Caso Consulta, lite Di Pietro-Bondi
Scontro in Aula alla Camera sulla cena
tra il Cavaliere, Alfano e due giudici
Lettera aperta di Mazzella al premier
«Caro presidente, ti inviterò ancora»
ROMA Lite in Aula alla Camera sulla cena a casa del giudice costituzionale Luigi Mazzella cui hanno partecipato il premier Silvio Berlusconi, il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, e un altro giudice costituzionale Paolo Maria Napolitano. A perdere la calma è il ministro dei Beni Culturali, Sandro Bondi, che, spazientito dalle parole del leader Idv Antonio Di Pietro, lo attacca: «È solo lei che infanga l’Italia, si vergogni!». Tutto comincia con la risposta del governo ad una interrogazione dell’ex pm che chiede «per quale ragione avete organizzato e realizzato quella cena» e, rivolto al Guardasigilli, «se non ritenga doveroso a questo punto ed ora che la tresca è stata scoperta dimettersi dal suo incarico per restituire dignità al suo ufficio e a quello della Corte costituzionale» chiamata a decidere sulla costituzionalità del Lodo Alfano.
Il ministro per i rapporti con il Parlamento, Elio Vito, spiega che nel corso di quella cena non si è parlato della legge che stabilisce la sospensione dei processi per le prime quattro cariche dello Stato ma al leader dell’Idv non basta. «Con il vostro concorso e con il concorso di quei due giudici spregiudicati - attacca l’ex pm - voi avete infangato la sacralità della Corte ed oggi, noi che abbiamo a cuore la sua imparzialità e la sua indipendenza, la vediamo totalmente minata. Ora non sapremo mai se qualsiasi decisione sarà presa il 6 ottobre sarà frutto di una valutazione assunta in totale indipendenza o se invece sarà il frutto di una cena carbonara e piduista realizzata quella sera». Il primo ad alzare la voce, secondo quanto riportato dallo stenografico della seduta, è il deputato del Pdl Salvatore Cicu che si rivolge alla presidenza: «Come si può permettere di usare questi termini!». E quando l’ex pm chiede le dimissioni di Alfano e dei due giudici costituzionali Roberto Tortoli sbotta: «Sei l’unico reo confesso qua dentro!». Quindi, nel sentire il leader dell’Idv che attacca il governo per aver «infangato la Corte costituzionale e le valutazioni che dovrà svolgere», anche il placido Ministro Bondi perde la pazienza: «È solo lei che infanga l’Italia, si vergogni!». A difendere Di Pietro è il capogruppo Idv in commissione Giustizia, Federico Palomba: «Presidente, il Governo non si deve permettere di minacciare i deputati...».
E intanto il giudice della Corte Costituzionale, Luigi Mazzella scrive una lettera al Cavaliere: «Caro presidente, caro Silvio...». È questo l’incipit della lettera aperta al premier con cui il giudice Mazzella garantisce all’ «amico di vecchia data» che la cena a casa sua, contestata dal Pd e dall’Idv, non è stata la prima e «non sarà certo l’ultima fino al momento in cui - scrive - un nuovo totalitarismo malauguratamente dovesse privarci delle nostre libertà personali». Mazzella esprime una certezza: «L’amore per la libertà e la fiducia nell’intelligenza e nella grande civiltà degli italiani che entrambi nutriamo ci consente di guardare alla barbarie di cui siamo fatti oggetto in questi giorni con sereno distacco».
Ecco il testo integrale della lettera aperta di Mazzella a Berlusconi.
«Caro Presidente, caro Silvio, ti scrivo una lettera aperta perchè cominciando seriamente a dubitare del fatto che le pratiche dell’Ovra (la polizia segreta fascista, ndr) siano definitivamente cessate con la caduta del fascismo, non voglio cadere nel tranello di essere accusato, da parte di chi necessariamente ne ignorerà il contenuto, di averti inviato una missiva ’carbonara e piduistà, secondo il colorito linguaggio di un parlamentare. Ritenevo in buona fede di essere un uomo libero in un Paese ancora libero e di avere il diritto ’umanò di invitare a casa mia un amico di vecchia data quale tu sei». «Ho sempre intrattenuto con te - scrive Mazzella - rapporti di grande civiltà e di reciproca e rispettosa stima. Vederti in compagnia di persone a me altrettanto care e conversare tutti assieme in tranquilla amicizia non mi era sembrato un misfatto. A casa mia, come tu sai per vecchia consuetudine, la cena è sempre curata da una domestica fidata (e basta!). Non vi sono cioè possibili ’spionì, come li avrebbe definiti Totò. Chi abbia potuto raccontare un fantasioso contenuto delle nostre conversazioni a tavola inventandosi tutto di sana pianta - è sottolineato nella lettera - resta un mistero che i grandi inquisitori del nostro Paese dovrebbero approfondire prima di lanciare accuse e anatemi. La libertà di cronaca è una cosa, la licenza di raccontare frottole ad ignari lettori è ben altra! Soprattutto quando il fine non è proprio nobile».
