di Federico La Sala (Libertà - quotidiano di Piacenza, 08.06.2006, p. 35)
Il 60° anniversario della nascita della Repubblica italiana e dell’Assemblea Costituente, l’Avvenire (il giornale dei vescovi della Chiesa cattolico-romana) lo ha commentato con un “editoriale” di Giuseppe Anzani, titolato (molto pertinentemente) “Primato della persona. La repubblica in noi” (02 giugno 2006), in cui si ragiona in particolar modo degli articoli 2 e 3 del Patto dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ Costituenti.
Salvo qualche ’battuta’ ambigua, come quando si scrive e si sostiene che “il baricentro dell’equilibrio resta il primato della persona umana di cui è matrice la cultura cattolica” - dove non si comprende se si parla della cultura universale, di tutto il genere umano o della cultura che si richiama alla particolare istituzione che si chiama Chiesa ’cattolica’ (un po’ come se si parlasse in nome dell’Italia e qualcuno chiedesse: scusa, ma parli come italiano o come esponente di un partito che si chiama “forza...Italia”!?), - il discorso è tuttavia, per lo più, accettabile...
Premesso questo, si può certamente condividere quanto viene sostenuto, alla fine dell’editoriale, relativamente al “diritto alla vita” (“esso sta in cima al catalogo ’aperto’ dell’articolo 2, sta in cima alla promessa irretrattabile dell’art. 3”) e alla necessità di una responsabile attenzione verso di essa (“Non declini mai la difesa della vita; senza di essa è la Repubblica che declina”).
Ma, detto questo, l’ambiguità immediatamente ritorna e sollecita a riporsi forti interrogativi su che cosa stia sostenendo chi ha scritto quanto ha scritto, e da dove e in nome di Chi parla?!
Parla un uomo che parla, con se stesso e con un altro cittadino o con un’altra cittadina, come un italiano comune (- universale, cattolico) o come un esponente del partito ’comune’ (’universale’, ’cattolico’)?
O, ancora, come un cittadino di un partito che dialoga col cittadino o con la cittadina di un altro partito per discutere e decidere su quali decisioni prendere per meglio seguire l’indicazione della Costituzione, della Legge dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ che ci ha fatti - e invita a volerci! - uomini liberi e donne libere, cittadini-sovrani e cittadine-sovrane?!
Nonostante tante sollecitazioni a sciogliere i nodi e chiarirsi le idee da ogni parte - dentro e fuori le istituzioni cattoliche, c’è ancora molta confusione nel cielo del partito ’cattolico’ italiano: non hanno affatto ben capito né la unità-distinzione tra la “Bibbia civile” e la “Bibbia religiosa”, né tantomeno la radicale differenza che corre tra “Dio” [Amore - Charitas] e “Mammona” [Caro-Prezzo - Caritas] o, che è lo stesso, tra la Legge del Faraone o del Vitello d’oro e la Legge di Mosè!!! E non hanno ancora ben-capito che Repubblica dentro di noi ... non significa affatto Monarchia o Repubblica ’cattolica’ né dentro né fuori di noi, e nemmeno Repubblica delle banane in noi o fuori di noi!!!
Il messaggio del patto costituzionale, come quello del patto eu-angelico ...e della montagna è ben-altro!!! La Costituzione è - ripetiamo: come ha detto e testimoniato con il lavoro di tutto il suo settennato il nostro Presidente, Carlo A. Ciampi - la nostra “Bibbia civile”, la Legge e il Patto di Alleanza dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ Costituenti (21 cittadine-sovrane presero parte ai lavori dell’Assemblea), e non la ’Legge’ di “mammasantissima” e del “grande fratello” ... che si spaccia per eterno Padre nostro e Sposo della Madre nostra: quale cecità e quanta zoppìa nella testa e nel cuore, e quale offesa nei confronti della nostra Legge dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’- di tutti e tutte noi, e anche dei nostri cari italiani cattolici e delle nostre care italiane cattoliche!!!
Nel 60° Anniversario della nascita della Repubblica italiana, e della Assemblea dei nostri ’Padri e delle nostre ’Madri’ Costituenti, tutti i cittadini e tutte le cittadine di Italia non possono che essere memori, riconoscenti, e orgogliosi e orgogliose di essere cittadine italiane e cittadini italiani, e festeggiare con milioni di voci e con milioni di colori la Repubblica e la Costituzione di Italia, e cercare con tutto il loro cuore, con tutto il loro corpo, e con tutto il loro spirito, di agire in modo che sia per loro stessi e stesse sia per i loro figli e le loro figlie ... l’ “avvenire” sia più bello, degno di esseri umani liberi, giusti, e pacifici! Che l’Amore Charitas dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ illumini sempre il cammino di tutti gli italiani e di tutte le italiane...
Viva la Costituzione, Viva l’Italia!!!
Federico La Sala
Alla Costituente, su 556 eletti, 21 erano donne:
9 NEL GRUPPO DC, SU 207 MEMBRI - LAURA BIANCHINI, ELISABETTA CONCI, FILOMENA DELLI CASTELLI, MARIA IERVOLINO, MARIA FEDERICI AGAMBEN, ANGELA GOTELLI, ANGELA GUIDI CINGOLANI, MARIA NICOTRA, VITTORIA TITOMANLIO;
9 NEL GRUPPO PCI, SU 104 MEMBRI - ADELE BEI, NADIA GALLICO SPANO, NILDE IOTTI, TERESA MATTEI, ANGIOLA MINELLA, RITA MONTAGNANA TOGLIATTI, TERESA NOCE LONGO, ELETTRA POLLASTRINI, MARIA MADDALENA ROSSI;
2 NEL GRUPPO PSI, SU 115 MEMBRI - BIANCA BIANCHI, ANGELINA MERLIN;
1 NEL GRUPPO DELL’UOMO QUALUNQUE: OTTAVIA PENNA BUSCEMI.
Federico La Sala (28.04.2006)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
ATTENTATO ALLA COSTITUZIONE? GIA’ FATTO!!! Un appello al Presidente Napolitano
L’IDENTITA’ DELL’ITALIA E IL SILENZIO DEI FILOSOFI
LA LEZIONE DI CIAMPI: LA COSTITUZIONE, LA NOSTRA “BIBBIA CIVILE”
COSTITUZIONE, LINGUA E PAROLA.....
CATTOLICESIMO, BERLUSCONISMO, CRISTIANESIMO: DIO E’ RICCHEZZA ("Deus caritas est": Benedetto XVI, 2008)!!!
QUESTA E’ LA LEGGE DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI E LA CHIESA "CATTOLICA" E’ LA CUSTODE "UNIVERSALE" DELL’ORDINE SIMBOLICO DI "MAMMONA" E DI "MAMMASANTISSIMA" ....
QUESTO MATRIMONIO S’HA DA FARE, DOMANI, E SEMPRE!!!
L’ANNUNCIO A GIUSEPPE, NELLA TRADIZIONALE LETTURA DELLA CHIESA CATTOLICO-ROMANA, DI GIANFRANCO RAVASI
EQUIVOCATO O EQUIVOCO? BENEDETTO XVI O BERLUSCONI, NESSUNO COMPRERA’ LE NOSTRE PAROLE
FLS
LE 21 DONNE DELLA COSTITUENTE |
Al di là della cosmoteandria.
DanteAlighieri: la #DivinaCommedia ("l’#amor che muove il Sole e le altre stelle"),
l’#antropologia,
e le ventuno "madri della #Costituzione"
Con Il Sole 24 Ore dal 1° giugno in edicola il libro: “Le madri della Costituzione” *
Il 2 giugno del 1946 gli italiani scelsero la Repubblica e il 25 giugno si insediò l’Assemblea Costituente, composta da 556 membri, 21 dei quali donne: nove comuniste, nove democristiane, due socialiste, una del Fronte dell’Uomo Qualunque. Un’avanguardia esigua, il 3,7 per cento, ma fondamentale nella stesura della Carta: cinque di loro furono designate nella Commissione dei 75 (Maria Agamben Federici, Angela Gotelli, Nilde Iotti, Lina Merlin, Teresa Noce).
La loro presenza, come espressione della componente femminile del popolo sovrano, era una novità assoluta, in quell’anno di novità e di svolta epocale in cui le italiane andarono per la prima volta alle urne per elezioni storiche (dopo il turno delle amministrative a marzo). Le ventuno elette erano differenti per generazione, estrazione sociale, formazione, professione, ideologia. Quattordici erano laureate, geograficamente rappresentavano l’intera penisola. Contribuirono a rendere più democratica la costituzione della nuova Italia, conquistando alle donne la piena cittadinanza, senza più alcuna discriminazione. E spesso dovettero far fronte ai pregiudizi contro la donna, persistenti nei loro stessi colleghi di partito.
«Senza le loro battaglie, diversi articoli della Costituzione, compresi i principi fondamentali, non sarebbero gli stessi», afferma l’autrice del libro Eliana Di Caro, giornalista del supplemento Domenica del Sole 24 Ore, sottolineando il ruolo decisivo nel riconoscere i principi che sanciscono la parità nell’ambito della famiglia e del lavoro, e più in generale nel fare in modo che la società di questo Paese si aprisse alla modernità.
Oggi queste ventuno donne sono dimenticate dai più. Ma le loro vite - tra la Resistenza, l’attivismo politico, le lotte sindacali, l’impegno nella scuola - parlano da sole: per questo bisogna conoscerle.
Il libro è in edicola dal 1° giugno per un mese con Il Sole 24 Ore al prezzo di € 12.90, mentre è disponibile in libreria dal 17 giugno € 14,90 e in formato elettronico a € 9,99.
