[...] Il magistrato che partecipa al dibattito politico fa politica? Certo che la fa. Deve fare politica. Sono stupefatto che questo non venga capito, o si dica di non capirlo. D’accordo che tutti possono intervenire e dire la loro? Magistratura democratica è nata per smascherare il dogma ipocrita della neutralità e apoliticità della giurisdizione, dietro cui si è mimetizzato a lungo il rapporto organico fra magistratura e classe politica, della quale soprattutto i vertici della magistratura furono, per decenni e decenni, una vera e propria articolazione. Ed è soprattutto grazie a Magistratura democratica che la magistratura tutta è cresciuta, acquisendo sempre maggiore consapevolezza del proprio ruolo sociale e della necessità di partecipare al dibattito politico su questioni cruciali [...]
Ingroia: «Ma i magistrati possono parlare?»
La parola del magistrato. È opportuno dopo qualche settimana tornare sulle critiche a me rivolte da Magistratura democratica
di Antonio Ingroia (l’Unità, 17.10.2012)
A DISTANZA DI QUALCHE SETTIMANA DAL COMUNICATO CON IL QUALE L’ESECUTIVO DI MAGISTRATURA DEMOCRATICA, PUR SENZA MAI NOMINARMI, ha stigmatizzato alcune mie pubbliche esternazioni, e quindi ad animi meno accalorati dalla polemica, credo possa essere utile una riflessione collettiva sullo stato di salute di un diritto di libertà costituzionale, che merita in quanto tale di essere difeso ad ogni costo e da chiunque. Il diritto di parola di ogni cittadino, e quindi anche del cittadino-magistrato.
Di questo e solo di questo vorrei discutere, e perciò preferisco sorvolare su certe espressioni verbali di rara violenza e asprezza contro di me, e perfino offensive, contenute in quel comunicato. Per non cadere nel gioco delle repliche e delle controrepliche, tipiche della politica gridata di questi ultimi tempi. A costo di apparire acquiescente verso certe accuse. Ma qui la posta in gioco non è una vicenda personale, perché, a mio modo di vedere, lo stato di salute di questo sacrosanto diritto di libertà, così come quello di altri diritti, è davvero preoccupante.
Perché dico questo? Perché, da una parte, sembra prevalere una certa dose di ipocrisia quando si ribadisce a parole ed in linea di principio il diritto di tutti i cittadini, magistrati compresi, di partecipare al dibattito politico su certi temi, quanto meno quelli inerenti alla materia professionale di ciascuno (il magistrato che parla di giustizia e diritti, il medico che parla di politica della sanità, l’insegnante che parla di riforma della scuola), e dall’altra cresce l’intolleranza verso il pensiero critico quando il diritto, pur riconosciuto a parole, viene negato quando usato per interventi forti o in contesti ritenuti aprioristicamente «sbagliati», impropri o inopportuni.
UN DIRITTO DI LIBERTÀ COSTITUZIONALE
Ma, mi chiedo, se il magistrato ha il diritto di partecipare al dibattito sui temi della giustizia e dell’antimafia, dove dovrebbe svolgere le sue analisi, eventualmente denunciando i limiti della politica antimafia, se non interloquendo proprio con la politica in convegni eventualmente organizzati anche da partiti, o in congressi di partito nei quali sia dedicato uno specifico spazio alla difesa dei diritti e della Costituzione? E di cosa dovrebbe parlare un pm antimafia? Non è un’ipocrisia riconoscergli a parole il diritto di partecipare al dibattito politico per poi precludergli i luoghi, i temi e i toni che rendono più efficace il discorso politico?
Il magistrato che partecipa al dibattito politico fa politica? Certo che la fa. Deve fare politica. Sono stupefatto che questo non venga capito, o si dica di non capirlo. D’accordo che tutti possono intervenire e dire la loro? Magistratura democratica è nata per smascherare il dogma ipocrita della neutralità e apoliticità della giurisdizione, dietro cui si è mimetizzato a lungo il rapporto organico fra magistratura e classe politica, della quale soprattutto i vertici della magistratura furono, per decenni e decenni, una vera e propria articolazione. Ed è soprattutto grazie a Magistratura democratica che la magistratura tutta è cresciuta, acquisendo sempre maggiore consapevolezza del proprio ruolo sociale e della necessità di partecipare al dibattito politico su questioni cruciali.
