a un convegno per i cento anni della nascita di Norberto Bobbio
Napolitano: «Nonostante le tensioni proseguo sereno il mio mandato»
Dopo l’attacco di Berlusconi sul Lodo Alfano ribadisce: «Il capo dello Stato è un potere neutro, non finzione» *
MILANO - «Per quante tensioni e difficoltà comporti l’adempiere un simile mandato, proseguirò nell’esercizio sereno e fermo dei miei doveri e delle mie prerogative costituzionali». Lo ha detto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano intervenendo a Torino a un convegno per commemorare i cento anni della nascita di Norberto Bobbio.
POTERE NEUTRO - Napolitano torna dunque a ribadire il ruolo di neutralità del presidente della Repubblica sottolineando che ciascun Capo dello Stato che lo ha preceduto aveva una propria storia politica ma non se ne è fatto condizionare: «Così come ci sono stati presidenti della Repubblica eletti in Parlamento da una maggioranza che coincideva con quella di governo tal volta ristretta o ristrettissima, o da una maggioranza eterogenea e contingente. Ma nessuno di loro se ne è fatto condizionare. Quello del Capo dello Stato, potere neutro al di sopra delle parti, fuori dalla mischia politica, non è una finzione, è la garanzia di moderazione e di unità nazionale posta consapevolmente nella nostra Costituzione come in altre dell’Occidente democratico».
VISIONE AMPIA - «L’approccio partigiano, naturale in chi fa politica, è qualcosa di cui ci si spoglia in nome di una visione più ampia - ha proseguito Napolitano -. Tutti i miei predecessori, a cominciare nel primo settennato da Luigi Einaudi, avevano ciascuno la propria storia politica: sapevano, venendo eletto capo dello Stato, di doverla e poterla non nascondere, ma trascendere». Infine il presidente ha citato Bobbio: «Posso ripetere le sue parole di una lettera del ’92? "Ci vorrebbe un po’ di equilibrio da parte di tutti". Sono parole, se ripetute ora, destinate a lasciare il tempo che trovano?».
* Corriere della Sera, 15 ottobre 2009
Sul tema, nel sito, si cfr.:
UNA QUESTIONE DI ECO. L’orecchio disturbato degli intellettuali italiani
ABUSO ISTITUZIONALE DEL NOME "ITALIA" DA PARTE DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO: DIMISSIONI SUBITO.
Il filosofo e il dovere della verità
di Marcello Sorgi (La Stampa, 8 gennaio 2014)
Aveva l’espressione austera e corrucciata del filosofo e la severità del professore stampata in viso, Norberto Bobbio. Nella casa di via Sacchi, accolti dalla signora Valeria, e dal suo modo speciale di far reagire il marito all’umor nero del tramonto, si entrava col timore di rompere il silenzio della meditazione. Bobbio passava il suo tempo nello studio, curvo su un tavolino traballante carico di libri e illuminato da una lampada fioca.
«La morte si è dimenticata di me!», esordiva, sollevando il capo nella penombra. Ma era un vezzo. Subito dopo, la stanchezza, il peso della vecchiaia, la sensazione di sentirsi fuori posto, in un mondo che non gli apparteneva più, lasciavano spazio alla curiosità, al gusto della conversazione, ai lampi di intelligenza e a un sorriso avaro, concesso con parsimonia da uno consapevole di non aver più ragioni per gioire.
Era uscito da questa sofferenza uno dei suoi ultimi libri, il De senectute che gli era valso la strana amicizia tardiva con Gianni Agnelli. Anche l’Avvocato, di tanto in tanto, andava a trovarlo: cosa potesse unire due uomini così diversi, a cui era toccata in sorte la nomina a senatori a vita, nessuno lo ha mai saputo. Forse, appunto, era la torinesità e il sentirsi parte di un’epoca che stava scomparendo.
