UNA PREGHIERA LAICA MA FERVENTE
di Antonino CAPONNETTO*
Queste sono le parole di un vecchio ex magistrato che e’ venuto nello spazio di due mesi due volte a Palermo con il cuore a pezzi a portare l’ultimo saluto ai suoi figli, fratelli e amici con i quali ho diviso anni di lavoro di sacrificio di gioia, anche di amarezza. Soltanto poche parole per un ricordo, per un doveroso atto di contrizione che poi vi diro’ e per una preghiera laica ma fervente.
Il ricordo e’ per l’amico Paolo, per la sua generosita’, per la sua umanita’, per il coraggio con cui ha affrontato la vita e con cui e’ andato incontro alla morte annunciata, per la sua radicata fede cattolica, per il suo amore immenso portato alla famiglia e agli amici tutti. Era un dono naturale che Paolo aveva, di spargere attorno a se’ amore. Mi ricordo ancora il suo appassionato e incessante lavoro, divenuto frenetico negli ultimi tempi, quasi che egli sentisse incombere la fine. Ognuno di noi e non solo lo Stato gli e’ debitore; ad ognuno di noi egli ha donato qualcosa di prezioso e di raro che tutti conserveremo in fondo al cuore, e a me in particolare mancheranno terribilmente quelle sue telefonate che invariabilmente concludeva con le parole: "Ti voglio bene Antonio" ed io replicavo "Anche io ti voglio bene Paolo".
C’e’ un altro peso che ancora mi opprime ed e’ il rimorso per quell’attimo di sconforto e di debolezza da cui sono stato colto dopo avere posato l’ultimo bacio sul viso ormai gelido, ma ancora sereno, di Paolo. Nessuno di noi, e io meno di chiunque altro, puo’ dire che ormai tutto e’ finito.
Pensavo in quel momento di desistere dalla lotta contro la delinquenza mafiosa, mi sembrava che con la morte dell’amico fraterno tutto fosse finito. Ma in un momento simile, in un momento come questo coltivare un pensiero del genere, e me ne sono subito convinto, equivale a tradire la memoria di Paolo come pure quella di Giovanni e di Francesca.
In questi pochi giorni di dolore trascorsi a Palermo che io vi confesso non vorrei lasciare piu’, ho sentito in gran parte della popolazione la voglia di liberarsi da questa barbara e sanguinosa oppressione che ne cancella i diritti piu’ elementari e ne vanifica la speranza di rinascita. E da qui nasce la mia preghiera dicevo laica ma fervente e la rivolgo a te, presidente, che da tanto tempo mi onori della tua amicizia, che e’ stata sempre ricambiata con ammirazione infinita. La gente di Palermo e dell’intera Sicilia, ti ama presidente, ti rispetta, e soprattutto ha fiducia nella tua saggezza e nella tua fermezza. Paolo e’ morto servendo lo Stato in cui credeva cosi’ come prima di lui Giovanni e Francesca. Ma ora questo stesso Stato che essi hanno servito fino al sacrificio, deve dimostrare di essere veramente presente in tutte le sue articolazioni, sia con la sua forza sia con i suoi servizi. E’ giunto il tempo, mi sembra, delle grandi decisioni e delle scelte di fondo, non e’ piu’ l’ora delle collusioni degli attendismi dei compromessi e delle furberie, e dovranno essere, presidente, dovranno essere uomini credibili, onesti, dai politici ai magistrati, a gestire con le tue illuminate direttive questa fase necessaria di rinascita morale: e’ questo a mio avviso il primo e fondamentale problema preliminare ad una vera e decisa lotta alla barbarie mafiosa. Io ho apprezzato le tue parole, noi tutti le abbiamo apprezzate, le tue parole molto ferme al Csm dove hai parlato di una nuova rinascita che e’ quella che noi tutti aspettiamo, e laddove anche con la fermezza che ti conosco hai giustamente condannato, censurato, quegli errori che hanno condotto martedi’ pomeriggio a disordini che altrimenti non sarebbero accaduti perche’ nessuno voleva che accadessero.
Solo cosi’ attraverso questa rigenerazione collettiva, questa rinascita morale, non resteranno inutili i sacrifici di Giovanni, di Francesca, di Paolo e di otto agenti di servizio. Anche a quegli agenti che hanno seguito i loro protetti fino alla morte va il nostro pensiero, la nostra riconoscenza, il nostro tributo di ammirazione. Tra i tanti fiori che ho visto in questi giorni lasciati da persone che spesso non firmavano nemmeno il biglietto come e’ stato in questo caso, ho visto un bellissimo lilium, splendido fiore il lilium, e sotto c’erano queste poche parole senza firma: "Un solo grande fiore per un solo grande uomo solo". Mi ha colpito, presidente, questa frase che mi e’ rimasta nel cuore e credo che mi rimarra’ per sempre.
Ma io vorrei dire a questo grande uomo, diletto amico, che non e’ solo, che accanto a lui batte il cuore di tutta Palermo, batte il cuore dei familiari, degli amici, di tutta la Nazione. Caro Paolo, la lotta che hai sostenuto fino al sacrificio dovra’ diventare e diventera’ la lotta di ciascuno di noi, questa e’ una promessa che ti faccio solenne come un giuramento.
* La "preghiera laica ma fervente" fu pronunciata da Antonino Caponnetto ai funerali di Paolo Borsellino il 24 luglio 1992 a Palermo, presente il Presidente della Repubblica Scalfaro (da: VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA. Supplemento settimanale del martedi’ de "La nonviolenza e’ in cammino" Numero 24 del 30 maggio 2006).
Foto: Palermo, la Nave della Legalità per ricordare Falcone (23.05.2007)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
ATTENTATO ALLA COSTITUZIONE? GIA’ FATTO!!! Un appello al Presidente Napolitano
EMERGENZA EDUCATIVA: TRADIMENTO DEGLI INTELLETTUALI.
L’UNITA’ D’ITALIA E IL PARLAMENTO "CON LA COPPOLA"
L’intervento del magistrato Antonio Ingroia all’ incontro “Tutti in piedi entra il lavoro” a Bologna (Youtube)
19 luglio 1992 - Strage di Via D’Amelio |
Politica
Stato-mafia, se trattativa c’è stata «non è un reato»
Ribaltando la sentenza di primo grado la Corte d’Assise d’appello di Palermo assolve l’ex senatore dell’Utri e gli ex ufficiali dei Ros
di Red. Int. (il manifesto, 24.09.2021)
ROMA. Se c’è stata una trattativa tra lo Stato e la mafia per mettere fine alle stragi dei primi anni ’90, non è un reato. Tre anni dopo la decisione con cui la Corte d’Assise di Palermo aveva accolto le richieste dell’accusa riconoscendo l’esistenza di un «patto scellerato» tra una parte delle istituzioni e i boss mafiosi, la Corte d’Assise d’appello del capoluogo siciliano capovolge quella sentenza e assolve gli uomini delle istituzioni. A partire dagli ex ufficiali dei Ros Mario Mori, Antonio Subranni, condannati in primo grado a 12 anni, e Giuseppe De Donno (8 anni), assolti con la formula perché il «fatto non costituisce reato» e dall’ex senatore di Forza Italia Marcello dell’Utri (12 anni in primo grado) «per non aver commesso il fatto». Confermate, invece, le condanne per il boss Leoluca Bagarella (27 anni invece dei 28 del primo grado) e del capomafia Nino Cinà (12 anni). Confermata anche la prescrizione delle accuse al pentito Giovanni Brusca.
«Sono soddisfatto e commosso. E’ un peso che ci togliamo. Il sistema giudiziario funziona», è stato il commento di Dell’Utri dopo la lettura della sentenza. Per l’avvocato Basilio Milo, che difende il generale Mori, «la sentenza stabilisce che la trattativa non esiste. E’ una bufala, un falso storico». Secco, invece, il commento del procuratore generale Giuseppe Fici: «Aspettiamo le motivazioni e leggeremo il dispositivo».
Per la procura di Palermo tra il 1992 e il 1993 gli uomini dello Stato avrebbero trattato con i vertici di Cosa nostra al fine di mettere fine alla stagione delle stragi cominciata con l’attentato ai giudici Falcone e Borsellino e proseguita poi con le bombe a Roma, Milano e Firenze. Sempre secondo l’accusa, rappresentata nel processo di primo grado dai pm Nino Di Matteo, Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia e Vittorio Teresi, «i carabinieri dei Ros avevano avviato una prima trattativa con l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, che avrebbe consegnato un ’papello’ con le richieste di Totò Riina per fermare le stragi». Accusa sempre respinta dagli imputati.
Diversa la posizione di Marcello Dell’Utri. Le accuse all’ex senatore di Forza Italia facevano riferimento al periodo del governo Berlusconi, ovvero il 1994. Secondo i pm, inoltre, il dialogo che gli ufficiali dei Ros, tramite Ciancimino e godendo di coperture istituzionali, avviarono con Cosa nostra avrebbe rafforzato i clan spingendoli a ulteriori azioni violente contro lo Stato. Sul piatto della trattativa, in cambio della cessazione delle stragi sarebbero state messe concessioni carcerarie ai mafiosi detenuti al 41 bis e un alleggerimento dell’azione di contrasto alla mafia.
Diverse, e di segno opposto, le reazioni. «Rispetto il giudizio dei magistrati - ha detto il sindaco di Palermo Leoluca Orlando - , tuttavia questa sentenza rischia di non diradare, anche in virtù di una sentenza di primo grado che ha messo in fila fatti inquietanti, le tante zone d’ombra su uno dei periodi più oscuri della nostra Repubblica e sul rapporto perverso tra mafia, politica e istituzioni che ha scandito a suon di bombe la storia italiana».
Soddisfazione per l’esito del processo d’appello è stata espressa invece sia da Matteo Renzi che da Matteo Salvini. Per il leader di Italia viva «oggi si scrive una pagina di storia giudiziaria decisiva. Viene condannato il mafioso e assolti i rappresentanti delle istituzioni. Ciò che i giustizialisti hanno fatto credere in talk show e giornali era falso: non c’è reato. Ha vinto la giustizia, ha perso il giustizialismo». Amaro, infine, il commento di Salvatore Borsellino: «In Italia non c’è giustizia», ha detto il fratello del giudice assassinato dalla mafia.
Trattativa Stato-mafia: assolti carabinieri e Dell’Utri
Pena ridotta al boss Bagarella, condannato il capomafia Cinà *
La corte d’assise d’appello di Palermo ha assolto al processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno e il senatore Marcello Dell’Utri, accusati di minaccia a Corpo politico dello Stato. In primo grado erano stati tutti condannati a pene severissime.
Dichiarate prescritte le accuse al pentito Giovanni Brusca. Pena ridotta al boss Leoluca Bagarella. Confermata la condanna del capomafia Nino Cinà.
Per Bagarella i giudici hanno riqualificato il reato in tentata minaccia a Corpo politico dello Stato, dichiarando le accuse parzialmente prescritte. Ciò ha comportato una lieve riduzione della pena passata da 28 a 27 anni. Confermati i 12 anni a Cinà. Gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno sono stati assolti con la formula perché il "fatto non costituisce reato", mentre Dell’Utri "per non aver commesso il fatto". Confermata la prescrizione delle accuse al pentito Giovanni Brusca. L’appello, nel corso del quale è stata riaperta l’istruttoria dibattimentale, è cominciato il 29 aprile del 2019. Nel corso del processo è uscito di scena, per la prescrizione dei reati, un altro imputato, Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo Vito, che rispondeva di calunnia aggravata all’ex capo della polizia Gianni De Gennaro e concorso in associazione mafiosa.
A rappresentare l’accusa in aula sono stati i sostituti procuratori generali Giuseppe Fici e Sergio Barbiera che hanno chiesto la conferma della sentenza di primo grado. Al termine del primo dibattimento, la Corte d’Assise aveva inflitto 28 anni a Bagarella, 12 a Dell’Utri, Mori, Subranni e Cinà e 8 a De Donno e Ciancimino. Vennero poi dichiarate prescritte le accuse rivolte al pentito Giovanni Brusca. Sotto processo, ma per il reato di falsa testimonianza, era finito anche l’ex ministro dell’interno Nicola Mancino che venne assolto. La Procura non presentò appello e quindi l’assoluzione diventò definitiva. Per la cosiddetta trattativa è stato, infine, processato separatamente e assolto, in abbreviato, l’ex ministro Dc Calogero Mannino. "Uomini delle istituzioni, apparati istituzionali deviati dello Stato, hanno intavolato una illecita e illegittima interlocuzione con esponenti di vertice di Cosa nostra per interrompere la strategia stragista.
La celebrazione del presente giudizio ha ulteriormente comprovato l’esistenza di una verità inconfessabile, di una verità che è dentro lo Stato, della trattativa Stato-mafia che, tuttavia, non scrimina mandanti ed esecutori istituzionali perché o si sta contro la mafia o si è complici. Non ci sono alternative", aveva detto l’accusa durante la requisitoria del processo d’appello, al termine della quale aveva chiesto la conferma di tutte le condanne del primo grado. Secondo i pm, il dialogo che gli ufficiali del Ros, tramite i Ciancimino e godendo di coperture istituzionali, avviarono con Cosa nostra durante gli anni delle stragi per interrompere la stagione degli attentati, avrebbe rafforzato i clan spingendoli a ulteriori azioni violente contro lo Stato. Sul piatto della trattativa, in cambio della cessazione delle stragi, sarebbero state messe concessioni carcerarie ai mafiosi detenuti al 41 bis e un alleggerimento nell’azione di contrasto alla mafia. Il ruolo di Mori e i suoi, dopo il ’93, sempre nella ricostruzione dell’accusa, sarebbe stato assunto da Dell’Utri che nella sentenza di primo grado venne definito "cinghia di trasmissione" tra i clan e gli interlocutori istituzionali.
"E’ un film, una cosa inventata totalmente - dice Marcello Dell’Utri, in una telefonata con Bruno Vespa a Porta a Porta -. Io questo processo non l’ho neanche seguito. Mi sono sentito quando sono andato a Palermo all’udienza come un turco alla predica, non capivo di cosa stessero parlando. Questa cosa era inesistente però purtroppo avevo paura che potessero avallare queste cose inventate servendosi dei soliti pentiti che hanno bisogno di dire cose per avere vantaggi, e di molta stampa che affianca le procure e soprattutto la procura di Palermo. Questo mi preoccupava, ma speravo intimamente nell’assoluzione".
"Non abbiamo mai dubitato dell’estraneità del Generale Mario Mori e degli ex ufficiali del Ros Antonio Subranni e Giuseppe De Donno alla vicenda per la quale per anni sono stati inchiodati e additati come traditori dello Stato. Questa sentenza ci obbliga ad una lettura radicale della narrazione di questi anni. La riforma della giustizia e in particolare la responsabilità civile sono una impellente necessità". Lo dichiarano Maurizio Turco e Irene Testa, Segretario e Tesoriere del Partito Radicale.
Mattarella: «Ragazzi, siate fieri dell’esempio di Falcone e Borsellino e ricordatelo sempre»
«A ventotto anni dalla strage di Capaci invio un saluto caloroso a tutti i giovani delle scuole coinvolti nel progetto “La nave della legalità”, che ricorda Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. E, con loro, Francesca Morvillo e gli agenti Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Rocco Dicillo, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi, Antonio Montinaro, Vito Schifani e Claudio Traina.
I due attentati di quel 1992 segnarono il punto più alto della sfida della mafia nei confronti dello Stato e colpirono magistrati di grande prestigio e professionalità che, con coraggio e con determinazione, le avevano inferto durissimi colpi, svelandone organizzazione, legami, attività illecite.
I mafiosi, nel progettare l’assassinio dei due magistrati, non avevano previsto un aspetto decisivo: quel che avrebbe provocato nella società. Nella loro mentalità criminale, non avevano previsto che l’insegnamento di Falcone e di Borsellino, il loro esempio, i valori da loro manifestati, sarebbero sopravvissuti, rafforzandosi, oltre la loro morte: diffondendosi, trasmettendo aspirazione di libertà dal crimine, radicandosi nella coscienza e nell’affetto delle tante persone oneste.
La mafia si è sempre nutrita di complicità e di paura, prosperando nell’ombra. Le figure di Falcone e Borsellino, come di tanti altri servitori dello Stato caduti nella lotta al crimine organizzato, hanno fatto crescere nella società il senso del dovere e dell’impegno per contrastare la mafia e per far luce sulle sue tenebre, infondendo coraggio, suscitando rigetto e indignazione, provocando volontà di giustizia e di legalità.
I giovani sono stati tra i primi a comprendere il senso del sacrificio di Falcone e di Borsellino, e ne sono divenuti i depositari, in qualche modo anche gli eredi.
Dal 1992, anno dopo anno, nuove generazioni di giovani si avvicinano a queste figure esemplari e si appassionano alla loro opera e alla dedizione alla giustizia che hanno manifestato.
Cari ragazzi, il significato della vostra partecipazione, in questa giornata, è il passaggio a voi del loro testimone.
Siate fieri del loro esempio e ricordatelo sempre».
Roma, 23/05/2020
* Fonte: Quirinale, 23.05.2020
Salvatore Borsellino: “A 27 anni dalla morte, ci restituiscono Paolo un pezzo alla volta”
di Rossella Guadagnini *
Lettera di Salvatore Borsellino al presidente della Commissione Antimafia Nicola Morra in risposta all’invito a presenziare alla cerimonia di desecretazione delle audizioni riguardanti Paolo Borsellino
Egregio Presidente Morra
ho riflettuto a lungo prima di decidere se accettare l’invito a presenziare alla cerimonia nella quale verranno desecretate le audizioni riguardanti Paolo Borsellino presso la Commissione Parlamentare Antimafia.
Ho riflettuto a lungo e ho poi deciso di non sottrarre nemmeno un’ora a mia figlia che pur in attesa del suo primo figlio ha deciso di affrontare la fatica del volo per essere in questi giorni a Palermo, insieme a me, a lottare per la memoria di suo zio, Paolo Borsellino e dei cinque ragazzi uccisi insieme a lui, Claudio, Agostino, Emanuela, Vincenzo ed Eddie Walter che ancora, a ventisette anni di distanza, aspettano Giustizia e Verità sulla strage di Via D’Amelio nella quale è stata spezzata la loro vita.
In quella strage mio fratello è stato ridotto ad un tronco carbonizzato senza più le gambe e le braccia, i pezzi di quei ragazzi sono stati raccolti uno ad uno e messi in delle scatole per poi essere identificati, separati e racchiusi in delle bare troppo grandi per quello che restava di loro.
Ora, a ventisette anni di distanza io non posso accettare che i pezzi di mio fratello, le parole che ha lasciate, i segreti di Stato che ancora pesano su quella strage vengano restituiti a me, ai suoi figli, all’Italia intera, ad uno ad uno.
È necessario che ci venga restituito tutto, che vengano tolti i sigilli a TUTTI i vergognosi segreti di Stato ancora esistenti e non solo sulla strage di Via D’Amelio ma su tutte le STRAGI DI STATO che hanno marchiato a sangue il nostro Paese.
È necessario che quella Agenda Rossa che è stata sottratta da mani di funzionari di uno Stato deviato e che giace negli archivi grondanti sangue di qualche inaccessibile palazzo, e non certo nel covo di criminali mafiosi, venga restituita alla Memoria collettiva, alla Verità e alla Giustizia.
Decine se non centinaia di persone, nei meandri e nelle segrete di questo Stato, ne sono certo, conoscono dove viene occultata questa Agenda, dove vengono occultate le ultime indagini, le ultime parole, gli ultimi pensieri di Paolo Borsellino.
Soltanto quando un rappresentante di questo Stato che ha lasciato crescere nel suo ventre un mostro capace di intavolare con l’Antistato, con gli assassini di Giovanni Falcone, una scellerata trattativa e sull’altare di questa trattativa ha sacrificato la vita di Paolo Borsellino, si presenterà in Via D’Amelio a portare non ipocrite corone di alloro, simboli di morte, ma quell’Agenda Rossa, allora e soltanto allora potrò avere pace.
Salvatore Borsellino
(19 luglio 2019)
Il Divo che commise il reato di associazione con la mafia
di Gian Carlo Caselli ( Il Fatto, 07.01.2019)
Subito dopo la morte di Falcone e Borsellino ho chiesto il trasferimento a Palermo. Ho avuto l’onore di guidare la procura di questa città per quasi sette anni. Nel contrasto all’ala militare di Cosa nostra i risultati sono stati imponenti: basti ricordare gli innumerevoli processi contro mafiosi “doc” conclusi con condanne per 650 ergastoli e un’infinità di anni di reclusione. Ma la mafia (tutti son bravi a dirlo, pochi a trarne le conseguenze sul piano investigativo) non è solo “coppola e lupara”. È anche complicità e collusioni assicurate da “colletti bianchi”. Ecco quindi vari processi contro imputati “eccellenti”. Fra gli altri Marcello Dell’Utri e Giulio Andreotti. Del primo (condannato in via definitiva a sette anni di reclusione) non si parla, se non quando vengon fuori i suoi problemi di salute. Del secondo è stata calpestata e fatta a pezzi la verità che emerge chiara dagli atti.
In primo grado c’è stata assoluzione, sia pure per insufficienza di prove. In Appello (mentre per i fatti successivi è stata confermata tale assoluzione) fino alla primavera del 1980 l’imputato è stato dichiarato colpevole, per aver commesso (sic!) il reato di associazione a delinquere con Cosa nostra. Il reato commesso è stato dichiarato prescritto, ma resta ovviamente commesso. La Cassazione ha confermato la sentenza d’appello e quindi anche la penale responsabilità dell’imputato fino al 1980. Processualmente è questa la verità definitiva ed irrevocabile. Ed è evidente che chi parla di “assoluzione” è fuori della realtà. Non esiste in natura, è una bestemmia la formula “assolto per aver commesso il reato”.
La corte d’Appello si è basata su prove sicure e riscontrate. Ad esempio, ha ritenuto provati due incontri del senatore con il “capo dei capi” di allora , Stefano Bontade, per discutere il caso di Pier Santi Mattarella, integerrimo capo della Dc siciliana, che pagò con la vita il coraggio di essersi opposto a Cosa nostra. La corte sottolinea tra l’altro che l’imputato ha “omesso di denunziare elementi utili a far luce [sull’omicidio] di cui era venuto a conoscenza in dipendenza dei suoi diretti contatti con i mafiosi”. Secondo la corte d’Appello, Andreotti ha contribuito “al rafforzamento della organizzazione criminale , inducendo negli affiliati, anche per la sua autorevolezza politica, il sentimento di essere protetti al più alto livello del potere legale. Così realizzando “una vera e propria partecipazione all’associazione mafiosa apprezzabilmente protrattasi nel tempo”.
Chi ha nascosto o stravolto la verità - oltre a truffare il popolo italiano in nome del quale si pronunziano le sentenze - non ha voluto elaborare la memoria di ciò che è stato, perché teme il giudizio storico su come in una certa fase, almeno parzialmente, si è formato il consenso nel nostro Paese. Ma in questo modo si rende un pessimo servizio alla qualità della democrazia. Perché si finisce per legittimare (ieri, oggi e domani) la politica che ha rapporti con la mafia.
Il segno di Belzebù indelebile sul Paese
Imperitura memoria - L’impronta lasciata sul seggio di Palazzo Madama da Giulio Andreotti, in Senato dal ‘91 al 2013 dopo 45 anni passati alla Camera
di Pino Corrias (Il Fatto, 07.01.2019)
Come le mani disegnate in rosso sulle parete delle caverne ci dicono che l’uomo del Pleistocene passò da lì, così la gobba di Giulio Andreotti incisa sul cuoio della sua sedia al Senato ci ricorda che in un tempo remoto della Repubblica siamo stati tutti democristiani - volenti o nolenti, eretti o quadrumani - lungo un’era che gli archeologi del nostro tempo chiamano per l’appunto Andreottiana.
Il capostipite era più alto di quanto oggi si possa immaginare. Aveva un pallore da sagrestia su un volto senza labbra, le orecchie aguzze, il passo veloce e scivoloso. Dormiva poco. Usciva ogni mattina all’alba per la Messa. Faceva l’elemosina ai mendicanti raccolti sul sagrato. Mangiava in bianco. Vestiva oscuri completi Caraceni col panciotto. Soffriva di emicrania e di persistente disincanto. Nel raro tempo libero giocava a gin-rummy e collezionava campanelli. Nell’ampio tempo del lavoro accumulava nemici e segreti.
I nemici li ha seppelliti quasi tutti. I segreti invece sono diventati la nostra storia e il suo leggendario archivio, nutrito per molto più di mezzo secolo, da quando la sua giovinezza fu rinvenuta tra le mura vaticane da Alcide De Gasperi, futuro plenipotenziario della Democrazia Cristiana, più o meno mentre le bombe degli angloamericani violavano il sacro suolo di Roma città aperta, estate 1943, impolverando la stola di papa Pio XII.
A 24 anni Giulio stava già nel posto giusto, tra gli inchiostri dell’eterno potere e al cospetto della grande Storia, intraprendendone da allora i cospicui labirinti che lo condussero, tra maldicenze e applausi, a indossare 27 volte i panni di ministro, 7 volte la corona di presidente del Consiglio.
Per poi passare, a intermittenza, dalle luci dello statista alle ombre del grande vecchio, 27 volte inquisito dalla magistratura e 27 volte salvato dalle Camere che a maggioranza negavano l’autorizzazione a procedere. Salvo soffriggere, udienza dopo udienza, sul banco degli imputati del tribunale di Palermo, anno 1995, per il celebre bacio a Totò Riina, e poi su quello di Perugia, dove era accusato di essere il mandante dei quattro colpi di pistola con cui venne cancellato il giornalista romano Mino Pecorelli, suo acerrimo nemico, le sue imminenti rivelazioni sul caso Moro e su certi assegni finiti tra i velluti e i sughi della sua corrente, detta anche lei andreottiana.
Inciampi giudiziari mai davvero prescritti e che hanno nutrito la sua leggenda nera - passata per Piazza Fontana, i Servizi deviati, lo scandalo petroli, il Banco Ambrosiano, Gladio, la morte solitaria del generale Dalla Chiesa sull’asfalto di Palermo - ma anche il suo fatalismo romanesco di eterno sopravvissuto al suo stesso danno: “Preferisco tirare a campare che tirare le cuoia” come recitava la sua massima preferita, che poi era anche il cuore della sua politica, talmente malleabile da rendersi disponibile a destra e a sinistra, purché immobile sotto l’ombrello angloamericano e in cambio di un costante incasso elettorale che gli garantivano, guarda caso, i collegi del Lazio e della Sicilia. Oltre naturalmente alla benevolenza della Chiesa, i sette papi che conobbe in vita, lasciandosi ispirare da una fede mai troppo intransigente, disponibile all’umano peccato purché con l’Avemaria sempre incorporata. “Quando andavano insieme in chiesa - scrisse Montanelli - De Gasperi parlava con Dio, Andreotti con il prete”.
La zia, i libri, la chiesa e la proposta al cimitero
A dispetto del molto che avrebbe intrapreso, Giulio nasce fragile il 14 gennaio del 1919. Orfano di padre, cresce cagionevole aiutato da una vecchia zia e dalla piccola pensione della madre. Fa il chierichetto e lo studente modello. Si laurea in Giurisprudenza. Alla visita militare il medico lo scarta e gli pronostica sei mesi di vita. Racconterà: “Quando diventai la prima volta ministro gli telefonai per dirgli che ero ancora vivo, ma era morto lui”.
Diventa sottosegretario con De Gasperi nel 1947, entra in Parlamento l’anno dopo. Ci rimarrà per sempre. Sotto ai suoi governi è nata la Riforma sanitaria, è stato legalizzato l’aborto, firmato il Trattato di Maastricht. E dentro alla sua ombra l’Italia è diventata un Paese industriale, alfabetizzato, un po’ più europeo, un po’ meno cialtrone, al netto del clamoroso debito pubblico e delle quattro mafie.
A trent’anni si sposa, dichiarandosi a Donna Livia “mentre passeggiavamo in un cimitero”. Avrà quattro figli. Una sola segretaria, la mitica Enea. Una sola vocazione: “Non ama le vacanze - dirà la figlia Serena - non ama il mare, non ama le passeggiate. La verità è che se non fa politica si annoia”.
Amici scomodi e nemici uccisi sempre col sorriso
Diventandone il prototipo incorpora tutti i pregi e i difetti dei democristiani. Conosce la pazienza e la prudenza. Uccide gli avversari con estrema gentilezza e sorride per buona educazione. È in confidenza con Kissinger e ammira Arafat. Si commuove alla morte di Paolo VI e a quella di Alberto Sordi, che poi sarebbero il sacro e il profano della sua esistenza. Maneggia il potere in silenzio, come un gioco di prestigio. E i cattivi come fossero i buoni. Tra i banchieri d’avventura predilige il piduista Michele Sindona, quello del crack della Banca Privata, a cui aveva appena conferito il titolo di “salvatore della lira”, per poi guardarne imperturbabile il naufragio dentro a un caffè avvelenato, nella cella singola di San Vittore, detenuto per l’omicidio di Giorgio Ambrosoli.
Non ha amici, ma soci momentanei di cordata, mai Fanfani e De Mita, qualche volta Forlani, più spesso Cossiga che lo nominerà senatore a vita. Educa Gianni Letta a fargli da scudiero per poi affidargli il giovane pupillo piduista Luigi Bisignani. Tutti i suoi sottocapi sono tipi da prendere con le molle: Vittorio Sbardella, detto “lo squalo” mastica per lui il Lazio. Ciarrapico è il re del saluto romano, delle acque minerali e degli impicci da sbrogliare. Franco Evangelisti è il faccendiere di “A Fra’ chette serve?”. Cirino Pomicino, detto “’O ministro” digerirà a suo nome 42 processi e 40 assoluzioni. E naturalmente Salvo Lima, il suo alter ego in Sicilia, morto sparato tra i cassonetti di Mondello per ordine dei corleonesi, la mattina del 12 marzo 1992, alba della stagione delle stragi.
Esecuzione che cancellò il suo unico sogno inconcluso, quello di salire al Quirinale, indossare finalmente i panni di presidente della Repubblica e (forse) sistemare gli scheletri del suo notevole armadio. Cominciando dallo scandalo fondante, anno 1963, il tentato golpe di un certo generale De Lorenzo, capo dei servizi segreti, e la scomparsa dei fascicoli che aveva accumulato sui protagonisti della vita pubblica italiana. Archivio quanto mai avvelenato e formidabile arma di ricatto che proprio Andreotti, all’epoca ministro della Difesa, era incaricato di distruggere. E che invece sarebbe riemerso nelle molte nebbie future e persino nei dossier di Licio Gelli, il finto o vero titolare della loggia massonica P2, forse a fondamento di un suo potere sussidiario esercitato per conto (proprio) di chi li aveva maneggiati per primo.
Da Moro agli anni di B.: è lui il capo dei diavoli
“Livido, assente, chiuso nel suo cupo sogno di gloria”, gli avrebbe scritto Aldo Moro dalla prigione brigatista, colmo di rancore e di rassegnazione per il nulla che il governo di solidarietà nazionale riuscì a fabbricare nei 55 giorni impiegati da Mario Moretti a eseguire la sentenza.
Bettino Craxi lo battezzo Belzebù, il capo dei diavoli. Lo temeva e forse lo ammirava, ma non imparò nulla dalla sua quieta imperturbabilità nelle aule di Giustizia e una volta inquisito da Mani pulite, strillò così tanto, da dichiararsi colpevole, pretendere l’impunità e finire latitante.
A differenza di quasi tutti, Andreotti non si lasciò sfiorare dalla volgarità delle tangenti, che lasciò volentieri alle mandibole dei suoi. Né dall’incantesimo delle notti romane. Una sola volta una nobildonna provò a trascinarlo sulla pista da ballo: “Non ho mai danzato con un presidente del Consiglio”, gli disse lei leziosa. “Neanch’io” rispose lui secco, allontanandosi. Non capì il bianco e nero di Berlinguer e non prese mai sul serio i troppi colori di Berlusconi. Sopravvisse alla morte della Dc e di due repubbliche. Scrisse migliaia di pagine senza mai rivelare un segreto. Sembrava eterno. Sembrava un destino. Invece anche lui, uscendo di scena a 94 anni, incollato alla sedia e in piena luce, è diventato un altro anniversario del nostro buio.
Inchieste
Quel «patto sporco» con la mafia
Il magistrato Nino Di Matteo esplora i retroscena della «trattativa con lo Stato»
Il sostituto procuratore affronta una stagione drammatica in una intervista con Saverio Lodato (Chiarelettere)
di Corrado Stajano (Corriere della Sera, 30.09.2018)
Ci si è già dimenticati, in questo Paese senza memoria, della terribile sentenza del 20 aprile di quest’anno, il processo detto della Trattativa tra lo Stato e la mafia? Un pentolone ribollente di brutture, di tradimenti, del sangue di tanti innocenti vittime dell’Italia peggiore? La notizia della grave condanna inflitta dalla Corte d’assise di Palermo agli assassini mafiosi e a uomini delle istituzioni con indosso l’uniforme dell’Arma benemerita della Repubblica sembra già scivolata via lasciando il posto alle notizie piccanti, esse sì di rigore, sui sarti, i cuochi, i portatori di influenze e di sogni.
Per fortuna esistono ancora i libri. Ne è appena uscito uno che fa rabbrividire, Il patto sporco. Il processo Stato-mafia nel racconto di un suo protagonista: Nino Di Matteo, il pubblico ministero più perseguitato del Bel Paese, che analizza le motivazioni della sentenza di condanna e risponde, in una approfondita intervista, alle domande di Saverio Lodato, tra i più agguerriti giornalisti del fenomeno mafioso.
Il libro narra fatti conosciuti e sconosciuti, documentati e rilevanti, vista la fonte, ed è importante per costruire la storia sanguinosa, spesso coperta di mistero di questi anni.
Nino Di Matteo, ora sostituto procuratore alla Direzione nazionale antimafia, non si sente un eroe. Quel che ha fatto l’ha fatto, dice con semplicità, soltanto nel nome dello Stato di diritto, con grandi sacrifici, suoi e della sua famiglia. Sottoposto «al primo livello di protezione eccezionale», non deve esser stato facile vivere in quel modo, lasciato solo anche da chi avrebbe dovuto difenderlo, l’Associazione nazionale magistrati, il Consiglio superiore della magistratura, insultato anche da persone impensabili, accademici, opinionisti, giornalisti, magistrati. Ma lui aveva le prove di quel che faceva: risultano ora con chiarezza dalle 5.252 pagine delle motivazioni della sentenza della Corte d’assise di Palermo presieduta da Alfredo Montalto depositata il 18 luglio scorso.
Ne ha subite di minacce in 25 anni di inchieste e di solitudine Nino Di Matteo. Totò Riina, intercettato nel 2013 nel carcere di Opera mentre all’ora d’aria parla con un mafioso pugliese: «Gli farei fare la fine del tonno. La stessa che ho fatto fare a Falcone», dice commentando con rabbia l’impegno di Di Matteo nel processo sulla Trattativa.
«Lei deve stare attento perché noi siamo molto avanti. Abbiamo già comprato l’esplosivo, abbiamo studiato tutte le sue abitudini», gli dice nel carcere di Parma, nel 2014, il mafioso Vito Galatolo. «Perché?», chiede il magistrato. E il mafioso, levando lo sguardo alla famosa fotografia di Falcone e Borsellino sorridenti, appesa alla parete, in palermitano stretto replica indicando Falcone: «Non comu a chistu, ma come l’autru». E aggiunge: «Ce lo hanno chiesto». (Sono stati differenti, quindi, la matrice e i moventi della strage di via D’Amelio rispetto a quelli della strage di Capaci. Chi chiese, al di fuori della mafia?) E un costruttore palermitano che si era occupato dell’acquisto del tritolo per uccidere Di Matteo, all’ufficiale della Guardia di Finanza che l’arrestava dice: «Per capire dove viene l’esplosivo e che cosa c’è dietro, dovete cercare in alto».
E ancora. Matteo Messina Denaro, l’attuale capo della mafia, latitante da 25 anni, «rampollo di una famiglia con quattro quarti di nobiltà mafiosa» dice che Di Matteo è andato troppo avanti con le sue inchieste. Il magistrato commenta così le ragioni della latitanza del capomafia: «Temo la copertura di ambienti deviati delle istituzioni che hanno ragioni di temere, sapendo di quali terribili segreti è a conoscenza, che un giorno possa decidere di vuotare il sacco».
Un libro di piombo questo Il patto sporco. Quei 200 chili di tritolo comprati in Calabria per uccidere Di Matteo non sono stati trovati. Dove sono nascosti? C’è ancora, da parte della mafia, l’intenzione di usarli? C’è qualcuno che sa dove sono, nelle istituzioni, nei Servizi, «deviati», naturalmente? Una minaccia che pesa.
Questo processo non è fondato, come in una guerra dichiarata tra eserciti nemici che trattano ad esempio su uno scambio di prigionieri: la posta in gioco, invece, è stata discussa alla pari tra uomini dello Stato e i poteri criminali di quello stesso Stato. Il reato contestato è infatti: «Violenza e minaccia a corpo politico dello Stato». I governi del tempo. Una trattativa soltanto politica: «I carabinieri (generali e ufficiali superiori) omettono di lasciare traccia scritta dei loro colloqui (con gli uomini della mafia), omettono di riferire ai vertici dell’Arma e alla magistratura, cercano invece sponde politiche, informando autorità istituzionali e parlamentari».
E ancora: «Non lo hanno fatto perché sapevano che con Vito Ciancimino stavano conducendo una trattativa politica: cosa volevano i mafiosi per far interrompere quella strategia dell’attacco frontale allo Stato e alla politica? Ecco perché, mentre tacevano con chi avrebbe dovuto sapere, riferivano ad autorità politiche e ministeriali», di cui la sentenza fa abbondantemente i nomi e illustra i desideri dei mafiosi, contro i «pentiti», il carcere duro, il 41 bis, il sequestro dei beni, la modifica della legge Rognoni-La Torre, la revisione, attraverso una sentenza della Corte di Strasburgo, degli ergastoli del maxiprocesso del 1986.
E questo - la pressione assassina - seguitando a uccidere: dopo via D’Amelio, le stragi di Firenze, Roma, Milano, del 1993; la bomba non esplosa per il cattivo funzionamento del telecomando nel gennaio 1994 allo stadio Olimpico di Roma che avrebbe ucciso centinaia di carabinieri.
Il libro è ricco di fatti che provano l’esistenza della vergognosa trattativa e anche di interrogativi non tutti con una risposta. Perché Totò Riina, in corso d’opera, decide di cambiare il piano dell’assassinio di Falcone, non più a Roma, ma in Sicilia? E dieci anni prima: chi ha rubato il diario di Carlo Alberto dalla Chiesa nella cassaforte di villa Pajno, a Palermo, subito dopo il suo assassinio in via Carini, poco lontano? (Specialisti di Servizi, non rozzi criminali). Dov’è finita, 1992, l’agenda rossa di Paolo Borsellino sul campo di battaglia di via D’Amelio, passata in più di una mano?
Qual è il vero significato dei foglietti coi numeri di telefono del Sisde di Roma e del capocentro di Palermo trovati dalla Polizia scientifica sul cratere di Capaci? Chi fece sparire quasi del tutto i file informatici di Falcone dopo la sua morte? Quali furono i motivi dell’accelerazione dell’assassinio di Paolo Borsellino? Che cosa aveva scoperto il magistrato nei tragici 57 giorni dopo Capaci? La cattura di Riina, nel gennaio ’93, poi, e la mancata perquisizione del suo covo, sono smaccate prove dell’accordo tra le parti «per evitare che saltassero fuori atti e documenti compromettenti proprio su quella fase della trattativa».
Come mai restò segreta per quasi vent’anni la lettera che i familiari dei detenuti a Pianosa e all’Asinara inviarono nel febbraio 1993 al presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro furibonda di minacce contro Nicolò Amato, a capo del Dipartimento delle carceri, e contro Vincenzo Scotti, ministro dell’Interno che si erano mostrati intransigenti nel loro lavoro?