Arrivarono gli anni ’80 e l’azione della magistratura siciliana più impegnata sul fronte antimafia non rimase confinata nelle aule giudiziarie. Al punto che Paolo Borsellino, un grande magistrato, ma non certo tra i fondatori di Magistratura democratica, in pubblici dibattiti denunciava che il nodo della lotta alla mafia era prevalentemente «politico». E forse Paolo Borsellino in quel periodo non conduceva delicatissime indagini anche sulle collusioni con la mafia di potenti e politici siciliani?
E dove diceva queste cose Borsellino? Era il 22 giugno del 1990 quando a Roma, Borsellino, partecipando ad un dibattito organizzato dal gruppo parlamentare del Msi, provocatoriamente intitolato «Stato e criminalità organizzata: chi si arrende?», denunciò che lo Stato non si era «arreso» per il semplice fatto che per potersi arrendere avrebbe dovuto almeno tentare di combattere contro la mafia, cosa mai avvenuta perché non c’era mai stata una «seria intenzione di combattere la criminalità mafiosa».
Borsellino diceva queste cose mentre si occupava di delicatissime indagini e in un’iniziativa organizzata da un partito di opposizione che della lotta alla mafia e alla corruzione faceva una sua battaglia politica. Qualcuno accusò, forse, Borsellino di parole eccessive o di presenze inopportune in luoghi della politica? Ovviamente, no.
Occorre altra dimostrazione per rendersi conto di quanto siamo arretrati in questi ultimi vent’anni, se le mie denunce hanno provocato più clamori per le modalità delle mie esternazioni, anziché per le cose che ho denunciato in tema di ritardi nella lotta alla mafia e nella tutela dei diritti?
Così è stato quando, al congresso del Partito dei comunisti italiani, invitato a dire la mia su diritti e Costituzione, ho svolto la mia analisi sulla crisi della Costituzione, i cui valori fondanti e propulsivi invece che esaltati sono stati sottoposti sotto assedio, dichiarandomi pronto a difenderla con l’espressione intenzionalmente enfatica «partigiano della Costituzione». E per questo sono finito sotto accusa.
Possibile credere seriamente che il solo fatto che prima del mio vi fossero stati interventi dichiaratamente «comunisti» ed evidentemente schierati riuscisse ad «appannare» la mia imparzialità? Ma cosa c’entra? La mia imparzialità processuale va verificata sul campo, sul terreno della mia attività professionale.
E sfido chiunque ad accusarmi di partigianeria partitica nell’esercizio delle mie funzioni. Altra e ben diversa cosa è la neutralità culturale. Sui valori non sono affatto neutrale. Sto dalla parte della Costituzione e dei suoi valori più avanzati.
Analoghi equivoci si sono ingenerati quando alla festa de Il Fatto alla Versiliana, invitato a partecipare ad un dibattito a più voci sulla stagione delle stragi, ho parlato del necessario cambio di classe dirigente e sono stato accusato di aver fatto un discorso di sapore pre-elettorale, quando invece basta ascoltare su internet la registrazione del mio intervento la mia conclusione era solo il frutto di un’amara analisi del fenomeno mafioso e di una politica antimafia inadeguata perché spesso ispirata dal sentimento di convivenza con la mafia.
Per spiegare all’opinione pubblica, spesso abbagliata dall’immagine mitizzata ed ingannevole di una «magistratura salvifica», che la mafia non potrà essere mai sconfitta per via giudiziaria, ma solo attraverso un profondo rinnovamento del modo di relazionarsi coi poteri criminali da parte della nostra classe dirigente.
È tanto scandaloso dire questo? Forse sì, nella misura in cui smaschera i soliti luoghi comuni della mafia «coppole e pizzo» e della comoda scorciatoia della delega alla magistratura della lotta alla mafia.
LA DENUNCIA DI BORSELLINO
Per il resto, ho detto cose che ritengo banali e ovvie, come è banale e ovvio dire di sentirsi partigiani della Costituzione. Ma nell’Italia di oggi, dopo anni di omologazione cultural-televisiva, l’ovvio e il banale fanno scandalo, altro sintomo del grave arretramento politico-culturale del Paese. E forse un pm antimafia non ha più diritto a dire queste cose. Non si può più parlare delle relazioni indicibili della classe dirigente con i ceti criminali del nostro Paese? E quindi della necessità di cambiare la classe dirigente per avviare una più efficace lotta alla mafia?
