Se i laici porgono l’altra guancia
di EUGENIO SCALFARI *
NELL’ATTESA sempre più speranzosa ma anche tremula d’avere notizie definitivamente positive sul nostro Daniele Mastrogiacomo, temevo che mi toccasse in sorte di occuparmi oggi per obbligo di attualità dell’immonda suburra denominata Vallettopoli. Argomento nient’affatto banale che peraltro accompagna la nostra vita di relazione - sia pure con forme diverse ma analoga sostanza, da almeno duemilacinquecento anni, ché tanti ne sono passati dalla morte di Socrate ai giorni nostri.
Dico la verità: passare un pomeriggio a riflettere di simili bassezze e futilità mi sembrava al limite della sopportazione che il nostro mestiere di giornalisti a volte ci impone, a meno di non essere un Platone o un Senofonte e di avere come oggetto di osservazione colui che fondò la filosofia greca, la sua metafisica, la sua morale e, partendo dall’accusa di corrompere i giovani che gli veniva contestata per ragioni più politiche che etiche, riuscì a lasciare un segno indelebile sul modo di affrontare la morte pur di obbedire ad una legge ingiusta e ad una fattispecie non provata. Esempio fondante della civiltà occidentale allora appena al suo inizio e impensabile oggidì, dove quasi tutto è mediocre e inteso all’utile proprio e al danno altrui.
Dicevo dunque dei miei disagi di commentatore di professione quando per mia fortuna è venuto a trarmi di imbarazzo Giuseppe De Rita con una sua argomentata lettera pubblicata ieri sul nostro giornale dal titolo "Noi cattolici e i falsi profeti della modernità", nella quale si rivolge direttamente a me per un mio intervento "laico" di domenica scorsa, oltreché agli amici Gustavo Zagrebelsky e Gad Lerner che pure avevano affrontato il tema da diversi punti di vista.
Conosco De Rita da una vita e ne stimo l’intelligenza e la finezza intellettuale. Ne stimo meno l’arroganza di ritenersi quasi sempre nel vero, non tanto nelle questioni attinenti alla fede delle quali si è occupato di rado, quanto in quelle che concernono la sua professione di sociologo nelle quali ha preso talvolta qualche cantonata, come quella d’aver inventato lo slogan "piccolo è bello" con il quale ci ha trastullato per circa vent’anni individuando un fenomeno reale ma dandogli valore positivo mentre ne aveva soprattutto uno negativo derivante dal familismo italiano e dal nanismo aziendale entro le cui maglie tuttora ci dibattiamo.
Non toglie che le capacità intellettuali di De Rita siano state di eccezionale perspicuità e che il suo annuale rapporto Censis abbia fornito alla pubblica opinione qualificata le tavole di giudizio sulle quali valutare i risultati economici, l’affermarsi di nuove costumanze nel bene e nel male e insomma l’evolversi (o l’involversi) della nostra società alla luce d’un criterio morale spesso implicito ma sempre presente, che riscalda le sue conclusioni statistiche e ne fa strumento di educazione civile.
Dunque risponderei qui alle reprimende e alle domande dell’amico De Rita non senza osservare l’immotivata brutalità del titolo del suo articolo. So bene che di solito i titoli non li fa l’autore ma il redattore titolista, il quale tuttavia in questo caso non ha responsabilità in quanto si è limitato a dar voce al testo.
Dunque "Noi cattolici e i falsi profeti della modernità". Starei molto attento, caro De Rita, a far proprio un concetto così azzardato da parte di chi per oltre un secolo non volle arrendersi ai principi della moderna astronomia sol perché avrebbero messo in questione la centralità della nostra specie nonché la leggenda della creazione e - scendendo giù per li rami - avrebbe forgiato una teoria fasulla del libero arbitrio e su di essa eretto il predominio assoluto dell’intermediazione e dell’interpretazione del rapporto tra Dio e l’uomo, affidato in via esclusiva alla gerarchia ecclesiastica: esempio unico rispetto a tutte le altre confessioni cristiane e a tutte le altre religioni monoteistiche dove non esiste un clero che abbia il potere di sciogliere e di legare ("Ciò che tu, Pietro, legherai sarà legato per sempre e ciò che scioglierai sarà sciolto").
