LA LEGGE BEFFA
di Raniero La Valle
(Per il n. 10 di Rocca) *
CI fu, nel 1953, una legge che fu detta truffa, perché assegnava un piccolo premio di maggioranza alla coalizione di partiti che nelle elezioni politiche avesse raggiunto almeno il 50 per cento dei voti più uno. Si trattava di rafforzare una maggioranza assoluta già espressa dagli elettori nelle urne; e tuttavia, in tempi di proporzionale, quello fu ritenuto un sopruso, la soglia del 50 per cento non fu raggiunta da nessuno, e la legge perciò cadde nel vuoto.
Per la DC (e per l’Italia) fu una felice sconfitta: perché, venuta meno la blindatura di una maggioranza quadripartita di centro, la vita politica riprese vigore, e prima fu avviato il centro-sinistra, con cui furono guadagnati all’area di governo i socialisti, poi fu avviata la politica culminata nel “compromesso storico”, con cui alla governabilità democratica fu recuperato l’elettorato comunista; e in quei decenni l’Italia ebbe quello straordinario sviluppo civile, economico e sociale che la portò tra le maggiori nazioni dell’Occidente.
Oggi abbiamo in vigore una legge elettorale che dà una enorme maggioranza alla coalizione di liste che anche con una semplice maggioranza relativa, ben inferiore al 50 per cento, abbia ottenuto più voti; ed è questa la legge per cui oggi Berlusconi con i suoi parlamentari, assegnatigli d’ufficio (senza neanche preferenze), fa il bello e il cattivo tempo nel Parlamento e nel Paese. Questa legge, tanto peggiore di quella del 1953, fu detta e ancora è chiamata “porcellum”.
Ma la manipolazione elettorale non doveva finire qui. E’ stato infatti promosso dai patiti del bipolarismo, e si voterà il 21 giugno, un referendum che cancella l’ipotesi di un voto dato alla coalizione, suppone che ogni partito corra da solo e trasferisce il premio di maggioranza a quella singola lista che abbia avuto più voti di ciascuna delle altre. Lo scopo è di cancellare, nel Parlamento e nel Paese, tutti i partiti ad eccezione di due.
È del tutto evidente che il partito beneficiario di questa elargizione sarebbe quello di Berlusconi, che già ha riunito in un’unica schiera tutti i suoi alleati tranne la Lega; il Partito Democratico, da solo, non potrebbe mai aspirare a ottenere un tale risultato. Per Berlusconi sarebbe la certezza di un potere a tempo indeterminato. Lui stesso lo ha riconosciuto, dicendosene grato. Alla domanda se avrebbe votato “Sì” al referendum per la modifica della legge elettorale, ha detto: “Sì, certo, la risposta è ovvia. Il referendum dà un premio di maggioranza al partito più forte, e vi sembra che io possa votare no?” Non sono un masochista, ha spiegato, osservando, come per una cosa ovvia: “Puoi domandare all’avvantaggiato di votare no per un vantaggio che gli altri ti regalano e potrebbe essere confermato dal popolo?”. No, non glielo puoi domandare. Resta da capire perché gli si vuol fare questo regalo, che certo egli non merita, il regalo più grande e decisivo dopo quello delle frequenze televisive tolte a suo tempo al servizio pubblico.
Ma a questo punto alla truffa subentra la beffa. Perché sul voto del 21 giugno è partita sulla stampa una mistificazione colossale. Giocando sul fatto che il referendum è abrogativo, si dice infatti che con il “Sì” verrebbe abrogata la legge “porcellum”, mentre è chiaro che ne verrebbe soppressa solo una norma, col risultato di fornire alla legge nel suo complesso l’avallo del voto popolare, rendendola nel contempo ancora più indecente. Ma non basta: il Partito Democratico, che da questo risultato sarebbe travolto, ha annunciato che voterà a favore; e nella meraviglia generale ha spiegato che con la vittoria del “Sì” la legge diverrebbe così brutta, che a quel punto sarebbe giocoforza modificarla in Parlamento. Il ragionamento è pretestuoso e di un politicismo della peggiore specie: pronunziarsi per una cosa per averne invece un’altra. Ai tempi della politica colta, questo si chiamava machiavellismo. Ma è un’illusione, perché è del tutto chiaro che ottenuto il regalo, gli “avvantaggiati” si guarderebbero bene dal rimetterlo in gioco, e oggi il Parlamento è loro. Come ha detto Bossi: “Se la sinistra vota Sì, Berlusconi vincerà per sempre”.
