Intervista al presidente: "Un mercato da Chicago negli anni ’20. Non mi presento all’assemblea del 16". Passera, appello alle banche.
Rossi: "La mia verità su Telecom
Tronchetti mi ha eliminato"
di FEDERICO RAMPINI *
"Adesso posso dirlo: mi sento sollevato, mi sono tolto un peso. Da metà settembre fino a martedì scorso ho passato sei mesi d’inferno. Alla mia età è giunta l’ora di rinunciare alle illusioni: il sogno di salvare la Telecom, come quello di risanare il calcio italiano. Erano le illusioni di un vecchio signore che ancora pensa di fare il riformista. E’ tempo che mi passino dalla testa". Il giorno dopo l’ultimo scontro con Marco Tronchetti Provera, Guido Rossi pronuncia giudizi severi e lapidari ma con il tono sereno, di chi davvero è convinto di aver chiuso una pagina.
Può parlare in libertà, può dare la sua versione, può fare un bilancio di questi sei mesi (poco più) che lo hanno visto tornare alla testa del gruppo che lui stesso aveva guidato nella privatizzazione. Il giurista, ex presidente della Consob, promotore della legislazione antitrust in Italia, da questa vicenda trae la conferma di una diagnosi spietata sui mali profondi del capitalismo italiano, sulla sua incapacità di cambiare. Tronchetti; il vizio antico delle scatole cinesi; le banche; la politica; nessuno si salva: e se questo è lo stato del paese allora ben vengano gli stranieri, è la sua lezione finale.
Professor Rossi, cominciamo dall’inizio, cioè da settembre. Visto com’è andata a finire, non era una missione impossibile la sua? E perché Tronchetti venne a cercare proprio lei, se stava scritto che i vostri disegni sarebbero risultati incompatibili?
"Perché è venuto a cercarmi? Perché era troppo nei guai, perché era alle strette sia con l’Antitrust che con l’Authority delle Comunicazioni, perché la sua situazione sembrava irrecuperabile, perché aveva bisogno di credibilità. Io mi sono fatto carico di questa responsabilità nell’interesse dell’azienda, l’ultima grande impresa tecnologica italiana, un gruppo al quale mi sentivo legato dalla storia della sua privatizzazione. Ma quando ho cercato di fare pulizia nel conflitto d’interessi fra Tronchetti e la Telecom, per il bene dell’azienda, del mercato e del paese, siamo entrati in rotta di collisione. Sono diventato pericoloso per lui, andavo eliminato. Naturalmente anche negli scontri c’è modo e modo di comportarsi. Che mancanza di stile, avvertirmi solo la sera prima che Olimpia non mi avrebbe ricandidato per il rinnovo del consiglio d’amministrazione...".
Ma già prima di questa resa dei conti finale, c’erano stati scontri strategici. Si è detto che lei ha fatto saltare un primo accordo, quello che Tronchetti stava negoziando con la spagnola Telefonica. Sarebbe stato, dopotutto, se non una soluzione italiana almeno un esito europeo.
"Ma chi ha messo in giro questa fandonia? Ho l’impressione che mentre io mi occupavo dell’azienda, c’è chi passava più tempo a parlare con i giornali per accreditare queste tesi. Quella che io avrei ostacolato il dialogo con Telefonica è una menzogna. Al contrario, da un certo momento sono stato l’unico a tenere i rapporti con Cesar Alierta. Il presidente di Telefonica era scandalizzato per la tracotanza di Tronchetti. Venne a trovarmi a casa, passò un’intera domenica pomeriggio a parlarmi. Aveva capito che Tronchetti voleva incassare tutto il premio di controllo, per un controllo che non ha. Telefonica è una public company, mi disse Alierta, certe cose non può farle. Ecco come si parla quando si ha rispetto per il mercato".
Si è detto anche che lei con il suo ostruzionismo di fatto stava spianando la strada all’ingresso della Fininvest di Silvio Berlusconi, l’unico gruppo italiano con i mezzi per subentrare nel controllo di Telecom.
