di Roberto Saviano (la Repubblica, 13.05.2009)
Chi racconta che l’arrivo dei migranti sui barconi porta valanghe di criminali, chi racconta che incrementa violenza e degrado, sta dimenticando forse due episodi recentissimi ed estremamente significativi, che sono entrati nella storia della nostra Repubblica. Le due più importanti rivolte spontanee contro le mafie, in Italia, non sono partite da italiani ma da africani. In dieci anni è successo soltanto due volte che vi fossero, sull’onda dello sdegno e della fine della sopportazione, manifestazioni di piazza non organizzate da associazioni, sindacati, senza pullman e partiti. . Manifestazioni spontanee. E sono stati africani a farle.
Castelvolturno, il 19 settembre 2008, dopo la strage a opera della camorra in cui vengono uccisi sei immigrati africani. Le vittime sono tutte giovanissime, il più anziano tra loro ha poco più di trent’anni, sale la rabbia e scoppia una rivolta davanti al luogo del massacro. La rivolta fa arrivare telecamere da ogni parte del mondo e le immagini che vengono trasmesse sono quelle di un intero popolo che ferma tutto per chiedere attenzione e giustizia. Nei sei mesi precedenti, la camorra aveva ucciso un numero impressionante di innocenti italiani. Ma nulla. Nessuna protesta. Nessuna rimostranza. Nessun italiano scende in strada. I pochi indignati, e tutti confinati sul piano locale, si sentono sempre più soli e senza forze.
Ma questa solitudine finalmente si rompe quando, la mattina del 19, centinaia e centinaia di donne e uomini africani occupano le strade e gridano in faccia agli italiani la loro indignazione. Succedono incidenti. Il giorno dopo, gli africani, si faranno carico loro stessi di riparare ai danni provocati. L’obiettivo era attirare attenzione e dire: "Non osate mai più". Contro poche persone si può ogni tipo di violenza, ma contro un intera popolazione schierata, no.
E poi a Rosarno. In provincia di Reggio Calabria, uno dei tanti paesini del Sud Italia a economia prevalentemente agricola che sembrano marchiati da un sottosviluppo cronico e le cui cosche, in questo caso le ’ndrine, fatturano cifre paragonabili al Pil del paese. La cosca Pesce-Bellocco di Rosarno aveva deciso di riciclare il danaro della coca nell’edilizia in Belgio, a Bruxelles, dove per la presenza delle attività del Parlamento Europeo le case stavano vertiginosamente aumentando di prezzo.
L’egemonia sul territorio è totale, ma il 12 dicembre 2008, due lavoratori ivoriani vengono feriti, uno dei due è in gravissime condizioni. La sera stessa, centinaia di stranieri - anche loro, come i ragazzi feriti, impiegati e sfruttati nei campi - si radunano per protestare. I politici intervengono, fanno promesse, ma da allora poco è cambiato.
Inaspettatamente, però, il 14 di dicembre, ovvero a due soli giorni dall’aggressione, il colpevole viene arrestato e il movente risulta essere violenza a scopo estorsivo nei riguardi della comunità degli africani. La popolazione in piazza a Rosarno, contro la presenza della ’ndrangheta che domina come per diritto naturale, non era mai accaduto negli anni precedenti.
Eppure, proprio in quel paese, una parte della società, storicamente, aveva sempre avuto il coraggio di resistere. Ne fu esempio Peppe Valarioti, che in piazza disse: «Non ci piegheremo», riferendosi al caso in cui avesse vinto le elezioni comunali. E quando accadde fu ucciso. Dopo di allora il silenzio è calato nelle strade calabresi. Nessuno si ribella. Solo gli africani lo fanno. E facendolo difendono la cittadinanza per tutti i calabresi, per tutti gli italiani.