Rappresentavano un ostacolo per ogni accordo sottobanco e vennero rimossi rapidamente dal loro incarico. (Quella lettera segreta fu trovata da Nino Di Matteo e dall’allora pm Antonio Ingroia solo nel 2011 negli archivi del Dipartimento delle carceri). Quando i capimafia oltranzisti e moderati - come in politica - si convinsero che il nascente movimento di Forza Italia, tramite Dell’Utri, rappresentava la carta vincente? Andreotti, ormai aveva fatto il suo tempo, l’assassinio di Lima aveva segnato un’epoca. (Nelle sedute della Commissione antimafia della XII legislatura, il primo governo Berlusconi, nel ’94, si parlava ossessivamente di 41 bis e di «pentiti», la minaccia di cui liberarsi).
Questo amaro libro è anche l’utile specchio di un Paese fragile come il nostro. Popolato però di uomini e donne che fanno il loro dovere e ancor più del loro dovere, con grande passione. Energie positive che restano isolate perché mancano i ponti della buona politica. L’altra Italia.
Borsellino, corte: tra più gravi depistaggi storia Italia
Depositate motivazioni sentenza, "disegno criminoso investigatori"
di Lara Sirignano (ANSA, 01 luglio 2018)
PALERMO. "Uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana" con protagonisti uomini dello istituzioni. La corte d’assise di Caltanissetta che 14 mesi fa concluse l’ultimo processo sulla strage di via d’Amelio non fa sconti. E in una motivazione lunga 1865 pagine, depositata nel tardo pomeriggio di sabato, punta il dito contro i servitori infedeli dello Stato che imbeccarono piccoli criminali, assurti a gole profonde di Cosa nostra, costruendo una falsa verità sugli autori dell’attentato al giudice Borsellino.
Che sarebbe stata una sentenza importante lo si era compreso dalla complessità del dispositivo che, il 20 aprile del 2017, condannò all’ergastolo per strage Salvino Madonia e Vittorio Tutino e a 10 anni per calunnia Francesco Andriotta e Calogero Pulci, finti collaboratori di giustizia usati per mettere su una ricostruzione a tavolino delle fasi esecutive della strage costata l’ergastolo a sette innocenti. Per Vincenzo Scarantino, il più discusso dei falsi pentiti, protagonista di rocambolesche ritrattazioni nel corso di vent’anni di processi, i giudici dichiararono la prescrizione concedendogli l’attenuante prevista per chi viene indotto a commettere il reato da altri.
Ed è a questi "altri" che la Corte si riferisce nelle motivazioni della sentenza. A quegli investigatori mossi da "un proposito criminoso", a chi "esercitò in modo distorto i poteri". La corte d’assise di Caltanissetta, dunque, usa parole durissime verso chi condusse le indagini: il riferimento è al gruppo che indagava sulle stragi del ’92 guidato da Arnaldo la Barbera, funzionario di polizia poi morto. Sarebbero stati loro a indirizzare l’inchiesta e a costringere Scarantino a raccontare una falsa versione della fase esecutiva dell’attentato. Sarebbero stati loro a compiere "una serie di forzature, tradottesi anche in indebite suggestioni e nell’agevolazione di una impropria circolarità tra i diversi contributi dichiarativi, tutti radicalmente difformi dalla realtà se non per la esposizione di un nucleo comune di informazioni del quale è rimasta occulta la vera fonte".
Ma quali erano le finalità di uno dei più clamoroso depistaggi della storia giudiziaria del Paese? si chiedono i giudici. La corte tenta di avanzare delle ipotesi: come la copertura della presenza di fonti rimaste occulte, "che viene evidenziata - scrivono i magistrati - dalla trasmissione ai finti collaboratori di giustizia di informazioni estranee al loro patrimonio conoscitivo ed in seguito rivelatesi oggettivamente rispondenti alla realtà", e, sospetto ancor più inquietante, "l’occultamento della responsabilità di altri soggetti per la strage, nel quadro di una convergenza di interessi tra Cosa Nostra e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l’opera del magistrato".
I magistrati dedicano, poi, parte della motivazione all’agenda rossa del giudice Paolo Borsellino, il diario che il il magistrato custodiva nella borsa, sparito dal luogo dell’attentato. La Barbera, secondo la corte, ebbe un "ruolo fondamentale nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia ed è stato altresì intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa, come è evidenziato dalla sua reazione, connotata da una inaudita aggressività, nei confronti di Lucia Borsellino, impegnata in una coraggiosa opera di ricerca della verità sulla morte del padre". La Barbera è morto, l’inchiesta sulla scomparsa dell’agenda rossa è stata archiviata, ma a Caltanissetta, forze a maggior ragione dopo questa sentenza, si continuerà a indagare. Non si sono accontentati delle verità ormai passate in giudicato i pm della Procura Stefano Luciani e Gabriele Paci che, anche grazie alle rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza, hanno riaperto le indagini sulla strage scoprendo il depistaggio. E una nuova inchiesta è già in fase avanzata e riguarda i poliziotti che facevano parte del pool di La Barbera.
Stato-Mafia: Pm Di Matteo: ’Dell’Utri tramite dopo il ’92’
’Da Anm e Csm nessuna difesa. Silenzio assordante, chi speravamo ci difendesse ha taciuto’
di Redazione ANSA *
"La sentenza è precisa e ritiene che Dell’Utri abbia fatto da cinghia di trasmissione nella minaccia mafiosa al governo anche nel periodo successivo all’avvento alla Presidenza del Consiglio di Berlusconi. In questo c’è un elemento di novità. C’era una sentenza definitiva che condannava Dell’Utri per il suo ruolo di tramite tra la mafia e Berlusconi fino al ’92. Ora questo verdetto sposta in avanti il ruolo di tramite esercitato da Dell’Utri tra ’Cosa nostra’ e Berlusconi". Lo ha detto il pm della Dna Nino Di Matteo, a proposito della sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, intervenendo alla trasmissione "1/2 ora in più" di Lucia Annunziata, in onda sui Rai tre.
La replica dell’Anm, sempre difeso magistrati attaccati - "L’Associazione Nazionale Magistrati ha sempre difeso dagli attacchi l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati". Lo dice il presidente dell’Anm Francesco Minisci. "Lo ha fatto - prosegue - a favore dei colleghi di Palermo e continuerà sempre a difendere tutti i magistrati attaccati, pur non entrando mai nel merito delle vicende giudiziarie".
"Né Silvio Berlusconi, né altri hanno denunciato le minacce mafiose, né prima né dopo" ha anche detto il pm Di Matteo, a proposito della sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, intervenendo alla trasmissione "1/2 ora in più" di Lucia Annunziata, su Rai tre. "Nel nostro sistema costituzionale le sentenze vengono pronunciate nel nome del popolo italiano e possono essere criticate e impugnate. Il problema è che quando le sentenze riguardano uomini che esercitano il potere devono essere conosciute", ha aggiunto. "C’è una sentenza definitiva - ha spiegato - che afferma che dal ’74 al ’92 Dell’Utri si fece garante di un patto tra Berlusconi e le famiglie mafiose palermitane. Ora questa sentenza dice che quella intermediazione non si ferma al ’92, ma si estende al primo governo Berlusconi, questi sono fatti che devono essere conosciuti"
"I carabinieri che hanno trattato sono stati incoraggiati da qualcuno. Noi non riteniamo che il livello politico non fosse a conoscenza di quel che accadeva. Ci vorrebbe ’un pentito di Stato’, uno delle istituzioni che faccia chiarezza e disegni in modo ancora più completo cosa avvenne negli anni delle stragi". Lo ha detto il pm della dna Nino Di Matteo, a proposito della sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, intervenendo alla trasmissione "1/2 ora in più" di Lucia Annunziata, in onda sui Rai tre.
"Quello che mi ha fatto più male è che rispetto alle accuse di usare strumentalmente il lavoro abbiamo avvertito un silenzio assordante e chi speravamo ci dovesse difendere è stato zitto. A partire dall’ Anm e il Csm". Lo ha detto il pm della Dna Nino Di Matteo, dopo la sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, intervenendo alla trasmissione "1/2 ora in più" di Lucia Annunziata, in onda sui Rai tre a proposito delle critiche subite, negli anni, dal pool che ha coordinato l’inchiesta.
* ANSA,23 aprile 2018 (ripresa parziale, senza immagine).
I giorni di Giuda
di Paolo Borsellino (Libera Informazione, 19 luglio 2017)
“Io sono venuto questa sera soprattutto per ascoltare. Purtroppo ragioni di lavoro mi hanno costretto ad arrivare in ritardo e forse mi costringeranno ad allontanarmi prima che questa riunione finisca. Sono venuto soprattutto per ascoltare, perché ritengo che mai come in questo momento sia necessario che io ricordi a me stesso e ricordi a voi che sono un magistrato. E poiché sono un magistrato devo essere anche cosciente che il mio primo dovere non è quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze partecipando a convegni e dibattiti, ma quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze nel mio lavoro.
In questo momento inoltre, oltre che magistrato, io sono testimone. Sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto, non voglio dire più di ogni altro, perché non voglio imbarcarmi in questa gara che purtroppo vedo fare in questi giorni per ristabilire chi era più amico di Giovanni Falcone, ma avendo raccolto comunque più o meno di altri, come amico di Giovanni Falcone, tante sue confidenze, prima di parlare in pubblico anche delle opinioni, anche delle convinzioni che io mi sono fatte raccogliendo tali confidenze, questi elementi che io porto dentro di me, debbo per prima cosa assemblarli e riferirli all’autorità giudiziaria, che è l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell’evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone, e che soprattutto, nell’immediatezza di questa tragedia, ha fatto pensare a me, e non soltanto a me, che era finita una parte della mia e della nostra vita.
Quindi io questa sera debbo astenermi rigidamente - e mi dispiace, se deluderò qualcuno di voi - dal riferire circostanze che probabilmente molti di voi si aspettano che io riferisca, a cominciare da quelle che in questi giorni sono arrivate sui giornali e che riguardano i cosiddetti diari di Giovanni Falcone.
Per prima cosa ne parlerò all’autorità giudiziaria, poi - se è il caso - ne parlerò in pubblico. Posso dire soltanto, e qui mi fermo affrontando l’argomento, e per evitare che si possano anche su questo punto innestare speculazioni fuorvianti, che questi appunti che sono stati pubblicati dalla stampa, sul “Sole 24 Ore” dalla giornalista - in questo momento non mi ricordo come si chiama... - Milella, li avevo letti in vita di Giovanni Falcone. Sono proprio appunti di Giovanni Falcone, perché non vorrei che su questo un giorno potessero essere avanzati dei dubbi.
Ho letto giorni fa, ho ascoltato alla televisione - in questo momento i miei ricordi non sono precisi - un’affermazione di Antonino Caponnetto secondo cui Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione di Caponnetto. Con questo non intendo dire che so il perché dell’evento criminoso avvenuto a fine maggio, per quanto io possa sapere qualche elemento che possa aiutare a ricostruirlo, e come ho detto ne riferirò all’autorità giudiziaria; non voglio dire che cominciò a morire nel gennaio del 1988 e che questo, questa strage del 1992, sia il naturale epilogo di questo processo di morte.
Però quello che ha detto Antonino Caponnetto è vero, perché oggi che tutti ci rendiamo conto di quale è stata la statura di quest’uomo, ripercorrendo queste vicende della sua vita professionale, ci accorgiamo come in effetti il paese, lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò proprio a farlo morire il 1° gennaio del 1988, se non forse l’anno prima, in quella data che ha or ora ricordato Leoluca Orlando: cioè quell’articolo di Leonardo Sciascia sul “Corriere della Sera” che bollava me come un professionista dell’antimafia, l’amico Orlando come professionista della politica, dell’antimafia nella politica. -Ma nel gennaio del 1988, quando Falcone, solo per continuare il suo lavoro, il Consiglio superiore della magistratura con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. C’eravamo tutti resi conto che c’era questo pericolo e a lungo sperammo che Antonino Caponnetto potesse restare ancora a passare gli ultimi due anni della sua vita professionale a Palermo. Ma quest’uomo, Caponnetto, il quale rischiava, perché anziano, perché conduceva una vita sicuramente non sopportabile da nessuno già da anni, il quale rischiava di morire a Palermo, temevamo che non avrebbe superato lo stress fisico cui da anni si sottoponeva. E a un certo punto fummo noi stessi, Falcone in testa, pure estremamente convinti del pericolo che si correva così convincendolo, lo convincemmo riottoso, molto riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Si aprì la corsa alla successione all’ufficio istruzione al tribunale di Palermo. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Consiglio superiore della magistratura ci fece questo regalo: preferì Antonino Meli.
Giovanni Falcone, dimostrando l’altissimo senso delle istituzioni che egli aveva e la sua volontà di continuare comunque a fare il lavoro che aveva inventato e nel quale ci aveva tutti trascinato, cominciò a lavorare con Antonino Meli nella convinzione che, nonostante lo schiaffo datogli dal Consiglio superiore della magistratura, egli avrebbe potuto continuare il suo lavoro. E continuò a crederlo nonostante io - che ormai mi trovavo in un osservatorio abbastanza privilegiato, perché ero stato trasferito a Marsala e quindi guardavo abbastanza dall’esterno questa situazione - mi fossi reso conto subito che nel volgere di pochi mesi Giovanni Falcone sarebbe stato distrutto. E ciò che più mi addolorava era il fatto che Giovanni Falcone sarebbe allora morto professionalmente nel silenzio e senza che nessuno se ne accorgesse.
Questa fu la ragione per cui io, nel corso della presentazione del libro La mafia d’Agrigento, denunciai quello che stava accadendo a Palermo con un intervento che venne subito commentato da Leoluca Orlando, allora presente, dicendo che quella sera l’aria ci stava pesando addosso per quello che era stato detto. Leoluca Orlando ha ricordato cosa avvenne subito dopo: per aver denunciato questa verità io rischiai conseguenze professionali gravissime, ma quel che è peggio il Consiglio superiore immediatamente scoprì quale era il suo vero obiettivo: proprio approfittando del problema che io avevo sollevato, doveva essere eliminato al più presto Giovanni Falcone. E forse questo io lo avevo pure messo nel conto perché ero convinto che lo avrebbero eliminato comunque; almeno, dissi, se deve essere eliminato, l’opinione pubblica lo deve sapere, lo deve conoscere, il pool antimafia deve morire davanti a tutti, non deve morire in silenzio.
L’opinione pubblica fece il miracolo, perché ricordo quella caldissima estate dell’agosto 1988, l’opinione pubblica si mobilitò e costrinse il Consiglio superiore della magistratura a rimangiarsi in parte la sua precedente decisione dei primi di agosto, tant’è che il 15 settembre, se pur zoppicante, il pool antimafia fu rimesso in piedi. La protervia del consigliere istruttore, l’intervento nefasto della Cassazione cominciato allora e continuato fino a ieri (perché, nonostante quello che è successo in Sicilia, la Corte di cassazione continua sostanzialmente ad affermare che la mafia non esiste) continuarono a fare morire Giovanni Falcone. E Giovanni Falcone, uomo che sentì sempre di essere uomo delle istituzioni, con un profondissimo senso dello Stato, nonostante questo, continuò incessantemente a lavorare. Approdò alla procura della Repubblica di Palermo dove, a un certo punto ritenne, e le motivazioni le riservo a quella parte di espressione delle mie convinzioni che deve in questo momento essere indirizzata verso altri ascoltatori, ritenne a un certo momento di non poter più continuare ad operare al meglio.
Giovanni Falcone è andato al ministero di Grazia e Giustizia, e questo lo posso dire sì prima di essere ascoltato dal giudice, non perché aspirasse a trovarsi a Roma in un posto privilegiato, non perché si era innamorato dei socialisti, non perché si era innamorato di Claudio Martelli, ma perché a un certo punto della sua vita ritenne, da uomo delle istituzioni, di poter continuare a svolgere a Roma un ruolo importante e nelle sue convinzioni decisivo, con riferimento alla lotta alla criminalità mafiosa. Dopo aver appreso dalla radio della sua nomina a Roma (in quei tempi ci vedevamo un po’ più raramente perché io ero molto impegnato professionalmente a Marsala e venivo raramente a Palermo), una volta Giovanni Falcone alla presenza del collega Leonardo Guarnotta e di Ayala tirò fuori, non so come si chiama, l’ordinamento interno del ministero di Grazia e Giustizia, e scorrendo i singoli punti di non so quale articolo di questo ordinamento cominciò fin da allora, fin dal primo giorno, cominciò ad illustrare quel che lì egli poteva fare e che riteneva di poter fare per la lotta alla criminalità mafiosa.
Certo anch’io talvolta ho assistito con un certo disagio a quella che è la vita, o alcune manifestazioni della vita e dell’attività di un magistrato improvvisamente sbalzato in una struttura gerarchica diversa da quelle che sono le strutture, anch’esse gerarchiche ma in altro senso, previste dall’ordinamento giudiziario. Si trattava di un lavoro nuovo, di una situazione nuova, di vicinanze nuove, ma Giovanni Falcone è andato lì solo per questo. Con la mente a Palermo, perché sin dal primo momento mi illustrò quello che riteneva di poter e di voler fare lui per Palermo. E in fin dei conti, se vogliamo fare un bilancio di questa sua permanenza al ministero di Grazia e Giustizia, il bilancio anche se contestato, anche se criticato, è un bilancio che riguarda soprattutto la creazione di strutture che, a torto o a ragione, lui pensava che potessero funzionare specialmente con riferimento alla lotta alla criminalità organizzata e al lavoro che aveva fatto a Palermo.
Cercò di ricreare in campo nazionale e con leggi dello Stato quelle esperienze del pool antimafia che erano nate artigianalmente senza che la legge le prevedesse e senza che la legge, anche nei momenti di maggiore successo, le sostenesse. Questo, a torto o a ragione, ma comunque sicuramente nei suoi intenti, era la superprocura, sulla quale anch’io ho espresso nell’immediatezza delle perplessità, firmando la lettera sostanzialmente critica sulla superprocura predisposta dal collega Marcello Maddalena, ma mai neanche un istante ho dubitato che questo strumento sulla cui creazione Giovanni Falcone aveva lavorato servisse nei suoi intenti, nelle sue idee, a torto o a ragione, per ritornare, soprattutto, per consentirgli di ritornare a fare il magistrato, come egli voleva. Il suo intento era questo e l’organizzazione mafiosa - non voglio esprimere opinioni circa il fatto se si è trattato di mafia e soltanto di mafia, ma di mafia si è trattato comunque - e l’organizzazione mafiosa, quando ha preparato ed attuato l’attentato del 23 maggio, l’ha preparato ed attuato proprio nel momento in cui, a mio parere, si erano concretizzate tutte le condizioni perché Giovanni Falcone, nonostante la violenta opposizione di buona parte del Consiglio superiore della magistratura, era ormai a un passo, secondo le notizie che io conoscevo, che gli avevo comunicato e che egli sapeva e che ritengo fossero conosciute anche al di fuori del Consiglio, al di fuori del Palazzo, dico, era ormai a un passo dal diventare il direttore nazionale antimafia.
Ecco perché, forse, ripensandoci, quando Caponnetto dice cominciò a morire nel gennaio del 1988 aveva proprio ragione anche con riferimento all’esito di questa lotta che egli fece soprattutto per potere continuare a lavorare. Poi possono essere avanzate tutte le critiche, se avanzate in buona fede e se avanzate riconoscendo questo intento di Giovanni Falcone, si può anche dire che si prestò alla creazione di uno strumento che poteva mettere in pericolo l’indipendenza della magistratura, si può anche dire che per creare questo strumento egli si avvicinò troppo al potere politico, ma quello che non si può contestare è che Giovanni Falcone in questa sua breve, brevissima esperienza ministeriale lavorò soprattutto per potere al più presto tornare a fare il magistrato. Ed è questo che gli è stato impedito, perché è questo che faceva paura”.
Borsellino, 25 anni fa la strage di Via D’Amelio. Il Csm ricorda la figura del magistrato
Mattarella: ’Troppi errori in indagini morte’
di Redazione ANSA *
Il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, presiede il Plenum del CSM dedicato al ricordo della figura di Paolo Borsellino a 25 anni dalla strage di Via d’Amelio, dove persero la vita anche gli uomini della scorta.
L’Aula del Senato ha osservato un minuto di silenzio in memoria della strage di via D’Amelio nel giorno in cui ricorre il 25esimo anniversario. Il presidente Grasso ha ricordato il "barbaro assassinio" del giudice Paolo Borsellino e gli uomini della scorta: Agostino Catalano, Eddie Walter Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi e Claudio Traina". "Il nostro pensiero - ha detto - è rivolto alle famiglie". Al termine è seguito un lungo applauso dell’Assemblea e i senatori si sono alzati in piedi.
"Di Paolo Borsellino ricordo il sorriso. Solare, simpatico, sempre pronto a farti uno scherzo: quante risate ci ha fatto fare quando rubava le paperelle che Giovanni custodiva gelosamente sulla sua scrivania per chiedergli poi il riscatto". E’ il ricordo che il presidente del Senato Grasso lascia sulla sua pagina Facebook in memoria dell’amico Paolo Borsellino. "Frammenti di vita, - aggiunge - che mostrano il volto umano e privato del simbolo che onoriamo in questo triste anniversario. Professionalmente aveva un eccezionale talento, una passione viscerale e una ineguagliabile capacità di superare fatica e delusioni. Sapeva sempre dare il giusto consiglio ai colleghi più giovani: me ne ha dati tanti, preziosissimi, quando iniziai a studiare le carte del maxiprocesso".
"La tragica morte di Paolo Borsellino, insieme a coloro che lo scortavano con affetto, deve ancora avere una definitiva parola di giustizia - ha detto il presidente Sergio Mattarella alla cerimonia di commemorazione di Paolo Borsellino al Csm -. Troppe sono state le incertezze e gli errori che hanno accompagnato il cammino nella ricerca della verità sulla strage di via D’Amelio, e ancora tanti sono gli interrogativi sul percorso per assicurare la giusta condanna ai responsabili di quel delitto efferato".
"Paolo Borsellino ha combattuto la mafia con la determinazione di chi sa che la mafia non è un male ineluttabile ma un fenomeno criminale che può essere sconfitto. Sapeva bene che per il raggiungimento di questo obiettivo non è sufficiente la repressione penale, ma è indispensabile diffondere, particolarmente tra i giovani, la cultura della legalità", ha detto ancora Mattarella.
"Rivolgo un pensiero di gratitudine a tutti i familiari delle vittime della strage di Via D’Amelio - ha detto il vice presidente del Csm Giovanni Legnini, nel plenum presieduto dal capo dello Stato -. Verso di loro avvertiamo il dovere di sostenere con forza un’insopprimibile domanda di giustizia; essa chiama tutti in causa, senza eccezioni, e dunque ribadiamo la necessità di fare luce piena su quegli eventi di sangue, fino in fondo e senza temere lo scorrere del tempo. Questo intendiamo ribadire alla presenza del Capo dello Stato".
Per la presidente della Camera Laura Boldrini, al "ricordo vivo e profondo" della figura e dell’impegno di Paolo Borsellino deve accompagnarsi "l’impegno delle Istituzioni, della società civile, dei singoli cittadini nel contrasto alla criminalità organizzata". L’Assemblea di Montecitorio ha osservato un minuto di silenzio in memoria delle vittime, cui ha tributato alla fine un applauso unanime.
* ANSA ROMA 14 luglio 201714:47 (ripresa parziale - senza immagini).
Mattarella, errori in ricerca verità
Lo ha detto nel corso della cerimonia di commemorazione al Csm
di Redazione ANSA *
ROMA - "La tragica morte di Paolo Borsellino, insieme a coloro che lo scortavano con affetto, deve ancora avere una definitiva parola di giustizia. Troppe sono state le incertezze e gli errori che hanno accompagnato il cammino nella ricerca della verità sulla strage di via D’Amelio, e ancora tanti sono gli interrogativi sul percorso per assicurare la giusta condanna ai responsabili di quel delitto efferato". Così il presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla cerimonia di commemorazione di Paolo Borsellino al Csm.
* ANSA ROMA 19 luglio 201712:34 (ripresa parziale - senza immagini).
Giovanni Falcone, chi lo chiamava “cretino” e chi non lo votò al Csm: ecco i nemici del giudice ucciso nella strage di Capaci
Dalle offese di Carnevale agli attacchi in diretta televisiva fino all’ultima provocazione di Berlusconi. A 25 anni dalla strage di Capaci ecco i nomi di chi ha provato in tutti i modi a rendere difficile l’esistenza del magistrato palermitano. Come Lino Jannuzzi che ai tempi della Superprocura definiva lui e De Gennaro "i maggiori responsabili della débâcle dello Stato di fronte alla mafia. Una coppia la cui strategia ha approdato al più completo fallimento"
di Giuseppe Pipitone *
C’è chi non si è pentito delle offese lanciate persino quando l’avevano già assassinato, ma anche chi ha chiesto scusa. Chi ha fatto delle scelte poi rivelatesi errate e adesso porta in tribunale i giornali che le ricordano, chi non ha mai più commentato certe critiche lanciate a favor di telecamera e chi invece nega persino le sue stesse parole. Sono i nemici di Giovanni Falcone, quelli che lo hanno osteggiato in vita rendendogli impossibile l’esistenza. Una categoria che non viene mai - o quasi mai - citata nelle decine di eventi organizzati ogni anno per commemorare il giudice palermitano.
“I nemici principali di Giovanni furono proprio i suoi amici magistrati. Tanti furono gli attacchi e le sconfitte tanto che fu chiamato il giudice più trombato d’Italia e purtroppo lo è stato ed è stato lasciato solo”, ha ricordato la sorella Maria alla vigilia dell’anniversario numero 25 della strage di Capaci. Un quarto di secolo dopo quel maledetto 23 maggio del 1992, tante, tantissime cose sono cambiate: a cominciare dalla stessa Cosa nostra e dall’Antimafia, fenomeni che negli anni sono addirittura arrivati a confondersi e compenetrarsi. Un gioco di specchi di cui sono piene le cronache degli ultimi anni e che soltanto nell’isola dei paradossi poteva andare in scena.
I nemici di Falcone - Confusa tra mille riflessi è stata anche la figura stessa di Falcone: la storia del giudice più trombato d’Italia, per citare la sorella Maria, è stata trasformata - spesso dai suoi stessi detrattori - in quella perfetta del magistrato sempre appoggiato da superiori e opinionisti lungo la sua intera esistenza. Venticinque anni dopo la sua morte, il ricordo del giudice siciliano è finito annacquato da fiumi di retorica: oggi sembra quasi che Falcone sia stato in vita un uomo amato da tutti, mai attaccato o ostacolato da nessuno. E pazienza se i fatti siano andati in maniera diversa. D’altra parte la figura del magistrato palermitano viene usata oggi come una sorta di santino: un nome da citare per dare solidità a qualsiasi tipo di ragionamento o di ragionatore.
Solo per fare un esempio, rivendica di aver conosciuto Falcone persino quello che è considerato il capo dei capi di Mafia capitale. “Una volta mi accollarono un reato in Sicilia (il delitto di Piersanti Mattarella ndr), presi l’avvocato e andai da Falcone, il giudice Falcone a Palermo”, dice in un’intercettazione Massimo Carminati. “Ma Falcone lo hai conosciuto di persona te?”, gli chiedono i suoi compari, come racconta il giornalista Lirio Abbate. “Mi ha interrogato. Persona intelligentissima, si vedeva proprio, aveva l’intelligenza che che gli sprizzava dagli occhi. Era anche una persona amabile nei modi”, risponde il Cecato dando vita a un dialogo grottesco.
Sono al limite dell’imbarazzo, invece, le ultime dichiarazioni di Silvio Berlusconi.”Falcone è il simbolo di come dovrebbe essere un magistrato”, ha detto l’ex cavaliere, intervistato dal Foglio. Chi magari pensava che il magistrato simbolo per Berlusconi dovesse somigliare al corrotto Vittorio Metta è dunque rimasto deluso. Ma l’ex premier ha addirittura rilanciato: “Al pensiero di Falcone si ispirano molte delle nostre idee sulla giustizia”. Il magistrato siciliano purtroppo non può replicare. In alternativa avrebbe respinto al mittente qualsiasi connessione con la ex Cirielli, il lodo Alfano, e la depenalizzazione del falso in bilancio, solo per citare qualche “idea sulla giustizia” di Forza Italia, partito fondato da Marcello Dell’Utri, detenuto a Rebibbia dopo la condanna in via definitiva per concorso esterno. Vale la pena di ricordare che Berlusconi - tra le altre cose - è stato lungamente indagato come mandante a volto coperto delle stragi del 1992 e 1993. “So che ci sono fermenti di procure che ricominciano a guardare a fatti del ’92, ’93, ’94: follia pura. Quello che mi fa male è che c’è chi sta cospirando contro di noi“, disse invece il leader di Forza Italia da presidente del consiglio in carica, quando la procura di Caltanissetta riaprì le indagini sulla strage di via d’Amelio, depistate dal falso pentito Vincenzo Scarantino.
D’altra parte è sempre uno dei governi di Berlusconi che nel 2003 inserì un comma in Finanziaria per concedere al giudice Corrado Carnevale di essere reintegrato, recuperando gli anni di contributi pensionistici persi a causa delle inchieste a suo carico. Carnevale era stato lo storico presidente della prima corte di Cassazione che nel 1992 avrebbe dovuto giudicare le sentenze del primo Maxi processo a Cosa nostra. Per il gran numero di annullamenti decisi negli anni precedenti si era guadagnato un soprannome evocativo: l’Ammazzasentenze. Ed è per evitare di ammazzare pure gli ergastoli del primo Maxi processo che Falcone - nel frattempo approdato alla direzione degli Affari Penali del ministero della Giustizia - ottenne l’applicazione di un criterio di rotazione per i casi di mafia approdati alla Suprema corte. Carnevale non la prese bene. “I motivi per cui me ne sono andato non sono quelli di pressione di quel cretino di Falcone: perché i morti li rispetto, ma certi morti no“, diceva in una conversazione l’8 marzo del 1994, a meno di due anni dalla strage di Capaci. Un’intercettazione in cui il giudice non risparmia neanche la moglie di Falcone, Francesca Morvillo. “Io sono convinto che la mafia abbia voluto uccidere anche la moglie di Falcone che stava alla prima sezione penale della Corte d’Appello di Palermo per farle fare i processi che gli interessavano per fregare qualche mafioso“, dirà senza un minimo di compassione per la coppia appena assassinata da Cosa nostra.
Il risentimento dell’Ammazzasentenze - Quando il 10 novembre dello stesso anno gli investigatori gli danno lettura di quelle conversazioni, l’Ammazzasentenze confida: “Devo ammettere che io ho avuto del risentimento nei confronti del dottor Falcone”. Gli chiedono: “Neppure dopo la morte di Falcone si è placato quel suo grave risentimento?”. “No, devo ammettere di no”. Processato per concorso esterno, Carnevale è stato assolto in primo grado, condannato in appello a sei anni, prosciolto definitivamente in Cassazione. Dopo l’assoluzione torna a fare il giudice della corte di Cassazione, pensa di ricandidarsi come presidente della prima sezione ma lascia perdere. Poteva rimanere in servizio fino al 2015, ma decide di andare in pensione nel 2013 quando ha ormai 83 anni. Alcuni mesi dopo va a testimoniare al processo Capaci bis - quello nato dalle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza - e dice incredibilmente: “Non ho mai parlato di Falcone, non avevo motivo per farlo”. Ai giornalisti del Foglio e del Giornale che lo vanno a trovare a casa per intervistarlo invece racconta: “La casta a cui appartengo fin dal primo momento non mi ha visto di buon occhio. Temevano che potessi salire tanto in alto da influire sul loro lassismo. È la logica dell’invidia“.
Ha azzerato praticamente gli interventi mediatici Vincenzo Geraci, altro nome che ha un ruolo nella carriera di Giovanni Falcone, perché insieme al magistrato siciliano era presente ai primi interrogatori di Tommaso Buscetta. Anni dopo Geraci è tra i consiglieri del Csm che la sera del 19 gennaio del 1988 bocciano la nomina di Falcone a capo dell’ufficio istruzione di Palermo. Era lo stesso posto ricoperto da Antonino Caponnetto, l’inventore del pool antimafia: sembrava scontato che la successione toccasse a Falcone. “Se da un lato, infatti, le notorie doti di Falcone e i rapporti personali e professionali che coltivo con lui mi indurrebbero a preferirlo nella scelta, a ciò mi è però dì ostacolo la personalità di Meli, cui l’altissimo e silenzioso senso del dovere, costò in tempi drammatici la deportazione nei campi di concentramento della Polonia e della Germania, dove egli rimase prigioniero per due anni. In tali condizioni vi chiedo pertanto di comprendere con quanta sofferenza e umiltà mi sento portato ad esprimere il mio voto di favore”, dirà Geraci annunciando il suo sostegno alla candidatura dell’anziano Antonino Meli: di mafia sapeva poco o nulla ma era stato internato dai tedeschi. Venne nominato consigliere istruttore con 14 voti a favore, 10 contrari (tra i quali Gian Carlo Caselli) e 5 astenuti.
“Un giuda ci ha traditi” - “Quando Giovanni Falcone, solo per continuare il suo lavoro, propose la sua aspirazione a succedere ad Antonino Caponnetto, il Csm, con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Csm ci fece questo regalo. Gli preferì Antonino Meli”, si sfogherà Paolo Borsellino, nel suo ultimo intervento pubblico il 25 giugno del 1992. Borsellino non indicherà mai chi fosse quel Giuda: venne ucciso, infatti, meno di tre settimane dopo quell’intervento. Molti anni dopo, quindi, quando il giornalista Rino Giacalone tirerà in ballo Geraci, quest’ultimo lo querelerà per diffamazione. Oggi Geraci è procuratore generale aggiunto della Cassazione: in pratica è il vice di Pasquale Ciccolo, titolare dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati.
Il Corvo senza nome - Sempre per rimanere nel campo delle toghe non si può non citare il famoso caso del Corvo di Palermo, l’anonimo autore di lettere in cui si accusava Falcone di avere gestito illegalmente il pentito Totuccio Contorno: addirittura di averlo chiamato a Palermo per mandarlo a caccia dei boss del clan dei corleonesi. Accusato di essere il Corvo fu il giudice Alberto Di Pisa, condannato in primo grado a un anno a sei mesi e poi assolto definitivamente nel 1993. L’identità del Corvo non sarà mai individuata mentre tra i detrattori di Falcone si possono annoverare anche personaggi estranei alla magistratura. A cominciare magari da semplici e normali privati cittadini.
“Spostate i magistrati in periferia” - La Palermo in cui ha vissuto Giovanni Falcone era molto diversa dalla Palermo che si è svegliata dopo quello che i mafiosi battezzarono come l’Attentatuni. Un esempio? Una lettera pubblicata dal Giornale di Sicilia negli anni ’80. A scriverla è una donna che abita nelle vicinanze del condominio in cui Falcone fa ritorno ogni sera, blindato dalle auto della scorta. Il motivo della missiva? “Regolarmente tutti i giorni, al mattino, nel primissimo pomeriggio e la sera, vengo letteralmente assillata da continue e assordanti sirene di auto della polizia che scortano i vari giudici. Ora mi domando: è mai possibile che non si possa eventualmente riposare un poco nell’intervallo del lavoro? O quanto meno seguire un programma televisivo in pace?”; scriveva la vicina di casa del giudice che poi lanciava un invito: “Perché i magistrati non si trasferiscono in villette alla periferia della città, in modo tale che sia tutelata la tranquillità di noi cittadini lavoratori e l’incolumità di noi tutti, che nel caso di un attentato siamo regolarmente coinvolti senza ragione”. Parole che fanno un certo effetto. Soprattutto oggi che l’albero Falcone - nei pressi dell’abitazione del magistrato - sarà invaso da persone arrivate a Palermo da tutta Italia.
L’attacco in diretta tv - Le cose per Falcone non andavano meglio quando accettava di partecipare a qualche trasmissione televisiva. Nota, anzi notissima, è la puntata che Michele Santoro e Maurizio Costanzo dedicano in tandem alla memoria dell’imprenditore Libero Grassi, ucciso nell’agosto del 1991. In studio tra gli ospiti c’è il giudice palermitano, attaccato più volte in quell’occasione da personaggi che avranno storie future completamente diverse. “Falcone ha dichiarato che è notorio che l’onorevole Salvo Lima utilizzava la macchina degli esattori Salvo”, è l’intervento - in collegamento da Palermo - di Leoluca Orlando. “C’era bisogno che lo dicessi io perché si sapesse dei rapporti tra i Salvo e i Lima”, risponde Falcone, raccogliendo la replica dell’allora leader della Rete. “Ecco un’ulteriore conferma“, dice in diretta televisiva Orlando, che in pratica accusava Falcone di non aver perseguito volontariamente l’europarlamentare della Dc. Quelle accuse a Falcone saranno rinfacciata per anni al primo cittadino palermitano, il quale chiederà poi scusa per le sue parole.
Quella trasmissione, però, è passata alla storia anche per l’intervento di Totò Cuffaro. “Ho assistito ad una volgare aggressione alla classe migliore che abbia la Democrazia Cristiana in Sicilia. Il giornalismo mafioso che è stato fatto stasera fa più male di dieci anni delitti”, è una parte dello sfogo del futuro governatore della Sicilia, poi condannato in via definitiva per favoreggiamento alla mafia. Per il video di
quell’intervento - intitolato su youtube “Totò Cuffaro aggredisce Giovanni Falcone” - l’ex presidente siciliano ha querelato Antonio Di Pietro, che lo aveva postato sul suo blog: il tribunale gli ha dato ragione.
“Giovanni vattene da Roma” - E se oggi tutti concordano nel valutare come un salto di qualità nella lotta alla mafia il passaggio di Falcone a Roma per dirigere gli Affari Penali del ministero di Grazia e Giustizia, così non era in quel 1992. “Secondo me Falcone farebbe bene ad andarsene il più presto possibile dai palazzi ministeriali, perché l’aria non gli fa bene proprio“, disse l’avvocato Alfredo Galasso nella stessa puntata del Maurizio Costanzo Show, nota per l’esordio televisivo di Cuffaro. “Questo mi sembra scarso senso dello Stato. Al ministero di Grazia e Giustizia ci sono posti espressamente previsti per i magistrati”, fu la replica di Falcone, attaccato spesso per il suo trasferimento a Roma anche in altre salotti televisivi. “Noi abbiamo imparato a conoscerla quando viveva barricato laggiù e forse l’abbiamo un po’ mitizzata. Adesso che sta al ministero e che scrive editoriali sulla Stampa, le sue posizioni sembrano più morbide, più sfumate. Non vorrei dire che ci ha un po’ deluso negli ultimi tempi ma sicuramente è cambiato: lei lo sa? Ne è consapevole?”, gli chiede il 12 gennaio del 1992 Corrado Augias durante una puntata di Telefono Giallo. Una trasmissione che passa alla storia soprattutto per la domanda posta da una componente del pubblico. “Lei - chiederà una donna a Falcone - dice nel suo libro che in Sicilia si muore perché si è soli. Giacché lei fortunatamente è ancora con noi: chi la protegge?” La reazione del magistrato è amara: “Questo vuol dire che per essere credibili bisogna essere ammazzati?”
Critiche asprissime arriveranno a Falcone nello stesso periodo anche sulla stampa. È il momento in cui il magistrato siciliano è candidato a dirigere la cosiddetta Superprocura (cioè la procura nazionale antimafia) e il poliziotto Gianni De Gennaro la Dia. Lino Jannuzzi, però, sul Giornale di Napoli li indicherà come i “maggiori responsabili della debacle dello Stato di fronte alla mafia... una coppia la cui strategia, passati i primi momenti di ubriacatura per il pentitismo e i maxi-processi, ha approdato al più completo fallimento. Da oggi, o da domani, dovremo guardarci da due Cosa Nostra, quella che ha la Cupola a Palermo e quella che sta per insediarsi a Roma. E sarà prudente tenere a portata di mano il passaporto”.
Jannuzzi in seguito sarà senatore di Forza Italia per ben due legislature. In precedenza, tra l’altro - lo ricorda Caselli sul Fatto Quotidiano di qualche giorno fa - erano stati altri due futuri parlamentari di centrodestra ad attaccare Falcone dalle colonne del Giornale e del Giornale di Sicilia: Ombretta Fumagalli Carulli e Guido Lo Porto. Nei loro articoli il maxi-processo viene definito un “un processo-contenitore abnorme, un meccanismo spacciato come giuridico”, mentre i procedimenti genericamente contro Cosa nostra vengono bollati come “messinscene dimostrative, destinate a polverizzarsi sotto i colpi di quel po’ che è rimasto dello Stato di diritto”, “montature” allestite dai “registi del grande spettacolo della lotta alla mafia”.
