel momento in cui diventa missione. Quella missione non avrà esitazioni, tentennamenti, non avrà mai un solo secondo pensiero. Di qui l’orgoglio, che è una sorta di compiaciuta superbia. “Fo ss e Ardeatine? Io l’ho fatto. Io, il capitano Priebke”.
In questa esplorazione che adesso tento di fare sul reperto di memoria che mi resta, come entra l’identificazione di Erich Priebke, che istintivamente si presenta come ufficiale e gentiluomo, con la rozza e potente macchina nazista della morte, che non è la guerra, ma è un progetto a parte, fondato su un prolungamento dell’esercizio estremo del potere su ogni essere umano?
Teniamo presente il nodo della tremenda vita italiana e romana della stagione di Priebke: l’ossessione razzista che considera la guerra agli ebrei e agli oppositori più importante di quella su cui si gioca la vita e la morte della Germania. Quegli ufficiali gentiluomini che, si suppone, si toglievano i guanti di pelle solo alla mensa, e a ogni incontro scattavano nel saluto del braccio teso e dei tacchi (non mi riferisco ai film ma alla memoria) hanno rubato oro agli ebrei di Roma, fingendo e mentendo in una sorta di farsa anche più spregevole delle due tragedie romane: la razzia del 16 ottobre 1943 (la deportazione di 1017 ebrei romani di tutte le età, compresi i neonati e i morenti) , e le Fosse Ardeatine del 24 marzo 1944. il capolavoro - delitto per delitto - del capitano Priebke. L’orgoglio di quella missione compiuta non lo aveva mai abbandonato. Priebke era un soldato clonato - sentimenti e onore compresi - dalla intensa produzione di assassini dell’officina nazista. Nel suo caso, la produzione perfetta, del tutto priva di pensieri e ripensamenti, è durata a lungo. E noi sappiamo che lascia brutti segni e tragici eredi.
Non dimenticare le stragi naziste
di Carlo Smuraglia (Corriere della Sera, 02.07.2013)
Presidente nazionale dell’Anpi
Caro direttore,
la vicenda delle stragi nazifasciste del 1943-45, che riguarda circa 15.000 vittime, è spesso oggetto di trattazioni prive di completezza d’informazione. Finora non c’è stata una vera assunzione di responsabilità da parte del Governo italiano circa la vicenda dei fascicoli «occultati», che tanto danno hanno provocato, ai fini delle indagini. È vero, anche, che dal 2006, quando cioè ha terminato i suoi lavori (ed è finita la legislatura) la Commissione di inchiesta parlamentare, istituita proprio per scoprire le cause del mancato utilizzo e dell’occultamento di quasi mille fascicoli, non si è riuscito a ottenere che il Parlamento discutesse sulle relazioni conclusive della Commissione stessa. Mi permetto però di segnalare alcune iniziative che costituiscono a mio parere dei significativi passi in avanti per mantenere viva l’attenzione su questi tragici fatti e per ottenere finalmente verità e giustizia.
Un libro recente di Buzzelli, De Paolis, Speranzoni, La ricostruzione giudiziale dei crimini nazifascisti in Italia (ed. Giappichelli - 2012), non solo contiene una completa ed esauriente ricostruzione dei fatti e delle vicende connesse alle stragi suddette, ma riporta, alla fine, un’ampia bibliografia di ben tredici pagine.
E tra breve, uscirà, per le edizioni Carocci, un volumetto curato dall’Anpi (Associazione nazionale partigiani d’Italia) intitolato: Le stragi nazifasciste del 1943-1945 tra memoria, responsabilità e riparazione, che prende spunto dal Convegno che l’Associazione ha tenuto, in una sala del Senato, il 29 gennaio 2013, con relatori illustri, foltissimo pubblico e particolare attenzione, anche della stampa.
L’Anpi (che Franco Giustolisi continua a ritenere parte di una presunta «congiura del silenzio») ha avviato una petizione popolare per chiedere, appunto, che si discuta finalmente la vicenda in Parlamento e ha svolto la sua Festa nazionale, a Marzabotto, nel giugno 2012, dedicandola a tutte le vittime delle stragi e tenendo, in quella sede, un forum sul tema, molto partecipato da studiosi ed esperti e anche da rappresentanti di Associazioni delle vittime delle stragi.
Per non parlare dei ripetuti e molteplici incontri che si sono svolti al ministero degli Esteri, con diverse Associazioni e con l’Anpi in prima persona, per discutere sul come ottenere giustizia, risarcimenti, riparazioni. In una di queste riunioni, recentissima, erano presenti anche rappresentanti della Germania; e con loro e con i dirigenti italiani si è discusso di un progetto dell’Anpi stessa e del Insmli (Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia) per la redazione di un completo Atlante delle stragi, di cui si chiede alla Germania il finanziamento. Il sottoscritto ha quindi consegnato al ministero degli Esteri, così formalizzandola, una serie di richieste da far valere presso il corrispondente ministero tedesco, tra cui anche l’esecuzione, in Germania, delle sentenze italiane.
L’Anpi, inoltre, ha contribuito alla presentazione di un ampio documento, sottoscritto da un intero gruppo parlamentare, su tutta la vicenda, per ottenere che si discutesse in Aula, si accertassero finalmente le responsabilità e si contribuisse anche a «riparare», ove possibile. Purtroppo quell’interpellanza è decaduta per fine legislatura e ora se ne sta predisponendo un’altra, cercando di raccogliere molte firme e di esercitare una seria pressione perché finalmente si discuta tutto a viso aperto.
Certo, ci sono ancora molti vuoti, quello del dibattito parlamentare mancato, quello di una chiara assunzione di responsabilità «italiana» per la vicenda dei fascicoli occultati, quello dei ministeri competenti che non si sono adoperati perché le sentenze emesse dai Tribunali militari italiani fossero eseguite ovunque, e dunque anche in Germania, quello di coloro che (penso al Tribunale di Stoccarda che archivia vicende per le quali, in Italia, sono stati irrogati otto ergastoli, con sentenze definitive) preferiscono rimuovere una pagina storica veramente terribile.
Sono vuoti che stiamo cercando di colmare, con fatica e con impegno (non da soli: penso ai commossi interventi, a Marzabotto e a Sant’Anna di Stazzema, dei Presidenti della Repubblica dell’Italia e della Germania), talora cercando accordi conclusivi con la Germania (ricordo la relazione del gruppo di storici italo-tedesco, che è stata presentata nel novembre scorso e che, pur con qualche parte discutibile, rappresenta una fase saliente del cammino che si sta cercando di percorrere).
E da una più ampia informazione, ripeto, non potrà che derivare un vantaggio non solo per il nostro lavoro, ma per l’attesa e l’ansia di verità e giustizia che anima ancora coloro che hanno vissuto, direttamente o indirettamente, gli effetti di questa enorme tragedia.
Il convegno ANPI a Milano
Fascismi e femminicidio, la storia delle donne*
Nel prestigioso Palazzo Marino a Milano col Patrocinio del Comune si tiene oggi un convegno dell’Anpi Nazionale, organizzato dal Coordinamento donne, dalle 10 alle 17 e 30 (sala Alessi). Il tema: «La violenza e il coraggio - donne, fascismo, antifascismo, Resistenza, ieri e oggi».
Non si intende, semplicemente, “custodire la memoria”. Benché ricordare cos’è stato effettivamente il fascismo per le donne più esattamente contro le donne in questi tempi di riferimenti a quel regime come fascismo buono, colpevole solo di qualche errore, sia più che necessario. Come è necessario ribellarsi all’assuefazione per cui disordini nelle scuole e negli stadi, scritte violente su molti muri, violenze contro i diversi, frasi orrende sul web, vengono assorbiti come trascurabili scorie marginali.
Al centro del convegno c’è, soprattutto, l’attualità: si vogliono analizzare le costanti di una cultura che, pure avendo compiuto grandi passi avanti, soprattutto nelle leggi, resiste nelle pieghe della società. Dove persiste un’idea della donna che, dopo tutto, se non trova un lavoro, un lavoro comunque ce l’ha ed è la maternità e dunque poco o niente si fa per favorire l’assunzione di responsabilità nel lavoro e nel sociale. Un’idea della donna come proprietà, che giunge persino al femminicidio.
Come denunciare e combattere questa vecchia cultura che fa dell’Italia uno dei Paesi più arretrati e non solo d’Europa, è il tema del convegno. Partecipano: Monica Minnozzi, Lidia Menapace, Carlo Smuraglia (tutti Anpi). Le relazioni sono delle storiche Simona Lunadei e Dianella Gagliani, Docente di Storia Contemporanea, e di Raffaele Mantegazza (pedagogia Interculturale). Conclude Marisa Ombra, Vice Presidente Nazionale Anpi.
* l’Unità 16.03.2013
Domani l’iniziativa ANPI
«No al fascismo in cento piazze diverse»
Domani giornata antifascista in tutta Italia. Con una petizione l’Anpi chiederà al presidente del Senato giustizia sulle stragi naziste
di Carlo Smuraglia (l’Unità, 17.11.2012)
In Italia, quelli che apparivano semplici rigurgiti di nostalgismo fascista, si stanno manifestando con rinnovato impegno, con rinnovata ampiezza e con crescente diffusione. Si aprono nuove sedi di movimenti neofascisti, si assumono iniziative, spesso ardite, da parte di Forza Nuova, di «Fiamma Tricolore», di «Casa Pound», con un vero e proprio crescendo e spesso con la protezione e l’incoraggiamento anche da parte di pubblici amministratori.
Aumenta la violenza delle manifestazioni, anche da parte di coloro che storicamente risorgono in occasione delle crisi cercando di approfittarne e finiscono sempre per porre in essere vere e proprie spinte verso destra, i cui sbocchi sotto il profilo storico sono sempre stati nefasti. Si aggiungono anche i tentativi di collegamento, addirittura a livello europeo, di cui è inequivocabile dimostrazione la recente manifestazione dell’Mse a Roma. In questa situazione complessiva, la linea di difesa di coloro che credono nei valori della democrazia e dell’antifascismo è ancora troppo debole e spesso incerta tra la reazione immediata e la riflessione più ampia e il tentativo di coinvolgere nella resistenza e nel contrattacco, molti cittadini e le stesse istituzioni.
Colpisce il fatto che l’esposizione di simboli fascisti e le manifestazioni aperte di fascismo (vedi le vergognose esibizioni durante il funerale di Pino Rauti) e nazismo lascino indifferente tanta parte dei cittadini, che non ne considera la gravità e la pericolosità, e trovino un clima troppo tiepido anche nelle istituzioni che dovrebbero garantire il rispetto della Costituzione. Istituzioni che, al più, possono prendere in considerazione il problema sotto il profilo dell’ordine pubblico, senza avvedersi che il problema è molto più serio e coinvolge princìpi e tematiche riferibili ai valori costituzionali.
Tutto questo trova le sue radici nel fatto che il nostro Paese non ha mai fatto seriamente i conti con il proprio passato, non ha mai analizzato e fatto conoscere a fondo il fascismo, ha trascurato non di rado le pagine più belle della nostra storia, come la Liberazione dai tedeschi e dai fascisti, ed infine è stato troppo tiepido di fronte ai continui attacchi di negazionismo e di revisionismo. Si è diffusa la falsa idea di un fascismo «buono» e «mite», contro la verità e la realtà, a fronte dei tremila morti del primo periodo del fascismo, delle leggi razziali, delle persecuzioni di chi non era fascista e della guerra in cui sono stati mandate al massacro decine di migliaia di giovani e si è rovinato e distrutto il Paese.
Revisionismo e negazionismo favoriscono la sottovalutazione dei fenomeni, producono diseducazione e disinformazione, non aiutano la diffusione di un antifascismo di fondo, che dovrebbe essere il connotato comune di tutte le generazioni. Ancora più grave che le stesse istituzioni, mai liberate del tutto dalle incrostazioni fasciste, facciano così poco per trasformarsi in quegli organismi democratici che disegna la Costituzione, con fondamentali disposizioni come l’art. 54 e l’art. 97, ma poi con tutto il quadro dei princìpi che ne costituiscono l’ossatura, il fondamento e la base.
Che dei Comuni possano mostrare aperta simpatia verso i movimenti neofascisti, così come il fatto che troppi prefetti e questori restino inerti (oppure si attestino, come si è detto, sull’ordine pubblico) a fronte di manifestazioni che dovrebbero ripugnare alla coscienza civile di tutti, sono rivelatori di una permeabilità assai pericolosa per istituzioni che per definizione dovrebbero essere democratiche.
Ma c’è di più: un governo che ad una interrogazione parlamentare inerente la vicenda Graziani risponde di non essere competente perché si tratta di un fatto locale (!). E ancora. Noi siamo convinti che gran parte degli appartenenti alle forze dell’ordine sia rispettosa delle norme costituzionali e dei doveri connessi alla loro funzione; ma non possiamo non constatare che ancora troppi sono gli episodi di violenza ingiustificata e arbitraria, da quelli collettivi (vanno ricordati i casi anche recenti vedi lo sciopero del 14 novembre in cui le forze dell’ordine hanno spesso «calcato la mano», anche se continuo a deprecare l’uso della violenza da parte di alcuni manifestanti) a quelli individuali (episodi anche recenti, di cui si è diffusamente occupata la stampa, come i pestaggi di cittadini inermi, gli «anomali» trattamenti riservati ad alcuni arrestati).