"E’ un’accusa ignobile. Purtroppo in questo paese sembra non sia facile trovare persone libere, non condizionate da logiche d’appartenenza. E così le dietrologie sfidano anche le regole della verosimiglianza. Io appoggerei Berlusconi? Guardi, ho vissuto altri momenti drammatici per l’economia italiana, e basti ricordare il crac Ferruzzi-Montedison, ne ho viste tante ma questa è davvero la vicenda peggiore. Al conflitto d’interessi di Tronchetti si sono mescolate le grandi manovre del risiko bancario, le eterne tentazioni di commistione della politica. Non so se gli stranieri che si affacciano hanno capito con quale paese hanno a che fare".
Questa volta però il presidente del Consiglio ha deciso di non intervenire sul caso Telecom.
"Sì, ma il risiko bancario è ancora e sempre impregnato di politica, è percorso da tensioni fra Prodi e i Ds. Tronchetti si sente appoggiato da Banca Intesa. Prodi forse pensa di condizionare la vicenda, di garantire un ancoraggio italiano, attraverso le banche. In tutto questo si perde di vista l’unica questione seria: nonostante gli anni di difficoltà, i ridimensionamenti, le occasioni perdute, la Telecom è l’ultima grande impresa italiana che è ancora in grado di fare ricerca tecnologica, e la fa. Nel 2006 ha investito più di 3 miliardi di euro in ricerca, innovazione e sviluppo, per l’Italia sono volumi importanti. E’ un patrimonio del paese. Il suo indebitamento è dovuto solo a quelli che l’hanno scalata, a chi sta ai piani superiori. L’azienda è sana, ha un cash flow straordinario, genera utili. Non merita di essere al centro di un gioco al massacro".
Il 16 aprile è convocata l’assemblea della Telecom. Lei fino a quell’assemblea è ancora il presidente. Che farà?
"Non credo proprio che mi presenterò. Che cosa farei, in mezzo a una lista di amministratori designati per obbedire a chi di suo ha investito lo 0,6% del capitale, e pretende di controllare la società? Qui vengono a galla problemi strutturali del nostro capitalismo, che ho denunciato da decenni. Si paga il prezzo delle riforme mai fatte, delle opportunità sprecate anche quando il centro-sinistra era al governo. Di recente è diventato di moda scoprire il sistema dualistico di governance d’impresa, il modello tedesco: lo scopriamo noi proprio quando la Germania per modernizzarsi prende le distanze da una formula vecchia di settant’anni. Ci si trastulla con questi inutili diversivi, nessuno invece osa toccare le anomalie patologiche del nostro sistema: le scatole cinesi, i patti di sindacato. Questa vicenda Telecom passa tutta sopra la testa del mercato, ecco l’unica certezza: i piccoli azionisti sono resi impotenti, e saranno beffati come sempre. E un paese che soffre di una così grave mancanza di regole naturalmente è il terreno ideale per chi vuole approfittarne, per chi pensa a portar via più soldi che può. Invece del fare, c’è l’arraffare. Questa sembra la Chicago degli anni Venti, sembra il capitalismo selvaggio dei Baroni Ladri nell’America del primo Novecento. Ma almeno in America un secolo non è passato invano. Là semmai con la Sarbanes-Oxley oggi hanno addirittura il problema opposto, quello di un sistema iper-regolato".
Tronchetti ha aperto ufficialmente un tavolo di trattativa per la cessione del controllo di Telecom all’americana AT&T associata coi messicani di America Movil. The Wall Street Journal sostiene che si sono rimessi in moto altri due contendenti stranieri, France Télécom e Telefonica. Alla fine sono tutti gruppi esteri, con eventuali soci bancari italiani nella funzione di comprimari. Una parte della sinistra preme su Prodi perché difenda l’italianità della Telecom. Lei che ne pensa?