Per il pubblico internazionale risulta davvero difficile spiegarsi questo generale senso di criminalizzazione verso i migranti. Fatto poi da un paese, l’Italia, che ha esportato mafia in ogni angolo della terra. Che hanno fatto sviluppare il commercio della coca in Sudamerica con i loro investimenti, che hanno messo a punto, con le cinque famiglie mafiose italiane newyorkesi, una sorta di educazione mafiosa all’estero.
Oggi, come le indagini dell’Fbi e della Dea dimostrano, chiunque voglia fare attività economico-criminali a New York che siano kosovari o giamaicani, georgiani o indiani devono necessariamente mediare con le famiglie italiane, che hanno perso prestigio ma non rispetto. Le mafie straniere in Italia ci sono e sono fortissime ma sono alleate di quelle italiane. Non esiste loro potere senza il consenso e la speculazione dei gruppi italiani. Basta leggere le inchieste per capire come arrivano i boss stranieri in Italia. Arrivano in aereo da Lagos o da Leopoli. Dalla Nigeria, dall’Ucraina dalla Bielorussia.
Le inchieste più importanti come quella denominata Linus e fatta dai pm Giovanni Conzo e Paolo Itri della Procura di Napoli sulla mafia nigeriana dimostrano che i narcos nigeriani non arrivano sui barconi ma per aereo. Persino i disperati che per pagarsi un viaggio e avere liquidità appena atterrano trasportano in pancia ovuli di coca. Anche loro non arrivano sui barconi. Mai.
Quando si generalizza, si fa il favore delle mafie. Loro vivono di questa generalizzazione. Vogliono essere gli unici partner. Se tutti gli immigrati diventano criminali, le bande criminali riusciranno a sentirsi come i loro rappresentanti e non ci sarà documento o arrivo che non sia gestito da loro. La mafia ucraina monopolizza il mercato delle badanti e degli operai edili, i nigeriani della prostituzione e della distribuzione della coca, i bulgari dell’eroina, i furti di auto di romeni e moldavi. Ma questi sono una parte minuscola delle loro comunità e sono allevate dalla criminalità italiana.
Avere un atteggiamento di chiusura e criminalizzazione aiuta le organizzazioni mafiose perché si costringe ogni migrante a relazionarsi alle mafie se da loro soltanto dipendono i documenti, le abitazioni, persino gli annunci sui giornali e l’assistenza legale. E non si tratta di interpretare il ruolo delle "anime belle", come direbbe qualcuno, ma di analizzare come le mafie italiane sfruttino ogni debolezza delle comunità migranti. Meno queste vengono protette dallo Stato, più divengono a loro disposizione.
Il paese in cui è bello riconoscersi - insegna Altiero Spinelli padre del pensiero europeo - è quello fatto di comportamenti non di monumenti. Io so che quella parte d’Italia che si è in questi anni comportata capendo e accogliendo, è quella parte che vede nei migranti nuove speranze e nuove forze per cambiare ciò che qui non siamo riusciti a mutare. L’Italia in cui è bello riconoscersi e che porta in sé la memoria delle persecuzioni dei propri migranti e non permetterà che questo riaccada sulla propria terra.
2009 by Roberto Saviano
Published by arrangement with Roberto Santachiara -Literary Agency
di Conchita De Gregorio (l’Unità, 12.05.2009)
Vorrei mettere in chiaro una cosa semplice. Non siamo «favorevoli all’immigrazione clandestina». Non credo che la destra voglia la sicurezza dei cittadini (italiani) e la sinistra invece desideri metterla a tremendo repentaglio accogliendo chiunque si affacci ai nostri confini, criminali in fuga compresi. Non è questione di essere buoni o cattivi, cattolici compassionevoli o atei cinici (si possono anche invertire gli attributi). Si tratta piuttosto di osservare le regole, i diritti umani e il diritto internazionale, se possibile il senso della storia e quel che ci ha insegnato.