Questo dimostra che è ancora insufficiente il livello di democratizzazione e di formazione all’interno di corpi che dovrebbero essere sempre e concretamente impegnati nella difesa della democrazia e della convivenza civile, nel profondo rispetto dei diritti del cittadino.
Insomma, un quadro insoddisfacente e preoccupante, contro il quale occorre reagire non solo episodicamente, ma in modo coordinato e diffuso, che riguardi i cittadini, le associazioni, i partiti, i movimenti, ma si riferisca anche alle istituzioni. Uno studioso ha scritto di recente un libro con un titolo significativo: «Italia: una nazione senza Stato», osservando che se si è ormai costruita l’anima (la Nazione) manca, tuttavia, un «corpo» che a quella corrisponda (cioè una Costituzione non solo fatta di intangibili principi ma applicata concretamente e rispettata, governi duraturi, Parlamento che funziona, leggi comprensibili e ispirate a interessi generali, strutture organizzative efficienti e imparziali, burocrazia non arcigna ma fatta per il cittadino, e così via).
Noi siamo d’accordo, in linea di principio, ma pensiamo che in materia di democrazia e di antifascismo ci sia bisogno di uno slancio salutare e innovativo sia per l’anima che per il corpo; ed a questo vogliamo contribuire con una grande campagna di massa per creare una vera cultura dell’antifascismo e della democrazia, per disperdere ogni vocazione autoritaria e populistica, per ricreare la fiducia reciproca fra cittadini e istituzioni.
Di tutto questo parleremo in più di 100 piazze del Paese domani 18 novembre, Giornata Nazionale del tesseramento all’Anpi. Un momento per noi prezioso e importante per portare ossigeno e forza alla democrazia e all’antifascismo e per confrontarci con i cittadini su temi fondamentali per la stessa convivenza civile, individuando i modi e le vie per uscire da una crisi che non è solo economica ma anche politica e morale.
Antifascimo, l’Anpi in 100 piazze italiane contro i neofascisti: domenica la giornata del tesseramento *
Hanno superato quota 100 le piazze dove l’Anpi incontrerà domenica 18 novembre, e già da sabato 17 in alcune località, le cittadine e i cittadini per una grande giornata di rilancio dell’antifascismo in tutto il Paese e per dire un "no secco e duro al neofascismo che da mesi ormai tenta di fare ’il colpo’ in varie realtà d’Italia con iniziative di becero e volgare revisionismo".
L’Associazione - oltre a lanciare il tesseramento per l’anno 2013 e a realizzare abbonamenti per la nuova serie della sua rivista ufficiale Patria Indipendente - illustrerà nei suoi gazebo il lavoro messo in campo da luglio, quando è stata avviata, il 25, con l’Istituto Alcide Cervi, una campagna di rilancio dell’antifascismo attraverso la presentazione di un documento congiunto, e coglierà l’occasione per far firmare la petizione con cui si chiede al Presidente del Senato di ottenere verità e giustizia sulle stragi nazifasciste in Italia.
A Modena, dove l’iniziativa si svolgerà dalle 9.30 presso la Sala Leonelli della Camera di Commercio in Via Ganaceto 134, è previsto l’intervento del Presidente Nazionale Carlo Smuraglia sul tema "Perché vogliamo parlare di antifascismo oggi".
"Una giornata, dunque, di grande vitalità democratica e civile per consegnare, riconsegnare al Paese le sue radici autentiche: antifascismo, Resistenza, Costituzione", sottolinea l’Anpi.
L’elenco delle piazze dove l’ANPI sarà presente, ulteriori dettagli e materiali sono disponibili sul sito dell’Anpi.
DOBBIAMO VIVERE INSIEME
di Ernesto Balducci (Il Secolo XIX, 26 gennaio 1992) *
Il moltiplicarsi degli episodi di «razzismo» in tutta l’area occidentale (ma bisogna prepararsi: ne avremo presto anche nell’Est europeo, in fase rapida di omologazione) pone uno dei problemi radicali con cui deve confrontarsi ogni progetto politico, da quello di una semplice amministrazione civica a quello della Comunità europea. Non bisogna lasciarsi ingannare dalle simbologie e dalle fraseologie, spesso antisemitiche, che rimandano al razzismo ideologico hitleriano. Niente di strano che gli automatismi del razzismo prebellico continuino a funzionare: essi forniscono l’orizzonte immaginario di maniera a cui ricorre preferibilmente l’incultura. Ma l’impianto della nuova forma di razzismo, che io chiamo «fascismo etnologico», e, a mio giudizio, del tutto diverso.
Esso ha radici nell’ancestrale paura del diverso, e trova le sue ragioni immediate nella difesa della condizione di privilegio minacciata dall’arrivo di nuovi ospiti, gli immigrati dal ,Sud. Essi non sono più gli immigrati di altri tempi, destinati prima o poi all’assimilazione dentro la cultura che li accoglieva. Quando essi arrivano, trovano già uno spazio culturale omogeneo a quello d’origine. Il fatto nuovo è che la società capitalistica, in forza della stessa legge di mercato che ha fatto la sua fortuna, è costretta a ospitare vere e proprie comunità etnicamente aliene dalla sua cultura. [...]
Io sono tra quelli che ritengono inevitabile e, alla fine, provvidenziale un’Europa multietnica, ma mi rendo conto che questa previsione è un lusso da intellettuale, che rischia di mettere a pié pari la drammaticità del processo che la metamorfosi presuppone. E infatti il processo non avviene all’interno di una cultura della solidarietà, come quella che, grazie a Dio, sta crescendo negli ambienti cristiani; avviene dentro una cultura della competizione, giunta al massimo della sua diffusione.
I protagonisti degli atti di neorazzismo sono infatti quasi sempre dei «balordi», che recepiscono e trasmettono a livello istintuale una provocazione che andrebbe mediata da una cultura illuminata. Sono i prodotti tipici della «pedagogia» televisiva, in cui dominano i forti e i bravi; in cui, per dirla tutta (penso agli spot televisivi), il modello d’uomo è un mammifero vorace, dai muscoli efficienti, pronto al successo quale che sia.
Questa ideologia, svuotata di ogni lume di ragione, fa presa con la voglia di affermazione il cui sbocco preferito appunto, l’atto aggressivo contro il diverso. Infatti, se si spoglia l’uomo di ogni struttura culturale resta in lui la paura dell’altro, la percezione che la propria identità e messa in rischio dalla presenza dell’alterità.
Che siano, in molti casi, i poveri, i disoccupati, i sottoproletari, gli emarginati di casa nostra a farsi protagonisti di gesti deplorevoli non deve far meraviglia: sono proprio gli incolti a subire i riflessi di insicurezza causati dalla presenza dei diversi. Con una proiezione elementare essi riversano su chiunque rappresenti la diversità, magari con il colore della pelle, la brutale aggressività con cui scongiurare la paura, capovolgendola nel trionfo. La bravata li solleva subito al rango degli uomini di successo, i veri eroi della cultura dominante.
Detto questo, mi si permetta di definire col massimo della semplicità la questione etico-politica sollevata dalla cronaca del neorazzismo in un momento come questo, in cui l’Europa, a dispetto dei suoi trionfi, soffre di una drammatica assenza di progettazione del proprio futuro. Dato per scontato che la presenza dei gruppi etnici diversi dal nostro si farà più massiccia, si aprono due vie: quella della lenta assimilazione, di modo che in una o due generazioni gli immigrati diventino in tutto come noi, fuori che nel colore della pelle; o quella della convivenza tra gruppi etnicamente e culturalmente diversi.
Come ho detto, io credo che la via giusta - una via che ci porta oltre il mondo moderno, in una postmodernità dal profilo inafferrabile - sia quella della convivenza. Ma se questo è vero, dobbiamo affrettarci a predisporre gli strumenti necessari - a cominciare dalla scuola - perché questo futuro si avveri senza traumi. Sarà anche giusto mettere in prigione i balordi dalla testa rapata, ma quel che occorre è una rapida instaurazione della cultura della diversità. Le culture che si chiudono su di se sono condannate a morire. La nostra non fa eccezione.
* Il neorazzismo di casa nostra
Carissimi,
di fronte alle tristi cronache di eggressione e di pestaggi di cui hanno riferito le cronache locali di questi giorni, penso sia doveroso fermarsi a riflettere e interrogarci.
Per aiutarvi allego un bellissimo articolo di Padre Balducci che fu pubblicato dal giornale Il Secolo XIX nel 1992.
Io l’ho trovato molto profondo ed ATTUALE.
E’ intitolato "Dobbiamo vivere insieme"!
Un abbraccio a tutte e tutti. Aldo [don Antonelli]
L’Anpi: no al presidenzialismo, difendiamo la Carta
di Alessandro Rubenni (l’Unità, 08.06.2012)
«La chiamiamo festa, ma è una iniziativa politica. E per farla abbiamo scelto un luogo che parla da sé, con un concentrato simbolico fortissimo», annuncia il presidente nazionale dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia, Carlo Smuraglia. E di incontri e forum di carattere politico è ricco il programma della terza festa nazionale dell’Anpi, che quest’anno si svolgerà a Marzabotto dal 14 al 17 giugno. In quella terra di memoria dove in una settimana, nel ‘44, furono uccisi più di 700 civili, e dove da giovedì prossimo si attendono migliaia di persone, soprattutto tanti giovani, chiamati a raccolta intorno ai valori dell’antifascismo, della Costituzione e della democrazia.
«La memoria batte nel cuore del futuro» è infatti il titolo scelto come manifesto della festa, e non solo di questa. «Rafforzare la memoria insististe Carlo Smuraglia, che ieri a Roma ha presentato l’appuntamento insieme al sindaco di Marzabotto è un processo di grande attualità. La storia ci ha dimostrato come nelle fasi di crisi il distacco dalla politica possa sfociare nell’autoritarismo. Nei primi del Novecento fu la crisi economica e sociale a portare alle grandi dittature. E quello che sta succedendo oggi in Slovacchia, così come i rigurgiti neonazisti in Grecia, sono un campanello d’allarme».
Un tema, questo, che sarà al centro dell’appuntamento di Marzabotto con le iniziative organizzate per lanciare quella che l’Anpi vuole che diventi una grande campagna politica e culturale di contrasto ai rigurgiti di fascismo che si stanno manifestando anche nel nostro Paese. Questo insieme a una nuova riflessione su legalità e lotta alla mafia, affiancata alla richiesta di verità e giustizia per le vittime delle stragi nazifasciste in Italia. Con gli occhi puntati sull’udienza preliminare che si terrà il prossimo 15 giugno presso il tribunale militare di Roma per la strage di Cefalonia. Ben oltre 60 anni dopo.
«Migliaia di vittime ripete il presidente dell’Anpi non hanno ancora ottenuto giustizia, i procedimenti giudiziari sono stati bloccati dall’occultamento di documenti. Naturalmente è difficile pensare ormai che i risarcimenti possano essere individuali, ma noi continuiamo a chiediere giustizia e vorremmo che fossero utilizzati per progetti utili alla comunità, per corsi di formazione».
Ma la prossima quattro giorni (il programma è consultabile su www. festa.anpi.it) sarà anche l’occasione per parlare dei temi più attuali di politica interna. «Ultimamente in Parlamento c’è chi vuole il presidenzialismo e lo vuole far passare senza che nel Paese se ne parli o ci sia una vera discussione. A parte il fatto che in questo modo si sconvolgerebbe il nostro sistema, senza sapere bene come modificare i contrappesi costituzionali, ho l’impressione che più che altro questo sia un modo per non occuparsi della riforma elettorale. Noi non sentiamo l’esigenza del presidenzialismo, difendiamo l’architettura costruita attraverso la nostra Costituzione. Piuttosto occorre lavorare per cambiare il Porcellum», rilancia Smuraglia, che poi torna sulla data del 2 giugno e le polemiche annesse: «Parlamentari del Pdl propongono di accorpare la festività a quella del 25 aprile, ma è dimostrato come sia un luogo comune, usato in modo strumentale, dire che questo sarebbe utile all’economia. Mentre si tratta di festività sempre più sentite dalla gente».
Il sindaco di Marzabotto Romano Franchi, intanto, si prepara ad accogliere, dentro la festa, anche un incontro con diversi sindaci dei centri terremotati dell’Emilia.