Poteva dirlo Paolo Borsellino negli anni ’90 e non si può più oggi? Io credo che ne avesse diritto egli allora e noi oggi, e ne avrebbero il dovere tutti, compresi quelli che credono, in buona fede, si debba tacere. Perché con la loro parola eviterebbero di sovraesporre i pochi che esercitano il diritto di parola. Con l’aria pesante che tira, sempre più pochi, pochissimi.
C’è di che essere davvero preoccupati se il pm antimafia che partecipa al dibattito sulla mafia viene accusato di «approfittare» delle sue conoscenze, quando invece andrebbe da tutti rivendicato il diritto di usarle, farle fruttare, mettendole a disposizione della comunità attraverso il pubblico dibattito. Così, oltretutto, sottraendosi ad ogni forma di acquiescenza alle più gravi semplificazioni e mistificazioni che sulla materia imperano.
LA VERITÀ SULLO STRAGISMO MAFIOSO
È con questo spirito che, in quella stessa occasione, ho stimolato la politica e i cittadini a fare tutto ciò che ciascuno può e deve per l’affermazione della verità sulle stagioni buie della nostra storia, a cominciare da quella più buia e vicina (quella dello stragismo mafioso del 1992-1993).
Ma ancora una volta mi si è detto che non avrei dovuto farlo per le interferenze col mio ruolo di pm, perché sarebbe come invocare il consenso per le indagini da me svolte, così favorendo il formarsi di verità preeconfezionate in contesti impropri che potrebbero negativamente influenzare le future decisioni giudiziarie.
Ma qui il consenso alle indagini non c’entra proprio nulla, ed ho troppo stima per l’autonomia e indipendenza di giudizio della magistratura per pensare che possano determinarsi simili impatti perversi dell’opinione pubblica.
Semmai, sarebbe meglio preoccuparsi dell’effetto disorientante sull’opinione pubblica di certe campagne di stampa di disinformazione che in questi mesi, con notizie false artatamente diffuse, ha cercato di creare un’opinione pubblica ostile all’indagine e alla magistratura inquirente.
Sicché, è divenuto talvolta doveroso precisare certi fatti obiettivi per rettificare alcune falsità circolate sulla stampa e dall’altro lato sollecitare l’opinione pubblica ad una partecipazione al dibattito nel Paese sulle verità difficili su certe stagioni cruciali della nostra storia, sollecitando il costruirsi di verità storiche e politiche, in sedi diverse da quelle giudiziarie, per ripristinare i presupposti di una verità condivisa sul nostro recente passato.
Vietato anche questo? Ed ancora, si è detto essere pericoloso sollecitare la gente a fare il tifo per la magistratura. Io personalmente non l’ho mai sollecitato, ma sarebbe bene ricordare che l’espressione non è stata certamente mia, bensì di Borsellino che, dopo la morte di Falcone, ne ricordò un’espressione che in un momento di difficoltà rievocava che nel momento d’oro del pool c’era stato un movimento antimafia che aveva supportato l’azione della magistratura siciliana.
Il che non significava, ovviamente, che Falcone auspicasse una pressione dell’opinione pubblica per ottenere sentenze di condanna a furor di popolo. Anzi, le difficoltà incontrate da Falcone e Borsellino sono la dimostrazione che le loro indagini non furono mai né facili né popolari, come non lo sono state neppure quelle della Procura di Palermo in anni più recenti. E Falcone aveva ben presente che «si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno».
D’altra parte, si sostiene che a certe manifestazioni non si dovrebbe partecipare perché il magistrato non solo deve essere imparziale, ma anche apparirlo. Giusto. Però, anche su questo versante si rischia di andare verso una china pericolosa. Intendiamoci: è vietata l’iscrizione ai partiti politici ed è inopportuno partecipare a manifestazioni di tipo elettorale, ci mancherebbe.
Ma inseguendo ad oltranza l’apparenza di imparzialità non si sa dove andiamo a parare. Dovrò forse stare attento alla par condicio nei giornali che compro, perché se il mio giornalaio dovesse raccontare quali quotidiani leggo, trasparirebbe cosa io penso e quali potrebbero essere le mie idee politiche? E devo stare attento ai film che vado a vedere al cinema? E magari anche nella scelta degli amici devo evitare di frequentare chi ha idee politiche troppo schierate?