Alla luce di questa aberrante teoria potrei ben titolare "Noi laici e i falsi profeti della religione", ma me ne guardo bene; ho troppo rispetto per la predicazione di Gesù di Nazareth e sento così profondamente dentro di me il suo insegnamento di umanità e di amor per profittare degli errori e dell’arroganza di molti tra i suoi seguaci.
Andiamo al sodo. Mi chiede De Rita: in otto righe hai elencato ben nove filosofi, pensatori, scienziati con i quali la Chiesa sarebbe in rotta di collisione rifiutando per conseguenza in blocco l’intera modernità. È esatto - tu mi domandi - questo giudizio?
A me par di sì e non perché lo dico io ma perché è la storia delle idee e dei fatti a darcene contezza. Naturalmente avrei potuto (dovuto?) far seguire ad ogni nome citato una breve scheda illustrativa ma ho pensato che fosse inutile: i lettori di "Repubblica" conoscono bene il pensiero degli illuministi, di Spinosa, di Kant, di Einstein, per aver bisogno di un "bignamino" rammemorativo.
Del resto le otto righe avrebbero potuto allungarsi di molto e altrettanto i nomi citati se avessi avuto lo scrupolo della completezza anziché quello dell’esemplificazione. Mi è parso inutile - ma forse ho sbagliato - citare la sciagurata sorte di Tommaso Campanella e quella sciaguratissima di Giordano Bruno, non soltanto torturati nella persona ma cancellati nel pensiero. Né ho citato i 27mila morti nell’efferata notte di San Bartolomeo o i milioni di contadini periti nella guerra dei trent’anni scatenata dalla lotta delle religioni, né i massacri delle crociate e della Reconquista, né la segregazione degli ebrei della diaspora, né le stragi di Sassonia perpetrate da Carlo Magno per mandato del Papa. Non ho citato Fichte e venendo a tempi più vicini a noi non ho fatto menzione di Jaspers, Bertrand Russel, Heidegger e infiniti altri pensatori che nel loro complesso hanno costituito un immenso e fertile deposito di libero pensiero.
De Rita sostiene che la Chiesa non ha rotto con quel deposito di modernità, ma soltanto con alcune parti di esso. Mi piacerebbe saperne di più. Forse ne sarei confortato.
Certo la Chiesa è maestra nel sostenere che la fede sia sempre d’accordo con la ragione e che la fede e la ragione insieme siano due facce della stessa medaglia purché, come ha notato Severino, sia la ragione a seguire i passi della fede. Ove mai li precedesse arrivando a conclusioni difformi, l’anatema non tarderebbe come non ha mai tardato.
Perfino al proprio interno, quando la gerarchia distrusse anche fisicamente il cristianesimo modernista servendosi del braccio secolare fascista per escluderlo dalle scuole e dalle Università e poi, con papa Wojtyla, quando fece tabula rasa delle teologie tedesca, olandese, sudamericana; quando lasciò solo l’arcivescovo Romero che fu massacrato sull’altare dagli squadroni della morte dei "terratenientes" e quando infine divelse in blocco tutto il gruppo dirigente dell’Ordine dei gesuiti, reo di non essersi allineato alle prescrizioni d’una gerarchia più preoccupata del consenso di massa che della meditazione cristologica e del riscatto sociale.
Se il laicato cattolico è poco sensibile a questi temi non è cosa che ci riguardi, ma come osservatori abbiamo dovere di esprimerci.