«Amate la Resistenza» 128 lettere indirizzate ai partigiani del futuro
Donne e uomini, che hanno combattuto il nazismo e il fascismo, passano il testimone alle giovani generazioni
di Andrea Liparoto (l’Unità 15.5.12)
«GUAI A FAR NAUFRAGARE LA RESISTENZA NELLE PAROLE ENCOMIASTICHE. BASTERÀ DIRE CHE UN TEMPO LONTANO C’ERANO DEI GIOVANI. E poi iniziare a raccontarla da quel punto. Ritrovo con commozione i compagni persi nelle boscaglie, nei greti dei fiumi... Se potessero parlare direbbero: non vogliamo essere celebrati, ma amati» non usa mezze parole Nello Quartieri, 91 anni, ventenne comandante di Brigata durante la Guerra di Liberazione. Se la Resistenza deve continuare ad essere una risorsa per il futuro va fatta scendere dai palchi della retorica per circolare nelle coscienze e nei cuori in tutta la sua vitalità civile e umana. La Resistenza va amata. Una appassionata raccomandazione questa che attraversa tutte le 128 testimonianze contenute nel volume Io sono l’ultimo - lettere di partigiani italiani.
LE TESTIMONIANZE
Un progetto nato nel 2010, quando Giacomo Papi, giornalista, innamoratosi delle parole di una partigiana, Anita Malavasi «Laila», venne a bussare alle porte dell’Anpi per chiederci di collaborare ad una raccolta di racconti degli ultimi protagonisti viventi della Resistenza: un messaggio corale alle ragazze e ai ragazzi di oggi. E i nostri partigiani hanno colto immediatamente l’importanza e la necessità di «darsi», ancora una volta, forse l’ultima. Un antico senso di responsabilità mai sopito. Ci sono pervenuti centinaia di racconti, scritti a mano in molti casi, con la forza e l’autenticità di una testimonianza di ciò che è stato fino in fondo vita, scelte, coraggio, dovere. Ne è uscito un volume che ha il profilo di una vera e propria «piazza delle radici» dove dare appuntamento ai giovani, per incoraggiarli, e offrire un sentiero. Emo Ghirelli, 88 anni, CXLIV Brigata Garibaldi Antonio Gramsci, si rivolge direttamente al nipote: «Con noi collaborava il popolo migliore.
Tante donne hanno contribuito alla lotta di Liberazione e senza il loro contributo la lotta sarebbe stata molto più dura. È stata dura abbiamo dovuto combattere contro un nemico che la guerra la faceva di mestiere ed era armato di mezzi potenti, mentre noi avevamo in dotazione armi leggere. Spero che tu, Gabriele, non abbia mai più bisogno di fare i sacrifici che abbiamo dovuto sopportare noi. Che tu possa vivere sempre in pace, mai più guerre. Questo messaggio vorrei che potesse giungere nelle mani di tutti i pronipoti del mondo, perché capiscano che impegnandosi per costruire la pace si possono evitare le guerre».
Storie dure, di sangue e dolore che non hanno minimamente scalfito la consapevolezza di un dovere che andava compiuto senza tentennamenti. Didala Ghilarducci era una ragazza di 23 anni. Nel settembre ’43 aveva dovuto abbandonare la sua casa di Viareggio, pochi giorni dopo la nascita del figlio, perché i fascisti cercavano suo marito «Chittò», partigiano. Alla fine dell’agosto del 1944 lo troveranno e massacreranno. Didala è scomparsa qualche settimana fa, dopo aver tirato su un figlio da sola e speso tutti i suoi giorni nell’Anpi a far amare la Resistenza. Scrive nel suo racconto: «A volte mi viene da pensare che ho pagato, come tanti, un prezzo altissimo per questa Italia nuova. La sera rivedo i volti dei ragazzi di un tempo che oggi non ci sono più e penso che se fino a oggi ho continuato a impegnarmi per la libertà e i diritti è per rimanere fedele a loro e a quegli ideali che ci facevano sentire dalla parte giusta e ci facevano superare la paura. Allora mi sembra di sentire la mano di Chittò sulla spalla e mi viene da piangere di dolcezza».
Le donne. Erano tante e avevano un ruolo difficile e decisivo. Spesso nemmeno i familiari sapevano dell’impegno delle loro figlie, mogli, sorelle. Le chiamavano staffette. Una figura non sempre adeguatamente valorizzata in sede storiografica.
Ivonne Trebbi, 84 anni, IV Brigata Garibaldi Venturoli: «Mi portarono a Bologna, nella famosa caserma Magarotti, poi nel carcere di S. Giovanni in Monte dove incontrai altre partigiane che mi accolsero con molto affetto. Sempre più spesso ero interrogata e picchiata. Volevano informazioni e nomi per distruggere l’organizzazione clandestina. Mi portavano con loro durante i rastrellamenti nella speranza che io denunciassi qualche partigiano. Ma io sentivo che non avrei mai parlato. Mi aiutò a resistere l’odio per la guerra (...)». Ma ne valeva la pena, nessuno dei 128 ha dubbi. Lo ripetono continuamente. Perché ci credevano. Perché «le cose possono cambiare». (Giovanna Marturano, 100 anni). Parola di partigiana. Del futuro.
ITALIA, 1945-2012: IERI COME OGGI ....
25 APRILE: FESTA DELLA LIBERAZIONE.
PER LA PACE E LA GIUSTIZIA...
L’ITALIA SI E’ LIBERATA DAL NAZIFASCISMO (1945) E DALLA MONARCHIA (Referendum, 1946).
L’ASSEMBLEA COSTITUENTE (CON LA PRESENZA DI 21 DONNE) HA RIPORTATO LA VITA SOTTO IL NUOVO SOLE DELLA BUONA LEGGE, DELLA NUOVA COSTITUZIONE (1948).
Gli italiani e le italiane hanno ripudiato il dio della guerra (Marte): non sono più figli e figlie della Lupa! Hanno conquistato la libertà e sono diventati cittadini-sovrani e cittadine-sovrane!
RIPRENDIAMO IL CAMMINO DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI,
NON ALLONTANIAMOCI DALLA DIRITTA VIA E NON RICADIAMO NELLA SELVA OSCURA!!!
NON DIVENTIAMO ANCORA E DI NUOVO ANIMALI AL GUINZAGLIO DEI SACERDOTI E DELLE SACERDOTESSE DEL DIO DELLA GUERRA!!!
COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA:
Art. 3.
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Art. 11.
L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
SVEGLIAMOCI, SANIAMO LE NOSTRE FERITE!!!
NELLA TEMPESTA CHE CI CIRCONDA SEMPRE PIU’ E RISCHIA DI TRAVOLGERCI DEFINITIVAMENTE
TENIAMO FERMI I PRINCIPI DELLA NOSTRA SANA E ROBUSTA COSTITUZIONE!!!
Federico La Sala
Un giorno di libertà tra memoria e voglia di cambiare
Chi ha combattutto nella Resistenza lo ha fatto per liberare l’Italia ma anche per inseguire il sogno di un futuro migliore Sta a ciascuno di noi riprendere quelle speranze. E realizzarle
di Carlo Smuraglia, Presidente nazionale ANPI (l’Unità, 25.04.2012)
Prima di tutto la memoria, perché un Paese che non ricordasse i suoi morti per la libertà e dimenticasse le pagine più gloriose della sua storia sarebbe condannato all’ignominia e al decadimento. Il ricordo, dunque, dei partigiani e dei soldati che combatterono in armi, dei militari che non si arresero ai tedeschi, dei contadini che aiutarono i combattenti, delle donne che fecero irruzione nella vita politica nazionale per battersi in favore della libertà, dei sacerdoti che aiutarono i partigiani e i militari, di tutti coloro insomma che hanno composto il grande quadro della Resistenza; tutto questo è prioritario, rispetto ad ogni altra cosa, perché è dovuto al loro sacrificio ma anche all’esempio che ci hanno dato di fierezza e di speranza. Quei combattenti che non anelavano soltanto alla libertà, ma volevano anche avviare la ricostruzione di un Paese distrutto, sui sentieri della democrazia. Ed è proprio alle loro speranze e ai loro sogni che oggi va dato il massimo tributo perché la memoria non sia formale e retorica, ma sia utile per capire e affrontare il presente e il futuro.
Viviamo in una fase difficile, di fronte a una crisi che non è temporanea ma strutturale, alle difficoltà di tante famiglie senza lavoro e senza un’adeguata sicurezza sociale, al lavoro “dimenticato”, alla dignità sepolta nei meandri del precariato, alle tante modestissime pensioni di vecchiaia, alla ricerca affannosa di accompagnare al necessario rigore quell’altrettanto necessaria equità senza la quale i sacrifici non possono essere accettati.
Una fase difficile, aggravata dal distacco dei cittadini dalla politica (che rischia sempre di trasformarsi in una pericolosissima “antipolitica”), dalla corruzione dilagante, dall’assalto della criminalità organizzata al nostro stesso sistema economico, dalle nostalgie di un passato che non può più tornare, dal degrado anche culturale che sta avviando, da tempo, il Paese su una china estremamente rischiosa. Una fase difficile anche perché alla rassegnazione e alla indifferenza si uniscono talora una protesta e un’indignazione, altrettanto pericolose se fini a se stesse, perché la storia ci insegna che certe derive portano facilmente a soluzioni populistiche e autoritarie, come ci dimostra in questi giorni, anche l’incredibile affermazione elettorale di un movimento di destra estrema in Francia.
In una fase come questa, ci si può affidare allo scoramento, alla caduta di ogni speranza, e perfino alla rassegnazione? Io credo che sarebbe cadere in un baratro senza ritorno. Non sta a me indicare le soluzioni e le alternative; perché non è questo il compito dell’Anpi, mentre lo è l’indicare la strada per “resistere” e avviare il Paese verso il riscatto, con un cambiamento deciso di rotta sul piano economico, politico e sociale.
Il fondamento di questo impegno si può trovare soltanto nel ricorso ai princìpi e ai valori della Costituzione che affondano le radici nella Resistenza che oggi ricordiamo. A quel rilancio di valori dobbiamo contribuire tutti, perché questa, solo questa, è la via della salvezza del Paese.
Per questo, oggi la Festa è e deve essere di tutti, perché al ricordo aggiungiamo il richiamo ai valori fondamentali che si riassumono in parole semplici (lavoro, dignità, uguaglianza, solidarietà) ma estremamente significative. Una festa di tutti. E sarebbe ora che tutti lo capissero, abbandonando i negazionismi e i revisionismi di sempre e mettendo finalmente da parte i troppi rigurgiti neofascisti (sono di ieri i manifesti che inneggiano alla Repubblica di Salò!), per riconoscersi finalmente in ciò che di grande è avvenuto nel nostro Paese, attraverso la ricostruzione dell’Unità nazionale, nella libertà, e l’apertura delle porte alla democrazia.
Rivolgo dunque, un invito fraterno e amichevole a tutti, cittadine e cittadini, donne e uomini di altri Paesi che si trovano in Italia, a raccogliersi, oggi, nelle piazze attorno alla Resistenza, alla Costituzione, ai valori di fondo che fanno del nostro Paese una vera Nazione. Un giorno di libertà e di festa, nel commosso ricordo dei caduti, volgendosi indietro con la memoria, ma con lo sguardo rivolto in avanti, proteso con la volontà e l’azione verso un futuro migliore.
Oggi come ieri i giovani devono vincere la sfida
Non abbiamo a che fare con una guerra perduta né con una dittatura fascista eppure il passaggio a cui siamo giunti è cruciale per l’avvenire della democrazia È necessario un grande rinnovamento, bisogna rialzare la testa come allora
di Alfredo Reichlin (l’Unità, 25.04.2012)
Sono passati quasi 70 anni una intera epoca storica dalla liberazione dell’Italia dalla dittatura fascista. Io ricordo bene quella giornata che segnò l’avvento di una nuova Italia. Un mondo soprattutto di giovani prendeva in mano il destino di un Paese coperto di macerie, ferito da migliaia di morti, umiliato dalla sconfitta in una guerra ingiusta e sciagurata, occupato da eserciti stranieri. È in queste condizioni che i grandi partiti popolari, i rappresentanti delle masse contadine ed operaie che fino allora erano state escluse dalla vita pubblica dello Stato post-risorgimentale, presero la guida dell’Italia e la portarono alla riscossa. In meno di dieci anni il Paese intero fu ricostruito, uscì dall’arretratezza del vecchio mondo contadino, diventò la quarta o la quinta potenza industriale del mondo, mandò i suoi ragazzi a scuola.
La spiegazione di questo autentico miracolo si fa presto a dirla. Fu la capacità di mobilitare le energie profonde del popolo italiano facendo appello a quella straordinaria risorsa che è la sua antica civiltà. Il popolo si sentì protagonista e i suoi diretti rappresentanti (non i sovrani o le classi dominanti, come era sempre avvenuto nel passato) scrissero un nuovo patto di cittadinanza, la Costituzione repubblicana, fondata sul lavoro e garante di nuovi diritti. Non solo l’uguaglianza di fronte alla legge ma nuovi diritti sociali. Insomma, costruirono uno Stato democratico avanzato, che è tale non solo perché consente la libertà di voto e di opinioni ma perché garantisce anche agli ultimi, alle classi subalterne, di organizzarsi e di pesare sulle decisioni pubbliche attraverso i propri strumenti di potere: i partiti politici, i sindacati, le associazioni volontarie.
