IL COMMENTO
La patria e il nuovo padre padrone
di EUGENIO SCALFARI *
IERI 25 aprile, giorno di festa per la liberazione d’Italia dai nazifascisti e per la Resistenza che ha reso possibile la rinascita della democrazia nel nostro paese, è caduto il muro che aveva fin qui impedito a quella ricorrenza di diventare una data condivisa da tutti gli italiani. Il merito di questo risultato spetta a Silvio Berlusconi, al discorso da lui tenuto ad Onna ed anche - diciamolo - a Dario Franceschini segretario del Pd, che con il suo pressante invito ha incitato il premier a render possibile un evento così importante.
Berlusconi aveva dinanzi a sé tre alternative: ignorare l’invito di Franceschini; accoglierlo per marcare a modo suo la celebrazione equiparando la Resistenza con coloro che si erano schierati a fianco del regime fascista di Salò, uniti entrambi dall’amor di patria; dare atto che Liberazione e Resistenza sono stati un tutto unico dal quale è nata la nostra Costituzione repubblicana, fermo restando il rispetto per tutti i caduti, anche di coloro che in buona fede scelsero la parte sbagliata.
Con il suo discorso di Onna Berlusconi ha scelto questa terza soluzione ed è quindi doveroso dargliene atto. Si potrebbe (e non mancherebbero gli argomenti) fare un’analisi dei moventi che l’hanno spinto a imboccare quella strada, ma sarebbe riduttivo. I fatti del resto hanno un loro linguaggio che esprime la realtà e la realtà è questa.
Berlusconi ha raggiunto un livello di consenso che gli impone di proporsi come il rappresentante politico di tutti gli italiani, quelli che lo amano e quelli che non lo amano, quelli che hanno fiducia e quelli che ne diffidano, quelli che condividono il suo "fare" e quelli che l’avversano.
Noi siamo tra questi ultimi ma riconosciamo che una svolta è stata compiuta, sia nella valutazione storica della Liberazione e della Resistenza, sia nel riconoscimento dei principi sui quali si regge la Costituzione, sia sul ruolo delle forze politiche che contribuirono alla rinascita democratica e che nel discorso di Onna sono state tutte nominate a cominciare dai comunisti, ai socialisti, ai democristiani, ai liberali (anche se l’ipotesi di cambiare il nome della celebrazione in quello di "Festa della Libertà" è certamente una proposta contro la memoria che indebolisce notevolmente le osservazioni precedentemente fatte).
La fermezza del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha giocato un ruolo determinante nella svolta berlusconiana; un altro elemento da non sottovalutare sarà pur venuto dalla posizione di Gianfranco Fini. La svolta è comunque avvenuta. Bisogna ora vedere se i seguiti saranno conformi al nuovo inizio e intanto rallegrarsene.
Dunque tutto bene? Il tessuto democratico del paese si è rafforzato? Si aprirà finalmente una dialettica operosa tra governo ed opposizione?
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Aldo Schiavone, in un articolo pubblicato ieri su "Repubblica" ha risposto anticipatamente a queste domande partendo dalla constatazione che in tempi di emergenza la spinta populista è un dato di realtà dal quale sarebbe sbagliato prescindere.
Ci sono vari modi di affrontare questa deriva. Quello di Berlusconi, secondo il giudizio di Schiavone, consiste nel "rendere istituzionale la spinta populista, prolungarne e dilatarne gli effetti nello spazio sociale e nel tempo storico, alimentare un rapporto fideistico tra il leader e il ’suò popolo, marginalizzare tutte le altre forme di rappresentanza a cominciare dalla divisione dei poteri e dalle autorità di garanzia come inutili impacci. Un Capo che sceglie e decide per tutti: è un modo di stressare la democrazia radicandola su una sola delle sue componenti".
Ebbene la svolta berlusconiana di ieri, della quale abbiamo già segnalato gli aspetti positivi, non ci libera affatto da quelli negativi. Al contrario, li alimenta con nuova linfa rendendoli ancor più attuali e pericolosi. Diventa sempre più incombente la costruzione, già da tempo avviata, d’una nuova costituzione materiale all’ombra della Costituzione vigente, cioè una sua interpretazione che ne stravolge il senso riducendola ad un reperto fossile.