L’autrice
Eliana Di Caro. Nata a Matera, è giornalista al Sole 24 Ore dal 2000: dopo aver lavorato al mensile Ventiquattro e alla redazione Esteri del quotidiano, dal 2012 è al supplemento della Cultura “Domenica”, nel ruolo di vice caposervizio e curatrice delle sezioni di Storia ed Economia e società. È tra le autrici di Donne della Repubblica (il Mulino, 2016), Basilicata d’autore (Manni, 2017), Donne nel 68 (il Mulino, 2018), Donne al futuro (il Mulino, 2021). Ha pubblicato Andare per Matera e la Basilicata (il Mulino, 2019) e Le vittoriose (Il Sole 24 Ore, 2020). Scrive dei temi legati alle donne - dei loro diritti e dell’emancipazione femminile - e della terra lucana. Appassionata di tennis, ogni tanto recensisce qualche libro sull’argomento.
Dati
Titolo: LE MADRI DELLA COSTITUZIONE
Autore: Eliana Di Caro
Editore: Il Sole 24 ORE
Tipologia: Libro cartaceo
Pagine: 224
Formato: 14×21 cm
* Si cfr. Davide Falco (Dentro la notizia, 30 Maggio 2021.)
Resistere ancora, a distanza di settantacinque anni
di Teresa Simeone *
La domanda, che ritorna ogni anno, con periodica vis polemica, “Che senso ha celebrare la Festa della Liberazione? E liberazione da cosa, se ormai viviamo in una democrazia?” chiama ancora in causa la nostra concezione di libertà e di società e rimanda a eventi che, sia pure storicamente collocati, continuano a interrogarci come cittadini e soggetti eticamente connotati.
Non è certo un falso il consenso altissimo di cui per lungo tempo il regime riuscì a godere, almeno fino al 1938, anche presso raffinati intellettuali della cui adesione si servì per legittimare, in campo internazionale, la propria continuità. Tale consenso poi, lentamente, iniziò a scendere per dissolversi nell’impietosa conta giornaliera dei morti in guerra: rinnegata dai suoi stessi capi in quel luglio del ’43, l’ideologia fascista non cessò di esistere ma si autoconfinò in un’area del Nord, lì ridotta a patetico ologramma del Terzo Reich. Dal tragico 8 settembre, com’è storia, iniziarono l’occupazione nazista, le massicce deportazioni di ebrei verso i campi di sterminio e si consumarono le stragi di civili più feroci che il territorio italiano abbia vissuto. Stragi che raggiunsero il culmine intorno alla metà del ’44, con il consolidarsi delle formazioni resistenziali, finalizzate a spezzare il legame tra la popolazione e i partigiani italiani, che avevano unito la propria alle voci dei migliaia che combattevano nel resto d’Europa. E, finalmente, quel 25 aprile, scelto come data simbolica della rinascita, si poté festeggiare.
Tre giorni dopo, ha scritto Norberto Bobbio, quando i partigiani entrarono a Torino e i tedeschi, seguiti dai fascisti, furono messi in fuga, “Fu come se un vento impetuoso avesse spazzato d’un colpo tutte le nubi e alzando gli occhi potessimo rivedere il sole di cui avevamo dimenticato lo splendore; o come se il sangue avesse ricominciato a scorrere in un cadavere, risuscitandolo. Un’esplosione di gioia si diffuse rapidamente in tutte le piazze, in tutte le vie, in tutte le case. Ci si guardava di nuovo negli occhi e si sorrideva.” Si poteva ricominciare a sperare. “Eravamo ridiventati uomini con un volto solo e un’anima sola. Eravamo di nuovo completamente noi stessi. Ci sentivamo di nuovo uomini civili. Da oppressi eravamo ridiventati uomini liberi.”[1]
Quella libertà, per tutti, per chi c’era, per chi non c’era e anche per chi era contro, come disse in seguito Arrigo Boldrini, non fu un regalo né un miracolo, ma la conquista di chi, contro ogni calcolo sulla sproporzione delle forze, aveva creduto nell’“ottimismo della volontà” e con coraggio aveva scelto da che parte stare. Lo fece in giorni bui, in cui decidere non era ininfluente per la propria vita. E questo avvenne in tutta Europa. Chi contesta la Resistenza dovrebbe dire, con onestà, cosa avrebbe fatto in quei giorni e cosa avrebbe voluto: la vittoria della Germania nazista? L’estensione del potere hitleriano sull’Europa intera? I campi di sterminio per quanti non rientrassero nel concetto di “normalità” fisica, sociale, religiosa, politica, stabilita dal fuhrer? O forse avrebbe preferito che non sorgesse, dalla coscienza dei popoli, un movimento di ribellione e che si lasciasse ai soli eserciti in campo la difesa della propria libertà? Che non si sentisse il dovere di reagire, quel dovere che solo ha consentito di salvare la dignità di cittadini e di esseri umani? Che permise ad Alcide De Gasperi nel ‘46, alla conferenza di Parigi, di non piegare la testa e di pronunciare parole autenticamente importanti perché di un antifascista convinto, portavoce di un paese che aveva saputo liberare se stesso dal regime e rivendicare una presenza proprio grazie alla lotta di liberazione. Facendo pesare, perché ce ne erano stati a migliaia, i morti di questa battaglia di civiltà.
Tanti uomini e tante donne vi avevano partecipato, ciascuno a suo modo: imbracciando le armi; organizzando la difesa; aiutando i gruppi partigiani; ciclostilando volantini; anche solo tacendo e non tradendo; nascondendo chi era braccato; procurandogli documenti falsi; rifiutando di allearsi con il nemico e di lavorare per lui, come fecero gli oltre 600.000 IMI, troppo a lungo ai margini della storiografia, forse perché simbolo di una sconfitta, di una tragedia che il paese voleva dimenticare in fretta, ma di cui la ricerca sui documenti sta faticosamente ricostruendo il dramma. Costoro, intenzionalmente non equiparati dai nazisti a prigionieri di guerra e dunque privati delle tutele loro dovute, “invitati” a collaborare, rifiutarono di arruolarsi nelle forze armate tedesche e repubblichine, pagando nei lager con condizioni durissime, spesso con la vita, la loro “resistenza passiva”.
Resistenza armata, Resistenza disarmata, Resistenza civile: forme diverse assunse la Resistenza, ma ci fu. E dev’essere ricordata perché fu storia di tanti. Non di tutti, certamente. E anche di questo non sarebbe giusto chiedere conto. Erano tempi difficili, di scelte tragiche cui, per fortuna, non siamo più chiamati: la massiccia e pervasiva azione d’indottrinamento fascista, dall’atto del concepimento (la campagna demografica entrava anche nelle stanze da letto) fino all’età adulta, con quella che Philip V. Cannistraro ha definito la fabbrica del consenso, il controllo dell’informazione e la repressione di ogni forma di dissenso e una liturgia che puntava all’adesione quasi religiosa, sicuramente mistica, rendeva gli effetti dell’apparato propagandistico difficilmente eludibili. La comprensione della difficoltà di sottrarvisi, però, non deve esonerarci dal chiederci “cosa sarebbe successo se...”. I denigratori della Resistenza tendono a sottovalutarne il peso e a riportare al solo contributo degli alleati la conquista della libertà. Questo non corrisponde al vero, ma solo a ciò che una parte politica non avrebbe voluto che fosse accaduto, e cioè la presa di coscienza di chi non accettava il fascismo.
In un celebre discorso che Gustavo Zagrebelsky tenne a Torino il 25 aprile del 2015, si chiese: “E se la guerra si fosse conclusa esclusivamente con la conquista da parte degli eserciti degli Alleati? Se le autorità militari anglo-americane non avessero avuto a che fare con il Corpo Volontari della Libertà, con i Comitati di Liberazione Nazionale e con i rinati partiti politici che ai Comitati avevano dato vita? La sconfitta del III Reich e della repubblica di Salò non fu certo determinata soltanto, e nemmeno prevalentemente, dalle forze della Resistenza interna. Ma, se questa non ci fosse stata, la parola adatta a descrivere la situazione del nostro Paese sarebbe “debellatio”, annichilimento. Gli Alleati trovarono un popolo che lottava per la sua identità, oltre che per il proprio onore e il proprio futuro.” E ancora: “In ogni caso, la Resistenza in Italia, a differenza di ciò che accadde in Germania, fu ciò che permise al nostro Paese di salvaguardare la propria autonomia, di sedere nel contesto internazionale tra le nazioni libere e di ricominciare a prendere nelle nostre mani l’opera della ricostruzione. Il primo passo fu l’Assemblea Costituente, il primo parlamento democratico, eletto a suffragio universale, del nostro Paese; il primo frutto fu la Costituzione.”
Ed è proprio intorno alla Costituzione che si è formato un nuovo concetto di identità e di comunanza nazionale, una memoria condivisa, un sentimento diffuso di appartenenza con la fedeltà che la Costituzione richiede, come ci ricorda il presidente emerito dell’ANPI , Carlo Smuraglia, in un omaggio che ha voluto farle nel libro “Con la Costituzione nel cuore. Conversazioni su storia, memoria e politica.”, e come l’attuale presidente, Carla Nespolo, prima donna e prima non partigiana a ricoprire tale incarico, dopo la svolta di Chianciano del 2006, i quali, a più riprese, invitano all’unità e al dialogo tra le diverse voci che sono confluite nel testo fondativo della nostra Repubblica.
Se si resta al facile binomio, cui ricorrono pretestuosamente in molti, antifascista/comunista, si darà sempre spazio alle semplicistiche riduzioni ad unum di coloro che, per denigrare il moto resistenziale, preferiscono considerarlo un monolite comunista.
A smentire tale lettura è la semplice analisi dei gruppi che combatterono, dal momento che il CNL (al di fuori del quale è giusto ricordare altre brigate come quelle anarchiche), riuniva esponenti di tutti i partiti antifascisti che si erano organizzati nell’estate del ’43 e, oltre quelli del Partito comunista, del Partito liberale, del Partito repubblicano, del PSIUP, della Democrazia Cristiana, del Partito d’Azione, del Partito democratico del lavoro. Molte di tali formazioni, insieme ad altre che nacquero nel dopoguerra, confluirono nell’Assemblea Costituente.