Da allora è passato un secolo, un’epoca intera. Perciò appare davvero singolare che rievocando quell’antica vicenda, noi in realtà abbiamo netta la sensazione che stiamo parlando, sia pure in modi molto diversi, dei problemi di oggi. Perché? È evidente, per fortuna, che non abbiamo a che fare con una guerra perduta, né con una dittatura di tipo fascista. Eppure il passaggio a cui siamo giunti è molto aspro ed è cruciale per l’avvenire della democrazia repubblicana e per il futuro dei nostri figli. Si sta creando una miscela esplosiva tra una gravissima crisi economica che getta nella disperazione milioni di persone al punto che si moltiplicano i casi di suicidio e il fango gettato ossessivamente, ogni giorno e ogni ora sul Parlamento e sui partiti politici dipinti come tutti ladri e tutti uguali.
È sacrosanta l’indignazione per i fatti di corruzione. Ma è solo di questo che si tratta? Io vedo anche il tentativo di creare una grande confusione. Il Gattopardo. Quel libro famoso in cui si narra che di fronte alla caduta rovinosa del regno borbonico e all’arrivo di Garibaldi in Sicilia il vecchio principe spinge il nipote a sposare una popolana. Così faremo credere che tutto cambi affinché tutto resti come prima. È caduto Bossi? Avanti allora un altro: Beppe Grillo. Tanto sono tutti uguali. Il che non è vero affatto. L’Italia prima di Berlusconi è stata governata da ministri come Ciampi, Prodi, Andreatta, Amato, Giorgio Napolitano, tra i migliori e i più onesti della Repubblica. Dopo, per quasi dieci anni hanno governato Bossi, Berlusconi, Rosi Mauro e certe signore.
Io penso che da qui, da un lungo malgoverno che ha fatto del denaro e dell’egoismo sociale la misura di tutte le cose, viene la crisi anche morale dell’Italia. Come ne possiamo uscire? È evidente che senza una riforma profonda anche intellettuale e morale, l’Italia decadrà e non sarà più quella cosa meravigliosa che è stata nei secoli. Quale strada vogliamo imboccare? Vogliamo affidare ancora una volta il destino del Paese a un comico, a un altro avventuriero, a un altro miliardario che ha chiamato partito la sua azienda personale e si è comprato anche i deputati?
È necessario un grande e profondo rinnovamento. Ma senza i partiti veri con quali strutture di partecipazione democratica possiamo dare una risposta alla potenza inaudita della finanza speculativa e ridare il potere alla democrazia e al Parlamento invece che alle banche? Non dimentichiamo che il fenomeno più impressionante a cui stiamo assistendo è l’aumento della povertà, ma al tempo stesso della concentrazione della ricchezza in poche mani. Dobbiamo contrastare il predominio di un’aristocrazia planetaria del sapere, del potere e della ricchezza, a fronte di una massa di semplici consumatori, e più in basso ancora di esclusi, sia dal potere che dai consumi.
È con questi pensieri che io mi rivolgo ai giovani e li esorto a rialzare la testa, come fecero i giovani di allora dopo il fascismo per ritrovare l’orgoglio delle ragioni storiche dell’Italia nell’aspro scenario di lotte e di contraddizioni che sempre più segnano questo nostro mondo. Le elezioni francesi possono essere anche per noi una opportunità di cambiamento. Abbiamo tutti bisogno di un nuovo pensiero critico. Una critica, la cui radicalità non sta nella violenza e nel rifiuto di assumere responsabilità di governo, ma nel mettere in discussione i poteri reali che governano da sempre questo Paese.
Italia e giustizia sociale. Questa è la nostra bandiera, che dovremmo tenere più in alto e con più orgoglio. La loro era fino a ieri il patto tra Berlusconi e Bossi. Adesso è Grillo per l’Italia e la signora Le Pen per la Francia. Mi rattrista molto. Ciò che mi consola è che io, tanti anni fa, l’ho vista scappare molto impaurita questa classe dirigente inetta e trasformista. Aveva però di fronte un progetto di ricostruzione della nazione, che coinvolgeva anche forze non di sinistra.
25 Aprile scaccia populismo
di Bruno Gravagnuolo (l’Unità, 25.04.2012)
Ancora un 25 aprile, per fortuna. Dopo che in tutto questo dopoguerra la destra, con contorno di moderati terzisti, ha tentato di svilirlo. O di ridurne la portata. Ecco una sintesi di ciò che è stato in gioco. Di quel che è stato conquistato e che nei tempi mutati dobbiamo rilanciare. Primo: il 25 aprile segna la vittoria della Resistenza. Guerra di liberazione civile. Con l’accento su liberazione dal nazifascismo. Nonché dalla sua «guerra ai civili» terroristica che non riuscì a trascinare l’Italia in una vera guerra civile a fianco di Hitler e Mussolini.
Dunque vi fu anche guerra civile, ma fu «secondaria», a fronte della liberazione: civile, partigiana e coobelligerante con gli Angloamericani. E non vi furono due «patrie». Perché la stragrande maggioranza degli italiani in retrovia, in prima linea o in «zona grigia» voleva quella Liberazione. Questo con tutto il rispetto per i ragazzi di Salò e quant’altro: roba rifritta e scontata. Con la quale già Togliatti seppe fare i conti. Senza bisogno di Pansa, Mazzantini o De Felice.
Seconda conquista: dal 25 aprile vengono Costituzione e discontinuità antifascista iscritta nella prima. In guisa di Grund-Norm fondativa. Spartiacque simbolico non negoziabile, da cui tutto deriva. Dunque: frattura inaugurale e Repubblica democratica fondata sul lavoro. Una e indivisibile. Con requiem finale per le pagliacciate della Lega, assunte con fin troppa tolleranza culturale o sociologica (federalismo, «barbarie novatrice», costola della sinistra, etc., etc.). Infine, terza conquista: che «tipo» di Repubblica? Parlamentare, bicamerale, riformabile col 138 senza rimettere in questione i fondamenti. Tra cui, oltre al lavoro, i partiti, cuore della democrazia. Che il fascismo liquidò inneggiando a: «giovinezza», élites, tecnica, movimento vitale dal basso e legame capo-masse. Guarda caso...
di Paolo Flores d’Arcais (il Fatto, 25.04.2012)
L’antifascismo non è un optional. La convivenza civile si basa sulle leggi, le leggi sulla Costituzione, la Costituzione solo su un fatto storico che la legittima e che regge dunque l’intero ordinamento. Per l’Italia democratica questo fatto si chiama Resistenza antifascista. Se viene meno il riconoscimento della Resistenza crolla l’intero castello di legittimità. Per questo il 25 aprile è festa nazionale: perché l’identità del-l’Italia democratica, della nostra Patria, ha il suo ultimo fondamento nella vittoria della Resistenza antifascista, nella frase “Aldo dice 26x1”, con cui il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia dà l’ordine dell’insurrezione generale e i partigiani liberano le grandi città del nord da nazisti e fascisti prima dell’arrivo delle truppe alleate.
Patriottismo costituzionale a antifascismo fanno dunque tutt’uno. I funzionari pubblici che giurano sulla Costituzione compiono spergiuro ogni volta che non sono coerenti con i valori della Resistenza. E anche il semplice a-fascismo segnala drastica indigenza di patriottismo. Chi non è antifascista non è un autentico italiano. Chi poi è anti-antifascista è semplicemente un nemico della Patria.
Oggi purtroppo l’antifascismo è in minoranza, maggioritaria è la morta gora dell’indifferenza. I giovani nulla sanno dell’epopea della Resistenza a cui devono la libertà di cui godono. Colpa delle generazioni che avrebbero dovuto educarli, di un establishment che ha seppellito l’antifascismo nella retorica di celebrazioni bolse ed ipocrite, o peggio. I governi democristiani, da perfetti sepolcri imbiancati, commemoravano il 25 aprile mentre trescavano con ogni risma di neofascisti e rottami repubblichini. Il regime berlusconiano ha voluto azzerare ogni memoria antifascista, portando “risma e rottami” al governo, in un progetto coerente di sovversione della Costituzione. La nostra convivenza civile poggia oggi sul vuoto. Ricostruire quel supremo “bene comune” che è l’identità della Patria repubblicana è perciò un compito morale, culturale e politico prioritario e di lunga lena. Che deve bandire la retorica, restituire ai giovani l’epos di rivolta che è stata la Resistenza e sopratutto la sua attualità in ogni lotta odierna per “giustizia e libertà”.
Le mille bandiere dei partigiani. Il valore dell’unità nella Resistenza
di Aldo Cazzullo (Corriere, 25.04.2012)
Colpisce, nelle rituali e ormai stucchevoli polemiche sul 25 Aprile, il riproporsi dell’antico riflesso ideologico: destra contro sinistra, difensori dei ragazzi di Salò contro fazzoletti rossi e Bella Ciao. Ma la Resistenza non è una cosa di sinistra. Non è patrimonio di una fazione, neppure di quella che talora se n’è impossessata nel dopoguerra; è patrimonio della nazione.
La Resistenza non è solo Bella Ciao (che peraltro un capo partigiano come Giorgio Bocca non aveva mai sentito cantare in tutta la guerra di liberazione). Non fu fatta solo dalle Brigate Garibaldi. La Resistenza fu fatta dai militari, come i fucilati di Cefalonia, che per primi presero le armi contro i nazisti. Fu fatta dai carabinieri come Salvo D’Acquisto, che si fece uccidere con un gesto nobilissimo per evitare la rappresaglia per un attentato che non aveva commesso. Fu fatta dai monarchici come il colonnello Montezemolo, cui a via Tasso vennero strappati i denti, le unghie, ma non un solo nome dei compagni, prima della morte alle Ardeatine. Fu fatta dai sacerdoti come don Ferrante Bagiardi, che quando vide i nazisti fucilare 82 suoi parrocchiani scelse di morire con loro dicendo: «Vi accompagno io davanti al Signore». Fu fatta dagli alpini come Maggiorino Marcellin, che restituiva i corpi degli Alpenjäger con un biglietto «da un alpino italiano a un alpino tedesco». Fu fatta dalle donne e dai civili. Dai valdesi come Willy Jervis, dagli ebrei come Leone Ginzburg, dai cattolici come Ignazio Vian, il primo a salire sulle montagne sopra Boves: non un bolscevico, un tenente delle guardie di frontiera e militante della Federazione universitari cattolici, un amico di Moro e Andreotti; i nazifascisti lo impiccarono a un ippocastano davanti alla caserma di Torino.
E la Resistenza fu fatta anche dai comunisti. Che - si sente ripetere - non volevano la libertà ma un’altra dittatura. Argomento perfetto per la polemica politica attuale. Privo di senso quando c’era da decidere da che parte stare, con o contro i nazisti, con o contro coloro che portavano gli ebrei italiani ad Auschwitz. La pietà dovuta a tutte le vittime, e l’umana comprensione per i giovani che andarono a Salò credendo in buona fede di servire l’Italia, non possono cancellare quella che in tutti i Paesi occupati dai nazisti è un’ovvietà, tranne che nel nostro: in quella guerra c’erano una parte giusta e una parte sbagliata.
Certo, la Resistenza fu fatta da uomini. E gli uomini commettono errori, talvolta crimini. La Resistenza ha avuto le sue pagine nere, e per troppo tempo se n’è parlato troppo poco. Generazioni di italiani sono cresciute senza aver sentito parlare del triangolo della morte, di Porzûs, di Basovizza. Ma il rischio è che oggi i giovani non abbiano mai sentito parlare neppure di Marzabotto, di Sant’Anna di Stazzema, della Benedicta, dei fucilati del Martinetto, dove fu eliminato il comitato di liberazione del Piemonte, sorpreso mentre era riunito non in una sezione del Pci, ma nella sacrestia del Duomo. Tra loro c’era un solo comunista, un operaio amico di Gramsci, Eusebio Giambone. Gli altri erano avvocati e militari: il tenente Geuna, il capitano Balbis, il colonnello Braccini, il generale Perotti, che era di Carrù, il paese dov’è nato Luigi Einaudi. Se in tutte le scuole si leggesse la lettera in cui Perotti dice addio alla moglie, raccomandandole di risposarsi per crescere i tre figli e pregandola di ricordare loro il suo sacrificio per la patria e per la libertà, di polemiche sul 25 Aprile tra qualche anno non ce ne sarebbero più.
Vergognose le offese a Smuraglia e all’Anpi
di Sandra Bonsanti (Il Fatto, 05.04.2016)
La strategia di insultare, deridere e delegittimare gli avversari politici; la strategia di isolarli quando si teme di non riuscire a sconfiggerli sul piano delle idee e della politica viene da lontano. È la strategia preferita dalla mafia e in questo Paese ha fatto molte vittime, alcune illustri, altre sconosciute, uomini e donne che hanno pagato per non essersi allineati ai potenti, per essersi messi di traverso.