Un’operazione del genere fu già compiuta nel corso della Prima Repubblica. Avvenne tra la metà degli anni Sessanta e la metà degli Ottanta; un ventennio nel corso del quale i partiti assorbirono le istituzioni, il governo si identificò con lo Stato, la democrazia si trasformò in partitocrazia, gli apparati politici confiscarono la pubblica amministrazione e taglieggiarono sistematicamente le imprese.
La costituzione materiale partitocratica fece del Capo dello Stato un’autorità di second’ordine, esercitò un’influenza determinante sulla magistratura inquirente e giudicante, costruì l’impunità del potere e di chi lo impersonava. Le forme vennero scrupolosamente rispettate ma la sostanza fu invece sconvolta e manomessa.
La stagione di Tangentopoli interruppe e anzi sembrò avere distrutto la partitocrazia. Cominciò allora la transizione verso la Seconda Repubblica che adesso ha infine assunto le sue caratteristiche con la costruzione di una nuova costituzione materiale molto diversa dalla precedente.
Non sono più i partiti a monopolizzare il potere, ma un leader con il manipolo dei suoi più stretti collaboratori. Un leader antipolitico e sostanzialmente antiparlamentare, gestore sapiente del sistema mediatico, identificato con la ricerca ossessiva del consenso da trasformare giorno per giorno in plebiscito e da contrapporre a tutte le mediazioni e a tutto il sistema delle garanzie.
La svolta di ieri ha rappresentato dunque un rilevante passo avanti e un ulteriore passo indietro di fronte alla democrazia partecipata. Passo avanti - l’abbiamo già detto - verso la pacificazione del Paese rispetto a quanto accadde sessant’anni fa. Passo indietro verso il populismo autoritario.
Se l’asse portante della nostra Costituzione consiste nella divisione dei poteri, l’essenza della costituzione materiale berlusconiana è nell’unificazione dei poteri in una sola mano. Esecutivo, legislativo e giudiziario intestati al leader attraverso una prassi ed una serie di norme che la consolidano e la presidiano trasformandola in consuetudine.
Il presidente Napolitano ha avvertito da tempo questa deriva e l’ha più volte segnalata con la discrezione che lo distingue. Più di recente deve aver avvertito che la crescita della nuova costituzione materiale stava per oltrepassare una soglia oltre la quale sarebbe diventata irreversibile per un lungo arco di anni ed ha ritenuto che il tema dovesse essere affrontato di petto. L’ha fatto pochi giorni fa inaugurando il festival della democrazia a Torino e indicano i principi che costituiscono il fondamento della democrazia repubblicana: lo stato di diritto, la divisione dei poteri, il ruolo indispensabile delle autorità di garanzia, il vigile rispetto della legalità costituzionale, il rafforzamento del potere esecutivo e dei poteri di controllo del Parlamento. I punti di riferimento culturali di questa visione configurano una democrazia liberale che ha i suoi autori in Montesquieu, Tocqueville, Croce e Luigi Einaudi. La "fantasia al potere" - che tanto piace a Berlusconi e ai suoi mentori - non trova posto in questa visione e rappresenta il culmine della modernità occidentale.
Se volessimo raffigurare le due versioni contemporanee e contrapposte di due leader carismatici, facciamo i nomi di Berlusconi e di Barack Obama, con tutte le differenze di scala da essi rappresentate.
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C’è un freschissimo esempio della "fantasia al potere" o meglio della "follia positiva" stando all’autodefinizione che ne ha dato lo stesso nostro premier, ed è il trasferimento del G8 che avrà luogo nel prossimo luglio dall’isola della Maddalena alla scuola degli allievi ufficiali dell’Aquila. Un colpo di scena suggerito da Bertolaso, sottosegretario alla Protezione civile e ai Grandi eventi e fatto proprio da Berlusconi con entusiasmo all’insaputa dello stesso governo da lui presieduto.
Le motivazioni di questo "coup de théâtre" sono quattro: le minori spese, il desiderio di mettere i potenti della terra a diretto contatto con una catastrofe naturale, la possibilità di elevare il caso Abruzzo dal livello nazionale a quello mondiale, la maggiore sicurezza del "meeting" tra le montagne abruzzesi rispetto alle sedi navali che l’avrebbero ospitato alla Maddalena.
È sufficiente un sommario esame per capire che si tratta di motivazioni infondate.