La Costituzione, perciò, ha un’anima plurale. Ma, questo sì, irriducibilmente antifascista. Non c’è bisogno di citare un articolo preciso né far riferimento soltanto alla XII Disposizione transitoria, più correttamente finale, in essa contenuta. -Come ha chiaramente affermato il nostro presidente della Repubblica, Mattarella, in occasione del Giorno della Memoria di due anni fa: “La Repubblica Italiana, nata dalla Resistenza, si è definita e sviluppata in totale contrapposizione al fascismo. La nostra Costituzione ne rappresenta, per i valori che proclama e per gli ordinamenti che disegna, l’antitesi più netta.”
Eppure si continua a evitare di pronunciare, in tante occasioni, il termine “antifascismo” perché divisivo. Divisivo? E certo che lo è: divide chi è a favore di una dittatura da chi non lo è! In realtà, anche quelle formazioni che fanno continuamente appello al rispetto della Costituzione, rivendicando per sé una libertà di espressione comodamente “elastica”, nel rifiutarsi di celebrare la Festa della Liberazione dimenticano questa indiscutibile verità. Non riconoscono, cioè, il significato civile di una giornata che ricorda la fine dell’oppressione e la rinascita alla dignità e alla libertà del popolo italiano, almeno del popolo che si riconosce in quei valori. Appunto.
In tale ottica, la Resistenza non è mai finita: se lo è come moto storico, continua a essere viva come resistenza civile a tutto ciò che degradi la condizione sociale a quella servile. E poiché tale pericolo esiste, sotto ogni latitudine e dentro ogni sistema politico e si slatentizza nelle situazioni di crisi in cui più forte è la tentazione di delegare i propri diritti personali, bisogna essere pronti a coglierne e interpretarne i segni, per neutralizzarne gli effetti. Le parole con cui Camus chiude La peste, efficace metafora del morbo nazifascista che contagiò l’Europa civile, e che ricordano come il bacillo si annidi, silente, negli armadi e tra gli indumenti, pronto a riattivarsi, restano un monito sempre valido per allertare alla vigilanza intelligenze e sensibilità.
Il fascismo è sempre presente nel tessuto della nostra società: lo è in forme diverse, è ovvio. Non più col fez e in camicia nera, ma in abiti civili. Un fascismo eterno, come l’ha definito Umberto Eco. Quotidiano e, per questo, più strisciante e insidioso, come è ampiamente trattato nel prossimo numero di Micromega, in uscita il 30 aprile.
Qual è la possibile copertura difensiva, al di là di un apparato legislativo potente quale quello contenuto nella citata Disposizione della Costituzione, nella legge Scelba del 1952 e nella legge Mancino del 1993? Probabilmente ancora una lenta, progressiva e paziente azione culturale, di ricerca storica e di studio faticoso, l’unica speranza di vivere onoratamente, come scrisse Gramsci, e di formarci una coscienza democratica che consenta la piena, irrinunciabile vita civile che ciascuno di noi ha il diritto di realizzare e il dovere di perfezionare.
[1] Norberto Bobbio, Eravamo ridiventati uomini. Testimonianze e discorsi sulla Resistenza, Einaudi, e-book, posiz. 325-330-335
* MicroMega, 24 aprile 2020.
Questa civiltà è da difendere.
I saldi princìpi ribaditi dall’euro-sentenza
di Giuseppe Anzani (Avvenire, mercoledì 15 maggio 2019)
Uomini in fuga, il mondo ne è pieno. Non attratti da un miraggio, ma spinti da una disperazione. Si fa presto a dire che sarebbe meglio che ognuno restasse a casa sua, in pace e sicurezza. I rifugiati sono uomini (e donne e bambini) che nel loro Paese patiscono persecuzione, o vivono nella paura, per ragioni di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale, opinioni politiche.
A loro il mondo ha dedicato una Convenzione nel 1951, impegnando gli Stati, fra l’altro, a non prendere sanzioni penali, a motivo del loro ingresso o del loro soggiorno illegali, a carico di quei rifugiati che giungono direttamente da un territorio in cui la loro vita o la loro libertà erano minacciate. Già in questo originario principio brilla una sorta di gerarchia delle ragioni di giustizia sopra le formule legalistiche: le une e le altre stanno nel cerchio del diritto, simultanee, e però vita e libertà vincono non per violazione di disciplina, ma per giuridica preminenza.
Più vicino ai nostri anni, nel 2011, l’Unione Europea ha emanato una Direttiva che impegna gli Stati membri ad assicurare ai rifugiati «il pieno rispetto della dignità umana» e il diritto d’asilo. La parola "dignità" è pregnante, nel diritto europeo: essa dà titolo al primo capitolo della "Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea" e compendia una sorta di statuto elementare e insopprimibile degli esseri umani. Il trattamento che ne discende è un corollario coerente.
In Italia, benché se ne parli così poco che par dimenticato (o a bella posta negletto) l’articolo 10 della Costituzione dice che ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni di legge, lo straniero «al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana». Non dunque solo la fuga dalla persecuzione, dalla tortura, dalla guerra; persino la mancanza delle libertà democratiche garantite dalla nostra Costituzione, cioè il ventaglio intero dei diritti umani disegnato dai nostri Padri.
Questo sistema ispirato al soccorso irrinunciabile delle vittime dell’oppressione, così ben scritto, appare oggi contraddetto da una riluttanza che s’è gonfiata in ostilità; ha alzato muri di pietra e di filo spinato, ma non solo: ha costruito maglie fitte di editti e norme e grida e comandi volti a impedire, a ostacolare, a scacciare. Ma ieri la Corte Europea di Giustizia ha dato una sterzata.
C’erano tre rifugiati (un ceceno nella Repubblica Ceca, due africani in Belgio), che avevano commesso reati e subito condanne; per loro c’era il rifiuto o la revoca dell’asilo e della protezione, si profilava l’espulsione e il rimpatrio. Verso un destino pauroso. La risposta di giustizia è stata ’no’.
La Corte ha sentenziato che «gli Stati membri non possono allontanare, espellere o estradare uno straniero quando esistono seri e comprovati motivi di ritenere che, nel Paese di destinazione, egli vada incontro a un rischio reale di subire trattamenti proibiti dalla Carta europea», cioè torture o trattamenti inumani o degradanti. La sentenza, emessa dal massimo organo giurisdizionale dell’Unione, ora vincola tutti.
Anche il reo, il condannato che espia la pena, non può diventare uno scarto da riconsegnare ai suoi aguzzini. Perderà quel che perderà, ma non il suo essere uomo, e i diritti dell’uomo. C’è un’ultima pennellata, infatti che ce lo rammenta, e a suo modo sposta di nuovo l’attenzione dal legalismo alla realtà del diritto-giustizia: l’uomo cui è stato revocato lo ’status’ (legale) di rifugiato, se in concreto è un fuggiasco per i motivi di persecuzione che abbiamo visto, resta lo stesso un ’rifugiato’, e conserva il diritto umano alla ’protezione internazionale’ secondo la Carta europea. Prendiamone definitiva nota, difendiamo questa civiltà e siamone all’altezza: è nostra e condivisa col mondo.
CREATIVITÀ E CARITÀ ("CHARITAS"). ADAMO ED EVA, MARIA E GIUSEPPE UGUALI DAVANTI A DIO....*
Risorsa famiglia.
Così lo sguardo femminile può cambiare l’economia
di Luigino Bruni (Avvenire, giovedì 23 agosto 2018)
Economia è una parola greca che rimanda direttamente alla casa ( oikos nomos, regole per gestire la casa), quindi alla famiglia. Eppure l’economia moderna, e ancor più quella contemporanea, si è pensata come un ambito retto da principi diversi, distinti e per molti versi opposti ai principi e ai valori che hanno sempre retto e continuano a reggere la famiglia. Un principio fondante la famiglia, forse il primo e quello sottostante gli altri, è quello di gratuità, che è quanto è di più distante dall’economia capitalistica, che conosce surrogati della gratuità (sconti, filantropia, saldi) che svolgono al funzione di immunizzare i mercati dalla gratuità vera.
La famiglia, infatti, è il principale luogo dove apprendiamo, per tutta la vita e in un modo tutto speciale da bambini, quella che Pavel Florensky chiamava ’l’arte della gratuità’. E lì che soprattutto da bambini impariamo anche a lavorare, perché non c’è lavoro ben fatto senza gratuità. La nostra cultura, però, associata la gratuità al gratis, al gadget, allo sconto, alla mezza ora in più al lavoro non remunerata, al prezzo zero (San Francesco ci ha invece detto che la gratuità è un prezzo infinito: non si può né comprare né vendere perché è impagabile).
In realtà la gratuità è qualcosa di molto serio, come ci ha spiegato con estrema chiarezza anche la Caritas in veritate, che rivendica alla gratuità anche lo statuto di principio economico. Gratuità è charis, grazia, ma è anche l’agape, come ben sapevano i primi cristiani, che traducevano la parola greca agape con l’espressione latina charitas (con l’h), proprio ad indicare che quella parola latina traduceva ad un tempo l’agape ma anche la charis, e per questo quell’amore diverso non era né solo eros né solo philia (amicizia). La gratuità, questa gratuità, allora, è un modo di agire e uno stile di vita che consiste nell’accostarsi agli altri, a se stesso, alla natura, a Dio, alle cose non per usarli utilitaristicamente a proprio vantaggio, ma per riconoscerli nella loro alterità e nel loro mistero, rispettarli e servirli.
Dire gratuità significa dunque riconoscere che un comportamento va fatto perché è buono, e non per la sua ricompensa o sanzione. La gratuità ci salva così dalla tendenza predatoria che c’è in ogni persona, ci impedisce di mangiare gli altri e noi stessi. E’ ciò che distingue la preghiera dalla magia, la fede dall’idolatria, che ci salva dal narcisismo, che è la grande malattia di massa del nostro tempo, per assenza di gratuità.