"Ma ben vengano gli stranieri! Il nostro sistema paese sta dando il peggio di sé. In questa situazione mi par di vedere dei ricorsi storici, torniamo a un’epoca in cui un pezzo d’Italia era sotto gli austriaci, un altro sotto gli spagnoli... Fuor d’ironia, non sono mai stato un nemico della globalizzazione. Se veramente si hanno a cuore gli interessi dell’Italia, vanno difesi in altri modi. Bisogna creare le condizioni ambientali, dalla formazione dei giovani nelle università alla ricerca scientifica, perché questo sia un paese dove è comunque vantaggioso mantenere attività ad alto valore aggiunto, centri d’innovazione. Chi predica la difesa dell’italianità, dov’era quando occorreva costruire le fondamenta di un mercato dei capitali moderno, cos’ha fatto per definire regole serie in difesa degli azionisti? Questo è un paese disperante per chi ha creduto nelle riforme. E’ un paese dove ormai o si muove la magistratura - e lei stessa è sempre più paralizzata dalle inefficienze - oppure non succede più niente".
Mercoledì lei è stato a Mediobanca, dove il polo bancario alternativo a quello di Banca Intesa ha chiesto il suo parere su un eventuale contropiano da opporre a quello di Tronchetti.
"Ho risposto che ho già dato. Ora sono fatti loro, tra azionisti, che trovino qualcun altro".
A sei mesi di distanza, le sembra di rivivere un film già visto con lo scandalo del calcio?
"La trama è diversa, il finale è lo stesso: il trionfo della restaurazione".
E adesso cosa farà il professor Rossi?
"Quello che per fortuna non ho mai smesso di fare. Mi dedicherò ai miei studenti universitari. Finirò il ciclo di lezioni sulla pena di morte e i diritti umani. L’unico terreno su cui l’Europa è rimasta all’avanguardia nel mondo, e l’America farebbe bene a imparare da noi. Il tema del mio prossimo libro".
* la Repubblica, 6 aprile 2007.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Le scatole cinesi della catena Telecom
di Galapagos (il manifesto, 06.04.2007)
C’è chi, ricordando le curiose bamboline russe, le ha chiamato Matrioske. Più popolare è un’altra definizione: «scatole cinesi». E’ il vizio, soprattutto italiano, di allungare le catene di controllo societarie (la Fiat ieri ha promesso che l’accorcerà) per consentire a un imprenditore di possedere asset strategici con un controllo diretto molto piccolo. Il tutto favorito da scambi reciproci di alleanze con altri soggetti. Il caso di Telecom è il miglior esempio.
La catena con la quale Marco Tronchetti Provera controlla e comanda su Telecom è molto lunga, ma dall’analisi di queste scatole cinesi emerge che non è lui il vero padrone del colosso italiano della telefonia. La prima scatola è rappresentata da una società personale di Tronchetti Provera, la Gpi, la quale possiede il 52,0% di una seconda scatola: una finanziaria che si chiama Camfin. Fin qui tutto quasi regolare: il 52% è una bella percentuale (la maggioranza assoluta) che consente a Tronchetti di governare in piena libertà. Le cose si complicano con la scatola successiva: Pirelli.
Del prestigioso marchio industriale italiano la Camfin possiede il 25,5% delle azioni, cioè un quarto del capitale. La forza di Tronchetti è un patto di sindacato (scadrà nel 2010) al quale aderiscono banche e società di assicurazione e che dà stabilità alla Pirelli grazie al fatto di aver «federato» il 46,2% delle azioni. Senza quel patto Tronchetti Proverà, o meglio, la Pirelli, sarebbe a rischio di possibili scalate. Ma passiamo alla scatola successiva: Olimpia. Fu creata nel 2001 per rilevare il 23,3% delle azioni Olivetti in portafoglio alla Bell, una società di Colaninno e Gnutti che aveva in pancia azioni Telecom acquisite con la scalata del 1999 che aveva portato a rilevare con un’Opa il 51,02% del capitale della compagnia telefonica. Saltando un po’ di passaggi, oggi Olimpia (per l’80% di proprietà di Pirelli e per il 20% della famiglia Benetton) detiene il 18% del capitale sociale di Telecom.
