PER IL "15O° ITALIA", COSTITUZIONALMENTE, FORMALMENTE E LEGALMENTE, RIPRENDERSI LA PAROLA: ITALIA, DALLE MANI DEL CAVALIERE DI "FORZA ITALIA", DEL PRESIDENTE DEL "POPOLO DELLA LIBERTA’"!!!
Per una patria diversa Lo storico ci invita a guardare ai problemi di oggi e al ruolo del nostro paese nel mondo moderno non solo attraverso i nostri occhi ma anche con quelli degli uomini e delle donne che lo hanno fatto
di Paul Ginsborg (l’Unità, 22.10.2010)
Nel gennaio 2009 sono diventato cittadino italiano. Faccio parte di un flusso costante di stranieri, circa 40.000, che ogni anno assumono la cittadinanza italiana. Non basta per fare dell’Italia un paese multiculturale, ma certo è un inizio. Alla cerimonia di conferimento della cittadinanza l’allora presidente del Consiglio comunale fiorentino, Eros Cruccolini, mi invitò a leggere ad alta voce due articoli della Costituzione e mi consegnò una bandiera italiana, la bandiera arcobaleno della pace e una copia della Costituzione italiana.
I miei amici in gran parte rimasero stupiti all’annuncio della mia naturalizzazione. «Ma chi te lo ha fatto fare, mi dicevano, e proprio ora, poi». Uno o due si affrettarono a sincerarsi che avessi avuto il buon senso di mantenere anche la cittadinanza britannica. Il commento più caustico è stato: «Beh Paul, almeno potrai dire assieme a tutti noi altri: «Mi vergogno di essere italiano»».
Mentirei se dicessi che queste reazioni mi hanno sorpreso. Vivo in Italia da quasi diciotto anni ormai, e da quaranta circa ne studio la storia, abbastanza per saper cogliere lo stato d’animo della sua gente. Ma la coralità dei commenti provenienti da persone spesso socialmente impegnate senza dubbio mi ha fatto riflettere. In quale altro paese al mondo i cittadini reagirebbero con altrettanto spregio di sé? Certo non i greci o i francesi, né gli americani o i britannici.
Quali consuetudini culturali profondamente radicate stanno alla base di questa reazione? Carlo Cattaneo, con la sua tipica lucidità e sottigliezza, propose una risposta a questo interrogativo scrivendo, nel 1839, di «quel vizio tutto italiano di dir male del suo paese quasi per una escandescenza di amor patrio». Ma è difficile accettare che sia il troppo amore per la patria il motivo della reazione all’unisono dei miei amici. A me pare piuttosto di leggervi una gran tristezza sulla condizione attuale del paese, accompagnata da una profonda rassegnazione. (...)
Complessivamente, (in Italia) esiste oggi un senso di insoddisfazione profondo quanto quello di duecento anni fa e forse più insidioso, poiché apparentemente induce passività più che protesta.
Partiamo dalle famiglie. (...) La vita famigliare contemporanea equivale a una vera e propria educazione a diventare «liberi cittadini», per dirla con Foscolo? Non credo. Sotto un certo profilo oggi i membri delle famiglie sono più liberi e godono di maggiori diritti rispetto al passato di fare scelte riguardanti la propria vita, di viaggiare, di votare alle elezioni. Sotto un profilo diverso sono intrappolati dai modelli di consumo e di egoismo imperanti che rischiano di essere più perniciosi di quelli del primo Ottocento. Le famiglie italiane hanno molte virtù la vicinanza emotiva, le forti solidarietà tra generazioni, la capacità profondamente radicata di godersi la vita -, tutte caratteristiche che chi viene dal Nord individualista e più freddo invidia. Ma hanno poche virtù civiche e il modello su cui oggi si basa la vita famigliare, quello del mercato globale, non contribuisce a rendere le famiglie italiane più consapevoli delle loro responsabilità complessive.
In tutto questo i meccanismi di trasmissione della cultura moderna hanno un ruolo cruciale. (...) La televisione, come è noto, è lo strumento culturale predominante in circa l’80 per cento delle case italiane. Non è un mezzo, bensì un soggetto, il più potente protagonista culturale della scena contemporanea. La televisione non è un male assoluto, come tentò di teorizzare Karl Popper negli ultimi anni della sua vita. Nella storia italiana essa ha avuto un ruolo essenziale nella diffusione di un’unica lingua nazionale e un senso di comunità nazionale. Ma quando il controllo della televisione è concentrato in pochissime mani e nel caso italiano quasi esclusivamente in due sole mani ben curate, allora è uno strumento profondamente insidioso. Scodella un pasto infinito di soap opera, calcio, varietà e reality show inesorabilmente condito da quantità industriali di spot pubblicitari, tutti orientati a rafforzare il modello «lavora e spendi» della vita quotidiana nel capitalismo consumista. La televisione nella sua forma attuale ci seduce e anestetizza tutti. (...)