Se la famiglia vuole, e deve, coltivare l’arte della gratuità, deve fare molta attenzione a non importare dentro casa la logica dell’incentivo che oggi vige ovunque. Guai, ad esempio, ad usare la logica dell’incentivo all’interno delle dinamiche familiari. Il denaro in famiglia, soprattutto nei confronti dei bambini e dei ragazzi (ma con tutti), va usato molto poco, e se usato deve essere usato come un premio o riconoscimento dell’azione ben fatta per ragioni intrinseche, e mai usato come prezzo. Uno dei compiti tipici della famiglia è proprio formare nelle persone l’etica del lavoro ben fatto, un’etica che nasce proprio dal principio di gratuità. Se, invece, si inizia a praticare anche in famiglia la logica e la cultura dell’incentivo, e quindi il denaro diventa il ’perché’ si fanno e non si fanno compiti e lavoretti di casa, quei bambini da adulti difficilmente saranno dei buoni lavoratori, perché il lavoro ben fatto di domani poggia sempre su questa gratuità che si apprende soprattutto nei primi anni di vita, e soprattutto a casa.
L’assenza del principio di gratuità nell’economia dipende anche, e molto, dall’assenza dello sguardo femminile. La casa, l’oikos, è sempre stato il luogo abitato e governato dalle donne. Ma , paradossalmente, l’economia è stata, e continua ad essere, una faccenda tutta giocata sul registro maschile. Anche i maschi hanno sempre avuto a che fare con la casa, e molto. Il loro sguardo si è però concentrato sul provvedere i mezzi per il sostentamento, sul lavoro esterno, sui beni, sul denaro. E quando l’economia è uscita dalla vita domestica ed è diventata politica, sociale e civile, lo sguardo e il genio femminile è rimasto dentro casa, e quello maschile è rimasta la sola prospettiva della prassi e soprattutto della teoria economica e manageriale.
Le donne guardano alla casa e all’economia vedendo prima di tutto il nesso di rapporti umani che si svolge in esse. I primi beni che vedono sono quelli relazionali e i beni comuni, e dentro a questi vedono anche i beni economici. Non è certo un caso che l’Economia di comunione sia nata da uno sguardo di una donna (Chiara Lubich), né che la prima teorica dei beni comuni è stata Katherine Coman (nel 1911), e che Elinor Ostrom sia stata insignita (unica donna finora) del premio Nobel in economia proprio per il suo lavoro sui beni comuni. E ci sono due donne (Martha Nussbaum e Carol Uhlaner) all’origine della teoria dei beni relazionali. Quando manca lo sguardo femminile sull’economia, le sole relazioni viste sono quelle strumentali, dove non è la relazione ad essere il bene, ma dove i rapporti umani e con la natura sono mezzi usati per procurarsi i beni.
Se lo sguardo e il genio femminile della oikoscasa fossero stati presenti nella fondazione teorica dell’economia moderna, avremmo avuto una economia più attenta alle relazioni, alla redistribuzione del reddito, all’ambiente e forse alla comunione. È, infatti, la comunione una grande parola che dalla famiglia può passare all’economia di oggi. E qui si apre un discorso specifico per i cristiani.
La chiesa oggi è chiamata ad essere sempre più profezia, se vuole salvarsi e salvare. La profezia è anche una parola della famiglia. La maggior parte dei profeti biblici erano sposati, e molte parole e gesti profetici della bibbia sono parole di donne. Isaia chiamò suo figlio Seariasùb, che significa ’un resto tornerà’, che uno dei grandi messaggi della sua profezia.
Non trovò modo migliore per lanciare quel suo messaggio profetico di farlo diventare il nome del figlio. Ogni figlio è un messaggio profetico, perché dice con il solo suo esserci che la terra avrà ancora un futuro, e che potrà essere migliore del presente. La profezia della famiglia oggi, per essere credibile, deve prendere la forma dei figli e la forma dell’economia, e quindi della condivisione, dell’accoglienza e della comunione. Perché sia i figli che l’economia non sono altro che la vita ordinaria di tutti e di ciascuno, che è il solo luogo dove la profezia si nutre e cresce.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
PER RATZINGER, PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI. L’Acca in fuga
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
ESTETICA (E NON SOLO) E DEMOCRAZIA. PER LA CRITICA DELLA FACOLTÀ DI GIUDIZIO E DELLA CREATIVITÀ DELL’ "UOMO SUPREMO" (KANT).
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
La Costituzione non è mai al sicuro, occhio ai programmi elettorali
1947-2017. La Carta come una bussola nella sfida del voto
di Anna Falcone (il manifesto, 28.12.2017)
Sarà la cifra tonda, sarà che questo compleanno della Costituzione arriva dopo la schiacciante vittoria referendaria del 4 dicembre, fatto sta che mai come quest’anno la ricorrenza della firma è stata fortemente sentita dagli italiani, che hanno partecipato in tanti alle iniziative organizzate per l’occasione in tutta Italia. E non solo per rinnovare il ricordo: questa celebrazione e il messaggio che ne scaturisce assumono un valore cruciale per le prossime elezioni politiche.
Lo hanno giustamente sottolineato Felice Besostri ed Enzo Paolini nell’articolo pubblicato ieri sulle pagine di questo giornale. Perché chi ha vinto la battaglia referendaria, e continua a difendere davanti alle Corti le ragioni della legittimità costituzionale delle leggi elettorali, o a sostenere chi lo fa, non potrà sottrarsi, al momento del voto, a un giudizio di coerenza fra schieramenti politici e rispetto del voto referendario.
Il fatto che a 70 anni dalla sua entrata in vigore la Costituzione è e rimane, in gran parte, inattuata rappresenta - per chi voglia raccoglierla seriamente - la sfida politica per eccellenza delle prossime elezioni. Non a caso, molti elettori ed elettrici, che non si rassegnano all’esistente, chiedono agli schieramenti in campo di ripartire proprio dall’attuazione della Costituzione e dalla implementazione dei diritti già riconosciuti dalla Carta quale antidoto alle inaccettabili diseguaglianze del nostro tempo. Un passaggio necessario, se non indispensabile, per rafforzare la credibilità dei programmi politici e, auspicabilmente, ricucire quel rapporto di fiducia fra politica e cittadini mai così in crisi. Un vulnus democratico tradotto in un astensionismo che sfiora ormai il 55% dell’elettorato: dato più che allarmante a cui non ci si può e non ci si deve rassegnare.
Rilanciare il messaggio della necessaria difesa e attuazione della Costituzione - in particolare delle norme che garantiscono il pieno e trasparente esercizio della democrazia e attribuiscono alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli che alimentano e aggravano le condizioni di diseguaglianza fra cittadini - diventa, allora, cruciale, soprattutto alla vigilia di una tornata elettorale le cui regole saranno scandite dall’ennesima legge elettorale ad alto rischio di incostituzionalità.
Pur nella piena consapevolezza che la Costituzione non delinea un programma univoco, capace di blindare le scelte dei diversi governi - è necessario riconoscere, infatti, e una volta per tutte, che esiste un nucleo duro di principi e diritti fondamentali inderogabili che ogni forza politica deve impegnarsi ad attuare, nelle forme e nei modi che ritiene più opportuni, per rispettare quella fedeltà alla Costituzione che li lega indissolubilmente alla Repubblica e ai suoi compiti costituzionali. Un patto democratico di diritti e obiettivi programmatici, inequivocabilmente vincolanti, che deve tornare ad essere il cuore di ogni programma elettorale. Soprattutto a Sinistra.
Sia chiaro: non è un’indicazione di voto, ma il suggerimento a una riflessione suppletiva sul voto e su chi auspicabilmente si impegnerà in maniera chiara e credibile a difendere e attuare la Costituzione. Nella piena consapevolezza che un tale ambizioso obiettivo, per essere concreto, deve essere condiviso da tanti, e non è monopolizzabile da pochi o da forze marginali. Perché la Costituzione non è perfetta, né intoccabile, ma è l’unico punto certo che abbiamo, il primo “bene comune” in cui si riconoscono gli italiani in questa difficile fase di transizione democratica. Se questa virerà verso il restringimento progressivo degli spazi di partecipazione e di democrazia o verso modelli più avanzati dipenderà anche dal se e come eserciteremo il nostro diritto di voto.
In tal senso, l’astensionismo, anche come forma estrema di protesta, più che sortire un ‘ravvedimento’, rischia di favorire le destre nel prossimo Parlamento, e con esse la formazione di uno schieramento largo e più ampio della compagine del futuro governo che, se non arginato, potrebbe trovare i numeri per unire le forze di quanti - avendo fallito le riforme del 2006 e del 2016 - potrebbero convergere su un progetto analogo, se non peggiore. Un’operazione che, (ipotesi remota, ma non impossibile) qualora dovesse raccogliere il sostegno dei 2/3 dei componenti di ciascuna Camera potrebbe non dare spazio neppure alla raccolta delle firme per chiedere il referendum costituzionale e, con esso, il pronunciamento popolare.
Per questo è necessario sollecitare le forze politiche in campo affinché si pronuncino, tutte, sul loro programma costituzionale: sul se e come intendano intervenire sulla Costituzione; sul se e come intendano dare attuazione al suo nucleo duro di principi e diritti inderogabili; sul se e come intendano metterla “in sicurezza” da possibili incursioni di future maggioranze gonfiate. Perché non ci si debba più trovare in futuro a contrastare una riforma o, peggio, una riscrittura della Carta, di parte e neppure menzionata nei programmi elettorali e adeguatamente dibattuta nel Paese. Ai tanti italiani che si sono recati al voto il 4 dicembre, almeno questo, è dovuto.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
PAOLA CIONI, ELIANA DI CARO, ELENA DONI, CLAUDIA GALIMBERTI, LIA LEVI, MARIA SERENA PALIERI, FRANCESCA SANCIN, CRISTIANA DI SAN MARZANO, FEDERICA TAGLIAVENTI, CHIARA VALENTINI
Donne della Repubblica
Anteprima del testo delle prime cinque pagine a stampa del primo capitolo.
Ricordiamoci che la storia la raccontano sempre i vincitori. Ed è quella che rimane a testimonianza del passato. Vogliamo farci anche noi narratrici della nostra storia, per ricordare che oltre ai molti coraggiosi e valenti uomini italiani, ci sono state tante donne che hanno contribuito profondamente ai migliori cambiamenti del nostro Paese?