Andando a ritroso, quindi, Tronchetti Provera detiene con Olimpia controllata da Pirelli un po’ più del 14% di Telecom. Però la partecipazione in Pirelli di Tronchetti è limitata al 25% del capitale. Risultato: Tronchetti possiede a pieno titolo poco più del 3,5% di Telecom. Andando ancora più indietro c’è la Camfin di proprietà di Tronchetti solo per il 52%. Questo significa che la quota di Tronchetti in Telecom scende a meno del 2%. La storia qui si ferma. La morale è semplice: Tronchetti spadroneggia su Telecom grazie ai soldi altrui.
Telecom e i baroni ladri
di Antonio Padellaro *
Prima di rassegnare le dimissioni da presidente di Telecom il professor Guido Rossi ha rilasciato un’intervista a "Repubblica" il cui titolo è tutto un programma: «Volevo fare pulizia ma Tronchetti mi ha eliminato». Seguono affermazioni pesanti sul «momento più drammatico dell’economia italiana» e un’accusa gravissima che vale la pena di riportare per intero. «Questa vicenda Telecom passa tutta sopra la testa del mercato, ecco l’unica certezza: i piccoli azionisti sono resi impotenti e saranno beffati come sempre. E un paese che soffre di una così grave mancanza di regole naturalmente è il terreno ideale per chi vuole approfittarne, per chi pensa a portare via più soldi che può. Invece del fare c’è l’arraffare». E poi: «Questa sembra la Chicago degli anni Venti, sembra il capitalismo selvaggio dei Baroni Ladri del primo Novecento». Chicago anni Venti? Baroni ladri? Che sta succedendo?
1) Guido Rossi è una personalità del diritto e dell’economia. È stato presidente della Consob. È un profondo conoscitore delle regole del mercato. Ha scritto la legge italiana Antitrust. Chiamato a risollevare le sorti di istituzioni afflitte, per così dire, da crisi etica (vedi la Federcalcio dopo Moggiopoli) forse per le inclinazioni progressiste viene definito il Gran Borghese. Ciò spiega perché goda di robuste inimicizie tra coloro che preferirebbero un mercato regolato dalla legge della giungla. E che attraverso i politici di riferimento (vedi Pierferdinando Casini) lo hanno invitato a smetterla di fare prediche e a togliersi di mezzo.
Non gli ha fatto certo piacere l’essere stato estromesso dall’azionista Olimpia (e quindi da Marco Tronchetti Provera) dalla lista dei candidati per il nuovo cda Telecom. Ma accuse come le sue non si lanciano giusto per rispondere a uno sgarbo ricevuto.
2) In queste settimane di affare Telecom molto si è discusso dei possibili acquirenti nordamericani, di possibili controcordate bancarie, di libertà del mercato da temperare con la difesa dell’interesse nazionale. Nessuno aveva però introdotto in termini così espliciti il concetto dell’«arraffare», e dunque del malaffare. Anche se Rossi parla in generale del sistema economico-finanziario del paese, colpiscono alcuni suoi riferimenti di natura storico-criminale. La Chicago degli anni Venti richiama alla mente Al Capone, il linguaggio dei mitra e il gangsterismo elevato a criterio regolatore del capitalismo senza limiti. Quanto ai Baroni Ladri, si evoca l’America del capitalismo più spietato alla fine del XIX secolo segnato dalla dittatura economica dei Morgan, dei Rockfeller, dei Ford. Quando tutte le istituzioni dalla presidenza, al Congresso, alla Corte suprema, ai due principali partiti agendo in stretta connessione con i trust industriali e finanziari si diinteressavano dei diritti dei cittadini impegnati com’erano a reprimere soprattutto le rivolte sociali.