«Caro Silvio, a parte il fatto che non era quella la prima volta che venivi a casa mia e che non sarà certo l’ultima fino al momento in cui un nuovo totalitarismo malauguratamente dovesse privarci delle nostre libertà personali, mi sembra doveroso dirti per correttezza che la prassi delle cene con persone di riguardo in casa di persone perbene non è stata certo inaugurata da me ma ha lunga data nella storia civile del nostro Paese. Molti miei attuali ed emeriti colleghi della Corte Costituzionale hanno sempre ricevuto nelle loro case, come è giusto che sia, alte personalità dello Stato e potrei fartene un elenco chilometrico». «Caro presidente - conclude la lettera -, l’amore per la libertà e la fiducia nella intelligenza e nella grande civiltà degli italiani che entrambi nutriamo ci consente di guardare alla barbarie di cui siamo fatti oggetto in questi giorni con sereno distacco. L’Italia continuerà ad essere, ne sono sicuro, il Paese civile in cui una persona perbene potrà invitare alla sua tavola un amico stimato. Con questa fiducia, un caro saluto».
A pranzo coi giudici: oltraggio alla Corte
Il giudice nel dire «io pranzo con chi voglio» ci comunica che fa parte della sua storia frequentare il premier quando vuole
di Furio Colombo (l’Unità, 05.07.2009)
Hanno avuto ragione i Radicali, che da anni denunciano un Paese fuori dalla legalità, hanno dimostrato incroci e rapporti contro natura (la natura costituzionale) tra istituzioni dello Stato e hanno chiesto al Paese una rivoluzione, ovvero una stagione straordinaria di impegno politico, non per cambiare il mondo ma per tornare alla normalità legale, morale e politica. Per esempio la Corte Costituzionale. Due giudici della suprema Corte vanno a pranzo con gli “imputati”, ovvero il Presidente del Consiglio e il ministro della Giustizia il cui “lodo” (il lodo Alfano che esime Berlusconi da qualunque processo) potrebbe essere dichiarato incostituzionale dalla Suprema Corte e dunque sparire. È avvenuto che alcuni nervi della massima istituzione di garanzia del Paese sono stati messi fuori uso. Penso all’Honduras. Se vi sbarazzate per un momento della parte teatrale e primitiva del golpe honduregno (soldati, carri armati, coprifuoco) notate subito che vi sono somiglianze fra i due eventi. In Honduras si rimuove il presidente della Repubblica sostituito dal Presidente della Camera, e si dispongono i soldati a guardia del nuovo ordine. In Italia si rimuove la credibilità e la dignità della Suprema Corte attraverso due giudici che, a quanto pare, si sono prestati.
Non solo. ma hanno rivendicato come un diritto ciò che hanno fatto. Ognuno dei due giudici che si sono deliberatamente seduti a tavola con il ministro della Giustizia e con il capo dell’esecutivo, ha, infatti, scritto una lettera pubblica. Il giudice Mazzella si è rivolto al presidente del Consiglio con cui è stato a tavola con queste parole: «Caro Presidente, caro Silvio». La lettera è un proclama di presa di possesso dell’intero territorio che dovrebbe separare il governo dalla Corte Suprema. Il gesto consegna la Corte Nelle mani dell’uomo di potere che ha tutto da temere dalla Corte se essa resta integra e indipendente.
Il secondo giudice, Paolo Maria Napolitano, scrive al Corriere della Sera con toni di scontro senza quartiere: «Il furore dell’attacco denigratorio (la semplice pubblicazione della notizia, ndr) necessita di una immediata risposta e non consente di attendere i tempi dei nostri procedimenti giudiziari... La brutale campagna di aggressione determinerebbe il convincimento che è in atto un tentativo per condizionare la Corte nella sua futura attività intimidendo alcuni suoi componenti». È interessante qui notare il rovesciamento, deliberatamente pubblico, dei ruoli. Si definisce “intimidito” il giudice seduto accanto alla parte che deve essere giudicata e che detiene tutto il potere. E l’intimidazione verrebbe da chi difende i giudici non seduti accanto al potere esecutivo (che è anche un immenso potere economico).