Dacia Maraini
Il 2 giugno 1946 si tennero le prime elezioni politiche per le quali votarono anche le donne. Un passaggio che segna l’affermazione di un nuovo protagonismo femminile nella società italiana. A restituirci la portata simbolica e politica di quella conquista, quattordici biografie esemplari di donne che con diversi talenti, in vari campi, hanno contribuito alla nascita della Repubblica e a cambiare l’immagine della donna. Non solo le politiche, che fin dai tempi del fascismo si erano battute per la democrazia, come Camilla Ravera, Teresa Noce, Lina Merlin, o le donne della resistenza, Tina Anselmi, Nilde Iotti, Teresa Mattei, Marisa Ombra, Ada Gobetti, ma anche scrittrici come Alba de Céspedes, Fausta Cialente, Renata Viganò, un’attrice come Anna Magnani, la famosa sarta Biki, e la leggendaria Dama Bianca compagna di Fausto Coppi.
Le autrici del volume fanno parte di Controparola, un gruppo di giornaliste e scrittrici nato nel 1992 per iniziativa di Dacia Maraini. Come opere collettive per il Mulino hanno pubblicato anche «Donne del Risorgimento» (2011) e «Donne nella Grande Guerra» (2014). Per altri editori: «Piccole italiane» (Anabasi, 1994), «Il Novecento delle italiane» (Editori Riuniti, 2001), «Amorosi assassini» (Laterza, 2008).
Il confronto con l’esito del referendum costituzionale del 2006
di Salvatore Settis (la Repubblica, 07.12.2016)
IL DATO più rilevante nei risultati del 4 dicembre emerge dal confronto con l’esito del referendum costituzionale del 2006. In ambo i casi il voto popolare ha respinto una riforma costituzionale assai invasiva (54 articoli modificati nel 2006, 47 nel 2016), approvata a maggioranza semplice da una coalizione di governo che ostentava sicurezza per bocca di un premier (allora Berlusconi, ora Renzi) in cerca di un’investitura plebiscitaria.
Le due riforme abortite non sono identiche, ma vicine in aspetti cruciali (la fiducia riservata alla sola Camera e il nebbioso ruolo del Senato). Se guardiamo ai numeri, il confronto è impressionante: nel 2006 i No furono il 61,29%, nel 2016 il 59,25; quanto ai Sì, si passa dal 38,71% (2006) al 40,05 (2016). Un rapporto di forze simile, che diventa più significativo se pensiamo che l’affluenza 2016 (68,48%) è molto superiore a quella del 2006 (52,46%): allora votarono 26 milioni di elettori, oggi ben 32 milioni, in controtendenza rispetto al crescente astensionismo delle Europee 2014 e delle Regionali dello stesso anno.
Eppure, dal 2006 ad oggi il paesaggio politico è completamente cambiato, per l’ascesa dei 5Stelle, la frammentazione della destra berlusconiana, le fratture di quella che fu la sinistra. Più affluenza oggi di dieci anni fa, un cambio di generazioni, con milioni di giovani che votavano per la prima volta a un referendum costituzionale: eppure, nonostante i mutamenti di scenario, un risultato sostanzialmente identico, con un No intorno al 60%.
Una notevole prova di stabilità di quel “partito della Costituzione” che rifiuta modifiche così estese e confuse. Esso è per sua natura un “partito” trasversale, come lo fu la maggioranza che varò la Costituzione, e che andava da Croce a De Gasperi, Nenni, Calamandrei, Togliatti. Il messaggio per i professionisti della politica è chiaro: non si possono, non si devono fare mai più riforme così estese e con il piccolo margine di una maggioranza di parte.
Nel 2006 e nel 2016, due governi diversissimi hanno cercato di ripetere il discutibile “miracolo” del referendum 2001, quando la riforma del Titolo V (17 articoli) fu approvata con il 64% di Sì contro un No al 36%: ma allora l’affluenza si era fermata al 34% (16 milioni di elettori). Si è visto in seguito che quella riforma, varata dalle Camere con esiguo margine, era mal fatta; e si è capito che astenersi in un referendum costituzionale vuol dire rinunciare alla sovranità popolare, principio supremo dell’articolo 1 della Costituzione.
Per evitare il ripetersi (sarebbe la terza volta) di ogni tentativo di forzare la mano cambiando la Costituzione con esigue maggioranze, la miglior medicina è tornare a un disegno di riforma costituzionale (nr. 2115), firmato nel 1995 da Sergio Mattarella, Giorgio Napolitano, Leopoldo Elia, Franco Bassanini. Esso prevedeva di modificare l’art. 138 Cost. nel senso che ogni riforma della Costituzione debba sempre essere «approvata da ciascuna Camera a maggioranza dei due terzi dei suoi componenti», e ciò senza rinunciare alla possibilità di ricorrere al referendum popolare.
Questo l’art. 4; ma anche gli altri di quella proposta troppo frettolosamente archiviata sarebbero da rilanciare. L’art. 2 prevedeva che la maggioranza necessaria per eleggere il Presidente della Repubblica debba sempre essere dei due terzi dell’assemblea (l’opposto della defunta proposta Renzi-Boschi, che avrebbe reso possibile l’elezione da parte dei tre quinti dei votanti, senza computare assenti e astenuti); e che qualora l’assemblea non riesca ad eleggere il Capo dello Stato «le funzioni di Presidente della Repubblica sono provvisoriamente assunte dal Presidente della Corte Costituzionale». L’art. 3, prevedendo situazioni di stallo nell’elezione da parte del Parlamento dei membri della Consulta di sua spettanza, prevedeva che dopo tre mesi dalla cessazione di un giudice, se il Parlamento non riesce a eleggere il successore «vi provvede la Corte Costituzionale stessa, a maggioranza assoluta dei suoi componenti». Previsione lungimirante: è fresco il ricordo del lungo stallo delle nomine alla Corte, finché nel dicembre 2015 si riuscì a nominare tre giudici dopo ben 30 tentativi falliti.
In quelle proposte, come si vede, la Corte Costituzionale aveva un ruolo centrale, e il rafforzamento delle istituzioni passava attraverso un innalzamento delle maggioranze necessarie per passaggi istituzionali cruciali, come le riforme costituzionali o l’elezione del Capo dello Stato. In un momento di incertezza come quello che attraversiamo, quella lezione dovrebbe tornare di attualità, anche se molti firmatari di quella legge sembrano essersene dimenticati.
La riforma Renzi-Boschi è stata bocciata, ma fra le sue pesanti eredità resta una cattiva legge elettorale, l’Italicum, che la Consulta potrebbe condannare tra poche settimane, e che comunque vale solo per la Camera. Compito urgente del nuovo governo, chiunque lo presieda, sarà dunque produrre al più presto una legge elettorale finalmente decorosa, e compatibile (si spera) con riforme costituzionali come quelle sopra citate. Le prossime elezioni politiche, anticipate o no, dovranno portare alle Camere deputati e senatori liberamente eletti dai cittadini e non nominati nel retrobottega dei partiti.
Il referendum da cui veniamo è stato un grande banco di prova per la democrazia: ma ora è il momento di mostrare, per i cittadini del No e per quelli del Sì, che sappiamo essere “popolo” senza essere “populisti”. Che per la maggioranza degli italiani la definizione di “popolo”, della sua sovranità e dei suoi (dei nostri) diritti coincide con quella della Costituzione, la sola che abbiamo. Il “ritorno alla Costituzione” che ha segnato i mesi scorsi e che ha portato all’esito del referendum mostra che è possibile.
Smuraglia: è un No per attuare la Costituzione
"Al referendum non hanno vinto i partiti", dice il presidente dell’Anpi. "Leggere la vittoria referendaria del 4 dicembre solo sul terreno del confronto politico è un modo per ridimensionare il risultato popolare"
intervista di Andrea Fabozzi (il manifesto, 7.12.2016)
Carlo Smuraglia, presidente dell’Associazione nazionale partigiani, si aspettava questo successo del No?
Onestamente no. Immaginavo il paese spaccato a metà e speravo in una vittoria con il minimo distacco. Avevo indicazioni molto positive dalle nostre manifestazioni, in particolare l’ultima a Roma al teatro Brancaccio. Ma l’esperienza mi insegna a non fidarmi di quello che si vede nelle piazze e nei teatri, perché è la gente silenziosa che decide il risultato. E c’era da temere la propaganda del governo, le promesse, le proposte e le minacce del presidente del Consiglio, la complicità della stampa con il Sì...
E invece.
Mi ha sorpreso felicemente la grande partecipazione. Avevamo captato questo desiderio di capire e di partecipare, ma forse l’abbiamo persino sottovalutato. Evidentemente i cittadini che si sono informati sulla riforma, l’hanno compresa bene e giudicata male, sono stati la maggioranza. Anche se questa parte ragionata del No, adesso, mi pare messa del tutto tra parentesi, rimossa.
Non le piace come viene raccontata la vittoria del No?
Mi sorprende che tra le tante ragioni della sconfitta del Sì, la più elementare - e cioè che la riforma è stata bocciata nel merito - sia finita nell’ombra. Tutte le analisi sono sul terreno politico, tornano a farsi sentire come vincitori partiti che in campagna elettorale avevamo visto poco. Io credo che leggere il 4 dicembre esclusivamente sul terreno del confronto tra partiti sia un modo per ridimensionare lo straordinario risultato popolare.
Lei invece ci legge il segnale di una speranza? Si può ricominciare a parlare di attuazione della Costituzione?
Noi ne parliamo da sempre e lo abbiamo fatto anche in questa campagna elettorale. Alla fine dei miei incontri c’era sempre chi mi chiedeva “ma se vince il No cosa facciamo?”. E io rispondevo “Prima brindiamo, poi diciamo che invece di cambiarla la Costituzione bisogna attuarla”. A quel punto arrivava l’applauso più forte. Perché tutti vedono l’enorme contrasto che c’è tra i principi fondamentali della Carta e la realtà. Non voglio illudermi, ma credo che dentro questo 60% di No ci sia anche questa richiesta di attuazione.