Toccherò ora un altro tema connesso con questo. Durante il declino dei partiti della prima repubblica e la corruttela diffusa che aveva inquinato le fibre stesse del sistema e principalmente quelle del partito cattolico, non abbiamo ascoltato una sola reprimenda da parte dell’episcopato italiano sullo scempio di moralità pubblica che era sciaguratamente in atto. Così come nulla si è percepito sul paganesimo dilagante nei recessi del potere, nell’uso delle prevaricazioni, nell’ideale della forza, del successo, del denaro che costituiscono gran parte della società di questi anni. Recriminazioni generiche quanto inutili, questo sì; pattuizioni politiche altrettanto.
Gli dèi pagani furono a loro modo una religione civica molto seria. Ma qui non si stabiliscono i criteri d’una religiosità civile bensì si negoziano gli interessi travestendoli da ideali.
Un’accusa fastidiosamente ritornante imputa ai laici di voler togliere la parola e lo spazio pubblico ai cattolici in genere e alla gerarchia ecclesiastica in particolare.
Anche De Rita indulge a questa leggenda metropolitana, il che mi stupisce assai. Personalmente, in numerosa e prestigiosa compagnia, ho sempre affermato che il Papa e i suoi vescovi hanno piena disponibilità dello spazio pubblico e possono dire ciò che vogliono e come vogliono. Salvo un punto: le pattuizioni dei Trattati lateranensi che come tutti i trattati contengono diritti e doveri per le parti contraenti.
Io sarei felice per la Chiesa se quei Trattati fossero aboliti: ne guadagnerebbe in libertà ed estensione del suo spazio pubblico. Ma non sembra che la Chiesa abbia questa intenzione: non ha più obblighi da osservare e conserva tutti i diritti e i privilegi pattuiti.
Va dunque bene così. Ma pongo ora a De Rita una domanda che ho già formulato tempo fa senza avere alcuna risposta. La domanda è questa: esiste un atto, un comportamento, un documento che possa configurare un’ingerenza da parte della Chiesa nella sovranità dello Stato? Di ingerenze vietate allo Stato dai Trattati del Laterano ce n’è a bizzeffe e lo Stato si è ben guardato dal cadere in fallo. Ma il viceversa qual è? Che cosa non può fare la Chiesa in forza dei Trattati? Stando a quel che vediamo la Chiesa può far tutto. Dunque il Concordato non prevede limiti, è un colabrodo. È possibile configurare un’ingerenza, tanto per sapere? De Rita ci può aiutare? L’arcivescovo Bagnasco può indicare un limite del quale abbiamo del tutto smarrito l’esistenza? O debbono intervenire i pretori e adire la Corte quando un prete in pulpito prescrive ai fedeli come votare? E non temete per lo spazio pubblico: quello ve lo concesse lo Stato italiano fin dal 1871 con la legge delle Guarentigie senza bisogno di alcun Concordato.
Ma, incalza De Rita, le dotte (bontà sua) elucubrazioni filosofiche dei laici sono lontane le mille miglia dalle tradizioni religiose degli italiani. Perciò non hanno presa. Tutt’al più possono riempire qualche piazza di omosessuali, ma di lì non nasce alcuna classe dirigente e alcun pensiero forte. Perciò non incoraggiate le piazze se volete un disinteressato consiglio.
D’accordo. Le piazze sono comunque minoranze. Recarsi in piazza è un diritto costituzionalmente garantito ma, per il pochissimo che mi riguarda, non ne sento alcuna nostalgia.
Sempre che questa "lontananza" sia reciproca. Pare che milioni di cattolici si preparino a scendere in piazza. Per loro è ammesso e consigliato e per i froci (ma sì, chiamiamoli così) è sconsigliabile? Curioso modo di intendere la democrazia.