Quanto a me, prima di frequentarlo a Torino, da editorialista e nume tutelare di questo giornale, lo avevo conosciuto a Roma nel ’92, nei giorni in cui, a dispetto di se stesso, era diventato il candidato alla Presidenza della Repubblica dell’«altra» Italia. Lui ovviamente non voleva crederci, resisteva, anche quando, camminando a piccoli passi con me che lo accompagnavo dal suo albergo al Pantheon verso Montecitorio, la gente lo fermava per stringergli la mano, o tifava per lui - Forza professore! -, manifestandogli così, alla romana, una simpatia spontanea.
Alla vigilia della caduta della Prima Repubblica, mentre i partiti morenti non riuscivano a trovare un nome per il Quirinale, Bobbio, a sorpresa, si era trasformato nel candidato della società civile, che solo un anno prima, con il referendum elettorale, aveva dato una forte spallata al sistema. La sinistra spingeva a suo favore, cresceva a sorpresa, per lui, il consenso, anche tra i deputati e i senatori chiusi nel Palazzo e costretti a due votazioni al giorno, in odio ad altri candidati di peso da trombare, come Andreotti e Forlani, o nel vano tentativo di ricostruire credibilità di fronte all’elettorato preso, già allora, da un’ondata di antipolitica. Dopo nove giorni (le Camere erano riunite in permanenza dal 13 maggio), una mattina Bobbio, prendendo una camicia da un cassetto nella sua stanza d’albergo, sbattè la testa su un soffitto spiovente e si ferì. Fine della corsa e sollievo del candidato riluttante, che poteva tornarsene a casa e ai suoi studi.
Di quest’avventura in cui si era trovato quasi senza rendersene conto, il professore aveva conservato un ricordo indelebile: nel settembre del ’98, appena arrivato a Torino come direttore della Stampa, ricevetti una sua lettera nella quale, anche a distanza di tempo, ripercorreva quelle giornate trascorse insieme e tratteggiava tutte le sensazioni contrastanti che aveva provato, insieme con gli interrogativi che l’esperienza gli aveva lasciato, ai quali invano aveva cercato di dare risposta.
Di lì in poi i nostri appuntamenti divennero settimanali: si andava in delegazione, con Alberto Papuzzi, che aveva da poco ultimato la sua biografia, e con Cesare Martinetti, che dirigeva le pagine culturali della Stampa . Qualche volta sì, qualche altra no, non c’era una regola, si tornava con l’abbozzo di un articolo, che Bobbio ci avrebbe mandato il giorno dopo, con piccole, preziose, correzioni a mano, di cui si preoccupava al telefono: «Era tutto chiaro? Occorre rileggerlo?».
Fu in una di questa circostanze, divenute abbastanza rituali nella vita del giornale, che ci trovammo a gestire un’altra emergenza, assai lontana da quella del Quirinale. Benché dissuaso dal giro più stretto dei suoi amici e della sua accademia, Bobbio, il 12 novembre ’99, aveva accettato di rilasciare un’intervista a Pietrangelo Buttafuoco del Foglio . Era un pezzo esplosivo, in cui per la prima volta parlava di quella parte del suo passato, legata agli inizi della carriera universitaria.
Come se volesse liberarsi di un segreto imbarazzante custodito con vergogna troppo a lungo, Bobbio ricostruiva i tempi della «doppiezza», in cui era stato «fascista con i fascisti e antifascista con gli antifascisti». Si rifiutava di accettare la lettura storica del suo intervistatore, secondo il quale tutti o quasi gli intellettuali italiani avevano condiviso un percorso del genere, ma per citare ad esempio il suo maestro, Gioele Solari, o il suo amico Leo Valiani, e per far risaltare il coraggio di chi non si era arreso, finiva col ribadire le proprie responsabilità.
Dopo la pubblicazione dell’intervista si scatenò un putiferio. Bobbio essendo il maggiore intellettuale azionista, e uno dei più rispettati maître-à-penser della sinistra, lo sconcerto, nel suo campo, era evidente. Su Repubblica Gad Lerner scrisse che era stato attirato in una «trappola». Nel giro più stretto degli amici torinesi, qualcuno gli suggeriva di smentire il testo di Buttafuoco, che invece aveva riletto e approvato parola per parola.