Allora quindi, nel caso del diritto di asilo, si tratta di stipulare degli accordi coi paesi di provenienza - è un lavoro politico più faticoso e lungo del semplice esercizio della forza ai confini, è vero, ma è quel che ci si aspetta da un governo. Si tratta di riconoscere le persone: quelle che hanno il diritto d’asilo e quelle che non lo hanno. Di accogliere le prime e respingere le seconde. Si può fare, con l’Albania è stato fatto.
Si tratta, prima ancora, di mettersi seduti a scrivere una legge organica sul diritto d’asilo: l’Italia è uno dei pochissimi paesi che non l’abbia. Perché non impieghiamo il tempo e le energie a scriverla? È una proposta formale: lanciamo una sfida all’Europa che ci condanna. L’Italia è una delle porte di accesso al continente: i nostri confini sono i più accessibili dunque sono i confini di tutti.
Il nostro problema è il loro problema, risolviamolo insieme. Per farlo in modo credibile però bisogna che rispettiamo il diritto. Segnala Amnesty International, rapporto 2006: «Nonostante sia Stato parte della Convenzione delle Nazioni Unite sui rifugiati l’Italia non si è ancora dotata di una legge specifica e completa sul diritto di asilo». Facciamolo, no, ministro Maroni.
Due parole sul perché sia così importante. Thomas Hammarberg, commissario per i Diritti umani del Consiglio d’Europa, ha detto che l’azione dell’Italia «mina la possibilità per ogni essere umano di fuggire da repressione e violenza ricorrendo al diritto d’asilo».
Il diritto d’asilo è previsto dall’articolo 10 della nostra Costituzione. «Lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana ha diritto d’asilo nel territorio della repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge».
Perché abbiamo questa norma nella Carta? Perché è stata scritta che erano passati poco più di due anni dalla caduta del fascismo e dalla fine della guerra. Vediamo i nomi di alcuni di quelli che la scrissero. Giorgio Amendola, Giuseppe Di Vittorio, Emilio Lussu, Sandro Pertini, Leo Valiani: tutti costoro, durante il fascismo, trovarono asilo politico in Francia o in Inghilterra. È molto apprezzabile che una serie di personalità della destra, ultimo Alemanno, condannino ora il regime. Le condanne però è meglio esprimerle durante, non 60 anni dopo.
Potremmo esercitarci ad immaginare che ogni immigrato che chiede asilo politico sia il Pertini del suo paese. C’è purtroppo quel problema. La Costituzione inattuata.
Allora quando siamo censurati dall’Europa anziché replicare come Malta («Siamo piccoli») proviamo a rispondere con l’esercizio del diritto e non della forza. La differenza con Malta è che l’Italia è un paese grande. Potrebbe essere un grande paese.
di Claudia Fusani (l’Unità, 12.05.2009)
Rigorosamente coperte dal segreto militare Nato esistono a Bruxelles presso gli archivi della Commissione europea centinaia di immagini che documentano una carneficina. Le hanno catturate i satelliti, testimoni rigorosi ed eloquenti della strage di innocenti in corso da anni, almeno quattro, nelle acque del canale di Sicilia e lungo le piste del deserto che dai paesi subsahariani arrivano in Libia. Le rotte dei disperati in fuga da malattie, carestie e persecuzioni e in cerca di una speranza di vita.
Fu Beppe Pisanu, nel 2006 ministro dell’Interno, il primo a denunciare quella documentazione: “Sono immagini agghiaccianti - disse - che tutto il mondo dovrebbe vedere». Vedere per capire. per cominciare a chiamare le cose col proprio nome. E smetterla con le ipocrisie dei respingimenti delle navi e la propaganda del porte chiuse ai clandestini.
Quelle immagini raccontano di decine. centinaia di cadaveri che galleggiano nelle acque del Mediterraneo. E, ancora di più, di cadaveri lungo il deserto. Mesi di marcia, arrivano solo i più forti, gli altri muoiono per strada.