Le spese per realizzare il G8 alla Maddalena sono state tutte in grandissima parte già fatte (anche se ancora debbono essere pagate). Gli impianti previsti saranno comunque portati a termine. Nessun risparmio da questa parte sarà dunque realizzato. Il grande albergo a cinque stelle costruito nell’isola sarda resterà come una delle tante cattedrali nel deserto, di sperpero del denaro pubblico e di cementificazione di uno degli arcipelaghi più belli d’Europa. Il risparmio sulle spese navali rispetto a quelle aquilane sarà minimo, invece delle navi alla fonda bisognerà mobilitare una flotta di elicotteri che faccia la spola tra Roma e l’Aquila.
I potenti della terra hanno purtroppo larga esperienza di catastrofi naturali, in Giappone, in Louisiana, in Florida, in California, in Russia, in India, in Cina, in Turchia. Insomma nel mondo intero.
Portare il caso Abruzzo all’attenzione del mondo affinché dia una mano per risolverlo è risibile. C’è l’intero continente africano che è di per sé una catastrofe, per citare un solo caso tra tanti.
La sicurezza contro i No Global. Non metteranno piede all’Aquila, l’hanno già detto. Ma faranno altrove le loro prove. Speriamo vivamente che siano prove puramente dimostrative. Se comunque, come scopre ora Bertolaso, garantire sicurezza alla Maddalena era un compito così arduo, ci si domanda adesso perché fu scelta quella località.
Forse Bertolaso ha troppe cose da fare: la protezione contro le catastrofi, i rifiuti dell’immondizia, la progettazione ed esecuzione dei grandi eventi. Il tutto non solo sulle sue spalle ma sulle strutture della Protezione civile. Che non stia nascendo, sotto la leadership politica di Berlusconi, una leadership tecnocratica di Bertolaso? Non credo che i vertici negli altri paesi siano affidati alla Protezione civile. Li curano i ministri dell’Interno, i Servizi di sicurezza, le forze della sicurezza pubblica. Che c’entra la Protezione civile? I pompieri che ne costituiscono l’ossatura?
Bertolaso, racconta il generale della Finanza, Lisi, che lo vede lavorare nella sua scuola, "lavora notte e giorno, non dorme, è una fucina di iniziative, non è un uomo ma un miracolo".
Forse se si concentrasse su uno solo dei suoi tanti compiti eviterebbe alcune disfunzioni che stanno emergendo in questi giorni e che i terremotati vivono sulla loro pelle.
No, neanche Bertolaso è infallibile. Quanto ai miracoli, beati i paesi che sanno farne a meno.
* la Repubblica, 26 aprile 2009
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FESTA DELLA LIBERAZIONE: AUGURI ALL’ITALIA E AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA, GIORGIO NAPOLITANO
IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI
Se scompare la liberazione
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 27.04.2009)
E così scomparirà forse dal vocabolario delle feste nazionali la parola "Liberazione". A partire dal 25 aprile 2009, da quella che sarà stata (forse) l’ultima Festa della Liberazione, la sostituirà un’altra parola, solo in apparenza simile: "Libertà". Un mutamento che sembra del tutto naturale, di fatto già avvenuto, come bere un bicchier d’acqua, come trovare la definizione adatta per riempire le caselle di un gioco di parole incrociate. Una piccolissima modifica, una roba da niente. Tanto piccola e innocua che questo mutamento di fatto è come se fosse già avvenuto. Del resto, l’accoglienza è stata benevola, perfino un po’ distratta. Una parola, nient’altro. I pochi, prevedibili dissensi sanno più di blando rimpianto per la dipartita di un vecchio amico di famiglia che di lotta per difendere valori non negoziabili. Nel consenso si avverte un respiro di sollievo, come quello a cui dà voce un editoriale sul Corriere della Sera di ieri. È - vi si legge - «una ferita che si chiude».
C’era dunque una ferita: la parola "Liberazione" la teneva aperta, la parola "Libertà" la chiude. Caso singolare, degno di attenzione. Una parola divideva, di più: feriva e faceva sanguinare, l’altra - pur della stessa famiglia - magicamente risana la ferita, ricompone la società, fa scomparire l’ultimo riflesso delle passioni da cui era nata. E certo quelle passioni se le portava dietro fin da quando era nata: perché erano quelle passioni che l’avevano generata nella mente di una minoranza di italiani. Quegli uomini parlavano anche di libertà ma intanto vedevano l’urgenza di un’azione da compiere, un’azione liberatoria, «questa cruenta lotta di liberazione» - come scriveva il 25 settembre del 1945 il partigiano Didimo Ferrari al commissario della Divisione Lunense, l’azionista e futuro storico Roberto Battaglia.