IDEE PER CAMBIARE
Non c’è soluzione semplice a questo problema. Una volta ripudiata la violenza, che alternativa resta? Per rispondere a questo interrogativo devo ricorrere ad altre virtù sociali, benché esiterei a classificarle come deboli o forti. Una è la costanza la capacità di non abbandonare una lotta che ha tempi lunghi. L’altra è la creatività, così che nonostante la limitatezza della gamma di azioni possibili, la loro forma possa essere reinventata continuamente.
Aggiungerei anche l’idea delle «riforme mobili», in sostituzione delle barricate mobili usate dai milanesi nelle strade della loro città contro le truppe del maresciallo Radetzky. Non si tratterebbe di «riforme» come quelle di cui oggi si sente parlare la riforma pensionistica (ossia i tagli alle pensioni), la riforma dell’equilibrio dei poteri (ossia distruggerlo), la riforma della Costituzione (no comment).
Sarebbero invece riforme che coinvolgono i cittadini stessi in una dinamica di decision making che parte dal basso verso l’alto, come Cattaneo ha sempre auspicato. Idealmente, le «riforme mobili» sono quelle che, strada facendo, portano la gente a interessarsi alla politica, ad autorganizzarsi, a prendere parte continuativa nel processo riformatore. In questo schema gli individui non sono solo i destinatari passivi delle politiche che discendono dall’alto, ma diventano rapidamente cittadini attivi, critici e dissenzienti.
Un’idea simile porterebbe al capovolgimento della politica come la conosciamo ora, perché imporrerebbe ai politici di diffondere il potere, invece di concentrarlo. Il concetto delle «riforme mobili» può essere applicato a molte sfere diverse all’ambiente con la raccolta differenziata, il risparmio energetico e altre misure che partono dalle famiglie stesse, alle politiche partecipative con la creazione di veri forum dei cittadini (non quelli fasulli della «consultazione»). In questa dinamica, assimilabile forse a una palla di neve che, in movimento, guadagna sempre più volume, il fine non giustifica i mezzi. Piuttosto i mezzi diventano essi stessi parte del fine.
© Einaudi
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Il partito della salvezza
di Angelo D’Orsi (il Fatto Quotidiano, 07.01.2011)
Il 2 giugno scorso redassi un manifesto che cominciava con queste parole: “L’Italia è molto oltre la crisi di nervi. L’Italia che festeggia oggi la nascita della Repubblica - uno dei pochi momenti della sua storia in cui il popolo è stato sovrano, attuando una rivoluzione istituzionale, che si legava al “vento del Nord”, la grande speranza suscitata dalla Resistenza - si trova a fronteggiare, quasi inerte, una crisi drammatica”.
La crisi cui alludevo non riguardava soltanto l’economia, o le istituzioni, o l’informazione: la crisi era - ed è, tanto più oggi, a sei mesi di distanza - una crisi di sistema. Siamo nel pieno di una decadenza morale e intellettuale, politica e antropologica degli italiani. Come gli eventi del 14 dicembre - tra il Parlamento e la piazza - hanno dimostrato, noi italiani, come in altre stagioni della storia, ci troviamo in una situazione di contrapposizione radicale. Lo scontro è durissimo, e grazie alla prepotenza del tiranno - forte del suo strapotere finanziario e mediatico - si acuisce settimana dopo settimana.
Chi mette in dubbio il valore dell’Unità
NESSUNA CERTEZZA ci è rimasta; basti dire, che mentre ci accingiamo a celebrare i 150 anni di esistenza dello Stato unitario, una forza politica la mette sotto accusa, quasi fosse uno dei grandi mali del Paese, negandone provocatoriamente il valore storico e il significato politico. La Sinistra è spappolata e tenta in qualche modo di raccogliere le sparse membra per rilanciarsi, ma l’impresa appare difficilissima. Le forze di opposizione sono esitanti, e nel momento del redde rationem hanno rivelato la loro debolezza, mostrando quanto grande sia lo spazio tra le dichiarazioni e l’azione: il tycoon a capo del governo, in grado di comprare non soltanto i voti, ma l’anima dei suoi avversari, ride, ride, non cessa di ridere, mentre continua la sua campagna acquisti. Se vi è chi riesce a comprare è perché esiste un mercato sul quale si possono reperire uomini e donne in vendita.