Insomma, anche sull’argomento dell’apparenza di imparzialità prevale molta ipocrisia. Lo stesso mi pare valga in riferimento alla partecipazione alle feste di partito o di giornali, quali che siano gli indirizzi del partito e del giornale, non necessariamente condivisi da chi vi partecipa. Se vieni invitato ad un dibattito su un tema concernente la tua attività professionale hai il diritto a parteciparvi senza temere che la tua sola presenza sia interpretata come fiancheggiamento alle posizioni politiche di quel giornale o di quel partito.
Ho partecipato alla feste de Il Fatto e de l’Unità che su molte cose hanno posizioni diverse. Sarei schizofrenico se la mia partecipazione equivalesse a sostegno delle une e delle altre. E quando ho rilasciato un’ampia intervista al direttore di Libero, significava forse un mio sostegno ad una testata giornalistica che ho a volte citato per danni per certi articoli che ho ritenuto diffamatori? Questo modo di ragionare, secondo schemi di schieramento militante, per cui si va solo dai giornali amici (amici di chi? quali?), sicché, se vai alla manifestazione di un certo giornale significa che ne sostieni la linea, ci porta su una china pericolosissima, di progressivo soffocamento di diritti di libertà sacrosanti.
ARRETRAMENTO CULTURALE
Vogliamo tornare alla vecchia idea del magistrato governativo, non più buono se partecipa a dibattiti organizzati da partito o giornali di opposizione, perché non più imparziale? Spero proprio che non si debba arrivare a tanto.
Ma c’è di che essere preoccupati perché oggi troviamo su certe posizioni non soltanto ambienti conservatori, ma perfino luoghi dell’elaborazione politico-intellettuale dove si è formato un modello nuovo e aperto di magistratura, un modello di magistrato costituzionale, imparziale nella funzione ma non neutrale nelle opzioni valoriali, un magistrato che sa comunicare con la società, che spiega, che si mette in discussione, che argomenta, e che sa interloquire con la politica, tutta e dappertutto, dialogando e criticando, e mantenendo integra la sua autonomia e indipendenza di pensiero e di giudizio.
Senza collateralismi con nessuno, né cedendo all’omologazione e alla compressione dei diritti politici. Possibile non rendersi conto dell’arretramento politico-culturale di questi ultimi anni? Possibile non rendersi conto che la mia sovraesposizione non è nata dall’esasperata ricerca di palchi mediatici, ma dall’esasperato sottrarsi degli altri, di chi, entrato in stato di soggezione, è rimasto vittima di una progressiva autocensura, che al pur nobile fine di togliere argomenti all’avversario non ha fatto altro che regalargli praterie.
Giocare sempre in difesa sa già di sconfitta. E infatti, di contenimento in contenimento, si sta perdendo il gusto di esercitare i propri diritti di libertà. Andiamo sempre di più verso il declino dei diritti con la nostra stessa complicità, con la complicità delle parti più consapevoli e sensibili a certi temi. Mentre nel Paese infuria la corruzione sistemica e i sistemi criminali si integrano e si rafforzano, compenentrandosi con la classe dirigente, è ora di svegliarsi dal torpore, altrimenti il risveglio sarà brusco e tardivo.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GIOVANNI FALCONE, PAOLO BORSELLINO, ANTONINO CAPONNETTO. UN URLO PER L’ITALIA E PER LA COSTITUZIONE
FALCONE, BORSELLINO, E IL NOME DELL’ITALIA (NELLE MANI DI UN PRIVATO E DI UN PARTITO).
IL SONNO MORTIFERO DELL’ITALIA. In Parlamento (ancora!) il Partito al di sopra di tutti i partiti.
Una legge vera contro i corrotti
di Barara Spinelli (la Repubblica, 17 ottobre 2012)
Se il ministro Severino davvero pensa che siamo davanti a una seconda Tangentopoli, e a crimini ancora più devastanti perché «lucrare sul denaro pubblico mentre ai cittadini vengono chiesti sacrifici è di una gravità inaudita», allora bisogna che subito, senza dar tempo al tempo, il governo metta ai voti una legge contro la corruzione: una legge che impedisca questo delinquere che imperversa sfacciatamente, e che non è una seconda Tangentopoli ma un’unica storia criminale, che indisturbata persiste da vent’anni e perfino cresce.