Anche per noi della Stampa il momento era complicato. C’era da capire perché il nostro più importante collaboratore, il custode delle radici culturali del giornale, avesse scelto un altro quotidiano per fare le sue rivelazioni. E soprattutto c’era da trovare la forza di chiamarlo, proprio mentre l’ondata di reazioni mediatiche e politiche rompeva la quiete di via Sacchi. Toccò a me il compito. Gli telefonai per informarlo che avremmo pubblicato un’intervista di Alessandro Galante Garrone, l’altro grande azionista di Torino e come lui editorialista della Stampa , che, contrariamente a chi ne aveva criticato l’imprudenza, gli offriva solidarietà. Inoltre, da storico, rilevava il fatto che la tessera fascista fosse obbligatoria per i professori universitari, e solo quattordici, in tutto il corpo docente nazionale, si fossero rifiutati di prenderla. Gli domandai perché avesse scelto Il Foglio , e non La Stampa , per fare la sua confessione; mi rispose candidamente che noi non gliel’avevamo chiesta. Insistetti, per sapere se intendesse dare un seguito alle polemiche. Ci pensò su, ma replicò soltanto: «Mi lasci riflettere». La mattina dopo, senza preavviso, mandò un articolo limpido, in cui spiegava di non essere stato vittima di alcun tranello e di aver avvertito un autentico desiderio di liberarsi del peso che lo aveva oppresso per tanti anni. Concordammo il titolo: «Io e il fascismo, lasciatemi dire».
Dieci anni dopo la sua scomparsa, ci sarebbero tanti altri episodi da narrare, di un uomo straordinario come Bobbio. Ma questi due racchiudono le principali caratteristiche del personaggio: la schiettezza tutta torinese, la sincerità, il distacco tipico di una grande cultura, e soprattutto il gusto della verità: anche quella, scomoda, che volle rivelare di sé.
Esce un Meridiano dedicato ai suoi scritti curato da Marco Revelli
Bobbio, Il pessimismo di un illuminista
Il legame tra giustizia e libertà è il filo rosso delle riflessioni e degli interventi con cui il filosofo torinese accolse via via le sfide che la realtà pose alla sua intelligenza e cultura
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 24.11.2009)
Uno spettro si aggira per l’Italia: non il comunismo, regredito ufficialmente a mostro spaventa-bambini da cartoon giapponese. Quello che sembra destinato a levarsi al suo posto si chiama Illuminismo. E’ uno spettro che appare nei sogni di certi uomini di Chiesa, gli unici peraltro a evocarlo per nome, con aggettivi come «bieco», «torvo» e così via, con l’orrore e la determinazione dell’esorcista che affronta il demonio. Roba vecchia, degna degli sberleffi di Gavroche. Ma proprio nel contesto italiano dei nostri anni dominato da rivalse clerico-fasciste si affaccia oggi un illuminista italiano: Norberto Bobbio. Un’ampia selezione di scritti suoi curata con passione e intelligenza da Marco Revelli compone uno splendido Meridiano Mondadori grazie al quale possiamo rileggere una proposta pacata e intransigente di moralità civile e di impegno culturale e capire in che cosa possa riconoscersi un illuminista.
Il caso che governa le cose umane porta in libreria questo imponente volume insieme all’intervista data da Alberto Asor Rosa a Simonetta Fiori. Due voci diversissime, confrontabili solo per via di quelle opposizioni dilemmatiche care a Bobbio. Due testimonianze, tuttavia, di quello che fu e non è più il ruolo civile dell’intellettuale in un paese dove oggi non ci si vergogna a rispolverare la parola di Scelba - «culturame». Fermiamoci a Bobbio: il suo è un illuminismo di metodo e di desiderio. «Vorremmo essere illuministi» scrisse nel 1955. Si professò illuminista ma anche pessimista: non alla maniera di Sebastiano Timpanaro e del suo indimenticabile Leopardi, e tuttavia pur sempre alla scuola di Hobbes, di Machiavelli, di Marx. Quel pessimismo, su se stesso e sul paese dove si trovò a operare, non fu mai dismesso: ma proprio per questo si sentì spinto a non abbandonare mai la fede nella ragione.