L’altro tema è più serio: pensiero elitario contro tradizioni popolari, evidentemente non c’è gara. Certo che non c’è gara e infatti non esiste laico che si rispetti che si ponga l’ipotesi di estirpare la religione dall’animo non degli italiani ma delle persone ovunque nate e residenti. La ragione è semplice e la ricaverò da una citazione dello "Jacopo Ortis" fatta da monsignor Ravasi in uno degli ultimi numeri dell’"Avvenire": "Io non so perché venni al mondo né come: né cosa sia il mondo né cosa io stesso mi sia".
Questa è la citazione e ricorda uno dei Pensieri di Pascal. Di qui nasce la religione, quale che sia: dalla mancanza di senso e dall’angoscia che ne deriva. La religione è una delle risposte pacificanti. L’altra è la ricerca dell’autonomia della coscienza e del senso come suo proprio fondamento.
Non mi sognerei perciò di irridere il credente che trova il senso costruendo un dio e un processo di salvezza. Allo stesso modo giudico grossolana la tesi di chi contrappone le "elucubrazioni filosofiche" alle tradizioni religiose.
Sì, lo trovo molto grossolano e aggiungo: se siete, voi cattolici, così sicuri del vostro seguito, di che cosa vi preoccupate? Forse avete capito che sotto a molte di quelle tradizioni c’è solo il potere e nient’altro?
Post scriptum. Mi era molto presente una recente dichiarazione della Rosy Bindi in favore d’una Chiesa che pensi di più a Dio e al prossimo e ne ho dato conto in una recente segnalazione giornalistica. Ma poi la Bindi ha fatto retromarcia. Ha detto "meglio un bambino che resti in Africa piuttosto che sia adottato da una coppia omosessuale".
Brutta dichiarazione da parte di chi ha meritatamente contribuito alla stesura del testo di legge sulle coppie di fatto il quale, tra l’altro, non contempla alcuna proposta di adozione da parte di coppie omosessuali. Poiché la Bindi è donna coerente, qui la coerenza manca del tutto. Tuttavia quella sua dichiarazione è agli atti e non c’è stata alcuna smentita. Poiché la stimo e spesso la lodo pubblicamente mi permetto di reclamare una sua spiegazione.
Mi vengono in mente i "bravi" di Don Rodrigo quando imposero a Don Abbondio che quel matrimonio tra Renzo e Lucia non si doveva fare. Siamo a questo, onorevole Bindi?
* la Repubblica, 18 marzo 2007
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Oggi all’Accademia della Crusca un convegno sulla lingua con cui fu scritta la Carta
Quelle diecimila parole che fanno la costituzione
Nel testo l’aggettivo "eguale" appare quattro volte; "sacro", invece, una. Manca il termine "laicità", mentre "solidarietà" compare in un passaggio
di Enzo Golino (la Repubblica, 11.11.2011)
Carlo Azeglio Ciampi l’ha definita "la Bibbia laica"; Giorgio Napolitano, il giorno del giuramento, affermò che «l’unità costituzionale» si è fatta «sostrato dell’unità nazionale». Gli anni passano e sempre più, in Parlamento e fuori, si accentua il dibattito - pur necessario, ma afflitto da striscianti velleità lottizzatorie - sulla necessità di aggiornare la nostra Carta cambiando con saggezza specifiche norme. Arriva dunque opportuno il convegno multidisciplinare sui concetti e le parole del lessico costituzionale italiano dal 1848 al 1948 organizzato oggi a Firenze dall’Accademia della Crusca e aperto dalla presidente Nicoletta Maraschio. Partecipano costituzionalisti, storici, linguisti.
L’ultima relazione della giornata è di Erasmo Leso, storico della lingua italiana all’Università di Verona, studioso del linguaggio giacobino e del linguaggio fascista. Si occupa del rapporto fra lingua della Costituzione e lingua di tutti iniziando dalle analisi pionieristiche di Tullio De Mauro (autore della più volte accresciuta e ristampata Storia linguistica dell’Italia unita, Laterza) approdate poi nel saggio introduttivo al testo della Costituzione edito nel 2006 da Utet-Fondazione Bellonci. Infatti, a sessant’anni dal voto del 2 giugno 1946 e dalla nascita del Premio Strega, la Fondazione decise di assegnare alla Carta un Premio Strega speciale: autore collettivo i 556 parlamentari eletti dal popolo.