Quindi col referendum non sarebbe macellato nessun “porcellum”, mentre non si farebbe altro che portargli ghiande e altre leccornie per un pasto ancora più abbondante. E resterebbe la legge beffa: per la quale sarebbero beffati gli elettori, che voterebbero non più per una pluralità di liste e partiti ma per un partito unico; beffato il Partito Democratico, che con le sue mani si sarebbe procurato la propria rovina, e beffati gli italiani che avevano voluto costruire la democrazia e si troverebbero a votare, un’altra volta, per un regime.
Raniero La Valle
* Il Dialogo, Lunedì 04 Maggio,2009 Ore: 14:10
Sul tema, nel sito, si cfr.:
COSTITUZIONE, LINGUA E PAROLA.....
Ansa» 2009-06-22 17:00
REFERENDUM: PRIMI DATI, QUORUM NON RAGGIUNTO
ROMA - I referendum sulla legge elettorali non sono validi, non essendo stato raggiunto il quorum per nessuno dei tre quesiti proposti. La proiezione dei primi dati definitivi relativi all’affluenza alle urne consente di affermare che per nessuno dei tre quesiti ha votato il 50 per cento più uno degli elettori.
REFERENDUM: FINI, ESITO PREVEDIBILE, MA ORA TUTTI RIFLETTANO ’’L’esito di questo referendum, mi spiace dirlo perche’ ero fra i promotori, era abbastanza prevedibile’’. Cosi’ il presidente della Camera Gianfranco Fini, intervistato da Tv Parma, ha anticipato il suo giudizio sull’ esito della tornata referendaria. ’’Certamente il referendum ha il merito di accendere i fari del dibattito politico - ha proseguito Fini - Ma c’e’ da chiedersi perche’ il cittadino non creda piu’ a questo strumento referendario’’. ’’Io credo, in primo luogo, che questo avvenga perche’ i quesiti sono troppo tecnici e i cittadini non sempre li comprendono a pieno - ha spiegato il presidente della Camera - In secondo luogo, credo che rinunciare a partecipare sia sinonimo di una certa stanchezza nei confronti del dibattito politico, nei confronti del funzionamento della democrazia, e questo ci deve fare riflettere tutti’’.