«Uomo di ragione e non di fede», si definì nelle ultime volontà. Quella ragione era fatta di fede nell’Italia civile. La «sua Italia» - il titolo da lui scelto per un libro concepito come ultimo - l’aveva imparata alla scuola di maestri e di compagni qui rievocati e raccontati nella prima sezione del volume. Su tutti spicca Piero Gobetti. Il nome di quell’«esile biondo miope ragazzino», come lo descrisse Augusto Monti, ricorre in questi scritti con una frequenza più alta di quella di Machiavelli, appena minore di quelli di Kant, Hegel e Marx.
L’Italia dove si formò era il paese che cancellava le vite e spegneva i pensieri degli oppositori e degli uomini liberi: ma le scintille accese da maestri come Gobetti e da amici come Leone Ginzburg bastarono a Bobbio per illuminargli il percorso in una ricerca intellettuale calata nel vivo dell’azione: «L’ora dell’azione» si intitolò il primo suo articolo, stampato nel settembre 1944 in un giornale clandestino del Fronte degli intellettuali nella Torino occupata. Seguirono quelli sul quotidiano del Partito che si chiamò appunto di Azione, un quotidiano intitolato: Giustizia e libertà. Il binomio inquietò il filosofo della libertà, Benedetto Croce che parlò di «ircocervo», preoccupato che la volontà giacobina di giustizia sociale soffocasse la libertà.
Ma che rapporto ci può essere tra libertà e uguaglianza? Ecco uno dei temi della casistica morale della politica di allora. Aiutano a ricomporre questa casistica i saggi della seconda sezione, intitolata ai «dilemmi etici» posti da questioni come intellettuali e politica, pace e guerra, libertà e uguaglianza. Marco Revelli richiama giustamente l’attenzione sullo stile del pensiero di Bobbio: un pensiero «dicotomico, duale, aporetico», un procedere per dilemmi. Le coppie oppositive si ritrovano nella terza sezione su «le forme della politica» e sono quelle di un dialogo dei massimi sistemi del ‘900: democrazia e dittatura, socialismo e comunismo, destra e sinistra. Il congedo lo danno le pagine di meditazione sulla morte e sul non essere del De senectute, un altissimo breviario morale scritto al termine del secolo come ricapitolazione di una vita e riflessione sui cambiamenti del mondo.
«Uomo di studio, non apolitico ma neppure troppo politicizzato»: così Bobbio si definì nell’autobiografia intellettuale che apre il volume. La distanza dai tumulti verbali e dall’uso strumentale della pagina scritta fu per lui una costante: la si riconosce nell’ironia lieve con cui rispose agli attacchi giornalistici dell’avanzante regime berlusconiano contro le «cariatidi velenose» dei senatori a vita. Ma la sua vigilanza sulla questione dei diritti di libertà fu pronta e severa. Il legame tra giustizia e libertà è il filo rosso delle riflessioni e degli interventi con cui Bobbio accolse via via le sfide che la realtà pose alla sua intelligenza e alla sua sterminata cultura. Un filo che parte da un capo: aveva imparato dal grande maestro di studio e di integrità morale che ebbe per professore, Francesco Ruffini, che «tutte le libertà civili sono solidali» e che una volta ammessa la prima, la libertà religiosa, «non possono non essere ammesse tutte le altre».
E’ una lezione la cui lungimiranza possiamo oggi verificare nell’esperienza dell’attacco congiunto che un ritorno di fiamma clericale e una oscena dittatura televisiva conducono ai fondamenti costituzionali della Repubblica. Oggi da lì si è obbligati a ripartire. Ma non da zero, non dal livello del suolo: è dal sottosuolo che a Bobbio stesso - scrivendone sul Ponte nel gennaio 1994 - parve «uscito l’incantatore plebeo, cui si accompagnano i grandi demagoghi e i grandi mestatori in nome, udite! Della liberaldemocrazia». Si poteva scendere più in basso? Secondo Bobbio, no. Liberi noi di pensare che, almeno qui, lui si sia sbagliato.
