Colombo lascia: vedo riabilitati i corrotti.
Il pm della P2 e di Mani pulite: il Paese non crede nella legalità, mi dedicherò ai giovani *
MILANO - Gherardo Colombo lascia la magistratura. Uno dei pm della scoperta della loggia P2 e di Mani pulite, ora giudice in Cassazione, dice addio alla toga a 60 anni. E spiega al Corriere: «In Italia quella tra cittadino e legalità è una relazione sofferta, la cultura di questo Paese di corporazioni è basata soprattutto su furbizia e privilegio. Tra prescrizioni, leggi modificate o abrogate, si è arrivati a una riabilitazione complessiva dei corrotti». E per il futuro? «Voglio incontrare i giovani e spiegare loro il senso della giustizia». «Mi sono convinto che, affinché la giurisdizione funzioni, è necessario esista una condivisa cultura generale di rispetto delle regole».
E invece in Italia «quella tra cittadino e legalità è una relazione sofferta, la cultura di questo Paese di corporazioni è basata soprattutto su due categorie: furbizia e privilegio. A questo punto del mio percorso di vita, quello che voglio fare è invitare in particolare i giovani a riflettere sul senso della giustizia. E’ una scelta del tutto personale, oggi mi sento più adatto a questo impegno che a quello di giudice». Dentro il giudice Corrado Carnevale, fuori il giudice Gherardo Colombo. Depurato da coincidenze temporali e rispettivi profili professionali, in termini puramente numerici è uno scambio alla pari: uno (il giudice assolto dall’accusa di mafia, il collega del "Falcone è un cretino") è riammesso dal Csm in magistratura (dove da presidente di sezione di Cassazione resterà sino a 83 anni); l’altro (con Turone il giudice della scoperta della loggia P2 e del delitto Ambrosoli, con Di Pietro il pm di Mani pulite, con Boccassini il pm dei processi Imi-Sir/Lodo Mondadori/Sme ai giudici corrotti da Previti), dà le dimissioni da magistrato ad appena 60 anni, 15 prima della pensione. Con una lettera presentata, in sordina, al Csm e al Ministero della Giustizia a metà febbraio, nei giorni delle stanche rievocazioni del 15esimo anniversario dell’inizio di Mani pulite.
Non è una resa, dice, non c’è sfiducia nel lavoro di 33 anni in toga, né tantomeno ci sono porte da sbattere o superbe prese di distanza da coloro che invece restano con la toga addosso, convinti che far bene il proprio lavoro quotidiano contribuisca a migliorare da dentro il sistema: «Ci mancherebbe altro, anche l’amministrazione della giustizia è indispensabile». Anche, dice però Colombo. Prima, un «prima che magari non è cronologico ma sicuramente concettuale», spiega di essersi reso conto che, per crederci ancora, ha bisogno di sentire esistere un prerequisito: «La giustizia non può funzionare senza che esista prima una condivisione del fatto che debba funzionare».
La scelta di dedicarsi a questo obiettivo nasce da «un rammarico: il verificare come la giustizia sia l’unica sede nella quale si pensa che debbano essere accertate le responsabilità. Oggi, chiunque dica al mattino una cosa e la sera il contrario, è irresponsabile di entrambe le dichiarazioni. Ma lo strumento del processo penale è inadeguato a riaffermare la legalità quando l’illegalità sia particolarmente diffusa e non esistano interventi che in altri campi vadano nella stessa direzione. Diventa una spirale, crea sfiducia e disillusione».
«E’ incredibile vedere quanto le persone siano coinvolte da questi contatti, da fuori è davvero inimmaginabile», si infervora Colombo raccontando di incontri «programmati per due ore e dove invece devo fermarmi per tre»; di centinaia di persone che magari vengono in un teatro o in una biblioteca all’antivigilia di Natale e quindi non certo perché non sanno cosa fare»; di «ragazzi che succede spessissimo restino con la bocca aperta» a sentire eventi della vita del loro Paese fondamentali, ma che nessuno mai gli aveva raccontato. «Bisogna dar loro due cose: metodi e informazioni», ritiene Colombo, che, sostenuto anche dall’esperienza di tanti incontri in tema di corruzione, tecniche investigative, assistenza giudiziaria internazionale, ai quali è chiamato particolarmente all’estero, si propone ora di impegnarsi in questa direzione «sia attraverso contatti diretti, sia scrivendo che occupandomi di editoria: va comunicato il profondo perché delle regole e il come farle funzionare; occorre colmare la carenza di informazione non solo sui fatti, ma anche sulla concatenazione dei fatti e del pensiero; è necessario individuare le premesse e rendere evidenti le loro conseguenze, sottolineando la necessità di coerenza, in modo da dare risposte stimolanti alla tanta voglia di approfondire questi temi».