Oggi siamo evidentemente in un contesto molto diverso ma la definizione di Baroni Ladri così icastica ed espressiva si attaglia perfettamente a certi personaggi di nostra conoscenza.
4) Che la vicenda Telecom possa essere accostata ad altre rovinose disavventure del capitalismo italiano lo ammette, del resto, lo stesso Tronchetti quando intervistato dal direttore del «Sole 24Ore», Ferruccio de Bortoli dice che «qualcuno avrebbe voluto fargli fare la fine di Montedison e di Rizzoli». La speranza, naturalmente, è che non sia così ma la funesta citazione è tutt’altro che fuori luogo. A cavallo tra gli anni 70 e 80 quella Montedison e quella Rizzoli furono infatti travolte da un mix micidiale di debiti e megalomania (la Montedison di Cefis e della razza padrona o quella successiva del crac Ferruzzi), e di trame occulte a sfondo criminale (la Rizzoli piduista). Superfluo ricordare come la Telecom sia al centro di molteplici inchieste giudiziarie sulla centrale di spionaggio annidata ai vertici del gruppo e dedita alle intercettazioni di massa. Con la partecipazione di agenti del Sismi e uomini della Cia. In una selva di dossier, complotti, depistaggi e veleni. Con un morto: Adamo Bove, il dirigente della sicurezza Tim, suicida in circostanze talmente misteriose che fanno pensare a un assassinio. Caro professor Rossi, verrebbe da chiedere, a confronto di tipacci del genere Al Capone non era un dilettante?
5) Tra dibattiti sull’italianità e polemiche sullo scorporo della rete gli interessi dei lavoratori Telecom, degli utenti e dei risparmiatori sono passati in secondo piano, come faceva notare venerdì su questo colonne Angelo De Mattia. Anche a questa omissione ha rimediato Guido Rossi annunciandoci, per l’appunto, che «i piccoli azionisti saranno beffati come sempre». Parmalat e Cirio insegnano. Quanto ai lavoratori (80mila persone) e agli utenti (quasi tutta l’Italia) è inevitabile che sentano puzza di bruciato. Ma in concreto cosa possono fare? E c’è qualcuno che possa fare qualcosa?
Il governo sostiene di avere le mani pressocché legate trattandosi di una società privata e quotata in Borsa. E per non sbagliare, si è tappato la bocca. In privato, alcuni autorevoli ministri esprimono la speranza che la cordata bancaria abbia successo. Altri confidano nelle meraviglie del mercato. Altri ancora s’interrogano sulle questioni di legalità (e illegalità) di cui l’azienda deve rispondere. E non escludono ulteriori interventi della magistratura.
Come quadro di certezze per un colosso più grande di Rai, Fiat, Mediaset e Alitalia messe insieme, non c’è male.
apadellaro@unita.it
* l’Unita, Pubblicato il: 07.04.07, Modificato il: 07.04.07 alle ore 12.03
TELECOM, PERCHE’ PIANGE IL TELEFONO *
Siamo membri del G8, fondatori della Ue, celebratori del Pil a tempo indeterminato, tifosi entusiasti del “made in Italy”. Esportiamo “peace keeping” e democrazia, ma non siamo una nazione: siamo un caravanserraglio. Succede così che a danzare nel piatto del nostro scombinato paese si divertono in molti, è cosa nota. Perché solo una “Repubblica di Franceschiello” può permettersi il lusso e la vergogna di cedere a stranieri una azienda strategica come quella delle telecomunicazioni. Le telecomunicazioni, come l’energia e i trasporti, sono alcune delle imprese su cui poggia il sistema-paese, strategiche dunque. Ma stavolta, a ricordarci il nanismo politico di cui patiamo, tocca a statunitensi e messicani, che hanno presentato una offerta per rilevare i due terzi di Olimpia, la finanziaria di Tronchetti Provera che detiene il controllo di Telecom Italia. La “AT&T” statunitense e la “America Movil” sono pronti a sborsare 2,82 Euro ad azione per prendersi Olimpia, con ciò indicando una speculazione colossale alle viste, dato che l’offerta è decisamente al di sopra del valore reale sul mercato azionario.