CHITI: BENE MANCATO QUORUM, ORA AMPIA INTESA Il vicepresidente del Senato Vannino Chiti saluta come ’’una buona notizia’’ il mancato raggiungimento del quorum nei referendum elettorali e legge nel risultato la necessita’ di costruire un’ampia intesa in Parlamento per la riforma della legge elettorale. ’’E’ l’obiettivo per il quale ci siamo impegnati. I cittadini non hanno approvato ne’ la pessima legge elettorale - il cosiddetto porcellum - ne’ un suo peggioramento, attraverso l’estremizzazione dei suoi difetti. Il fallimento di questo referendum, che proponeva l’instaurazione di un bipartitismo coatto, consegna di nuovo al Parlamento il problema di un’ampia intesa per modificare la legge elettorale, rendendo definitive le regole contro la frammentazione e garantendo ai cittadini italiani la scelta delle maggioranze di governo e quella dei loro rappresentati nelle istituzioni’’. ’’Abbiamo bisogno - conclude Chiti - di una legge equilibrata, che assicuri, come e’ possibile, governabilita’ e rappresentanza’’
CASINI, FALLITO MISERAMENTE,E’ NO A BIPARTITISMO ’’Il referendum e’ fallito miseramente e ancora una volta abbiamo speso migliaia e migliaia di euro per un referendum inutile. Il bipartitismo e’ stato bocciato’’. Lo afferma il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini, commentando sul suo sito le prime notizie sulla mancanza del quorum per i tre quesiti elettorali. Casini si augura che ora ’’i promotori si mettano il cuore in pace’’ e che ’’non parlino di complotti perche’ gli italiani hanno l’intelligenza per capire che dare il 25% di voti ad un partito e consentirgli di prendersi il 55% dei seggi sarebbe stato un salto nel buio per l’Italia e per gli italiani’’. ’’Ora - esorta Casini - si vada avanti con un partito moderato e di centro’’
CALDEROLI: VOLEVANO DISTRUGGERCI, E’ VITTORIA LEGA ’’Messa come l’avevano messa, il risultato del referendum e’ una vittoria della Lega’’: lo ha detto all’ANSA il ministro per la Semplificazione, Roberto Calderoli. ’’Per come era stato fatto - ha aggiunto - questo referendum era stato concepito per cercare di distruggere la Lega e percio’, visto il risultato, possiamo dire che e’ stata una vittoria della Lega’’
Referendum: i «sì», i «no» e l’astensione «attiva» *
Gli spot autogestiti dei referendari vanno in onda alle cinque del pomeriggio, quando davanti alla televisione ci sono al massimo i bambini a guardare i cartoni animati. Eppure mancano solo tre giorni alla consultazione referendaria per cui comitati trasversali che vedevano insieme esponenti Pd e Idv, Forza Italia e An raccolsero 820mila firme. Il fatto è che, nel frattempo molte cose sono cambiate e una parte dei promotori si è sfilata, o perchè teme, come Di Pietro, di portare acqua al mulino del premier. O perché subisce, come Berlusconi, il ricatto della Lega. È ciò che sostiene Mario Segni, presidente del comitato referendario: «Berlusconi ha ceduto al ricatto di Bossi, non so se per paura o perchè abbia dovuto. Con la vittoria del sì al referendum, i partiti piccoli e minoritari non potranno più avere questo potere».
Intanto però le forze politiche sono soprattutto impegnate nei ballottaggi. A favore del «sì» al referendum con l’impegno a modificare la legge elettorale, cioè allo scopo di bocciare per via referendaria il “porcellum” di Calderoli, è soltanto il Partito democratico, sulla base di una riunione di direzione che si è espressa quasi all’unanimità. Anche se, anche all’interno del Pd si sono, nelle settimane scorse, manifestati molti distinguo. Quello del vicepresidente del Senato Vannino Chiti, ad esempio. E quello di Luciano Violante o di Francesco Rutelli, che vedono come maggiore, a questo punto, il rischio di dare troppa forza al partito di maggioranza, tanto più che l’obiettivo originario, quello di ridurre la frammentazione del sistema politico, è ormai inattuale. Al contrario, Stefano Ceccanti, che è stato promotore di una iniziativa per modificare il “porcellum”, ritiene che, se prevarranno le astensioni, il rischio è che ci terremo in eterno l’attuale legge elettorale.
Non fa campagna elettorale, le mani legate dal patto con la Lega, Silvio Berlusconi, che però a ribadito ieri che andrà a votare e voterà sì. Anche il presidente della Camera Gianfranco Fini andrà a votare sì. Nei giorni scorsi il quotidiano online della sua fondazione «Fare Futuro», ha pubblicato un editoriale nel quale indicava dieci buoni motivi per votare sì. Nel Pdl, però, la posizione ufficiale è quella della «libertà di coscienza».