Il governo Renzi ha un catalogo abbastanza lungo e non guarda in faccia nessuno. Anzi: tanto più l’avversario è illustre per meriti che tutti riconoscono, tanto più egli va colpito, nella sua saggezza, negli atti della sua vita, nella sua onorabilità. Così, il disgustoso attacco di Fabrizio Rondolino su l’Unità era chiaramente volto a diffondere una caricatura del presidente dell’Anpi, Carlo Smuraglia, uomo a cui molti di noi sentono di dover gratitudine, rispetto, ammirazione. Uomo che nella sua vita è stato un esempio e che continua a esserlo anche oggi che si batte per il No allo stravolgimento della Costituzione, il Sì all’abolizione dell’Italicum. Uomo in prima fila contro le manifestazioni fasciste. Uomo che ha saputo spalancare le porte dell’Anpi a generazioni nuove, come pochi hanno saputo fare.
Insomma, ci voleva l’Unità dei tempi di Matteo Renzi per osare questa vigliaccata. Immagino che lo stratega della comunicazione di Palazzo Chigi abbia un elenco di avversari da ridicolizzare e colpire. Avversari che sono temuti. Avversari da annientare con la strategia mafiosa, e infatti passate poche ore, è toccato a Roberto Saviano (tempo fa nel mirino ci fummo la sottoscritta, che non ha nessun merito da rivendicare nella sua vita, e il presidente emerito della Corte e presidente onorario di Libertà e giustizia, Gustavo Zagrebelsky). Così faceva la mafia. E quando aveva deriso e isolato il suo obiettivo si sentiva più forte. Ma oggi le cose non stanno così. Attorno a Carlo Smuraglia siamo in tanti. Caro Carlo, grazie di tutto quello che fai.
Carlo Smuraglia
“Attaccano me per ammonire l’Anpi”
di Redazione (Radio Popolare, martedì 05 aprile 2016) *
“L’attacco attacco a me è un ammonimento tutta l’Anpi”.
E’ molto determinato, il presidente dell’Anpi Carlo Smuraglia, nel rispondere all’attacco ricevuto dal quotidiano l’Unità tramite la rubrica di Fabrizio Rondolino.
In questa intervista con Radio Popolare, Carlo Smuraglia sostiene che si sia trattato di una sorta di ammonimento perchè l’associazione dei Partigiani non si intrometta nella campagna per il referendum costituzionale con cui, a ottobre, gli italiani decideranno se approvare o bocciare la riforma della Costituzione.
Per Renzi è un appuntamento fondamentale. Lui stesso ha caricato il referendum di un significato politico che va oltre la riforma e lo ha trasformato in un voto sul Governo e su di lui.
L’Anpi ha preso posizione per il No. La critica dei partigiani alla riforma è chiara. Da qui, secondo Smuraglia, l’aggressività di Fabrizio Rondolino nel suo intervento
“Mi si considera inadatto -replica Smuraglia - si fanno osservazioni di tipo culturale. E’ un attacco ad personam perché capiscano tutti che non è gradito un intervento dell’Anpi nella campagna referendaria“.
A maggio ci sarà il congresso dell’Anpi in cui verrà eletto un nuovo presidente che sostituirà Carlo Smuraglia, che oggi ha 93 anni. Ma, è sicuro lui stesso, la linea non cambierà.
“La grandissima parte di noi è convinta di andare avanti su questa strada”.
Ascolta l’intervista a Carlo Smuraglia a cura di Luigi Ambrosio e Lorenza Ghidini
Aggiornato mercoledì 06 aprile 2016 ore 17:38 (ripresa parziale)
Il confronto con l’esito del referendum costituzionale del 2006
di Salvatore Settis (la Repubblica, 07.12.2016)
IL DATO più rilevante nei risultati del 4 dicembre emerge dal confronto con l’esito del referendum costituzionale del 2006. In ambo i casi il voto popolare ha respinto una riforma costituzionale assai invasiva (54 articoli modificati nel 2006, 47 nel 2016), approvata a maggioranza semplice da una coalizione di governo che ostentava sicurezza per bocca di un premier (allora Berlusconi, ora Renzi) in cerca di un’investitura plebiscitaria.
Le due riforme abortite non sono identiche, ma vicine in aspetti cruciali (la fiducia riservata alla sola Camera e il nebbioso ruolo del Senato). Se guardiamo ai numeri, il confronto è impressionante: nel 2006 i No furono il 61,29%, nel 2016 il 59,25; quanto ai Sì, si passa dal 38,71% (2006) al 40,05 (2016). Un rapporto di forze simile, che diventa più significativo se pensiamo che l’affluenza 2016 (68,48%) è molto superiore a quella del 2006 (52,46%): allora votarono 26 milioni di elettori, oggi ben 32 milioni, in controtendenza rispetto al crescente astensionismo delle Europee 2014 e delle Regionali dello stesso anno.
Eppure, dal 2006 ad oggi il paesaggio politico è completamente cambiato, per l’ascesa dei 5Stelle, la frammentazione della destra berlusconiana, le fratture di quella che fu la sinistra. Più affluenza oggi di dieci anni fa, un cambio di generazioni, con milioni di giovani che votavano per la prima volta a un referendum costituzionale: eppure, nonostante i mutamenti di scenario, un risultato sostanzialmente identico, con un No intorno al 60%.
Una notevole prova di stabilità di quel “partito della Costituzione” che rifiuta modifiche così estese e confuse. Esso è per sua natura un “partito” trasversale, come lo fu la maggioranza che varò la Costituzione, e che andava da Croce a De Gasperi, Nenni, Calamandrei, Togliatti. Il messaggio per i professionisti della politica è chiaro: non si possono, non si devono fare mai più riforme così estese e con il piccolo margine di una maggioranza di parte.
Nel 2006 e nel 2016, due governi diversissimi hanno cercato di ripetere il discutibile “miracolo” del referendum 2001, quando la riforma del Titolo V (17 articoli) fu approvata con il 64% di Sì contro un No al 36%: ma allora l’affluenza si era fermata al 34% (16 milioni di elettori). Si è visto in seguito che quella riforma, varata dalle Camere con esiguo margine, era mal fatta; e si è capito che astenersi in un referendum costituzionale vuol dire rinunciare alla sovranità popolare, principio supremo dell’articolo 1 della Costituzione.
Per evitare il ripetersi (sarebbe la terza volta) di ogni tentativo di forzare la mano cambiando la Costituzione con esigue maggioranze, la miglior medicina è tornare a un disegno di riforma costituzionale (nr. 2115), firmato nel 1995 da Sergio Mattarella, Giorgio Napolitano, Leopoldo Elia, Franco Bassanini. Esso prevedeva di modificare l’art. 138 Cost. nel senso che ogni riforma della Costituzione debba sempre essere «approvata da ciascuna Camera a maggioranza dei due terzi dei suoi componenti», e ciò senza rinunciare alla possibilità di ricorrere al referendum popolare.
Questo l’art. 4; ma anche gli altri di quella proposta troppo frettolosamente archiviata sarebbero da rilanciare. L’art. 2 prevedeva che la maggioranza necessaria per eleggere il Presidente della Repubblica debba sempre essere dei due terzi dell’assemblea (l’opposto della defunta proposta Renzi-Boschi, che avrebbe reso possibile l’elezione da parte dei tre quinti dei votanti, senza computare assenti e astenuti); e che qualora l’assemblea non riesca ad eleggere il Capo dello Stato «le funzioni di Presidente della Repubblica sono provvisoriamente assunte dal Presidente della Corte Costituzionale». L’art. 3, prevedendo situazioni di stallo nell’elezione da parte del Parlamento dei membri della Consulta di sua spettanza, prevedeva che dopo tre mesi dalla cessazione di un giudice, se il Parlamento non riesce a eleggere il successore «vi provvede la Corte Costituzionale stessa, a maggioranza assoluta dei suoi componenti». Previsione lungimirante: è fresco il ricordo del lungo stallo delle nomine alla Corte, finché nel dicembre 2015 si riuscì a nominare tre giudici dopo ben 30 tentativi falliti.
In quelle proposte, come si vede, la Corte Costituzionale aveva un ruolo centrale, e il rafforzamento delle istituzioni passava attraverso un innalzamento delle maggioranze necessarie per passaggi istituzionali cruciali, come le riforme costituzionali o l’elezione del Capo dello Stato. In un momento di incertezza come quello che attraversiamo, quella lezione dovrebbe tornare di attualità, anche se molti firmatari di quella legge sembrano essersene dimenticati.
La riforma Renzi-Boschi è stata bocciata, ma fra le sue pesanti eredità resta una cattiva legge elettorale, l’Italicum, che la Consulta potrebbe condannare tra poche settimane, e che comunque vale solo per la Camera. Compito urgente del nuovo governo, chiunque lo presieda, sarà dunque produrre al più presto una legge elettorale finalmente decorosa, e compatibile (si spera) con riforme costituzionali come quelle sopra citate. Le prossime elezioni politiche, anticipate o no, dovranno portare alle Camere deputati e senatori liberamente eletti dai cittadini e non nominati nel retrobottega dei partiti.
Il referendum da cui veniamo è stato un grande banco di prova per la democrazia: ma ora è il momento di mostrare, per i cittadini del No e per quelli del Sì, che sappiamo essere “popolo” senza essere “populisti”. Che per la maggioranza degli italiani la definizione di “popolo”, della sua sovranità e dei suoi (dei nostri) diritti coincide con quella della Costituzione, la sola che abbiamo. Il “ritorno alla Costituzione” che ha segnato i mesi scorsi e che ha portato all’esito del referendum mostra che è possibile.
Smuraglia: è un No per attuare la Costituzione
"Al referendum non hanno vinto i partiti", dice il presidente dell’Anpi. "Leggere la vittoria referendaria del 4 dicembre solo sul terreno del confronto politico è un modo per ridimensionare il risultato popolare"
intervista di Andrea Fabozzi (il manifesto, 7.12.2016)
Carlo Smuraglia, presidente dell’Associazione nazionale partigiani, si aspettava questo successo del No?
Onestamente no. Immaginavo il paese spaccato a metà e speravo in una vittoria con il minimo distacco. Avevo indicazioni molto positive dalle nostre manifestazioni, in particolare l’ultima a Roma al teatro Brancaccio. Ma l’esperienza mi insegna a non fidarmi di quello che si vede nelle piazze e nei teatri, perché è la gente silenziosa che decide il risultato. E c’era da temere la propaganda del governo, le promesse, le proposte e le minacce del presidente del Consiglio, la complicità della stampa con il Sì...
E invece.
Mi ha sorpreso felicemente la grande partecipazione. Avevamo captato questo desiderio di capire e di partecipare, ma forse l’abbiamo persino sottovalutato. Evidentemente i cittadini che si sono informati sulla riforma, l’hanno compresa bene e giudicata male, sono stati la maggioranza. Anche se questa parte ragionata del No, adesso, mi pare messa del tutto tra parentesi, rimossa.
Non le piace come viene raccontata la vittoria del No?
Mi sorprende che tra le tante ragioni della sconfitta del Sì, la più elementare - e cioè che la riforma è stata bocciata nel merito - sia finita nell’ombra. Tutte le analisi sono sul terreno politico, tornano a farsi sentire come vincitori partiti che in campagna elettorale avevamo visto poco. Io credo che leggere il 4 dicembre esclusivamente sul terreno del confronto tra partiti sia un modo per ridimensionare lo straordinario risultato popolare.
Lei invece ci legge il segnale di una speranza? Si può ricominciare a parlare di attuazione della Costituzione?
Noi ne parliamo da sempre e lo abbiamo fatto anche in questa campagna elettorale. Alla fine dei miei incontri c’era sempre chi mi chiedeva “ma se vince il No cosa facciamo?”. E io rispondevo “Prima brindiamo, poi diciamo che invece di cambiarla la Costituzione bisogna attuarla”. A quel punto arrivava l’applauso più forte. Perché tutti vedono l’enorme contrasto che c’è tra i principi fondamentali della Carta e la realtà. Non voglio illudermi, ma credo che dentro questo 60% di No ci sia anche questa richiesta di attuazione.
Insieme a un voto contro il governo, non le pare?
Non per quanto ci ha riguardato. L’ho detto anche a Renzi nel nostro confronto di settembre a Bologna. Non ci è mai interessata la sorte del governo, volevamo solo difendere la Costituzione da uno strappo. Mi pare che lei non sia rimasto contento del modo in cui è stato raccontato quel confronto alla festa dell’Unità. Non sono rimasto contento che sia stato oscurato. Evidentemente non si era concluso come giornali e tv si auguravano, con la vittoria di Renzi.
Secondo lei, adesso, come si viene fuori dalle dimissioni del presidente del Consiglio?