“Un mediocre pubblicista” - Gli opinionisti non saranno teneri neanche quando Falcone darà alle stampe un libro - Cose di Cosa nostra - scritto alla fine del 1991 insieme a Marcelle Padovani. “Scorrendo il libro-intervista di Falcone, “Cose di cosa nostra”, s’avverte (anche per il concorso di una intervistatrice adorante) proprio questo: l’eruzione di una vanità, d’una spinta a descriversi, a celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste del ministro De Michelis o dei guitti televisivi”, scriverà Sandro Viola in un’editoriale durissimo pubblicato da Repubblica il 9 gennaio del 1992. “A Falcone non saranno necessarie, ma a me servirebbero, invece, due o tre particolari illuminazioni: così da capire, o avvicinarmi a capire, come mai un valoroso magistrato desideri essere un mediocre pubblicista“, sarà la chiusa di quell’articolo, che oggi è quasi introvabile online. Come i nemici di Falcone: attivissimi quando il giudice era vivo, evaporati dopo il botto di Capaci. E in qualche caso diventati amici intimi del magistrato assassinato. Ma - ovviamente - soltanto post mortem.
*Il Fatto Quotidiano, 23 maggio 2017 (ripresa parziale - senza immagini).
Un padre di famiglia
di Giuseppe Di Lello (il manifesto, 07.04.2016)
Un padre e una madre, sposati in chiesa con rito concordatario e poi la prole: quella di Totò Riina è una vera famiglia italiana secondo gli stringenti canoni formali dei partecipanti al family day. Come tale si comporta anche nella sostanza, con il marito attento all’educazione dei figli, premuroso e sempre presente, specialmente la sera a cena quando la famigliola si ritrova intorno al desco, non sappiamo quanto frugale.
Poi, come in ogni famiglia normale, tutti insieme si guarda anche la Tv e ci si aggiorna col telegiornale.
Scorrono le immagini delle stragi di Capaci o di Via D’Amelio e il patriarca, forse tra sé e sé, o forse ad alta voce, perché nelle famiglie normali non ci debbono essere segreti, pensa che sarebbe stato molto più gratificante essere sui luoghi al momento di quelle esplosioni, dato che era stato lui a deciderle, programmarle e farle eseguire: poi però, per qualche contrattempo, avrebbe potuto far tardi per la cena familiare e questo non se lo poteva permettere.
La mia è una ricostruzione fantasiosa del menage familiare dei Riina, ma non troppo azzardata, posto che il rampollo ospitato dalla Tv di stato a «Porta a porta» ne ha propagandato più o meno una immagine abbastanza simile. Il suddetto ha ovviamente escluso ogni riferimento a Cosa nostra che senza dubbio nelle conversazioni familiari doveva ricorrere spesso, viste le dure condanne per mafia collezionate da tutti i maschi e, certo, non a loro insaputa.
Ogni anno non vi è scuola che non organizzi un corso sulla legalità e contro le mafie, giornate del ricordo, messe di suffragio, cortei e chi più ne ha, ne metta: poi la Tv di stato ci regala una patetica performance per dirci che i valori della famiglia, quella normale secondo concordato, possono essere coltivati anche in quella di un mafioso come Totò Riina, che si prende somma cura dei suoi figli, anche se poi, fuori dalle sue mura domestiche, ha fatto ammazzare decine di figli degli altri: questo purtroppo è il messaggio che passa.
Non c’è dubbio che non è «informazione», anche se censurarla sarebbe arduo perché solo nei regimi autoritari ci sono canoni standard ai quali adeguare le «opere dell’ingegno».
La Tv di stato, però, pur essendo libera di mandare in onda il Riina junior show, avrebbe dovuto spiegare che era una fiction, dato che nella realtà si trattava non di una famiglia normale, ma di una famiglia mafiosa.
Scandalo Vespa? Ma no, Vespa è il padrone della televisione e fa quello che vuole, anche perché tutto il mondo politico, trasversale quanto mai, sbava per sprofondarsi nelle poltrone del suo salotto consapevole che chi non è invitato non conta granché.
Per una sera questa massa di ipocriti si strapperà le vesti per l’offesa al sentimento antimafioso degli italiani e alle vittime di Totò Riina, ma poi, da domani, tornerà a chiedersi ansiosa quando arriverà il sospirato invito.
SALVO RIINA DA BRUNO VESPA
Il figlio di Riina a Porta a Porta
«Amo mio padre e non lo giudico»
La mafia cos’è? «Non me lo sono mai chiesto, non so cosa sia. Oggi la mafia può essere tutto e nulla. Omicidi e traffico di droga non sono soltanto della mafia»
di Salvatore Frequente (Corriere della Sera, 06.04.2016) *
«Sono figlio di Totò e non del capo dei capi». Si presenta così Salvo Riina, 38enne e una condanna per mafia (già scontata) alle spalle, nella contestata puntata di Porta a Porta. Da Bruno Vespa il figlio di Totò, capo di Cosa Nostra, racconta la vita della famiglia del padre-boss in occasione dell’uscita del suo libro «Riina, family life».
Falcone e Borsellino? «Ho rispetto per tutti i morti»
«Io ho sempre rispetto per i morti, per tutti i morti», dice Salvo quando parla dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Riina Junior osserva con sguardo impassibile le immagini storiche di quelle stragi ordinate dal padre. «Io non giudico Falcone e Borsellino, qualsiasi cosa io dico sarebbe strumentalizzata», dice da Bruno Vespa il figlio di Totò Riina che ricorda così il 23 maggio del 1992 giorno dell’attentato a Falcone: «Ricordo il fatto, avevo 15 anni, eravamo a Palermo e sentivamo tante ambulanze e sirene - aggiunge Riina Jr. - abbiamo cominciato a chiederci il perché e il titolare del bar ci disse che avevano ammazzato Falcone, eravamo tutti ammutoliti. La sera tornai a casa, c’era mio padre e non mi venne mai il sospetto che lui potesse essere dietro quell’attentato».
«La mafia non so cosa sia»
Lui che la condanna per associazione mafiosa a 8 anni e 10 mesi l’ha interamente scontata, con un papà e un fratello condannati all’ergastolo (e al «41 bis») alla domanda «La mafia cos’è?» risponde così: «Non me lo sono mai chiesto, non so cosa sia. Oggi la mafia può essere tutto e nulla. Omicidi e traffico di droga non sono soltanto della mafia». Nato mentre il padre era ricercato, ha vissuto anche lui cambiando sempre abitazione ma quando parla della sua famiglia la descrive solamente come «diversa»: «A casa nostra - dice Riina Jr. a Porta a Porta - abbiamo vissuto sempre nella massima tranquillità. Non ci siamo mai chiesti perché non andavamo a scuola. Mai fatto queste domande, la nostra era una sorta di famiglia diversa». «C’era - prosegue - una sorta di tacito accordo familiare, noi eravamo bambini particolari, il nostro contesto era diverso, abbiamo vissuto anche in maniera piacevole, nella sua complessità è stato come dire un gioco».
«Amo mio padre». L’arresto? «Non lo condivido»
Quel Totò Riina che, per la sua ferocia sanguinaria, è stato soprannominato «la belva», dal figlio viene descritto come un padre affettuoso: «Amo mio padre e la mia famiglia, al di fuori di ciò che gli viene contestato, giudico ciò che mi hanno trasmesso: il bene e il rispetto, se oggi sono quello che sono - dice Salvo da Bruno Vespa - lo devo ai miei genitori. Perché devo dire che mio padre ha sbagliato? Per questo c’è lo Stato, non tocca a me». E lo Stato? «È l’entità in cui vivo» di cui «magari non condivido determinate leggi o determinate sentenze»,dice il figlio di Totò Riina, rispondendo ad una domanda di Bruno Vespa. «Rispetta la condanna contro suo padre?», gli chiede il conduttore: «No, perché è mio padre. A me ha tolto mio padre». Nessun riferimento ai crimini commessi dal padre, nessuna condanna da parte del figlio: «Il quarto comandamento dice: "onora e rispetta sempre i tuoi genitori", e io così faccio», ha detto Salvo. Ma quando Bruno Vespa ribatte citando il quindi comandamento «Non uccidere», Riina ribadisce: «Non devo essere io a giudicare».
L’attacco ai pentiti
Ma il figlio di Totò Riina si spinge anche a parlare dei collaboratori di giustizia. «Negli altri Paesi democratici non accade. Solo in Italia un pentito, che dice di aver commesso centinaia di omicidi, non fa neppure un giorno di carcere, mandano gli altri in carcere e poi loro tornano in giro a fare quello che facevano». I pentiti di mafia, aggiunge Riina Jr., «sono stati sicuramente usati dallo Stato. Non si accusano le persone solo per un tornaconto, ci sarà sempre un giorno in cui dovrai pentirti davanti a Dio».
Le polemiche
Un’intervista che ha fatto discutere prima della messa in onda. A sollevare le polemiche per la presenza di Riina jr. era stata proprio Rosy Bindi, presidente della Commissione Antimafia. «Mi auguro che in Rai ci sia un ripensamento. Ma se questa sera andrà in onda l’intervista al figlio di Totò Riina, avremo la conferma che Porta a Porta si presta ad essere il salotto del negazionismo della mafia e chiederò all’Ufficio di Presidenza di convocare in Commissione la presidente e il direttore generale della Rai», aveva detto Bindi. Poco dopo, l’annuncio di Pier Luigi Bersani di non partecipare alla trasmissione. E dopo ore di polemiche incalzanti arriva la conferma: la puntata andrà in onda. «Tra poco trasmetteremo l’intervista a un mafioso. È Salvo Riina, il figlio di Totò Riina, il capo dei capi della mafia», dice Bruno Vespa lanciando all’inizio del programma Porta a Porta l’intervista del figlio di Totò Riina e sottolineando: «Un ritratto sconcertante, certo, ma per combattere la mafia bisogna conoscerla. E per conoscerla meglio c’è bisogno a nostro avviso anche di interviste come questa».
Maria Falcone: «Fatto indegno»
«La Rai ha deciso di andare avanti e di mandare in onda il figlio di Totò Riina? Vuol dire che non ha avuto la forza di tornare indietro. La sua presenza nel servizio pubblico è un’offesa per tutti, un fatto indegno», ha commentato Maria Falcone, sorella del magistrato ucciso dalla mafia. E la Commissione parlamentare Antimafia ha convocato per domani, giovedì 7 aprile, alle ore 16, la presidente della Rai, Monica Maggioni e di direttore generale Antonio Campo Dall’Orto, per un’audizione urgente sulla vicenda.
Salvatore Borsellino
Salvatore Borsellino, fratello del magistrato ucciso dalla mafia guidata da Totò Riina, affida a un post di Facebook il suo sfogo: «Noi familiari delle vittime di mafia eventi di questo tipo significano ancora una volta - scrive - una riapertura delle nostre ferite, ove mai queste si fossero chiuse, ma ormai purtroppo questo, dopo 24 anni un cui non c’è stata ancora né Verità né Giustizia, è una cosa a cui ci siamo abituati, ma mai rassegnati».
Il no di Fnsi e Usigrai
Anche l’Usigrai, il sindacato dei giornalisti di Viale Mazzini, e la Federazione nazionale della stampa sono contrari alla messa in onda dell’intervista: «Dopo i Casamonica, stasera a Porta a Porta la famiglia Riina. La Rai Servizio Pubblico non può diventare il salotto di famiglie criminali. Chi strumentalmente vuole invocare presunte volontà censorie, ci dica perché non si dedica almeno lo stesso spazio alle giornaliste e ai giornalisti minacciati». Scrivono così il segretario generale e il presidente della Fnsi, Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, e il segretario dell’Usigrai, Vittorio Di Trapani.
I familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili
Interviene nella polemica anche l’Associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili: «Possibile che siamo costretti a subire una offesa così grave, senza poter far nulla? Ma che Paese è quello che consente a conduttori televisivi di emittenti di Stato di insultare le vittime di Cosa nostra per mere ragioni che ci rifiutiamo di prendere in considerazione?», chiede la presidente Giovanna Maggiani Chelli.
Grasso: «Non guarderò Porta a Porta»
Sulla questione è intervenuto anche Pietro Grasso. Il presidente del Senato commenta su Twitter: «Non mi interessa se le mani di #Riina accarezzavano i figli, sono le stesse macchiate di sangue innocente. Non guarderò @RaiPortaaPorta».
«In 20 anni di Porta a Porta Vespa non si è mai occupato del delitto di Piersanti Mattarella e non ha mai invitato in studio il fratello, oggi presidente della Repubblica. Adesso invita il figlio del carnefice. È questo il nuovo servizio pubblico?», si chiede il deputato del Pd e segretario della commissione di Vigilanza Rai Michele Anzaldi. Interviene anche Ernesto Magorno, deputato Pd e componente dell’Antimafia: «La Rai ascolti l’appello della presidente Bindi e ci ripensi. La presidente e il direttore generale della Rai intervengano. C’è il rischio che proprio dalla prima rete del servizio pubblico il figlio del boss mandi messaggi e segnali di natura inquietante e inaccettabile. Siamo sicuri che sia questo il tipo di giornalismo di cui ha bisogno il servizio pubblico?».
* Corriere della Sera, 6 aprile 2016 (modifica il 7 aprile 2016 | 07:50) (ripresa parziale - senza video).
Lucia Borsellino, ex assessore in prima linea
Figlia del magistrato ucciso, ha lavorato sempre nella Sanità
di Redazione ANSA PALERMO 16 luglio 2015 15:18 Profilo
Lucia Borsellino è la primogenita di Paolo Borsellino, il magistrato ucciso dalla mafia il 19 luglio del ’92 nella strage di via D’Amelio. Gli altri due figli sono Manfredi, commissario di polizia e Fiammetta, assistente sociale.
Laureata in Farmacia, 45 anni, sposata e con due figlie, Lucia Borsellino è dipendente dell’assessorato regionale alla Sanità. Nel 2008 venne chiamata nell’ufficio di gabinetto dell’ allora Assessore alla Sanità Massimo Russo, ex Pm che aveva lavorato a Marsala al fianco del padre, nel governo guidato da Raffaele Lombardo. Nominata dirigente generale dell’assessorato, in precedenza si era occupata con successo anche dell’ufficio speciale per il piano di rientro.
Nel novembre 2012 dopo la vittoria alle ultime elezioni del Governatore Rosario Crocetta, che l’aveva designata nella sua squadra, è stata nominata assessore regionale alla Sanità e riconfermata dal presidente in tutti e tre i governi che si sono succeduti fino ad oggi. Ha lasciato la giunta nel giugno scorso anche in polemica con il rapporto tra Crocetta e Tutino.
Medico a Crocetta, "Lucia Borsellino va fatta fuori come suo padre". Intercettazione choc, governatore si autosospende Il medico è stato arrestato nei giorni scorsi. Crocetta, che al telefono tace dopo la frase, sostiene di non averla sentita
di Redazione ANSA PALERMO 16 luglio 2015 15:19
Scoppia il caso Crocetta. Il governatore siciliano si auto-sospende dalla sua carica dopo le polemiche per un’intercettazione, pubblicata dall’Espresso, nella quale il suo medico, Matteo Tutino, parlando di Lucia Borsellino afferma: "Va fermata, va fatta fuori come suo padre". Parole che Crocetta dice di non aver sentito.
"Mi auto-sospendo immediatamente da presidente della Regione". Così all’ANSA il governatore della Sicilia, Rosario Crocetta, sull’onda delle polemiche per l’intercettazione nella quale Tutino dice: "Va fermata e va fatta fuori come suo padre". Come Paolo Borsellino, il giudice assassinato il 19 luglio 1992.
"Non posso - dice Lucia Borsellino all’ANSA - che sentirmi intimamente offesa e provare un senso di vergogna per loro".
Sono parole pesantissime quelle intercettate pochi mesi fa. A pronunciarle un medico di successo: Matteo Tutino, primario dell’ospedale palermitano Villa Sofia, arrestato nei giorni scorsi. All’altro capo del telefono c’è il governatore della Sicilia, suo paziente, ascolta e tace. Il contenuto dell’intercettazione è rivelato dall’Espresso nel numero in edicola domani e anticipato sul sito on line del settimanale.
"Non ho sentito la frase su Lucia, forse c’era zona d’ombra, non so spiegarlo; tant’è che io al telefono non replico. Ora mi sento male. Se avessi sentito quella frase, non so... avrei provato a raggiungere Tutino per massacrarlo di botte, forse avrei chiamato subito i magistrati. Non so... sono sconvolto. Provo un orrore profondo". Così all’ANSA replica Crocetta.
Faraone, inevitabili le dimissioni di Crocetta - "Inevitabili dimissioni Crocetta e nuove elezioni. Quelle parole su Lucia Borsellino una vergogna inaccettabile. #Sicilia". Lo scrive su twitter il sottosegretario all’Istruzione, Davide Faraone, braccio destro di Renzi in Sicilia in merito all’intercettazione tra il medico Matteo Tutino e il governatore Rosario Crocetta
Il coraggio non cancella la paura
Per Nino Di Matteo la guerra si vince se non si scende a patti con il nemico (né con se stessi)
di Corrado Stajano (Corriere della Sera, 27.05.2015)
«Io resto al mio posto, non mi rassegno a questo stato di cose. Soffro tremendamente le limitazioni della mia libertà, nel tempo divenute sempre più pressanti, ma ho anche buoni motivi per reagire allo scoramento e alla stanchezza mentale». A esprimersi così è Nino Di Matteo, pubblico ministero del processo sulla trattativa Stato-mafia in corso a Palermo, l’uomo più odiato da Cosa nostra, il magistrato che Totò Riina vuole morto.
Con il giornalista Salvo Palazzolo, Nino Di Matteo è autore di Collusi. Perché politici, uomini delle istituzioni e manager continuano a trattare con la mafia, appena pubblicato dalla Bur (pagine 186, e 16,50). Il libro è un documento prezioso non soltanto per conoscere a fondo le pratiche della trattativa con i poteri criminali, comportamento devastante per uno Stato di diritto, anche se non sembra che il dibattimento in corso venga seguito con la dovuta attenzione dall’opinione pubblica. Collusi è anche una lezione di umiltà così com’è costruito, capace però di prendere alla gola per il dramma che raccontano le sue pagine, per le storie sanguinanti che hanno lacerato e seguitano a minacciare un Paese civile come il nostro.
Di Matteo ha mostrato di avere la schiena diritta, anche se il coraggio, confessa, non cancella la paura. Ma chi potrà ripagarlo di quel senso di solitudine, di isolamento e di spaesamento che tanti fedeli servitori dello Stato, prima di lui, soffrirono in quel Palazzo dei veleni di Palermo?
Non si contano le minacce, i propositi di ucciderlo, gli ossessivi ordini di morte di Totò Riina. Ne parlò in carcere, all’ora d’aria, registrato da una telecamera, con il boss pugliese Alberto Lorusso. Le testimonianze dei «pentiti», poi: Vito Galatolo, di una temibile famiglia stragista, ha confessato pochi mesi fa a Di Matteo che a Palermo era arrivato l’esplosivo, duecento chili di tritolo, tutti per lui (pare, speriamolo, che il magistrato sia ben protetto. Giovanni Bianconi ha scritto sul Corriere che, oltre alle normali misure di sicurezza per la sua tutela, è in funzione anche il bomb jammer che serve a rilevare gli ordigni attivati a distanza).
«Se si vuole vincere la guerra, e non semplicemente le battaglie, non si deve scendere a patti con il nemico. E nemmeno dargli la sensazione di scendere a patti»: è il leitmotiv di Collusi. Se Cosa nostra fosse soltanto una normale organizzazione criminale sarebbe stata ovviamente annientata, in un secolo e mezzo di esistenza, dalle forze di polizia. Sono state e sono proprio le sue connessioni con il potere politico e finanziario e con l’ambiguità di uomini corrotti delle istituzioni ad aver fatto della mafia il mostro che è.
I politici imputati davanti alla Corte d’Assise di Palermo non rispondono del «reato di trattativa», scrive Di Matteo. Quel che viene contestato agli uomini delle istituzioni è di aver «consapevolmente assunto il ruolo di cinghia di trasmissione tra Cosa nostra e il governo nel prospettare i desiderata dell’organizzazione mafiosa, così concorrendo al vero e proprio ricatto che i boss stavano portando avanti nei confronti delle istituzioni». È nata così la contestazione «del reato di concorso in violenza o minaccia al corpo politico dello Stato».
Di Matteo analizza gli anni focali dell’ultimo Novecento, il 1982, l’assassinio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa; il 1992, l’assassinio del dc Salvo Lima, gran luogotenente di Sicilia, punito perché non rispettò i patti con la mafia e, nello stesso anno, gli assassinii di Falcone e di Borsellino. Le zone d’ombra mai cadute, le domande senza risposta, i sospetti sulla trattativa sono ancorati a quegli anni. L’estate delle lenzuola bianche di Palermo - il popolo della città visse allora ribelle nelle strade - finì presto, per stanchezza, delusione. Poi la controffensiva della mafia, il 1993, e l’oscura stagione delle stragi-ricatto di quella primavera-estate a Roma, Firenze, Milano. Non sono stati sufficienti i processi, le indagini, le condanne di personaggi di rilievo a dire la verità su quanto accadde. E non ha certo contribuito alla chiarezza il conflitto tra la Procura di Palermo e il Quirinale, con le imbarazzanti telefonate tra Nicola Mancino e l’allora presidente della Repubblica, nel 2011-2012, di cui tutto si doveva sapere.
Collusi è una miniera di documenti, fatti, giudizi che fa capire il mondo della mafia anche a chi crede di conoscerlo. Qualche tema affrontato nel libro: la sottigliezza delle strategie criminali dell’organizzazione che non è più quella dei disegni di Bruno Caruso, coppola e lupara. I patti di scambio tra mafia e politica: elettorali, economici, imprenditoriali. Le mani sugli ingenti stanziamenti pubblici. La figura dell’intermediario insospettabile. I boss che non hanno più bisogno di farsi avanti, è lo Stato che li cerca. Il riscatto della Chiesa, l’importanza di papa Francesco. Le talpe nelle istituzioni. Il rischio delle fonti confidenziali. La prudenza e la pavidità di non pochi magistrati e i pericoli quotidiani che vivono invece coloro che «vanno troppo oltre». Il ruolo di certa massoneria. La troppo lunga latitanza di Matteo Messina Denaro che fa sospettare si voglia proteggere chi custodisce segreti inconfessabili sulle stragi. Un libro importante, Collusi. Soprattutto utile in un Paese senza memoria.
Stato e mafia
Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino
di Roberto Scarpinato (il Fatto, 21.01.2014)
Quel che non cessa di interrogarmi della vicenda di Paolo è la rassegnazione impotente all’ineluttabile che lo pervase nell’ultimo mese di vita. È come se a un certo punto si fosse reso conto - lui che era stato un indomito combattente per tutta la vita - che nulla e nessuno avrebbe potuto salvarlo. Il senso di questa solitudine impotente emerge da vari indizi.
Ad esempio l’avere sentito la necessità di confessarsi pochi giorni prima del 19 luglio 1992, non in Chiesa, ma nel Palazzo di Giustizia di Palermo, luogo certo inusuale per una confessione. Qui infatti convocò un sacerdote suo amico per confessarsi, compiendo un gesto di grande valenza simbolica che va, io credo, interpretato.
In quel luogo egli aveva vissuto insieme a Giovanni Falcone quella che il 23 giugno 1992, nel suo ultimo discorso pubblico prima della morte, aveva definito una “lotta d’amore” per liberare Palermo dal sistema di potere mafioso, modo straordinario di Paolo di qualificare il senso del proprio impegno antimafia e che dice tanto della sua umanità. In quello stesso luogo, sentendo che la sua lotta d’amore stava volgendo al termine per forze superiori, con quella confessione si apprestava a entrare nella morte vivendo, a occhi aperti, come un martire cristiano che sta per entrare nell’arena dove sa che sarà divorato da bestie feroci sotto lo sguardo di un paese che quasi attendeva la sua fine, come quella di una vittima sacrificale predestinata; sotto lo sguardo impotente di uno Stato che lo aveva consegnato alla sua solitudine e che neppure si era curato di imporre una zona rimozione sotto la casa dell’abitazione materna dove Paolo aveva l’abitudine di recarsi, per rendere almeno più difficile lo sporco lavoro degli assassini.
Altro segnale della rassegnata impotenza di Paolo è la frase che egli nella intimità degli affetti affidò alla memoria della moglie Agnese, e ora consacrata negli atti processuali: “Mi ucciderà la mafia, ma saranno altri che mi faranno uccidere”.
Chi erano questi altri che volevano la sua morte e che Paolo, mente lucidissima, aveva ritenuto di poter individuare e che riteneva talmente potenti da non aver scampo dinanzi ad essi? Forse le tracce per dare un volto a costoro erano in quell’agenda rossa che era divenuta per Paolo una sorta di promemoria sull’indicibile. Quell’indicibile che lui aveva intravisto e che lo aveva lasciato sgomento.
QUELLO stesso sgomento che aveva segnato Giovanni Falcone quando dopo l’attentato all’Addaura nel 1989, aveva compreso che le forze che volevano la sua morte andavano ben al di là degli uomini della mafia, semplici esecutori di disegni di menti raffinatissime, come egli le definì.
E fu allora che Giovanni coniò l’espressione “gioco grande” per alludere al gioco grande del potere che, come un gorgo malefico, ha inghiottito nelle sue spire le vite di tanti.
Un gioco grande che ha attraversato come un vento impetuoso la storia martoriata di questo nostro povero paese sin dalla fondazione della Repubblica il cui atto di nascita è segnato da una strage di mafia - quella di Portella della Ginestra la cui matrice politica è ormai acclarata - e che ha visto concludere la fase terminale della prima Repubblica con le convulsioni dello stragismo del 1992-1993.
E tra l’inizio e la fine è una catena ininterrotta di altre stragi e di omicidi politici che non ha eguali nella storia di alcun altro paese europeo.
Nell’agosto del 2012 mi recai a fare visita ad Agnese Borsellino già gravemente segnata dalla malattia che l’avrebbe condotta a morte nell’anno successivo. A un certo punto mi disse: “Non so se sia stato peggio quello che abbiamo vissuto prima della strage, quando ogni giorno temevamo che Paolo potesse essere ucciso, o quello che siamo stati costretti a vivere dopo”.
E nel dire quel “dopo” i suoi occhi si riempirono di lacrime e la sua mano cominciò ad agitarsi nell’aria come ad alludere a una verità indicibile di cui era stata costretta a rendersi conto, forse quella stessa verità che aveva lasciato sgomento e rassegnato Paolo.
Credo che per rendere onore a Paolo, per strapparlo almeno nella memoria alla terribile solitudine che lo pervase negli ultimi giorni di vita, occorre che in giorni come questi, non solo nelle commemorazioni private, ma anche in quelle ufficiali, cominciamo a dire a noi stessi che egli non è stato solo vittima di personaggi come Riina e i suoi sodali, ma anche della storia malata di un paese democraticamente immaturo che non ha mai saputo fare i conti con il proprio passato, non ha mai avuto la forza di guardare dentro la propria realtà, e che per questo motivo ha lasciato morire nella solitudine alcuni dei suoi figli migliori, rischiando così di far morire insieme a loro anche la parte migliore di sé.
Una manifestazione a Roma
Con i magistrati, per la Costituzione
di Salvatore Borsellino (il Fatto, 12.12.2012)
Caro direttore,
ci sono dei momenti nella vita di una nazione in cui non si può stare alla finestra. Ci sono momenti in cui è necessario mettersi in gioco e dare, ciascuno di noi, il nostro contributo nella difesa dei valori in cui crediamo e che vogliamo trasmettere ai nostri figli.
Stiamo attraversando un momento particolare della nostra storia perché, per la prima volta nella storia del nostro paese, lo Stato sta trovando il coraggio di processare se stesso.
C’è un peccato originale alla base di questa che chiamano Seconda Repubblica, una scellerata trattativa tra pezzi dello Stato e quello che dovrebbe essere l’anti-Stato.
Sull’altare di questa trattativa è stata immolata la vita di Paolo Borsellino, dei ragazzi che gli facevano da scorta, sono stati sacrificati i martiri di via dei Georgofili e di via Palestro.
Per mantenere su di essa il segreto c’è stata una congiura del silenzio che è durata vent’anni e che ha coinvolto centinaia di personaggi della politica e delle istituzioni. C’è stato un depistaggio che ha falsato il processo sulla strage di via D’Amelio.
Quando finalmente l’opera di alcuni magistrati, le rivelazioni di nuovi collaboratori di giustizia, hanno cominciato a squarciare il velo, sono cominciati i muri di gomma e la guerra scatenata contro i magistrati.
Mi sarei aspettato che a questi magistrati arrivassero incoraggiamenti, che venissero spianati gli ostacoli che si frapponevano sulla difficile strada della Verità.
Al contrario ho dovuto leggere con raccapriccio di intercettazioni in cui a un indagato in questo processo, Nicola Mancino, che si lamentava al telefono per essere stato lasciato solo, veniva, non so se a torto o a ragione, promessa la benevolenza e l’attenzione della più alta Istituzione del nostro Stato. Fino all’ultimo atto, quello in cui, per impedire la divulgazione delle intercettazioni che in maniera casuale riguardavano lo stesso Presidente della Repubblica, viene sollevato un conflitto di attribuzione contro la Procura di Palermo, che rischia di essere il più grave ostacolo sull’iter di un processo dal quale ci aspettavamo quella Verità.
PERCHÉ questa ansia, quasi questo panico, sul contenuto di queste intercettazioni e sulla possibilità che l’opinione pubblica ne venga a conoscenza? Forse contengono dei giudizi di merito su dei magistrati, su dei parenti di vittime che a voce troppo alta continuano a gridare la loro rabbia per una verità occultata?
Io non credo, non voglio e non posso credere che sia così, ma è proprio per poterne dissipare anche soltanto il sospetto che la stessa Presidenza della Repubblica dovrebbe chiedere la divulgazione del testo di queste intercettazioni. Anche perché per quanto riguarda direttamente me, fratello di Paolo Borsellino, mi è già sufficiente essere stato escluso, insieme con mia sorella Rita, dal novero dei parenti di Paolo nel messaggio inviato dalla Presidenza della Repubblica all’Anm il 19 luglio.
Questa stessa sorte forse toccherà ora, per le sue manifestazioni di sdegno nei confronti dell’imputato Nicola Mancino, anche ad Agnese, la moglie di Paolo, alla quale, insieme con il figlio, quel messaggio era stato rivolto.
E adesso è arrivata anche la decisione della Consulta sul conflitto di attribuzioni, sentenza della quale non si conoscono ancora le motivazioni, ma che sembra non colmare il vuoto legislativo o indicare una corretta interpretazione della Costituzione riguardo alle casuali intercettazioni riguardanti il Presidente della Repubblica. Sempre che di un vuoto si tratti e non di un esplicito silenzio. E mentre fa riferimento a un inapplicabile, in tale caso, articolo 271 del codice di procedura penale, a meno che in quelle telefonate Mancino non pensasse di rivolgersi al suo avvocato o al suo confessore, la sentenza non manca di censurare pesantemente l’operato della Procura di Palermo che invece ha agito applicando rigorosamente le leggi sulle intercettazioni.
A FRONTE di queste continue invasioni di campo del potere legislativo ed esecutivo su quello giudiziario, per dimostrare a questa classe dirigente che non siamo tutti assopiti, che abbiamo ancora la forza di reagire, noi non resteremo a guardare. E lo facciamo come passo successivo e conseguente all’appello sottoscritto da migliaia di cittadini a sostegno di questi magistrati. Noi crediamo che una firma non sia sufficiente, noi chiamiamo tutti i cittadini che hanno il coraggio, come Antonio Ingroia, di dichiararsi “partigiani della Costituzione”, a scendere in piazza con noi e a gridare la nostra voglia di Giustizia, di Verità e di Resistenza.
Assieme a me, ai giovani e ai sempre giovani delle Agende Rosse e a tutte quelle persone che hanno deciso di non tacere. Assieme a Marco Travaglio, a Luigi De Magistris, a Ferdinando Imposimato, a Sonia Alfano, a Sabina Guzzanti, ad Aldo Busi, ad Antonio Padellaro, a Marco Lillo, a Vauro Senesi, a Moni Ovadia, a Silvia Resta, a Sandra Amurri, a Fabio Repici, a Daniele Silvestri, a Manuel Agnelli e a tanti altri, che sabato 15, a Roma, in Piazza Farnese hanno accettato con entusiasmo di essere assieme a noi.
Dimostriamo a questa classe dirigente, al paese, a noi stessi, che siamo ancora capaci di alzare la testa. A fianco dei magistrati del pool di Palermo.
In piazza
Le Agende rosse: “Fuori la verità sulla trattativa”
di Sandra Amurri (il Fatto, 16.12.2012)
Nonostante il tempo inclemente a Piazza Farnese ha prevalso la passione civica. Circa un migliaio di persone hanno partecipato alla manifestazione “Noi sappiamo” organizzata dalle Agende Rosse a sostegno della Procura di Palermo per pretendere verità sulla trattativa Stato-mafia. Grande assente la stampa. “I cittadini hanno diritto alla verità, io sono qui perché da cittadino ho un debito con i magistrati che hanno dato la vita, che vivono blindati per estirpare un cancro che distrugge l’economia. Non stiamo aggredendo nessuno, stiamo chiedendo ciò che ci spetta di diritto: verità”, a parlare è Moni Ovadia.
“Della trattativa sappiamo già tutto, ci manca solo di sapere quanti fossero al corrente indipendentemente da chi, nel trattare, abbia commesso un reato. Lo scopo non è mandare in galera un ufficiale dei carabinieri o un politico in pensione, ma mettere un timbro nel nome del popolo italiano su una verità emersa grazie al lavoro della Procura di Palermo, di Firenze, di Caltanissetta e di quei pochi giornalisti. È una vicenda che resterà impressa nella storia anche se dovessero essere assolti tutti gli imputati”, ha spiegato Marco Travaglio, che a conclusione ha ricordato come la stampa di regime ha trattato la decisione “inconsulta” per dirla con Salvatore Borsellino, animatore instancabile, come se la Consulta avesse il potere cancellare i fatti. “Le 4 telefonate tra Mancino e Napolitano dovranno essere distrutte, ma chi volesse conoscere la vergogna che resterà indelebile nella storia non ha che da leggere le 8 telefonate tra Mancino e il consigliere giuridico di Napolitano in cui vengono mobilitati tutti i mobilitabili affinché quell’indagine non si faccia”.
Anche Antonio Padellaro ha sottolineato come uno dei fatti più gravi della storia sia stato oscurato dalla stampa italiana che può essere riassunto con la scritta: “Non disturbare il manovratore”. “Quando vengono attaccati quei pochi giornali che chiedono verità, silenzio di tomba, quando invece la Corte costituzionale emette la sentenza si sente l’ applauso e la questione è chiusa”. Sale sul palco Sabina Guzzanti: “È importante che il Capo dello Stato non si metta di traverso e il processo si concluda con una sentenza decente” che chiude così: “Se per la trattativa si dovessero mandare in galera tutti quelli che sapevano ci finirebbe mezzo Stato”. Seguono Vauro (“finché non avremo la verità le piazze non resteranno vuote”) e Aldo Busi (“sono qui per ascoltare e ringraziare, e chi non è qui non sa quale allegria si è perso”). Fiorella Mannoia in video interpreta la fiaba di Gianni Rodari “Il paese dei bugiardi”.
La vedova Borsellino,
una lettera ai giovani
di AGNESE BORSELLINO (La Stamap, 20/7/2012)
Carissimi giovani, mi rivolgo a voi come ai soli in grado di raccogliere davvero il messaggio che mio marito ha lasciato, un’eredità che oggi, malgrado le terribili verità che stanno mano a mano affiorando sulla morte di mio marito, hanno raccolto i miei tre figli, di cui non posso che andare orgogliosa soprattutto perché servono quello stesso Stato che non pare avere avuto la sola colpa di non avere fatto tutto quanto era in suo potere per impedire la morte del padre.
Leggendo con i miei figli (qui in ospedale dove purtroppo affronto una malattia incurabile con la dignità che la moglie di un grande uomo deve sempre avere) le notizie che si susseguono sui giornali, dopo alcuni momenti di sconforto ho continuato e continuerò a credere e rispettare le istituzioni di questo Paese, perché mi rendo conto che abbiamo il dovere di rispettarle e servirle come mio marito sino all’ultimo ci ha insegnato, non indietreggiando nemmeno un passo di fronte anche al solo sospetto di essere stato tradito da chi invece avrebbe dovuto fare quadrato attorno a lui.
Io e i miei figli non ci sentiamo persone speciali, non lo saremo mai, piuttosto siamo piccolissimi dinanzi la figura di un uomo che non è voluto sfuggire alla sua condanna a morte, che ha donato davvero consapevolmente il dono più grande che Dio ci ha dato, la vita. Io non perdo la speranza in una società più giusta ed onesta, sono anzi convinta che sarete capaci di rinnovare l’attuale classe dirigente e costruire una nuova Italia.
La vedova Borsellino
"Abbiamo il dovere di servire lo Stato"
Rispetto per le istituzioni, speranza nella verità, fiducia nel futuro. Mentre infuria lo scontro istituzionale tra la procura di Palermo e il Quirinale sull’uso delle intercettazioni sulla trattativa Stato-mafia, mentre due fratelli di Paolo Borsellino - il leader delle «Agende rosse» Salvatore e l’europarlamentare Rita - scendono in campo contro il Colle, la vedova del giudice, Agnese, e i suoi tre figli affidano a una lettera il ricordo dell’uomo ucciso vent’anni fa in via D’Amelio e diventato icona dell’antimafia.
Lontani dalle polemiche dirette, ma decisi a dire la loro su quello Stato in cui continuano a credere seppure «non abbia fatto tutto quello che era in suo potere per impedire la morte» del magistrato. Seppure la mancata protezione non sembri la sua «sola colpa». Seppure Manfredi abbia di recente bollato come un processo-farsa quello che a Caltanissetta portò a sette ergastoli in seguito a un colossale depistaggio e abbia accusato il responsabile delle indagini, Arnaldo La Barbera, di essere «uno che aveva molta fretta di fare carriera». Nonostante tutto questo, la famiglia sceglie di ribadire fiducia nelle istituzioni perché «abbiamo il dovere di rispettarle e servirle come mio marito sino all’ultimo ci ha insegnato», dice la vedova nella lettera.
È lei a firmare venti righe rivolte ai giovani, dettate dal letto dell’ospedale dove - scrive - «affronto una malattia incurabile con la dignità che la moglie di un grande uomo deve sempre avere». Righe partorite insieme con i figli, tra le flebo e il via vai dei dottori: un ricovero che non le ha consentito, come già era successo per l’anniversario di Capaci, di partecipare alle commemorazioni del marito. Righe composte e serene che suonano come un controcanto nel giorno della memoria diventato terreno di scontro.
A portare pubblicamente il testimone del ricordo è stato Manfredi, oggi commissario di polizia a Cefalù: mercoledì sera, alla chiesa di San Domenico, insieme con gli scout, a ridare voce al celebre discorso che il padre tenne il 23 giugno del 1992, per il trigesimo di Falcone. Ieri mattina alla caserma Lungaro, insieme con i familiari degli agenti della scorta caduti con il padre: Agostino Catalano, Eddie Cosina, Fabio Li Muli, Emanuela Loi, Claudio Traina, tutti giovani. Poi a Palazzo di giustizia, con il figlioletto Paolo - quattro anni e mezzo - aggrappato ai suoi pantaloni, ad ascoltare le parole di Diego Cavaliero, uno dei giudici ragazzini che Paolo formò alla procura di Marsala, e poi di don Cesare Rattoballi, il prete al quale il giudice affidò i pensieri più intimi sulla ineluttabilità della morte alla quale andava incontro. «Non indietreggiando nemmeno un passo di fronte anche al solo sospetto di essere stato tradito da chi invece avrebbe dovuto fare quadrato attorno a lui», scrive adesso la moglie, in memoria di un marito amatissimo «che non è voluto sfuggire alla sua condanna a morte, che ha donato davvero consapevolmente il dono più grande che Dio ci ha dato, la vita».