L’”AT&T” è la multinazionale della telefonia che contribuì, in partnership con altre, a finanziare il colpo di Stato del boia Pinochet in Cile; in qualche modo allenata, dunque, a prendersi i paesi e trasformarli in voci di bilancio. Seconda solo a “Vodafone” per capitalizzazione di borsa, è la prima compagnia telefonica degli Stati Uniti. Ma la "America Movil", del messicano Carlos Slim Helù, che la rivista Forbes indica come il terzo uomo più ricco del mondo (patrimonio stimato in 49 miliardi di dollari), divenuto ricchissimo all’ombra di Salinas de Gortari, oltre ad avere il controllo della telefonia fissa messicana tramite la Telmex, ha le mani in pasta anche nella grande distribuzione e nei media e decide chi fa il Presidente del Messico, come fece con Fox prima e Calderon ora.
Dopo la privatizzazione del 1999, quella dei “capitani coraggiosi”, per intenderci, cui ha fatto seguito l’ingresso di Tronchetti Provera nel 2001, adesso è il turno dell’uscita di scena definitiva. E mentre il titolo del gruppo, eccitando gli investitori, balza in alto nelle contrattazioni, fornendo così ulteriore ossigeno e climax finanziario atto all’operazione, è gara nazionale ad esprimere sconcerto e sdegno per l’annuncio del misfatto.
Gli esegeti delle privatizzazioni, i cantori del libero mercato e delle sue taumaturgiche virtù, le sirene ululanti dell’uscita dello Stato da ogni attività economica, siano essi panettoni o comunicazioni, frigoriferi o energia, dovrebbero finalmente godere. Ma tacciono o, anzi, chiedono “spiegazioni”, si dichiarano “sconvolti” e chiamano il governo all’intervento immediato. Solo Capezzone, il radicale con l’elmetto delle banche, cui solo l’ambizione supera l’antipatia, ha il coraggio di continuare a dire quel che ha sempre detto: e cioè che il mercato non deve subire le interferenze della politica, che lo straniero che arriva è un fatto positivo, che magari ci si abbassa la quota di decenza ma ci si alza il rating.
I nostri imprenditori preferiscono investire all’estero, inseguendo il costo del lavoro al suo livello più basso. Il ruolo sociale dell’impresa non sanno nemmeno cosa sia; dalla fiscalità generale succhiano finanziamenti a pioggia mentre evadono le imposte e, per giunta, offrono lezioni dalle sale di Confindustria. Le banche sono diventate il vero padrone della nostra economia, che vede capitali volatili e persone a terra. Che sembra abbia bisogno di leggi Biagi e di concertazioni tra sanguisughe e vittime, di assenza di norme a santificare una sola legge: quella dell’impunità. Abbonda una classe imprenditoriale che rinuncia ad investire in tecnologia e reti, dedicata com’è al caporalato diffuso, modello delle nuove relazioni industriali.
Vedremo cosa deciderà di fare il Governo Prodi. Se sceglierà di fornire una risposta politica alta, per evitare che anche questo smacco ci sia risparmiato e si possa stabilire che un Paese non può essere umiliato dai furbetti. O se, invece, lascerà “all’invisibile mano del mercato” il compito di ridisegnare la cartina del paese, i suoi poteri e i suoi confini. Almeno per evitare una nuova mappatura che veda Roma solo quale ultimo luogo romantico della periferia dell’impero.
Giovanni Gnazzi
Fonte: www.altrenotizie.org
Mercoledì era stato escluso dalla lista di Olimpia per il Cda del 16 aprile.