Professor Leso, dal 1° gennaio 1948, e per tutto l’anno - dopo l’approvazione il 22 dicembre 1947 a larghissima maggioranza - il testo doveva essere depositato in ogni Comune per consentire ai cittadini di prenderne visione e cognizione. Ma quanta gente, allora, avrà potuto leggerlo e capirlo?
«De Mauro ricorda che nel 1951 solo il 40 per cento della popolazione aveva la licenza elementare o titoli superiori. Ma per la sua estrema leggibilità, sia pure con l’aiuto di lettori più esperti, oggi - precisa De Mauro, indicandone la consistenza numerica - il testo è di lettura facile per tutta la popolazione in possesso di licenza elementare, quasi il 90 percento. Si tratta di 9369 parole: i lemmi singoli sono 1357, i periodi 420, e ogni periodo ha in media 19,6 parole».
Un ventenne, studente universitario, le chiede due parole chiave di ieri e due di oggi della nostra Carta: lei quali indicherebbe? «"Libertà", e se ne capisce l’intenzione visto che l’Italia usciva dal ventennio fascista; e "lavoro", una scelta al cospetto di un Paese distrutto che doveva essere ricostruito. Oggi invece, "solidarietà" e ancora "lavoro"».
Tendenza alla semplificazione, sobrietà espressiva, quasi nulla di enfasi aulica sono caratteristiche ormai accertate del nostro lessico costituzionale. Vuole suggerirmi qualche esempio?
«Articolo 52, prima riga: "la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino". L’aggettivo "sacro", certamente impegnativo a causa del complesso significato e nell’uso alto del termine appare soltanto qui, e non altrove. Anzi, un frammento in cui si parlava di "sacri principi di autonomia e dignità della persona umana" è stato lasciato cadere».
Insomma, la regola è stata l’antiretorica, quasi un understatement rispetto alla rutilante oratoria fascista. «Sì, altra norma adottata dai costituenti è quella di far passare un messaggio senza nominarlo esplicitamente, senza riassumerlo in parole d’ordine, in slogan. "Eguaglianza", che pure è una parola fondamentale nello spirito dell’intera Costituzione appare solo tre volte; "eguale" appena quattro volte, e "uguale" mai».
E le parole più frequenti?
«In prima linea "legge", 138 volte, più 41 al plurale; e - ovviamente - "Repubblica" con 95 occorrenze. A distanza si collocano "diritto", 55 volte plurale compreso, "Costituzione" 36, "cittadino" 29 plurale compreso, "lavoro" 18, "libertà" 13 e via scrutinando...».
Con il senno di poi, avrebbe diminuito o aumentato la frequenza non solo di queste, oppure ne avrebbe introdotto qualche altra mai citata?
«Avrei inserito la parola "laicità", assente, e aumentato "solidarietà", presente una sola volta».
La religione, una bussola per la società inquieta
di ILVO DIAMANTI *
Quattro anni dopo, il Dio degli italiani sembra meno "relativo". È ciò che suggerisce l’indagine sul rapporto fra gli italiani e la religione, condotta da Demos-Eurisko, sulla traccia di un sondaggio realizzato nel 2003.
Le persone disposte a considerare le differenze religiose come espressioni diverse di una medesima fede, infatti, oggi sono il 58%. La maggioranza. Ma quasi 10 punti percentuali in meno rispetto al 2003. Parallelamente, è cresciuta la quota di quanti affermano la verità "assoluta" del loro credo religioso.