Se gravità inaudita vuol dire qualcosa - inaudito è ciò di cui prima non s’era udito parlare, mai esistito - serve un’azione che sia all’altezza del responso: anch’essa inaudita, ha da essere un farmaco senza precedenti. Non devono più esistere un Parlamento, un Consiglio regionale, una Provincia nei quali nuotino squali: politici navigati e novizi, anziani e giovani, uomini di partito o d’affari, che si arricchiscono togliendo soldi a un’Italia impoverita. Che addirittura, come a Milano, negoziano con la ’ndrangheta prebende, voti, posti, spartendo con lei i beni e il dominio della pòlis.
Paola Severino ha detto, giorni fa: «Ce lo chiede l’Europa ». È una frase che non andrebbe neanche pronunciata, perché questo sì è perdere sovranità e massima umiliazione. Possiamo delegare all’Europa parte della politica economica; non la nostra coscienza, la capacità di distinguere tra bene e male, lecito e illecito. È come se dicessimo che, bambini senz’ancora uso della ragione, non capiamo bene cosa sia il Decalogo (settimo comandamento compreso) e lo depositiamo nel grembo dell’Europa-genitore. A chi tentenna in Parlamento, e mercanteggia per salvare brandelli di impunità, il governo dovrebbe dire che sono gli italiani a esigere quel che già Eraclito riteneva imperativo: combattere per la legge come per le mura della città.
Se il governo avesse dimenticato cosa pensano gli italiani, guardi ai 300.000 cittadini che hanno firmato la petizione di Repubblica, perché giustizia sia fatta: hanno firmato non per una legge abborracciata ma per un nuovo inizio, per una scossa autentica. Osi riconoscere che questa non è Tangentopoli-2. È Tangentopoli mai interrotta; sta travolgendo istituzioni cruciali; è sfociata, a Nord, in un patto fra organi di Stato e mafie che non è più un episodio passato indagato dai giudici, ma un presente che ci avviluppa e uccide lo Stato.
Non è chiaro se l’esecutivo dei tecnici sia consapevole di questa domanda che sale dal basso. Se si renda conto dell’urgenza di una questione morale divenuta nel frattempo antropologica, economica, politica: biografia di una nazione, nauseante per tanti. L’impressione che dà è strana, più ancora della maggioranza che lo sorregge.
Da settimane i governanti avanzano, indietreggiano, ogni tanto alzando la voce ma non la mano che intima l’altolà della sentinella. Sono puntigliosamente determinati quando parlano di conti, tasse. Paiono animati da una sorta di divina indifferenza all’immoralità che regna nella cosa pubblica, a una cultura dell’illegalità che in Lombardia secerne antichi connubi fra borghesia imprenditoriale, Stato, poteri pseudoreligiosi come Comunione e Liberazione. Poteri assecondati da una Chiesa che solo in apparenza ha smesso l’ingerenza politica dopo il crollo della Dc; che tollera o sostiene certi affarismi della Compagnia delle opere e certi patteggiamenti con le cooperative rosse. Che tace sull’infiltrazione, nel connubio, della criminalità organizzata.
La vera sovranità da resuscitare è questa: lo Stato che riconquisti il territorio, e non permetta che gli sfuggano di mano roccaforti decisive (Lazio, Sicilia, Lombardia). È un secondo Risorgimento e una seconda Liberazione di cui abbiamo bisogno.
Già è stato troppo accontentato, il partito nato come Forza Italia non per superare Tangentopoli, ma per poterla più perfettamente perpetuare. La legge non reintroduce il falso in bilancio, svuotato da Berlusconi nel 2002: eppure il crac del San Raffaele cominciò proprio così. Non contempla un reato essenziale, l’autoriciclaggio: punito in gran parte d’Europa; reclamato, prima che da Bruxelles, dalla Banca d’Italia. Pietro Grasso, Procuratore nazionale antimafia, lo ripete dal 2010: la non punibilità dell’autoriciclaggio “frena le indagini, non consente di indagare su quanti, avendo commesso un reato, utilizzano i proventi del denaro sporco per investirlo in attività lecite e turbare l’economia”. Punirlo è “necessità assoluta”, ma - ha detto nel settembre scorso - «di tale necessità non riusciamo a convincere il legislatore».