E non perché avesse la vocazione al martirio, non perché volesse lasciare tre figli orfani ma perché - ha chiarito poche settimane fa il figlio - «non toccava a lui pensare alla sua sicurezza personale, perché c’erano altre persone e istituzioni deputate a farlo». Malgrado questo, malgrado «le terribili verità che stanno mano a mano affiorando sulla morte di mio marito», malgrado «alcuni momenti di sconforto” dovuti “alla lettura in ospedale delle notizie che si susseguono sui giornali», scrive, Agnese si dice orgogliosa dei figli perché servono lo Stato, quello stesso Stato in cui credeva il marito.
Manfredi ha reso omaggio a suo padre come è stile di famiglia: lavorando sodo. E raccogliendo i frutti di un’inchiesta che ha portato a dieci arresti tra i paesi delle Madonie. La sorella Lucia è rimasta al timone del dipartimento Salute dell’assessorato regionale alla Sanità. L’altra sorella, Fiammetta, appartata nella sua casetta di contrada Kamma a Pantelleria - l’isola che il giudice adorava - ieri ha fatto celebrare una messa in ricordo del padre. Una messa di campagna, con il parroco del paese, i contadini, pochi amici.
Tutti, come sempre, uniti come una falange. Tutti con nomi scelti dal padre sulla base delle sue passioni letterarie: la Fiammetta di Boccaccio; la Lucia manzoniana; Manfredi, ultimo re di Sicilia.
Tutti e tre desiderosi di un profilo basso, di una testimonianza discreta. Lontani dai clamori, perché «non ci sentiamo persone speciali, non lo saremo mai». Anche ieri, mentre Palermo e tutto il Paese si dilaniava tra accuse e polemiche, tutti testardamente fiduciosi nel futuro. «Io non perdo la speranza in una società più giusta e onesta - dice Agnese ai giovani - sono anzi convinta che sarete capaci di rinnovare l’attuale classe dirigente e costruire una nuova Italia».
* La Stampa, 20/07/2012
Messaggio del Presidente Napolitano in occasione del 20° anniversario dell’uccisione del giudice Borsellino
"Al fianco di quanti continuano l’opera di Paolo Borsellino e di tutti coloro che come lui sono caduti in nome della legge" *
"Desidero far giungere in quest’Aula nella quale si commemora e si onora la figura di Paolo Borsellino, l’espressione - innanzitutto - della mia rispettosa e affettuosa vicinanza alla signora Agnese". Così il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nel messaggio inviato, in occasione del 20° anniversario del tragico attentato in cui persero la vita Paolo Borsellino e gli agenti addetti alla sua tutela, alla odierna commemorazione promossa dall’Associazione Nazionale Magistrati a Palermo.
"Il 23 maggio scorso - ha continuato il Capo dello Stato - ella volle - nell’impossibilità di partecipare di persona alla grande cerimonia nell’Aula Bunker - indirizzarmi una lettera di commovente, generoso apprezzamento per il mio operato di Presidente della Repubblica, e dirmi il suo conforto per aver visto diventare Borsellino e Falcone dei ’simboli per i giovani e le persone oneste di buona volontà’. E la lettera si concludeva con un riferimento a ’quello Stato in cui mio marito ci ha insegnato a credere malgrado tutto e tutti’, volendo che io sapessi come ella ’fino all’ultimo giorno della sua vita attenderà con pazienza di conoscere le ragioni per cui suo marito morì e i motivi per i quali nei primi anni dopo la strage è stata costruita una falsa e distorta verità giudiziaria’. Quale secondo terribile dolore è stata per lei e per i suoi figli, signora Agnese, quella contraffazione della verità! E quale umiliazione è stata per tutti noi che rappresentiamo lo Stato democratico!"
"Si sta lavorando - ha proseguito il Presidente Napolitano - si deve lavorare senza sosta e senza remore per la rivelazione e sanzione di errori ed infamie che hanno inquinato la ricostruzione della strage di via D’Amelio. Si deve giungere alla definizione dell’autentica verità su quell’orribile crimine che costò la vita a un grande magistrato protagonista con Giovanni Falcone di svolte decisive per la lotta contro la mafia. Questo è l’imperativo oggi a distanza di vent’anni ; questo è il nostro dovere comune, anche verso Agnese, Lucia, Manfredi, Fiammetta, e verso i famigliari - che ci sono egualmente cari - di Emanuela Loi, di Agostino Catalano, di Eddie Walter Cosina, di Vincenzo Li Muli, di Claudio Traina. E tanto più si riuscirà a vincere questa dura e irrinunciabile battaglia di giustizia, quanto più si procederà sulla base di analisi obbiettive e di criteri di assoluto rigore".
"Come ha fermamente dichiarato il Presidente del Consiglio Sen. Monti - ha aggiunto il Presidente Napolitano - ’non c’è alcuna ragion di Stato che possa giustificare ritardi nell’accertamento dei fatti e delle responsabilità’, ritardi e incertezze nella ricerca della verità specie su torbide ipotesi di trattativa tra Stato e mafia. E proprio a tal fine è importante scongiurare sovrapposizioni nelle indagini, difetti di collaborazione tra le autorità ad esse preposte, pubblicità improprie e generatrici di confusione. Su ciò deve vegliare tra gli altri il Presidente della Repubblica, cui spetta presiedere il Consiglio Superiore della Magistratura : e deve farlo, come in questi anni ha sempre fatto, con linearità, imparzialità, severità".
"Signori Magistrati di Palermo - ha proseguito il Capo dello Stato - avete spesso sofferto, nel corso degli anni, per la perdita di eminenti ed esemplari colleghi, che possiamo richiamare e onorare tutti unendoli al ricordo di Paolo Borsellino e di Giovanni Falcone. Vissi io stesso il dramma, lo sgomento, il dolore per il brutale assassinio di quei due eroici servitori dello Stato, vissi quelle ore insieme con il più fraterno amico della mia vita, il senatore Gerardo Chiaromonte, di cui è rimasto per me indimenticabile, insieme con il fermissimo impegno di Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, il rapporto di straordinaria stima e simpatia personale che aveva stabilito con Paolo come con Giovanni. E non si è mai spenta in me la traccia del cocente dolore con cui appresi la notizia dell’agguato omicida a Pio La Torre, con cui avevo strettamente condiviso passione ideale e tensione morale. Intensa era stata già prima la mia commozione per l’uccisione di Cesare Terranova, che avevo avuto fine e apprezzato collega in Parlamento".
"Vedete, Signori Magistrati di Palermo, - ha concluso il Presidente Napolitano - appartengo a una generazione che ha conosciuto la tragedia della guerra fascista e del crollo dell’8 settembre 1943, e ha giovanissima abbracciato l’impegno politico - pur da diverse posizioni ideologiche - nello spirito della Resistenza trasfusosi poi nella Costituzione. In quel contesto, la lotta conseguente contro la mafia, senza cedimenti a rassegnazioni o a filosofie di vile convivenza con essa, è divenuta parte integrante della nostra scelta civile sin da quando ci giunsero gli echi dell’eccidio di Portella delle Ginestre. Sono di recente tornato laggiù, per rinnovare un omaggio e un giuramento a cui sempre sono rimasto e sempre limpidamente rimarrò fedele. Pensando con commozione a Paolo Borsellino, a tutti coloro che sono come lui caduti in nome della legge, e sentendomi al fianco di quanti ne continuano l’opera".
* FONTE: SITO PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA
Il "popolo" delle agende rosse
assedio a Palazzo di giustizia
Un centinaio di persone - fra loro Salvatore Borsellino - chiede "verità e giustizia" sulla strage di via D’Amelio. "Si arrivi ai livelli più alti" *
Un centinaio di persone del ’popolo delle agende rosse’, guidate da Salvatore Borsellino, stanno presidiando da questa mattina il Palazzo di Giustizia di Palermo per chiedere "verità e giustizia" sulla strage di via D’Amelio. Su alcuni manifesti si legge: ’Stragi del ’92-’93. Io non voglio il silenzio’.
Altri manifesti sono invece a favore dei pm che stanno indagando sulla cosiddetta trattativa tra lo Stato e Cosa nostra, dopo la decisione del capo dello Stato di sollevare un conflitto di attribuzione in seguito alle telefonate intercettate tra lo stesso Napolitano e l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, quest’ultimo indagato per falsa testimonianza.
Su un manifesto, con lo sfondo le fotografie dei pm Antonino di Matteo e Antonio Ingroia: ’Difendiamo chi indaga sulla trattativa Stato-mafia’.
"Per accertare la verità sulla morte di mio fratello e dei cinque agenti della scorta bisogna rimuovere tutti gli ostacoli, anche ai livelli più alti", ha dichiarato durante la manifestazione Salvatore Borsellino, fratello del giudice ucciso. "Per noi il 19 luglio è una data importante non solo per rincordare l’anniversario della morte di mio fratello - ha spiegato - ma è una data di lotta. Adesso finalmente si sta avvicinando la verità non si parla più di presunta trattativa ma finalmente di trattativa tra Stato e mafia. L’obiettivo della nostra lotta è quello di dare verità e giustizia a Paolo per tutti noi".
* la Repubblica, 18 luglio 2012
“Lo Stato non può ostacolare la verità”
Pm e politici in ricordo di Borsellino
di Sandra Amurri (il Fatto, 27.06.2012)
Con l’applauso quasi liberatorio, l’immagine di Paolo Borsellino, scolpita nel dolore, sembra non voler scomparire dal video a conclusione della sua testimonianza in quel 25 giugno del ’92 sul tema “Ma è solo mafia? ”. Era proprio qui, nell’atrio della Biblioteca Comunale di Palermo, dove oggi quel discorso viene proiettato.
Si conclude così, in un’atmosfera fortemente emotiva, la serata “Vent’anni dopo non è solo mafia” organizzata dall’associazione “Cittadinanza per la magistratura”. Quell’interrogativo mancante, sancisce un radicale cambiamento: l’odierna consapevolezza che Cosa Nostra non fu da sola.
A 33 giorni dalla strage di Capaci, il giudice, condannato a morte, come racconta la consapevolezza che attraversa il suo viso, denunciava, con toni sommessi ma con una forza dirompente, l’isolamento di Giovanni Falcone. Borsellino verrà ucciso 24 giorni dopo.
MOLTE delle persone in platea e i magistrati sul palco erano presenti allora. Rimbomba e si fa plurale quel “Giuda” con cui Borsellino definì il procuratore che aveva ostacolato l’amico Falcone. Fu Cosa Nostra a compiere la strage che, come spiega il procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi, “apparteneva allo Stato-mafia che si contrappone allo Stato-Stato. Uno Stato-mafia che quando la mafia alza la testa interviene con provvedimenti provvisori per dire alla controparte: stai quieta, non rompere quell’equilibrio che serve a tutti e due.
Mentre lo Stato-Stato fatto di magistrati, di poliziotti, carabinieri e di uomini delle istituzioni fedeli, continua ostinatamente a combattere”. Uno scenario che “ci consegna la storia ma non consegna quei fatti alla storia”. Rita Borsellino chiama “pupari” quelli a cui “ci affidavamo” e ammonisce: “Non sono le istituzioni a essere bacate, ma gli uomini che le occupano abusivamente”.
Leonardo Guarnotta, presidente del Tribunale di Palermo alla domanda su cosa pensi delle telefonate tra D’Ambrosio, consigliere giuridico di Napolitano e Nicola Mancino risponde: “C’è una domanda di riserva? Non trovo le parole. Non abbiamo bisogno di colpevoli ma dei colpevoli, costi quel che costi”. Ricorda: “Abbiamo sempre avuto consapevolezza che ci fossero due Stati contrapposti che Giovanni, con la sua ironia, quando, a notte fonda, uscivamo dalle nostre stanze sintetizzava così: ‘Leonardo, è ora di togliere il disturbo allo Stato’”. Antonio Ingroia visibilmente emozionato spiega: “Con attacchi a testa bassa si chiede alla magistratura di rallentare il passo anziché accelerarlo. Se la politica facesse il suo dovere si realizzerebbe quella coesione di cui si ha bisogno per restituire giustizia e verità”.
Nino Di Matteo elenca i tanti silenzi e i tanti “non ricordo” dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, racconta che un alto esponente delle Istituzioni, ascoltato come testimone al termine del colloquio tira un lungo sospiro di sollievo e alla domanda da cosa derivasse la sua ansia spiega: “Mi hanno insegnato che con la giustizia è meglio non avere nulla a che fare neppure come testimone”.
Per la prima volta la Procura di Palermo fa un processo sull’interlocuzione stato-mafia, escono i nomi e una parte consistente della politica e delle istituzioni apostrofa i magistrati “schegge eversive”. Il giudice Giovanbattista Tona, denuncia “il silenzio colpevole della grande stampa quando non diventa piffero di chi vuole impedire la verità”.
Salvatore Borsellino, che con l’energia di un ragazzo dai suoi 70 anni gira l’Italia con il popolo dell’Agenda Rossa, chiede: “Perché un magistrato dopo l’esplosione ha fatto forzare la portiera della macchina di Paolo per prendere la sua borsa ignorando che non si può alterare la scena del delitto, poi dice di non ricordare a chi l’ha consegnata? ”. E invita i magistrati a leggere una loro lettera a Paolo il 19 luglio in via D’Amelio.
Il sindaco Leoluca Orlando annuncia: “Questo luogo si chiamerà Borsellino, qui verrà ricordato il 25 giugno di ogni anno sino alla verità. Chi ha rispetto delle istituzioni deve impegnarsi con i fatti”. Chiediamo: compreso il Capo dello Stato? “Sì, certamente tenendo conto del ruolo di salvaguardia della tenuta istituzionale senza però garantire impunità ad alcuno”. È notte fonda quando i cancelli della Biblioteca si chiudono. Paolo Borsellino continua a vivere tra i colori dei vicoli di Ballarò che trasudano di quell’umanità che non riduce le figure ma le esalta.
Romanzo di una trattativa
Dal maxiprocesso all’omicidio di Salvo Lima
Dalle stragi 1992-’93 agli interventi dal Colle sulle indagini
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza (il Fatto, 20.06.2012)
Palermo Il giorno della svolta è il 30 gennaio 1992. Quel giorno la Cassazione chiude il maxi-processo con una pioggia di ergastoli per i boss di Cosa Nostra. Salta il tradizionale rapporto tra mafia e politica. Calogero Mannino, l’unico ministro siciliano della Democrazia cristiana, capisce di essere in pericolo e si confida con il maresciallo Giuliano Guazzelli: “O uccidono me o Lima”. La sua è un’intuizione profetica. Il 12 marzo, la chioma bianca dell’eurodeputato Salvo Lima è immersa in una pozza di sangue, sull’asfalto di Mondello.
ROMA-CAPACI SOLO ANDATA
Mannino ha paura. E ne ha ancora di più quando il 4 aprile 1992, anche Guazzelli viene assassinato. Mannino vuole salvarsi la pelle e cerca aiuto: in gran segreto incontra a Roma il generale del Ros Antonio Subranni, lo 007 Bruno Contrada e il capo della Polizia Vincenzo Parisi. L’obiettivo è aprire un contatto con Cosa Nostra per verificare se c’è un modo per fermare la furia omicida.
Ma il 23 maggio 1992, sulla collinetta di Capaci, il boss Giovanni Brusca preme il telecomando che fa saltare con 500 chili di tritolo Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, e tre uomini di scorta. Il Paese è nel caos. Il 25 maggio, dopo la mancata elezione di Giulio Andreotti, e una votazione che a sorpresa ha attribuito 47 voti al giudice Paolo Borsellino, sale al Quirinale Oscar Luigi Scalfaro.
IL ROS E CIANCIMINO
L’8 giugno il Guardasigilli Claudio Martelli vara un decreto antimafia che contiene nuove misure repressive, come l’inasprimento del regime carcerario per i boss, che però non viene reso operativo. Scatta un’autentica emergenza nazionale per salvare le istituzioni dal terrorismo mafioso. Il capitano del Ros Giuseppe De Don-no “aggancia” in aereo Massimo Ciancimino, e chiede un colloquio con il padre, l’ex sindaco di Palermo don Vito. Inizia la trattativa: l’obiettivo ufficiale è fermare lo stragismo. Ciancimino collabora ma vuole coperture “istituzionali”. De Donno informa dei colloqui il direttore dell’Ufficio affari penali, Liliana Ferraro, che, a sua volta, ne parla a Martelli. Poi la Ferraro riferisce l’iniziativa del Ros anche a Borsellino. Il giudice non pare sorpreso: “Ci penso io”, dice.
IL PAPELLO DEL CAPO DEI CAPI
Il boss Totò Riina, il fautore della sfida stragista, esulta: “Si sono fatti sotto! ”. E prepara il cosiddetto “papello” con dodici richieste, tra cui la revisione del ma-xi e la legge sulla dissociazione. Quando Giuliano Amato vara il nuovo governo dei tecnici, Vincenzo Scotti, considerato un “falco”, viene silurato. Al suo posto al Viminale arriva Nicola Mancino, sinistra Dc come Mannino, ritenuto più malleabile. Anche Martelli rischia di saltare, ma resta alla Giustizia anche se il democristiano Giuseppe Gargani (anche lui della sinistra Dc) si candida al suo posto, promettendo di fermare Tangentopoli.
LE LACRIME DI PAOLO
Totò Riina continua a progettare omicidi. Il killer Giovanni Brusca, accompagnato dal complice Gioacchino La Barbera, effettua sopralluoghi a Sciacca e a Palermo alle segreterie di Mannino per pianificare l’agguato che dovrà colpire il ministro siciliano.
A fine giugno, Borsellino in lacrime confida ai colleghi Massimo Russo e Alessandra Camassa: “Un amico mi ha tradito”. Il sospetto degli inquirenti è che si riferisse ad un uomo in divisa, forse a Subranni. Agnese Borsellino racconterà ai magistrati nisseni di aver saputo dal marito che il comandante del Ros era un uomo d’onore. E che “c’era un colloquio tra la mafia e parti infedeli dello Stato”. Subranni oggi ammette di aver saputo della trattativa, ma solo a cose fatte, cioè quando i colloqui tra Mori e don Vito erano già avviati.
Il 1° luglio è il giorno dell’insediamento di Mancino. Mentre si trova a Roma per interrogare Gaspare Mutolo, Borsellino viene convocato al Viminale. Il giudice incontra il neo-ministro, anche se Mancino ammette la circostanza solo vent’anni dopo. Al ritorno, riferisce Mutolo, Borsellino è così nervoso da fumare due sigarette per volta. Il pentito riferisce anche che durante quell’interrogatorio un funzionario della Dia parla di dissociazione. E che Borsellino commenta: “Questi sono pazzi! ”.
“È FINITO TUTTO”
Un’auto imbottita di esplosivo salta in aria in via D’Amelio: muoiono Paolo Borsellino, che secondo il pentito Giovanni Brusca viene considerato un intralcio alla trattativa, e cinque uomini della scorta. È il 19 luglio 1992. Antonino Caponnetto, l’uomo che ideò il pool antimafia (grazie ad un’intuizione di Rocco Chinnici, magistrato ucciso da Cosa Nostra nove anni prima), intervistato dalla tv pronuncia queste parole: “È finito tutto, non mi faccia dire altro”. Il nuovo atto terroristico getta lo Stato in ginocchio, ma neppure adesso la classe politica trova la forza di reagire compatta. Il ministro della Giustizia Martelli deve firmare personalmente il decreto che istituisce il 41 bis, trasferendo i boss detenuti a Pianosa e all’Asinara, perché - dice lui stesso - “non si trovava chi volesse firmare”.
LE BOMBE IN CONTINENTE
A dicembre finisce in carcere Vito Ciancimino, e a gennaio ’93 è la volta di Riina, il cui covo non viene perquisito. L’arresto del capo dei capi avviene all’insaputa del ministro dell’Interno Mancino. “L’ho saputo da una telefonata del capo dello Stato, che si congratulava con me. E anche il presidente del Consiglio non ne sapeva niente”, dirà Mancino al presidente della Corte di assise di Firenze, che commenta: “È formidabile”. Intanto i corleonesi si affidano a Brusca e Bagarella con Provenzano più defilato, dietro le quinte.
E nelle parole dei pentiti spunta Dell’Utri come “uomo-cerniera” tra mafia e Stato. La trattativa prosegue sulla gestione del 41 bis. A febbraio ’93 salta Martelli (accusato da Silvano Larini e Licio Gelli di avere usato il Conto Protezione) e a via Arenula arriva Giovanni Conso. “Non ho mai capito che era in corso una trattativa - dice oggi Martelli - altrimenti avrei scatenato l’inferno”.
Le bombe continuano in via Fauro a Roma contro Maurizio Costanzo, che scampa all’attentato, e in via dei Georgofili a Firenze: 5 morti e 48 feriti. A giugno il duo Capriotti-Di Maggio (quest’ultimo non ha i titoli), con la regia del presidente Scalfaro e l’input dei cappellani delle carceri sostituisce Nicolò Amato al vertice del Dap.
Il 26 giugno Capriotti propone di confermare i provvedimenti di 41 bis. E la risposta di Cosa nostra arriva a fine luglio con le bombe di Roma e Milano. Il 10 agosto la Dia mette nero su bianco l’ipotesi di una trattativa in corso.
LE REVOCHE DEL 41 BIS
E a novembre arrivano 343 revoche di provvedimenti di 41 bis decise da Conso “in assoluta solitudine”. Questa fase del dialogo si chiude il 27 febbraio del ’94 con l’arresto dei boss Giuseppe e Filippo Graviano, che segna la fine delle ostilità.
Silvio Berlusconi si insedia a palazzo Chigi, quando dietro le quinte, secondo i pentiti, Marcello Dell’Utri ha già siglato il nuovo patto di convivenza con Cosa Nostra. Dal 1996, e per circa dieci anni, la lotta alla mafia esce dall’agenda dei segretari dei partiti, Cosa Nostra appare definitivamente sconfitta e così viene raccontata dai media. Riemerge improvvisamente nel dicembre del 2005 con il volto di Massimo Ciancimino, che tra annunci e mezze verità comincia a parlare con i pm e racconta degli incontri tra suo padre e gli ufficiali del Ros, sollecitando la memoria a orologeria di Martelli, Conso, Ferraro, Violante, Scalfaro, Ciampi, Mancino, Amato. E dopo quattro anni di tira e molla, consegna ai magistrati il “papello”.
LO STATO PROCESSA SE STESSO
Nelle procure di Palermo e Caltanissetta lo Stato tenta di processare se stesso. Sfilano davanti ai pm ministri, parlamentari e funzionari in un festival di reticenze e di bugie. Caltanissetta archivia, ritenendo le condotte “non penalmente rilevanti”, ma formulando pesanti giudizi morali. Palermo va avanti ipotizzando il reato di “violenza o minaccia al corpo politico dello Stato”. Dopo quattro anni, i magistrati depositano gli atti, centinaia di intercettazioni svelano le manovre per aiutare Mancino. Partono le interferenze del Colle per salvare la classe politica che ha trattato con Cosa Nostra, comincia il Romanzo Quirinale.
Indagine sulla trattativa Stato-Mafia
Il Quirinale è intervenuto
Il Colle definisce “risibili” e “irresponsabili illazioni” le rivelazioni del Fatto sulle pressioni di Mancino contro i pm di Palermo Ma poi tira fuori la lettera della Presidenza della Repubblica al Pg della Cassazione: la prova dell’interferenza
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza (il Fatto, 17.06.2012)
Palermo E alla fine la lettera è saltata fuori. È firmata da Donato Marra, segretario generale della Presidenza della Repubblica, ed è datata 4 aprile 2012. Destinatario: il Procuratore generale della Cassazione, nella fase di passaggio di consegne tra Vitaliano Esposito e Gianfranco Ciani. La rende pubblica il Quirinale in una nota emessa poco prima delle 19 di ieri: “Per stroncare ogni irresponsabile illazione sul seguito dato dal capo dello Stato a delle telefonate e a una lettera del senatore Mancino in merito alle indagini che lo coinvolgono”. A nome di Napolitano, Marra “gira” al pg della Suprema Corte le lamentele di Mancino, indagato a Palermo per la trattativa che “si duole del fatto che non siano state fin qui adottate forme di coordinamento delle attività svolte da più uffici giudiziari sulla cosiddetta trattativa”.
Ma il Quirinale non si limita a una semplice trasmissione: Marra informa il pg che le preoccupazioni di Mancino, ex presidente del Senato e tuttora rispettabile cittadino italiano, sono condivise da Napolitano. “Conformemente a quanto da ultimo sostenuto nell’Adunanza plenaria del Csm del 15 febbraio scorso, il capo dello Stato - scrive Marra - auspica possano essere prontamente adottate iniziative che assicurino la conformità di indirizzo delle procedure ai sensi degli strumenti che il nostro ordinamento prevede, e quindi anche ai sensi delle attribuzioni del procuratore generale della Cassazione”. Spiega Marra alla fine della missiva che l’intervento del capo dello Stato è finalizzato a “dissipare le perplessità che derivano dalla percezione di gestioni non unitarie delle indagini collegate, i cui esiti possono anche incidere sulla coerenza dei successivi percorsi processuali”.
NAPOLITANO in prima persona, dunque, scavalca il capo della Dna Pietro Grasso cui compete il coordinamento tra le procure e su una materia delicata e scottante come l’indagine sulla trattativa Stato-mafia investe, in modo irrituale e insolito, direttamente il pg della Cassazione. Che non ha poteri di coordinamento tra procure, ma solo quello di decidere sui conflitti di competenza eventualmente sollevati sulle inchieste in corso. Le preoccupazioni di Mancino e Napolitano sono legate alle indagini parallele delle Procure di Caltanissetta e Firenze che, fino a questo momento, hanno ritenuto “penalmente non rilevanti” le condotte dei protagonisti di quella stagione di dialogo dello Stato con Cosa Nostra. E convergono nel senso di indirizzarle verso un unico sbocco: quello “minimalista” che salvi i politici da ogni coinvolgimento penale. La lettera di Marra si conclude con il capo dello Stato che resta in attesa di informazioni (“il presidente Napolitano le sarà grato di ogni consentita notizia”) dal Pg della Cassazione, per - spiega la nota del Quirinale - “pervenire tempestivamente all’accertamento della verità su questioni rilevanti, nel caso specifico ai fini della lotta contro la mafia e di un’obiettiva ricostruzione della condotta effettivamente tenuta, in tale ambito, da qualsiasi rappresentante dello Stato’’.
E se l’inchiesta di Palermo genera fibrillazioni sul Colle più alto, isolando di fatto i pm palermitani, lo stato maggiore di Magistratura democratica giura “a scatola chiusa” sull’innocenza dell’ex guardasigilli Giovanni Conso, spaccando la corrente: il procuratore aggiunto di Roma Nello Rossi si dice “incredulo e profondamente preoccupato”. L’ex segretario dell’Anm Giuseppe Cascini esterna il suo “sentimento di stima a Conso che a 90 anni si trova inquisito”. Giovanni Palombarini, tra i fondatori della corrente, “senza bisogno di conoscere il fascicolo” è pronto a giurare sulla sua innocenza. Come fa a saperlo? “Lo so”. Parole che scatenano il dibattito nella mailing list della corrente, con una stragrande maggioranza di interventi di segno opposto: cioè a favore dei pm di palermo.
Lo Stato, diceva Leonardo Sciascia, non può processare se stesso. Ma se proprio è costretto a farlo, perché i suoi più autorevoli esponenti sono accusati di avere dialogato con i boss stragisti Riina e Provenzano, il corto circuito istituzionale è assicurato.
Se a parole tutti condannarono Pietro Lunardi per il suo “con la mafia si deve convivere”, ora che un’inchiesta prospetta una vera trattativa con Cosa Nostra, tutti si chiedono: è legittimo considerare personalità come Mannino, Mancino, Conso, alla stregua di criminali comuni? Ma anche: è legittimo un comportamento sanzionato dal codice penale solo perché giustificato dalla ragion di Stato? “Ragion di Stato e ragioni di giustizia dovrebbero essere in sintonia - ha sempre sostenuto il pm Ingroia - ma spesso non lo sono. In caso di divorzio tra le due succede che la ragion di Stato può costituire movente di un reato’’. La levata di scudi che determina l’isolamento politico, giuridico e interno alle toghe di un pugno di pm illusi di poter scandagliare con un’indagine giudiziaria la cattiva coscienza della politica italiana ripropone la domanda centrale, scomoda e imbarazzante: la magistratura ha il diritto-dovere di far salire sul banco degli imputati la scelta politica di unoopiùgoverni, quandoquesta è suggerita dalla gravità del momento?
È LECITO, insomma, trattare sottotraccia con la mafia se l’intento è quello di salvare la vita di esponenti politici minacciati anche a costo di sacrificare Borsellino e la sua scorta, e poi tanti innocenti a Firenze e Milano)? Dal mondo accademico arrivano le prime soluzioni: il docente Giovanni Fiandaca, già capo della commissione di riforma del codice antimafia, è scettico sull’efficacia dell’azione penale. E propone un’exit strategyextra-giudiziale, ricordando le commissioni di verità istituite in Sudafrica per riconciliare le parti e chiudere i conti con il passato al di fuori delle aule giudiziarie: “I protagonisti direbbero la verità in un clima più sereno, non punitivo”. Ma Cosa Nostra può esser trattata alla stregua dell’apartheid? “Fino a che - è il parere di Ingroia - ciascuno non farà di tutto perché la verità venga a galla, la democrazia non potrà mai diventare matura perché resterà ostaggio dei poteri criminali che ne hanno condizionato le origini e la storia”.
I vertici dello Stato sapevano
“Paolo aveva capito tutto”
Agnese Borsellino. “Alcuni potenti non hanno salvato neppure la dignità”
intervista di Sandra Amurri (il Fatto, 17.06.2012)
Agnese Piraino Borsellino non è donna dalla parola leggera. È abituata a pesarle le parole prima di pronunciarle, ma non a calcolarne la convenienza. È una donna attraversata dal dolore che il dolore non ha avvizzito. I suoi occhi brillano ancora. E ancora hanno la forza per guardare in faccia una verità aberrante che non sfiora la politica e le istituzioni. Una donna che trascorre il suo tempo con i tre figli e i nipotini, uno dei quali si chiama Paolo Borsellino. Le siamo grati di aver accettato di incontrarci all’indomani delle ultime notizie sulla trattativa Stato-mafia iniziata nel 1992, che ha portato alla strage di via D’Amelio, di cui ricorre il ventennale il 19 luglio, e alle altre bombe. In un’intervista al Fatto l’11 ottobre 2009, Agnese disse: “Sono una vedova di guerra e non una vedova di mafia” e alla domanda: “Una guerra terminata con la strage di via D’Amelio? ”, rispose: “No. Non è finita. Si è trasformata in guerra fredda che finirà quando sarà scritta la verità”.
A distanza di tre anni quella verità, al di là degli esiti processuali, è divenuta patrimonio collettivo: la trattativa Stato-mafia c’è stata. Sono indagati, a vario titolo, ex ministri come Conso e Mancino, deputati in carica come Mannino e Dell’Utri. Lei che ha vissuto accanto a un uomo animato da un senso dello Stato così profondo da anteporlo alla sua stessa vita, cosa prova oggi?
Le rispondo cosa non provo: non provo meraviglia in quanto moglie di chi, da sempre, metteva in guardia dal rischio di una contiguità tra poteri criminali e pezzi dello Stato, contiguità della quale Cosa Nostra, ieri come oggi, non poteva fare a meno per esistere.
Non la meraviglia neppure che probabilmente anche alte cariche dello Stato sapessero della trattativa Stato-mafia, come si evince dalla telefonata di Nicola Mancino al consigliere giuridico del presidente della Repubblica, Loris D’Ambrosio, in cui chiede di parlare con Giorgio Napolitano e dice: “Non lasciatemi solo, possono uscire altri nomi” (tra cui Scalfaro)? Come dire: le persone sole parlano di altre persone?
Questo mi addolora profondamente, perché uno Stato popolato da ricattatori e ricattati non potrà mai avere e dare né pace né libertà ai suoi figli. Ma ripeto, non provo meraviglia: mio marito aveva capito tutto.
Lei descrive i cosiddetti smemorati istituzionali, coloro che hanno taciuto o che hanno ricordato a metà, come “uomini che tacciono perché la loro vita scorre ancora tutta dentro le maglie di un potere senza il quale sarebbero nudi” e disse di provare per loro “una certa tenerezza”. La prova ancora, o ritiene che abbiano responsabilità così grandi da non poter essere né compianti né perdonati?
Non perdono quei rappresentanti delle istituzioni che non hanno il senso della vergogna, ma sanno solo difendersi professandosi innocenti come normalmente si professa il criminale che si è macchiato di orrendi crimini. Alcuni cosiddetti “potenti”, ritenuti in passato intoccabili, hanno secondo me perso in questa storia un’occasione importante per salvare almeno la loro dignità e non mi meraviglierei se qualche comico li ridicolizzasse.
Paolo Borsellino ai figli ripeteva spesso: imparate a fare la differenza umanamente, non è il ruolo che fa grandi gli uomini, è la grandezza degli uomini che fa grande il ruolo. Mai parole appaiono più vere alla luce dell’oggi.
Il posto, il ruolo, non è importante, lo diventa secondo l’autorevolezza di chi lo ricopre. Oggi mio marito ripeterebbe la stessa espressione con il sorriso ironico che lo caratterizzava.
Signora, perché ha raccontato ai magistrati di Caltanissetta solo nel 2010, dopo 18 anni, che suo marito le aveva confidato che l’ex comandante del Ros, il generale Antonio Subranni, era in rapporto con ambienti mafiosi e che era stato “punciutu”?
Potrebbe apparire un silenzio anomalo, ma non lo è. I tempi sono maturati successivamente e gli attuali magistrati di Caltanissetta, cui ancora una volta desidero manifestare la mia stima e il mio affetto, sanno le ragioni per le quali ho riferito alcune confidenze di mio marito a loro e soltanto a loro.
Sta dicendo che ha ritenuto di non poter affidare quella confidenza così sconvolgente alla Procura di Caltanissetta fino a che è stata diretta da Giovanni Tinebra?
Il primo problema che mi sono posta all’indomani della strage è stato di proteggere i miei figli, le mie condotte e le mie decisioni sono state prevalentemente dettate, in tutti questi lunghi anni, da questa preoccupazione.
Il pm Nico Gozzo all’indomani della dichiarazione del generale Subranni, che l’ha definita non credibile con parole che per pudore non riportiamo, ha fondato su Facebook il gruppo: ”Fraterno sostegno ad Agnese Borsellino”. Un fiume di adesioni, lettere commoventi, fotografie, dediche struggenti. Come lo racconterebbe a suo marito in un dialogo ideale?
Caro Paolo, l’amore che hai sparso si è tradotto anche in tantissime lettere affettuose, prive di retorica e grondanti di profondi sentimenti, che ho avuto l’onore di ricevere perché moglie di un grande uomo buono.
Dove trova la forza una donna che ha toccato il dolore per la perdita del suo più grande amore e ora deve sopportare anche il dolore per una verità che fa rabbrividire?
Nel far convivere i sentimenti emotivi e la ragione, ho fatto prevalere quest’ultima in quanto mi ha dato la forza di sopportare il dolore per la perdita di un marito meraviglioso ed esemplare e per accettare una verità complessa, frutto di una società e di una politica in pieno degrado etico e istituzionale.
Da via D’Amelio alle stragi del ’93 fino all’indagine di Palermo
il Fatto 17.6.12
L’omicidio del magistrato antimafia Giovanni Falcone, il 23 maggio 1992, cambia per sempre la storia di Palermo e fa saltare tutti gli equilibri politici in Italia. Pochi giorni dopo la strage di Capaci, sarebbe partita la trattativa tra i vertici dello Stato e Cosa Nostra per far cessare la “strategia stragista”, in cambio di un’attenuazione dell’articolo 41 bis, che prevedeva misure carcerarie durissime contro i mafiosi. Due giorni dopo la strage, il Parlamento elegge Oscar Luigi Scalfaro presidente della Repubblica al sedicesimo scrutinio. Un’elezione a sorpresa, visto che prima di Capaci la partita al Quirinale era giocata da Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani. E la conferma che la strage aveva mutato per sempre anche la politica italiana. A portare avanti il dialogo segreto fra Stato e mafia sarebbero stati i carabinieri del Ros, tramite l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino. Secondo il figlio di questi, Massimo, al padre fu consegnato un “papello”, ovvero il documento in cui venivano espresse le dodici “volontà” di Cosa Nostra, con una lunga serie di richieste allo Stato. La prima era appunto l’attenuazione del 41 bis, rafforzato l’8 giugno 1992 con un decreto dal ministro dell’Interno Vincenzo Scotti e dal Guardasigilli, Claudio Martelli.
A inizio luglio, proprio Scotti viene “dirottato” alla Farnesina. Al suo posto viene nominato Nicola Mancino. Il 19 luglio, la strage di via D’Amelio, a Palermo. Una 126 imbottita di esplosivo salta per aria, uccidendo il magistrato Paolo Borsellino e i cinque agenti della sua scorta. Pochi giorni prima, Borsellino aveva interrogato Mutolo, poi aveva incontrato Nicola Mancino. La trattativa segreta, intanto, sarebbe proseguita.
Dopo il ‘93 i boss avrebbero avuto un altro referente nelle istituzioni, l’attuale senatore del Pdl Marcello Dell’Utri. La trattativa avrebbe avuto il suo culmine nel 1994: lo sostengono il procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, e i sostituti Nino Di Matteo, Lia Sava e Francesco Del Bene. Fu proprio allora che i capimafia Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca, secondo gli inquirenti, “prospettarono al capo del governo in carica, Silvio Berlusconi, per il tramite del suo stalliere Vittorio Mangano e di Dell’Utri, una serie di richieste finalizzate a ottenere benefici di varia natura”.
“Intervenire su Grasso”
Lo suggerisce a Mancino il consigliere del Colle, D’Ambrosio
E il Procuratore antimafia viene convocato in Cassazione
di Marco Lillo (il Fatto, 19.06.2012)
"Il presidente ha preso a cuore la questione”, diceva il braccio destro di Napolitano, Loris D’Ambrosio, a Nicola Mancino. Poi aggiungeva: “Bisogna intervenire su Pietro Grasso”. Non erano millanterie. Alla fine le pressioni del Quirinale hanno prodotto un risultato: il procuratore nazionale antimafia il 19 aprile è stato convocato dal procuratore generale della Cassazione Gianfranco Ciani per sentirsi chiedere il coordinamento tra procure che piaceva a Mancino.
L’assedio è fallito solo grazie al gran rifiuto di Grasso, raccontato a Sandra Amurri sotto. Ogni giorno emergono particolari inquietanti sul comportamento della Presidenza della Repubblica nell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia a cavallo delle stragi del 1992-’93.
Sabato scorso il Colle era stato costretto a tirare fuori dal cassetto la lettera inviata al procuratore generale della Cassazione dal segretario generale della Presidenza del Consiglio, Donato Marra: “Il Capo dello Stato auspica - scriveva Marra allegando una lettera di Nicola Mancino in tal senso - che possano essere prontamente adottate iniziative che assicurino la conformità di indirizzo delle procedure (...) e ciò specie al fine di dissipare le perplessità che derivano dalla percezione di gestioni non unitarie delle indagini collegate”. Ora si scopre che - dopo quella lettera pg della Cassazione Gianfranco Ciani ha esaudito i voleri di Mancino e Napolitano convocando proprio Grasso. Per comprendere l’epilogo della manovra quirinalizia, bisogna leggere le telefonate dell’indagine coordinata dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia assieme ai sostituti Antonino Di Matteo, Francesco del Bene e Lia Sava, in particolare le nove intercettazioni dei colloqui tra D’Ambrosio e Mancino.
Il fidato collaboratore di Napolitano si offre senza risparmio e spende il nome del presidente. Il 25 novembre alle 21, D’Ambrosio e Mancino parlano di un possibile snodo della trattativa: la nomina del magistrato Francesco Di Maggio (poi deceduto) a numero due del Dipartimento amministrazione penitenziaria. “Perché è arrivato lì Di maggio? Chi ce lo ha mandato? Questo è il problema”, spiega D’Ambrosio a Mancino. Poi aggiunge: “C’erano due problemi: l’alleggerimento del 41 bis e i colloqui investigativi e lei (Mancino, ndr) non ne ha saputo niente perché per la parte 41 bis c’erano Mori, Polizia-Parisi, Scalfaro e compagnia. Per la parte dei colloqui investigativi... Di Maggio-Mori”.