Dal 16% al 23% della popolazione. Rispetto a qualche anno fa, dirsi cattolici, oggi, è quindi motivo di distinzione. D’altronde, è ciò che si era proposto Benedetto XVI, nel momento d’avvio del suo pontificato. "Sfidare" il relativismo di questa società secolarizzata, in cui la religione, in particolare quella cristiana, non è più in grado di "fare" la differenza.
Oggi qualcosa è cambiato. Lo si coglie nell’etica sociale e nei valori personali. Come dimostra il ridimensionamento sensibile della tolleranza verso una serie di comportamenti relativi alla vita, alla famiglia, alla sessualità. Nel caso del "divorzio": la quota di quanti lo considerano "moralmente accettabile" scende dal 62%, nel 2003, al 55%, oggi. La convivenza fra due persone - uomo e donna - non sposate: approvata dal 79% delle persone, 4 anni fa, è scesa al 69%. Perde dieci punti percentuali anche l’indulgenza verso il "sesso fra uomo e donna non sposati" (il 67%, oggi). Mentre l’ammissibilità morale dell’aborto è riconosciuta dal 23% degli italiani; era il 30%, quattro anni fa. Infine, l’omosessualità è ritenuta moralmente lecita dal 40% delle persone. Una minoranza. Si tratta di atteggiamenti che riflettono le indicazioni etiche della Chiesa. Come avviene, in modo particolarmente esplicito ed evidente, per la famiglia. Che, per la maggior parte degli italiani, coincide con l’unione fra due persone, di genere diverso, istituzionalizzata dal matrimonio.
Gli italiani, quindi, dimostrano maggiore ascolto e maggiore attenzione verso le indicazioni della Chiesa. Anche se ciò non riflette una parallela crescita della religiosità in Italia. L’Italia, infatti, continua ad essere un Paese nel quale "non ci si può non dire cristiani". In particolare (quasi 9 italiani su 10), "cattolici". Ma la partecipazione ai riti e la frequenza sacramentale riguardano una componente molto più ridotta. Circa uno su quattro (a parole. Nella realtà sono di meno).
Gli italiani, quindi, sono cattolici, ma senza troppo impegno. Senza vocazione (i seminari sono sempre più vuoti). Continuano, però, ad aderire in massa alla religione perché la ritengono un cemento sociale. Ma anche una bussola, che dà orientamento in una società disorientata. Un’ancora, che tiene saldo il legame con la tradizione comune. In forma quasi ereditaria. Tanto che un italiano su due, per spiegare la propria "fede", chiama in causa il ruolo della famiglia. Mentre quasi nove italiani su dieci ritengono importante trasmettere ai figli una educazione cattolica (e sette, fra chi non va mai a messa). Anche le opinioni verso legislazione sulle unioni di fatto riflettono questo clima. Certo: la quota degli italiani favorevoli ai DICO supera in misura consistente quella dei contrari: 50% a 40%. Tuttavia, il consenso verso la legge, negli ultimi anni, è calato di oltre 10 punti percentuali. Difficile spiegare questa tendenza solo con il passaggio dai Pacs ai Dico. È più probabile, invece, che il dibattito politico e le posizioni della Chiesa abbiano fatto percepire questi progetti come "minacce" all’istituto familiare. Al fondamento della coesione sociale. Anzi: della società, tout-court.
Questa Chiesa esigente, impegnata a marcare i confini del bene e del male, dice spesso cose che alla gente appaiono "come un comando ricevuto dall’alto, al quale bisogna obbedire perché si è comandati", per citare le parole del cardinale Carlo Maria Martini. Gli ammonimenti reiterati della gerarchia cattolica, tuttavia, riscuotono attenzione non solo fra i cattolici, più o meno praticanti, ma anche fra i non credenti.
Perché toccano questioni legate all’etica: centrali, per la società. E perché, comunque, rispondono all’inquietudine diffusa di fronte ai cambiamenti che investono la vita e l’integrazione sociale. In primo luogo, la famiglia.