E si intuisce che, rapportata a sé, è proprio questa esigenza di "coerenza" a spingere ora Colombo a lasciare l’amministrazione della giustizia. Non ci crede più, non crede che si possa aumentare il tasso di legalità attraverso l’uso dello strumento giudiziario, quando nulla cambia all’ esterno. Da fuori forse sì, gli sembra possibile: «A questo punto della vita mi sono convinto che può esistere giustizia funzionante soltanto se esiste un pensiero collettivo che in primo luogo individui il senso della giustizia nel rispetto degli altri; che poi ci rifletta; e che infine, se ne viene convinto, arrivi a condividerlo. Si tratta di confrontarsi con i fondamenti della nostra Costituzione, il riconoscimento e la tutela dei diritti fondamentali e l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge».
Mentre l’amministrazione reale della giustizia, quella che oggi a suo avviso arranca «senza una cultura condivisa delle regole, diventa qualcosa di estremamente difficoltoso, addirittura per certi versi eventuale, fonte essa stessa di giustizia casuale e quindi paradossalmente di ingiustizia», nel marasma di «una grande disorganizzazione e con scarsi mezzi». Da questo punto di vista, per paradosso, «l’esperienza in Cassazione è stata per certi versi inaspettatamente confermativa: un impressionante numero di cause da trattare in poco tempo, scarsi mezzi, mancanza di stanze».
Il tutto accompagnato da una sensazione di «ineluttabilità» alla quale «si rassegna» chi pure lamenta «le cose che non funzionano», ultima goccia del cocktail che ora a Colombo fa dire: «Dare così poca cura a un’attività cruciale per l’amministrazione della giustizia è stata, per me, la definitiva conferma che c’è anche altro da fare». Altro rispetto ai processi. E prima dei processi: la condivisione delle regole. E qui sembra affiorare l’eco di una sconfitta, l’unica forse avvertita come davvero bruciante dall’ex pm di Mani pulite: corrotti e corruttori rientrati nella vita pubblica, o direttamente (votati) o indirettamente (nominati), comunque legittimati dai cittadini.
Colombo si sente "tradito" dal "popolo" nel cui nome ha amministrato giustizia? «Piuttosto, sono contrariato nel vedere come la legalità, per questo Paese, sia ancora qualcosa che ha poche chances». Tra le concause, dice, « ha pesato il mutato atteggiamento dei media, le falsità dette contro le nostre indagini e talora contro di noi. Ma credo ci sia stato anche un altro elemento importante. All’inizio le indagini hanno coinvolto i livelli più alti della politica e dell’imprenditoria, perché nei loro confronti erano allora emersi gli indizi: persone lontane anni luce dal cittadino comune.
Poi, però, man mano che le indagini progredivano, sono comparsi anche fatti attribuibili a persone comuni: al maresciallo della Finanza, al vigile dell’Annonaria, al primario dell’ospedale, all’ispettore dell’Inps, al medico e ai genitori dei figli alla visita di leva, alla cooperativa di pulizie. E qui, ecco che l’atteggiamento della cittadinanza è cambiato».
E voi magistrati siete finiti fuori mercato perché offrite un prodotto (la legalità) per il quale non c’è domanda? «Anche qui la misura della legalità è il rispetto dei principi costituzionali. Di legalità non c’è n’è abbastanza. Sono molti, per fortuna, coloro ai quali interessa la legalità, che vuol dire piena attuazione dei principi costituzionali della tutela dei diritti fondamentali e dell’uguaglianza di fronte alla legge. Ma non sono ancora abbastanza. E soprattutto, hanno una scarsissima rappresentanza, non trovano voce sufficiente. In alcuno dei due schieramenti». Colombo lo ricava «dal fatto che, altrimenti, sulla legalità sarebbero state fatte delle battaglie. E dico sulla legalità, non sul fatto che il signor Tizio o il dottor Caio siano colpevoli o innocenti: ad esempio sulla modifica delle regole del processo, per renderlo più agile e rapido; sulla dotazione di strumenti che consentano ai giudici di svolgere meglio la propria funzione; sulla cura della preparazione professionale».
E’ questo il fronte che ora sembra prioritario a Colombo. Il quale, a sorpresa, non ha tanta voglia di voltarsi per toccare con mano l’esito delle sue inchieste: «Vogliamo essere spietati? Sono magistrato dal 1974, per 3 anni giudice, poi da inquirente mi è capitato di occuparmi della loggia P2, dei fondi neri dell’Iri, di Tangentopoli, della corruzione di qualche magistrato. Alla fine - a parte la dovuta definizione giudiziaria delle singole posizioni -, i risultati complessivi di questo lavoro quali sono stati? Tra prescrizioni, leggi modificate o abrogate, si è sostanzialmente arrivati a una riabilitazione complessiva di tutti coloro che avevano commesso quei reati. Con un livello di corruzione percepita che non si è modificato. E, soprattutto, con una rinnovata diffusione del senso di impunità prima imperante».