Il secolo di Bobbio in tutti gli articoli per l’Unità
di Bruno Gravagnuolo *
Bobbio e l’Unità. Bobbio e il Pci. Legame doppio e inevitabile che è parte della storia d’Italia. E che riproponiamo al lettore in questo speciale on line inclusivo degli scritti del filosofo sul nostro giornale tra il 1982 e il 2004, poco prima della sua morte. È vero, quel rapporto inizia già nel dopoguerra e si protrae negli anni in cui il Pci non c’era più, e il nostro quotidiano non era più organo di partito. E però il far data dal 1982 ha il valore di riepilogo maturo e consolidato di un atteggiamento mai dismesso da Bobbio, verso il comunismo e il post-comunismo italiano. E cioè: una strategia dell’attenzione maieutica. Verso una forza emancipativa di massa, il Pci, da Bobbio ritenuta cruciale per l’Italia moderna. Strategia che entra nelle carni e diviene «ascoltata» da quel Pci. Fino a risultare un ingrediente essenziale della futura svolta Pci-Pds del 1989, nonché asse portante del tentativo di imprimere identità a tutto ciò che seguì quel 1989 (che lo sia diventato poi «asse», è un altro discorso).
Che cosa significa «maieutica»? Nient’altro che tenacia socratica, da parte di Norberto Bobbio. Tenacia attiva su punti chiave da stimolare nell’identità comunista, così come era venuta maturando lungo tutto il dopoguerra. La democrazia innanzitutto, e il rapporto politica e cultura. E poi ancora: il rapporto con l’Urss, con il marxismo, con il diritto. E quello con la pace, per Bobbio valore irrinunciabile e non «strabico», da non confondere con gli schieramenti di campo ideologici, benché da misurare con il realismo delle condizioni date. Un realismo che a tratti faceva disperare Bobbio sulla possibilità di brandire «senza se e senza ma» quel valore, pure a suo dire assoluto e indeducibile, se non da un atto di fede o di «etica dell’intenzione».
Ricapitoliamo allora. Da un lato Norberto Bobbio, filosofo del diritto torinese, passato dal gius-positivismo di Hans Kelsen a una visione funzionalista e di sinistra del diritto, insoddisfatta del puro formalismo borghese, che non teneva contro dello Stato sociale e dei suoi diritti espansivi. Dall’altro il Pci di Togliatti, approdato alla democrazia progressiva, gradualista, in bilico tra i due blocchi e speranzoso nella distensione geopolitica (ma pur sempre col baluardo sovietico sullo sfondo).
La sfida di Bobbio reiterata sempre - anche negli scritti degli anni 80 che riproponiamo - consiste in questo: la democrazia presa sul serio. Con tutti gli annessi e connessi. E democrazia presa sul serio contro visioni formaliste e censitarie dei diritti. E contro visioni totalitarie e finalistiche dell’emancipazione, inclusa quella comunista. Ai comunisti italiani Bobbio chiederà di continuo: che idea avete dello stato? Delle libertà? Del pluralismo? Del conflitto? Della cultura? E che idea avete del mutamento e della pace?
Le risposte non mancarono da parte comunista. Specie in una celebre disputa su «Politica e cultura» dei primi anni 50, poi riassunta con le controrepliche di Bobbio in un volume Einaudi dei primi anni 50. E le risposte erano più o meno «rassicuranti». Cioè: la cultura è un campo egemonico di interessi in lotta, autonomamente trasferiti in formazioni ideali e di pensiero. Perciò, così Toglitti e della Volpe, massima libertà per tutti, ma primato della spinta liberatoria ed emencipativa incarnata dalla classe operaia e dai suoi «intellettuali progressisti». Lungo la falsariga di un marxismo gramsciano e non meccanico o rozzo. No, replicava Bobbio: la cultura è autonoma. È una funzione universale dell’intelletto, che si coniuga con gli interessi e vi si mescola pure. Come la scienza empirica, di cui a suo modo e con i suoi metodi, riproduce la libertà non asservita (almeno idealmente). Stesso discorso in Bobbio per la democrazia. campo di conflitti sì per il filosofo. Ma campo perenne e non superabile da plebisciti, consenso populista o filosofie della storia che estinguano la rappresentanza e le sue «regole».