Il giudice Napolitano non ha difficoltà a scrivere, con lo stesso proposito di mettersi, come il collega, di guardia al terreno conquistato (aggancio della Corte al potere esecutivo) e lo presidia con questa ferma dichiarazione: «Il presidente del Consiglio non è soggetto ad alcun tipo di giudizio da parte della Corte. Il cosiddetto lodo Alfano è una delle tante questioni che la Corte affronta, non certo la più importante. I costituenti hanno voluto che nella Corte confluissero giudici di diversa nomina, ciascuno con la propria storia, la propria sensibilità giuridica, le proprie personali conoscenze».
Dunque il giudice nel dire “io pranzo con chi voglio” ci comunica che fa parte della sua storia, ed è un suo privilegio, frequentare il presidente del Consiglio quando vuole. Ma - come si è detto - quel presidente del Consiglio è protetto, contro numerose imputazioni e processi, dal “cosiddetto” lodo Alfano che esime il Primo ministro da ogni procedimento giudiziario. E il “cosiddetto” lodo Alfano dovrà essere giudicato costituzionale o cancellato come incostituzionale dalla Suprema Corte.
Se incostituzionale, Berlusconi perde all’istante il suo scudo giudiziario e finisce sotto processo. Dunque la questione è piuttosto importante. Ed è importante il “pronunciamento” dei due giudici che compaiono in due scene. Nella prima si fanno cogliere accanto alla persona che dalla sentenza della Corte ha tutto da perdere o tutto da guadagnare; nella seconda attaccano, da politici militanti, chiunque osi scandalizzarsi. La prima e la seconda scena confermano ciò che Pannella e i Radicali dicono da molti anni. Il Paese è in pericolo perché è fuori dalla legalità. Raramente però l’illegalità è apparsa così scoperta e in modo così teatrale, al punto da sembrare un avvertimento. Certo un passo nel vuoto, fuori dallo Stato di diritto.
Relazioni pericolose
di Massimo Villone (il manifesto, 02.07.2009)
Il fatto. In una sera di maggio si incontrano a cena due giudici costituzionali, il premier, il sottosegretario alla presidenza del consiglio, il ministro della giustizia, i presidenti delle commissioni affari costituzionali di camera e senato. Il luogo è la casa di uno dei giudici costituzionali. Si discute, tra l’altro, la prospettiva di una radicale riforma della giustizia, volta a ridisegnare in specie la figura del pubblico ministero, non più magistrato. Nei giorni successivi circola una bozza di riforma costituzionale in tal senso, si dice ispirata da uno dei giudici presenti alla cena. E tra non molto la corte deciderà sul lodo Alfano, che impedisce per la durata del mandato di sottoporre il presidente del consiglio a giudizio, o di proseguire i giudizi in corso. Di tutto, la stampa dà notizia.
Il diritto. Interpellato, il giudice ospitante risponde con parole sprezzanti che in casa sua invita chi gli pare. E comunque un giudice costituzionale incontra politici di ogni calibro e colore. Da ultimo, invia al presidente del consiglio una lettera aperta - come tale rivolta al popolo italiano - in cui ribadisce anzitutto il «diritto umano» di invitarlo a cena, e di vederlo «insieme a persone a me altrettanto care e conversare tutti insieme in tranquilla amicizia». Ovviamente, le notizie di stampa sono «frottole» raccontate a «ignari lettori». Il tutto condito con ampi riferimenti alla libertà e alla democrazia.
Tutti argomenti privi di sostanza.
Partiamo dai fondamentali. La corte costituzionale è il principale organo di garanzia del sistema. Deve essere - e mostrare di essere - assolutamente autonoma e indipendente. Di mestiere, la corte si contrappone al legislatore, quando valuta la conformità a Costituzione di una legge. Se la legge è recente, si contrappone anche alla maggioranza politica del momento. Da qui la necessità che nessuna contiguità ci sia o appaia tra i giudici e chi ha poteri formali o sostanziali nella formazione della legge. Anzitutto, i titolari - come il presidente del consiglio o un ministro - dell’iniziativa legislativa del governo. Ovvero i presidenti di commissione, che sono il braccio armato della maggioranza. Ancor più quando si discute di temi che direttamente toccano i potenti. Ed in specie quando liste bloccate e scelta oligarchica dei parlamentari rendono le assemblee legislative un obbediente parco buoi. Più è asservito il parlamento, più indipendente e autonoma deve essere la corte in difesa della Costituzione. E la notte della Repubblica che viviamo preclude a un custode della Costituzione - come la corte - opinioni e suggerimenti su eventuali e stravolgenti riforme della stessa Costituzione.
Né vale l’argomento che tra giudici e politici il contatto è inevitabile. Altro è se il giudice incontra il politico in una occasione istituzionale, o a casa di amici che hanno invitato entrambi. In tal caso il giudice si trova in una situazione che non ha contribuito a determinare, non avendo in alcun modo scelto i partecipanti. Nulla gli può essere imputato, ad esempio, se incontra il presidente del consiglio a un ricevimento del Quirinale.