Cambiare dall’interno, no? «Dovrebbe davvero cambiare tutto». E invece, «possibile che per selezionare i capi di uffici giudiziari di dimensioni pari a una grande azienda, continuiamo a fare le scelte, quando va bene, sulla base della capacità di condurre indagini o scrivere belle sentenze, qualità che nulla hanno comunque a che fare con la capacità di organizzare un ufficio? Anche a proposito delle questioni disciplinari, siamo sicuri che, nonostante tutti gli sforzi, pur fatti, non si potesse fare ancora di più per evitare che qualche magistrato fosse avvertito come arrogante o non sufficientemente dedicato alla sua funzione?».
Per Colombo «l’Italia è un paese di corporazioni che per prima cosa si difendono autotutelandosi (ha presente l’espressione "cane non mangia cane"?)». E pur se «la magistratura mi sembra, tutto sommato, la migliore» di queste corporazioni, «anche al suo interno si avverte la tentazione di cedere alla stessa logica: la difesa della categoria, prima che dell’organizzazione, della disciplina, della laboriosità; con il rischio di isolamento per chi pensa il contrario».
La decisione di guardare alle regole da una posizione diversa - confessa Colombo, ieri in Procura a salutare alcuni colleghi - «non è stata facile e continua ad essere molto sofferta. Non soltanto perché questo lavoro ha assorbito buona parte della mia vita, ha accompagnato la nascita dei miei figli, la morte dei miei genitori, è stato intriso di eventi di dolore squarciante (come gli assassinii, proprio qui a Milano, di Guido Galli e Emilio Alessandrini, e dei colleghi eliminati da terrorismo e mafia); ma anche perché tanti sono i colleghi, dai quali mi separo, che con cura, attenzione e direi ostinazione non hanno fatto altro che cercare di rendere giustizia. Ma a mio parere, perché non sia un compito immane, occorre anche altro: che l’atteggiamento verso le regole cambi anche fuori dai palazzi di giustizia».
Luigi Ferrarella
* Corriere della Sera, 17 marzo 2007
Sul tema - nel sito, si cfr.
La Costituzione e la Repubblica che è in noi
"PUBBLICITA’ PROGRESSO": L’ITALIA E LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!!
IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI
Federico La Sala
Prima lezione di democrazia
Dalle regole alla partecipazione cosa vuol dire essere cittadini
Nel suo saggio l’ex magistrato spiega l’importanza dell’impegno. Altrimenti i governi diventano oligarchie
Le funzioni non si esauriscono nell’esercitare o meno il proprio diritto di voto
di Gherardo Colombo (la Repubblica, 19.09.2011)
La democrazia presuppone una precisa considerazione degli esseri umani e delle caratteristiche delle relazioni che tra loro intercorrono. La democrazia non è uno strumento compatibile con gli atteggiamenti infantili, e se non si tiene conto della fatica che la crescita personale comporta per superare tali atteggiamenti non si può arrivare a capirla (...).
Il popolo governa agendo. E siccome il popolo non esiste se non esistono le persone che lo compongono, il popolo governa se agiscono le persone di cui è costituito. Si è considerata la forma, si è vista la sostanza. Si è tratteggiato, cioè, lo schema di regole e di contenuti che servono perché possa funzionare la democrazia. Tutto questo, però, ancora non basta: crea i presupposti perché il popolo governi, ma affinché si realizzi la democrazia è necessario che il popolo, nell’ambito delle regole, effettivamente governi. Una citazione aiuta a comprendere meglio la questione.
L’articolo 1 della Costituzione italiana afferma nel primo paragrafo che «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». L’espressione è interpretata storicamente attribuendo alla parola «lavoro» il significato corrente di attività produttiva. Il lavoro quindi fonda la Repubblica democratica perché è lo strumento attraverso il quale la persona si realizza, è il mezzo per l’emancipazione personale e per la promozione della società. Una lettura in chiave diversa aiuterebbe a capire cosa intendo: l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro in quanto i cittadini lavorano, e cioè si impegnano, perché sia una Repubblica e una democrazia. È necessario che i cittadini agiscano per compiere la democrazia, perché questa possa attuarsi. In caso contrario, e cioè se tutti loro, o gran parte di loro, rimanessero inerti, evidentemente non governerebbero, e la democrazia si trasformerebbe necessariamente in monarchia o in oligarchia (perché governerebbero soltanto gli attivi, che potrebbero essere ipoteticamente soltanto uno o estremamente pochi). La trasformazione si verificherebbe di fatto, senza necessità di cambiare nemmeno una legge.