Anche perché la Lega è contrarissima a un referendum dall’esito fortemente bipartitico. La Lega ha dato ai propri elettori, in particolare quelli che andranno a votare ai ballottaggi, indicazione di non ritirare le tre schede dei referendum. Il partito ha chiesto che nei seggi vengano messi dei cartelli per indicare l’opzione dell’astensione, mentre il ministro dell’Interno Roberto Maroni ha sottolineato la necessità che i presidenti di seggio spieghino che c’è anche questa possibilità di scelta.
L’astensione
Il drappello dell’astensione attiva, cioè di quelli che considerano l’astensione non semplicemente “andare al mare” ma la terza opzione che legittimamente può essere proposta agli elettori è vasto. C’è tutto il cartello di sinistra dei comitati del «no» dal Prc al Pdci a Sinistra e Libertà. C’è l’Udc e ci sono la Destra di Storace e l’Mpa di Raffaele Lombardo che dà indicazione, in caso di ballottaggi, di non ritirare le schede referendarie.
Di Pietro e i radicali, invece, andranno a votare ma voteranno no. No anche dai radicali che, in nome della loro scelta in favore dello strumento referendario, chiedono agli elettori di ritirare le schede.
* l’Unità, 18 giugno 2009
Il Pd e il referendum contro il popolo
di Giuseppe Chiarante (Il manifesto, 18.06.2009)
Mi accade di frequente di incontrare conoscenti e amici che si mostrano stupiti per il fatto che i dirigenti del Partito democratico nonostante le considerazioni critiche, le perplessità e le obiezioni emerse nel loro stesso partito, continuano a pronunciarsi a favore dell’imminente referendum elettorale del 21 giugno, che in caso di approvazione assegnerà, in future elezioni politiche, il 55 per cento dei seggi in Parlamento alla lista di partito (e non più alla coalizione) che ottenga il primo posto anche con una sia pur limitata maggioranza relativa, inferiore al 50 per cento dei voti.
Lo stupore è comprensibile perché nella situazione attuale è chiaro, alla luce dei risultati sia delle europee come delle amministrative, che a garantirsi quel premio di maggioranza sarebbe il partito di Berlusconi, che anche soltanto ripetendo il 35 per cento delle europee si assicurerebbe la maggioranza assoluta al Senato e alla Camera. Ma c’è un chiaro fondamento dietro questa posizione dei dirigenti democratici: è la scelta della logica del sistema politico bipartitico. Del resto questa scelta fu già compiuta in occasione delle ultime elezioni politiche: quando Walter Veltroni impegnava il Pd a «correre da solo», senza dubbio ottiene di assorbire, sulla base del «voto utile», una parte rilevante dei voti delle minori formazioni di sinistra, ma al prezzo di annullare totalmente la rappresentanza parlamentare della sinistra più radicale e di spalancare la strada a una massiccia vittoria della destra berlusconiana.
Questa scelta di Veltroni viene ribadita oggi dai suoi successori: con la consapevolezza - c’è da ritenere - che la prima volta a cogliere il premio di maggioranza sarà Berlusconi; ma col calcolo (ipotetico) che intanto il Pd potrà rafforzarsi a spese delle altre forze di sinistra e di centro sinistra e che prima o poi, in base alle probabilità dell’alternanza, potrà giungere finalmente ad affermarsi come il primo partito.
Ciò che in ogni caso la logica dell’adozione di un sistema bipartitico non può nascondere è che, intanto, la conseguenza immediata di una vittoria del referendum sarà un netto peggioramento della già brutta legge elettorale oggi vigente (il «porcellum») dando vita ad una legge che sarebbe peggiore anche della tanto criticata legge truffa del 1953 (che richiedeva, per l’assegnazione del premio, il superamento del 50 per cento dei voti): e che sarebbe invece assai simile alla legge Acerbo con la quale il fascismo, dopo la marcia su Roma, si assicura il controllo assoluto anche del Parlamento e quindi i pieni poteri.