Peraltro, nella sfera privata e nella vita quotidiana, gli italiani continuano a concepire l’insegnamento religioso come un prontuario utile e duttile. Che ciascuno interpreta a modo suo. Secondo coscienza. E necessità. Di fronte alla sofferenza individuale, quando è ritenuta senza speranza, prevale la "pietà", che induce a riconoscere il diritto della persona a decidere. Se e quando morire. A dispetto dei precetti e dei proclami della Chiesa. Solo l’8% - sì: l’8%! - considera giusto che la Chiesa abbia negato i funerali religiosi a Welby. Appaiono poco condivisi anche i reiterati interventi della gerarchia ecclesiastica, di papa Ratzinger (e, fino a ieri, di Ruini) diretti alla politica e ai politici. La grande maggioranza degli italiani (60%) non condivide che la Chiesa "indichi ai parlamentari cattolici di votare contro i Dico". E una percentuale di persone ancora più ampia (il 74%, il 63% anche fra i cattolici praticanti), ritiene che in Parlamento, sui Dico, i politici cattolici debbano votare "liberamente secondo coscienza".
La Chiesa del nostro tempo, con le sue prescrizioni e i suoi ammonimenti, fra gli italiani suscita considerazione ma anche distacco. Come mostra il diverso sentimento suscitato da questo Pontefice, rispetto a quello che l’ha preceduto. Verso Benedetto XVI, infatti, dichiara di avere fiducia il 54% della popolazione. Venticinque punti percentuali meno di Wojtyla, quattro anni fa. Contribuisce, sicuramente, a questo risultato, la diversità di linguaggio, ma anche del ruolo interpretato, dai due pontefici. Il pastore, da un lato, il teologo, dall’altro. Ma conta anche la scelta, programmatica, di questo Papa, che esibisce il "distintivo cristiano". "Divide" il giusto dall’ingiusto, in nome della fede. E interviene, sulla realtà italiana, molto più di Wojtyla. Per questo, mai come in questa fase, dall’epoca della prima Repubblica, le relazioni fra religione e politica sono apparse tanto strette e conflittuali. Il fatto è che i temi posti dalla Chiesa sono centrali, per l’agenda politica. E gli attori politici stessi se ne servono, in questa fase confusa, per acquisire identità, conquistare consensi, costruire alleanze. Il "bipolarismo politico" rischia, così, di tradursi in "bipolarismo etico", come ha scritto di recente Luigi Bobba, parlamentare cattolico della Margherita ("Il posto dei cattolici", Einaudi). Non a caso, oggi, la Chiesa appare, a un quarto della popolazione, "vicina al centrodestra". Quasi nessuno, invece, la considera "amica" del centrosinistra. E solo una minoranza dei cattolici praticanti, d’altronde, dichiara che oggi voterebbe per l’Unione.
Anche questo è un segno dei tempi nuovi. Nella storia repubblicana, fino ad oggi, la Chiesa non era mai apparsa "di parte". Fra destra e sinistra, stava al centro. Nei momenti migliori: in alto.