E’ l’ora che quelle immagini diventino pubbliche. L’homo videns potrà così rendersi conto di cosa si parla quando si parla di clandestini in arrivo dalla Libia. Non solo statistiche. Sono anche cadaveri che prima sono stati uomini e donne. Per non dire mai, un giorno: «Non lo sapevo».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
COSTITUZIONE, LINGUA E PAROLA.....
In un incontro con il ministro Maroni l’Unhcr torna a bocciare i respingimenti dei clandestini
"Infrange il diritto internazionale sancito con la convenzione di Ginevra del 1951"
Migranti respinti, l’Onu all’Italia
"Ne sarete responsabili" *
ROMA - L’Onu insiste. L’Italia deve fermare i respingimenti degli immigrati in Libia. L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) torna a bocciare la linea del Viminale nei confronti dei clandestini che si avvicinano via mare perché infrange il diritto internazionale. E’ l’esito dell’incontro di oggi tra il rappresentante per l’Italia, Laurens Jolles, e il ministro dell’Interno Roberto Maroni.
L’incontro al Viminale. Nel corso dell’incontro, che per l’Unhcr è stato "caratterizzato da uno spirito costruttivo", l’alto commissariato "ha ribadito che la nuova politica inaugurata dal governo si pone in contrasto con il principio del non respingimento sancito dalla convenzione di Ginevra del 1951, che - si legge in una nota - trova applicazione anche in acque internazionali: questo fondamentale principio, che non conosce limitazione geografica, è contenuto anche nella normativa europea e nell’ordinamento giuridico italiano".
"Sospendere i respingimenti". Confermando che fra coloro che sono stati rinviati in Libia vi sono persone bisognose di protezione, l’Unhcr ha reiterato la richiesta al governo affinché "riammetta queste persone sul proprio territorio" sottolineando che, dal punto di vista del diritto internazionale, "l’Italia è responsabile per le conseguenze del respingimento: il rappresentante dell’Unhcr ha rivolto quindi un appello al governo affinché i respingimenti siano sospesi".
Fare le verifiche in Libia. In merito alla possibilità di vagliare in Libia le domande di asilo, l’Unhcr ha sottolineato che "non vi sono al momento le condizioni necessarie per svolgere tale attività". Nel corso dell’incontro si è anche discusso della possibilità di costituire un tavolo tecnico con le parti coinvolte e la partecipazione dell’Unione europea, per elaborare una strategia che miri a rafforzare lo spazio di protezione in Libia, compresa la ratifica da parte di questo Paese della convenzione di Ginevra del 1951.
Le cifre dell’Unhcr. Secondo i dati dell’Agenzia dell’Onu più del 70 per cento delle 31.200 domande d’asilo presentate nel 2008 in Italia provengono da persone sbarcate sulle coste meridionali del paese. Il 75 per cento circa dei 36.000 migranti sbarcati sulle coste italiane nel 2008 - due su tre - ha presentato domanda d’asilo, sul posto o successivamente, mentre il tasso di riconoscimento di una qualche forma di protezione (status di rifugiato o protezione sussidiaria oppure umanitaria) delle persone arrivate via mare è stato di circa il 50 per cento. Sempre l’anno scorso, infine, la maggior parte delle persone arrivate via mare che ha ottenuto protezione internazionale proviene da Somalia, Eritrea, Iraq, Afghanistan e Costa d’Avorio.
Frattini, "L’Italia non è isolata". Sul riaccompagnamento dei migranti che tentano di raggiungere le coste italiane è intervenuto anche il ministro degli Esteri, Franco Frattini. In un’intervista a Maurizio Belpietro per Panorama del giorno, su Canale 5 Frattini ha detto che il governo di Roma "non è isolato" e tutti "i respingimenti avvengono nell’interesse dell’intera Unione Europea" che "ha fatto meno del dovuto". "L’Italia non è affatto isolata. E quando l’Unione Europea parlerà dirà ciò che ha detto sempre, cioè che un paese come l’Italia opera attraverso i respingimenti nell’interesse dell’Ue", ha detto Frattini. "L’Unione Europea ha abolito le frontiere interne e l’80% dei migranti non rimane a Lampedusa ma migra verso nord". E’ per tutte queste ragioni che l’Italia "conta che ci sia un’azione decisa delle istituzione europee", tenendo presente che "il diritto dei rifugiati non sarà in alcun modo messo in discussione".