Ma se libertà e liberazione erano così solidali nella lingua di allora, che cosa le ha fatte diventare nemiche nella lingua di oggi? «Il concetto di libertà - ha scritto Marc Bloch - è uno di quelli che ogni epoca rimaneggia a suo piacere». Più difficile rimaneggiare "Liberazione" - quella specifica e precisa lotta di liberazione che si svolse in un determinato momento della storia italiana. Quanti liberatori attivi ebbe l’Italia tra il 1940 e il 1945? C’era allora il "Consolidated B-24 Liberator": un bombardiere quadrimotore. Lo vedevamo dal basso quando veniva a bombardare un’Italia già alleata della Germania e poi occupata dai tedeschi, dove popolazioni inermi tradite dai rappresentanti dello Stato aspettavano che qualcuno li liberasse dalla condizione schiavile in cui erano precipitati.
Se qualcuno non si fosse ribellato e non avesse dato vita all’organizzazione di Comitati di Liberazione Nazionale, gli italiani avrebbero avuto una liberazione tutta americana, insieme alle "AM-Lire" stampate dagli alleati.
Non sarebbe stata la prima volta. Nella storia d’Italia altre svolte rivoluzionarie del mondo moderno sono state vissute in modo passivo. Per una di loro, quella della Grande Rivoluzione francese esportata dalle armate napoleoniche in tutta Europa, lo storico napoletano Vincenzo Cuoco coniò il termine di "rivoluzione passiva", che rimase buono anche per altri usi. Ma almeno in un caso l’Italia è stata attiva e creativa: nell’invenzione del regime fascista, guidato da un capo che si presentò agli inizi come rivoluzionario.
Lo storico che sottolineò questo aspetto, Renzo De Felice, fu anche colui che coniò una espressione poi entrata nel linguaggio comune delle narrazioni della storia italiana del ’900: "gli anni del consenso". Significava quella espressione che l’adesione degli italiani al regime fascista era stata un fenomeno di massa. E questo è servito spesso nella polemica ideologica a sminuire ancora di più la piccolezza del fenomeno della Resistenza come guerra di liberazione condotta da italiani. Poteva mai nascere dal paese del consenso di massa al fascismo, un altro e opposto paese capace di lottare per riscattare la propria dignità?
Nella stanchezza di un’Italia lontanissima da quei tempi oggi sembra giunto il tempo per cancellare anche nel linguaggio l’ultima traccia verbale di una stagione lontana. Ma nella parola "Liberazione" e solo in quella è iscritto il ricordo di un fatto storico che ha segnato la discontinuità tra due Italie. Questo termine sta a ricordare che c’è stata una lotta di una parte del paese contro un’altra, che quella parte pur minoritaria seppe allora raccogliere l’esito della fine del consenso al regime e conquistarsi nel paese un altro e diverso consenso di massa: quel consenso che, attraverso libere elezioni e nella dialettica di ideali diversi ma capaci di dialogare e di incontrarsi sulla sostanza, dette vita e forma alla Costituzione repubblicana.
Lo si cancelli, se si vuole, se si può. Vediamo bene che c’è un patteggiamento intorno a questo e che non mancano offerte di pagamento in buona moneta: tale è il ritiro della legge che equipara gli italiani di Salò e quelli dei Comitati di Liberazione, tale è la possibilità di una revisione della Costituzione non a colpi di maggioranza. E il prezzo che si chiede è solo una piccola operazione di "lifting" verbale. Tuttavia una cosa deve essere tenuta presente: il banco di prova più delicato del potere si trova proprio qui, nella capacità di iscriversi nel linguaggio, di mutare le denominazioni delle feste come momento simbolico della vita collettiva. E non è solo nell’universo dantesco che per una "paroletta" ci si danna o ci si salva.
lettere al circolo Rosselli
di ViTTORIO MELANDRI
Ha un nome che fa pauuuuraa /libertaaà libertaaà libertaaà
Ieri 25 aprile 2009 su la Repubblica è ricomparso agli occhi disattenti dell’opinione pubblica, non di rado ad arte opacizzati da cataratte artificiali, la figura di Riccardo Lombardi.