Così come la monarchia si trasformerebbe in oligarchia se il sovrano assoluto si disinteressasse completamente di svolgere le sue funzioni e gli subentrasse, di fatto, la corte. Allo stesso modo governerebbe, per esempio, il solo presidente del Consiglio dei ministri, se tutti i ministri e il Parlamento tralasciassero in concreto (pur conservandole apparentemente) le loro funzioni e il popolo si limitasse a esprimere con indifferenza il proprio voto alle scadenze elettorali, o magari a omettere, per una parte consistente dei suoi membri, persino quello. Non si tratta, però, soltanto di questioni di remissività da parte delle istituzioni nei confronti di una sola o di poche persone, che assumerebbero così il potere spettante ad altre sedi; non si tratta soltanto dell’esercitare o meno il diritto di voto. Il problema riguarda più in generale l’abdicazione del popolo a governare.
Per comprendere come il comportamento delle persone che compongono il popolo incida sull’attuazione della democrazia si può paragonare la società a una famiglia. Le persone che compongono la famiglia compiono di continuo azioni che riguardano se stesse individualmente e azioni che riguardano la famiglia nel suo complesso. Azioni generalmente programmate, dall’ora del risveglio passando per le varie faccende quotidiane fino al momento di coricarsi.
La programmazione individuale riguardante le proprie sfere di competenza incide non soltanto sulla vita di chi l’ha fatta, ma anche su quella degli altri: alzarsi alle dieci e arrivare regolarmente tardi al lavoro comporta il rischio di essere licenziato, presentarsi sempre tardi a scuola quello di non essere promosso, e il licenziamento e la bocciatura si rifletterebbero sull’intera famiglia. Altri aspetti organizzativi riguardano la famiglia nel suo complesso: fare la spesa, riordinare la casa, decidere gli acquisti e i viaggi, e così via. Dalla programmazione complessiva e dalla attuazione della programmazione risulta la qualità della vita del la famiglia, e cioè dei suoi membri.
Nella famiglia patriarcale la programmazione, anche delle sfere più personali, era riservata al padre (il monarca), che poteva delegare (magari tacitamente e per tradizione) le parti più ripetitive e meno qualificanti alla moglie, spettando per tutto il resto a questa e ai figli il compito di eseguire, cioè di comportarsi secondo le disposizioni ricevute. Ora, in una famiglia attuale gli indirizzi sono decisi concordemente dai coniugi: il Codice civile italiano, articolo 144, stabilisce che «I coniugi concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare»; ma anche i figli partecipano alle decisioni che li riguardano, quando siano abbastanza grandi per farlo. Salvo che uno dei coniugi (o i figli, per quel che compete loro) si disinteressi, lasci fare, non partecipi, nel qual caso gli indirizzi, le decisioni sono presi dall’unica persona che si impegna a farlo. È questa persona che decide cosa comperare facendo la spesa, dove andare in vacanza e così via, e gli altri si adeguano. Non decidono, ma subiscono la decisione altrui.
Quel che succede in famiglia succede nella società: nella democrazia le regole prevedono la possibilità di contribuire all’indirizzo della vita propria e di quella della collettività, ma se la possibilità non è usata, se manca cioè l’impegno, la democrazia svanisce. Non sono sufficienti le regole, perché le regole consentono di partecipare al governo: se manca l’impegno, la partecipazione, il governo va ad altri.
© 2011 Bollati Boringhieri Editore
I bambini e la giustizia
di Umberto Galimberti (la Repubblica, 21 marzo 2008) *
Quante volte ci capita di sentire un bambino gridare o dire fra i denti: "Non e’ giusto". Quante volte egli prova il sentimento di essere giudicato colpevole di un’azione che non ha commesso, o crede di non aver commesso, o non ritiene cattiva. E questo non capita solo ai bambini, ma anche agli adulti ogni volta che sentono l’ingiustizia di un’esclusione non meritata, di un risarcimento non ottenuto, di una prova non superata, di un licenziamento non giustificato, di un abuso subito.
E ancora, siamo davvero convinti che la giustizia debba essere uguale per tutti, o riteniamo che debba essere diversa a secondo delle circostanze e soprattutto per ciascuno di noi, che sempre disponiamo di buoni e talvolta validi motivi per non sentirci inclusi nella regola che ci prevede comunque oggettivamente colpevoli? Ci sono davvero due giustizie diverse: una valida per tutti e una per ogni singolo individuo? A questo rispondono le attenuanti che possono ridurre anche sensibilmente la pena? Ma la giustizia che ogni individuo si immagina "giusta" e che, come un vestito, si "aggiusta" addosso, non rischia di provocare ulteriori conflitti e alla fine di creare ingiustizia? E allora: che cos’e’ giusto?