CON IL PASSARE dei mesi i discorsi si concentrano sulle ansie di Mancino, che pensa di essere nel mirino del pm di Palermo Nino Di Matteo e invoca un intervento del capo della Dna Pietro Grasso sotto la veste del coordinamento. “Io ho visto Grasso in una cerimonia, stava davanti a me. Mi ha detto: ‘Quelli lì (probabilmente i pm della Procura di Palermo, ndr) danno solo fastidio. Ma lei lo sa che noi non abbiamo poteri di avocazione? ’” Mancino prosegue: “E io gli ho detto: ‘Ma poteri di coordinamento possono essere sempre esercitati’”. È quello l’obiettivo: spingere Grasso a intervenire sulle procure di Palermo e Caltanissetta per imporre un coordinamento che - nelle intenzioni di Mancino almeno - avrebbe potuto ridurre i danni. Si arriva al 24 febbraio. A Palermo Mancino è sentito come testimone nel processo a Mario Mori dove si parla sempre di trattativa Stato-mafia.
La deposizione non soddisfa il pm Di Matteo e il giorno dopo sui giornali esce la sua intervista: “Qualcuno nelle istituzioni mente” con l’anticipazione di un imminente confronto tra gli ex ministri Mancino e Martelli. L’ex presidente del Senato entra in fibrillazione: “Il pm Di Matteo ha detto che ci sono contraddizioni tra Mancino, Martelli e Scotti”, dice al telefono a D’Ambrosio, che replica: “Ma lui l’ha già chiesto il confronto? Io per adesso posso parlare con il presidente (con tutta probabilità Napolitano, ndr). Si è preso a cuore la questione ma non lo so. Francamente la ritengo difficile”.
D’Ambrosio e Mancino si interrogano al telefono su quale sia la persona o l’ufficio giudiziario sul quale intervenire: “Il collegio (del Tribunale di Palermo, ndr) lì è equilibrato. Come ha ritenuto inutile il confronto con Tavormina (generale ed ex capo della Dia) potrebbe rigettare per analogia”. Non è facile: “Intervenire sul collegio”, spiega D’Ambrosio, “è una cosa molto delicata. Più facile è parlare con il pm”. Qual è il pm giusto però? Mancino spiega: “L’unico che può dire qualcosa è il procuratore capo di Palermo Messineo e l’altro che può dire qualcosa è il Direttore nazionale antimafia Grasso. Io gli voglio parlare perché sono tormentato”. Povero Mancino. D’Ambrosio lo rincuora: “Ma non Messineo... in udienza Di Matteo è autonomo. Io direi che l’unica cosa è parlare con il procuratore nazionale Grasso”. Poi Mancino si lamenta di “Messineo che non fa più niente”.
MANCINO e D’Ambrosio si sentono il 5, il 7 e anche il 12 marzo quando l’ex presidente del Senato chiede a D’Ambrosio: “Veda se Grasso può ascoltare anche me in maniera riservatissima che nessuno sappia niente”. Loris D’Ambrosio non lo manda a quel paese ma anzi lo illude: “Lo devo vedere domani”. Si arriva così al 30 marzo. I pm Ingroia e Di Matteo chiedono il confronto in aula al processo Mori tra Mancino e Martelli. Il presidente del tribunale, per pura scelta tecnica, rigetta. Ma Mancino non si rilassa. Telefona il 27 marzo e poi ancora il 3 aprile a D’Ambrosio.
Il 4 aprile il Quirinale scrive al procuratore generale della Cassazione. Fiero di avere fatto il suo compito, il giorno dopo, il 5 aprile, il consigliere del capo dello Stato, Loris D’Ambrosio, legge al testimone (poi indagato per reticenza) la lettera del Quirinale al pg della Cassazione. Poi D’Ambrosio aggiunge: “Ho parlato sia con Ciccola (Pasquale Ciccolo, sostituto pg della Cassazione, ndr) che con Ciani (il pg della Cassazione, ndr), hanno voluto la lettera così fatta per sentirsi più forti”. Passano solo due settimane e Ciani, forte della lettera appunto, convoca Grasso.
L’intervista: Pietro Grasso difende i Pm di Palermo
“La Suprema Corte mi chiese di relazionare, ma a voce”
di Sandra Amurri (il Fatto, 19.06.2012)
“Confermo l’incontro, ma non il contenuto della breve conversazione. Non ho assolutamente risposto ‘quelli lì riferendomi ai pm di Palermo danno solo fastidio’, non avrei mai potuto esprimere un tale giudizio perché non lo penso”
L’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, indagato per falsa testimonianza nell’inchiesta palermitana sulla trattativa Stato-mafia, a dicembre 2011 racconta al telefono a Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico del presidente della Repubblica: “Io ho visto Grasso in una cerimonia, stava davanti a me. Mi ha detto: ‘Quelli lì (Procura Palermo ndr.) danno solo fastidio. Ma lei lo sa che noi non abbiamo poteri di avocazione’ e io ho detto: ‘Ma poteri di coordinamento possono essere sempre esercitati’”. L’occasione è la cerimonia al Quirinale per lo scambio degli auguri natalizi. Mancino non è ancora indagato, ma teme di diventarlo.
Procuratore Grasso, conferma le parole di Mancino?
Confermo l’incontro, ma non il contenuto della breve conversazione. Non ho assolutamente risposto ‘quelli lì riferendomi ai Pm di Palermo danno solo fastidio’, non avrei mai potuto esprimere un tale giudizio perché non lo penso e la mia azione è funzionale a favorire la loro attività investigativa alla ricerca della verità. Mancino lamentava valutazioni diverse da parte di talune procure rispetto a relazioni e comportamenti e omissioni a lui attribuiti. Gli ho detto che il solo strumento che può ridurre a unità indagini pendenti in diversi uffici è l’istituto dell’avocazione che, però, è applicabile solo nel caso di ingiustificata e reiterata violazione delle direttive impartite dal Pna al fine del coordinamento delle indagini. Avocazione che è nei miei poteri, ma nel caso Mancino non vi erano i requisiti per poterla applicare.
Dunque Mancino lavora di fantasia?
Sono le parole di un uomo che dice di sentirsi perseguitato, accerchiato. Come risulta dai verbali, sono state fatte riunioni di coordinamento tra le varie Procure senza alcuna tensione come possono confermare tutti pm. Nessuno si è mai lamentato di una mia interferenza. Non vi è mai stato alcun accenno alla questione Mancino. Coordinamento significa che le informazioni di ogni procura debbono essere messe a disposizione delle altre procure affinché vi sia una circolazione di notizie. Ma, ripeto ogni Procura resta autonoma e indipendente come è avvenuto: Caltanissetta ha archiviato e Palermo, in presenza di altri elementi, ha proceduto anche nei confronti di Mancino per quello che ha detto al dibattimento.
Il 12 marzo Mancino chiama D’Ambrosio: “Veda se Grasso può ascoltare anche me in maniera riservatissima che nessuno sappia niente”. D’Ambrosio risponde: “Lo devo vedere domani”. Procuratore Grasso, lei il 13 marzo ha incontrato il consigliere D’Ambrosio?
Ecco la mia agenda alla pagina 13 marzo: in una giornata densa di riunioni e consultazioni non vi è traccia di appuntamenti con D’Ambrosio. Forse prevedeva di farlo, ma non lo ha fatto.
Allora D’Ambrosio mente?
Mah! Può averlo detto per tranquillizzare Mancino che, evidentemente non era rimasto soddisfatto dalla mia risposta tranciante in occasione della cerimonia al Quirinale.
Ma D’Ambrosio in altre occasioni le ha mai parlato del caso Mancino?
Sì. Mi ha espresso l’esigenza di Mancino. Il problema, per quanto mi riguarda, non è ciò che abbia fatto o abbiano tentato di fare, ma quello che io ho fatto. È mai arrivata una richiesta di Grasso ai Pm di Palermo? Grasso ha mai compiuto un solo atto per agevolare Mancino? La risposta è: no.
Conferma che l’attuale Pg di Cassazione Ciani l’ha convocata, lasciando intendere che Mancino riteneva di subire le conseguenze di un mancato coordinamento tra le procure?
Sì. Sono stato convocato dal Pg della Suprema Corte il 19 aprile. Mi è stata richiesta una relazione sul coordinamento tra le procure. Ho espresso la volontà che mi venisse messo per iscritto. Mi è stato fatto presente che era nei suoi poteri chiederlo verbalmente. Il 22 maggio ho risposto per iscritto specificando che nessun potere di coordinamento può consentire al Pna di dare indirizzi investigativi e ancor meno di influire sulle valutazioni degli elementi di accuse acquisiti dai singoli uffici giudiziari.
Perché Ciani non lo sapeva?
Io alle richieste del superiore ufficio rispondo per iscritto.
Alla luce delle responsabilità, alcune, per ora, sicuramente politiche, cosa auspica per il raggiungimento della verità sulla trattativa Stato-mafia e sulle stragi che ne sono seguite?
Che inizino a collaborare i rappresentanti delle istituzioni. I mafiosi, quelli che si sono pentiti, conoscono solo un certo livello, non sono i vertici, intendo Graviano, Riina, Provenzano. Finché avremo pentiti mafiosi di basso rango potremmo arrivare fino a un certo livello di conoscenza, per avere la verità compiuta abbiamo bisogno dei vertici di Cosa Nostra oppure di qualche apporto istituzionale che ha vissuto e sa. Io auspico la verità e credo umilmente di aver dato un contribuito determinante nel convincere Spatuzza a pentirsi, nell’aver raccolto le sue dichiarazioni sulle stragi e nell’averle messe a disposizione delle varie Procure.
A un comune cittadino indagato è dato chiedere “protezione” ad alte cariche dello Stato che prontamente si attivano?
No, ovviamente. La responsabilità è di chi chiede e di chi si attiva. Io non ho raccolto alcuna richiesta. La legge, ripeto, è e deve essere uguale per tutti.
Il Pg: “A sua disposizione” L’ex ministro: “Uè guagliò...”
Poi Esposito invita l’ex capo del Viminale:
“Se vuole venirmi a trovare, quando vuole”
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza (il Fatto, 19.06.2012)
Palermo Il dialogo è quello tra due vecchi amici, e uno parla tranquillamente in napoletano. “Sono chiaramente a sua disposizione - dice il Procuratore generale della Cassazione Vitaliano Esposito - adesso vedo questo provvedimento e poi ne parliamo. Se vuole venirmi a trovare, quando vuole”. E Nicola Mancino replica: “Guagliò come vengo, vado sui giornali”. “Ahahaha, ho capito”, commenta allegro il pg. Sono le 9.04 del 15 marzo 2012, l’ex presidente del Senato chiama per congratularsi con l’alto magistrato che ha appena ricevuto l’ordinanza del gip Alessandra Giunta su via D’Amelio.
MANCINO è contento: “Ho letto che hai chiesto gli atti a Caltanissetta”, dice al pg, e con lui parla a ruota libera della sua posizione giudiziaria, illudendosi di farla franca, almeno con i pm nisseni: “Resta la figura di una persona che è reticente, che non ha detto la verità ma non ci sono elementi per processarla”. Siamo a metà marzo, e le manovre di accerchiamento sul Quirinale entrano nel vivo: venti giorni dopo, il 4 aprile, sollecitato da Mancino, il capo dello Stato invia la sua lettera al pg della Suprema Corte, in quel momento quasi pensionato. Per questo il carteggio agli atti di piazza Cavour serve di fatto a spianare la strada al neo pg della Cassazione, Gianfranco Ciani, l’ultimo a muoversi in questa catena di Sant’Antonio di soccorso istituzionale. Ciani alla fine convoca il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, l’unico che ha poteri reali di coordinamento tra le procure di Palermo e Caltanissetta.
Ma il capo della Dna si sfila dall’intrigo istituzionale, rispondendo per iscritto di non avere le prerogative necessarie per intervenire nella vicenda. A rivelare la conclusione delle “grandi manovre” politiche per monitorare l’indagine sulla trattativa è una fonte molto vicina a Vitaliano Esposito, il quale in una lettera di precisazione inviata al Fatto Quotidiano parla di un’altra riunione, convocata a Roma in una data imprecisata, ma certamente oltre due anni fa, visto che destinatari della convocazione furono i pg di Palermo Luigi Croce e di Caltanissetta Giuseppe Barcellona. Una riunione, dice Esposito, organizzata con Piero Grasso per accertamenti “sulle indagini, apparentemente parallele, in corso alle procure di Palermo e Caltanissetta”.
I PARTECIPANTI, secondo quanto scrive il pg, avrebbero garantito “la più ampia collaborazione, riservando la trasmissione di atti rilevanti”. Ma di questo incontro non sanno nulla né Luigi Croce, pg a Palermo fino al 20 ottobre 2011, né tantomeno Grasso: entrambi sostengono di non avere mai partecipato ad alcun vertice sul tema. Cadono dalle nuvole anche i pm di Palermo, che non sono mai stati informati e che hanno appreso dell’interesse istituzionale sulle loro indagini dall’ascolto delle centinaia di ore di intercettazioni disposte sui telefoni dei protagonisti politici di quella stagione, Mancino in testa. Nella sua lettera il pg Esposito precisa di avere chiesto l’ordinanza del gip nisseno Alessandra Giunta su via D’Amelio “senza avere avuto contatti con alcuno”, prima, cioè, di ricevere la missiva del Quirinale. L’unico contatto con Nicola Mancino è quello del 15 marzo scorso, il giorno dopo la richiesta ufficiale dell’ordinanza.
“Nell’articolo si fa riferimento a una telefonata che mi fece il senatore Mancino per complimentarsi della mia iniziativa, telefonata da me ricevuta - dice oggi il pg Esposito - e dunque per quanto mi riguarda assolutamente neutra”. E questa è solo una delle centinaia di conversazioni al telefono intercettate dai pm tra la fine dell’anno scorso e la primavera di quest’anno, quando l’inchiesta sulla trattativa entra in dirittura d’arrivo catalizzando l’interesse istituzionale. E scatenando in Mancino un’escalation di angoscia, rivolta, in particolare, ad uno dei pm: “È sempre il solito Di Matteo. È lui il guaio... mi ha convocato... Fa le domande, io rispondo e lui... non dice niente, non parla, fa solo domande”.
È IL 25 novembre 2011. Alle ore 21.07, Nicola Mancino telefona a Loris D’Ambrosio, consulente giuridico del capo dello Stato Giorgio Napolitano, per segnalare che è stato nuovamente convocato a Palermo, e si lamenta del pm Nino Di Matteo, attribuendogli il ruolo dell’inquisitore più duro durante gli interrogatori. È la madre di tutte le intercettazioni, la prima e la più lunga di dieci telefonate - tutte partite dal cellulare dell’ex presidente del Senato - che secondo l’accusa rivelano, tra novembre 2011 e aprile 2012, l’aspettativa fortissima di Mancino di un “salvataggio” istituzionale da parte del Quirinale rispetto alle iniziative processuali della procura di Palermo, che appare intenzionata a scavare a fondo sul suo coinvolgimento nell’indagine.
Una raffica di telefonate che coinvolge, oltre a Esposito e D’Ambrosio, il procuratore aggiunto di Roma Nello Rossi, della corrente di Md, e il presidente dell’Unione giornalisti pensionati Guido Bossa. Mancino chiama Rossi mezz’ora dopo essersi complimentato con Esposito, il 15 marzo scorso. Quello stesso Nello Rossi che due giorni fa si è detto “incredulo e profondamente preoccupato” per il coinvolgimento nell’inchiesta dell’ex Guardasigilli Giovanni Conso. Fibrillazioni che attraversano anche altri indagati della trattativa: decine sono le telefonate tra gli ex ufficiali del Ros fedelissimi di Mario Mori. Giuseppe De Donno parla più volte con Mori e scambia frenetici sms (e numerose telefonate) con “Raf”, Raffaele Del Sole, l’ufficiale che a Roma, nel processo al pm Salvatore Leopardi (accusato di avere informato i servizi dei contenuti dei colloqui in carcere dei boss ristretti al 41 bis), si è trincerato dietro il segreto di Stato.
Giovanni Falcone vent’anni dopo. Lotta alla mafia e tranelli dello Stato
di Gian Carlo Caselli (Corriere della Sera, 21.05.2012)
Caro direttore,
le ombre cupe che in vita si addensarono sulla testa di Giovanni Falcone, a causa dell’incisività della sua azione antimafia, sono storia. Spesso dimenticata ma storia. Ricordarla significa illuminare di luce vivida la straordinaria figura di un magistrato che per senso del dovere seppe perseverare con tenacia, nonostante fosse consapevole di rischiare la vita.
Ancora a metà degli anni Settanta c’era chi osava scrivere: «La mafia ha sempre rispettato la magistratura, si è inchinata alle sue sentenze e non ha ostacolato l’opera del giudice. Nella persecuzione ai banditi e ai fuorilegge ha affiancato addirittura le forze dell’ordine». E non erano parole di uno sprovveduto qualunque, ma di un alto magistrato della Cassazione, Giuseppe Guido Lo Schiavo. È evidente che «ragionando» così era sempre la mafia a vincere.
Falcone la pensava diversamente e con gli altri magistrati del pool dell’Ufficio istruzione di Palermo, diretto da Nino Caponnetto, elaborò un metodo di lavoro imperniato su specializzazione e centralizzazione: il cemento armato di un capolavoro investigativo-giudiziario, il «maxiprocesso» del 1986. Per la prima volta nella storia d’Italia vengono portati alla sbarra - con prove sicure - mafiosi siciliani di primaria grandezza criminale che fino ad allora avevano potuto godere di una sostanziale impunità. La fine del mito dell’invulnerabilità di Cosa nostra: 475 imputati per associazione mafiosa, 120 omicidi e innumerevoli altri reati; 360 condanne per un totale di 2.665 anni di carcere e diciannove ergastoli comminati ad alcuni tra i boss più influenti di Cosa nostra.
Un’esperienza vincente del genere qualsiasi Paese l’avrebbe difesa con le unghie e con i denti. L’Italia invece no. Vergognoso ma vero, Falcone e il pool furono letteralmente spazzati via, professionalmente parlando, a colpi di calunnie ossessivamente ripetute: professionisti dell’antimafia; impiego spregiudicato dei «pentiti»; uso politico della giustizia. Guarda caso la tempesta si scatenò quando il pool cominciò a occuparsi - oltre che di mafiosi di strada - dell’ex sindaco di Palermo Ciancimino, dei cugini Salvo e dei cosiddetti Cavalieri del lavoro di Catania. Insomma di quella «zona grigia» che è la spina dorsale del potere mafioso, perché assicura coperture e complicità a opera di pezzi della politica, dell’economia e delle istituzioni. Sul banco degli imputati finì Falcone: osannato da morto, umiliato da vivo.
Un ruolo centrale, in questo quadro, ha avuto il Csm (Consiglio superiore della magistratura) quando anch’io ne facevo parte (1986-90). Nel 1987 Caponnetto decise di lasciare l’Ufficio istruzione di Palermo nella certezza che il suo successore naturale sarebbe stato Falcone.
Non fu così. Alla candidatura di Falcone si contrappose Antonino Meli, magistrato di ben maggiore anzianità che di mafia però non si era mai occupato. E il Csm (ribaltando l’orientamento adottato qualche mese prima per la nomina di Borsellino a Procuratore di Marsala) scelse non il più bravo nell’antimafia, ma il più anziano, anche se digiuno di processi di mafia. Meli - si badi - aveva presentato anche domanda per la presidenza del Tribunale. Qualcuno però lo convinse a ritirarla per puntare tutto sul posto di capo dell’Ufficio istruzione, una sezione del Tribunale. Ora, il rapporto tra i due ruoli è lo stesso che può esserci tra la direzione di un grande quotidiano e la rubrica della posta del cuore su un foglietto parrocchiale. Non tanto perché l’Ufficio istruzione non fosse un posto importante, semplicemente perché si era alla vigilia dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale (1989) che quell’ufficio avrebbe soppresso.
La bagarre, dunque, non era tanto su chi dovesse succedere a Caponnetto. Anche, ma non solo. Un obiettivo di fatto era anche lo smantellamento del metodo di lavoro del pool, che aveva portato alla clamorosa vittoria del maxiprocesso e che difatti Meli (coerente col programma preannunziato allo stesso Csm) smonterà pezzo per pezzo. Invece di continuare lungo la strada della vittoria, lo Stato si ferma. Circondata la fortezza, si ritira rinunciando a espugnarla. Mentre sul Palazzo di giustizia di Palermo volano corvi che spandono veleni di ogni sorta su Falcone, calunniato per nefandezze varie. Ovviamente inesistenti. E fu allora (parole di Borsellino) che Falcone cominciò a morire.
Nel 1989 Falcone, soppresso l’Ufficio istruzione, concorre al posto di Procuratore aggiunto (una sorta di vicecapo) a Palermo. Questa volta ce la fa, ma sembra quasi una gentile concessione, mentre qualcuno dei suoi soliti nemici non esita a insinuare la calunnia che il fallito attentato dell’Addaura (una borsa imbottita di 58 candelotti di tritolo ritrovata il 21 giugno 1989 nei pressi della sua abitazione) se lo fosse organizzato da sé... per farsi pubblicità.
In Procura Falcone non lo fanno letteralmente lavorare. Il capo lo ignora, lo umilia con ore e ore di anticamera. Falcone capisce che se vuole continuare a fare antimafia deve «emigrare» dalla Sicilia. Trova una specie di asilo politico-giudiziario a Roma, ministero della Giustizia, dove crea quei caposaldi della lotta alla mafia (in particolare Procura nazionale e Dia) che ancora oggi funzionano molto bene.
Il seguito della «storia» è tragicamente noto: sono le stragi di Capaci e via d’Amelio, le vite di Falcone e Borsellino, insieme a quelle degli uomini e delle donne che erano con loro il 23 maggio e il 19 luglio 1992, spezzate dalla feroce vendetta mafiosa. Comincia a farsi strada in me l’idea di andare a lavorare a Palermo. E quando deciderò di farlo davvero avrà un forte peso (lo dico senza alcuna retorica) il ricordo di quel che i due amici magistrati avevano dovuto patire in vita. Un ricordo intrecciato con il rimpianto di non essere riuscito - pur avendo sempre votato a loro favore - a convincere la maggioranza del Csm delle loro buone ragioni. Che poi erano quelle della lotta alla mafia nell’interesse della democrazia.
* Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino
Il ricordo del giudice Camassa “Ho visto Borsellino piangere per il tradimento”
di Rino Giacalone (il Fatto, 13.02.2012)
Il volto severo di Paolo Borsellino che, di colpo, scompare sotto lacrimoni che scorrono sul viso, il pianto di un uomo deluso, sconfortato... “tradito”, come dice lui stesso. L’assoluta dura freddezza del magistrato che svanisce mentre lui, Paolo Borsellino, si distende quasi fosse affaticato, stanco, sul divano del suo ufficio per dire tra quelle lacrime una cosa che immediatamente muore lì, in quella stanza e davanti a due suoi sostituti che erano andati a trovarlo, Alessandra Camassa e Massimo Russo, “un mio amico mi ha tradito”. Venti anni dopo non c’è un ricordo recuperato nella memoria, “perché - dice Alessandra Camassa, ex pm a Marsala con Borsellino, oggi presidente di sezione al Tribunale di Trapani - dalla memoria non è mai uscito”, ma c’è un ricordo che grazie alle indagini della Procura nissena viene registrato negli atti giudiziari, collocato temporalmente, ricordo che diventa anello di quella indagine che coordinata dal procuratore di Caltanissetta, Sergio Lari, sta ricostruendo ciò che andava accadendo in Sicilia e in Italia 20 anni addietro, la trattativa mafia-Stato fatta con le bombe. Per Paolo Borsellino l’autobomba collocata in via D’Amelio, il 19 luglio 1992, non fu fatta saltare in aria per vendetta o per colpire un uomo cui lo Stato credeva fermamente e quindi una “vittima” utile a Cosa Nostra per costringere lo Stato a trattare, ma il procuratore Borsellino era diventato un uomo scomodo per quello Stato che parlava con la mafia.
“QUEI MOMENTI - dice Alessandra Camassa - quella immagine di Paolo che piange e dice a me e al collega Massimo Russo (oggi assessore regionale alla Sanità in Sicilia, ndr) la scoperta che lui ha fatto di un amico che lo ha tradito, non mi hanno mai abbandonato e la stessa cosa è stata per il collega Russo. Quando è capitato di incontrarci spesso si è finito con il rammentarci in maniera reciproca di quell’episodio per chiederci cosa voleva dirci Paolo, chi era l’amico, cosa era accaduto di tanto grave che l’aveva così stravolto”. Proviamo a ricostruire quella scena. “Parlavamo di lavoro, d’improvviso lui si alzò dalla scrivania dove sedeva, fece un mezzo giro attorno al tavolo per arrivare al divano dell’ufficio, quasi distendendosi, per dirci tra le lacrime della scoperta che lo aveva sconvolto, del tradimento subito da un amico”. Lei e Massimo Russo non chiedete nulla, come mai? “Paolo Borsellino in quello stato non lo avevamo mai visto. Ci guardammo io e Massimo quasi pensando che avevamo trovato Paolo in un momento di sconforto, anche magari per una vicenda personale, non ce la siamo sentita di chiedere qualcosa di più preciso, né lui ha fatto in modo di sollecitarci in tal senso, per noi è rimasto lo sfogo di una persona turbata. Ricordo che parlavamo di cose normali, non straordinarie, certamente non potevano essere state le nostre discussioni a provocargli quel pianto, le lacrime e lo sfogo nascevano da altro”.
Sono trascorsi 20 anni per finire dove ben prima doveva finire registrato, tra le pagine di un atto giudiziario. “È successo ora - risponde la dottoressa Camassa - perché per la prima volta un magistrato ha deciso di sentire i magistrati che lavoravano con Borsellino. Se fossi stata chiamata 20 anni addietro e qualcuno mi avesse chiesto cosa era successo prima e dopo la strage di via D’Amelio, avrei raccontato quello che era accaduto e anche questo episodio che però solo dopo 17 anni ho letto sotto altra lente, potendolo bene mettere a conoscenza del procuratore Lari”. Cioè? “Ripeto - prosegue il giudice Camassa - l’episodio non mi ha mai abbandonato, ma quando all’incirca 17 anni dopo quel fatto ho cominciato a leggere degli scenari possibili dietro la strage, la trattativa Stato-mafia, e che tutto poteva essersi concentrato nel giugno 1992, ecco che quel fatto, che colloco temporalmente in quel mese di giugno 1992, mi ha di più aperto gli occhi”.
TANTA CONFIDENZA aveva con Paolo Borsellino, lui però quel nome del “traditore” non lo fece, come mai secondo lei? “Doveva essere un fatto talmente grave che probabilmente lui voleva accertarlo meglio, verificare se era vero, non mi viene da dedurre altro”. L’amico traditore può essere stato davvero il generale comandante dei Ros, Antonio Subranni? Il giudice Camassa allarga le braccia. “Nessun nome ci fu fatto da Borsellino” torna a ripetere. Uno che potrebbe dire qualcosa di più potrebbe essere l’ex maresciallo Carmelo Canale, che di Borsellino fu la sua ombra: sembra che in quel periodo andava dicendo in giro che il procuratore Borsellino doveva rivedere alcune sue amicizie dentro l’Arma, a cominciare da quella con il generale Subranni.
Ingroia: “Così la Cassazione demolisce gli insegnamenti di Falcone e Borsellino” Il procuratore aggiunto di Palermo, che ha sostenuto l’accusa nel primo processo a Marcello Dell’Utri, critica la decisione della Suprema Corte che ha disposto un nuovo processo per il senatore Pdl. "C’è chi ha avuto come maestri Corrado Carnevale, chi invece i magistrati del pool antimafia, che avevano teorizzato il concorso esterno per colpire la zona grigia delle complicità con Cosa nostra di SALVO PALAZZOLO
"Ho la sensazione che l’ultima sentenza della Corte di Cassazione su Marcello Dell’Utri e il dibattito che strumentalmente ne sta scaturendo rientrino in quel processo di continua demolizione della cultura della giurisdizione e della prova che erano del pool di Falcone e Borsellino". Non usa mezzi termini Antonio Ingroia, il procuratore aggiunto di Palermo che fu tra i pubblici ministeri del primo processo al senatore Dell’Utri. Questo a Repubblica.it è il suo primo commento ufficiale sulla decisione della Cassazione che venerdì sera ha annullato la condanna per il parlamentare Pdl e ha disposto un nuovo processo d’appello.
Il migliore avvocato del senatore Dell’Utri sembra essere stato il procuratore generale, che ha criticato il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Come commenta la ricostruzione di Iacoviello?
"A tutti quelli che cantano vittoria come se fosse stata dichiarata l’innocenza di Dell’Utri, dico: non è affatto così. I giudici hanno deciso infatti per un annullamento con rinvio della sentenza d’appello. Solo un annullamento senza rinvio sarebbe equivalso a un riconoscimento di non colpevolezza dell’imputato. Attendiamo comunque di leggere le motivazioni. Per quanto riguarda il procuratore generale, ho letto le sue conclusioni. Lui stesso dice che chiedere l’annullamento con rinvio non significa che l’imputato sia innocente. Significa solo che la motivazione della sentenza d’appello è viziata ed è illogica. E per la verità lo sosteneva anche il pubblico ministero, che aveva fatto ricorso. Le illogicità di quella motivazione riguardavano soprattutto l’assoluzione di Dell’Utri dopo il 1992".
Il procuratore generale ha espresso però pesanti perplessità sul reato di concorso esterno contestato a Dell’Utri.
"Curioso che l’abbia detto, ed è anche incoerente con le sue conclusioni. E’ la stessa Cassazione a credere al concorso esterno, visto che più volte a sezioni unite, sia con la sentenza Carnevale che con la sentenza Mannino, ha ribadito la configurabilità di questo reato e ha fissato i presupposti per l’applicazione. Sarebbe triste che proprio nel ventennale della strage Falcone e Borsellino si debba mettere una pietra tombale su una delle più importanti e innovative idee giurisprudenziali che proprio Falcone e Borsellino hanno fondato"
Vogliamo spiegare in quali occasioni Falcone e Borsellino parlarono del concorso esterno?
"Nella sentenza ordinanza del maxiprocesso ter ci sono delle frasi chiarissime. Falcone e Borsellino scrivono che la figura del concorso esterno è la figura più idonea per colpire l’area grigia della cosiddetta contiguità mafiosa. Dunque, il concorso esterno non è un’invenzione della Procura di Palermo, è un insegnamento di Falcone e Borsellino su cui si è continuato a lavorare in questi vent’anni, producendo sentenze di condanna definitive, piccole e grandi. Ora, che si voglia con un colpo di spugna tornare indietro mi pare davvero enorme".
Si aspettava questa decisione della Cassazione?
"Non posso dirmi sorpreso, conoscendo la cultura della prova dimostrata dal presidente Grassi. E’ una decisione coerente con la sua impostazione di sempre. C’è chi ha avuto come maestri Corrado Carnevale, chi invece Falcone e Borsellino. E mi sembra pure normale che all’interno della magistratura convivano culture della giurisdizione e della prova diverse. Insomma, c’è una dialettica in corso. Però, sono preoccupato".
Perché?
"La mia sensazione è che questa sentenza e poi il dibattito che strumentalmente ne è scaturito possano rientrare in quel processo di continua demolizione della cultura della giurisdizione e della prova che fu del pool di Falcone e Borsellino. E’ triste che ciò avvenga nel ventennale della loro morte, e soprattutto in un periodo così delicato in cui si scoprono e si confermano delle coperture e dei depistaggi che a lungo hanno impedito l’accertamento della verità su quelle stragi vent’anni fa".
Si farà dunque un nuovo processo a Marcello Dell’Utri. Pensa che le accuse reggeranno ancora?
"Mi spiace che il procuratore generale abbia liquidato l’impianto probatorio nei confronti di Dell’Utri come un insieme di amicizie e frequentazioni, come se la contestazione principale a Dell’Utri fosse di essere stato amico di mafiosi. Basta conoscere il processo per trovare una miriade di fatti specifici e di contributi concreti che Dell’Utri ha portato negli anni al consolidamento e al potenziamento di Cosa nostra".
Il procuratore generale ha parlato anche di violazione dei diritti dell’imputato.
"Mi pare davvero paradossale che si voglia ergere Dell’Utri a vittima di violazioni di diritti o chissà che, quando tutti i diritti di garanzia dell’imputato Dell’Utri sono stati rispettati. Questo è stato un processo pieno di prove e fatti specifici. In assoluto, uno dei processi per concorso esterno con più prove rispetto a quelli che si sono fatti in questi ultimi vent’anni".
* la Repubblica, 10 marzo 2012
La trattativa, il pianto. Così Borsellino diventò un ostacolo
Borsellino pianse: tradito da un amico
di Giovanni Bianconi (Corriere della Sera, 09.03.2012)
Secondo l’ultima ricostruzione della Procura di Caltanissetta, la fretta di eliminare Borsellino derivò dal fatto che il giudice era venuto a sapere dei contatti tra lo Stato e la mafia. Due magistrati a lui vicini lo videro piangere poche settimane prima dell’attentato. «Non posso pensare che un amico mi abbia tradito», disse Borsellino.
CALTANISSETTA - La fine adesso è nota: «Sia nel luglio del 1992, sia nell’anno 1993, la strategia di Cosa nostra è stata quella di trattare con lo Stato attraverso l’esecuzione di plurime stragi che hanno trasformato la trattativa in un vero e proprio ricatto alle istituzioni». Ricatto che ha prodotto i suoi effetti: «Alcuni significativi risultati Cosa nostra li ha ottenuti se si considera che l’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario (il carcere duro per i mafiosi, ndr) è stato di fatto depotenziato». I detenuti sottoposti al regime restrittivo si ridussero, in poco più di un anno, di circa due terzi. Poi è cominciata una nuova stagione politica.
La premura
Dall’ultima ricostruzione della Procura di Caltanissetta sulla bomba che il 19 luglio 1992 uccise Paolo Borsellino, emerge in maniera nitida come gli attentati mafiosi abbiano accompagnato - parallelamente all’inchiesta milanese Mani Pulite - il trapasso dalla prima alla seconda Repubblica. Attraverso un ricatto che prese le mosse quando si decise di eliminare il nemico giurato Giovanni Falcone non a Roma, con qualche colpo di pistola, ma facendo saltare in aria un pezzo di autostrada a Capaci, in Sicilia, nel regno di Cosa nostra. Nemmeno due mesi dopo l’altro attentato, oggi catalogato come «terroristico»: la morte di Paolo Borsellino che trasforma Palermo in un quartiere di Beirut al tempo della guerra. Eliminazione programmata da tempo, ma anticipata con una «premura incredibile», hanno rivelato alcuni pentiti. Perché erano in gioco altri interessi: «La tempistica della strage è stata certamente influenzata dall’esistenza e dalla evoluzione della cosiddetta trattativa tra uomini delle istituzioni e Cosa nostra», scrivono i pubblici ministeri nell’atto d’accusa che conclude quasi quattro anni di indagini nate dalle rilevazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza.
Le istituzioni coinvolte
La fretta di eliminare Borsellino derivò dal fatto che il magistrato, procuratore aggiunto di Palermo, era venuto a sapere dei contatti tra i carabinieri del Ros, guidati dall’allora colonnello Mario Mori, e l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino. Contatti diretti alla cattura dei latitanti, secondo gli investigatori dell’Arma, che però Cosa nostra percepì come occasione per imporre patti e condizioni: «Nella ricostruzione del generale Mori non convince l’ostinata negazione di una trattativa che invece è nelle stesse sue parole descrittive degli incontri con Ciancimino. Per Cosa nostra era certamente una trattativa», accusano i pm nisseni per i quali Mori, il suo superiore generale Subranni e il capitano De Donno che l’accompagnava negli incontri con l’ex sindaco «sono soltanto il livello statuale più basso di questa trattativa. Altri soggetti, politici, vi hanno verosimilmente partecipato anche dopo il 1992. Questa trattativa si svolse a più riprese e iniziò prima della strage di via D’Amelio». È il punto di svolta della nuova indagine. Borsellino scoprì i contatti tra la mafia e altri rappresentanti dello Stato, schierati ufficialmente al suo fianco.
«Tradito da un amico»
Due magistrati, Alessandra Camassa e Massimo Russo, un giorno di fine giugno lo videro piangere. «Essendo un uomo all’antica non l’aveva mai fatto - ha testimoniato Camassa -. Ricordo che Paolo, anche questo era insolito, si distese sul divano, e mentre gli sgorgavano delle lacrime dagli occhi disse: "Non posso pensare che un amico mi abbia tradito"». Non disse chi fosse quell’amico, né accennò a trattative. Ma la vedova del giudice ha raccontato che il marito, legato al generale Subranni, le confidò di essere sconvolto dopo aver saputo di sue presunte collusioni con la mafia. E le aveva testualmente riferito che «c’era un colloquio tra la mafia e parti infedeli dello Stato».
Borsellino venne a sapere dei contatti tra i carabinieri e Ciancimino il 28 giugno ’92. Glielo disse la sua amica magistrata Liliana Ferraro, non gli ufficiali coi quali stava collaborando. Tre giorni dopo, al Viminale, vide il neo-ministro dell’Interno Nicola Mancino, in un fugace incontro che Mancino continua a non ricordare. Ma quanto riferito dall’ex ministro, secondo la Procura di Caltanissetta, «appare illogico e non verosimile... V’è da chiedersi se il senatore Mancino sia vittima di una grave amnesia, ovvero sia stato indotto a negare un banale scambio di convenevoli per il timore di essere coinvolto, a suo avviso ingiustamente, nelle indagini. Non si può tuttavia negare che residua la possibilità teorica che egli possa aver mentito "perché ha qualcosa da nascondere"».
Ostacolo da eliminare
La conclusione è che pur essendosi raccolti nuovi e importanti elementi circa ombre inquietanti di apparati infedeli dello Stato», non sono state individuate ipotetiche «responsabilità penali». Tuttavia, «in quel momento storico ben era possibile una trattativa con Cosa nostra, e molteplici erano le figure, anche istituzionali, che giocavano partite complesse e spregiudicate con incursioni anche nel campo avverso».
In ogni caso, «si è raggiunta la certezza che Borsellino sapesse delle trattative in corso, e che la sua posizione era, chiaramente, negativa». Di qui la «premura» con cui Totò Riina decise di farlo fuori, giacché «era d’ostacolo alla loro riuscita». L’attentato all’ex ministro democristiano Calogero Mannino fu rinviato, e accelerato quello contro il giudice. Conclusione: «È possibile sia che la decisione di anticipare l’uccisione di Borsellino avesse, da parte di Cosa nostra, lo scopo di punire chi si opponeva alla trattativa, sia anche di riprendere la stessa da posizioni di maggiore vigore».
Dopo la strage di via D’Amelio si apre una nuova fase della trattativa, «in cui a poco a poco Riina da soggetto diventa oggetto della stessa». E si arriva alla cattura del boss, nel gennaio 1993. Da quel momento comincia un tira-e-molla sul 41 bis, inframmezzato dalle stragi sul continente: a Firenze e contro Maurizio Costanzo a maggio, a Roma e Milano a luglio. Proprio mentre i rinnovati vertici dell’amministrazione penitenziaria discutevano su come lanciare «segnali di distensione» sul «carcere duro».
Emergono «riserve» e prese di distanza che, accusano i procuratori, «offrono un quadro desolante del fronte antimafia a meno di un anno dalle stragi del ’92 e contemporaneamente alle nuove stragi continentali». E ancora: «Rimane accertato un quadro certamente fosco di quel periodo della vita democratica di questo Paese... Che poi vi fosse una diffusa "stanchezza" della politica per le iniziative legislative antimafia adottate negli anni 1990-92, purtroppo è parimenti certo. Stanchezza che lambirà, nei mesi successivi, anche il ministero retto dal senatore Mancino». Senza che ciò comporti, ribadiscono i pm fin quasi alla noia, «alcun tipo di responsabilità personale».
Il «frutto avvelenato»
In questo quadro si arriva alla decisione dell’ex ministro della Giustizia Giovanni Conso, tra ottobre e novembre 1993, di non rinnovare oltre 300 decreti di «carcere duro». Decisione presa nel tentativo di «fermare le stragi», che il ministro dice di aver adottato «in assoluta solitudine»: affermazione «in contrasto con tutti gli altri elementi documentali acquisiti al procedimento», visti i documenti dell’amministrazione penitenziaria che da mesi suggerivano scelte di quel tipo.