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In una lettera a firma di Carlo Patrignani indirizzata a Corrado Augias si legge:
"Caro Augias,
vorrei ricordare per il 25 aprile, il primo Prefetto di Milano liberata: Riccardo Lombardi, ingegnere socialista ritenuto dalla polizia fascista "di statura gigantesca, scaltro e preparato, persona pericolosissima" anche se "di malferma salute".
Nel 1930 una squadraccia, a colpi di sacchi di sabbia, gli aveva lesionato un polmone. Dirigente del Cnlai, alla vigilia della Liberazione, alla presenza del cardinale Schuster mediatore della resa, aveva strappato la "resa senza condizioni" a Benito Mussolini. In un articolo sulla Rsi per `Il Ponte’ nel 1946 raccontò: «Mussolini è tutto in questo ultimo folle tentativo di rivolgere contro il popolo le armi, di ricreare una chance per il fascismo mettendolo al servizio dei reazionari occidentali, dopo averlo messo al servizio dei reazionari del Centro-Europa».
Il 24 aprile 1974 invitato ad una Tribuna Politica sul referendum per il divorzio, rifiuta il `faccia a faccia’, con il leader dell’Msi-Dn, Giorgio Almirante. Spiegò: «Noi siamo disposti al dibattito, anzi lo sollecitiamo, con tutti gli avversari più risoluti, anche con coloro che sono stati fascisti, ma non con coloro che agiscono da fascisti oggi servendosi della libertà conquistata il 25 aprile, per distruggerla». Spiegò anche il suo `No’ all’abrogazione della legge sul divorzio: «L’indissolubilità del matrimonio è un fatto di coscienza individuale che non può esser imposto o demandato da nessuna autorità civile». È morto 25 anni fa."
Augias ricorrendo all’aiuto di Giorgio Ruffolo risponde:
In autunno, quando ricorrerà l’anniversario esatto della morte (18 settembre 1984) bisognerà ricordarlo davvero questo siciliano di ferro (come La Malfa), figlio di un capitano dei carabinieri caduto in servizio quando aveva 3 anni, allevato dai gesuiti, entrato in politica con i `popolari’ di don Sturzo, poi socialista. Anzi leader della corrente di sinistra del partito socialista insieme a Giolitti e a Giorgio Ruffolo.
Proprio a Ruffolo, che ha lavorato a lungo con lui e lo ha conosciuto bene, ho chiesto di descriverlo brevemente con qualche parola che ne fissasse almeno un tratto fondamentale del temperamento, della visione politica. Ha risposto così:"Vorrei proprio vedere come va a finire. Peccato che devo andarmene". Così mi disse non molti giorni prima della morte. Si riferiva a una delle tante vicende che lo appassionavano. Gli capitava spesso. Era curioso: di leggere, di conoscere, di scoprire. Viveva il presente come storia. E aveva contribuito a scriverla. Ma di questo non parlava. Del passato parlava poco. Era il futuro che lo interessava. E non recriminava. Non dava giudizi sprezzanti su questo nostro paese, Nemmeno sui fascisti che gli avevano rotto le ossa. C’erano uomini così una volta nei partiti della sinistra.
***
Già, c’erano uomini così una volta nei partiti della sinistra, e non solo nei partiti, anche nella "sinistra" politica e civile intesa in senso più lato.
Sinistra dai cui cascami purtroppo, oggi si allungano solo ombre (quando va bene).
Oggi 26 aprile 2009 sulla prima pagina del Corriere della Sera si legge:
"È una ferita antica che si chiude. L’Italia trova finalmente le parole della riconciliazione nazionale celebrando insieme la «festa di libertà»."
Giunto alla diciannovesima parola, Pierluigi Battista non riesce proprio a trattenersi e immortala, appunto sulla prima pagina del Corriere, il verbo di padron (pardon ..) di Silvio Berlusconi, non sia più "festa della liberazione", d’ora in poi sarà: «festa di libertà».
Non mi spingo a credere che sia calcolato, si tratta solo del caso cinico e amaro, ma i numeri si rincorrono e offrono il destro per notare che novant’anni dopo quel ’19, dopo 19 parole, ancora da Milano, spunta di bel nuovo come un Valentino vestito di nuovo, un nuovo "diciannovismo".
Povera libertà, le stanno proprio facendo la "festa".
Ai tanti che come me continuano a considerarla un bene indiviso da uguaglianza, fratellanza e pure onestà intellettuale, resta a disposizione ormai poco, a me, poco più di questo "ritornello", che sta dentro la colonna sonora del film di Luigi Magni "Nell’anno del Signore", che sottolineato dalle musiche di Armando Trovajoli accompagna la mia malinconia da troppi anni ....