A questa serie di interrogativi rispondono due libri di facile e avvincente lettura. Il primo e’ di Gherardo Colombo, Sulle regole, il secondo del filosofo francese Jean-Luc Nancy, Il giusto e l’ingiusto. Li accomuna la persuasione che la giustizia non e’ solo e forse non e’ tanto una faccenda di tribunali, ma un processo culturale dal passo lento, che puo’ affermarsi solo attraverso processi educativi che sappiano coinvolgere l’intera societa’ a partire dai primi anni di socializzazione che, lo sappiano o meno i professori, incominciano con la frequentazione della scuola. Per questa ragione Gherardo Colombo ha abbandonato la sua carica di magistrato e di consigliere presso la Corte di Cassazione per accettare tutti gli inviti che, numerosissimi, gli provenivano dalle scuole, allo scopo di sensibilizzare i giovani, che sono poi gli adulti di domani, al bisogno di legalita’ e di regole condivise, senza le quali, come ci ricorda anche Platone nella Repubblica: "neppure una banda di criminali puo’ raggiungere il suo scopo".
Per la stessa ragione Jean-Luc Nancy, una delle figure piu’ significative dello scenario filosofico contemporaneo, ha dedicato una serie di incontri pubblici nelle scuole elementari e medie per spiegare che cos’e’ la giustizia, a partire dai conflitti in cui i ragazzi vengono a trovarsi tra loro, e poi con i genitori e con gli insegnanti.
Per prima cosa, scrive Gherardo Colombo, occorre distinguere la legge dalla giustizia. Nella storia erano leggi quelle che prevedevano la schiavitu’, quelle che discriminavano gli ebrei, quelle che ancora prevedono la pena di morte, cosi’ come lo sono quelle che la escludono, che garantiscono la liberta’ personale e l’uguaglianza nella soddisfazione dei bisogni primari. Stando cosi’ le cose l’osservanza della legge non dice ancora nulla sul concetto di giustizia, come ben dimostra il sistema italiano che era legale tanto prima quanto dopo la promulgazione e l’abolizione delle leggi razziali, anche se la differenza e’ evidente. Per avvicinarci al concetto di giustizia e’ allora necessario uscire dai tribunali dove si applica la legge ed entrare nella societa’ per vedere se la sua struttura, al di la’ degli enunciati di principio, e’ ancora verticale o orizzontale.
Gherardo Colombo chiama "verticale" quella societa’ che, pur accettando in linea di principio l’uguaglianza dei diritti, di fatto si comporta sul modello delle specie animali dove vige la legge del piu’ forte, per cui i piu’ potenti, i piu’ attrezzati, i piu’ capaci e, perche’ no, i piu’ furbi sono meritevoli di maggior considerazione rispetto a coloro che non stanno al passo, perche’ cosi’ vuole la natura che, selezionando i piu’ idonei, garantisce il successo della specie.
Ne consegue che la persona non ha valore in se’, ma acquista o perde importanza a secondo della sua rilevanza sociale, e chi condivide questo punto di vista pensa che la giustizia consista nel promuovere e nel tutelare le gerarchie, nel dare dignita’ ai privilegi, e nel rubricare "polvere della storia", come vuole l’espressione di Hegel, tutti gli altri, a partire, come documenta la storia, dalle donne, dagli schiavi, dai neri, dagli appartenenti ad altre etnie, e oggi i poveri, gli emarginati, coloro che per condizioni economiche o culturali non ce la fanno a emergere.
La societa’ "orizzontale" che segue il principio aristotelico: "L’uomo ingiusto e’ colui che non osserva l’uguaglianza, e cio’ che e’ ingiusto e’ ineguale", si e’ affacciata da poco e non ovunque nella storia, ma tendenzialmente solo in linea di principio, perche’ di fatto il riconoscimento non e’ esteso a tutti i componenti della societa’, ma solo al gruppo di cui si fa parte, a chi professa la stessa fede, a chi ha lo stesso colore della pelle, a chi parla la stessa lingua, a chi manifesta le stese idee, a chi ha la stessa elevata condizione economica.
Quando il riconoscimento non e’ universale la societa’ e’ ingiusta. E non perche’ vieta a chi ha le capacita’ di affermarsi, ma perche’, in mancanza di un riconoscimento universale, non garantisce che tale percorso possa essere intrapreso da tutti in condizioni non discriminate. Siccome il modello della societa’ verticale e’ stato il piu’ seguito nella storia, perche’ sostenuto, oltre che dall’istinto dei singoli, dalle istituzioni sia religiose sia politiche, questo modello finisce con l’apparire "naturale" e quindi "giusto".