Era questa in fondo, fin dagli anni 50, l’idea della democrazia come «valore universale» fatta proprio da Berlinguer venti anni dopo. Talché la democrazia, come il diritto, per Bobbio, erano tecniche non superabili di esercizio della sovranità popolare, in una con le garanzie per le minoranze. E con la possibilità sempre data per esse di diventare maggioranza. In pratica era il concetto dell’«alternativa» come meccanismo di ricambio e fisiologia della democrazia(che fosse bipolare o maggioritaria secca è altro discorso, che Bobbio non toccava). Dunque, concordia e discordia tra Bobbio e il Pci, ma in ogni caso sintonia, documentata benissimo nell’antologia on line che vi proponiamo. Perché? Lo abbiamo accennato. Via via che gli anni passano il Pci si avvicina a idee sempre più affini a quelle di Bobbio, sino al punto da farle proprie.
Certo, il Bobbio degli anni 80 non condivide il compromesso storico, e giustappunto è per un’ alternativa riformista di sinistra, nel solco del liberalsocialismo (del quale all’inizio pensò di ravvisare un campione in Craxi, salvo ricredersi). E ancora: Bobbio è contro la «terza via» di Berlinguer, contro l’Eurocomunismo. Crede infatti nella socialdemocrazia. Benché avanzata. E basata sui diritti sociali. Persino con momenti di democrazia diretta nella società civile (ma col primato del Parlamento). Tuttavia il pungolo non si ferma, incalza e costringe i comunisti a farci i conti. Resterebbero tante altre cose da dire. La pace, l’Ungheria, la «guerra giusta», punto questo sul quale Bobbio fu capace di autocritica (non giusta ma «giustificata», si corresse). E resterebbe da dire del giudizio finale di Bobbio sul comunismo crollato: un’utopia fallita con dietro però domande e bisogni attuali.
Infine, le polemiche che amareggiarono l’ultimo Bobbio. La scoperta mediatica delle sue debolezze rispetto al regime fascista, che da studioso non contrastò e che anzi tentò di «rabbonire» quando nel 1935 finì nel suo mirino(con gli azionisti torinesi). Pagina amara, che il filosofo affrontò con onore e dignità, senza infingimenti e con estrema crudeltà autocritica. Ne troverete i passaggi nello «speciale» del 19/1/2004 che allora dedicammo alla lezione di Bobbio («Bobbio spiegato da Bobbio»). Lì, ancora una volta su l’Unità, c’è tutto ciò che Bobbio ha detto e pensato in «politica e cultura». Leggetelo, stampatevelo e conservatelo. Vi servirà, ci servirà, in tempi di pensieri deboli, voltagabbana e prepotenti «forti»». Che vorrebbero distruggere tutto quel che Bobbio, «compagno» e maestro ha voluto e pensato per l’Italia.
LEGGI E SCARICA 20 ANNI DI SCRITTI DEL FILOSOFO POLITICO
* l’Unità, 13 ottobre 2009
l’inedito
Per cinquant’anni «democrazia» sempre con il punto interrogativo
Per la prima volta a stampa la conferenza tenuta a Brescia nel 1959. Diceva: «Mai smettere di farci domande sul nostro sistema»
DI MARCO RONCALLI (Avvenire, 15.10.2009)
Ad un secolo esatto dalla nascita di Norberto Bobbio - 18 ottobre 1909 - il centesimo volume della nuova serie della collana ’ Il pellicano rosso’ della Morcelliana arriva in libreria con uno scritto di fatto sconosciuto del filosofo divenuto per molti il simbolo e la coscienza critica dell’Italia civile. Si tratta del testo di una conferenza tenuta a Brescia alla fine degli anni ’ 50 dove troviamo il pensatore ancorato alle ragioni del liberalsocialismo e già ben consapevole della divaricazione tra aspirazioni e realizzazioni che taglia la democrazia italiana, mentre il Paese si allontana dal secondo dopoguerra. Quale democrazia? ( a cura di Mario Bussi, premessa di Francesca Bazoli; pagine 104, euro 10,00), così dunque titola questo volumetto di nitida forza argomentativa e che lascia scoprire in nuce quelli che saranno ’ temi ricorrenti’ nell’ulteriore approfondimento bobbiano del concetto in esame: fra teorie delle élite e realismo politico, ideali di libertà ed efficienza dei poteri sociali, proprio alcuni dei futuri leitmotiv: comprese le distinzioni dualistiche fra ’ essere’ e ’ dover essere’ della democrazia.