È comprensibile che il riferimento a questi precedenti e il richiamo ai propositi di stravolgimento della Costituzione già più volte enunciato dall’attuale premier suscitino non poco imbarazzo anche nel Pd: un imbarazzo che i dirigenti cercano (o si illudono) di dissipare sostenendo che in ogni caso l’approvazione del quesito referendario non significherà l’adozione di una soluzione predeterminata, ma solo l’abrogazione della legge attuale e che poi si potrà discuterne, in Parlamento, una nuova, magari una legge proporzionale con sbarramento sul modello tedesco, o con voto a doppio turno, sull’esempio francese. Questa tesi è del tutto infondata, anzi è di fatto una menzogna. Infatti, come già si dimostrò chiaramente quando agli inizi degli anni novanta si discusse il referendum Segni se la Corte Costituzionale ha dichiarato ammissibile il nuovo quesito referendario è perché esso, abrogando alcune norme della legge vigente, indica però con chiarezza le linee essenziali della normativa da adottare: non crea, cioè, un vuoto legislativo che sarebbe, tanto più in una materia estremamente delicata come quella elettorale, del tutto inammissibile. Se invece si pretendesse di dare alle indicazioni del referendum un valore non vincolante circa la soluzione legislativa da adottare, si ripeterebbe in modo farsesco la discussione che già si svolse quando nel 1992 il Pds, di cui era segretario Achille Occhetto decise di sostenere il referendum Segni per l’introduzione del sistema maggioritario, pretendendo però che il Parlamento potesse poi varare una legge diversa da quella che risultava dal quesito referendario approvato.
A quel tempo l’autore di questa nota era membro di diritto, a doppio titolo, degli organi dirigenti (direzione e segreteria) del Pds: sia perché presidente del Consiglio nazionale di garanzia istituito dal congresso, sia perché eletto, successivamente, anche presidente del gruppo parlamentare del Senato. Ritengo perciò doveroso dare testimonianza della discussione che in quell’occasione si svolse, sostanzialmente analoga a quella di oggi nel Pd. Anche allora infatti di fronte alle critiche alle insidie per la democrazia presenti nel sistema maggioritario quale sarebbe emerso dal referendum Segni, i maggiori dirigenti del partito, a cominciare da Occhetto, sostenenero che con l’approvazione del quesito referendario si apriva solo la strada dell’approvazione di una nuova legge elettorale, ma che le linee e i contenuti di questa legge sarebbero stati decisi nel dibattito parlamentare.
Ricordo che, insieme al comitato per il «no al referendum», mi affannai per cercare di chiarire nelle riunioni della segreteria e della direzione, che quella libertà di scelta non ci sarebbe affatto stata, perché il quesito referendario disegnava un ben preciso sistema maggioritario, quello che derivava dall’abrogazione di alcune norme della legge allora vigente per il Senato: e questa indicazione sarebbe stata vincolante, come diceva la giurisprudenza della Corte Costituzionale, anche per la definizione da parte del Parlamento delle norme elettorali sostitutive di quelle in vigore abrogate dal referendum. Tutte le nostre argomentazioni furono però respinte benché sostenute da tanti costituzionalisti. Il referendum Segni fu così approvato col voto determinante degli elettori del Pds: ma quando si giunse alla discussione in Parlamento per varare una nuova legge elettorale secondo le indicazioni del referendum, tutti i tentativi di proporre una nuova legge ispirata al modello francese o a quello tedesco furono vani, perché giudicati in contrasto con le indicazioni del quesito referendario. Si giunse così al «mattarellum», che è all’origine anche della legge ora vigente e che in questi anni ha avuto tanto peso nel favorire quel degrado politico e istituzionale in senso populistico-plebiscitario che ha portato all’affermazione del berlusconismo.