Era alla guida dell’azienda da 200 giorni, dopo aver rinunciato alla Figc
Telecom Italia, Guido Rossi lascia
dimissioni "con effetto immediato" *
MILANO - Il presidente di Telecom Italia, Guido Rossi, ha rassegnato le dimissioni "con effetto immediato" dalle cariche di presidente e consigliere di amministrazione. Le sue deleghe saranno prese da Carlo Buora. La sua seconda avventura al timone di Telecom è durata sette mesi. Esperto traghettatore di società nei momenti più difficili, il giurista milanese aveva preso il gruppo in mano a settembre dello scorso anno (rinunciando così all’incarico di commissario straordinario della Figc) dopo le dimissioni di Marco Tronchetti Provera seguite alle polemiche nate sul piano Rovati, mentre infuriava lo scandalo delle indagini illegali. Oggi, Rossi ha deciso di lasciare la presidenza dopo lo scontro con lo stesso Tronchetti, azionista di maggioranza, che non ha inserito il nome del presidente nella lista presentata da Olimpia per il rinnovo del cda della società.
Rossi nasce a Milano il 16 marzo 1931, si laurea in giurisprudenza all’università di Pavia nel 1953 e ottiene nel 1954 il Master of Laws all’università di Harvard. A 27 anni diventa docente di diritto commerciale e diritto privato comparato, poi di diritto industriale e commerciale. Nel febbraio del 1981 viene chiamato dall’allora ministro del Tesoro, Nino Andreatta, alla guida della Consob.
Nel 1987 viene eletto senatore come indipendente nelle liste del Partito comunista. Ma è solo una parentesi. Consulente di grandi gruppi come la Montedison e l’Inps, Rossi è stato anche legale di Mediobanca e consigliere di amministrazione delle Assicurazioni Generali.
Prima di essere chiamato alla guida di Ferfin e Montedison nel pieno della crisi del gruppo Ferruzzi, Rossi guida in prima linea la battaglia della Mondadori a fianco di Carlo De Benedetti contro la scalata di Silvio Berlusconi. Nel 1993 arriva alla presidenza di Ferfin e Montedison, scosse dal ciclone di Tangentopoli. Raccoglie un gruppo che fattura 22.800 miliardi l’anno e registra un indebitamento finanziario netto di oltre 22.600 miliardi. Con una nuova squadra di vertice, riesce a ottenere dalle banche il via libera al piano di ristrutturazione. Dopo due anni lascia il gruppo, ormai avviato verso il risanamento.
La sfida successiva è proprio quella delle telecomunicazioni. Nel 1997, Rossi arriva infatti alla Telecom invitato da Carlo Azeglio Ciampi a guidare la società, alla vigilia della fusione con la Stet, verso la privatizzazione. L’incarico inizia alla fine di aprile del 1997 e a novembre dello stesso anno (anche in quel caso dunque dopo appena 7 mesi), Rossi ritiene di aver portato a termine "l’unica vera privatizzazione d’Italia". E torna all’insegnamento.
Questa volta, invece, l’impegno non è stato portato a termine. Nel giro di un anno Rossi si è trovato a lasciare per due volte il posto occupato, senza completare l’opera. Per guidare la società di tlc, il professore era stato infatti costretto controvoglia a lasciare la Federcalcio, di cui era stato nominato commissario straordinario quasi un anno fa per risanare il pallone nel dopo-Moggi. Ora l’addio, filato tutt’altro che liscio, anche dalla Telecom.
Le divergenze con Tronchetti erano apparse chiare sin dall’inizio. Il piano di scorporo di Tim da Telecom con l’eventuale messa sul mercato della telefonia mobile per risanare il debito, che aveva fatto esplodere le polemiche intorno al numero uno della Pirelli, è stato abbandonato da Rossi già a settembre, a pochi giorni dal suo insediamento come presidente. Lo stesso è accaduto per Tim Brasil, di cui Tronchetti non escludeva la vendita, ma ritenuta strategica dalla nuova Telecom di Rossi. Infine, i dissensi su un accordo su larga scala con Telefonica.
* la Repubblica, 6 aprile 2007