Bossi: con legge Maroni non c’è rischio razzismo. Riguardo alle preoccupazioni manifestate ieri dal presidente Giorgio Napolitano, il leader del Carroccio Umberto Bossi ha detto di non temere una deriva razzista dopo la legge Maroni sulla sicurezza. Parlando a un comizio elettorale a Scorzè (Venezia) Bossi ha sottolineato: "Napolitano che non deve temere chissà cosa dalla legge Maroni. Se non fosse passata allora sì poteva succedere qualsiasi cosa, anche il razzismo. Ma oggi la gente sa che lo Stato c’è, e quindi non c’è alcun rischio di razzismo, perché c’è un governo, ci sono forze politiche che fanno le leggi volute dal popolo". Il leader della Lega Nord ha ribadito con forza quindi che "non si faccia confusione: se non fosse passata la legge Maroni ci sarebbe stata una situazione più critica. Ma il mondo cambia usando criteri di legalità. E’ questa la vita che abbiamo seguito e che continueremo a seguire", ha concluso.
* la Repubblica, 15 maggio 2009
Il diritto alla vita
di Danilo Zolo (il manifesto, 14 maggio 2009)
Il parlamento italiano sta votando per trasformare i migranti irregolari in criminali. Il successo della maggioranza governativa agli ordini del suo seducente, ricchissimo sultano è scontato. Il ministro degli interni Roberto Maroni, che dell’idea è il grande ispiratore, spicca per il suo egocentrismo xenofobo e per il suo cinismo intellettualmente misero oltre che moralmente deplorevole. E trionfa ancora una volta l’ottusità giuridica e la ferocia sociale dell’idea di sicurezza e di identità etnica che è propria del presidente del consiglio. Berlusconi, si sa, ama il prossimo suo come se stesso, soprattutto se si tratta di giovani donne. Nulla ormai ci può sorprendere nel contesto della deriva razzista e dell’indigenza intellettuale che sta travolgendo l’Italia.
Il tema da approfondire è però un altro: che senso ha proclamare a tutti i venti - come hanno fatto, fra i molti altri, il presidente della camera Fini e il pontefice romano - che l’Italia ha il dovere di rispettare il diritto di asilo politico dei migranti invece di respingerli tout court e di consegnarli alla Libia? Che senso ha chiedere all’Italia di attenersi alle Convenzioni di Ginevra se è vero che da tempo nessuno le rispetta, a cominciare dalle grandi potenze occidentali e dallo Stato di Israele? E che senso ha richiamarsi all’art. 10 della Costituzione italiana sul diritto di asilo se è una normativa, anche questa, che il governo può ignorare senza problemi, esattamente come ignora l’articolo 11 che imporrebbe all’Italia di non essere complice degli Stati uniti nella guerra di aggressione contro l’Afghanistan?
Anche l’autorevole giurista internazionalista, Antonio Cassese, in un suo intervento su Repubblica (12 maggio), non ha saputo fare altro che ripetere il refrain del diritto di asilo politico, per di più dopo aver sostenuto, erroneamente, che l’immigrazione clandestina sta aumentando a ritmi vertiginosi e che i flussi migratori incidono seriamente sul nostro mercato del lavoro. Come è noto, la spinta migratoria verso i paesi euromediterranei è in decrescita. Ed è altrettanto noto che circa il 10% della ricchezza prodotta nel nostro paese è frutto dell’attività di imprenditori e di lavoratori provenienti da paesi extracomunitari, con in testa nazioni come il Marocco, l’Albania, il Senegal, la Tunisia.