Lo stesso dicasi per il voto di scambio: nella legge è punibile se il politico lo paga in denaro, non se lo compra con assunzioni, appalti favori. Sul Corriere, Luigi Ferrarella ne deduce che Domenico Zambetti, l’assessore della Regione Lombardia arrestato con l’accusa di aver comprato 4000 voti dalla ’ndrangheta, «non sarebbe neppure indagato per voto di scambio, se non avesse pagato in denaro».
Troppe omissioni, nella legge presente, troppi favori: non è la muraglia di Eraclito. Sono elencati crimini punibili solo in teoria - traffico di influenze, concussione - visto che i trasgressori rischiano pene talmente ridotte che prestissimo otterranno la prescrizione. C’è poi il divieto di candidarsi, se sei condannato per corruzione con sentenza definitiva. Ma non si sa se il divieto scatti subito, e l’idea stessa della sentenza definitiva ha qualcosa di scandaloso. Perché resti candidabile dopo la prima, la seconda condanna? Un deputato, un assessore, un governatore, un sottosegretario sono presunti innocenti sino al terzo grado di giudizio, come ogni cittadino. Ma non sono cittadini qualsiasi. Dovendo dare l’esempio, hanno più obblighi: lo Stato non può esser affidato a onesti presunti.
La nomina di Monti voleva rappresentare una rottura anche morale, rispetto ai predecessori. Accennando alla lotta anticorruzione, il Presidente del consiglio ha denunciato «l’inerzia, comprensibile ma non scusabile, di alcune parti politiche». Perché comprensibile? Perché questa deferenza verso parti politiche che non ci si azzarda nemmeno a nominare? Il rischio è che così facendo, l’esecutivo faccia il notaio delle stesse inerzie che critica. Che non trovi il coraggio di forzare il varo di una legge seria. Chi non è d’accordo va messo davanti all’opinione pubblica: dica a voce alta che vuole una storia italiana fondata su corruzione e mafie in espansione.
Non basta più essere esperti di spread, davanti a quel che accade. Non basta presentare l’evasione come nuovo discrimine di civiltà, se castigati sono i piccoli negozianti e non gli squali. Occorre lo sguardo tragico e lungo dello storico, non solo sugli ultimi vent’anni. Occorre rileggere quel che Pietro Calamandrei scrisse fin dal 1946, appena un anno dopo la Liberazione: lo spirito della Resistenza già era deperito, se per resistenza s’intende «la ribellione di ciascuno contro la propria cieca e dissennata assenza », e «la sete di verità, di presenza, di fede nell’uomo».
Già allora s’intuiva il disfacimento, e il pericolo non era «nel ritorno del fascismo: era in noi». Era nella rinascita del disgusto della politica che aveva dato le ali a Mussolini; nel «desiderio di appartarsi, di lasciare la politica ai politicanti». Oggi come ieri, è nell’attrazione esercitata da capipopolo dai nomi esoterici: Belzebù, Cavaliere, Celeste, e chissà come designeremo i prossimi. Calamandrei chiamò questo disgusto desistenza, contrapponendola alla tuttora necessaria resistenza. Non più eroica, ma pur sempre resistenza: «resistenza in prosa».
È tardi per simile resistenza? Non è tardi mai per divenire adulti, e sovrani nella coscienza. Per difendere le mura della legge e le sue sentinelle, come si difendono le mura della città
Sconto per Berlusconi, Penati e P4
E la chiamano Anticorruzione
Il Ddl passa con la fiducia al Senato. Severino: Il falso in bilancio è fuori tema
di Caterina Perniconi (il Fatto 18.10.2012)
Sulla volta che sovrasta l’aula del Senato sono affrescate le personificazioni della Giustizia, del Diritto, della Fortezza e della Concordia. Ogni tanto ieri il Guardasigilli Paola Severino alzava gli occhi e le osservava. Forse pensando che la sua legge anticorruzione avrebbe dovuto avere a che fare più con i primi tre che con la quarta. E invece, per assecondare la pace tra i membri di una “strana” maggioranza bipartisan, a vincere è stata l’ultima.