Diversamente, nel caso di una cena a casa del giudice. L’argomento «a casa mia invito chi voglio» diventa decisivo. La libertà del domicilio rende la scelta dell’invitato rilevante: si potrebbe decidere di non invitarlo. Dunque si è responsabili della scelta degli invitati. Si risponde di una scelta per qualsiasi motivo inappropriata.
Chi può escludere che siano state scambiate assicurazioni sul futuro voto dei due giudici per il lodo Alfano? Non sfugge a nessuno che solo la sentenza della corte separa Berlusconi dalla ripresa dei processi a suo carico. Né sfugge che già la prima sentenza - quella sul lodo Schifani - non fu particolarmente incisiva sul principio di eguaglianza. Il voto di due giudici potrebbe alla fine determinare una maggioranza, e quindi la decisione della corte.
Stupisce che dell’accaduto si sia parlato - in fondo - poco. Qui non è questione di tregua per il G8. Non di bassa cucina si tratta, ma della salute delle istituzioni. E dov’è la torma di opinionisti e costituzionalisti veri o presunti che di norma intasa carta stampata e talk show? Conformismo e autocensura calano sul paese. Non si considera che l’etica pubblica pone parametri più stringenti di quelli giuridici. Non si vuole vedere che il privato dei potenti ha spesso un rilievo pubblico. E si richiama a sproposito la privacy, dimenticando che in paesi di più solida democrazia rispetto al nostro si ritiene che per le figure pubbliche debba prevalere l’informazione. Leggi in itinere apprestano bavagli per la stampa e la magistratura, quando le cronache dimostrano l’assoluto bisogno del contrario. Alla fine, accade in Italia quel che altrove sarebbe impensabile.
Per questi motivi la cena de qua, e la lettera che ad essa ha dato seguito, sono gravemente lesive del ruolo della corte costituzionale, e pericolose per la Repubblica.
Giudici costituzionali a cena col premier? ’Lo rifaremmo ancora’. E’ polemica *
Non si placa la polemica sulla vicenda dei due giudici costituzionali che a maggio, a pochi mesi dalla discussione della Consulta sul lodo Alfano, invitarono a cena il premier il ministro della giustizia e il presidente della commissione affari costituzionali Vizzini. Dopo le critiche, gli inviti ad astenersi dal caso espresse dal Pd e l’invito alle dimissioni dei giudici da parte di Di Pietro, ieri la vicenda si è arricchita di un nuovo capitolo. Il giudice Luigi Mazzella che materialmente organizzò l’incontro a casa sua, torna a difendere il suo operato scrivendo una lettera aperta al premier che ha poi diffuso alle agenzie.
«Caro presidente, caro Silvio la cena non è stata la prima e non sarà certo l’ultima fino al momento in cui - scrive - un nuovo totalitarismo malauguratamente dovesse privarci delle nostre libertà personali». Mazzella - in uno dei passaggi della missiva fatta avere all’Ansa - esprime una certezza: «l’amore per la libertà e la fiducia nell’intelligenza e nella grande civiltà degli italiani che entrambi nutriamo ci consente di guardare alla barbarie di cui siamo fatti oggetto in questi giorni con sereno distacco». Il giudice rincara la dose sostenendo che la polizia segreta fascista l’Ovra è evidentemente ancora all’opera e si lamenta che qualche spione abbia diffuso la notizia.
La lettera finisce per aggravare la vicenda. Anna Finocchiaro ha ribadito che la rivendicazione della cena è imbarazzante per i giudici e per la Corte, il Pd rinnova l’invito ad astenersi dal caso, Di Pietro ha attaccato in aula dove si è discusso di un’interrogazione parlamentare sul caso. Ne è uscito un parapiglia. Il governo, per bocca del ministro dei rapporti col parlamento Vito, ha detto che non c’è alcun problema visto che nella cena non si è parlato di Lodo Alfano e che l’invito fu fatto quando non si sapeva se e quando la Corte avrebbe affrontato l’argomento, Di Pietro non si è dichiarato soddisfatto e ha attaccato con parole pesanti. "Cena carbobara e piduista", ha detto il leader dell’Idv che vuole le dimissioni dei due giudici e del ministro. Bondi ha urlato a lungo "vergogna, vergogna". Certo è che la polemica monta e la Corte Costituzionale viene messa in difficoltà da due esponenti amici di Berlusconi proprio alla vigilia di una decisione che riguarda da vicino le vicende giudiziarie del premier
* l’Unità, 01 luglio 2009