La questione cruciale è dunque molto diversa, se è vero che il diritto alla vita è il diritto fondamentale proclamato dalla Dichiarazione universale dei diritti umani nel 1948. È una verità difficile da negare, dopo i fiumi di retorica che ci hanno investito per la ricorrenza dei sessant’anni della Dichiarazione. Ma allora perché il diritto alla vita è ignorato dalle norme nazionali e internazionali che attribuiscono agli stranieri il diritto all’asilo politico? Ci sono aree del pianeta da dove centinaia di migliaia di persone partono abbandonando le loro famiglie, i loro affetti, le loro tradizioni, i loro universi simbolici, le loro credenze religiose, i loro canti. Non lo fanno, salvo rare eccezioni, perché sono alla ricerca delle «libertà democratiche» garantite dall’asilo politico dei paesi occidentali. Lo fanno perché muoiono di fame. Si calcola, ad esempio, che sono ormai quasi due milioni i migranti che da sud a nord attraversano i deserti africani, entrano in Libia superando i confini del Sudan e del Niger e convergono verso le coste del Mediterraneo. I deserti africani, inclusi quelli libici, sono ormai cosparsi di cadaveri, come lo è il fondo del Mediterraneo.
L’ampiezza del fenomeno migratorio non è semplicemente la conseguenza del carattere dispotico di molti regimi politici non occidentali, di sanguinose guerre civili o di condizioni generali di arretratezza civile, come si vuol far credere con la retorica dell’asilo politico. Le migrazioni sono strettamente legate alla crescente discriminazione «globale» fra i paesi ricchi e potenti, da una parte, e i paesi deboli e poverissimi dall’altra.
Al 20% più ricco della popolazione mondiale è destinata una quota di ricchezza almeno 160 volte superiore a quella del 20% più povero. E la differenza aumenta sempre più grazie alle decisioni arbitrarie e incontrollabili di soggetti internazionali dotati di grande potere economico-finanziario, politico e militare. Le cause della discriminazione globale sono, oltre alla povertà, le malattie epidemiche, l’assenza di acqua potabile, la devastazione dell’ambiente, le turbolenze ecologiche, il debito estero. Il fenomeno è particolarmente grave nei paesi «in via di sviluppo», come ha segnalato Luciano Gallino: in India, dal 1996 al 2007, si sono suicidati 250 mila contadini, perché oppressi dalla fame e dai debiti. Per loro nessun «diritto di asilo» ha operato e nessun pattugliamento del Mediterraneo è stato necessario.
Che cosa è possibile fare? Quali strategie, in particolare la sinistra europea, può adottare per far convivere i valori della cittadinanza democratica con l’apertura verso le altre culture e civiltà? Come fare del Mediterraneo uno spazio di cooperazione economica fra l’Europa e i paesi arabo-islamici? Come accogliere e ospitare i migranti senza sfruttarli, discriminarli e perseguitarli? Come controllare i flussi migratori in presenza di un’abissale, crescente differenza fra il mondo dei ricchi e il mondo dei poveri? Questi sono i problemi da affrontare se il diritto alla vita non è una ignobile impostura globale.
Di Pietro sprona gli intellettuali e chiama alla ’resistenza’: ’’Sveglia, l’olio di ricino è dietro l’angolo"
Il leader dell’Italia dei valori vuole il risveglio dell’Italia dal sonno berlusconiano: "C’è un’intellighenzia addormentata e incapace di reagire. Quando ci parlo cercando di coinvolgerli nel nostro progetto, incontro solo sufficienza, supponenza, strafottenza e pavoneggiamenti ". E invita all’adesione al suo partito: "Oggi mettersi con l’Idv è da coraggiosi"
Roma, 13 mag. (Adnkronos) - Antonio Di Pietro lavora alla "logistica della resistenza": convincere chi non vuole sottostare all’egemonia del "pensiero unico" a fare politica nell’Idv "a avere il coraggio di metterci la faccia" per risvegliare il Paese dal sonno berlusconiano. "Il rozzo, il villico, l’illetterato, il plebeo", quello che "studiava di notte per prendersi una laurea", ha spiegato in un convegno perche’ ha deciso di rivolgersi agli intellettuali, ai professori universitari, agli scienziati, convincendoli a candidarsi nell’Idv alle prossime europee.