Si è sostenuto sovente che il trasformismo è uno dei mali d’Italia; ma qui si tratta d’altro: qui siamo all’infamia, che mostra la pochezza di un’intera classe politica e l’impotenza delle istituzioni, la complicità di una parte dei media; qui siamo alla vendita e acquisto dei voti in Parlamento. In passato e ancora oggi, specie nel Mezzogiorno, certi personaggi politici facevano campagna elettorale col pacco di pasta o con le mille lire tagliate a metà. Ora la compravendita è giunta in Parlamento, gettando ignominia su quel consesso, ma anche su quei partiti che hanno accolto nelle loro file individui non spregevoli, ma spregevolissimi.
Ennesimo, certo non ultimo segnale di un degrado ogni giorno più evidente e pericoloso, che dalle istituzioni giunge ai singoli e viceversa. Il catalogo è lungo, tra inefficienze e nefandezze, menzogne e sprechi, iniquità sociali e bassezze morali. Quanto c’è dell’oggi, legato essenzialmente alla figura malefica del Cavaliere e quanto dei nostri ieri nella politica messa in atto da un gigantesco “Partito della Devastazione”? Da dove giungono le miserie odierne? In tal senso giunge opportuno il bel libretto di Paul Ginsborg, lo studioso inglese che da poco ha ottenuto la cittadinanza italiana (pur conservando - e fa bene! - la sua d’origine): Salvare l’Italia (Einaudi) si intitola, significativamente. Un titolo che suona classico, stentoreo, ma non retorico: e io condivido il messaggio che esso contiene e che evoca grandi spiriti, da Cattaneo a Rosselli, da Pisacane a Gramsci. Oggi si tratta di tentare, precisamente, di opporre un ideale “Partito della Salvezza” al partito in atto “della Devastazione”.
Ginsborg, con arguzia e ricca informazione, ripercorre molti fili della storia di questo sfortunato Paese, sovente connettendoli a una trama europea. Salvare l’Italia da quali pericoli? - si chiede. Sono quattro: 1) “Una Chiesa troppo forte in uno Stato troppodebole”; 2) il clientelismo, mai debellato e anzi mai affrontato seriamente come un male cronico, gravissimo; 3) “la ricorrenza della forma dittatura”; 4) la “povertà delle sinistre”.
Il raffronto tra il duce e Berlusconi
LA VICENDA della formazione unitaria, i limiti del Risorgimento, gli errori e le miopie delle classi politiche che si sono succedute nel corso di un secolo e mezzo; le timidezze delle forze di una sinistra che pare aver rinunciato alla “bellezza della lotta”, che costituisce un elemento di fondo del suo background.
Particolarmente stimolante il raffronto, tra Mussolini e Berlusconi, enumerando somiglianze e differenze; certo, nota Ginsborg, questo raffronto che fino a qualche tempo fa suscitava riprovazione e quasi scandalo, oggi sta diventando quasi un esercizio obbligato: troppi i punti di contatto, anche nella distanza temporale e nella mutata temperie storica. Ginsborg prova anche - esercizio da lui, come da altri studiosi, già compiuto nel saggio intitolato proprio a Berlusconi (Einaudi, 2003) - a sondare le ragioni del successo di questo falso modernizzatore, che seduce le casalinghe avvinghiate al televisore che ogni sera racconta inesistenti famiglie felici, imprenditori capaci, giovani di successo, donne belle e fortunate...
A questa Italia passiva e plaudente al sorriso del Cav, che la modella e a sua volta la rispecchia, il nostro nuovo concittadino Paul oppone un’altra Italia: una “nazione mite” ma combattiva, che riscopra la politica dal basso, che sia quasi una guerriglia autenticamente democratica, una Italia di cittadini attivi e non più passivi e inerti. Il Risorgimento, non da prendersi come modello alla lettera, offre buoni spunti in tal senso. E in fondo, come ho scritto io stesso su questo giornale, oggi “non possiamo non dirci garibaldini”.