«C’è da chiedersi se non sia stato il prezzo della trattativa pagato dallo Stato», sottolinea la Procura, e alla domanda «può rispondersi positivamente... La cosiddetta trattativa, iniziata nel 1992, trova compimento e dà il suo frutto avvelenato nel 1993». Ma tutto questo, con la strage di via D’Amelio, non c’entra più. È solo l’estensione di un possibile movente, che continuerà a produrre i suoi effetti anche nei mesi successivi. Quando il giudice Borsellino è morto da tempo. Celebrato e tradito al tempo stesso, accusano i magistrati che a vent’anni dall’eccidio ritengono di aver scoperto un altro pezzo di verità nascosta.
Giovanni Bianconi
di Francesco La Licata (La Stampa, 09.03.2012)
La nostra storia recente si caratterizza per l’assoluto deficit di verità nelle indagini sui più eclatanti e dolorosi lutti nazionali. Una procura non ha ancora finito di indagare (addirittura con la riesumazione del cadavere) sulla controversa morte (1950) di Salvatore Giuliano, la stessa ha riaperto - dopo averla chiusa con scarsi risultati - l’inchiesta sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro (1970). Ben due uffici giudiziari importanti - Palermo e Caltanissetta - puntano da anni le rispettive lenti di ingrandimento su quel «quadro certamente fosco», per usare le parole degli stessi magistrati indagatori, che è venuto fuori nell’ambito delle vicende dello stragismo mafioso dipanatesi tra il 1989 e il 1994: dall’attentato fallito all’Addaura contro il giudice Giovanni Falcone alle «mattanze» di Roma, Firenze e Milano (1993), passando per gli eccidi di Capaci e via D’Amelio e il torbido assassinio dell’eurodeputato Salvo Lima.
Ieri sono stati inchiodati alle loro responsabilità alcuni dei protagonisti dell’enorme depistaggio costruito per sabotare le inchieste sulla strage che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e ai cinque poliziotti che lo scortavano. Un successo reso possibile dal non preventivato pentimento di Gaspare Spatuzza, inaspettatamente disponibile a rispondere alle domande del procuratore Piero Grasso. Non si potrebbe che essere soddisfatti di un tal traguardo, se non fosse arrivato a vent’anni dalla strage e non si avesse la certezza che tutto quel tempo è stato sprecato ad inseguire false verità e falsi pentiti per precise responsabilità istituzionali degli apparati preposti alle indagini.
Davvero per vent’anni non è stato possibile disvelare la tragica «truffa» inscenata dai falsi collaboratori Scarantino e Candura? Davvero in vent’anni non è venuto in mente a nessuno di verificare le deposizioni dei due che si accusavano del furto della «126 bomba»? E soprattutto: se Spatuzza non si fosse deciso a parlare a che punto sarebbe la «verità» sulle stragi?
Ma queste potrebbero esser considerate recriminazioni sterili e persino ingenerose, specialmente nei confronti di chi ha lavorato per recuperare sul passato. Partiamo, dunque, dalle «novità confortanti», ma ancora debilitate dalle precisazioni dei magistrati che le inquadrano non come un punto d’arrivo ma come un punto di partenza, proprio alla vigilia della sentenza della Cassazione sul sen. Marcello Dell’Utri, coprotagonista del possibile seguito della storia, quella che riguarda le indagini sulla nascita del berlusconismo e della «Seconda Repubblica».
L’inizio, insomma, di una ennesima «telenovela» che si appalesa tra le diversità di vedute di due procure. Da un lato Caltanissetta, più propensa a «chiudere» l’inchiesta nell’ambito di responsabilità criminali dove si intravede la presenza politico-istituzionale ma senza il coinvolgimento e la collusione. Come dire: la politica ha favorito la cosiddetta trattativa ma senza sporcarsi le mani. Dall’altro Palermo che, invece, ha già indagato più di un parlamentare, nella ipotesi accusatoria che descrive la classe dirigente impegnata a fermare l’aggressione di Cosa nostra «in ogni modo» e con l’obiettivo di salvare la pelle a quei politici entrati nel mirino di Totò Riina dopo l’assassinio di Salvo Lima.
E, dunque, sembra trovare credito l’interpretazione che a suo tempo costò, invece, al procuratore Grasso più di una critica, quando sottolineò la coincidenza temporale fra l’inizio della «trattativa» e la sospensione dei progetti omicidiari in danno di alcuni uomini politici, siciliani e non. E sembra sensata l’interpretazione che, ancora Grasso, offre della trattativa tra Stato e mafia. Dice il magistrato che l’elemento di novità della nuove indagini sta nella possibilità di inquadrare i contatti tra politici e mafia non più nella ricerca del semplice scambio di favori per i detenuti, ma in un vero e proprio progetto tenuto in vita per impedire un traumatico cambio epocale negli assetti politico finanziari del Paese, già messi a dura prova dallo tsunami provocato dalle inchieste di Milano sulla corruzione.
Grasso parla di una vera e propria «strategia della tensione che non ha mai abbandonato l’Italia, una sorta di estorsione nei confronti delle istituzioni», perché «in quegli anni c’era il pericolo di mutamenti politici non graditi». Parole gravi, anche per la competenza e la riconosciuta serietà di chi le ha pronunciate. Per questo sarebbe utile che, per una volta, si rinunciasse alle reazioni esagitate, buone solo a confondere perché tutto rimanga immutato, per inaugurare un percorso di serena collaborazione alla ricerca di una verità passata, senza la quale il futuro potrebbe restare incompiuto. E se la magistratura dovesse esser costretta a fermarsi per inadeguatezza della via giudiziaria, dovrebbe essere il Parlamento ad intestarsi il proseguimento della ricerca di ricostruzione di un contesto che fu anche di natura politica.
L’ANNIVERSARIO
Tutti in piedi con l’agenda rossa
Palermo ricorda Borsellino
Al via le commemorazioni per il 18esimo anniversario della strage di via D’Amelio in cui persero la vita il magistrato e i cinque uomini della scorta. Il procuratore capo di Palermo, Messineo: "Aperti squarci importanti, ma non so se sarà possibile raggiungere la verità"
PALERMO - Tutti in piedi, con l’"agenda rossa" in mano, nell’Aula Magna del palazzo di giustizia di Palermo. Così si è aperta l’iniziativa con cui la sezione distrettuale dell’Associazione nazionale magistrati commemora Paolo Borsellino, ucciso 18 anni fa in via D’Amelio. L’anniversario cade in realtà il 19 luglio, ma fin da oggi nel capoluogo siciliano sono previste alcune iniziative per ricordarne la figura. Un’aula gremita, in gran parte da esponenti e simpatizzanti del comitato "Scorta civica" che questa mattina ha organizzato anche un presidio davanti al palazzo di giustizia, esponendo come simbolo proprio l’agenda rossa del magistrato, fatta sparire subito dopo la strage in cui persero la vita anche cinque uomini della scorta.
E della strage ha parlato il procuratore capo di Palermo, Francesco Messineo, dicendo che "sono stati aperti squarci importanti, ma non so se sarà possibile raggiungere la verità, si è parlato di una verità impervia e io sono d’accordo". Messineo ha ricordato che "c’è un’indagine condotta dalla Procura di Caltanissetta che si sta muovendo con grandissimo impegno e notevole efficacia, la cosa migliore è stare vicino alla Procura, supportarla e aiutarla nelle sue attività". Molti gli applausi con cui l’ingresso dei giudici è stato accolto in aula, "sono cose che ci fanno piacere e tra le poche gratificazioni che riceviamo - ha detto Messineo - è la conferma che nell’opinione pubblica c’e’ fiducia nella magistratura, per noi è un’esortazione ad andare avanti. Noi siamo convinti della necessità di fare il nostro dovere e lo faremo in qualunque condizione".
Sostegno ai magistrati è stato espresso anche dal fratello di Paolo Borsellino, Salvatore, il quale ha detto che "un pezzo dello Stato insieme alla mafia ha impedito che Paolo potesse continuare il suo lavoro" e che "oggi siamo qui per far sentire il nostro sostegno ai magistrati che questa verità continuano a cercarla giorno dopo giorno". "Lunedì prossimo, 19 luglio - ha aggiunto- saremo di nuovo in via D’Amelio per celebrare i nostri funerali di Stato di Paolo e non vogliamo rappresentanti istituzionali e politici che indegnamente occupano il loro posto".
Mentre la sorella di Borsellino, Rita, ha osservato che "il momento attuale è peggiore del ’92. Allora sapevano chi erano gli amici e chi i nemici, con tutti i limiti del caso si sapeva a chi affidare la propria fiducia. Oggi non è così. Sappiamo che non possiamo fidarci praticamente di nessuno. Per anni ci sono state dette bugie proposte come verità. Oggi sappiamo che non c’è verità. La caparbietà dei magistrati che continuano a cercarla è il modo più bello per raccogliere l’eredità di Paolo".
Palermo, si diceva, si prepara a celebrare con una serie d’eventi la giornata del ricordo. Oltre al presidio della "Scorta civica" allestito al mattino in piazza Vittorio Emanuele Orlando, davanti al palazzo di giustizia, e la commemorazione da parte dell’Anm nell’aula del tribunale, alle 20.30 Presso la facoltà di Giurisprudenza dell’università si aprirà il convegno promosso dall’associazione "Antimafiaduemila" dal titolo "Sistemi criminali. Quanto sono deviati gli apparati dello Stato?". Al dibattito partecipiano - fra gli altri - Salvatore Borsellino, fratello del magistrato assassinatoil procuratore aggiunto Antonio Ingroia, il procuratore generale di Caltanissetta, Roberto Scarpinato e il pm Antonino Di Matteo.
Domenica mattina invece partirà da via D’Amelio la marcia delle "agende rosse" mentre alle 20 è previsto un incontro presso l’ex cinema Edison. La commemorazione prosegue lunedì, con due cortei che attraverseranno le vie di Palermo: il primo partirà alle 18 e unirà via D’Amelio e l’albero Falcone, il secondo - la fiaccolata silenziosa - muoverà alle 20 da piazza Vittorio Veneto per arrivare in via D’Amelio intorno alle 23.
Intanto questa mattina verso le ore 9.30 una pattuglia dei Carabinieri in transito in via Libertà si è accorta che le due statue in gesso, raffiguranti i giudici Falcone e Borsellino, posizionate nel pomeriggio di ieri tra piazza Castelnuovo e Via Quintino Sella, erano state danneggiate da ignoti. Le statue, realizzate dallo scultore palermitano Tommaso Domina, erano state depositate da rappresentanti dell’Associazione Falcone-Borsellino di Palermo.
* la Repubblica, 17 luglio 2010
La patria dell’oblio collettivo
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 6/6/2010)
Vorrei tornare sulle parole di Piero Grasso a proposito di mafia e politica, dette il 26 maggio a Firenze davanti alle vittime della strage dei Georgofili. L’intervista rilasciata a Francesco La Licata dal Procuratore nazionale Antimafia chiarisce infatti alcuni punti essenziali, e pone quesiti alla classe politica e a tutti noi. La domanda che formula, implicita ma ineludibile, è questa: come funziona la memoria collettiva in Italia? Come vengono sormontati i lutti, e vissuti i fatti tragici, i mancati appuntamenti con la giustizia?
In questo giornale ho cercato prime risposte, evocando la richiesta, formulata il 7-8-98, di archiviazione dell’indagine su Berlusconi e Dell’Utri per le stragi a Roma, Firenze e Milano nel ’93-’94: richiesta firmata da Grasso assieme a quattro magistrati, e accolta poi dal gip di Firenze. Nella richiesta era chiaro il nesso fra Cosa nostra e il soggetto politico nato dopo Tangentopoli (Forza Italia), ma mancavano prove di un’«intesa preliminare». Quell’atto mi parve più esplicito di quanto detto dal procuratore il 26 maggio, e su tale differenza mi sono interrogata. Ma l’interrogativo, più che Grasso, concerne in realtà i politici, e tramite loro l’Italia intera: giornalisti, elettori, ministri ed ex ministri di destra e sinistra.
Per chiarezza, vorremmo citare i principali passaggi della richiesta di archiviazione e confrontarli con quello che Grasso afferma oggi. Nella richiesta (da me impropriamente chiamata «verbale», domenica scorsa) è scritto: «Molteplici (sono) gli elementi acquisiti univoci nella dimostrazione che tra Cosa Nostra e il soggetto politico imprenditoriale intervennero, prima e in vista delle consultazioni elettorali del marzo 1994, contatti riconducibili allo schema contrattuale, appoggio elettorale-interventi sulla normativa di contrasto della criminalità organizzata». E ancora: il rapporto tra i capimafia e gli indagati (Berlusconi e Dell’Utri, citati come autore-1 e autore-2 e rappresentanti il nuovo «soggetto politico imprenditoriale» in contatto con Cosa nostra) «non ha mai cessato di dimensionarsi (almeno in parte) sulle esigenze di Cosa nostra, vale a dire sulle esigenze di un’organizzazione criminale». Il testo firmato da Grasso è inedito, ma gli argomenti che esso contiene appaiono in documenti che la classe politica conosce bene: il decreto di archiviazione dell’inchiesta di Firenze, e quello che archivia la successiva inchiesta di Caltanissetta su Berlusconi, Dell’Utri e le stragi di Capaci e via D’Amelio (3-5-02). Il testo è pubblicato da Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza in un libro, «L’agenda nera», che uscirà il 10 giugno per Chiarelettere.
Ha ragione dunque il procuratore a dire che nella sostanza non c’è nulla di nuovo in quello che ha ricordato giorni fa a Firenze («Cosa nostra ebbe in subappalto una vera e propria strategia della tensione», per creare disordine e dare «la possibilità a una entità esterna di proporsi come soluzione per poter riprendere in pugno l’intera situazione economica, politica, sociale che veniva dalle macerie di Tangentopoli. Certamente Cosa nostra, attraverso questo programma di azioni criminali, che hanno cercato d’incidere gravemente e in profondità sull’ordine pubblico, ha inteso agevolare l’avvento di nuove realtà politiche che potessero poi esaudire le sue richieste»). Secondo alcuni il procuratore avrebbe oggi alzato il tiro, ma non è vero: semmai dice meno cose, su Forza Italia. Ed ecco la conclusione cui giunge nell’intervista: «L’idea che io mi sono fatto di quel terribile momento storico del ‘92 e del ‘93, molto prima dello scorso 26 maggio, era rintracciabile in moltissimi interventi pubblici, oltre che in tre libri pubblicati dal 2001 al 2009. Ritenevo e ritengo ancora quella ricostruzione storica una sorta di patrimonio della memoria collettiva definitivamente acquisito».
Proprio qui tuttavia è il punto che duole. L’osceno italiano di cui parla spesso Roberto Scarpinato, procuratore generale di Caltanissetta, e cioè il potere reale esercitato «fuori scena», di nascosto, esclude l’esistenza di un «patrimonio della memoria collettiva definitivamente acquisito». A differenza dell’America, o della Germania che di continuo rivanga il proprio passato nazista, l’Italia non ha una memoria collettiva che archivi stabilmente la verità e la renda a tutti visibile. Da noi la memoria storica si dissipa, frantumando e seppellendo fatti, esperienze, sentenze. E di questo seppellimento sono responsabili i politici, per primi.
Senza voler fare congetture, si può constatare che Grasso forse dice meno di quel che sottoscrisse nel ‘98, anche se dice pur sempre molto. Sono i politici a parlare più forte di quanto parlarono tra il ‘98 e oggi.
Sono i politici ad allarmarsi giustamente per le sue parole, a chiedere più verità, come se non avessero già potuto allarmarsi in occasione dei tanti atti giudiziari riguardanti quello che Grasso chiama «il nostro 11 Settembre: dall’Addaura, a Capaci, a via D’Amelio, fino alle stragi di Roma, Firenze, Milano e a quella mancata dello stadio Olimpico di Roma». Non sono i giudici ad aver dimenticato le deposizioni di Gabriele Chelazzi, il pm fiorentino titolare dell’inchiesta sui «mandanti esterni» delle stragi del ‘93, davanti alla commissione nazionale Antimafia il 2-7-02. Nella lettera ritrovata dopo la sua morte, Chelazzi si lamenta con i suoi uffici e scrive: «Mi chiamate alle riunioni solo per dare conto di ciò che sto facendo, quasi che fosse un dibattito».
È così che la memoria fallisce. Che l’osceno resta fuori scena, ostacolato solo dalle intercettazioni. Atti giudiziari e libri vengono sepolti nei ricordi perché sono trasformati in opinioni, per definizione sempre opinabili. Il vissuto viene trasferito nel mondo del dibattito e le sentenze diventano congetture calunniose. È quello che permette a Giuliano Ferrara, sul Foglio del 31 maggio, di squalificare le parole di Grasso definendole «ipotesi e ragionamenti» dotati di «uno sfondo politico e nessun avallo giudiziario». Il patrimonio della memoria collettiva, lungi dall’esser «definitivamente acquisito», è permanentemente cestinato.
I politici partecipano allo svuotamento della memoria usandola quando torna utile, gettandola quando non conviene più. Lo stesso allarme di oggi, non è detto che durerà. È come se nella mente avessero non un patrimonio, ma un palinsesto: un rotolo di carta su cui si scrive un testo, per poi raschiarlo via e sostituirlo con un altro che lascia, del passato, flebilissime tracce. L’intervista di Violante al Foglio, l’1 giugno, è significativa: in essa si dichiara che è arrivato il momento di «capire senza rimestare», di «mettere ordine» tra fatti forse non legati. Manca ogni polemica con il pesante attacco a Grasso, sferrato il giorno prima dal quotidiano.
Dice Ferrara che «non si convive inerti con un’accusa di stragismo a chi governa». Può darsi, ma l’Italia ha dimestichezze antiche con l’inerzia. Se non le avesse, non dimenticherebbe sistematicamente i drammi vissuti, e come ne è uscita. Non dimenticherebbe che del terrorismo si liberò grazie ai pentiti. Che tanti crimini sono sventati grazie alle intercettazioni. Come ha detto una volta Pietro Ichino a proposito dei ritardi della sinistra sul diritto di lavoro, in Italia «si chiudono le questioni in un cassetto gettando la chiave». È il vizio di tanti suoi responsabili (nella politica, nell’informazione) pronti a convertirsi ripetutamente. Pronti al trasformismo, a voltar gabbana. Chi non sta al gioco, chi nel giornalismo ha memoria lunga e buoni archivi, viene considerato uno sbirro, o un rimestatore, o, come Saviano, un idolo da azzittire e abbattere. Occorre una politica più attiva e meno immemore, se davvero si vuole che i giudici non esercitino quello che vien chiamato potere di supplenza.
MILANO ORDINA UCCIDETE BORSELLINO
«L’ESTATE CHE CAMBIÒ LA NOSTRA VITA»
di Alfio Caruso *
Diciotto anni dopo ignoriamo chi azionò il telecomando della strage di via D’Amelio, in cui vennero macellati Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta.
La mattanza di quel 19 luglio 1992 è stata fin qui un insieme di domande senza risposte: in che modo è sparita l’agenda rossa nella quale Borsellino segnava incontri, confidenze, ipotesi di lavoro?
Dov’era posizionato il misterioso uomo con il timer?
Fino a che punto i servizi segreti sono stati coinvolti nella trama?
Gli inquirenti hanno sbagliato per amore di carriera o per coprire pezzi dello Stato coinvolti con le cosche?
Le rivelazioni di Gaspare Spatuzza hanno, infatti, sbugiardato la ricostruzione ufficiale dell’eccidio su cui si sono basati tre processi con 47 condannati.
Oggi sappiamo soltanto che Cosa Nostra partecipò alla preparazione dell’attentato e che Borsellino non fu ucciso per il fallimento della trattativa condotta dai carabinieri con Riina attraverso la mediazione di Vito Ciancimino. Allora la minuziosa rilettura d’ingialliti verbali, le dichiarazioni di antichi testimoni, l’incrociarsi di vecchie e nuove verità aprono uno scenario rabbrividente. Sullo sfondo campeggia inquietante il Ros dei carabinieri: a che gioco giocava? Assodato che fu Provenzano a consegnare Riina, quali garanti dal gennaio ‘93 hanno protetto la latitanza di «zu Binnu», non a caso arrestato dalla polizia?
Un filo rosso lega via D’Amelio a Capaci. Falcone e Borsellino puntavano su Milano, da oltre vent’anni vera capitale della mafia. All’interno dei suoi insospettabili salotti i boss avevano trovato i complici ideali per riciclare e moltiplicare le centinaia di miliardi guadagnati con il traffico internazionale degli stupefacenti. L’appoggio di banchieri, imprenditori, finanzieri aveva consentito alle «famiglie» siciliane di trasformarsi in un impero economico capace di condizionare la vita del Paese: molti, dunque, volevano stoppare i due magistrati palermitani. Nei suoi cinquantasette giorni di corsa contro la morte Borsellino aveva capito il complesso meccanismo di quattrini e di complicità nel quale persino Riina e Provenzano agivano spesso da pupi anziché, da pupari. Ma lo Stato, nel cui nome Paolo sfidava il Male, fece ben poco per proteggerlo.
Questo libro vi racconta come e perché.
...Borsellino mostrava di conoscere determinate vicende; mostrava soprattutto di non avere alcuna ritrosia a parlare dei rapporti tra mafia e grande imprenditoria del Nord, a considerare normale che le indagini dovessero volgere in quella direzione; non manifestava alcuna sudditanza psicologica, anzi una chiara propensione ad agire con gli strumenti dell’investigazione penale senza rispetto per alcun santuario e senza timore del livello al quale potessero attingere le sue indagini, confermando la tesi degli intervistatori che la mafia era non solo crimine organizzato, ma anche connessione e collegamenti con ambienti insospettabili dell’economia e della finanza.
(Dalla sentenza d’appello del processo Borsellino bis, Caltanissetta 18/3/2002)
guarda la presentazione su youtube
* Fonte: ALFIO CARUSO
IL RICORDO
E’ la giornata in memoria di Giovanni Falcone
Napolitano: "Uno stimolo per la crescita civica" *
PALERMO - "A diciotto anni dal barbaro agguato di Capaci, il ricordo dell’appassionato, eroico impegno di Giovanni Falcone nella difesa delle istituzioni e dei cittadini dalla sopraffazione criminale resta indelebile in tutti noi e costituisce prezioso stimolo per la crescita della coscienza civica e della fiducia nello stato di diritto". E’ un passaggio del messaggio che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha inviato a Maria Falcone, presidente della Fondazione "Giovanni e Francesca Falcone", in occasione del 18esimo anniversario della strage di Capaci.
"Meritano il massimo sostegno le indagini tuttora in corso - ha proseguito il Capo dello Stato - su aspetti ancora oscuri del contesto in cui si svolsero i fatti devastanti di quel drammatico periodo. Esse potranno consentire di sgombrare il campo da ogni ambiguita’ sulle circostanze e le responsabilita’ di quegli eventi, rispondendo all’ansia di verita’ che accomuna chi ha sofferto atroci perdite e l’intero paese".
Intanto, sono più di tremila le persone che stanno partecipando al convegno organizzato nell’aula-bunker dell’Ucciardone di Palermo per commemorare il giudice Giovanni Falcone e gli agenti della sua scorta, assassinati dalla mafia il 23 maggio di 18 anni fa. Nell’aula, che ospitò il primo maxi-processo alla mafia istruito da Falcone e da Paolo Borsellino, 2.500 studenti di tutta Italia ricordano la figura del magistrato trucidato a Capaci. Assieme a loro, il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, i ministri dell’Interno e della Giustizia, Roberto Maroni e Angelino Alfano, il procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso e il procuratore di Palermo, Francesco Messineo. Al convegno è presente, tra gli altri, anche il capo della Polizia, Antonio Manganelli. La manifestazione si è aperto con un filmato su Falcone.
I 2.500 giovani "ambasciatori della legalità" provenienti da tutta Italia è arrivata stamattina presto al molo di Palermo. Ieri sera i ragazzi, studenti di 250 scuole selezionate dal ministero dell’Istruzione e dalla Fondazione Falcone, erano partiti a bordo delle di navi, da Napoli e Civitavecchia. Ad accoglierli sul molo molti loro coetanei palermitani, che li hanno salutati con canti in onore di Falcone e Borsellino e contro la mafia. Nel cielo sono volati centinaia di palloncini tricolore, mentre i "giovani della legalità" indossavano magliette bianche con la scritta "gli uomini passano, le idee restano, restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini" firmata dal giudice Falcone. Sul molo è stato allestito un palco, dal quale i ragazzi sono stati salutati dalla sorella di Falcone, Maria, dal presidente di Libera, don Luigi Ciotti e dal procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso, che ha fatto la traversata in mare assieme agli studenti partiti da Civitavecchia.
"Non solo la mafia aveva interesse a eliminare Giovanni Falcone - ha detto Piero Grasso - lui non voleva combattere la mafia e l’illegalità a metà, le voleva eliminare dalle fondamenta. Voleva tagliare le relazioni tra la mafia e gli altri poteri. E su questo le indagini sono ancora attuali". I ragazzi, partiti ieri pomeriggio da Civitavecchia, in serata hanno avuto modo di confrontarsi con il procuratore Grasso, il capo dipartimento per la programmazione del Ministero dell’Istruzione, Giovanni Biondi, il responsabile per la legalità di Confindustria, Antonello Montante, Andrea Colucci di Confcommercio e Giulio Bacosi, avvocato di Stato. I relatori hanno risposto alle domande degli studenti e Piero Grasso ha raccontato a lungo la sua amicizia con Falcone.
"Il rapporto d’amicizia tra noi due - ha detto ancora Grasso - è cominciato dopo il maxiprocesso. Poteva sembrare una persona altezzosa e sprezzante, ma nell’intimità, con gli amici, era una persona diversa: scherzosa, quasi demenziale, e molto affettuosa con i nostri figli. Aveva una grande forza, nonostante le avversità ogni volta si ritirava su ed era pronto a lottare di nuovo". Grasso ha quindi spiegato il mutamento che la mafia ha avuto dalle stragi a oggi: "Ha fatto un salto di qualità, ha capito che le stragi non pagano e cerca di rendersi invisibile. La forza della mafia oggi è questa: non ha visibilità e si ristruttura e si organizza negli affari, diventando sempre più potente". Pertanto, secondo Grasso, è importante educare i ragazzi alla legalità: "I problemi non si risolvono mettendo in carcere i mafiosi, ma se voi giovani riuscirete a costruire una classe dirigente che dica no alla mafia e all’illegalità".
"La verità va cercata ovunque - ha proseguito il procuratore nazionale antimafia, Grasso, parlando con i ragazzi - bisogna farlo magari con maggiore silenzio per ottenere risultati migliori". Il riferimento è stato alle nuove indagini sull’attentato fallito all’Addaura contro Giovanni Falcone, al centro di un’inchiesta della Procura di Caltanissetta che indaga sul coinvolgimento di apparati deviati dei servizi segreti nella preparazione dell’attentato. Senza entrare nello specifico delle indagini, Grasso ha tuttavia aggiunto: "Non bisogna identificare lo Stato con personaggi infedeli, di infedeli ce ne sono anche nella magistratura. Ma quello non è lo Stato per cui sono morti Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che rappresentano un patrimonio che non possiamo disperdere e che oggi ricordiamo".
* la Repubblica, 23 maggio 2010
Decine di nuovi messaggi sull’albero Falcone
I palermitani hanno riempito di nuovi biglietti la grande magnolia
La pianta che ricorda il magistrato ucciso dalla mafia era stata danneggiata da ignoti *
La risposta dei palermitani è stata immediata. Da ieri pomeriggio decine di messaggi sono stati affissi sull’albero Falcone, la grande magnolia davanti al portone del palazzo di via Notarbartolo, a Palermo, dove abitava il magistrato assassinato da Cosa nostra il 23 maggio 1992.
VIDEO Nuovi messaggi della legalità di S. Sbacchis
Sabato pomeriggio il portiere dello stabile aveva denunciato il furto di messaggi e disegni. Scomparso anche un lenzuolo bianco con scritto "le vostre idee camminano sulle nostre gambe". Uno sfregio al quale i palermitani hanno risposto con una immediata mobilitazione. "Tranquillo Giovanni, renderemo questo albero ancora più bello di prima. Siamo tutti con te", si legge in uno dei nuovi messaggi. "Una Sicilia libera è una Sicilia che crede in te", è il contenuto di un altro biglietto. "Con Falcone e Borsellino per sempre", si legge in un terzo pensiero su carta. E, ancora: "L’albero non si tocca".
"Questo albero dà ancora fastidio. Il prossimo 23 maggio, come ogni anno, arriveranno giovani da tutta Italia. E io penso che quanto è accaduto sia un segnale in vista del diciottesimo anniversario della strage di Capaci. Certa gente pensava di avere chiuso i conti con Giovanni Falcone, ma questi studenti dimostrano che è ancora vivo, che le sue idee sono vive", ha detto Maria Falcone, sorella del magistrato ucciso dalla mafia. Questa mattina è alla testa del presidio organizzato davanti alla magnolia di via Nortarbartolo, con studenti e docenti di Palermo "per mettere sull’albero - spiega - tanti disegni e messaggi, segno di un impegno che non si ferma e di una cultura nuova. Potranno toglierli ancora, ma li rimetteremo mille volte".
Ieri il sindaco Diego Cammarata ha affisso il manifesto "Eroi per sempre", che ritrae insieme Falcone e Paolo Borsellino: "Nessuno potrà mai rubare il ricordo e la memoria che dobbiamo e vogliamo coltivare", ha detto il primo cittadino. "Un gesto deprecabile e un attentato alla memoria di Falcone e dell’azione antimafia". Così il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso ha commentato il gesto vandalico. "Palermo, però, - ha aggiunto - non è rappresentata da gente che compie atti simili".
* la Repubblica, 26 aprile 2010
Borsellino "tarocco": associazioni e famiglia contro ministro Meloni *
Al Ministro della Gioventù Giorgia Meloni
Caro Ministro,
nel corso della manifestazione del Pdl tenutasi sabato a Roma, alcuni giovani hanno messo in bella mostra uno striscione che avrebbe voluto essere goliardico e che raffigurava i “tarocchi della Sinistra”, ovviamente in chiave negativa. Tra questi, spuntava il volto di Paolo Borsellino, il giudice ucciso dalla mafia nel 1992, un uomo delle istituzioni che ha dato la propria vita per il bene del Paese, un eroe. Ci è parso di capire, ma lo striscione dietro il quale lei stessa ha marciato non lo chiariva adeguatamente, che il “tarocco” Borsellino rappresentasse, secondo chi lo ha disegnato, un’idea positiva di Giustizia. Preferiamo credere che l’intenzione sia stata questa, anche se onestamente la scelta “comunicativa” è quantomeno controversa. Partendo da tale presupposto, pensiamo però che sia doveroso fare una riflessione che accomuni tutti, a prescindere dalle nostre convinzioni politiche.
Il fatto, caro Ministro, è che quel tarocco campeggiava al fianco di altri striscioni che inneggiavano a una guerra aperta nei confronti della magistratura, senza se e senza ma. In particolare, c’era uno striscione che invocava alla soppressione dello strumento delle intercettazioni, mentre sul palco si alternavano quegli stessi politici che hanno sottoscritto leggi come il cosiddetto “scudo fiscale”.
Dinanzi a tutto ciò, dinanzi a quella piazza, lei crede veramente che Paolo Borsellino si sarebbe trovato a suo agio? Lei crede veramente che un giudice come lui avrebbe rinunciato a uno strumento fondamentale per la lotta alla mafia come lo è quello delle intercettazioni? Con tutta onestà, pensa sul serio che un grande uomo delle istituzioni come fu Borsellino avrebbe assistito in silenzio alle continue delegittimazioni della magistratura da parte della politica?
Noi siamo sicuri che le risposte a queste domande siano tutte negative, così come siamo sicuri che Borsellino non si sarebbe trovato a suo agio in nessuna piazza colorata da ideologie politiche. Lui era un giudice, un servitore dello Stato. Oggi, per tutto il Paese, è un eroe, non certo un simbolo da sventolare, da usare strumentalmente. Chi lo fa, sbaglia di grosso, sia esso di sinistra o di destra. E proprio perché la figura di Borsellino, i suoi insegnamenti, appartengono a tutti, crediamo necessario che noi giovani, di qualsiasi fronte politico, cominciamo a ragionare su quei valori comuni da difendere insieme.
Noi giovani rappresentiamo il futuro dell’Italia. E se vogliamo che questo futuro sia realmente democratico, dobbiamo difendere insieme l’autonomia di un potere fondamentale per gli equilibri democratici come lo è la magistratura. Non dimentichiamoci che è merito dei giudici se oggi il Governo in cui lei siede può vantarsi di essere in prima linea nella lotta alla mafia. Non dimentichiamo che sono state proprio le intercettazioni a permettere ai giudici di infliggere quei successi contro la criminalità organizzata che, ci consenta, appartengono a tutti gli italiani onesti e non solo al Governo.
Per tutte queste ragioni, avremmo preferito non vedere Paolo Borsellino raffigurato “strumentalmente” in un tarocco. Anche perché, ci consenta ancora, lo stesso Borsellino, cui in vita non mancarono gli attacchi da parte di alcuni politici, avrebbe rifiutato l’idea di essere l’unico eroe in mezzo a migliaia di “giudici malati di mente”. Oggi, ci sono tanti magistrati che fanno onestamente, con coraggio e professionalità, il loro lavoro. Lo fanno lontani da qualsiasi piazza e senza alcuna distinzione di sorta, perseguendo fedelmente quel principio per cui “la legge è uguale per tutti”. Un principio che noi giovani dovremmo difendere con forza se vogliamo realmente sperare in un futuro migliore.
Un’altra Storia - Forum Giovani, Giovani Democratici, Rete degli Studenti, Arci Sicilia, Centro Pio La Torre, Ass. P.Impastato-Casa Memoria, I ragazzi di Paolo, Comitato 19 Luglio 1992 - Progetto cittadino Palermo, , AGESCI Capaci 1, Cooperativa “Lavoro e non solo”, Gd Palermo, Gd Agrigento, Gd Caltanissetta, GD Trapani, Movimento degli Universitari, Contrariamente, Ass. Itaca, Ass. Liberi Tutti, Ass. Universitaria Kepos, Ass. YHR, Ass. teatrale Edo Ludos, Arci Barcollo, Blow Up, Left, Centro Servizi Guernica, Giosef Messina “Dilip Pizzi”, comitato “Giovani e Messina”, Ass. Antimafia Castello Libero, Circolo Gd Santa Teresa di Riva, Associazione “Sottosopra”, Associazione culturale “Mondonuovo”.
* l’Unità, 24 marzo 2010
Tra mafia e Stato
di Lirio Abbate *
Brusca rivela: Riina disse che il nostro referente nella trattativa era il ministro Mancino. Ma dopo l’arresto del padrino, i boss puntarono su Forza Italia e Silvio Berlusconi
E’ la vigilia di Natale del 1992, Totò Riina è euforico, eccitato, si sente come fosse il padrone del mondo. In una casa alla periferia di Palermo ha radunato i boss più fidati per gli auguri e per comunicare che lo Stato si è fatto avanti. I picciotti sono impressionati per come il capo dei capi sia così felice. Tanto che quando Giovanni Brusca entra in casa, Totò ù curtu, seduto davanti al tavolo della stanza da pranzo, lo accoglie con un grande sorriso e restando sulla sedia gli dice: "Eh! Finalmente si sono fatti sotto". Riina è tutto contento e tiene stretta in mano una penna: "Ah, ci ho fatto un papello così..." e con le mani indica un foglio di notevoli dimensioni. E aggiunge che in quel pezzo di carta aveva messo, oltre alle richieste sulla legge Gozzini e altri temi di ordine generale, la revisione del maxi processo a Cosa nostra e l’aggiustamento del processo ad alcuni mafiosi fra cui quello a Pippo Calò per la strage del treno 904. Le parole con le quali Riina introduce questo discorso del "papello" Brusca le ricorda così: "Si sono fatti sotto. Ho avuto un messaggio. Viene da Mancino".
L’uomo che uccise Giovanni Falcone - di cui "L’espresso" anticipa il contenuto dei verbali inediti - sostiene che sarebbe Nicola Mancino, attuale vice presidente del Csm che nel 1992 era ministro dell’Interno, il politico che avrebbe "coperto" inizialmente la trattativa fra mafia e Stato. Il tramite sarebbe stato l’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, attraverso l’allora colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno. L’ex responsabile del Viminale ha sempre smentito: "Per quanto riguarda la mia responsabilità di ministro dell’Interno confermo che nessuno mi parlò di possibili trattative".
Il contatto politico Riina lo rivela a Natale. Mediata da Bernardo Provenzano attraverso Ciancimino, arriva la risposta al "papello", le cui richieste iniziali allo Stato erano apparse pretese impossibili anche allo zio Binu. Ora le dichiarazioni inedite di Brusca formano come un capitolo iniziale che viene chiuso dalle rivelazioni recenti del neo pentito Gaspare Spatuzza. Spatuzza indica ai pm di Firenze e Palermo il collegamento fra alcuni boss e Marcello dell’Utri (il senatore del Pdl, condannato in primo grado a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa), che si sarebbe fatto carico di creare una connessione con Forza Italia e con il suo amico Silvio Berlusconi. Ma nel dicembre ’92 nella casa alla periferia di Palermo, Riina è felice che la trattativa, aperta dopo la morte di Falcone, si fosse mossa perché "Mancino aveva preso questa posizione". E quella è la prima e l’ultima volta nella quale Brusca ha sentito pronunziare il nome di Mancino da Riina. Altri non lo hanno mai indicato, anche se Brusca è sicuro che ne fossero a conoscenza anche alcuni boss, come Salvatore Biondino (detenuto dal giorno dell’arresto di Riina), il latitante Matteo Messina Denaro, il mafioso trapanese Vincenzo Sinacori, Giuseppe Graviano e Leoluca Bagarella.
Le risposte a quelle pretese tardavano però ad arrivare. Il pentito ricorda che nei primi di gennaio 1993 il capo di Cosa nostra era preoccupato. Non temeva di essere ucciso, ma di finire in carcere. Il nervosismo lo si notava in tutte le riunioni, tanto da fargli deliberare altri omicidi "facili facili", come l’uccisione di magistrati senza tutela. Un modo per riscaldare la trattativa. La mattina del 15 gennaio 1993, mentre Riina e Biondino si stanno recando alla riunione durante la quale Totò ù curtu avrebbe voluto informare i suoi fedelissimi di ulteriori retroscena sui contatti con gli uomini delle istituzioni, il capo dei capi viene arrestato dai carabinieri.
Brusca è convinto che in quell’incontro il padrino avrebbe messo a nudo i suoi segreti, per condividerli con gli altri nell’eventualità che a lui fosse accaduto qualcosa. Il nome dell’allora ministro era stato riferito a Riina attraverso Ciancimino. E qui Brusca sottolinea che il problema da porsi - e che lui stesso si era posto fin da quando aveva appreso la vicenda del "papello" - è se a Riina fosse stata o meno riferita la verità: "Se le cose stanno così nessun problema per Ciancimino; se invece Ciancimino ha fatto qualche millanteria, ovvero ha "bluffato" con Riina e questi se ne è reso conto, l’ex sindaco allora si è messo in una situazione di grave pericolo che può estendersi anche ai suoi familiari e che può durare a tempo indeterminato". In quel periodo c’erano strani movimenti e Brusca apprende che Mancino sta blindando la sua casa romana con porte e finestre antiproiettile: "Ma perché mai si sta blindando, che motivo ha?". "Non hai nulla da temere perché hai stabilito con noi un accordo", commenta Brusca come in un dialogo a distanza con Mancino: "O se hai da temere ti spaventi perché hai tradito, hai bluffato o hai fatto qualche altra cosa".