Quando si è issata in piedi per esprimere il parere del governo dopo un’ora e mezzo di dibattito, il ministro ha chiesto conto ai parlamentari delle mancanze di questa legge: “Anch’io appartenevo ad una categoria di grilli parlanti, ogni legge che usciva la mia critica era pronta, era forte. Ma bisogna passare qui dentro per capire la fatica che c’è dietro ogni provvedimento, la necessità di conquistarsi la fiducia di tutti su ciò che si propone”.
Una fiducia raggiunta solo dopo riduttivi compromessi. Il provvedimento che dovrebbe aiutare lo Stato a recuperare 60 miliardi l’anno introduce maggiore trasparenza, impedisce ai condannati per mafia di ricevere appalti pubblici e crea l’Authority anticorruzione. Ma non ripristina il falso in bilancio, non accorcia i tempi dei processi né allunga quelli della prescrizione (men che meno abolisce la ex Cirielli). Tutti i temi su cui il Pdl ha alzato le barricate. Inoltre depenalizza il reato di concussione per induzione, offrendo un “aiutino” ai processi di Filippo Penati (aree Falck) e Silvio Berlusconi (caso Ruby). Lo stesso reato ha a che fare anche con i casi P4 (Papa), sanità pugliese (Tarantini), nomine Asl (Tedesco).
“SO PERFETTAMENTE che il falso in bilancio, l’autoriciclaggio e il tema della prescrizione rappresentano mondi che stanno intorno alla corruzione e che ne condizionano le possibilità di scoperta e di punizione” ha dichiaratolaSeverino, “sonolepremesse della corruzione: il falso in bilancio serve per nutrire di denaro nero la corruzione; l’auto-riciclaggio rappresenta la parte postuma, ciò che si fa con il denaro”. Ma“ireatisatellitenondevono diventare la tomba del ddl” ha chiarito. In realtà sono strumenti fondamentali ai quali gli inquirenti non potranno ricorrere nonostante l’Europa ci chieda di adeguarci dagli anni ’90. “La riforma dei reati societari ci deve essere - ha continuato il ministro -manonnelprovvedimentosulla corruzione, perché lo affollerebbe”. Non lo affollano invece le numerose clausole sui magistrati fuori ruolo.
La regolamentazione chiesta dalla Camera con l’emendamento del deputato Pd Roberto Giachetti è stata stravolta. Il 2,6% dei togati che hanno un alto incarico nelle amministrazioni potranno usufruire di speciali eccezioni per preservare il loro ruolo. Alla fine della sua arringa Severino ha chiesto la fiducia, che è stata votata dopo sei ore. Per lei solo il tempo di un pranzo veloce, di cambiarsi una delle sette camicie sudate per trovare un accordo tra i partiti e di nuovo in aula. Ma di fronte ha trovato una platea scarsa.
C’erano solo 12 senatori del Pdl. A sinistra banchi più popolati ma nessuno pareva scontento. Tranne l’IdV, che ha votato contro la legge “per l’impossibilità di modificarla” e Giovanardi, secondo cui “i fenomeni di corruttela aumenteranno con l’introduzione di funzionari ad hoc in ogni comune che dovranno controllare persino gli amici e i parenti”.
IL CALCOLO È FINITO con 228 favorevoli, 33 contrari e 2 astenuti, una delle fiducie più basse registrate da questo governo che, come ha detto Mario Monti, “ci ha messo la faccia”. Ora dovrà fare i conti con un nuovo rinvio del provvedimento alla Camera.
Nonostante gli auspici a “fare presto” non c’è da sottovalutare il parere del Csm richiesto dalla Severino sulla legge, atteso per la prossima settimana. Difficile che l’organo di autogoverno della magistratura non faccia rilievi su un provvedimento imperfetto. E come faranno a quel punto i deputati a non recepirli? Solo dopo l’approvazione definitiva scatterà l’impegno del governo a scrivere la delega sull’incandidabilità dei condannati in Parlamento.
Un altro compromesso con la politica: la norma prevede infatti che non potranno partecipare alle elezioni i condannati in via definitiva a una pena oltre i due anni per i reati contro la pubblica amministrazione, a tre negli altri casi. Peccato che l’87% dei corrotti ne patteggia meno di due e può andare dritto a premere un bottone sotto la volta di Palazzo Madama, ringraziando la Dea Concordia.