Accanto a Di Pietro, oltre al professore e deputato Pancho Pardi, siedono il filosofo Gianni Vattimo, lo storico Nicola Tranfaglia, il drammaturgo e regista Giorgio Pressburger, l’antropologa e editrice Luisa Capelli, "gente -spiega il leader dell’Idv- che rappresenta quella parte del Paese che ha deciso di non arrendersi". Come accadde alla vigilia del ventennio mussoliniano, Di Pietro vede un’"intellighenzia addormentata e incapace di reagire", mentre "vedo gia’ avanzare l’olio di ricino".
Domina il pensiero unico imposto dalle tv berlusconiane e non. Per questo "l’Idv va alla ricerca di quella cultura libera che non si e’ ancora venduta. Oggi mettersi con l’Idv e’ da coraggiosi. I ’professori’ veri sono quelli che mettono a disposizione di tutti la loro cultura e il loro sapere. Io invece quando parlo con tanti intellettuali cercando di coinvolgerli nel nostro progetto, incontro solo sufficienza, supponenza, strafottenza e pavoneggiamenti. Gente che in sostanza ci dice: ’ma che volete? Riprendete il vostro carretto e toglietevi di mezzo’".
"I sondaggi -aggiunge il presidente dell’Idv- non li guardo perche’ non ho tempo di leggerli. Per questo non li faccio fare. Ma vedo in giro tanta gente, tanti mezzi d’informazione che li pubblicano, che si rammaricano perche’ l’Idv sta sempre li’, cresce, mentre tanti altri vanno indietro. Per questo dico alla cultura di darci una mano a fare un salto di qualita’. In un Paese normale un partito come il nostro, che lotta per la legalita’ e il rispetto delle leggi, non dovrebbe nemmeno esistere".
"Tutti i partiti dovrebbero avere a cuore questi valori e promuoverli ma invece non e’ cosi’. Non vedo l’ora di fare il passaggio di consegne: quando questi valori verranno rispettati mi faro’ da parte. Io -conclude Di Pietro- sono solo un mulo da soma che vuole riportare le persone che valgono, le persone competenti e di valore ai posti che spettano loro".
Retoriche disumane
di Marco Revelli (il manifesto, 13.05.2009)
Ormai è chiaro, la campagna elettorale il governo la fa così. Con l’ostentazione pubblicitaria dei respingimenti. Con l’evocazione impudica dell’apartheid. Con l’esibizione della durezza “senza se e senza ma” - anzi, con l’invito esplicito a essere “cattivi” - contro i migranti. Insomma, mettendo in gioco quella risorsa potentissima sul piano emotivo e pericolosissima su quello civile, costituita dalle “retoriche del disumano”. E spingendoci così sempre più giù su quel piano inclinato della civiltà e dei diritti lungo il quale ormai da anni, ma in fine velocior, l’Italia sta cadendo.
C’è dentro ognuno di noi, e nella coscienza collettiva, un confine impalpabile ma fondamentale, che distingue il modo di guardare l’Altro come “uno di noi” (diverso ma, almeno in qualcosa simile), o come una “natura estranea”. Appartenente a un altro “regno”: “animale”, “vegetale”, “minerale”. O semplicemente al Nulla. Le “retoriche del disumano” lavorano su quella linea di confine. La spostano “in qua”, riducendo l’area degli inclusi nella dimensione di “uomini” e allargando l’esercito dei “non-uomini”. Dei non-riconosciuti. Non degli “invisibili”, si badi. Bensì di coloro che si vedono ma non hanno importanza. Possono essere indifferentemente usati o abbandonati a se stessi. Accolti (se, e fin quando, servono) o respinti (come cose inutili o dannose). “Salvati” o “sommersi”, a seconda dell’interesse del momento.