Talvolta persino condiviso dalle vittime, persuase che sia "giusto" che qualcuno comandi e gli altri ubbidiscano, come spesso accade ai subordinati negli uffici, agli operai nelle fabbriche, alle donne senza reddito in famiglia. Qui e altrove le regole della societa’ orizzontale soccombono a quelle della societa’ verticale, dove vige la gerarchia del potere e dove arroganza e sudditanza si confondono persino nella stessa persona. Arrogante con chi sta sotto e sottomesso con chi sta sopra.
"Morbo dell’impresa" come la definisce Pier Luigi Celli nel suo ultimo bellissimo libro Altri esercizi di pentimento. Ma la stessa gerarchia dell’impresa la troviamo nell’esercito, nella chiesa, nella scuola, negli uffici, in fabbrica, dove ingiusta non e’ la gerarchia, ma pensare di risolvere le situazioni di conflitto applicando il principio della scala gerarchica, per cui chi e’ piu’ in basso deve sempre cedere.
Accade cosi’ che in teoria viviamo in una societa’ di uguali dove nessuno oserebbe dire che non e’ giusto rispettare tutte le persone, in pratica viviamo in una societa’ di subordinati dove il riconoscimento dell’altro dipende dal grado gerarchico o dalla condizione sociale.
Sul riconoscimento dell’altro insiste anche Jean-Luc Nancy, nelle sue lezioni ai bambini, dove tenta di spiegare che il giusto e l’ingiusto si decidono sempre nel rapporto con gli altri, per cui farsi giustizia da se’ non ha alcun senso. Cosi’ come non ha senso la "legge del piu’ forte" o, come si suol dire, la "legge della giungla", perche’ nella giungla non troviamo leggi, ma rapporti di forza.
La giustizia, spiega Nancy, esige che si rispetti ad un tempo l’uguaglianza e la singolarita’, per cui sara’ bene che tagliando una torta si facciano fette uguali, ma se uno e’ diabetico sara’ giusto dargli una fetta piu’ piccola, e una piu’ grossa a chi, per le sue condizioni economiche, non ha molte occasioni di assaggiare una torta.
Questa co-presenza di uguaglianza e di singolarita’ nel concetto di giustizia comporta che si conosca davvero l’altro, che lo si prenda in considerazione per la sua specificita’, raggiungendo quel vertice della giustizia che non e’ nella generalita’ della legge, ma, come diceva Aristotele, nell’equita’ che adatta l’universalita’ della legge a caso per caso, dando a ciascuno cio’ che e’ veramente dovuto.
Per questo esistono i "diritti dei bambini" che sono diversi dai diritti degli adulti, e per la stessa ragione esistono i "diritti delle donne" dopo secoli di misconoscimento. Ma oltre ai bambini e alle donne esistono gli immigrati che giungono da noi con altri usi e costumi, esistono i diversi da noi per razza, per religione, per scelte sessuali, per forme di convivenza, e ingiusta sarebbe la legge che li discrimina. Mentre abbiamo chiamato i "Giusti" coloro che, nella seconda guerra mondiale, a dispetto della legge e delle loro affinita’ naturali, pur non essendo ebrei e non avendo alcun legame di religione o di comunita’ con gli ebrei, hanno salvato la loro vita a rischio della propria.
Siccome la giustizia prevede l’uguaglianza di persone che sono diverse e singolari, la giustizia e’ un compito infinito. E pensare che non siamo mai abbastanza giusti e’ gia’ un modo per cominciare ad esserlo. "Questo pensiero - conclude Nancy rivolto ai bambini - dovete pensarlo da soli, perche’ nessuno verra’ mai a dirvi che cos’e’ la giustizia assoluta. Se qualcuno potesse dirlo, forse non dovremmo neanche essere giusti o ingiusti, dovremmo solo applicare meccanicamente quella che sarebbe una legge".