L’avventura presidenzialista
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 25.10.2010)
La fuga presidenzialista, come Massimo Giannini l’ha definita, è per ora una fuga verso le ombre di un domani incerto e avventuroso. Il discredito seminato a piene mani sui riti della politica del passato e il peso dei suoi fallimenti alimentano da tempo un confuso desiderio di cambiamento: quello generazionale, per esempio. Più giovani ci vogliono, dice la vulgata giovanilista dei partiti, che non si pongono però il problema di come ringiovanire e rinvigorire la loro proposta politica. E intanto si scatena la fantasia sulle forme di svecchiamento delle istituzioni.
Per esempio, quello che si muove intorno alla riforma della giustizia è uno strano insieme dove ricompare in nuova veste e da destra l’accusa alla «giustizia di classe» di sessantottesca memoria oggi diventata ripulsa e rivolta interclassista contro ogni forma di vecchiume togato e privilegiato, nutrita dell’insoddisfazione generale per le lentezze dei riti giudiziari. E una massiccia campagna di disinformazione impedisce ai più di cogliere il fatto che questi umori diffusi vengono dirottati nel vicolo della protezione di un uomo in fuga dalla giustizia, pronto a stravolgere l’ordinamento del paese per i suoi fini personali.
Ma intanto il percorso battuto dal partito del premier è costretto dalla forza delle cose a seguire una logica eversiva del sistema costituzionale italiano: una logica che in forme nuove ripropone un meccanismo di capovolgimento dell’assetto democratico del paese di cui conosciamo un precedente importante. Proprio in questi giorni giunge in libreria un prezioso libretto dove un grande esperto dei problemi dello Stato come Sabino Cassese ha raccolto le sue lezioni agli studenti della Scuola Normale di Pisa su Lo Stato fascista (Il Mulino, Bologna).
L’analisi di Cassese è dedicata alle forme elaborate dal fascismo evitando ogni definizione astratta - regime totalitario? autoritario? corporativo? È un avvertimento da seguire. Non si tratta di definire o di catalogare niente, né il fascismo di ieri né il regime berlusconiano. È la logica istituzionale che si deve cercare di capire. E le forme analizzate da Cassese ci dicono qualcosa sul modo in cui il regime di Mussolini si inserì nella evoluzione dello stato liberale, ne riutilizzò abbondantemente i materiali, dette vita a un modello di concentrazione del potere che però si aprì anche a forme di pluralizzazione.
La scansione delle tappe di quella costruzione, che fu efficiente e funzionò a suo modo per un ventennio, ci pone davanti alle tappe successive di una legge che dette un premio di maggioranza assoluta a chi raggiungeva il 25% dei suffragi (legge Acerbo); di una trasformazione successiva del regime maggioritario in regime plebiscitario; della metamorfosi della Camera elettiva diventata una rappresentanza organica e rappresentativa ma non elettiva. L’identificazione del partito con lo stato si avvalse del rifiuto del conflitto politico come malattia da eliminare. Agli inizi di questo percorso troviamo una legge del 1925 che «mise il Presidente del Consiglio dei Ministri su un livello superiore ai ministri, nel nuovo ruolo di primo ministro e di capo del governo».
Potremmo seguire ancora l’analisi asciutta e illuminante di Cassese. Ma fermiamoci qui a riflettere sulla revisione costituzionale verso la quale si sta marciando a tappe forzate. Essa porterebbe alla affermazione di un «premierato elettivo». Sfruttando l’impulso demagogico (o meglio l’astuzia eversiva) di inserire il nome di Berlusconi nella scheda elettorale si è dato corpo all’idea erronea di una elezione diretta del presidente del Consiglio da parte del popolo.
Oggi ci si dice che all’«eletto del popolo» spetterebbe non solo la copertura del lodo Alfano ma anche il potere di impedire al presidente della Repubblica di affidare l’incarico di formare il governo a chiunque altro che non sia stato consacrato dalla plebiscitaria elezione popolare. In un colpo solo ritroveremmo dunque quella «personalizzazione istituzionalizzata del potere» che fu il carattere distintivo del regime mussoliniano. E queste considerazioni si fanno - deve essere chiaro - non per esorcizzare la minaccia con l’uso della parola «fascismo» come manganello terminologico, ma perché l’esperienza del passato va tenuta presente. Quando l’incertezza del futuro assetto del paese ci prende alla gola con un’ansia che non avremmo mai immaginato di dover provare, bisogna saper ricorrere agli strumenti della scienza, quella storiografica unita a quella delle scienze sociali e giuridico-istituzionali, per fendere la nebbia che ci circonda.