Insieme a un voto contro il governo, non le pare?
Non per quanto ci ha riguardato. L’ho detto anche a Renzi nel nostro confronto di settembre a Bologna. Non ci è mai interessata la sorte del governo, volevamo solo difendere la Costituzione da uno strappo. Mi pare che lei non sia rimasto contento del modo in cui è stato raccontato quel confronto alla festa dell’Unità. Non sono rimasto contento che sia stato oscurato. Evidentemente non si era concluso come giornali e tv si auguravano, con la vittoria di Renzi.
Secondo lei, adesso, come si viene fuori dalle dimissioni del presidente del Consiglio?
La richiesta di votare presto mi pare infondata. Mancano molti presupposti, innanzitutto la legge elettorale: ne abbiamo due diverse per camera e senato e la prima è attesa al giudizio della Consulta. In più tutti i partiti dicono di volerla cambiare. La corsa alle urne è ingiustificata, il presidente della Repubblica, anche di fronte alle dimissioni di Renzi, ha molti strumenti prima di accettare le elezioni anticipate, provvederà con saggezza.
Questo No mette fine ai tentativi di riscrivere la Costituzione, almeno per un po’?
La Costituzione non è mai messa sufficientemente al riparo e bisogna stare sempre in guardia. Ma un No di questa entità ha anche un valore di ammonimento molto forte, si è capito che la Costituzione non è una legge ordinaria e non si può modificarla a cuor leggero, ma solo quando ce n’è effettivamente bisogno. E con il massimo di consenso.
In campagna elettorale si è parlato molto delle divisioni dell’Anpi. Vicenda chiusa? Lascerà qualche segno tra voi?
I segni sono stati più esterni che interni. Ogni piccola cosa è stata ingigantita e presa per buona, noi non abbiamo mai allontanato né sanzionato nessuno. Abbiamo solo chiesto ai nostri iscritti di non fare campagna per il Sì nel nome dell’Anpi, visto che la nostra posizione era opposta. La verità è che ha dato molto fastidio che l’Anpi si fosse schierata per il No. La nostra associazione è portatrice di valori in cui tutti devono riconoscersi, e dunque a molti abbiamo fatto fare almeno un pensierino.
Caro Scalfari, con il Sì passa un’espropriazione di sovranità
di Gustavo Zagrebelsky *
Caro Eugenio Scalfari, ieri mi hai chiamato in causa due volte a proposito del mio orientamento pro-No sul referendum prossimo venturo e, la seconda volta, invitandomi a ripensarci e a passare dalla parte del Sì. La "pessima compagnia", in cui tu dici ch’io mi trovo, dovrebbe indurmi a farlo, anche se, aggiungi, sai che non lo farò. Non dici: "non so se lo farà", ma "so che non lo farà", con il che sottintendi di avere a che fare con uno dalla dura cervice.
I discorsi "sul merito" della riforma, negli ultimi giorni, hanno lasciato il posto a quelli sulla "pessima compagnia". Il merito della riforma, anche a molti di coloro che diconono di votare Sì, ultimo Romano Prodi, appare alquanto disgustoso. Sarebbero piuttosto i cattivi compagni l’argomento principale, argomento che ciascuno dei due fronti ritiene di avere buoni motivi per ritorcere contro l’altro.
Un topos machiavellico è che in politica il fine giustifica i mezzi, cioè che per un buon proposito si può stare anche dalla stessa parte del diavolo. Non è questo. Quel che a me pare è che l’argomento della cattiva compagnia avrebbe valore solo se si credesse che i due schieramenti referendari debbano essere la prefigurazione d’una futura formula di governo del nostro Paese. Non è così. La Costituzione è una cosa, la politica d’ogni giorno un’altra. Si può concordare costituzionalmente e poi confliggere politicamente. Se un larghissimo schieramento di forze politiche eterogenee concorda sulla Costituzione, come avvenne nel ’46-’47, è buona cosa. La lotta politica, poi, è altra cosa e la Costituzione così largamente condivisa alla sua origine valse ad addomesticarla, cioè per l’appunto a costituzionalizzarla. In breve: l’argomento delle cattive compagnie, quale che sia la parte che lo usa, si basa sull’equivoco di confondere la Costituzione con la politica d’ogni giorno.
Vengo, caro Scalfari, a quella che tu vedi come un’ostinazione. Mi aiuta il riferimento che tu stesso fai a Ventotene e al suo "Manifesto", così spesso celebrati a parole e perfino strumentalizzati, come in quella recente grottesca rappresentazione dei tre capi di governo sulla tolda della nave da guerra al largo dell’isola che si scambiano vuote parole e inutili abbracci, lo scorso 22 agosto. C’è nella nostra Costituzione, nella sua prima parte che tutti omaggiano e dicono di non voler toccare, un articolo che, forse, tra tutti è il più ignorato ed è uno dei più importanti, l’articolo 11. Dice che l’Italia consente limitazioni alla propria sovranità quando - solo quando - siano necessarie ad assicurare la pace e la giustizia tra le Nazioni. Lo spirito di Ventotene soffia in queste parole. Guardiamo che cosa è successo. Ci pare che pace e giustizia siano i caratteri del nostro tempo? Io vedo il contrario. Per promuovere l’una e l’altra occorre la politica, e a me pare di vedere che la rete dei condizionamenti in cui anche l’Italia è caduta impedisce proprio questo, a vantaggio d’interessi finanziario-speculativi che tutto hanno in mente, meno che la pace e la giustizia. Guardo certi sostegni alla riforma che provengono da soggetti che non sanno nemmeno che cosa sia il bicameralismo perfetto, il senato delle autonomie, la legislazione a data certa, ecc. eppure si sbracciano a favore della "stabilità". Che cosa significhi stabilità, lo vediamo tutti i giorni: perdurante conformità alle loro aspettative, a pena delle "destabilizzazioni" - chiamiamoli ricatti - che proprio da loro provengono.
Proprio questo è il punto essenziale, al di là del pessimo tessuto normativo che ci viene proposto che, per me, sarebbe di per sé più che sufficiente per votare No. La posta in gioco è grande, molto più grande dei 47 articoli da modificare, e ciò spiega l’enorme, altrimenti sproporzionato spiegamento propagandistico messo in campo da mesi da parte dei fautori del Sì. L’alternativa, per me, è tra subire un’imposizione e un’espropriazione di sovranità a favore d’un governo che ne uscirebbe come il pulcino sotto le ali della chioccia, e affermare l’autonomia del nostro Paese, non per contestare l’apertura all’Europa e alle altre forme di cooperazione internazionale, ma al contrario per ricominciare con le nostre forze, secondo lo spirito della Costituzione. Si dirà: ma ciò esigerebbe una politica conforme e la politica ha bisogno di forze politiche. E dove sono? Sono da costruire, lo ammetto. Ma il No al referendum aprirà una sfida e in ogni sfida c’è un rischio; ma il Sì non l’aprirà nemmeno. Consoliderà soltanto uno stato di subalternità.
Questa, in sintesi, è la ragione per cui io preferisco il No al Sì e perché considero il No innovativo e il Sì conservativo.
Ti ringrazio dell’attenzione. A cose fatte avremo tempo e modo
2 giugno 1946 - 2 giugno 2016
Un miracolo della ragione
Una Repubblica destinata a durare nei secoli, secondo Calamandrei. Ma civismo, valori e ideali non si sono radicati
di Emilio Gentile (Il Sole-24 Ore, Domenica, 29.05.2016)
La repubblica italiana compie settanta anni il 2 giugno 2016. Il 9 giugno 1946, sette giorni dopo il referendum con il quale la maggioranza degli elettori italiani, uomini e donne, aveva deciso la fine della monarchia, Piero Calamandrei affermò: «Una Repubblica nata così è destinata a durare nei secoli». La nascita della repubblica in Italia appariva al grande giurista un «miracolo della ragione», il miracolo, cioè, di una «realtà pacifica e giuridica scesa dall’empireo degli ideali nella concretezza terrena della storia, entrata senza sommossa e senza guerra civile nella pratica ordinaria della Costituzione».
Nonostante un ventennio di regime totalitario legittimato dalla monarchia, seguito da cinque anni di disastroso coinvolgimento dell’Italia in una guerra mondiale, con gli ultimi due anni insanguinati da una spietata guerra civile fra italiani politicamente divisi in due Stati nemici, alleati, su fronti opposti, con eserciti invasori che si combattevano ferocemente nella penisola coprendola di cadaveri e di rovine - il 2 giugno 1946 con il referendum istituzionale il popolo italiano attuò pacificamente una rivoluzione democratica. «Mai nella storia è avvenuto né mai ancora avverrà, che una Repubblica sia stata proclamata per libera scelta di popolo mentre era ancora sul trono il re», affermò Calamandrei.
La campagna elettorale fra i partiti fautori della repubblica o della monarchia suscitò una appassionata partecipazione popolare, ed ebbe toni accesi e minacciosi: con la scelta della repubblica ci sarebbero stati salti nel buio o dispotismo comunista; con la scelta della monarchia ci sarebbero stati colpi di Stato reazionari o insurrezioni armate. A fomentare la polemica sopravvenne il 9 maggio l’annuncio dell’abdicazione di Vittorio Emanuele III in favore del figlio Umberto, con l’intento di favorire così la causa monarchica dissociandola dalle colpe del sovrano compromesso col fascismo. Tuttavia, la rottura della “tregua istituzionale” non fu drammatizzata dal governo dei partiti antifascisti presieduto da Alcide De Gasperi, e non mise in pericolo il pacifico svolgimento delle elezioni. Dalle province i prefetti comunicarono che le votazioni si erano svolte «nella massima calma e serenità». I commenti della stampa, sia repubblicana sia monarchica, lo confermarono: «Le votazioni si sono svolte nel più perfetto ordine e nella più perfetta legalità», scrisse il 4 giugno il giornale monarchico «Italia nuova».