Insomma una ’ grammatica della democrazia’, spiegata per la prima volta il 27 maggio 1959, nel contesto di quegli Incontri di cultura , occasioni per un confronto aperto fra le voci più significative del pensiero contemporaneo, che - ricorda qui Francesca Bazoli - furono promosse da alcuni intellettuali bresciani cattolici e laici raccolti intorno a Stefano Bazoli, già costituente e deputato.
Una riflessione a proposito della quale lo stesso Bobbio, nella sua ultima visita a Brescia il 27 maggio 1994 per un convegno in occasione del ventesimo anniversario della strage di Piazza della Loggia, disse: « Mi piace ricordare che venni qui fra voi la prima volta trentacinque anni fa, il 27 maggio, invitato dall’avvocato Stefano Bazoli, a inaugurare gli Incontri di cultura con un discorso che avevo intitolato: ’ Quale democrazia?’. Un titolo che ha continuato ad essere attuale in tutti questi anni. Oggi, più attuale che mai. Se dovessi ripeterlo, quel punto interrogativo non lo toglierei. Ne potrei, semmai, aggiungere un altro » .
Parole sintomatiche che, riconfermando l’attualità di quel lontano discorso - scrive ancora Francesca Bazoli - ricordavano « come la democrazia, in quanto insieme di regole per il confronto politico, debba continuamente interrogarsi sullo stato della sua salute, pena il rischio di scivolare in qualcosa che democratico non è » .
Particolarmente interessante, come fa notare il curatore Bussi, il passaggio in cui nel testo, affermato quale fine della democrazia l’eguaglianza, quest’ultima non viene più richiamata quale presupposto delle regole del gioco, ma come ideale regolativo: « Si istituisce in tal modo la dialettica tra ’ eguaglianza formale’ e ’ eguaglianza sostanziale’ di cui troviamo un’esemplare formulazione nel primo e nel secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione italiana » .
La conseguenza? « Tutti gli uomini sono formalmente uguali ( valore), ognuno ha ottenuto il diritto di votare ( metodo- regola del gioco), ma a favore di ognuno, soprattutto dei più deboli, va anche perseguito tenacemente il fine di una maggiore giustizia distributiva, rimuovendo gli ostacoli che ne impediscono la realizzazione ( ideale) » .
Ma ci sarebbero anche altre sottolineature da fare, ad esempio, sulla democrazia internazionale e i dispositivi per portare la pace nelle relazioni fra gli Stati. In conclusione, pagine che stanno alle origini del Bobbiopensiero, ma hanno retto l’usura del tempo. Un piccolo classico che - usando i parametri dello stesso senatore a vita allievo di Gioele Solari, mancato più di cinque anni fa - si rivela « sempre attuale, onde ogni età, addirittura ogni generazione, sente il bisogno di rileggerlo e rileggendolo di interpretarlo » . Va da sé per provare a incidere nella realtà del proprio tempo, per contribuire a proteggere il diritto in stagioni di grandi incertezze e di transizioni incompiute.
La forza della storia
di LUIGI LA SPINA (La Stampa, 16/10/2009)
La testimonianza, accorata e persino spietata, di un lungo e sofferto cammino, costellato di errori, ritardi, macchiato da colpe, anche gravi. Ma con l’orgoglio di averlo compiuto per intero, scontando, con una critica severa su di sé e sulla propria parte, la piena legittimazione a esercitare un ruolo di garanzia per tutti gli italiani. È questo il senso più profondo di un discorso, quello pronunciato ieri mattina dal Presidente della Repubblica a Torino, in cui uno dei leader della sinistra comunista italiana nella seconda metà del secolo scorso confessa di aver capito il valore delle forme della democrazia liberale, per lungo tempo sottovalutate, e si impegna a difenderle «con serenità e fermezza».