* Fonte: NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 437 del 26 aprile 2008 (ripresa parziale).
salve, mi chiamo giovanna cravanzola e sono l’ins. responsabile del polo di cittadinanza attiva per l’astigiano e l’albese. sto cercando disperatamente di contattare colombo. voi ci siete riusciti? per favore, se possibile, fatemi sapere.
cordialmente ins, g. cravanzola
Ansa» 2008-04-18 15:49
INSULTA MAGISTRATI, SGARBI PAGHERA’ 180 MILA EURO
MILANO - Per aver definito "assassini" tre magistrati milanesi l’ex parlamentare Vittorio Sgarbi, critico d’arte e ora assessore alla Cultura milanese, è stato condannato ad un consistente risarcimento: 180 mila euro più le spese di giudizio. Ad avviare la causa davanti al Tribunale civile di Milano erano stati gli ex pubblici ministeri di ’Mani pulite’, Pier Camillo Davigo, Francesco Greco e Gherardo Colombo (quest’ultimo ora in pensione) che avevano citato in giudizio l’ex parlamentare per sue dichiarazioni apparse su due quotidiani e nelle quali si accusavano i tre magistrati di aver fatto morire della gente. L’allusione era ad indagati deceduti per suicidio. "Questi magistrati - aveva affermato fra l’altro Sgarbi - vanno arrestati e processati. Sono un’associazione per delinquere con libertà di uccidere". Il giudice Claudio Marangoni, valutati i fatti, ha riconosciuto a Colombo, Davigo e Greco un risarcimento di 60 mila euro ciascuno, somma che dovrà essere pagata dalla parte convenuta che dovrà far fronte anche alle spese di giudizio calcolate in altri 13.300 euro.
L’Italia incompatibile
di Furio Colombo *
Giorni come il 25 aprile tracciano linee di confine, demarcazioni nette fra un prima e un dopo, fra un destino e un altro destino, un’Italia e un’altra Italia. Non resta che sperare che niente di questa data diventi cerimonia e abitudine e che ci sia sempre chi la spiega nelle scuole ai più giovani con pazienza e chiarezza.
Non c’è niente in questa frase che condanni irreversibilmente qualcuno, vita, scelte, idee, sentimenti, o che stabilisca (troppo tardi, comunque) una lista di reietti. Niente che non rispetti i morti. Quanto ai vivi, gli esseri umani cambiano in meglio o in peggio e si trasformano tutto il tempo come la natura, il paesaggio, la storia. Dipende dal momento in cui si scatta la fotografia il rapporto col tempo, passato e futuro.
Ma date come il 25 aprile non spostano di un millimetro il senso di ciò che è avvenuto e che ha salvato tutti, persecutori e perseguitati, anzi ha salvato - con il suo impetuoso sbocco nella libertà - sopratutto i persecutori che sarebbero stati costretti a continuare nella loro triste missione, ondata di morti dopo ondata di morti.
Per questo chiunque, la sera del 22 aprile, si sia incontrato con il programma «RT, Rotocalco televisivo, Speciale Resistenza e resistenze», di Enzo Biagi, su Raitre, ha un debito in più verso il vecchio maestro che non rinuncia. E dopo cinque anni di esilio riprende con gli italiani, tra montagne di spazzatura e di vergogna, il discorso di libertà esattamente dal punto in cui lo avevano forzato a interrompere.
Come ricorderete Enzo Biagi è il primo, nella lista di alcuni protagonisti della televisione italiana (tra cui Michele Santoro, Daniele Luttazzi) licenziati personalmente con un potere che non aveva - ma che alla Rai, tramite personale subalterno, è diventato immediatamente esecutivo - dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Molti di noi hanno frequentemente citato con scandalo la motivazione di quel licenziamento: «attività criminosa». Con queste parole Silvio Berlusconi che - ci viene detto - non è nemico ma solo avversario, intendeva descrivere ogni attività di opposizione. E a molti di noi è sembrato naturale definire “regime” la situazione politica in cui un governante vuole e può mettere a tacere chi non lo esalta.
Ora, cambiato il tempo, il governo - e, un pochino anche il Paese e la Rai - Enzo Biagi ritorna. E con la sua trasmissione dedicata alla Resistenza, nel senso originale del 25 Aprile e nel senso perenne del non piegarsi solo perché qualcuno è più ricco e potente e ti può anche mettere al bando, racconta con la sua implacabile pacatezza che esiste una Italia incompatibile con l’Italia libera e democratica evocata da quel giorno e descritta nei dettagli dalla Costituzione. E che non è questione di sentimenti (inimicizia o gentile confronto) ma di nessun punto di corrispondenza fra un’Italia e l’altra. Dice che non bastano né le lacune della memoria né la potenza dei media (tuttora in prevalenza orientati a non offendere un grande editore che può comprare tutto, e può comprare molti) a oscurare l’incompatibilità di un’Italia con l’altra.
Credo che possa essere utile confrontare il sommario della trasmissione con cui Biagi torna in Tv con l’articolo di fondo de Il Giornale (autore Massimo Teodori) dello stesso giorno. Quell’articolo celebra la buona accoglienza riservata a Berlusconi nei due congressi fondanti del nascente PD, ma poi elenca le tappe, che per l’autore sono esecrabili, della “delegittimazione di Berlusconi”. L’Italia di Biagi si apre con Roberto Saviano e la piovra della camorra con cui non si può convivere, si chiude con Tina Anselmi, mai dimenticata investigatrice della P2, passa attraverso la Resistenza come guerra partigiana e lotta al fascismo.