Ho voluto richiamare questi precedenti per evitare che si ripeta un analogo errore; e perché soprattutto ne tengano conto quegli elettori (compresi certamente molti simpatizzanti del Pd) che non vogliono una legge elettorale che costituirebbe una porta spalancata per un pieno successo di Berlusconi e che favorirebbe una ulteriore degenerazione di fatto del nostro sistema costituzionale nel senso di una crescente preminenza del potere esecutivo sulle assemblee rappresentative, preminenza eventualmente rafforzata anche con modifiche costituzionali in senso presidenzialista, o con l’istituzione del cosiddetto «premierato forte», che fra l’altro darebbe al presidente del Consiglio il potere effettivo di provocare lo scioglimento delle Camere.
C’è una sola strada per evitare che, col referendum, si aggravi una situazione che, in Italia, è già carica di incognite e di pericoli: è appunto la strada, prevista dalla Costituzione, della bocciatura del referendum (possibile anche qualora ci si rechi a votare per un ballottaggio, dichiarando al seggio di non voler partecipare alla consultazione referendaria e non ritirando perciò le relative schede) attraverso la non partecipazione al voto, in modo che non si raggiunga il 50 per cento dei votanti.
Un referendum beffa
Le ragioni per dire No al referendum elettorale in 10 Punti
di Roma - Osservatorio delle lesioni alla Costituzione
1- Siamo tutti scontenti della vigente legge elettorale, denominata “porcellum” dai suoi stessi promotori.
2- Questa legge :
a) attraverso le liste bloccate, ha espropriato gli elettori di ogni residua possibilità di scegliersi i propri rappresentanti in Parlamento, conferendo a una ristrettissima oligarchia di persone (i capi dei partiti politici) il potere di determinare al 100% la composizione del Parlamento . Di conseguenza tutti i “rappresentanti del popolo” sono stati nominati da oligarchie di partito, svincolate da ogni controllo popolare;
b) attraverso l’introduzione di soglie di sbarramento irragionevoli, ha soffocato il pluralismo, espellendo le minoranze non coalizzate dal Parlamento.
3- Il referendum proposto non corregge nessuno dei difetti del“porcellum”, ma al contrario, li aggrava esaltandone le conseguenze negative.
4- Il referendum propone di attribuire il premio di maggioranza alla lista, che abbia ottenuto anche un solo voto in più delle altre liste concorrenti, abrogando la possibilità che il premio venga attribuito ad una coalizione di partiti .
5- Attribuire il premio di maggioranza ad una sola lista sovverte la regola basilare di ogni democrazia che si poggia sul principio che le decisioni si prendono a maggioranza dei votanti.
6- In questo modo si realizzerebbe una sorta di “dittatura della minoranza”, in quanto un solo partito, senza avere il consenso della maggioranza del popolo italiano, avrebbe nelle sue mani il controllo del Governo e la possibilità di eleggere - da solo - il Presidente della Repubblica e di modificare la Costituzione.
7- La chiamata degli elettori alle urne per il referendum nasconde un inganno: essa sfrutta l’insoddisfazione generale che tutti noi nutriamo verso questa legge elettorale (il porcellum) per spingerci ad un voto che, qualunque sia il risultato, non può avere altro effetto che quello di rafforzare il porcellum.
8- Le preferenze peraltro non vengono restituite all’elettorato ma continuerebbero a restare nelle mani dei partiti
9- Per questo si tratta di un referendum beffa: ci chiama alle urne per ammazzare il porcellum, ma in realtà lo ingrassa e lo rende intoccabile, in quanto il Parlamento non potrebbe fare delle riforme elettorali perché vincolato dal voto popolare espresso con il referendum.
10- Per questo diciamo No al referendum elettorale, non andando a votare e rifiutando le schede del referendum, se chiamati alle urne per il ballottaggio.