La bella ch’è prigionieeera / Tra lala tra lala tra lala lala / Ha un nome che fa pauuuuraa /Libertaaà libertaaà libertaaà
vittorio melandri
Cari amici, non è semplice trovare le parole per descrivere il mio, il nostro stato d’animo in questo momento. Ci troviamo qui ad Onna per celebrare la Festa della Liberazione, una festa che è insieme, un onore ed un impegno. Un onore: di commemorare una terribile strage perpetrata proprio qui nel giugno del 1944 quando, i nazisti massacrarono per rappresaglia 17 cittadini di Onna, e poi fecero saltare con l’esplosivo la casa nella quale si trovavano i corpi di quelle vittime innocenti. Un impegno: che ci deve animare è quello di non dimenticare ciò che è accaduto qui e di ricordare gli orrori dei totalitarismi e della soppressione della "libertà". Proprio qui, proprio in Abruzzo, è nata ed ha operato la leggendaria Brigata Maiella, che è stata decorata con la Medaglia d’Oro al Valor Militare. Nel dicembre del ’43, 15 giovani fondarono quella che sarebbe diventata appunto la Brigata Maiella che arrivò ad essere forte di 1.500 uomini. E non casuale che in questa giornata speciale, i militari del Picchetto d’Onore schierati davanti a noi appartengano al 33.mo Reggimento di artiglieria, il reparto degli abruzzesi che nel 1943 a Cefalonia ebbe il coraggio di opporsi ai nazisti e di sacrificarsi - combattendo - per l’onore del nostro Paese. A quei patrioti che si sono battuti per il riscatto e la rinascita dell’Italia va, deve andare sempre la nostra ammirazione, la nostra gratitudine, la nostra riconoscenza. La gran parte degli italiani di oggi, non ha provato cosa significa la privazione della libertà. Solo i più anziani hanno un ricordo diretto del totalitarismo, dell’occupazione straniera, della guerra per la liberazione della nostra Patria.
Per molti di noi è un ricordo legato alle nostre famiglie, ai nostri genitori, ai nostri nonni, molti dei quali furono protagonisti o anche vittime di quei giorni drammatici. Per me è il ricordo di anni di lontananza da mio padre, costretto ad espatriare per non essere arrestato, è il ricordo dei sacrifici di mia madre, che da sola dovette mantenere una famiglia numerosa in quegli anni difficili. E’ il ricordo del suo coraggio, di lei che come tanti altri da un paesino della provincia di Como doveva recarsi ogni giorno in treno a Milano per lavorare, e che un giorno, su uno di quei treni, rischiò la vita, ma riuscì a sottrarre a un soldato nazista una donna ebrea destinata ai campi di sterminio. Questi sono i ricordi, sono gli esempi con i quali siamo cresciuti. Quelli di una generazione di italiani che non esitò a scegliere la libertà. Anche a rischio della propria sicurezza, anche a rischio della propria vita. Il nostro Paese ha un debito inestinguibile verso quei tanti giovani che sacrificarono la vita, negli anni più belli, per riscattare l’onore della patria, per fedeltà a un giuramento, ma soprattutto per quel grande, splendido, indispensabile valore che è la libertà. Lo stesso debito di gratitudine lo abbiamo verso tutti quegli altri ragazzi, americani, inglesi, francesi, polacchi, dei tanti paesi alleati, che versarono il loro sangue nella campagna d’Italia. Senza di loro, il sacrificio dei nostri partigiani avrebbe rischiato di essere vano. E con rispetto dobbiamo ricordare oggi tutti i caduti, anche quelli che hanno combattuto dalla parte sbagliata sacrificando in buona fede la propria vita ai propri ideali e ad una causa già perduta. Questo non significa naturalmente neutralità o indifferenza. Noi siamo - tutti gli italiani liberi lo sono - dalla parte di chi ha combattuto per la nostra libertà, per la nostra dignità e per l’onore della nostra Patria.