Brusca, però, non ha dubbi sul fatto che l’ex sindaco abbia riportato ciò che gli era stato detto sul politico. Tanto che avrebbe avuto dei riscontri sul nome di Mancino. In particolare uno. Nell’incontro di Natale ’92 Biondino prese una cartelletta di plastica che conteneva un verbale di interrogatorio di Gaspare Mutolo, un mafioso pentito. E commentò quasi ironicamente le sue dichiarazioni: "Ma guarda un po’: quando un bugiardo dice la verità non gli credono". La frase aveva questo significato: Mutolo aveva detto in passato delle sciocchezze ma aveva anche parlato di Mancino, con particolare riferimento a un incontro di quest’ultimo con Borsellino, in seguito al quale il magistrato aveva manifestato uno stato di tensione, tanto da fumare contemporaneamente due sigarette. Per Biondino sulla circostanza che riguardava Mancino, Mutolo non aveva detto il falso. Ma l’ex ministro oggi dichiara di non ricordare l’incontro al Viminale con Borsellino.
Questi retroscena Brusca li racconta per la prima volta al pm fiorentino Gabriele Chelazzi che indagava sui mandanti occulti delle stragi. Adesso riscontrerebbero le affermazioni di Massimo Ciancimino, figlio di don Vito, che collabora con i magistrati di Palermo e Caltanissetta svelando retroscena sul negoziato mafia- Stato. Un patto scellerato che avrebbe avuto inizio nel giugno ’92, dopo la strage di Capaci, aperto dagli incontri fra il capitano De Donno e Ciancimino. E in questo mercanteggiare, secondo Brusca, Riina avrebbe ucciso Borsellino "per un suo capriccio". Solo per riscaldare la trattativa.
Le rivelazioni del collaboratore di giustizia si spingono fino alle bombe di Roma, Milano e Firenze. Iniziano con l’attentato a Maurizio Costanzo il 14 maggio ’93 e hanno termine a distanza di 11 mesi con l’ordigno contro il pentito Totuccio Contorno. Il tritolo di quegli anni sembra non aver portato nulla di concreto per Cosa nostra. Brusca ricorda che dopo l’arresto di Riina parla con il latitante Matteo Messina Denaro e con il boss Giuseppe Graviano. Chiede se ci sono novità sullo stato della trattativa, ma entrambi dicono: "Siamo a mare", per indicare che non hanno nulla. E da qui che Brusca, Graviano e Bagarella iniziano a percorrere nuove strade per riattivare i contatti istituzionali.
I corleonesi volevano dare una lezione ai carabinieri sospettati (il colonnello Mori e il capitano De Donno) di aver "fatto il bidone". E forse per questo motivo che il 31 ottobre 1993 tentano di uccidere un plotone intero di carabinieri che lasciava lo stadio Olimpico a bordo di un pullman. L’attentato fallisce, come ha spiegato il neo pentito Gaspare Spatuzza, perché il telecomando dei detonatori non funziona. Il piano di morte viene accantonato.
In questa fase si possono inserire le nuove confessioni fatte pochi mesi fa ai pubblici ministeri di Firenze e Palermo dall’ex sicario palermitano Spatuzza. Il neo pentito rivela un nuovo intreccio politico che alcuni boss avviano alla fine del ’93. Giuseppe Graviano, secondo Spatuzza, avrebbe allacciato contatti con Marcello Dell’Utri. Ai magistrati Spatuzza dice che la stagione delle bombe non ha portato a nulla di buono per Cosa nostra, tranne il fatto che "venne agganciato ", nella metà degli anni Novanta "il nuovo referente politico: Forza Italia e quindi Silvio Berlusconi".
Il tentativo di allacciare un contatto con il Cavaliere dopo le stragi era stato fatto anche da Brusca e Bagarella. Rivela Brusca: "Parlando con Leoluca Bagarella quando cercavamo di mandare segnali a Silvio Berlusconi che si accingeva a diventare presidente del Consiglio nel ’94, gli mandammo a dire "Guardi che la sinistra o i servizi segreti sanno", non so se rendo l’idea...". Spiega sempre il pentito: "Cioè sanno quanto era successo già nel ’92-93, le stragi di Borsellino e Falcone, il proiettile di artiglieria fatto trovare al Giardino di Boboli a Firenze, e gli attentati del ’93". I mafiosi intendevano mandare un messaggio al "nuovo ceto politico ", facendo capire che "Cosa nostra voleva continuare a trattare".
Perché era stata scelta Forza Italia? Perché "c’erano pezzi delle vecchie "democrazie cristiane", del Partito socialista, erano tutti pezzi politici un po’ conservatori cioè sempre contro la sinistra per mentalità nostra. Quindi volevamo dare un’arma ai nuovi "presunti alleati politici", per poi noi trarne un vantaggio, un beneficio".
Le due procure stanno già valutando queste dichiarazioni per decidere se riaprire o meno il procedimento contro Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, archiviato nel 1998. Adesso ci sono nuovi verbali che potrebbero rimettere tutto in discussione e riscrivere la storia recente del nostro Paese.
La moglie del giudice ai pm. I dubbi del magistrato a 48 ore dalla morte
Un testimone rivela: "Aveva sospetti su un generale dei carabinieri"
La vedova Borsellino ai pm
"Ecco tutti i sospetti di Paolo"
di ATTILIO BOLZONI e FRANCESCO VIVIANO *
HA PARLATO come non aveva fatto mai, dopo diciassette anni. Per dire tutto. Il suo interrogatorio è cominciato così: "Avevo paura, non tanto per me ma avevo paura per i miei figli e poi per i miei nipoti. Adesso però so che è arrivato il momento di riferire anche i particolari più piccoli o apparentemente insignificanti". È la vedova che ricorda gli ultimi due giorni di vita di Paolo Borsellino. È la signora Agnese che spiega ai magistrati di Caltanissetta cosa accadde nelle 48 ore precedenti alla strage di via Mariano D’Amelio.
Il verbale di interrogatorio è di poco più di un mese fa, lei da una parte e i procuratori di Caltanissetta Sergio Lari e Domenico Gozzo dall’altra. Lei si è presentata spontaneamente per raccontare "quando Paolo tornò da Roma il 17 di luglio". Il 17 luglio 1992, due giorni prima dell’autobomba. Paolo Borsellino è a Roma per interrogare il boss Gaspare Mutolo, un mafioso della Piana dei Colli che aveva deciso di pentirsi dopo l’uccisione di Giovanni Falcone. È venerdì pomeriggio, Borsellino lascia il boss e gli dà appuntamento per il lunedì successivo.
Quando atterra a Palermo non passa dal Tribunale ma va subito da sua moglie. "Mi chiese di stare soli, mi pregò di andare a fare una passeggiata sulla spiaggia di Villagrazia di Carini", ricorda la signora Agnese. Per la prima volta in tanti anni il procuratore Borsellino non si fa scortare e si concede una lunga camminata abbracciando la moglie. Non parlava mai con lei del suo lavoro, ma quella volta Paolo Borsellino "aveva voglia di sfogarsi". Racconta ancora la signora Agnese: "Dopo qualche minuto di silenzio, Paolo mi ha detto: ’Sai Agnese, ho appena visto la mafia in faccia...’". Un paio d’ore prima aveva raccolto le confessioni di Gaspare Mutolo. Su magistrati collusi, su superpoliziotti che erano spie, su avvocati e ingegneri e medici e commercialisti che erano al servizio dei padrini di Corleone. Non dice altro Paolo Borsellino. Informa soltanto la moglie che lunedì tornerà a Roma, "per interrogare ancora Mutolo".
Il sabato passa tranquillamente, la domenica mattina - il 19 luglio, il giorno della strage - il telefono di casa Borsellino squilla. È sempre Agnese che ricorda: "Quel giorno, molto presto, mio marito ricevette una telefonata dell’allora procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco. Mi disse che lo "autorizzava" a proseguire gli interrogatori con il pentito Mutolo che, per organizzazione interna all’ufficio, dovevano essere gestiti invece dal procuratore aggiunto Vittorio Aliquò". Lo sa bene Paolo Borsellino che sta per morire. E ai procuratori di Caltanissetta Agnese l’ha ribadito un’altra volta: "Paolo aveva appreso qualche giorno prima che Cosa Nostra voleva ucciderlo".
Un’informazione che arrivava da alcune intercettazioni ambientali "in un carcere dov’erano rinchiusi dei mafiosi". Una minaccia per lui e per altri due magistrati, Gioacchino Natoli e Francesco Lo Voi. Ricorda sempre la vedova: "Così un giorno Paolo chiamò i suoi due colleghi e disse loro di andare via da Palermo, di concedersi una vacanza. Li consigliò anche di andare in giro armati, con una pistola". Gioacchino Natoli e Lo Voi gli danno ascolto, ma lui - Borsellino - rimane a Palermo. Sa che è condannato a morte. E ormai sa anche della "trattativa" che alcuni apparati dello Stato portano avanti con Riina e i suoi Corleonesi. Ufficiali dei carabinieri, quelli dei Ros, il colonnello Mario Mori - "l’anima" dei reparti speciali - e il fidato capitano Giuseppe De Donno. Probabilmente, questa è l’ipotesi dei procuratori di Caltanissetta e di Palermo, Paolo Borsellino muore proprio perché contrario a quella "trattativa".
Nella nuova inchiesta sulle stragi siciliane e sui patti e i ricatti con i Corleonesi, ogni giorno scivolano nuovi nomi. L’ultimo è quello del generale Antonino Subranni, al tempo comandante dei Ros e superiore diretto di Mori. Un testimone ha rivelato ai procuratori di Caltanissetta una battuta di Borsellino: "L’ha fatta a me personalmente qualche giorno prima di essere ammazzato. Mi ha detto: ’Il generale Subranni è punciutu" (cioè uomo di Cosa nostra ndr)...’".
Un’affermazione forte ma detta nello stile di Paolo Borsellino, come battuta appunto. Cosa avesse voluto veramente dire il procuratore, lo scopriranno i magistrati di Caltanissetta. La frase è stata comunque messa a verbale. E il verbale è stato secretato. Il nome del generale Subranni è affiorato anche nelle ultime rivelazioni di Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito. Nella sua intervista a Sandro Ruotolo per Annozero (però questa parte non è andata in onda ma è stata acquisita dalla procura di Caltanissetta), Massimo Ciancimino sosteneva: "Mio padre per la sua natura corleonese non si è mai fidato dei carabinieri. E quando il colonello Mori e il capitano De Donno cercano di instaurare questo tipo di trattativa, è chiaro che a mio padre viene il dubbio: ma come fanno questi due soggetti che di fatto non sono riusciti nemmeno a fare il mio di processo (quello sugli appalti ndr) a offrire garanzie concrete?...". E conclude Ciancimino: "In un primo momento gli viene detto che c’è il loro referente capo, il generale Subranni...". È un’altra indagine nell’indagine sui misteri delle stragi siciliane.
© * la Repubblica, 14 ottobre 2009
Ansa» 2009-05-24 09:59
NAPOLITANO, CONTRO MAFIA MOBILITAZIONE COLLETTIVA
dell’inviato Alberto Spampinato
GIBELLINA (TRAPANI) - Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non sono solo vittime della mafia, sono "autentici eroi della causa della legalità, della convivenza civile, della difesa dello Stato democratico", ha detto Giorgio Napolitano nell’aula bunker di Palermo dove ha affermato che nel loro ricordo "più che mai tutta la nazione si unisce e l’Italia attorno a queste immagini, simboli, memorie pensa di essere una grande nazione unita". La commozione è cresciuta sull’onda dei ricordi, della rievocazione delle immagini e delle opere dei due magistrati antimafia: anche il Capo dello Stato ha partecipato all’emozione collettiva e ha ricordato che quel 1992, con le due stragi a distanza di due mesi, l’Italia visse "un momento terribile, tutti noi sentimmo scricchiolare le istituzioni repubblicane sotto l’attacco diretto e spietato della mafia".
Falcone e Borsellino furono per lo Stato "servitori eccezionali per lealtà e professionalità, coraggiosi e sapienti combattenti per la legalità e la difesa della libertà e dei diritti dei cittadini, restano grandi esempi morali". Bisogna continuare a ricordarli e insieme si devono "raccogliere i frutti del loro impegno". Quei frutti, ha aggiunto, "restano preziosi". Proprio in questa aula, ha aggiunto, si celebrò lo storico maxiprocesso che ha cambiato la condizione della Sicilia, ha segnato "una svolta decisiva nella lotta contro la mafia, insieme ai provvedimenti di legge che seguirono" e dei quali lo stesso Falcone fu "il principale ispiratore". Si tratta, ha ricordato, della legge sui pentiti, delle nuove norme processuali e per il carcere duro, l’istituzione della direzione investigativa antimafia e della procura nazionale antimafia.
Di quest’ultima e di Pietro Grasso che la guida, Napolitano ha fatto una difesa e un elogio senza sfumature. Quelle norme antimafia restano fondamentali ma vanno aggiornate e affiancate da altre per seguire l’evoluzione continua e le mutazioni della mafia, ha detto il Capo dello Stato apprezzando il lavoro che stanno facendo i ministri Alfano e Maroni e il Parlamento in particolare per le misure di prevenzione personale e patrimoniale. Lo Stato, le forze dell’ordine, la magistratura devono continuare ad impegnarsi, ma c’é anche "un altro versante fondamentale della lotta contro la mafia, quello della mobilitazione collettiva della società civile, per trasmettere e diffondere la memoria storica e alimentare la cultura della legalità, per affermare l’imperativo del ’resistere e reagire alle pressioni e intimidazioni della mafia’".
L’impegno della società civile può essere "determinante" per una maggiore partecipazione democratica. Per questo però occorre anche puntare sulla "qualità della politica, sul prestigio delle istituzioni democratiche, sull’efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni". E’ necessaria la crescita della coscienza civica e della fiducia nello Stato di diritto, "che può rafforzarsi solo in un clima di rispetto, in ogni circostanza, degli equilibri costituzionali da parte di tutti coloro che sono chiamati ad osservarli, come conta pure ogni intervento capace di incidere sul divario nord-sud e di aumentare l’occupazione qualificata". Napolitano ha chiuso raccogliendo le espressioni di speranza di Maria Falcone. E’ vero, ha detto, che "vediamo di anno in anno crescere la speranza, smuoversi le coscienze, formarsi i giovani del sud e del nord al culto della libertà e della legalità". Per sconfiggere la mafia l’Italia si affida all’impegno delle forze dell’ordine e a queste coscienze più mature.
A Palermo via alle celebrazioni delle vittime di "cosa nostra"
Il capo dello Stato nell’aula bunker del carcere dell’Ucciardone
Napolitano ricorda Falcone e Borsellino
"Sono due grandi esempi morali"
PALERMO - Un omaggio ai caduti nella lotta contro la mafia. A chi indossava una divisa e a magistrati coraggiosi come Falcone e Borsellino, "grandi esempi morali" li definisce il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Mattinata all’insegna della memoria, stamattina, a Palermo. Con il capo dello Stato che per combattere la mafia chiede, il rispetto delle regole democratiche, "la qualità della politica, l’efficienza e la trasparenza delle pubbliche amministrazioni", un clima di collaborazione e il pieno riconoscimento del lavoro della Procura nazionale antimafia che deve essere "lasciata lavorare". Poi l’omaggio ai due giudici: "Mai come in momenti come questo, uniti nel ricordo incancellabile di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e le altre vittime della mafia sentiamo di essere una nazione".
La mattinata comincia con Napolitano che depone una corona di fiori davanti la lapide delle vittime di "cosa nostra" che si trova dentro la caserma "Lungaro" di Palermo. Al suo fianco ministri e alte cariche delle forze dell’ordine. Presente anche il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia: "Siamo qui per testimoniare la volontà e l’impegno di fare una battaglia vera contro la mafia. Una battaglia che vogliamo portare avanti sino in fondo". Da Roma Gianfranco Fini manda un messaggio. E’ un invito ai giovani perché capiscano "che il loro futuro è nelle loro stesse mani" e che democrazia e legalità sono elementi inscindibili.
La giornata del presidente prosegue con l’incontro dei familiari delle vittime delle stragi. Poi via nell’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo per la cerimonia per il 17esimo anniversario della strage di Capaci. "Non e’ la prima volta, rinnovo l’emozione che ho provato altre volte" dice tra gli applausi di centinaia di studenti. L’inno d’Italia, cantato da tutti. Con i bambini mano nelle mano con le autorità. "Ogni anno coltivo maggiore speranza. E questo grazie ai tantissimi ragazzi che arrivano a Palermo per non dimenticare la strage di Capaci" dice Maria Falcone, sorella del giudice Giovanni.
Sullo schermo passa un video che ripercorre la vicenda umana di Falcone ("un punto di riferimento" lo definisce il Guardasigilli Alfano), ricordando anche le altre vittime di Cosa Nostra. Un filmato, realizzato dal regista Vittorio Rizzo, con le musiche di Nicola Piovani e la voce narrante dell’attore palermitano Luigi Lo Cascio, che si chiude con i volti dei tanti magistrati ed esponenti delle forze dell’ordine che si sono battuti contro la mafia. Tre bambini delle elementari salgono sul palco per recitare al Capo dello Stato una poesia ispirata alla figura di Falcone. Al termine, Napolitano si alzato e li abbraccia. Tra nuovi applausi. Con Alfano che annuncia: "I boss sono tutti al carcere duro e ci resteranno".
Nel frattempo in porto è ancorata la "nave della legalità". Il grande traghetto che ha portato nel capoluogo siciliano oltre 1500 tra studenti, insegnanti, accompagnatori ,volontari, per dedicare una giornata alla memoria dei giudici Falcone e Borsellino. A bordo tutti ragazzi che dall’inizio dell’anno scolastico hanno lavorato a progetti collegati al tema della legalità.
* la Repubblica, 23 maggio 2009
Il Presidente Napolitano in Sicilia dal 22 al 24 maggio in occasione della commemorazione del sacrificio di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e degli agenti delle scorte *
Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, sarà in Sicilia dal 22 al 24 maggio, in occasione delle cerimonie commemorative del sacrificio di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e degli agenti delle scorte.
Il Capo dello Stato arriverà nel pomeriggio di venerdì 22 maggio a Palermo dove a Palazzo d’Orleans incontrerà il Presidente della Regione, Raffaele Lombardo.
Il giorno successivo, dopo aver deposto una corona davanti alla lapide in ricordo del personale di scorta di Falcone e Borsellino alla caserma Lungaro, nell’aula Bunker del carcere dell’Ucciardone il Capo dello Stato parteciperà al convegno organizzato dalla Fondazione “Giovanni e Francesca Falcone” sul tema “Legalità, impresa e sviluppo”, al termine del quale saranno premiate le scuole vincitrici del concorso promosso dalla Fondazione. Successivamente il Presidente Napolitano si recherà a Via D’Amelio per rendere omaggio alla figura del giudice Borsellino nel diciassettesimo anniversario dell’assassinio. In piazza Magione incontrerà gli studenti che a Palermo parteciperanno alle iniziative sulla legalità.
Il Capo dello Stato si trasferirà poi a Gibellina dove, nella sede della Fondazione “Orestiadi”, visiterà il Museo Delle Trame Mediterranee: si recherà quindi a Gibellina nuova, sorta dopo la distruzione della cittadina provocata dal terremoto del Belice, per un incontro con i sindaci dei comuni terremotati delle Province di Trapani e di Agrigento.
La giornata di sabato si concluderà ad Agrigento con la visita del Presidente alla Valle dei Templi.
Domenica 24 maggio il Presidente della Repubblica si recherà a Racalmuto dove renderà omaggio alla tomba di Leonardo Sciascia e visiterà la Fondazione intitolata allo scrittore.
Fonte: Presidenza della Repubblica
Si chiude il processo per i mandanti delle stragi del 1992
Negli attentati persero la vita i giudici Falcone e Borsellino
Capaci e d’Amelio, la Cassazione conferma
Dodici condanne, tra cui dieci ergastoli
In terzo grado mantenute le sentenze della Corte d’Appello
ROMA - La Cassazione ha confermato tutte le condanne per i boss che, insieme a Totò Riina, avevano ordinato le due stragi che hanno insanguinato la Sicilia nel 1992: Capaci, in cui persero la vita Giovanni Falcone, la moglie e tre uomini della scorta e via D’Amelio, in cui invece caddero Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta. Delle dodici condanne, dieci sono ergastoli.
La prima sezione penale della Cassazione presieduta da Edoardo Fazioli ha confermato la sentenza della corte d’Assise d’Appello di Catania che nel 2006 aveva condannato i capi mandamento a diversi ergastoli. Confermato il carcere a vita per le due stragi per Salvatore Montalto, Giuseppe Farinella e Salvatore Buscemi. Per la strage di Capaci ergastoli per Giuseppe Madonia e Giuseppe Montalto e infine condanne a vita anche per Carlo Greco, Pietro Aglieri, Benedetto Santapaola, Mariano Agate, Benedetto Spera. Vent’anni invece per Antonino Giuffrè e ventisei anni per Stefano Ganci.
Il pg Carlo Di Casola aveva chiesto la conferma delle condanne tranne che per Salvatore Montalto e Salvatore Buscemi, per i quali aveva chiesto l’annullamento con rinvio a un nuovo processo, e per Benedetto Spera, per il quale aveva chiesto l’annullamento della sentenza del 2006 e quindi l’assoluzione.
* la Repubblica, 18 settembre 2008.
COMUNICATI
Data: 19-07-2008
Descrizione: Messaggio del Presidente Napolitano per il XVI anniversario dell’uccisione del giudice Borsellino e della sua scorta
C o m u n i c a t o
Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha inviato alla signora Agnese Borsellino il seguente messaggio:
"Nel sedicesimo anniversario del barbaro agguato di via D’Amelio a Palermo, che il 19 luglio 1992 spense la vita di suo marito e dei giovani agenti - Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Cosina, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina - dedicatisi alla sua sicurezza, desidero far giungere a lei, gentile signora e - suo tramite - a tutti i familiari dei caduti di quel giorno il mio pensiero commosso e partecipe. Rinnovare anno dopo anno il ricordo di Paolo Borsellino e della sua scorta costituisce il doveroso riconoscimento che il Paese tributa al dramma da voi vissuto e al coraggio con il quale avete saputo affrontarlo nei lunghi anni trascorsi. Il dolore e lo sgomento per la strage di via D’Amelio restano vivi nella memoria di tutti. La inaudita violenza con cui si colpì un magistrato esemplare, costantemente impegnato nel contrasto alla criminalità organizzata suscitò nel Paese - già segnato dal barbaro attentato di Capaci - una condivisa stagione di lotta contro la brutale spirale mafiosa. Ricordare tutti coloro che hanno pagato con il sacrificio della vita i servigi resi alle istituzioni contribuisce in modo determinante a diffondere la cultura della legalità contro ogni forma di violenza e sopraffazione. Le iniziative e la mobilitazione delle forze sane della società e in particolar modo delle generazioni più giovani testimoniano la funzione rigeneratrice dell’esempio e dell’eredità morale che Paolo Borsellino ci ha lasciato. Con commosso ricordo sono vicino a Lei, gentile signora, ai suoi figli e ai familiari degli agenti caduti e, con questo spirito, le rinnovo i sentimenti di gratitudine e di solidarietà di tutti gli italiani".
Roma, 19 luglio 2008 (- cliccare sul rosso, per accedere al sito della Presidenza della Repubblica).
Innanzitutto un piccolo pensiero al Giudice Borsellino e ai suoi uomini, ma anche a tutti coloro che spesso non si ricordano più e che sono indirettamente o indirettamente stati uccisi o annichiliti dalla mafia.
Detto questo, vorrei evidenziare da modesto siciliano, che se si vuole sconfiggere la mafia e la mafiosità, in una visione più a lungo raggio, ma altrettanto concreta, bisogna subito iniziare dalla scuola, introducendo materie moderne, come lo studio del diritto, economia, medicina, psichiatria, antropologia, religioni (non religione), ecc. , così che almeno i nostri figli non crescano "inconsapevoli" come siamo da sempre noi, loro genitori, tanto che pure per questo il nostro "sistema Stato" politico-istituzionale, da decenni si può permettere di trattarci come dei “ruminanti cornuti” chiusi in un “recinto” facendoci per questo pure studiare, guarda caso, da sempre e sin da piccoli, la sola "conoscenza" di quando il sole girava intorno alla terra.
Solo cominciando con i nostri ragazzi, quanto meno dalle suole medie inferiori, con una cultura reale, si può sperare che tra dieci quindici anni, cambi qualcosa, altrimenti, per allora, ci ritroveremo ancora a “piangerci sopra” o a continuare a farci male”, come facciamo adesso e abbiamo sempre fatto in passato.
Durissima lettera del fratello di Paolo Borsellino
«Basta lacrime, vendichiamo Paolo»
«Finiamola con le commemorazioni fatte da chi ha contribuito a far morire mio fratello».
E ai politici: «il Sud abbandonato alla mafia» *
MILANO - «È ora di smettere di piangere per Paolo, è ora di finirla con le commemorazioni, fatte spesso da chi ha contribuito a farlo morire». È una lettera durissima quella scritta da Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, il giudice morto 15 anni fa nella strage di via D’Amelio a Palermo. L’ingegnere Borsellino, che vive a Milano, ha voluto replicare al documentario sulla mafia a Palermo andato in onda lunedì sera su rai3 e condotto da Alexander Stille. Si tratta della seconda lettera che il fratello del magistrato ammazzato dalla mafia con quattro agenti della scorta, scrive. La prima lettera era stata scritta pochi giorni fa alla vigilia delle commemorazioni per il 15esimo anniversario delle stragi di Capaci e via D’Amelio.
VENDICARE - «È l’ora invece di dimenticare le lacrime, è l’ora di lottare per Paolo, lottare fino alla fine delle nostre forze, fino a che Paolo e i suoi ragazzi non saranno vendicati e gridare, gridare, gridare finchè avremo voce per pretendere la verità, costringere a ricordare chi non ricorda», prosegue Salvatore Borsellino.
POLITICI - Borsellino si chiede «dove sono le migliaia di persone che Una foto di archivio di via D’Amelio dove il giudice Paolo Borsellino fu ucciso dalla mafia (Ansa) cacciarono e presero a schiaffi i politici che, scacciati dai funerali di Paolo, avevano osato andare nella Cattedrale di Palermo, davanti alle bare dei ragazzi morti insieme a lui, a fingere cordoglio e disputarsi i posti più in vista nei banchi della chiesa?». E ancora: «Dove sono le migliaia di giovani, di gente di tutte le età, che ai funerali di Paolo continuavano a gridare il suo nome, Paolo, Paolo, Paolo?». «Ricordi il presidente del Consiglio e ricordino tutti i politici - prosegue Salvatore Borsellino - che guidare l’Italia non è gestire un tesoretto, disquisire su scalini e scaloni, o azzuffarsi sugli interventi nelle missioni all’estero, e dimenticare che i veri problemi sono nel nostro stesso paese, in un Sud abbandonato alla mafia, alla camorra, alla ndrangheta».
GIOVANI - Quindi l’appello ai giovani: «Ricordate che non ci può essere una repubblica, non ci può essere una democrazia fondata sul sangue, fondata sui ricatti incrociati legati alla sparizione di un’agenda rossa e delle memorie di un computer e a quello che può esserci scritto o registrato. Ricordate che non basta cambiare nome ad un partito e poi, nel discorso programmatico del suo capo in pectore non sentire neanche pronunciare la parola mafia. Ricordate che il futuro è vostro e che ve lo stanno rubando».
L’AGENDA ROSSA - Torna in primo piano intanto la vicenda della scomparsa dell’agenda rossa del giudice ucciso in via D’Amelio. In merito, il gip di Caltanissetta Ottavio Sferlazza ha infatti indicato alla procura nuovi spunti di indagine. Nelle scorse settimane i pm avevano chiesto l’archiviazione del fascicolo iscritto a carico di ignoti per il reato di furto. Il giudice, però, si era opposto riservandosi ulteriori decisioni. Ora, con una ordinanza, il gip ha chiesto alla Procura di ricostruire cronologicamente le fasi successive all’esplosione dell’autobomba e di interrogare i due carabinieri ritratti in alcune foto in via D’Amelio il 19 luglio del 1992 accanto all’allora capitano, Giovanni Arcangioli che teneva in mano la borsa che avrebbe dovuto contenere l’agenda scomparsa e sulla quale, come abitudine, Borsellino segnava ogni cosa riguardasse appuntamenti, indagini e sue riflessioni. Arcagioli, che nel frattempo è diventato colonnello, è iscritto nel registro degli indagati a Caltanissetta per false dichiarazioni al Pm. Il Gip Sferlazza chiede anche ai Pm di Caltanissetta, inoltre, di accertare perché la relazione sulla scomparsa dell’agenda venne redatta solo a dicembre del 1992.
* Corriere della Sera, 24 luglio 2007
Lunedì sera su RaiTre il film-documentario di Marco Turco dal libro di Alexander Stille
il racconto della lotta alla mafia, il sacrificio di Falcone e Borsellino, il maxiprocesso
"In un altro Paese", omaggio agli eroi che guardarono in faccia Cosa nostra
Commoventi le testimonianze dei colleghi Guarnotta, Di Lello, Ayala
De Francisci: "Mi chiedo spesso che sono morti a fare, e non trovo una risposta"
di SILVIA FUMAROLA *
INIZIA dove la storia sembrava concludersi, su quella frase di Antonino Caponnetto, padre del pool antimafia di Palermo, che sussurra: "E’ tutto finito", dopo la strage di Via D’Amelio. Il film documentario In un altro Paese di Marco Turco dal libro di Alexander Stille Excellent cadavers. The Mafia and the Death of the First Italian Republic (Cadaveri eccellenti. La mafia e la morte della prima Repubblica italiana) dopo aver fatto il giro dei festival e delle università (l’anno scorso è stato proiettato anche alla Columbia University), approda in tv lunedì alle 21 su RaiTre. Il viaggio a ritroso comincia da quel 19 luglio del ’92, quando Palermo è scossa da un altro attentato mafioso: Paolo Borsellino viene ucciso con i suoi agenti, sotto casa della madre. Sono passati 57 giorni dalla strage di Capaci in cui trovano la morte Giovanni Falcone con la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta. La Sicilia brucia, Roma resta a guardare.
In un altro Paese è un film sconvolgente perché in novanta minuti non ce n’è uno di fiction, sono i fatti a parlare: un collage di delitti, testimonianze, vittorie, sconfitte, lacrime, rabbia. Vent’anni di lavoro per arrivare al maxiprocesso, il più grande processo mai celebrato contro la mafia. L’aula bunker di Palermo è a prova di missile, lo Stato dà scacco matto a Cosa nostra, ma la partita è appena cominciata.
I cadaveri eccellenti sono tanti, ma è a Giovanni Falcone e a Paolo Borsellino che il film è dedicato, al loro sacrificio che aiuta a far nascere una nuova società civile. E’ la grande fotografa Letizia Battaglia ad accompagnare Stille (a cui presta la voce l’attore Fabrizio Gifuni) nel suo viaggio, una donna appassionata che con i suoi scatti ha saputo raccontare Palermo come nessuno.
Una lunga scia di sangue unisce il destino del capo della Mobile Boris Giuliano, del capitano dei carabinieri Basile, del procuratore Costa, di tanti servitori dello Stato: Montana, Cassarà, Chinnici, Dalla Chiesa ucciso nell’auto che guidava, accanto alla giovane moglie Emanuela Setti Carraro. La tragedia siciliana si consuma, "in un altro Paese, tutto questo non sarebbe successo" dice Stille. Ma succede a Palermo che Falcone e Borsellino seguono il percorso degli assegni, una montagna di soldi che fanno giri strani da una famiglia all’altra, studiano gli appalti, parlano coi pentiti che svelano inquietanti giochi di potere.
Ormai è chiaro, la politica è la nuova alleata della mafia. I magistrati sono costretti a partire per l’Asinara con le famiglie per scrivere l’ordinanza del maxiprocesso. Lo Stato per cui lavorano farà pure il conto delle bibite consumate in quella stanza-cella dove trascorrono le giornate come reclusi. "In un altro Paese - osserva Stille - gli artefici di una tale vittoria sarebbero stati considerati un patrimonio nazionale. Dopo aver vinto la prima battaglia a Palermo, ci si sarebbe aspettato che Falcone e i suoi colleghi fossero messi nella condizione di vincere la guerra. Invece in Italia avvenne proprio il contrario".
Sono commoventi le testimonianze dei colleghi: Guarnotta, Di Lello, Ayala, De Francisci, Ingroia. Ayala spiega a Stille che "la mafia non è né di destra né di sinistra, sta col potere". Il dolore di De Francisci è intatto, ha le lacrime agli occhi quando parla del sacrificio di Falcone e Borsellino: "E’ stato un prezzo altissimo che hanno pagato, loro con la loro vita, e le persone morte con loro. Un prezzo che hanno pagato per il nostro Stato, per la Sicilia, per creare un futuro migliore per tutti noi. Però io me lo sono chiesto negli ultimi anni: ne è valsa la pena? Che siete morti a fare? Me lo sono chiesto più volte al punto in cui siamo. E non riesco a trovare una risposta".
* la Repubblica, 22 luglio 2007
Sul luogo dell’eccidio tanti bambini intorno alla sorella e alla vedova del magistrato assassinato
il 19 luglio 1992 insieme a cinque agenti della scorta. Omaggi e messaggi ufficiali, l’assenza dei palermitani
Quindici anni fa la strage di via D’Amelio
Il ricordo e la rabbia in memoria di Borsellino *
PALERMO - Oggi è il giorno della memoria nel ricordo di Paolo Borsellino, procuratore aggiunto a Palermo, e degli agenti che gli facevano da scorta, massacrati nella strage di via D’Amelio il 19 luglio di quindici anni fa. Sul luogo del massacro, dove nella notte si è tenuta una veglia, si sono radunate centinaia di persone e sono state deposte corone e mazzi di fiori mentre un picchetto d’onore ha intonato le note del silenzio.
Quel 19 luglio Borsellino si stava recando a casa dell’anziana madre, dopo essere stato a pranzo a casa di amici. Ma non ha fatto in tempo a scendere dall’auto blindata, e con lui sono morti Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Cusina, Claudio Traina. Unico superstite l’agente Antonino Vullo. La strage di via D’Amelio avvenne esattamente 57 giorni dopo l’attentato di Capaci in cui avevano perso la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta. Paolo Borsellino aveva 51 anni, da 28 anni era in magistratura. Era stato nominato procuratore aggiunto di Palermo dopo avere diretto la procura di Marsala. Aveva preso il posto di Falcone e sapeva che la sua vita era in pericolo.
L’assenza dei palermitani. A testimoniare il ricordo dell’eccidio, oltre al presidente del Senato Franco Marini, al prefetto Giosué Marino, ad alcuni politici, al questore Giuseppe Caruso, molti bambini. Ma la città normale, quella degli impiegati, dei commercianti e dei lavoratori, è rimasta estranea. Non c’erano persone affacciate ai balconi e la strada era colorata solo dai bambini che facevano il gioco dell’oca della legalità. Sul cippo che ricorda la strage vi sono solo le corone d’alloro ufficiali, mancano i mazzi di fiori che fino ad alcuni anni fa portavano le persone lasciando un biglietto con una frase di speranza per il futuro.
In via D’Amelio tanti bambini. "E’ quasi un miracolo che il ricordo sia ancora così vivo in un Paese che facilmente dimentica i propri morti. E’ importante che la memoria sia affidata ai bambini che non c’erano quando Paolo è morto". Così Rita Borsellino, deputato regionale dell’Unione, ha ricordato il fratello Paolo davanti al cippo che ricorda la strage in via D’Amelio dove si sono radunati centinaia di bambini delle scuole elementari e medie di Palermo tra cartelloni colorati e striscioni con su scritto "La mafia non ci fa paura", "Sconfiggendo la mafia il mondo sarà migliore".
Messaggi e corone di fiori. Tanti i messaggi inviati alla sorella di Paolo Borsellino e alla vedova Agnese. In via D’Amelio, davanti all’ulivo piantato dopo la strage, il presidente del Senato Franco Marini ha deposto una corona. Sul luogo della strage sono state poste due statue che raffigurano Paolo Borsellino e Giovanni Falcone che conversano.
Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha inviato un messaggio alla famiglia: "Trascorsi ormai quindici anni dal tragico attentato restano più che mai vivi nella mia memoria e in quella di tutti gli italiani il dolore e lo sgomento per un così terribile evento. L’indelebile ricordo di quel crimine ha contribuito a far maturare una più diffusa e radicata coscienza civile ed a promuovere un rinnovato impegno per il consolidamento dei valori fondanti della nostra Repubblica: legalità, solidarietà e libertà, contro ogni forma di sopraffazione e violenza".
Anche il presidente della Camera Fausto Bertinotti ha inviato un messaggio: "A quindici anni dalla tragica morte di Paolo Borsellino - insieme agli uomini della sua scorta - si rinnova il dovere di onorarne la memoria e di esprimere la più viva gratitudine per l’impegno coraggioso con cui egli ha combattuto per l’affrancamento della Sicilia e del Paese dal giogo della mafia". "Il giudice Borsellino e gli agenti di scorta debbono essere considerati da tutti martiri gloriosi della nostra patria, alla memoria dei quali indirizzo il mio commosso deferente omaggio", ha scritto il presidente del Consiglio, Romano Prodi, al prefetto di Palermo.
Grasso: "Non lasciare nulla di intentato". "E’ il giorno del ricordo e della commozione" ha detto il procuratore antimafia Pietro Grasso, arrivando in via D’Amelio. E poi, parlando dei recenti sviluppi delle indagini: "Non ho mai sentito nominare servizi segreti non deviati. Questa ormai è una frase fatta che non rende bene quella che è la realtà. Abbiamo un problema morale ed etico di non lasciare mai nulla di intentato, di non verificato e controllato. Bisogna continuare sempre a cercare qualsiasi elemento utile alla verità".
L’inchiesta continua. L’inchiesta sulla strage ha portato a tre diversi filoni processuali, ma rimangono misteri e zone d’ombra. E’ stata fatta luce sul livello organizzativo ed esecutivo dell’attentato, ma non si sono scoperti i mandanti. E questo anniversario è segnato dalle notizie sulla riapertura dell’inchiesta della procura di Caltanissetta su ipotetici coinvolgimenti dei servizi segreti deviati nell’attentato e sui mandanti occulti della strage e dall’accorato appello del fratello di Borsellino, Salvatore, che chiede risposte alle tante domande sulla strage che presenta tuttora lati oscuri.
Il ruolo dei servizi segreti. La sorella di Paolo Borsellino poi, in riferimento alle indagini sul ruolo dei servizi deviati, ha commentato: "Questa pista è stata lasciata troppo in fretta ma ho ancora fiducia nello Stato, quello vero. Come diceva mio fratello ci sono persone che occupano abusivamente le istituzioni". Poi in riferimento alle indiscrezioni secondo cui ci sarebbero cinque boss mafiosi pronti a collaborare con i magistrati per chiarire i punti oscuri della strage ha detto: "Mi meraviglio che ce ne siano ancora, ma è utile che vengano utilizzati nel corso delle indagini".
Gip, no ad archiviazione inchiesta "agenda rossa". Il giudice per le indagini preliminari di Caltanissetta, Ottavio Sferlazza, ha respinto la richiesta di archiviazione dell’inchiesta sul furto della "agenda rossa" del giudice Paolo Borsellino, scomparsa dalla borsa del magistrato poche ore dopo la strage di via d’Amelio. L’udienza si è tenuta ieri e il magistrato si è riservato sulle ulteriori decisioni: imporre l’imputazione coatta alla procura oppure ordinare ulteriori indagini. Nel fascicolo, rimasto a carico di ignoti, si ipotizza il reato di furto.
L’agenda al centro dell’inchiesta. L’agenda rossa, da cui il magistrato non si separava mai, è ritenuta dagli investigatori fondamentale per individuare i mandanti occulti dell’eccidio di via D’Amelio. "Abbiamo denunciato entro dodici ore la scomparsa dell’agenda rossa di mio fratello e abbiamo chiesto di capire chi c’era dietro la sua morte. Fin da subito è stato chiaro che qualcosa non funzionava e già mio fratello Paolo aveva detto che quello che c’era non era solo mafia", ha detto ancora Rita Borsellino, che ha aggiunto: "Le forze dell’ordine e i magistrati in questi anni nonostante le difficoltà hanno fatto un eccellente lavoro e oggi si può fare ciò che prima non era possibile. Ma dov’è la politica nella lotta alla mafia? Io la cerco, ma non riesco a trovarla".