Il referendum fu la più ampia votazione democratica fino allora attuata nella storia dell’Italia unita. 28.005.409 di elettori e di elettrici, pari al 67,1% della popolazione complessiva, si recarono alla urne per scegliere la forma di Stato e per eleggere i componenti dell’Assemblea costituente. Nelle ultime elezioni libere, che si erano svolte in Italia nel 1921, gli elettori, allora solo maschi, erano stati 11.477.210 (il 28,7% della popolazione). Inoltre, nel referendum del 2 giugno la percentuale dei votanti fu dell’89,1%, rispetto al 58,4 del 1921.
Le partecipazione elettorale, per le sue dimensioni, fu l’evento decisivo della pacifica rivoluzione democratica che diede vita allo Stato repubblicano. L’altro evento radicalmente innovativo fu la partecipazione al voto delle donne, alle quali per la prima volta nella storia italiana era riconosciuto il diritto elettorale attivo e passivo. Le donne votanti furono 1.216.241 in più degli uomini, smentendo così quanti avevano previsto, sperato o paventato, un ampio astensionismo delle elettrici. Furono 21 le donne elette all’Assemblea costituente, su un totale di 556 eletti. Prima del 2 giugno, le donne avevano già partecipato, fra marzo e aprile, alle elezioni amministrative in 5.722 comuni, dove il numero delle votanti (8.441.537) era stato già superiore al numero degli uomini (7.862.743). Più di 2000 donne furono elette nei consigli comunali.
La repubblica fu generata in Italia da uomini e donne in parità di cittadinanza. Dalle urne, uscirono 12.718.000 voti per la repubblica e 10.719mila per la monarchia. Il tentativo dei monarchici e dello stesso re Umberto di invalidare il risultato elettorale provocò dimostrazioni e scontri violenti - ci furono cinque morti a Napoli - ma il 13 giugno il re, dichiarando di voler evitare una guerra civile, partì per l’esilio. L’elezione del monarchico Enrico De Nicola a capo provvisorio del nuovo Stato repubblicano, votato dall’Assemblea costituente il 28 giugno 1946, valse a disinnescare il pericolo di nuovi scontri fra monarchici e repubblicani. I partiti monarchici che nacquero dopo la fine della monarchia operarono nel parlamento repubblicano per alcuni decenni, prima di estinguersi definitivamente.
A settanta anni dalla fine della monarchia, nessun pretendente al trono che fu dei Savoia insidia la repubblica italiana; tuttavia, nessuno può sapere se durerà nei secoli. La repubblica nata il 2 giugno non ha creato una propria tradizione di valori e di ideali, con salde radici nella coscienza del popolo italiano. Neppure la giornata della sua nascita è divenuta una festa nazionale collettivamente sentita e partecipata, come è il 4 luglio negli Stati Uniti e il 14 luglio in Francia. Addirittura nel 1977 la festa nazionale del 2 giugno fu abolita di fatto, per essere ripristinata soltanto nel 2000, senza però iniettare nel popolo italiano la vitalità del civismo repubblicano.
A settanta anni la repubblica nata il 2 giugno 1946 non gode in effetti una buona salute. Anzi, secondo talune formule coniate negli ultimi tre decenni dalla pubblicistica politica, e assurte forse frettolosamente a categorie storiografiche, la repubblica istituita settanta anni fa è deceduta nel 1992, trapassando alla storia come la Prima repubblica. Nel ventennio successivo, c’è stata una Seconda repubblica, che a sua volta è ora in agonia o prossima al decesso, mentre sembra che proprio nell’anno in cui ricorre l’anniversario della nascita della Prima repubblica, stia per nascere una Terza repubblica.
Questa sequela di repubbliche rivela l’esistenza di un male costante che da mezzo secolo almeno affligge lo Stato repubblicano italiano, esplodendo periodicamente in forme gravi. Per guarire la repubblica italiana dal suo male attuale, è forse necessario un altro «miracolo della ragione». Ma nessun miracolo potrà mai avvenire, senza l’intervento del popolo sovrano, che sappia però comportarsi da sovrano repubblicano.
2 giugno 1946 - 2 giugno 2016
La zona grigia nel nuovo Stato
di Raffaele Liucci (Il Sole-24 ore, 29.05.2016)
Per Primo Levi, la «zona grigia» era l’ambigua terra di nessuno fra bene e male, emersa nei campi di sterminio, ove «quanto più dura è l’oppressione, tanto più è diffusa tra gli oppressi la disponibilità a collaborare col potere». Ma la categoria della «zona grigia» sarà in tempi più recenti adottata anche dagli storici, per inquadrare quanti avevano vissuto da spettatori la Resistenza del 1943-45, con la speranza che la «nuttata» passasse presto. Una massa di attendisti, destinata a esercitare un peso elettorale maggioritario nella nuova repubblica, antifascista soltanto sulla carta.
Ora Carlo Greppi, giovane studioso torinese, presenta un suggestivo case study, incentrato sulla città sabauda nel 1943-45. Attorno alla lugubre caserma-prigione di via Asti, luogo deputato a fucilazioni e torture indicibili, ruotano diverse storie. Storie di vittime, di carnefici, ma soprattutto di «uomini in grigio», moralmente impreparati ad affrontare la tempesta addensatasi sulle loro teste. Vorremmo tutti identificarci nella cristallina biografia di Bruno Segre, partigiano oggi quasi centenario. Ma a incarnare l’Italia profonda era soprattutto il brigadiere Antonio M., il vero protagonista di queste pagine. Ultima ruota del carro nell’apparato repressivo repubblichino, costui tenne sempre il piede in due scarpe, barcamenandosi sino alla fine tra aguzzini e resistenti (nell’autunno del ’45, una Corte straordinaria di Assise lo condannerà a dieci anni di reclusione per «aiuto al nemico nei suoi disegni politici»).
Come valutare il volume di Greppi? Da un lato, non si può non apprezzare lo scavo compiuto dall’autore (memorie, documenti giudiziari, epistolari inediti), per riportare alla luce questa varia umanità. Possiamo così contemplare un panorama assai più problematico di quelli cui ci avevano abituati sia la mistica della lotta di Liberazione sia il reducismo di Salò, entrambi restii ad ammettere che la guerra civile fosse stata combattuta da due opposte minoranze, davanti a una platea di «imboscati». Invece, piaccia o meno, uno dei pilastri della nostra identità nazionale risiede proprio nella «zona grigia»: come dimostrerà il successo riscosso nel dopoguerra dall’«apota» Montanelli, il quale nel romanzo autobiografico Qui non riposano (settembre 1945) vergherà un esplicito elogio del colore grigio, «appunto perché non è né bianco né nero».
Dall’altro lato, suscita qualche perplessità il «montaggio» effettuato da Greppi. C’erano due modi per valorizzare questa messe documentaria: o con un libro pienamente narrativo e avvincente, alla Corrado Stajano, in grado di catapultarci nel clima plumbeo dell’epoca; oppure con un saggio storiografico in senso stretto, forse più arido ma anche più scrupoloso. Greppi ha scelto una via di mezzo, sfornando un lavoro né carne né pesce. Un intarsio aggrovigliato di storie, delle quali il lettore fatica a seguire il bandolo. Peccato, perché la carne da mettere sul fuoco era molta.
di Marco Belpoliti (La Stampa, 24.01.2016)
Chissà se il movimento gay, lesbiche e trans quando ha scelto la bandiera arcobaleno quale proprio emblema ha pensato alla canzone che canta Dorothy nel “Mago di Oz”: Over the Rainbow? Probabilmente no.
Questa bandiera del resto ha già una sua lunga storia; dal movimento hippy californiano degli Anni Sessanta alle manifestazioni popolari contro la guerra e per la pace degli Anni Ottanta, sono diversi i gruppi e le aggregazioni che hanno issato questa sequenza di colori come proprio stendardo. L’hanno fatto per ricordare che l’arcobaleno è un fenomeno fisico che appare là dove cessano le implacabili piogge, com’era accaduto allo stesso Noè nel momento in cui, dopo il Diluvio universale, cercava di toccare la terra ferma per ricominciare la vita sulla faccia della Terra invasa dalle acque con il suo vascello di creature a coppie.
Le famiglie arcobaleno, che sono scese in piazza per manifestare a favore delle unione civili hanno molta voglia di andare al di là di questo simbolo, come canta Dorothy, Noè compreso, e di entrare in una vita quotidiana fatta di una sicurezza garantita dalla legge, qualcosa di molto normale, dove la parola ha un significato letterale: vivere in una norma sancita e uguale per tutti.
Quello che appare oggi in gioco nella estremizzazione del problema delle «unioni civili» è il tema della identità là dove, ci ricordano gli antropologi, l’identità è sempre una costruzione culturale. Appena una società intende costruire una propria identità intorno a un valore - in questo caso «la famiglia» - immediatamente s’imbatte in un problema di alterità. L’identità si costruisce a scapito della alterità, combattendo l’alterità, riducendo quelle che sono le possibili potenzialità alternative, ha scritto Francesco Remotti in un libro che andrebbe letto e meditato: Contro l’identità (Laterza).
Per quanto l’identità respinga, l’alterità risorge in modo prepotente e invincibile. Non c’è dubbio che le famiglie arcobaleno costituiscono un’alterità rispetto a quella che è l’identità famigliare dominante nella nostra società. Ricordando quanto ha scritto un’altra antropologa, Mary Douglas, ogni tentativo di purificazione reca con sé l’idea di impurità, di sporco. Non esiste l’impuro di per sé, ma solo in rapporto a un ordine che lo istituisce come tale, per opposizione. Nello scontro in corso intorno alle unioni omosessuali la coppia puro/impuro è una sorta di non detto, dal momento che c’è la tendenza a stabilire la norma e contemporaneamente l’anormalità, la purezza cui corrisponderebbe l’impurità. Tutto questo è una costruzione sociale. Non esiste un’identità umana unica e incontrovertibile, una norma stabilita una volta per tutte.