La richiesta di votare presto mi pare infondata. Mancano molti presupposti, innanzitutto la legge elettorale: ne abbiamo due diverse per camera e senato e la prima è attesa al giudizio della Consulta. In più tutti i partiti dicono di volerla cambiare. La corsa alle urne è ingiustificata, il presidente della Repubblica, anche di fronte alle dimissioni di Renzi, ha molti strumenti prima di accettare le elezioni anticipate, provvederà con saggezza.
Questo No mette fine ai tentativi di riscrivere la Costituzione, almeno per un po’?
La Costituzione non è mai messa sufficientemente al riparo e bisogna stare sempre in guardia. Ma un No di questa entità ha anche un valore di ammonimento molto forte, si è capito che la Costituzione non è una legge ordinaria e non si può modificarla a cuor leggero, ma solo quando ce n’è effettivamente bisogno. E con il massimo di consenso.
In campagna elettorale si è parlato molto delle divisioni dell’Anpi. Vicenda chiusa? Lascerà qualche segno tra voi?
I segni sono stati più esterni che interni. Ogni piccola cosa è stata ingigantita e presa per buona, noi non abbiamo mai allontanato né sanzionato nessuno. Abbiamo solo chiesto ai nostri iscritti di non fare campagna per il Sì nel nome dell’Anpi, visto che la nostra posizione era opposta. La verità è che ha dato molto fastidio che l’Anpi si fosse schierata per il No. La nostra associazione è portatrice di valori in cui tutti devono riconoscersi, e dunque a molti abbiamo fatto fare almeno un pensierino.
25 aprile, nell’Anpi boom di partigiani junior
Iscritti a quota 110 mila, uno su dieci sotto i 30 anni
di Maria Cristina Carratù (la Repubblica, 22.04.2010)
ROMA - Più che mai rinvigorita. L’Anpi, l’associazione dei partigiani, fa un bilancio alla vigilia del 25 aprile, dal quale risulta che ha raggiunto 110 mila iscritti, nel 2009. Un boom mai visto. Ma soprattutto, dovuto alle nuove leve di «ragazzi partigiani», giovani e perfino giovanissimi che di guerra e Resistenza hanno solo sentito parlare, ma convinti di poter contribuire lo stesso alla causa per cui i partigiani doc lottarono e morirono: la democrazia e la Costituzione.
Un 25 aprile in cui non mancano le polemiche. A Mogliano, in provincia di Treviso non si suonerà "Bella ciao". Anche se il sindaco leghista, Giovanni Azzolini nega: «Nessun problema a far suonare ’Bella ciao’ alla banda comunale, se i partigiani lo chiedono», meglio, però, la ‘Canzone del Piave’, «che celebra il fiume sacro alla patria». Azzolini ricorda di «essere iscritto all’Anpi», non vuole sentire parlare di veti e davanti alle tv locali e sul web canta "Bella ciao" e parla di «fraintendimento». Tuttavia, ritiene che l’inno al Piave è più adatto, «tanto più che proprio da Mogliano la Terza Armata partì per riconquistare l’Italia». Protesta l’Anpi, ricordando che ‘Bella Ciao’ è «canzone di tutti».
I partigiani snocciolano i numeri: a controbilanciare il 10% di iscritti, ovviamente in calo, di partigiani storici e di ‘patrioti’ delle Sap e delle Gap (le Squadre e i Gruppi di Azione Patriottica), uomini e donne che hanno doppiato da un pezzo gli 80 anni, c’è ormai un altro 10% di ‘juniores’ fra i 18 e i 30 anni, mentre il grosso degli iscritti (60-65%) appartiene alla fascia, ampiamente «postbellica», di 35-65enni. Una vera rivoluzione, anagrafica e culturale, resa possibile dal nuovo statuto che dal 2006 ha aperto le porte dell’Anpi a chiunque dichiari e sottoscriva di essere «antifascista». Nel giro di tre anni si è passati così da 83 a 110 mila iscritti, con un più 27 mila che, confrontato con il calo costante degli anni pre-riforma (dai 75 mila iscritti del 2000 se ne stavano perdendo centinaia l’anno), ha riportato l’entusiasmo nei comitati di tutta Italia.
Ma guai a pensare che la modifica dello statuto sia stata un escamotage anti-età: «Noi abbiamo combattuto per valori che tutti gli uomini hanno dentro, e che spetta a tutti difendere, in qualunque epoca» sostiene Silvano Sarti, 84enne protagonista della Resistenza fiorentina e presidente dell’Anpi di Firenze. Dove, nelle due sezioni più grandi della provincia, i giovani di 18-35 anni sono passati in tre anni da zero a 342, i 35-60enni sono più di due terzi degli iscritti, e a capo di un’altra è stato da poco eletto il segretario più giovane d’Italia: «Chi si associa all’Anpi» spiega Sarti «semplicemente ama la Costituzione e vuole difenderla. E chi deve scendere per primo in piazza se non dei giovani con le gambe buone?».
E che non si tratti solo di numeri, lo dimostra, spiega il vicepresidente dell’Anpi nazionale Armando Cossutta, quel che avviene nelle sezioni e nei comitati provinciali: «Pieni di gente di ogni classe sociale, di ogni professione, di ogni età, felici di avere uno spazio che i partiti non offrono più: limpido, pulito, senza arrivismi». La «nuova giovinezza» dell’Anpi «sembra figlia anche della crisi della politica». E il sindaco di Firenze Matteo Renzi ha invitato l’intera giunta a iscriversi all’Anpi, con lui in prima fila.
25 aprile troppo, troppo poco
di GIOVANNI DE LUNA (La Stampa, 25/4/2007)
Dal fastidio per un eccesso ridondante e celebrativo, al disagio per un imbarazzante silenzio. Nel congresso di scioglimento dei Ds, come nel Pantheon del nuovo partito democratico, non c’è traccia di un qualche richiamo all’antifascismo. Certo, se si ritorna ad alcune immagini degli Anni 80 (Craxi che inaugura una caserma della Guardia di Finanza a Milano o Gava davanti al monumento allo scugnizzo a Napoli), si ha l’impressione che quelle celebrazioni servissero ormai solo a mascherare il desolante vuoto di credibilità in cui stava per inabissarsi quella classe politica, aggrappata al carisma di Pertini e a un passato che stava inesorabilmente per passare. E potrebbe anche essere legittimo considerare quel tipo di antifascismo sepolto insieme alle macerie del Novecento, in un processo che avrebbe visto progressivamente esaurirsi tutti i valori culturali, politici e esistenziali che vi erano racchiusi. Ma allora bisognerebbe dirlo, dichiarare di considerare esaurita una pagina della nostra storia che pure continua a vivere nel patto fondativo della Repubblica.
E’ un’operazione che il centro-destra ha già compiuto da tempo, nei fatti più che nelle parole. In questo Fini e Berlusconi si sono discostati dal «modello Sarzoky», che ha costruito il suo recinto elettorale innalzando contro Le Pen proprio lo steccato dell’antifascismo: ma il primo nasce da Salò, non da De Gaulle; e il secondo, senza tante sottigliezze politiche, si è dichiarato «allergico» al 25 Aprile. Ora anche il centro-sinistra sembra avviarsi su questa strada. Se ne possono intuire le ragioni. La prima. L’idea della «fusione fredda», cioè di un profilo debole con poco spazio per le ragioni identitarie e per le radici storiche, è sembrata ai fondatori del nuovo partito democratico tremendamente efficace, quasi che - per assurdo - più larghe siano le maglie della rete, più pesci sia possibile catturare. La seconda. Le disinvolte omissioni sul passato sono servite a rafforzare le immagini di una formazione politica totalmente nuova, tutta proiettata verso il futuro, senza gli impacci della tradizione e il peso di ingombranti eredità novecentesche. La terza. L’antifascismo come valore consiste essenzialmente nella scelta da quale parte stare. Fu così per l’esigua minoranza che «scelse» di mettersi contro la maggioranza di questo Paese al tempo del fascismo; fu così per le attive e coraggiose minoranze di massa che scelsero la lotta armata contro i nazisti e i fascisti al tempo della Resistenza. Ora il nuovo partito democratico nasce esplicitamente con l’intenzione di intercettare il consenso della maggioranza degli italiani, di essere un partito in grado di vincere le elezioni e non ha nessun interesse a coltivare la memoria di quelle che furono minoranze per quanto eroiche e importanti siano state per la nostra storia. Per il resto, mi pare che proprio la «scelta» sia stata almeno per il momento accantonata dall’universo dei valori a cui si ispira il nuovo partito, relegando in imprecisato futuro il momento in cui sarà necessario districarsi tra le varie «fratture» che ne attraversano la variegata composizione.
Quale che sia la fondatezza di queste ragioni, restano però alcune contraddizioni, in particolare per quanto riguarda il cosiddetto «Pantheon». È subito apparso un problema complicato, tanto da alimentare in qualcuno la tentazione di una sorta di bricolage «fai da te», lasciando tutti liberi di costruirsene uno in proprio, mettendoci Martin Luther King e Dossetti, secondo le personali inclinazioni. In realtà, leggendo i nomi che sono affiorati nei dibattiti congressuali, almeno quelli che appartengono alla storia del Novecento italiano, da De Gasperi a Riccardo Lombardi, da Gramsci a La Malfa, si capisce come l’unica cosa che hanno in comune sia esclusivamente l’antifascismo. Perfino l’azzardo storico dell’accostamento tra Craxi e Berlinguer può trovare una sua pallida giustificazione solo in quell’ambito. Tanto vale allora esplicitarlo e non lasciarlo confinato solo nella pura elencazione dei nomi. Più in generale credo che un partito che in Italia si dichiari democratico debba tener conto della specificità assunta dall’antifascismo italiano rispetto a quello europeo. Qui da noi il nesso con la democrazia è stato così forte da apparire quasi inscindibile. L’antifascismo scaturisce dall’esigenza di combattere un regime totalitario, quel fascismo che purtroppo rimane il lascito più significativo dell’Italia alla storia del Novecento. Nasce nel segno della libertà contro la dittatura. E questo suo patrimonio genetico è stato così forte da condizionare nel senso della democrazia e della libertà lo stesso partito comunista che in Italia si è sottratto agli esiti totalitari e statolatrici delle altre esperienze del comunismo europeo. Dalla sintesi tra democrazia e antifascismo, dal modo in cui i due termini si innervarono reciprocamente, nacque la Repubblica. La Costituzione è l’unica della nostra storia unitaria a scaturire da un’Assemblea Costituente ed è stato l’antifascismo, attraverso la Resistenza, a realizzare quello che era sempre stato il sogno inappagato di una democrazia compiuta.
Perché è viva la Resistenza
di Enzo Collotti (il manifesto, 25.04.2007)
Che cosa resta del 25 aprile? Domandarselo è più che legittimo, nel frastuono e nella confusione della vita politica italiana in cui la fretta dei politici di cambiare pelle concede poco spazio alla riflessione sulle modalità dei cambiamenti e sul loro rapporto con le costanti della nostra storia che sono le linee guida dalle quali non si può derogare senza smentire le origini stesse della Repubblica.
E’ chiaro che a oltre sessant’anni da quel 25 aprile del 1945 non è riproducibile l’intensità con la quale la mia generazione ha vissuto il giorno della liberazione, dopo la lunga attesa dei giorni dell’occupazione nazista e dell’oppressione della Repubblica sociale nutrita non solo dalla Resistenza ma anche dalle aspettative per il futuro. Il ricambio delle generazioni comporta anche una diversa sensibilità nello sguardo con il quale si percepiscono i fatti storici costitutivi del nostro patto civile di collettività e non possiamo impedire che le nuove generazioni rivivessero con la distanza di oltre mezzo secolo, e quindi con un distacco non solo temporale, i momenti fondativi della Repubblica democratica.
E’ altrettanto inevitabile che oggi, salvo rarissime eccezioni, il personale politico proveniente per esperienza diretta dalla Resistenza sia di fatto scomparso dalla scena pubblica, mentre anche la maggior parte degli indicatori ci significano (a cominciare dalla scuola), che la stessa memoria familiare appartiene ormai a un passato irrevocabilmente superato. Mai come in un frangente di questa natura si deve avere coscienza che la sopravvivenza di quelli che chiamiamo i valori della Resistenza è affidata alla persistenza e alla continuità della memoria, che non è un prodotto spontaneo della somma delle memorie individuali ma un processo collettivo, sollecitato da una pluralità di soggetti, istituzionali e non.
Nel primo cinquantennio repubblicano i partiti politici - nati dall’esperienza dei comitati di liberazione - furono tra i soggetti collettivi naturali strumenti di trasmissione di quella tradizione, insieme a una pluralità di enti della vita associativa che concorrevano a compenetrare la società di quei valori e ideali. La lacerazione di quel tessuto politico e associativo, in questa infinita transizione italiana, ha disperso un patrimonio politico-culturale che fa fatica a ricostituirsi e identificare le sedi stesse del suo insediamento sociale. I partiti politici anche nelle nuove configurazioni, la scuola, l’associazionismo rimangono le sedi privilegiate per custodire e alimentare questa memoria, in una prospettiva ormai di lunga durata ma anche come risvolto di una prassi operativa, nella misura in cui sono valori della Resistenza i vincoli pratici e le regole che devono governare la nostra convivenza e ispirano la nostra direzione di marcia. Soltanto se continuiamo a essere consapevoli di quanto è stata aspra la lotta per sottrarci alla dittatura fascista e nazista, per restituirci le libertà democratiche e consentirci l’elaborazione della Costituzione, restituiremo alla Resistenza il significato di un evento storicamente motivato nel suo naturale contesto temporale e epocale e ridaremo ai valori della Resistenza con la loro materiale evidenza il senso della loro attualità e della loro permanente necessità.
