Il vicolo cieco dell’antagonismo
di Giuseppe De Rita *
Avendo da sempre a cuore una cultura di terzietà, da sempre ho rischiato di essere marginalizzato e svillaneggiato da chi con ardore esercita la prassi dell’antagonismo. «Tu non c’entri, lascia che ci regoliamo i conti fra noi», questa frase richiama ricordi adolescenziali e giovanili, di quando l’intenzione di fare il paciere finiva male, talvolta anche con qualche escoriazione; ma continuo a ritenere l’antagonismo non solo emotivamente spiacevole, ma anche infecondo e inutile.
Gli antagonisti sono una forza della natura: sono pervicacemente convinti di avere ragione, esprimono un’intenzionalità fuori misura, chiamano allo schieramento senza se e senza ma, coltivano il gusto dell’inimicizia, qualche volta aspirano alla distruzione dell’odiato nemico. Si montano psicologicamente e producono spettacolo per tutti, e sottilmente diventano anche gli spettatori di se stessi. E avviene che spesso la lotta all’alter ego produca il declino non solo dell’alter ma anche dell’ego.
E’ difficile comunque resistere alla tentazione antagonista, anche quando si rischia di scivolare nel fondamentalismo del primato religioso o nel feticismo del primato della scienza; figurarsi se si tratta della lotta politica, terreno altamente favorevole allo scontro, anche dopo la morte dichiarata delle contrapposizioni ideologiche del Novecento; e terreno in cui l’antagonismo ha portato frutti perfidi e regressivi.
Non basta però di fronte al calor bianco di queste settimane, con tutti contro tutti, nella contrapposizione di due eserciti, uno contro e l’altro a favore di Berlusconi, fare richiami morali al dialogo, al rispetto dell’avversario; l’aria che tira è tale che, se ci fosse un arbitro a decretare un break, i duellanti ne approfitterebbero per piazzare un colpo sotto la cintura. Il problema va posto più utilmente nei suoi termini culturali, nell’incapacità dell’antagonismo a «scavare al di sotto dell’antitesi», che è l’unico modo per rispettare la dinamica del reale. Le cose hanno sempre un andamento (una verità, si potrebbe dire) «trasversale» e non vanno quindi viste e trattate in una logica di causalità longitudinale, dove sarebbero condannate a cozzare l’una con l’altra.
La vita è correlazione, è «chiasma», come dicono i fenomenologi per segnalare che fra gli opposti (il bene e il male, lo spirito e il corpo, lo sviluppo e la crisi, ecc.) c’è reciprocità e non vittoria assoluta di uno di essi. La vittoria assoluta di una sola componente della vita (è ciò che i militanti dell’antagonismo ardentemente desiderano) oscurerebbe l’orizzonte, solo un pluralismo dei punti di vista permette di crescere collettivamente e di far maturare un’articolata appartenenza al medesimo mondo.
Certo è difficile, nell’attuale contrapporsi di accesi antagonisti, richiamare questa culturale esigenza di capire le correlazioni fra gli opposti e lavorarci in termini trasversali, di interpretazione, di connessione, di mediazione (sottraiamo questa parola alla damnatio memoriae di pavida furbizia democristiana).
Fare oggi politica utile a tutti è mestiere da tessitore, di chi lavora sul rovescio della stoffa, tirandone via via i fili e capendone via via il senso. Ed è un mestiere di silenzi, non di proclami guerreschi. Non è quindi bene perdersi in richiami morali, basta un più sommesso richiamo a pensare; e a pensare in modo corretto, questa è la vera tregua. Capire cioè quale sia la trama di lungo periodo della nostra evoluzione sociopolitica e quanto tempo e silenzio siano necessari, senza troppi alterchi di scena.
Giuseppe De Rita
Corriere della Sera, 13 ottobre 2009(ultima modifica: 14 ottobre 2009)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
ABUSO ISTITUZIONALE DEL NOME "ITALIA" DA PARTE DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO: DIMISSIONI SUBITO.