In questi anni la storia della Resistenza è stata approfondita e discussa. E’ un bene che sia successo. La Resistenza è - con il Risorgimento - uno dei valori fondanti della nostra nazione, un ritorno alla tradizione di libertà. E la libertà è un diritto che viene prima delle leggi e dello Stato, perché è un diritto naturale che ci appartiene in quanto esseri umani. Una nazione libera tuttavia non ha bisogno di miti. Come per il Risorgimento, occorre ricordare anche le pagine oscure della guerra civile, anche quelle nelle quali chi combatteva dalla parte giusta ha commesso degli errori, si è assunto delle colpe. È un esercizio di verità, è un esercizio di onestà, un esercizio che rende ancora più gloriosa la storia di coloro che invece hanno combattuto dalla parte giusta con abnegazione e con coraggio. È la storia dei tanti che hanno combattuto nell’esercito del Sud, che da Cefalonia in poi hanno riscattato con il sangue l’onore della divisa. È la storia dei martiri come Salvo D’Acquisto che non esitò a sacrificare la sua vita in cambio di altre vite innocenti. È la storia dei nostri militari internati in Germania, che scelsero il campo di concentramento piuttosto che collaborare con i nazisti. È la storia dei tanti che nascosero concittadini ebrei ricercati, salvandoli dalla deportazione. È la storia soprattutto dei tanti, tantissimi eroi sconosciuti che con piccoli o grandi gesti di coraggio quotidiano collaborarono alla causa della libertà.
Anche la Chiesa, voglio ricordarlo, fece la sua parte con vero coraggio, per evitare che concetti odiosi, come la razza o la differenza di religione, diventassero per molti motivo di persecuzione e di morte. Allo stesso modo bisogna ricordare i giovani ebrei della Brigata ebraica, arrivati dai ghetti di tutta Europa, che imbracciarono le armi e lottarono per la libertà. In quel momento tanti italiani di fedi diverse, di diverse culture, di diverse estrazioni si unirono per seguire lo stesso grande sogno, quello della libertà. Vi erano fra loro persone e gruppi molto diversi. Vi era chi pensava soltanto alla libertà, chi sognava di instaurare un ordine sociale e politico diverso, chi si considerava legato da un giuramento di fedeltà alla monarchia.
Ma tutti seppero accantonare le differenze, anche le più profonde, per combattere insieme. I comunisti e i cattolici, i socialisti e i liberali, gli azionisti e i monarchici, di fronte a un dramma comune, scrissero, ciascuno per la loro parte, una grande pagina della nostra storia. Una pagina sulla quale si fonda la nostra Costituzione, sulla quale si fonda la nostra libertà. Fu nella stesura della Costituzione che la saggezza dei leader politici di allora, De Gasperi e Togliatti, Ruini e Terracini, Nenni, Pacciardi e Parri, riuscì ad incanalare verso un unico obiettivo le profonde divaricazioni di partenza. Benché frutto evidente di compromessi, la Costituzione repubblicana riuscì a conseguire due obiettivi nobili e fondamentali: garantire la libertà e creare le condizioni per uno sviluppo democratico del Paese. Non fu poco. Anzi, fu il miglior compromesso allora possibile. Fu però mancato l’obiettivo di creare una coscienza morale “comune” della nazione, un obiettivo forse prematuro per quei tempi, tanto che il valore prevalente fu per tutti l’antifascismo, ma non per tutti l’antitotalitarismo. Fu il portato della storia, un compromesso utile a scongiurare che la Guerra fredda che divideva verticalmente l’Italia non sfociasse in una guerra civile dagli esiti imprevedibili. Ma l’assunzione di responsabilità e il senso dello Stato che animarono tutti i leader politici di allora restano una grande lezione che sarebbe imperdonabile dimenticare. Oggi, 64 anni dopo il 25 aprile 1945 e a vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, il nostro compito, il compito di tutti, è quello di costruire finalmente un sentimento nazionale unitario.