* la Repubblica, 18 marzo 2007
Il raccolto di Ratzinger
di Ida Dominijanni (il manifesto, 20.03.2007)
Insisti oggi insisti domani, pare che la strategia vaticana di ri-cristianizzazione - ma più propriamente di ri-cattolicizzazione - della società italiana stia cominciando a dare i suoi frutti: e non sono frutti dolci, per il palato laico. La Repubblica ha pubblicato domenica i risultati di una indagine Gfk-Eurisko sul rapporto degli italiani con la religione e l’etica cattolica, coordinata e commentata da Ilvo Diamanti, sulla quale vale la pena di meditare. Dall’indagine risulta che Benedetto XVI gode oggi di una tasso di fiducia assai più basso (53,/% degli intervistati, un campione di 1445 persone rappresentativo della popolazione italiana maggiorenne) di quello di cui godeva nel 2003 Giovanni Paolo II (77,2%), ma che il martellamento politico di Ratzinger sulle questioni della sessualità e della famiglia ha ottenuto di converso uno spostamento significativo delle convinzioni degli italiani a vantaggio delle posizioni del Vaticano. Il divorzio, ad esempio, era considerato «moralmente accettabile» nel 2003 dal 62 per cento del campione, oggi dal 55. La convivenza fra eterosessuali non sposati era approvata nel 2003 dal 79 per cento, oggi dal 69, e degli stessi dieci punti scende anche la tolleranza verso i rapporti sessuali fra non coniugati. L’aborto era considerato moralmente ammissibile dal 30 per cento nel 2003, oggi dal 23. L’omosessualità è considerata moralmente lecita dal 40 per cento. A una legge sulle unioni civili sono oggi favorevoli il 50,3% e contrari il 40,7, ma anche qui c’è poco da rallegrarsi: un anno fa i favorevoli erano il 63%, quattro anni fa il 61; scendiamo in picchiata.
A questo progressivo adeguamento ai comandamenti etici cattolici non fa riscontro un aumento del fervore religioso: i cattolici italiani continuano ad andare poco a messa, disertano i seminari, sono fedeli più per tradizione familiare che per convinzione personale e in ossequio alla stessa tradizione continuano a impartire un’educazione religiosa ai figli. Della Chiesa, inoltre, sono in molti a non accettare alcune scelte particolarmente intolleranti: il 79,5 per cento del campione trova sbagliato negare la comunione ai divorziati e i funerali religiosi a Piergiorgio Welby, l’81 per cento considear sbagliata la condanna del preservativo, il 57,3 l’obbligo del celibato per i sacerdoti, il 61,4 la richiesta ai parlamentari cattolici di votare contro la legge sui Dico. Ma quando dalle domande sulla comunità cattolica nazionale o occidentale si passa a quesiti transculturali e transreligioci, la soglia della tolleranza si abbassa alla base della piramidecattolica non meno che al vertice: il 14,3 per cento del campione (contro l’11 del 2003) ritiene che solo la religione cattolica possieda la verità su Dio, e solo il 57,7 per cento (contro il 67 del 2003) ammette che tutte le religioni si riferiscono allo stesso Dio e sono solo formule diverse della fede umana.
Il tempo dunque sembra stia lavorando a favore dell’integralismo ratzingeriano. Contraddittoriamente, una larga maggioranza del campione si dichiara sfavorevole all’ingerenza della Chiesa sul processo legislativo, e il 61 per cento giudica sbagliata l’annuncxiata nota impegnativa della Cei ai cattolici italiani. Almeno sul piano formale, il principio di laicità dello stato viene confermato; tanto più risulta sostanziale l’adesione progressivamente in aumento ai comandamenti dell’etica cattolica. Si tratta di una vittoria di Ratzinger, o una sconfitta - l’ennesima- della politica? Facciamo un’ipotesi. Immaginiamo che nella parte laica del nostro parlamento il riconoscimento giuridico delle convivenze venga presentato per una volta come una scelta di valore e non come un rimedio a una situazione di fatto, che l’omosessualità venga nominata come scelta di libertà e non come problema, che la procreazione assistita venga rubricata come possibilità e non come far west; immaginiamo insomma che la politica laica abbandoni la retorica della riduzione del danno e adotti il linguaggio delle libertà. Scommettiamo che in questo caso molti troverebbero da questa parte la bussola etica che oggi trovano nella Chiesa, e lo stesso sondaggio darebbe risultati diversi?
"Madre de’ Santi;
immagine
della città superna;
del Sangue incorruttibile
conservatrice eterna;
tu che, da tanti secoli,
soffri, combatti e preghi;
che le tue tende spieghi
dall’uno all’altro mar".
Inni Sacri (La Pentecoste) di Alessandro Manzoni