Questo sta facendo il ministro dell’interno Maroni. Con la rozzezza che lo distingue. Ma anche con assoluta spregiudicatezza, spostando i confini della politica oltre un limite mai varcato finora, per lo meno nell’Italia repubblicana, da nessuna forza di governo: fin dentro al delicato intreccio che lega la dimensione del biologico a quella del senso morale. La natura dei rapporti “genericamente umani” e l’esercizio del potere pubblico. Si può ben comprendere quanta terribile efficacia possa avere, in una società che si va impoverendo rapidamente, e in cui strati sempre più ampi di popolazione avvertono il rischio imminente del proprio declassamento e della perdita di posizioni faticosamente conquistate, una retorica di questo tipo: quale devastante potenziale di mobilitazione negativa abbia un meccanismo fondato sulla creazione di una porzione, limitata, di umanità esplicitamente privata per via statuale, attraverso lo strumento universale della Legge, dello status di uomini.
Esso permette un apparente, ma psicologicamente efficace, “risarcimento” dei “penultimi” - di coloro che hanno perduto buona parte dei propri diritti sociali -, attraverso l’esibizione della deprivazione più radicale degli “ultimi”, di coloro che sono del tutto senza diritti. Gratifica chi ha perduto (quasi) tutto, o teme di perderlo - lavoro, casa, reddito, salute... - ma ha mantenuto lo status di “uomo” grazie alla sua appartenenza territoriale, mostrandogli in chiave pubblicitaria lo spettacolo di chi di quella prerogativa è stato destituito. E può essere pubblicamente dichiarato “fuori”. Dunque “sotto”.
E’, non possiamo nascondercelo, un meccanismo politicamente “irresistibile”. Mettendo al lavoro un sentimento ambiguo, ma incendiario, come l’”invidia sociale”, nell’epoca della conclamata impossibilità di realizzare efficaci politiche redistributrici e di sfidare in modo credibile chi “sta in alto”, esso si rivela capace di “sfondare” in aree sociali estese, e potenzialmente immense. Spesso negli insediamenti tradizionali della vecchia sinistra. Diventa, una volta accettato di varcare quel confine morale da parte di imprenditori politici spregiudicati, per usare un eufemismo, una risorsa decisiva. Infatti Berlusconi e i suoi ci si sono buttati a pesce, nel momento in cui la priorità sembra quella di vincere la “guerra psicologica” della crisi (e, cosa non secondaria, di “dimenticare Veronica”...). E bene ha fatto Franceschini a denunciare, con forza, l’uso propagandistico della nuda vita offesa, ma già l’immediata, e davvero improvvida, contromossa di Fassino ci dice quanto fascino, o imbarazzo, esercita, su tutti i fronti politici, l’entrata in gioco di quella nuova perversa risorsa. E quanta difficoltà ci sia a contrastare, se ci si attiene al piano strettamente politico, dei nudi rapporti di forza, il processo di pietrificazione delle coscienze che esso comporta.
Se una resistenza può nascere oggi, credo che non possa che costituirsi su un fronte per così dire “impolitico”. Tale da operare sui registri trasversali della morale, della memoria, del senso di dignità e su residui di cultura, che non si misurano sui rapporti di forza, sulle regole della ragion di stato o di partito, sui machiavellismi dell’azione utile e di quella efficace.
L’effetto principale delle “retoriche del disumano” è quello di disumanizzare per primi coloro che le condividono. Occorre mettere insieme chi continua a non voler rinunciare alla propria residua umanità. E intende difendere quel brandello di condivisione del proprio stato di uomini con tutto il resto del genere umano.