Il 25 aprile rimane un fatto fortemente simbolico, uno di quei punti fermi dei quali ogni collettività ha bisogno come punto di riferimento, ma non è principalmente sui miti e sui riti che si deve alimentare la memoria della Resistenza. Essa sarà viva se gli indirizzi politici saranno improntati a quei valori essenziali per i quali in Italia e in Europa migliaia di uomini e donne hanno sacrificato la loro esistenza per rivendicare la propria autonoma responsabilità e il diritto di partecipazione, il rispetto della dignità dell’uomo, l’aspirazione alla giustizia sociale e all’eguaglianza, l’utopia di una Europa pacifica e pacifista. Una tavola di valori che si trova scritta nelle Lettere dei condannati a morte della Resistenza, italiana e europea, il libro che vorremmo fosse letto dalle generazioni più giovani.
COSTITUZIONE, LINGUA, E PAROLA ...
di Gustavo Zagrebelsky ( la Repubblica, 25.04.2010)
Le lettere dei condannati a morte della Resistenza non sono state scritte per venire in mano a noi che le leggiamo. Sono state concepite in un momento della vita che solo a pochi è dato di vivere.
Quel momento terribile e solenne della contemplazione attuale della propria morte, quando in lucidità e coscienza si è faccia a faccia con se stessi, spogliati di tutto ciò che non è essenziale. Esse sono indirizzate alla cerchia delle persone più vicine e care, in cui sono riposti gli affetti e da cui nascono e si alimentano le energie vitali che ci conducono ad agire nel mondo. Questi testi sconvolgenti parlano della morte freddamente disposta da esseri umani nei confronti di altri esseri umani e questi ultimi colgono negli ultimi istanti della loro vita, nell’attesa consapevole della fine. Ogni facoltà spirituale deve essere stata provocata fino all’estremo. La psiche non può essere sollecitata più di così, dicono coloro i quali, per un motivo inaspettato, sono scampati alla morte e hanno potuto rendere testimonianza. Le parole scritte in quelle circostanze, soprattutto quelle svuotate dall’uso quotidiano - amore, affetto, perdono, casa, papà e mamma - , dalla retorica politica - patria, onore, umanità, pace, fedeltà al giuramento - o dall’estraneità alla nostra diretta esperienza - torturare, fucilare, impiccare, tradire - tornano d’un colpo a riempirsi di forza e significato essenziali. Sono parole ultime, destinate a restare chiuse entro cerchie affettive limitate. Ma chiunque sia disposto a liberarsi per un momento dall’abitudine della mediocrità che tutto livella, smussa e ottunde, può meditarle in sé, senza intermediari.
Se affrontiamo questa lettura emotivamente gravosa, facciamolo col pudore di chi sa di accingersi a qualcosa simile a una profanazione, in colloquio diretto e silenzioso, da coscienza a coscienza. Soprattutto, leggiamo col pudore di chi sa guardarsi dalla presunzione del voler giudicare. Queste lettere chiedono di comprendere, non di giudicare. Nessuno di noi - intendo: nessuno di coloro che non appartengono alla generazione di allora - può pretendere l’autorità del giudice. Se è vero che ci si conosce soltanto nel momento decisivo della scelta esistenziale e che solo lì ciò che di profondo è latente in noi viene a galla, noi non ci conosciamo. Non siamo stati messi alla prova. È facile, ma futile, profferire giudizi e perfino esprimere adesione ideale, ammirazione per gli uni e sdegno o condanne per gli altri. Dovremmo sempre chiederci chi siamo noi, per voler giudicare.
Dovremmo temere che qualcuno ci dica: ti fai bello di ciò che è di altri; tu forse saresti stato dalla parte dei carnefici o saresti stato a guardare. E non sapremmo come rispondere. Conosciamo le condizioni del nostro Paese all’8 settembre del 1943 e immaginiamo quali poterono essere le molte ragioni, ideali e personali, influenti sulle scelte che allora a molti si imposero. Nessuno di noi può avere la certezza che, in quelle condizioni ed esposti alle stesse pressioni, saremmo stati dalla parte giusta e non saremmo stati portati dalle circostanze dalla parte dei criminali. Questo non significa affatto parificare le posizioni o giustificare i crimini. Significa cercare di capire, dicendo con franchezza a noi stessi: rendiamo grazie alla provvidenza o alla sorte perché ci è stato risparmiato di vivere in quel tempo.
La generazione che ha vissuto i fatti di cui parliamo non esiste più. Per le nuove generazioni e, soprattutto, per chi oggi è ragazzo, non si tratta di rivivere o rievocare vicende in cui vi sia stato un coinvolgimento anche soltanto indiretto, attraverso il ricordo di chi le visse. Inevitabilmente questi testi sono letti oggi con un’attutita percezione dell’originario significato politico e impatto emotivo, nel momento della lotta per la liberazione dall’incubo totalitario, dal nazismo e dal fascismo, nel momento in cui si coltivava l’aspirazione a un’Italia nuova, giusta, civile, pacificata. «Sappi che tuo figlio muore per un alto ideale, per l’ideale della Patria più libera e più bella», scrive un anonimo. Gli orientamenti politici erano diversi, ma comune era l’idea, anzi la certezza di un riscatto morale imminente, che avrebbe trasformato nel profondo, e in meglio, la società italiana. Le Lettere sono un’elevatissima testimonianza di questa tensione. In tutte si legge la consapevolezza di vivere un momento di svolta nella storia d’Italia. Il dopo non avrebbe dovuto, né potuto assomigliare al prima.
Ai figli piccoli, che non possono ancora comprendere, si dà l’appuntamento a quando, cresciuti, sarebbero stati in grado di capire per quale altra Italia i padri e le madri avevano combattuto ed erano morti. In momenti critici come quelli degli anni ’43-’45, non si poteva restare a guardare. Tutti dovevano contribuire. In molte lettere è testimoniata l’irresistibilità dell’appello a prendere posizione. «Nel mio cuore si è fatta l’idea (purtroppo non da troppi sentita) che tutti più o meno è doveroso dare il suo contributo», scrive una donna ai fratelli, per giustificare, anzi scusare la sua scelta. Molti sentono così di dover spiegare il perché del loro "aver preposto" l’Idea, la Patria o il dovere ai legami familiari e domandano perdono di questo.
Naturalmente, non tutti stavano dalla stessa parte. Nei confronti di chi stava dall’altra, la disposizione spirituale è molto varia. Alcuni chiedono vendetta. Ma altri parlano del nemico col rispetto dovuto a chi una scelta, sbagliata ma non necessariamente in malafede, ha pur fatto: «Negli uomini che mi hanno catturato ho trovato dei nemici leali in combattimento e degli uomini buoni durante la prigionia». Altri, ancora, si rimettono a una giustizia superiore, invitando chi resta a fare altrettanto: coloro che mi uccidono sono uomini e «tutti gli uomini sono soggetti a fallire e non hanno perciò diritto di giudicare poiché solo un Ente Superiore può giudicare tutti noi che non siamo altro che vermi di passaggio su questa terra». Altri ancora invitano al perdono: «Perdono a coloro che mi giustiziano perché non sanno quello che fanno e non sanno che l’uccidersi tra fratelli non produrrà mai la concordia».
Il disprezzo, se mai, è verso gli inescusabili, coloro che non prendono posizione, coloro "che non furon ribelli né pur fedeli" (Inferno, III, 38-39), cioè gli ignavi, gli "attendisti". Su questo punto dobbiamo constatare una grande distanza tra noi e chi ha lasciato la vita per una ragione ideale sul fronte antifascista ma, allo stesso modo, anche chi ha combattuto sul fronte opposto. Si estende ogni giorno di più un giudizio che non solo assolve, ma addirittura valorizza l’atteggiamento di chi è stato a guardare, per poi eventualmente godere dei frutti di libertà ottenuti col sacrificio di altri. Nelle Lettere, leggiamo invece parole come queste: «Quando penso che siamo vicini molto vicini alla nostra ora, mi raccomando e son più che certo che tutti in quell’ora scatteranno in piedi, impugneranno qualsiasi arma e colui che non l’adopera sarà un vile e un codardo».
Non risulta che l’accanimento revisionistico di tutto ciò che ha a che fare con i fatti e gli atti della Resistenza sia arrivato direttamente ed esplicitamente alle Lettere, per sminuirne, relativizzarne, se non negarne l’alto valore civile. Può essere che si arrivi anche a questo. Il pericolo è rappresentato piuttosto da un oblio che si vorrebbe giustificato da un’interpretazione pacificatrice da stendere su quegli avvenimenti. Essi sarebbero il frutto di un’esasperazione incompatibile con l’autentico nostro carattere nazionale, un carattere rappresentato da quella parte maggioritaria del popolo italiano che ha assistito da estranea o con atteggiamenti di puro soccorso umanitario, nell’attesa dell’esito degli eventi. Secondo questa visione, i combattenti sui due fronti, fascista e antifascista, avrebbero rappresentato entrambi una deviazione estranea alla nostra tradizione: una tradizione moderata, ostile agli eccessi, aperta a ogni aggiustamento e a ogni compromesso, garantita da una presenza moderatrice e stabilizzatrice come quella della Chiesa cattolica.
Gli uni e gli altri, insieme alla lotta mortale che combatterono e alle ragioni etiche e politiche che li contrapposero, sarebbero così da condannare alla pubblica dimenticanza, come elementi accidentali e come fattori di perturbazione della storia che autenticamente appartiene al popolo italiano. In questo modo, fascismo e antifascismo sono prima accomunati in un medesimo giudizio di equivalenza, per poter poi essere congiuntamente messi ai margini della pubblica ricordanza. All’antifascismo, quale fattore costitutivo delle istituzioni repubblicane, verrebbe così a sostituirsi qualcosa come un "nonfascismo-nonantifascismo", conforme al genio, che si pretende propriamente italiano, di procedere diritto tra opposti eccessi. Questa tendenza è pienamente in atto nel senso comune, alimentata da una storiografia e da una memorialistica sorprendentemente sicura di sé nelle definizioni del carattere nazionale e nella qualificazione dell’attendismo come virtù di saggezza pratica, invece che come vizio di apatia: una storiografia che, quando si avventura su simili strade, è più ideologia che scienza.
Chi ha sacrificato la vita, non importa da che parte, trarrebbe motivo di sconforto e offesa da questo giudizio liquidatorio. Sarebbe forse portato a riportarsi a quanto stabilito da Solone, tra le cui leggi - riferisce Plutarco (Vita di Solone, 20,1) - ve n’era una, del tutto particolare e sorprendente, che privava dei diritti civili coloro i quali, durante una stasis (un conflitto tra i cittadini), non si fossero schierati con nessuna delle parti contendenti. Egli voleva, a quanto pare, che nessuno rimanesse indifferente e insensibile di fronte al bene comune, ponendo al sicuro i propri averi e facendosi bello col non partecipare ai dolori e ai mali della patria; ma voleva che ognuno, unendosi a coloro che agivano per la causa migliore e più giusta, si esponesse ai pericoli e portasse aiuto, piuttosto che attendere al sicuro di schierarsi dalla parte dei vincitori.
Una simile legge sembra dettata da indignazione morale e non da prudenza politica. L’idea di una guerra civile obbligatoria certo spaventa. Ma giustificare l’ignavia e l’opportunismo, farne anzi una virtù pubblica, è cosa diversa e incomprensibile, a meno che si abbia in mente un popolo prono e incapace perfino di avvertire d’esserlo. Ma, forse, Solone mirava a qualcosa di più profondo: non alla guerra civile obbligatoria per legge, ma alla prevenzione della guerra civile. Tutti devono sapere che, nel momento della crisi che precipita, nessuno sarà giustificato se avrà fatto solo da spettatore dei drammi e delle tragedie dei suoi concittadini, da estraneo. Tutti allora operino per evitare che quel momento arrivi; operino dunque preventivamente per la concordia, per la pace, per isolare fanatici, violenti e demagoghi.
Le Lettere contengono la voce d’un altro popolo, di uomini e donne, d’ogni età e classe sociale, consapevoli del dovere della libertà e del prezzo ch’essa, in momenti estremi, comporta. Chi le legge oggi vi trova un’Italia diversa dalla sua, cioè dalla nostra, dove non si esitava a correre pericoli estremi per parole che oggi non si pronunciano più o, se le si pronunciano, lo si fa con il ritegno di chi teme d’appartenere a una generazione di sopravvissuti. Sono quasi una sfida, un invito a misurarci rispetto a quel tempo, il tempo della libertà e della democrazia riconquistate; un invito a domandarci quale strada abbiamo percorso da allora.