Dobbiamo farlo tutti insieme, tutti insieme, quale che sia l’appartenenza politica, tutti insieme, per un nuovo inizio della nostra democrazia repubblicana, dove tutte le parti politiche si riconoscano nel valore più grande, la libertà, e nel suo nome si confrontino per il bene e nell’interesse di tutti. L’anniversario della riconquista della libertà è dunque l’occasione per riflettere sul passato, ma anche per riflettere sul presente e sull’avvenire dell’Italia. Se da oggi riusciremo a farlo insieme, avremo reso un grande servizio non a una parte politica o all’altra, ma al popolo italiano e, soprattutto, ai nostri figli che hanno il diritto di vivere in una democrazia finalmente pacificata. Noi abbiamo sempre respinto la tesi che il nostro avversario fosse il nostro nemico. Ce lo imponeva e ce lo impone la nostra religione della libertà. Con lo stesso spirito sono convinto che siano maturi i tempi perché la festa della Liberazione possa diventare la festa della Libertà, e possa togliere a questa ricorrenza il carattere di contrapposizione che la cultura rivoluzionaria le ha dato e che ancora “divide” piuttosto che “unire”. Lo dico con grande serenità, senza alcuna intenzione polemica. Il 25 aprile fu all’origine di una nuova stagione di democrazia e in democrazia il voto del popolo merita l’assoluto rispetto da parte di tutti. Il popolo, dopo il 25 aprile, votò pacificamente per la Repubblica, e la monarchia accettò il giudizio popolare. Poco dopo, il 18 aprile 1948, la scelta popolare fu di nuovo decisiva per il nostro Paese: con la vittoria di De Gasperi, il popolo italiano si riconobbe nella tradizione cristiana e liberale della sua storia. E gli anni Cinquanta, sempre con il sostegno del voto popolare, modellarono un’Italia come realtà democratica, economica e sociale. L’Italia divenne parte dell’Europa e dell’Occidente, fu tra i promotori dell’unità atlantica e dell’unità europea, diventò da Paese reietto un Paese rispettato.
Oggi i nostri giovani hanno davanti a loro altre sfide: difendere la libertà conquistata dai loro padri e ampliarla sempre di più, consapevoli come sono che senza libertà non vi può essere né pace, né giustizia, né benessere. Alcune di queste sfide sono planetarie e ci vedono impegnati a fianco dei Paesi liberi: la lotta contro il terrorismo, la lotta contro l’integralismo fanatico e liberticida, la lotta contro il razzismo, perché la libertà, la dignità e la pace sono un diritto di ogni essere umano, “ovunque” nel mondo. Ecco perché voglio qui ricordare i soldati italiani impegnati nelle missioni di pace all’estero, e in particolare tutti quelli che sono caduti nell’espletare questa nobile missione. C’è una continuità ideale fra loro e tutti gli eroi, italiani e alleati, che sacrificarono la loro vita più di 60 anni fa per ridarci la libertà nella sicurezza e nella pace.
Oggi quell’insegnamento dei nostri padri assume un valore particolare: questo 25 aprile cade all’indomani della grande tragedia che ha colpito questa terra d’Abruzzo. Ancora una volta, di fronte all’emergenza e alla tragedia, gli italiani hanno saputo unirsi, hanno saputo superare le divergenze, sono riusciti a dimostrare di essere un grande popolo coeso nella generosità, nella solidarietà e nel coraggio. Guardando ai tanti italiani che si sono impegnati qui nell’opera di soccorso e di ricostruzione mi sento orgoglioso, ancora una volta, ancora di più, di essere italiano e di guidare questo meraviglioso Paese. Oggi Onna è per noi il simbolo della nostra Italia. Il terremoto che l’ha distrutta ci ricorda i giorni in cui fu l’invasore a distruggerla. Riedificarla vorrà dire ripetere il gesto della sua rinascita dopo la violenza nazista. Ed è proprio nei confronti degli eroi di allora e di oggi che noi tutti abbiamo una grande responsabilità: quella di mettere da parte ogni polemica, di guardare all’interesse della nazione, di tutelare il grande patrimonio di libertà che abbiamo ereditato dai nostri padri. Abbiamo, tutti insieme, la responsabilità e il dovere di costruire per tutti un futuro di prosperità, di sicurezza, di pace, e di libertà. Viva l’Italia! Viva la Repubblica! Viva il 25 aprile, la festa di tutti gli italiani, che amano la libertà e vogliono restare liberi! Viva il 25 aprile la festa della riconquistata libertà!
PER L’ORA DI RELIGIONE, VIA ALLA GUERRA: "DIO E’ CON NOI"!!! IN ITALIA, 0GGI E’ IL 25 APRILE 2009 - IN VATICANO E’ DI NUOVO IL 1929. A ROMA, COME A BERLINO, E’ ORA DI LANCIARE UN "KULTURKAMPF". Articoli sull’argomento ....
Il Papa ha voluto riaffermarlo oggi nel modo più solenne, concludendo in Vaticano il Meeting degli insegnati di religione promosso dalla Cei, che era stato aperto giovedì scorso dal cardinal Angelo Bagnasco e dal ministro dell’istruzione Maria Stella Gelmini.