* la Repubblica, 19 luglio 2007
Paolo Borsellino: il ricordo a quindici anni dalla strage
La giornata a Palermo si snoderà tra manifestazioni, spettacoli, dibattiti, messe e commemorazioni e vedrà la partecipazione del presidente del Senato Franco Marini *
PALERMO. Oggi è il giorno della memoria nel ricordo di Paolo Borsellino, procuratore aggiunto a Palermo, e degli agenti della polizia di Stato che gli facevano da scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Cusina, Claudio Traina e Vincenzo Limuli, massacrati nella strage di via Mariano D’Amelio il 19 luglio 1992 e di cui quest’anno ricorre il quindicesimo anniversario.
La giornata a Palermo si snoderà tra manifestazioni, spettacoli, dibattiti, messe e commemorazioni e vedrà la partecipazione del presidente del Senato Franco Marini, del leader di An Gianfranco Fini, del sindaco di Roma Walter Veltroni e del governatore della Puglia Nichi Vendola. Ma il magistrato sarà ricordato con diverse cerimonie in tutta la Sicilia e anche in altre città d’ Italia.
Marini alle 10,30 circa, appena giunto in città, deporrà una corona d’alloro sul cippo che ricorda la strage in via D’Amelio davanti l’abitazione della madre del magistrato dove lui si stava recando quando è stato fatto brillare l’ esplosivo che lo ha ucciso. I magistrati ricorderanno il loro collega nell’aula magna del palazzo di Giustizia, alle 11, ma molti altri saranno i momenti di ricordo che culmineranno in serata con la fiaccolata organizzata da Azione giovani cui parteciperà anche Fini.
Questo anniversario è segnato dalle notizie sulla continuazione dell’inchiesta nissena sui mandanti occulti della strage e dall’accorato appello del fratello di Borsellino, Salvatore, che chiede risposte alle tante domande sulla strage che presenta tuttora lati oscuri.
FOTOGALLERY. 19 luglio 1992: La strage di via D’Amelio
* La Stampa, 19/7/2007 (8:46)
Omicidio Borsellino, nuovi sospetti sui servizi deviati *
Nel giorno del quindicesimo anniversario della morte di Paolo Borsellino, nuove inquietanti novità sulle indagini che non hanno ancora stabilito chi ordinò la strage che uccise il magistrato e gli uomini della scorta. Misteri che aveva rilanciato una lettera del fratello di Borsellino, Salvatore, denunciando un patto "Stato - mafia" chiamando in causa l’attuale vice presidente del Consiglio superiore della magistratura Nicola Mancino per un incontro avuto con il giudice. Incontro però smentito categoricamente da Mancino.
La procura della Repubblica di Caltanissetta indaga sul probabile coinvolgimento di apparati deviati dei servizi segreti nella strage di via d’Amelio in cui morì il procuratore aggiunto Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta. La notizia è stata confermata all’Ansa da ambienti qualificati.
Il procuratore aggiunto, Renato Di Natale, coordina l’inchiesta sui mandanti occulti della strage avvenuta il 19 luglio 1992. Secondo l’ipotesi degli inquirenti ci potrebbe essere la mano di qualcuno degli apparati deviati dei servizi segreti che ha forse avuto un ruolo nell’attentato.
Questa pista di indagine, che in un primo momento era stata accantonata ed archiviata, è stata ripresa nei mesi scorsi dagli investigatori in seguito a nuovi input d’indagine. I magistrati stanno valutando una serie di documenti acquisiti dalla procura di Palermo e che riguardano il telecomando che potrebbe essere stato utilizzato dagli attentatori. A questo apparecchio è collegato un imprenditore palermitano. I processi che si sono svolti in passato hanno solo condannato gli esecutori materiali della strage, ma nulla si sa sui mandanti
Un altro elemento sul quale è puntata l’attenzione degli inquirenti, è «la presenza anomala» di un agente di polizia in via d’Amelio subito dopo l’esplosione. Si tratta di un poliziotto - già identificato dai magistrati - che prima della strage era in servizio a Palermo, ma venne trasferito a Firenze alcuni mesi prima di luglio dopo che i colleghi avevano scoperto da una intercettazione che aveva riferito «all’esterno» i nomi dei poliziotti di una squadra investigativa che indagava a San Lorenzo su un traffico di droga.
* l’Unità, Pubblicato il: 17.07.07, Modificato il: 17.07.07 alle ore 19.11
L’ufficio requirente di Caltanissetta riapre l’inchiesta sulla strage del 19 luglio 1992
Secondo gli inquirenti apparati deviati del settore informativo avrebbero avuto un ruolo nell’attentato
Borsellino, per la strage di via D’Amelio
la procura indaga sui servizi segreti *
ROMA - La procura della Repubblica di Caltanissetta indaga sul probabile coinvolgimento di apparati deviati dei servizi segreti nella strage di via d’Amelio in cui morì il procuratore aggiunto Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta. La notizia è stata confermata all’agenzia di stampa ANSA da ambienti qualificati.
Il procuratore aggiunto, Renato Di Natale, coordina l’inchiesta sui mandanti occulti della strage avvenuta il 19 luglio 1992. Secondo l’ipotesi degli inquirenti ci potrebbe essere la mano di qualcuno degli apparati deviati dei servizi segreti che ha forse avuto un ruolo nell’attentato.
Questa pista di indagine, che in un primo momento era stata accantonata ed archiviata, è stata ripresa nei mesi scorsi dagli investigatori in seguito a nuovi input d’indagine.
I magistrati stanno valutando una serie di documenti acquisiti dalla procura di Palermo e che riguardano il telecomando che potrebbe essere stato utilizzato dagli attentatori. A questo apparecchio è collegato un imprenditore palermitano. I processi che si sono svolti in passato hanno solo condannato gli esecutori materiali della strage, ma nulla si è mai saputo su chi ha premuto il pulsante che ha fatto saltare in aria Borsellino e gli agenti di scorta.
Un altro elemento sul quale è puntata l’attenzione degli inquirenti, è "la presenza anomala" di un agente di polizia in via d’Amelio subito dopo l’esplosione. Si tratta di un poliziotto - già identificato dai magistrati - che prima della strage era in servizio a Palermo, ma venne trasferito a Firenze alcuni mesi prima di luglio dopo che i colleghi avevano scoperto da una intercettazione che aveva riferito "all’esterno" i nomi dei poliziotti di una squadra investigativa che indagava a San Lorenzo su un traffico di droga.
* la Repubblica, 17 luglio 2007
IN 15 MILA A PALERMO PER FALCONE E BORSELLINO *
PALERMO - Ci sono volti buoni sulla terra che ha conosciuto la barbarie, sguardi limpidi nelle strade di una città che ha combattuto una lunga guerra. Sono i bambini venuti a piantare il futuro dove era stata sepolta la speranza, un esercito colorato che ha invaso Palermo nel giorno del quindicesimo anniversario dell’eccidio di Capaci. Gerbere gialle strette tra le mani, indosso la maglietta con l’immagine di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino vicini, sorridenti, oltre 15 mila studenti di tutta Italia hanno celebrato la "giornata della memoria".
Scatenati in canti e balli ma anche impegnati in un acceso dibattito con alte cariche dello Stato - il presidente del Senato Franco Marini, i ministri dell’Interno e della Pubblica Istruzione Giuliano Amato e Giuseppe Fioroni - sono stati loro i veri protagonisti della giornata, mentre dalla banchina del porto di Palermo, dove è attraccata la nave della legalità che da Civitavecchia ha portato in Sicilia le scolaresche, all’aula bunker dell’Ucciardone risuonavano le note di ’Pensa’, il rap antimafia.
L’hanno cantato tutti insieme prima del dibattito nell’aula bunker, l’hanno gridato con l’autore, il cantante Fabrizio Moro, arrivato a Palermo per partecipare alle manifestazioni organizzate dalla Fondazione Falcone e dal ministero della Pubblica Istruzione, per la prima volta coinvolto nella fase organizzativa delle celebrazioni. La lezione di legalità, tenuta dove nel 1986 si celebrò il primo maxi processo alle cosche, è cominciata con la lettura del saluto inviato ai ragazzi dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che si è detto "convinto che la lotta alla mafia e l’appello a una cultura della legalità abbiano bisogno di un grande movimento di popolo, della mobilitazione della cultura e della scuola".
Sullo scranno dei giudici sono seduti il procuratore di Palermo Francesco Messineo, che definisce "eroi e non solo vittime" Falcone e Borsellino, Amato, Fioroni, Marini, il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso e Maria Falcone, sorella del magistrato assassinato. Tutto intorno striscioni e disegni che invitano ’a non dimenticare’. Un invito ripetuto da Grasso. "Paolo e Giovanni ci hanno lasciato un testamento morale di rigore ed equilibrio che non dobbiamo disperdere: vivranno per sempre nei nostri cuori e saranno ricordati ogni anno da chiunque entri in questa aula".
Oltre al dovere della memoria è stata l’importanza della scuola nella formazione dei giovani l’altro tema ricorrente negli interventi dei relatori. Il ministro Fioroni sottolinea l’esigenza di "dare agli studenti una società nella quale siano stati abbattuti i monopoli e i privilegi, affinché possano farsi spazio nella vita per i loro meriti e per quello che hanno imparato"; Amato, protagonista di un vivace scambio di idee con uno studente, indica tra i doveri dello Stato quello di dare ai ragazzi una preparazione scolastica all’altezza delle sfide del futuro.
Ai giovani, vittime di un precariato che "sempre più spesso va oltre i limiti della fisiologia", si rivolge Marini che definisce la mafia in contrasto con i valori repubblicani e invita gli studenti ad amare le istituzioni. Alle 17:58, ora della strage, un agente della polizia suona il Silenzio; vengono ricordati i nomi delle vittime dell’eccidio: Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Rocco Di Cillo, Vito Schifani e Antonio Montinaro, gli agenti della scorta morti nella strage. Poi i "ragazzi dell’antimafia" tornano sulla nave della legalità; negli occhi hanno ancora le immagini di una giornata indimenticabile e di una terra che "un giorno - come profetizzò Paolo Borsellino - diventerà bellissima...".
* ANSA» 2007-05-23 22:38
Capaci, come scoprimmo la verità
di Gian Carlo Caselli *
Non è facile - a quindici anni dalla strage di Capaci - evitare la retorica nel doveroso ricordo di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.
Provo a farlo in due modi. Innanzitutto rievocando un episodio di importanza davvero straordinaria nella mia esperienza palermitana. Avevo deciso, dopo le stragi del ’92, di trasferirmi da Torino a Palermo, per provare a raccogliere la pesante eredità di Falcone e Borsellino (consapevole dei miei limiti, ma anche del decisivo aiuto di tanti generosi colleghi).
La ritrovata unità della Procura ci consentì - operando in simbiosi con le forze di polizia - di catturare un numero imponente di latitanti di grosso calibro. Fra questi Santino Di Matteo, mafioso di Altofonte, che appena arrestato chiese di poter parlare personalmente con me.
Ci andai: mi squadrò, negò persino di avermi mai chiamato e rimase zitto. Qualche settimana dopo chiese di nuovo di incontrarmi. Ci tornai: questa volta accennò a problemi che aveva avuto in carcere. Disposi le verifiche necessarie e poi fu scena muta. La classica situazione che Andrea Camilleri avrebbe chiosato con la formula «Nuttata persa» (con quel che segue). Mi ripromisi che se anche mi avesse ancora chiamato non ci sarei più andato. Temevo infatti che volesse studiare i miei movimenti, magari per farmi «intercettare» da qualche mafioso ancora in libertà.
Ma ovviamente - quando per la terza volta mi fece sapere che voleva essere sentito proprio da me - tornai da lui. Per una serie di ragioni, riuscii ad arrivare nell’ufficio della DIA di Roma, dove nel frattempo era stato portato, solo verso le due di notte del 23 ottobre 1993. Cominciò così (per concludersi intorno alle sei del mattino) un interrogatorio destinato ad assumere un posto centrale nella storia della lotta alla mafia.
Con mia grande sorpresa, infatti, Santino Di Matteo volle prima di tutto parlare della strage di Capaci, alla quale (nessuno lo sapeva) confessò di aver materialmente partecipato. Dell’organizzazione ed esecuzione del feroce attentato, del chilometro e mezzo di autostrada polverizzato con l’esplosivo, fece un racconto dettagliatissimo, elencando uno dopo l’altro tutti i responsabili e precisando per ciascuno il ruolo svolto. Enorme ( si può ben comprendere) fu la soddisfazione mia e degli uomini della DIA che erano in quel momento con me: eravamo i primi - io come magistrato, loro come funzionari di polizia - a conoscere e scoprire la verità di Capaci. I mafiosi «corleonesi» che avevano ideato e attuato lo spietato attacco frontale al cuore dello Stato avevano per la prima volta, con attribuzione certa a ciascuno di precise responsabilità, nomi e cognomi. Una grande vittoria dello Stato. Giustizia, per Giovanni Falcone ed i suoi compagni di sventura. Per «Cosa nostra» una sconfitta bruciante, l’avvio di una rovinosa catena di «pentimenti». Una slavina che la bestialità mafiosa cercherà di fermare con una rappresaglia (di vero stampo nazista) sul figlio tredicenne di Santino Di Matteo, Giuseppe: sequestrato, tenuto prigioniero per diciotto mesi, maltrattato e torturato, alla fine ucciso (strozzato a mani nude) e sciolto nell’acido. E tutto questo «soltanto» perché figlio di suo padre, essendo questi il primo «pentito» che aveva osato infrangere l’omertà che avrebbe dovuto proteggere per sempre i segreti di Capaci.
L’altro modo per ricordare Falcone mi è offerto da un libro del 1999 ristampato proprio in questi giorni, intitolato La mafia ha vinto. Un libro di Saverio Lodato (esperto come pochi altri di storie di mafia) che contiene il resoconto di numerosi colloqui con Tommaso Buscetta, il «pentito» che aveva consentito a Giovanni Falcone di mettere «Cosa nostra» in ginocchio. Rileggere questo libro è importante (come spiega Luigi Li Gotti, storico legale di Buscetta) perché «non è come scorrere le pagine ingiallite di una storia passata, ma, mutando i nomi e i volti, sapere oggi ciò che potrebbero scrivere i cronisti di domani».
Prezioso, poi, è il cristallo di un ritratto di Falcone, ricco di sfumature e notazioni intelligenti, che nel crogiolo ancora oggi ribollente del racconto di Buscetta viene via via formandosi. Si snoda una serie di ricordi che alla fine scolpiscono - con grande forza rappresentativa - quella «battaglia comune» che «l’accoppiata Falcone-Buscetta» condusse efficacemente per anni, e che avrebbe potuto segnare il definitivo affossamento di «Cosa nostra» se l’opera di Falcone non fosse stata brutalmente interrotta, prima ancora che si scatenasse la violenza stragista dei mafiosi, dalle calunnie che gli furono scagliate addosso negli anni 80.
Aveva scritto, Falcone, che «una delle cause principali, se non la principale, dello strapotere della mafia risiede negli inquietanti suoi rapporti col mondo della politica e con centri di potere extra-istituzionale». Sospettava persino che dietro la «perdurante inerzia nell’affrontare i problemi del pentitismo» si nascondesse la voglia di non «far luce sui troppo inquietanti misteri di matrice politico-mafiosa per evitare di rimanervi coinvolti».
Anche Buscetta (osserva Lodato nella nota introduttiva alla nuova edizione del libro) aveva intuito che «la mafia sarebbe sempre esistita sino a quando lo Stato, le istituzioni, l’intera società italiana, non avessero affrontato radicalmente, e con lo scopo di reciderlo, il nesso di quest’organizzazione criminale con la politica, quanto meno con alcune cospicue parti di essa».
La morte di Falcone diede a Buscetta la forza ed il coraggio per rivelare anche all’autorità giudiziaria italiana (già prima lo aveva fatto coi magistrati Usa) fatti sconvolgenti in tema di rapporti fra mafia e politica. E allora si capisce perché sia sempre di moda il tentativo di demolire come «teoremi» le sue lucide rivelazioni.
Il nesso mafia-politica è troppo ingombrante. Meglio non vedere. Senza negarsi un tocco di ipocrisia, accusando di nefandezze assortite coloro che vogliono combattere la mafia anche sul terreno delle complicità illustri.
* l’Unità, Pubblicato il: 22.05.07, Modificato il: 22.05.07 alle ore 8.42
Caro Falcone, come fummo ingenui
di Giuseppe Ayala *
È difficile credere quanto di frequente mi capiti di pensare a Falcone. Non c’è niente da fare, mi manca. L’approssimarsi del 23 maggio mi espone, poi, ogni anno a tutta una serie di sollecitazioni che ancora di più marcano la sua assenza. Con il passare degli anni, oggi siamo a quindici, mi sono, così, accorto di un fenomeno che non mi aspettavo. A proposito di Falcone (ma anche di Paolo Borsellino) la memoria e i ricordi affiorano nella mia mente in modo diverso.
La memoria è un monolite. Imponente e definito. È l’eredità che il loro sacrificio ci ha lasciato.
I ricordi sono un’altra cosa. Sono personali. Riaffiorano puntuali, ma non sono sempre gli stessi. Prevalgono sempre di più quelli legati ai sentimenti, alle fragilità, alle delusioni. Alla incredibile tenerezza dell’uomo Falcone. Il fratello maggiore che un figlio unico si è trovato accanto per dieci, irripetibili anni.
Sarà, penso, questa la ragione per cui mi soffermo sempre più spesso a riflettere sulla solitudine che, a parte Francesca, fu la sua compagna più fedele e presente. Una solitudine pesante, non solo perché certamente non voluta, ma soprattutto perché sommamente ingiusta e immeritata. E, proprio per questo, assai difficile da sopportare. Ne posso dare testimonianza perché ne ho condiviso lunghi tratti.
I lettori la coglieranno nel prezioso libro di Giommaria Monti, che l’Unità si accinge a riproporre, il quale, non a caso, l’ha scelta come filo conduttore del suo racconto. Una solitudine determinata da un progressivo isolamento. Voluto certamente anche da chi era animato soltanto da pulsioni meschine, come l’invidia, la frustrazione e la gelosia per la sua inarrestabile crescita di notorietà (oggi si direbbe visibilità) e, quindi, anche di peso che finì con il renderlo un corpo estraneo in seno ad una corporazione che, infatti, al momento opportuno reagì. Era quella dei magistrati, concentrata nel garantire a tutti i colleghi certezze a prescindere dai meriti. Si avanzava in carriera a due condizioni: invecchiare e non demeritare. Una concezione davvero strana della meritocrazia. Ecco perché era scomodo.
Ma lo era anche su un altro fronte. Quello del potere tra virgolette che, salve le dovute eccezioni, mal sopportava un’azione giudiziaria che rischiava di scardinare consolidati equilibri elettorali, clientelari e affaristici. Un’azione, insomma, cinicamente ritenuta, un rischio che era assi pericoloso correre persino da parte di chi con la mafia aveva ben poco a che fare ma che di quel sistema campava. Burattini, certo, ma nelle mani dei «pupari» garanti degli interessi mafiosi ospiti del «Palazzo».
Si saldò, così, non un complotto, ma una convergenza di comportamenti e prese di posizione che di fatto lo isolò progressivamente. Nella quale finirono, ad un certo punto, per intrupparsi anche quelli che si accreditavano come schierati dalla sua parte, ma che pretendevano di più. I più sciocchi, certo, ma non per questo i meno dannosi. E, umanamente, tra i più spregevoli.
Non v’è dubbio, insomma, che «il più capace e famoso magistrato italiano fu oggetto di torbidi giochi di potere, di strumentalizzazioni ad opera della partitocrazia, di meschini sentimenti di invidia e di gelosia (anche all’interno delle stesse istituzioni)». Non si tratta dell’opinione di un amico. Si tratta di una sentenza della Corte di Cassazione del 2004, anch’essa riportata da Monti nel suo libro. Leggere per credere. Il guaio fu che, naturalmente al di là delle singole volontà (tutte?), accadde esattamente quello che Giovanni aveva teorizzato nel suo colloquio con Marcelle Padovani. Queste le sue testuali parole: «Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno».
Sono sicuro. In quel momento Falcone stava parlando di Falcone. E, come al solito, aveva capito tutto. Il gioco era diventato davvero troppo grande. E noi troppo ingenui. Il nostro era stato uno schema che ci sembrava talmente ovvio che lo davamo per scontato. Siamo la punta avanzata delle Istituzioni su uno dei fronti più decisivi per la crescita e la tenuta democratica del Paese. Facciamo bene il nostro lavoro. Portiamo a casa risultati sin’ora mai ottenuti. Lo Stato può vincere. La mafia può essere battuta. Potranno mai lasciarci soli? Ma figurati! E invece... Ma sì, ha proprio ragione il buon Mario Pirani: Falcone come l’Aureliano Buendia di Cento anni di solitudine che dette trentadue battaglie, e le perse tutte.
Giommaria Monti ha con intelligenza selezionato i documenti e le testimonianze più significative. Ne viene fuori anche un autentico campionario degno del più celebre titolo di Victor Hugo, I miserabili. Ha ricostruito un percorso. Inesorabile e drammatico. Ma anche utile, perchè risveglia un sentimento di cui, anche oggi, si sente un gran bisogno: l’indignazione. Che non è sterile se ci sollecita ad essere esigenti e a pretendere, per esempio, che non si ripeta più neanche la «disattenzione» di cui parla nella prefazione Luciano Violante. Su quella disattenzione, sorprendente eufemismo che rischia di ammantare ben altro, avrei molto da dire... non oggi. Intanto, come ho sempre fatto, alla «disattenzione» io continuerò a contrapporre ostinatamente la mia inguaribile indignazione. E la mia infinita tristezza.
* l’Unità, Pubblicato il: 20.05.07, Modificato il: 20.05.07 alle ore 14.15
Rita Borsellino: «I mandanti dell’omicidio di Paolo ancora nell’ombra» Saverio Lodato*
E siamo a 14 anni dalla strage di via D’Amelio. Il grande boato, la grande vampata, e nomi rimasti scolpiti sulle lapidi: Paolo Borsellino, Emanuela Loi , Walter Cusina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina, Agostino Catalano. E siamo ancora a parlarne, perché la mafia è tutt’altro che sconfitta, si è avvinghiata alla politica; i mandanti nell’ombra agirono e nell’ombra sono rimasti, qualcuno non volle la vigilanza sotto l’abitazione della madre del giudice così che potessero assassinarlo più agevolmente, ma non si è mai saputo chi - e dire che erano passati appena cinquantasei giorni dall’uccisione di Giovanni Falcone - ; processi stralcio ce ne sono ancora in giro per la Sicilia, e la verità un giorno (forse) da qualche parte salterà fuori. Paolo Borsellino sacrificò la vita per insegnarci qualcosa. Ma cosa? Certamente non la convivenza che stava a cuore al governo Berlusconi. Certamente non la caccia ai voti dei mafiosi. Certamente non il riciclaggio dei capitali sporchi. E Borsellino fece parte di un pool, quello di Falcone, quello di Caponnetto, che l’intransigenza giudiziaria inflitta a Cosa Nostra l’aveva fatta diventare il suo valore principale. Rita Borsellino, per tredici anni, l’anniversario lo aveva ricordato parlando del fratello per 365 giorni all’anno, in giro per l’Italia. Adesso che è scesa anche in politica è diventata il simbolo dell’Altra Sicilia, che però è ancora minoranza. Ma tutto quello che di negativo, sul piano politico e culturale, esprime il cuffarismo, oggi, soprattutto grazie a lei, ha vita assai più complicata.
Rita che c’è ancora da dire sul sacrificio di suo fratello? «Non si dirà mai abbastanza sul sacrificio di mio fratello. Troppo spesso sono stati detti luoghi comuni e frasi vuote, perché troppo spesso alle parole non sono seguiti i fatti. E allora bisognerà dire di più, ma fare anche in modo che non restino solo parole».
Che idea si è fatta di quella strage? «L’idea che mi feci quel giorno è rimasta la stessa in questi anni: non si trattò solo di mafia ma anche di altri interessi che, con quelli della mafia, si erano trovati a coincidere. Che a pochi giorni dalla strage di Capaci, e con le reazioni che c’erano state in tutt’Italia, la mafia tornasse a colpire così in alto, e rischiando così tanto, mi sembrò impossibile».
Ci sono ancora colpevoli che andrebbero stanati? «Certamente sì. Lo stesso gruppo di fuoco non è stato ancora del tutto individuato e non si sa ancora da dove e da chi venne azionato il telecomando. Ma soprattutto i cosiddetti "mandanti esterni" sono stati ipotizzati in tutti i processi, ma mai scoperti».
Per lei la verità può essere solo la verità giudiziaria? «Oltre a esserci la verità giudiziaria, che però in questo caso non è neanche completa, ci sono altre verità che magari non sono configurabili come reati, ma che sicuramente crearono quel clima che rese possibile la strage».
Questa mafia di oggi che non spara più è diventata più debole o solo meno rozza e meno feroce? «Non è affatto una mafia più debole. Anzi. Proprio perché ha smesso di sparare, è riuscita a farsi dimenticare, ha potuto riorganizzarsi e inserirsi ancora più profondamente nei gangli vitali della politica e della economia. Lo dimostrano le ultime inchieste che hanno colpito personaggi e strati sociali non identificabili con gli ambienti mafiosi. Ormai è dimostrato che Cosa Nostra ha suoi uomini direttamente inseriti nel mondo della politica, delle professioni e delle istituzioni».
Quella che nasce in questi giorni sarà l’ottava commissione antimafia. Sarà l’ultima? «Auspicare che sia l’ultima significherebbe affermare che di questo organismo parlamentare non c’è più bisogno. Francamente credo che sia un’utopia, intanto perché la mafia ancora oggi è radicata e presente. Ma se anche in questa legislatura si riuscisse a sconfiggere definitivamente la mafia, non si potrebbe in ogni caso abbassare la guardia e occuparsi di altro, perché le recidive sarebbero possibili ancora per molti anni».
Il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ha definito il sacrificio di suo fratello un "monito". «Il gesto del presidente è bello, e significativo di un’attenzione ancora viva: sono parole che sottolineano come il sacrifico di Paolo possa e debba ancora essere attuale».
Ma torniamo alla nostra Sicilia. Quando ci libereremo del cuffarismo? «Infatti. Il problema non è solo quello delle persone. In ogni caso questo sarebbe l’ultimo mandato di Cuffaro, se nel frattempo non dovessero intervenire fatti nuovi. Ma il problema vero è quello di un sistema che ha fatto della politica un miscuglio di clientele e favori, perdendo di vista l’idea della politica come servizio. La durata di tutto questo dipenderà solo dalla presa di coscienza di tanta parte di una società che ha perso di vista il suo ruolo, il suo diritto alla scelta».
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* www.unita.it, Pubblicato il 20.07.06
L’INCHIESTA.
Tornano in Sicilia i figli dei boss scappati negli Usa per sfuggire ai Corleonesi. E si riprendono il potere perduto
La riscoperta dell’America
nuovo fronte di Cosa Nostra
di ATTILIO BOLZONI e GIUSEPPE D’AVANZO *
PALERMO - Chi è Frank Calì, e perché tutti lo cercano? Quel nome - il nome di un siculo-americano - ritorna ossessivamente nelle "parlate" degli uomini di Cosa Nostra. Lo fanno a Palermo, lo ripetono nel New Jersey, lo bisbigliano a Corleone. Di Frank sentiremo ancora parlare, giurateci. Eppure, al Dipartimento di Giustizia, Calì non appare mai nei report sulle cinque "grandi famiglie" di New York, i Gambino, i Bonanno, i Lucchese, i Genovese e i Colombo. Soltanto poche, quasi distratte, righe in un dossier dell’Fbi. Più o meno un "signor nessuno" che deve avere però un potere invisibile o ancora sconosciuto, se negli ultimi tre anni per lo meno una mezza dozzina di "delegazioni" di mafiosi siciliani lo hanno raggiunto dall’altra parte dell’Oceano per discutere di "affari". Ma di quali affari? E, soprattutto, di quale portata e per quali progetti?
Questa è la storia, o meglio il primo paragrafo di una storia che soltanto il tempo potrà scrivere. Vi si rintracciano indizi di un prepotente risveglio di Cosa Nostra dopo un muto decennio di ibernazione. La mafia sembra volersi liberare dall’arcaicità violenta dei Corleonesi per ritrovare dalla Sicilia - come in un passato glorioso - ruolo e protagonismo sulla scena internazionale. Nelle loro casseforti ci vogliono mettere soldi, molti soldi. Non vogliono più cadaveri per le strade o "picciotti" nelle galere. A che cosa sono serviti il sangue, le bombe contro lo Stato, gli ergastoli che hanno umiliato le famiglie? A niente. Ecco perché adesso tutti cercano Frank Calì.
Del "signor nessuno" si può dire subito - per quel pochissimo che se ne sa - che è un uomo di rispetto della Famiglia Gambino designato per trattare, con i Siciliani, la nuova avventura. Se sono buone le intuizioni degli investigatori, i mafiosi vogliono ritornare ad essere brokers nel mercato illegale/legale mondiale. Frank Calì serve a tutto questo. È "l’ambasciatore" americano.
Frank Calì ufficialmente è un imprenditore della Italian Food Distribution a New York. Da almeno tre anni, gli agenti dell’Fbi lo vedono intrattenersi con vecchi trafficanti della "Pizza Connection".
E con giovani rampolli delle Famiglie palermitane, nati però negli Stati Uniti. E con gli emissari di Bernardo Provenzano e Totò Riina, i Corleonesi. Un’agenda di incontri che mette insieme amici e nemici di antiche guerre e di mai dimenticati stermini, tutti a far la fila da Frank Calì. L’elenco è lungo. Da lui vanno in più occasioni Nicola Mandalà e Nicola Notaro della Famiglia di Villabate, Gianni Nicchi della Famiglia di Pagliarelli, Vincenzo Brusca della Famiglia di Torretta. Ma forse la traccia più rilevante per capire che cosa sta accadendo è nelle triangolazioni telefoniche tra le utenze di Calì e i cellulari degli uomini di Salvatore Lo Piccolo, ricercato da 27 anni, oggi al primo posto della lista dei latitanti dopo la cattura di Bernardo Provenzano.
Il suo "scacchiere diplomatico" non è stretto alla Sicilia. Un rapporto congiunto dell’Fbi e della Royal Canadian Mounted Police svela "i legami tra Frank Calì, Pietro Inzerillo e i membri del cartello criminale "Siderno" della ’ndrangheta". Alla sua corte ci sono proprio tutti, dunque. È la circostanza che spinge Fbi e Polizia criminale italiana a lavorare insieme, a scambiarsi informazioni e analisi come negli Anni Ottanta, quando Giovanni Falcone faceva squadra con il procuratore distrettuale Rudolph Giuliani. Si preparano a fronteggiare il nuovo piano di Cosa Nostra: la riscoperta dell’America. Con inaspettati protagonisti. Con nomi che, soltanto fino a qualche anno fa, a Palermo non si potevano nemmeno pronunciare.
***
Sono tornati gli Inzerillo. Erano stati massacrati dall’aprile del 1981 all’ottobre del 1983 dai Corleonesi. "Di questi qua - disse Totò Riina - non deve rimanere sulla faccia della terra nemmeno il seme". Morì Totuccio, il rispettato capo di Passo Rigano, e poi morì suo figlio Giuseppe. Morirono in ventuno. Fratelli e zii e nipoti e cugini. Molti scomparvero afferrati dalla "lupara bianca", un impero di 27 società di riciclaggio rimase senza padroni. La scia di sangue si interruppe soltanto con l’intercessione dei parenti di Cherry Hill. Uomini potenti. Allora i più potenti d’America come Charles Gambino. Trattarono una resa senza onore. La Commissione siciliana pretese che gli Inzerillo avrebbero avuta salva la vita a condizione che non tornassero più nell’Isola. Mai più. E’ la regola che dettò la Cosa Nostra di Totò Riina. Allora fu nominato, e lo è ancora oggi, un "responsabile" del rispetto di quel patto. Si chiama Saruzzo Naimo. Ma le regole, in Cosa Nostra, esistono per essere violate e interpretate per gli amici e applicate per i nemici. Così alla spicciolata gli Inzerillo sono rientrati a Palermo. Abitano tutti nella loro borgata di nascita, a Passo di Rigano.
E’ tornato Francesco Inzerillo, figlio di quel Pietro che l’Fbi e la polizia canadese "vedono" sempre con Frank Calì. E poi Tommaso Inzerillo, cugino di Totuccio e cognato di John Gambino, il figlio del vecchio Charles. E un altro Francesco, fratello di Totuccio. Espulso come "indesiderato" dagli Stati Uniti è tornato Rosario, un altro fratello di Totuccio. E’ rientrato Giuseppe, figlio di Santo, ucciso e dissolto nell’acido solforico. Soprattutto è tornato l’unico figlio ancora vivo di Totuccio, Giovanni, nato a New York nel 1972, cittadino americano. A lui è toccato riaprire dopo venticinque anni la casa di via Castellana 346. Insieme a loro, sono riapparsi in città gli Spatola dell’Uditore, i Di Maggio di Torretta, i Bosco, i Di Maio, qualche Gambino. Insomma, quell’aristocrazia mafiosa che i contadini di Corleone avevano spazzato via con "tragedie", tradimenti, agguati. A Palermo gli Inzerillo hanno ricostituito la loro Famiglia. Con quale "autorizzazione"? Con quali appoggi? Con quali garanzie e impegni?
Se la questione è un enigma per gli investigatori, impensierisce ancora di più alcuni alleati palermitani dei Corleonesi che erano stati in prima fila, nella strage degli Inzerillo. La preoccupazione diventa apprensione quando, nei viaggi in America, scoprono che accanto a Frank Calì c’è sempre un Inzerillo. A New York come a Palermo, per uscire dall’isolamento e pensare finalmente alla grande, bisogna fare necessariamente i conti con "quelli là" e le loro influenti parentele d’Oltreoceano.
***
Nelle ultime intercettazioni ambientali - una vera miniera di inaspettate informazioni - "il discorso dell’America" è un tormentone tra i mafiosi. Riserva un punto di vista inedito su Cosa Nostra. Liquida ogni lettura convenzionale. Cosa Nostra non è il quieto monolite governato con i "pizzini" dalla furbizia contadina del vecchio Provenzano né è attraversata, come pure si è sostenuto, da una frattura territoriale e culturale. Da un lato, i contadini e i paesi di campagna. Dall’altra, i cittadini, la grande città, le borgate. E’ invece un mondo smarrito e, al tempo stesso, eccitato dalle nuove opportunità. Ora, come per un riflesso condizionato, tentato di mettere mano alla pistola per eliminare ogni irritante contraddizione; ora convinto di dover cercare, senza sparare un colpo, compromessi per far valere la sola ragione che tutti può entusiasmare: fare i piccioli. Fare i soldi. Gli esiti della contesa sono del tutto imprevedibili. Nei prossimi mesi, la guerra ha la stessa possibilità di scoppiare quanto la pace. Chi lavora, con ostinazione paranoide, a una nuova contrapposizione si chiama Antonino Rotolo. E’ il capomandamento di Pagliarelli. Basta ascoltare quali erano i suoi argomenti qualche giorno prima di finire in galera.
"Questi Inzerillo - dice Rotolo ai suoi - erano bambini e poi sono cresciuti, questi ora hanno trent’anni. Come possiamo, noi, stare sereni... Se ne devono andare. E poi uno, e poi l’altro e poi l’altro ancora... Devono starsene in America. Si devono rivolgere a Saruzzo (Naimo) e se vengono in Italia li ammazziamo tutti. Come possiamo stare, noi, sereni quando io per esempio - l’ho detto e lo ripeto - so di un tizio che dice a uno dei figli di Inzerillo: "Non ti preoccupare tempo e buon tempo non dura sempre un tempo"... Noialtri non è che possiamo dormire a sonno pieno perché nel momento che noi ci addormentiamo a sonno pieno, può essere pure che non ci risvegliamo più. Alzando la testa questi, le prime revolverate sono per noi. Vero è... Picciotti, non è finito niente. Gli Inzerillo, i morti, li hanno sempre davanti. Ci sono sempre le ricorrenze. Si siedono a tavola e manca questo e manca quello. Queste cose non le possiamo scordare. Questi se ne devono andare, punto e basta, non c’è Dio che li può aiutare... Ce ne dobbiamo liberare e così ci leviamo il pensiero... Per il bene di tutti, noi questo dobbiamo fare. L’avete capito o no che quello, Lo Piccolo, li utilizza già gli Inzerillo? Questa storia non finisce, non finirà mai...". Antonino Rotolo affronta con Alessandro Mannino, nipote prediletto di Totuccio Inzerillo, "il discorso dell’America". Senza giri di parole, in modo brusco.
Gli dice: "Tu sei il nipote di Totuccio Inzerillo il quale, con altri, senza ragione alcuna sono venuti a cercarci per ammazzarci, ma a loro nessuno gli aveva fatto niente. Ci hanno cercato e ci hanno trovato. Peggio per loro. Non siamo stati noi a cercarli. Così si è creata questa situazione di lutti e di carceri. La responsabilità è di tuo zio e compagni, se ci sono morti e se ci sono carcerati. Quindi io ti dico che non c’è differenza tra voi, che avete i morti, e le famiglie che hanno la gente in galera per sempre, perché sono morti vivi. Quindi, i tuoi parenti devono rimanere all’America, devono rimanere sempre reperibili. Ai tuoi parenti garanzie non ne può dare nessuno. I tuoi parenti se ne devono andare e ci devono fare solo sapere dove vanno perché noi li dobbiamo tenere sempre sotto controllo".
***
Anche Antonino Rotolo ha spedito a New York il suo fidato "messaggero", Gianni Nicchi, giovane e "sperto". Al rientro dalla missione, si fa raccontare e quel che ascolta non gli piace. Rotolo, se sono sincere le sue parole, non si fida delle promesse di Frank Calì. Crede che siano soltanto "chiacchiere" per restituire Palermo agli Inzerillo. I suoi sospetti lo isolano dentro Cosa Nostra. Salvatore Lo Piccolo - il suo competitore nelle borgate - ha già chiuso l’accordo con gli Americani. L’ago della bilancia è Provenzano. Però anche a Provenzano fa gola riallacciare i rapporti con i suoi antichi nemici e ritrovarseli dopo un quarto di secolo al suo fianco. Negli ultimi mesi della sua latitanza, finita l’11 aprile del 2006, mette in moto tutta la sua sapienza ambigua. In un rosario di "pizzini" inviati ai suoi, finge di non sapere che gli Inzerillo sono già tutti a Palermo. Minimizza la rilevanza di quel ritorno. Quando gli capita, consiglia di accoglierli "se vogliono passare il Natale con i loro parenti" o se devono scontare scampoli di pena in Italia, una volta espulsi dagli Stati Uniti. E’ l’abituale inganno "corleonese". In realtà, il lavorio di mediazione con gli Americani è l’ultima grande fatica del Padrino di Corleone.
Da due anni, "il vecchio" si adopera per il recupero totale alle fortune di Cosa Nostra degli Inzerillo, soprattutto dei loro legami con la mafia americana. Nicola Mandalà è l’uomo più fidato dell’inner circle di Bernardo Provenzano. Lo aiuta a farsi operare alla prostata in una clinica di Marsiglia. Fa due viaggi a New York per incontrare Frank Calì e Pietro Inzerillo. E’ possibile che Mandalà, generosamente finanziato con 40 mila dollari a trasferta, abbia fatto tutto questo senza un mandato di Provenzano? Un altro "contadino" di Corleone va in America. E’ quel Bernardo Riina che sarà poi arrestato come "ultimo anello" che conduce i poliziotti nel rifugio di Montagna dei Cavalli. Bernardo Riina costituisce una società a New York insieme a suo figlio nel gennaio del 2006. Appena cento giorni prima della cattura del suo Padrino. E’ il ponte lanciato dalla Sicilia all’America. E’ un capovolgimento di schemi e di logiche dove i Corleonesi - dati per spacciati dopo l’arresto dei suoi rappresentanti più famosi - non solo non stanno abbandonando i posti di comando di Cosa Nostra ma, al contrario, provano a penetrare un altro mondo: gli Stati Uniti. Il personaggio chiave è, dunque, il nostro misteriosissimo Frank Calì che distribuisce Italian Food su tutta la costa atlantica. Ancora più misteriose, al momento, sono le occasioni economiche e finanziarie che le due mafie prevedono di cogliere insieme. Tempo e buon tempo non dura sempre un tempo. Cosa Nostra si prepara alla sua nuova stagione.
* la Repubblica, 12 luglio 2007