Il testo è parte dell’intervento che sarà letto stasera alle 21 all’Auditorium di Roma in occasione del 25 aprile
Addio al partigiano Bentivegna
La memoria di via Rasella
di Nicola Tranfaglia (il Fatto, 03.04.2012)
Di sicuro pochi sanno oggi, soprattutto tra i più giovani, chi era Rosario Bentivegna, il medico romano di novant’anni che è morto all’improvviso nella capitale, dopo una lunga vita nella quale polemiche infinite lo avevano accompagnato per quell’azione partigiana di cui era stato protagonista il 23 marzo 1944 nella Roma, occupata dalle truppe naziste e dai fascisti loro alleati.
Bentivegna che era nato a Roma il 22 giugno 1922, era un combattente dei Gap, i gruppi di azione partigiani che nella capitale occupata compivano azioni audaci contro gli occupanti, su ordine del Comitato di Liberazione Nazionale. In particolare fu Giorgio Amendola, rappresentante del Pci nella giunta del Comitato di liberazione nazionale (Cnl), a ideare l’azione e ad ordinarla al Gap di cui faceva parte Bentivegna.
L’OBBIETTIVO dell’azione che, nel primo pomeriggio del 23 marzo, si tradusse nell’attacco all’undicesima compagnia del III Battaglione del Reggimento di poliziotti sudtirolesi di Bolzano, arruolati nel Sud Tirolo dalla polizia tedesca il 1 ottobre 1943, consistette nell’esplosione di una bomba al passaggio dei soldati in via Rasella provocando la morte di 32 militari e il ferimento di altri 110, oltre a due vittime civili. Dei feriti, uno morì poco dopo il ricovero mentre nei giorni seguenti altri nove militari persero la vita, portando a 42 il totale dei caduti.
Ma la rappresaglia nazista, immediatamente decisa dopo l’attacco calcolò l’uccisione di 33 vittime tedesche a cui dovevano corrispondere 320 nemici. E di lì nacque, su ordine del Comando Supremo nazista e di Herbert Kappler, ufficiale delle SS, capo della Gestapo a Roma e del servizio segreto delle SS (l’Sd, ndr) e responsabile anche dell’ordine pubblico nella capitale, l’atroce eccidio delle Fosse Ardeatine in cui vennero uccise 335 vittime rastrellate in fretta e disordinatamente nelle prigioni romane. I processi seguiti fino all’ultima sentenza della Cassazione nel 2009 hanno riconosciuto che l’azione era stata una “legittima attività di guerra” ma questo non ha impedito polemiche aspre e continue per l’attentato di cui Rosario Bentivegna era stato protagonista. Di questi tempi è importante ricordare un personaggio capace di rischiare la vita per i suoi ideali.
Via Rasella, la scelta di Sasà
Fu l’autore dell’attentato contro le SS che scatenò poi la rappresaglia delle Fosse Ardeatine. Aveva 90 anni. Come partigiano difese sempre l’azione che la Cassazione definì «legittimo atto di guerra»
Comandava il nucleo di Centocelle e in quel frangente venne interpellato da Salinari a nome dei gap comunisti: «Te la senti?...» E il suo destino cambiò
di Bruno Gravagnuolo (l’Unità, 03.04.2012)
Per noi giovani Fgci del liceo Tasso della sezione Ludovisi era semplicemente «Sasà». Sapevo, sapevamo, che era stato uno dei protagonisti dell’attentato a Via Rasella. E anche per le polemiche perenni su quella azione, avevamo timore di «chiedere», e di conoscerlo. In realtà era un uomo semplice e affabile. Che ci raccontò più volte quella giornata, nella quale lui, travestito da netturbino, accese la miccia del tritolo dentro il carretto per farlo esplodere, giusto nel mezzo del corteo armato dei 33 Ss Bozen che transitavano nella celebre via, risalendola appena svoltato l’incrocio di Via del Tritone. Sasà era così: ex combattente non pentito, moderato e saggio, piuttosto di «destra» ai nostri occhi, molto togliattiano Pci.
In realtà il personaggio era anche molto di più di quella circostanza che lo vide protagonista e di cui fu attore di primo piano, quasi per caso. Era un intellettuale aspirante medico, un ex giovane dei Guf, fascista disilluso e dissidente. Prima tentato dai trotzkisti, poi conquistato da Giorgio Amendola e Salinari. Come tanti del gruppo capitolino del Pci, fatto di giovani e men giovani Ingrao tra gli altri che ebbe un ruolo chiave nel traghettare al comunismo italiano la generazione del «lungo viaggio attraverso il fascismo». In seguito Bentivegna fu infatti saggista, polemista e storico. Tutte caratteristiche che marcheranno la sua figura di comunista romano, fino a poco prima dell’era Petroselli. E però veniva da Centocelle in quella primavera del 1943, dove comandava un nucleo partigiano. E in quel frangente fu interpellato da Carlo Salinari a nome dei gap comunisti: «te la senti?».
Da allora la svolta vera, almeno nell’immagine pubblica: l’uomo dell’attentato di Via Rasella. Vale a dire: un destino inseparabilmente legato sia a quella del nemico attaccato, sia alla rappresaglia delle Ardeatine. Che la destra reazionaria, quella moderata e anche un certo revisionismo gli misero sul conto. Malgrado la medaglia al valore che gli fu elargita, malgrado i tanti processi che riconobbero che l’attentato era stata un’azione bellica e in un contesto in cui i tedeschi torturavano, deportavano, razziavano ebrei, mentre gli americani erano inchiodati ad Anzio. Già, perché come disse il Dc Taviani partigiano bianco, proprio gli anglo-americani esortavano la Resistenza romana a «rendere impossibile la vita ai tedeschi». In una città che già aveva visto numerose azioni di guerra, con i gap in prima fila contro fascisti e occupanti (e i 33 uccisi in Via Rasella non erano pacifici montanari altoatesini, bensì germanofoni volontari chiamati appositamente per schiacciare e rastrellare).
Dunque rappresaglia consumata in silenzio, con 335 vittime innocenti a fronte dei 33 Ss, e nessun invito a consegnarsi rivolto agli attentatori: la notizia infatti fu data dal Messaggero il giorno dopo. «Se lo avessimo saputo dirà Sasà li avremmo attaccati e dato il segnale della rivolta in città». E però lo abbiamo detto: nonostante l’ombra immane di quei fatti, le accuse ignobili e reiterate lungo tutto il dopoguerra, (dalla destra fino a Pannella), Sasà era sereno. Quasi scettico, disincantato, fermo nei suoi convincimementi e niente affatto risentito. Benché la sua biografia lo avesse reso bersaglio di discriminazioni anche sul piano professionale, ostacolando la sua carriera di medico.
Tutte cose queste che Bentivegna ha raccontato per filo e per segno in numerosi suoi libri, l’ultimo dei quali era stato l’autobiografia Einaudi che va dall’anno della sua nascita, 1922 a Roma, fino alle ultime polemiche mediatiche con Bruno Vespa, che aveva (in video e in uno dei suoi libri) riciclato le vecchie polemiche contro di lui per l’attentato. Per nulla settario, trovò anche il tempo per dialogare con l’ex Rsi Mazzantini, con un libro e il contributo a una fiction Tv sui «ragazzi di Salò». E rimase nel Pci fino a metà degli anni 80, uscendone contro la linea radicale dell’ultimo Berlinguer. Amendoliano, non pentito, disse sempre di non avere particolari virtù e di aver vissutio «senza fare di necessità virtù». Come nel titolo del suo ultimo e bellissimo libro.
La figura di Bentivegna secondo l’Anpi?
«Un comandante partigiano che coi Gap e poi anche col Comitato di liberazione nazionale ha combattuto a tutto tondo per la libertà e per i diritti di questo paese, con una coerenza e un impegno che non sono mai venuti meno. Dopo tante strumentalizzazioni e speculazioni sarebbe ora di ragionare in termini diversi, certi atteggiamenti non fanno onore a chi li tiene perché non è solo questione di rispetto per chi muore, ma anche per chi ha dedicato la vita alla libertà degli altri».
Ferite che dopo tanti anni non sono ancora chiuse.
«Evidentemente c’è ancora chi non accetta la resistenza, le stesse persone che come detto parlano spesso di memoria condivisa e di pacificazione. Eppure credo che in un paese civile sia necessario una specie di patto storico comune sulle vicende fondamentali come il risorgimento, la resistenza e la costituzione. Per questo un paese come l’Italia deve saper fare i conti col proprio passato e ricordare la sua storia più importante, invece si continua a sentire di negazionismi e revisionismi».
Come racconterebbe Bentivegna ad un ragazzo del Duemila?
«Un uomo che con l’Italia divisa in due per l’occupazione dei tedeschi ha scelto di combattere per il suo paese unito e per il bene di tutti, anche dei ragazzi di oggi, nel nome della libertà e della democrazia».
* Cit. da:
Intervista a Carlo Smuraglia
«Inqualificabile odio per un uomo che ha dato tutta la vita per la libertà»
Il presidente dell’Anpi sugli attacchi alla figura di Rosario Bentivegna «Grave che vengano da chi predica memoria condivisa e pacificazione»
Il giorno dopo la scomparsa di Bentivegna e gli attacchi alla sua figura, come «assassino» detto da Storace, la replica nelle parole e nel ricordo del numero uno dell’Associazione nazionale partigiani.
di Salvatore Maria Righi (l’Unità, 05.04.2012)
Quando muore un combattente per la libertà
di Moni Ovadia (l’Unità, 07.04.2012)
Rosario Bentivegna, partigiano gappista, organizzatore dell’azione di Via Rasella, ci ha lasciato. Uomini come lui con il loro coraggio e la fedeltà alle loro scelte hanno contribuito a riportare l’Europa e il nostro Paese alla democrazia e alla libertà. Il fronte del revisionismo e del negazionismo italiano compatti nel corso di tutto il secondo dopoguerra hanno cercato di marchiare come crimine, come strage assassina il legittimo attentato di via Rasella contro una colonna di SS.
Quell’attacco partigiano fu un legittimo atto di guerra contro l’esercito occupante della dittatura criminale genocida nazista alleata della dittatura criminale e genocida del fascismo italiano, come è stato stabilito in ogni grado di giudizio dei nostri tribunali.
A Rosario Bentivegna come era logico, nel momento della morte, sono stati tributati gli onori dovuti a un uomo che ha combattuto per restituire dignità alla sua patria e riportare i valori della civiltà al suo popolo.
Ma come era prevedibile, nostalgici fascisti mai redenti e revisionisti a vario titolo hanno approfittato dell’occasione per manifestare un ennesima volta il loro disprezzo per l’antifascismo, per la Resistenza e per la Costituzione repubblicana. Ora che la stagione del berlusconismo con tutto il suo corredo di sottocultura reazionaria e fascistoide ha miseramente concluso la sua parabola e che anche il leghismo xenofobo e pararazzista mostra la squallida verità che sta dietro alle sue farneticazioni pseudo nazionaliste, sarebbe tempo, per il bene dell’Italia, di bandire dai nostri media e dalle nostre scuole il revisionismo ideologico e strumentale.
Rosario Sasà Bentivegna
risponde Luigi Cancrini (l’Unità, 07.04.2012)
Si sono svolti nei giorni scorsi i funerali di Rosario Bentivegna noto a tutti principalmente per i fatti di Via Rasella avvenuti a Roma durante la seconda guerra mondiale. Erano presenti molti partigiani, molti giovani di sinistra ed anche Walter Veltroni alle cerimonia svoltasi nella sede principale della Provincia di Roma.
Michele Piacentini
RISPOSTA La storia dice che quella combattuta nel ’43 era una guerra in cui gli occupanti nazisti e i fascisti loro alleati uccidevano chi tentava di resistere, deportavano gli ebrei, sfogavano contro la popolazione civile il loro risentimento contro l’Italia che li aveva traditi. Combattere contro di loro richiedeva il coraggio di rischiare la vita e la passione di chi riusciva ancora a credere nella possibilità di un mondo migliore. È in questo contesto che l’attentato di Via Rasella va ricordato come un atto dello stesso valore di quello portato avanti dai liberatori che erano sbarcati in Italia e sarebbero sbarcati in Normandia perché erano stati i nazifascisti a volere la guerra e perché solo con atti di guerra era possibile sconfiggerli.
L’esecrazione del ricordo dovrebbe restare confinata, per chi ha rispetto della Storia, alla rappresaglia di Kappler non all’attentato di Sasà cui vigliaccamente ora Storace, noto difensore del boia nazista, ha dato dell’“assassino”. Io di Sasà, che ho avuto la fortuna di conoscere insieme a Carla, ricordo l’innocenza e il sorriso che non ho mai visto sulla faccia di Kappler e di Storace: il sorriso di chi sa di aver fatto ciò che era giusto fare.