Roma - Osservatorio delle lesioni alla Costituzione aderente al Coordinamento dei Comitati in difesa della Costituzione
Referendum al capolinea
di MICHELE AINIS (La Stampa, 13/6/2009)
C’è una partita politica dietro le quinte del referendum elettorale, e il 22 giugno ne conosceremo gli esiti. Quanto pesa il controcanto di Gianfranco Fini rispetto all’asse Berlusconi-Bossi, quanto pesa la scelta referendaria di Franceschini rispetto ai mal di pancia del Pd: è diventato questo il vero oggetto dei quesiti, il tema su cui s’esercitano previsioni, retroscena, analisi. Ma c’è anche una partita istituzionale, ben più importante della prima; eppure nessuno ci fa caso. Qui la posta in gioco non tocca gli equilibri interni di partiti e coalizioni, non tocca nemmeno la fisionomia della legge elettorale. No, il responso delle urne deciderà la sopravvivenza stessa del referendum, della seconda scheda che i costituenti posero in mano agli italiani. Dal 1997 in poi abbiamo consumato 21 referendum, ma hanno fatto cilecca l’uno dopo l’altro. Niente quorum, niente messa nella chiesa vuota di fedeli. Se adesso si ripeterà la diserzione, la prossima messa servirà per celebrare un funerale, quello dell’unico strumento di democrazia diretta contemplato nel nostro ordinamento.
Come ha attecchito questa malattia degenerativa? C’entra senza dubbio l’anoressia degli elettori, il rifiuto ormai di massa del pasto elettorale. Il partito del non voto è diventato il primo partito nazionale: 15 milioni di astenuti volontari, ha calcolato Ricolfi. Ovvio che in questa condizione il quorum si trasformi in un salto con l’asta. Faremmo meglio a rapportarlo al numero effettivo dei votanti nell’ultima consultazione elettorale: l’Italia del 2009 non è più quella del 1948, quando votavano perfino i vecchietti sulla sedia a rotelle. Ma c’è anche, più sottile e velenosa, un’altra causa scatenante. È la musica suonata dai pifferai dell’astensione, da quanti furbescamente s’aggiungono al partito del non voto per far naufragare il referendum, invece di contrastarlo in mare aperto. Giochino facile, eppure un tempo non usava: nel 1974 il fronte divorzista fece campagna per il no, poi si mise in fila davanti ai seggi elettorali (19 milioni di no contro 13 milioni di sì). Fu sconfitta la Dc, Fanfani ci rimise la poltrona, ma il referendum ne uscì sano e salvo.
Potremmo domandarci quale istinto masochista ci spinga a rinunziarvi, quando lo strumento ottiene viceversa un successo crescente in tutto il mondo (dei circa 1.500 referendum fin qui celebrati a livello nazionale, oltre la metà si è svolta negli ultimi 25 anni). Quando nel Regno Unito Gordon Brown sta per indirne uno allo scopo di far scegliere ai suoi concittadini la nuova legge elettorale. Quando non abbiamo altri megafoni per parlare di persona (se è per questo, non ci è data neanche l’opportunità di parlare per interposta persona, dato che non possiamo scegliere i nostri rappresentanti in Parlamento). Ma dopotutto è ancora un’altra la questione, e investe la legalità del nostro vivere comune. Perché il voto è un «dovere civico», dice a chiare lettere la Costituzione; e senza distinguere fra elezioni e referendum. Perché in quest’ultimo caso l’astensione organizzata si risolve in un trucchetto, come già aveva denunziato Bobbio, nel giugno 1990, sulle colonne della Stampa. Perché il trucco viene addirittura castigato con pene detentive, da due norme (art. 98 del testo unico delle leggi elettorali per la Camera; art. 51 della legge che disciplina i referendum) che fino a prova contraria sono ancora in vigore.
Insomma se il singolo elettore - pur non offrendo certo un esempio di civismo - può disertare il voto, chi organizza l’astensione si pone al di fuori della legalità costituita. Eppure gli appelli non si contano, dalla Lega al Comitato per l’astensione (dove ahimé spicca un corteo d’intellettuali). Ci sarebbe allora da aspettarsi una reazione, anzitutto da quei partiti che lamentano ogni giorno lo scempio del diritto, come i Radicali o Italia dei valori. Perché non sempre il silenzio è d’oro.
michele.ainis@uniroma3.it