Non ha tradito davvero le attese la risposta di Giorgio Napolitano, pacata ma non ipocrita, agli attacchi del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi sulla sua figura di «uomo di parte».
Ma quello che più ha colpito coloro che hanno partecipato alla cerimonia in occasione del centenario della nascita di Norberto Bobbio è, da un lato, il tono commosso della sua rivendicazione autobiografica, dall’altro, il richiamo ai valori della politica, intesa come esercizio che riesce a trasformare un uomo di fazione in un uomo delle istituzioni. Un mutamento che è consentito, è parso di capire, solo a chi non nasconde la propria storia, le proprie origini culturali e ideologiche, ma, quando è chiamato a rappresentare una importante carica pubblica, sa trascenderle ed esercitare quel «potere neutro» che è indispensabile per far funzionare una democrazia, come la consideriamo in Occidente.
È stato proprio il filosofo torinese, così come ha raccontato il presidente della Repubblica, ad adoperare, nel confronto con i comunisti del secolo scorso, quella «pedagogia del dubbio» che ha fatto comprendere come la garanzia dei diritti di libertà, con la divisione dei poteri, la distinzione tra organi della Repubblica al servizio del principio di imparzialità, non fossero «forme borghesi» dello Stato, in contrapposizione con una fantomatica «democrazia sostanziale» che poteva anche contraddirle o trascurarle. Ma fossero il fondamento della convivenza civile.
Una proclamazione di principi che certamente non si limita a un riconoscimento di un errore del passato, ma assume una precisa condanna delle attuali tentazioni populiste presenti nel centrodestra italiano, esaltatrici di una specie di «democrazia diretta», fondata solo sull’investitura elettorale del leader. Una forma di Stato che rischia di trasformare il Parlamento in una camera di registrazione ed approvazione di testi redatti, magari, in qualche studio professionale e, comunque, mal sopporta le lungaggini, gli ostacoli, procedurali e di merito, che autorità «terze» frappongono all’azione dell’esecutivo. Se la forma dell’equilibrio dei poteri è, invece, la sostanza della democrazia, questo non vuol dire che la Costituzione sia un tabù. L’appello del Capo dello Stato alla sinistra perché non si chiuda alle proposte di una riforma della seconda parte del nostra carta fondamentale non è stato meno netto delle sue critiche a chi, a destra, non rispetta gli istituti di garanzia. E anche in questo caso, Napolitano si è appoggiato al ricordo delle battaglie di Bobbio in favore di riforme elettorali e costituzionali.
Una lunga citazione del filosofo torinese è servita pure al Presidente della Repubblica per esprimere un giudizio che, con l’aria che tira, può sembrare controcorrente: «Sono convinto che molti italiani, al di là delle loro diverse, libere scelte elettorali... avvertano la necessità» del «senso della misura, del rispetto delle istituzioni e del confronto costruttivo».
Si sta diffondendo, infatti, un’impressione fallace, tratta dai successi di ascolto delle trasmissioni politiche in tv più urlate o dalle fiammate di vendita dei giornali più schierati. Quella che i cittadini italiani siano favorevoli a quel clima di «guerra civile delle parole» che vuole trasformarli in tifosi assatanati, obbligatoriamente arruolati nell’una o nell’altra fazione e disposti a «non fare prigionieri» pur di far vincere la loro parte. In una battaglia senza fine che vedrebbe, invece, solo una minoranza di cittadini, tremebondi parrucconi legati ad antiche forme di galateo politico, preoccupati per il rischio di compromettere non solo le possibilità di ripresa della nostra economia, ma le caratteristiche fondamentali della nostra democrazia.
Napolitano, ieri a Torino, ha avuto il merito di confutare questa superficiale convinzione, dimostrando che l’espressione ferma e serena delle proprie convinzioni, in difesa delle garanzie di uno Stato democratico e pluralista può costituire la risposta migliore e più efficace a chi avesse la tentazione di scavalcarle.