Ci fa riascoltare la voce limpida di Primo Levi che descrive con la famosa chiarezza come si distrugge un essere umano. Ascolta Vittorio Foa da giovane: si poteva non resistere?
E colloca al centro il magistrato Gherardo Colombo, verso cui molti italiani si considerano debitori (come verso tutto il Pool di Mani pulite) per la coraggiosa, tenace, difficilissima difesa della reputazione dell’Italia, mentre stava per essere ricoperta da un blob di corruzione tra i più vasti e più estesi al mondo.
Dunque, lo stesso giorno in cui è andata in onda la trasmissione-manifesto di Enzo Biagi, Massimo Teodori ha scritto: «La storia (della delegittimazione e demonizzazione del “nemico” politico, Ndr) cominciò dal colle più alto con Oscar Luigi Scalfaro che distorse i poteri presidenziali contro il premier». Come è noto «li distorse» per impedire che il plurinquisito Previti, ora condannato in via definitiva, diventasse ministro della Giustizia, evitando dunque un grave insulto alla Repubblica e all’immagine dell’Italia nel mondo. L’articolo di Teodori continua: «La storia proseguì con l’accanimento giudiziario in sintonia con l’ala giustizialista dei post-comunisti». Si capisce l’intento.
“Accanimento giudiziario” deve diventare il titolo di un capitolo della storia italiana, quello dei processi a Silvio Berlusconi. L’autore evidentemente conta sul fatto che a poco a poco smetteremo di insistere nel raccontare ciò che è avvenuto davvero e finiremo per dire che, sì, quelle gravissime imputazioni non erano che vaneggiamenti di giudici comunisti. L’affermazione viene dalla casa che non ha esitato a dire e a ripetere che «bisogna essere mentalmente tarati per fare i giudici».
Ma l’autore del fondo de Il Giornale implacabile continua:
«Infine i girotondi espressero, ai limiti del grottesco, quell’animus giacobino tanto gradito ai piani alti della politica illiberale e della gauche caviar, la cui nobile aspirazione era vedere in manette il parvenu della politica».
Poiché i girotondi sono mobilitazione spontanea, diventa interessante l’evocazione dei «piani alti della politica illiberale» che vuol dire: è illiberale chi invoca «la legge uguale per tutti» e denuncia le leggi ad personam che la rendono «legge di uno solo». La frase è affetta da palese assurdità fattuale, logica e storica. Ma Teodori ha un punto di forza su cui poggiare la sua costruzione orwelliana del “ministero della verità”. Dice infatti in conclusione: «Se il Partito Democratico servirà a tenere a freno le pulsioni antidemocratiche tanto radicate nei politici di sinistra (ovvero l’ostinazione a ripetere : “la legge è uguale per tutti”, Ndr) sarà un passo avanti per l’Italia civile e liberale». Sembra chiaro che qui si sta accennando all’Italia di Previti, Dell’Utri, Cuffaro, dei beneficiari di condono continuo, degli evasori lodati perché «a un certo punto diventa legittimo frodare il fisco», degli scrupolosi autori dei falsi in bilancio, di personaggi come il sindaco An di Trieste che ha sempre rifiutato di recarsi alla risiera di San Sabba dove fascisti e nazisti massacravano gli ebrei.
Del resto il capo di tutta questa gente mai si è fatto trovare - lui che è dappertutto - ad una celebrazione del 25 aprile durante i cinque anni del suo celebrato governo costellato di canzoni e di allegre passeggiate a Villa Certosa. L’Italia di Tina Anselmi, di Oscar Luigi Scalfaro, di Gherardo Colombo, dei girotondi ne ha fatto a meno.
Come si vede la questione - che è giusto ripetere nel giorno della Resistenza incoraggiati dal libero ritorno in video di Enzo Biagi - non è di buona educazione (anche se è bene mostrare buona educazione quando Silvio Berlusconi si presenta al congresso di un partito che ha appena finito di considerare autore di «delitti, morte e miseria»). È una questione di incompatibilità. L’Italia della Liberazione e della Costituzione è incompatibile con l’Italia della illegalità che ha cercato, senza successo, di cancellare il 25 aprile e metà della Costituzione italiana nata dal 25 aprile. La scelta fra queste due Italie è una decisione drammatica che tocca agli elettori. A noi spetta il compito di rendere chiara l’alternativa.
* l’Unità, Pubblicato il: 25.04.07, Modificato il: 25.04.07 alle ore 8.40