In un suo articolo di qualche anno fa, che oggi si legge in un libro recente, Siamo tutti cannibali (il Mulino), Claude Lévi-Strauss ha mostrato come non sia affatto la consanguineità a fondare la famiglia. Il grande etnologo francese fa l’esempio di società in cui la famiglia è composta di un fratello e di una sorella e nessun padre: tutti i figli avuti dalla donna sono stati concepiti con partner diversi, ma ne fanno integralmente parte e sono allevati dai fratelli; in un’altra una donna sterile può essere considerata un uomo e sposare un’altra donna e allevare con lei i figli. Altre ancora hanno abolito la categoria del marito e si sono fondate su forme di struttura famigliare che esclude quella biologica puntando piuttosto sul legame sociale.
Le famiglie arcobaleno rappresentano una diversità e una ricchezza che gli antropologi si guarderebbero bene di respingere. Non sono la maggioranza nella nostra società, non costituiscono a loro volta una norma, ma appunto una diversità, quella di cui abbiamo bisogno per costruire la nostra stessa identità prevalente. I colori con cui hanno sfilato nelle città italiane sono il segno di una pluralità rispetto ai vessilli monocromatici che dominano il nostro Occidente. Non delle aberrazioni, bensì alterità. Over the Rainbow, canta Dorothy. Proviamo ad andare davvero oltre.
Quirinale: il primo giorno di Mattarella presidente, a piedi in centro
Il nuovo capo dello Stato mantiene le abitudini di sempre: a messa di buon mattino e poi a piedi fino alla foresteria della Consulta, dove abita
di Redazione ANSA *
Il nuovo presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, mantiene le abitudini anche dopo la sua elezione di ieri a capo dello Stato. Questa mattina ha raggiunto la chiesa dei Santi Apostoli, in centro a Roma, per partecipare alla messa. "Rivolgiamo fraterni auguri al nuovo presidente - ha detto padre Nicola Rosa durante la messa - e chiudiamo con la benedizione di San Francesco. Preghiamo affinché il Signore faccia risplendere il suo volto su ciascuno di noi, sul Paese, su chi ci Governa e su chi è chiamato ad assumere responsabilità per il bene del Paese", ha detto padre Nicola.
Al termine della cerimonia, Mattarella si è intrattenuto con alcune suoreche partecipavano alla funzione e ha anche posato per una foto con loro fuori dalla chiesa. "Pregate per me affinché io sia uno strumento per il bene del Paese", ha detto il nuovo capo dello Stato alle religiose.
Il capo dello Stato, al termine della messa, ha deciso di non prendere la ormai tradizionale Panda con la quale si è spostato in questi giorni e di raggiungere a piedi (FOTO) la foresteria della Consulta. Il presidente ha voluto così rispettare le disposizioni del blocco del traffico del centro di Roma: una passeggiata, quindi, non casuale ma una precisa scelta.
Al rientro dalla messa, il nuovo presidente della Repubblica ha telefonato al predecessore Carlo Azeglio Ciampi con il quale ha avuto una lunga ed affettuosa conversazione. "Sono grato per tutto quello che hai fatto per il Paese. Tu puoi capire bene quali siano le mie preoccupazioni", ha detto Mattarella.
Il messaggio di fine anno del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella *
«Buonasera, un saluto molto cordiale a quanti mi ascoltano e gli auguri migliori, altrettanto cordiali, a tutte le italiane e a tutti gli italiani, in patria e all’estero; e a coloro che si trovano in Italia e che amano il nostro Paese. A tutti un buon 2016». Così il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha aperto il tradizionale messaggio di fine anno.
«L’anno che sta per concludersi - ha proseguito il Capo dello Stato - ha recato molte novità intorno a noi: alcune positive, altre di segno negativo. Questa sera non ripeterò le considerazioni che ho fatto, giorni fa, incontrando gli ambasciatori degli altri Paesi in Italia sulla politica internazionale, e neppure quelle svolte con i rappresentanti delle nostre istituzioni. Stasera vorrei dedicare questi minuti con voi alle principali difficoltà e alle principali speranze della vita di ogni giorno.
Il lavoro anzitutto. L’occupazione è tornata a crescere. Ma questo dato positivo, che pure dà fiducia, l’uscita dalla recessione economica e la ripresa non pongono ancora termine alle difficoltà quotidiane di tante persone e di tante famiglie.
Il lavoro manca ancora a troppi dei nostri giovani. Sono giovani che si sono preparati, hanno studiato, posseggono talenti e capacità e vorrebbero contribuire alla crescita del nostro Paese. Ma non possono programmare il proprio futuro con la serenità necessaria. Accanto a loro penso a tante persone, quarantenni e cinquantenni, che il lavoro lo hanno perduto, che faticano a trovarne un altro e che vivono con la preoccupazione dell’avvenire della propria famiglia. Penso all’insufficiente occupazione femminile. Il lavoro manca soprattutto nel Mezzogiorno. Si tratta di una questione nazionale. Senza una crescita del Meridione, l’intero Paese resterà indietro.
Le diseguaglianze rendono più fragile l’economia e le discriminazioni aumentano le sofferenze di chi è in difficoltà. Come altrove, anche nel nostro Paese i giovani che provengono da alcuni ambienti sociali o da alcune regioni hanno più opportunità: dobbiamo diventare un Paese meno ingessato e con maggiore mobilità sociale.
Il lavoro e la società sono al centro di un grande processo di cambiamento. L’innovazione è una sfida che riguarda tutti. La competizione richiede qualità, creatività, investimenti. Impresa privata e settore pubblico, in particolare scuola, università e ricerca, devono operare d’intesa.
La condizione economica dell’Italia va migliorando: questo va sottolineato. Anche le prospettive per il 2016 appaiono favorevoli. Senza dimenticare l’azione svolta dalle istituzioni, va detto - e tengo a dirlo - che moltissimi nostri concittadini hanno operato con impegno e con senso di responsabilità, in settori diversi e con compiti differenti. Hanno contribuito in questo modo, malgrado la crisi, a tenere in piedi l’economia italiana. A tutti loro desidero render merito ed esprimere grande riconoscenza. Così come intendo inviare un messaggio di sostegno e di speranza alle famiglie particolarmente in affanno: non vanno lasciate sole, e chiedo l’impegno di tutti perché le difficoltà si riducano e vengano superate.
Un elemento che ostacola le prospettive di crescita è rappresentato dall’evasione fiscale. Secondo uno studio, recentissimo, di pochi giorni fa, di Confindustria, nel 2015 l’evasione fiscale e contributiva in Italia ammonta a 122 miliardi di euro. 122 miliardi! Vuol dire 7 punti e mezzo di PIL. Lo stesso studio calcola che anche soltanto dimezzando l’evasione si potrebbero creare oltre trecentomila posti di lavoro: gli evasori danneggiano la comunità nazionale e danneggiano i cittadini onesti. Le tasse e le imposte sarebbero decisamente più basse se tutti le pagassero. In questi giorni avvertiamo allarme per l’inquinamento, specialmente nelle grandi città.
Il problema dell’ambiente, che a molti e a lungo è apparso soltanto teorico, oggi si rivela concreto e centrale. Mi auguro che lo si affronti con un comune impegno da parte di tutti. Sono utili le diverse opinioni - e non si può certo comprimere il confronto politico - ma siamo di fronte anche alla natura, e ai suoi mutamenti, che contribuiscono a provocare siccità e alluvioni. In presenza di una sfida così grande, che coinvolge la salute, è necessario che prevalga lo spirito di collaborazione.
Dobbiamo avere maggior cura dei nostri territori. Da quelli montani a quelli delle piccole isole, dove nostri concittadini affrontano maggiori disagi. Occorre combattere contro speculazioni e sfruttamento incontrollato delle risorse naturali. E’ confortante vedere la formazione di molti movimenti spontanei, l’impegno di tanti che si mobilitano per riparare danni provocati dall’incuria e dal vandalismo, e difendono il proprio ambiente di vita, i parchi, i siti archeologici. L’Italia è vista all’estero come il luogo privilegiato della cultura e dell’arte, e lo è davvero. Questo patrimonio costituisce una nostra ricchezza, anche economica.
Abbiamo il dovere di farlo apprezzare in un ambiente adeguato per bellezza. L’impegno delle istituzioni, nazionali e locali, deve essere in questo campo sempre maggiore. Un esempio: si può chiedere ai cittadini di limitare l’uso delle auto private, ma, naturalmente, il trasporto pubblico deve essere efficiente. E purtroppo non dovunque è così.
Il compito di difendere l’ambiente, peraltro, ricade in parte su ciascuno di noi. Molto della qualità della nostra vita dipende dalla raccolta differenziata dei rifiuti e dal rispetto dei beni comuni. Non dobbiamo rassegnarci alla società dello spreco e del consumo distruttivo di cibo, di acqua, di energia. Passando ad un altro argomento su cui c’è grande attenzione, tutti sappiamo che il terrorismo fondamentalista cerca di portare la sua violenza nelle città d’Europa, dopo aver insanguinato le terre medio-orientali e quelle africane.
Realizzare condizioni di pace e stabilità per i popoli di quei Paesi è la prima risposta necessaria, anche per difendere l’Europa e noi stessi. La prosperità, il progresso, la sicurezza di ciascuno di noi sono strettamente legati a quelli degli altri. Non esistono barriere, naturali o artificiali, che possano isolarci da quel che avviene oltre i nostri confini e oltre le frontiere dei nostri vicini. In questi decenni di pace e di democrazia abbiamo sempre dispiegato un impegno costante in difesa di questi valori, ovunque siano minacciati.
La presenza diffusa dei nostri militari all’estero lo testimonia. A loro - e ai tanti volontari - va grande riconoscenza. Il terrorismo ci vuole impaurire e condizionare. Non glielo permetteremo. Difenderemo le conquiste della nostra civiltà e la libertà delle nostre scelte di vita. Con questo spirito abbiamo sentito, tutti, su di noi la sofferenza dei parenti delle vittime di Parigi e ci siamo stretti intorno alla famiglia di Valeria Solesin.
Le nostre Forze di polizia e i nostri servizi di sicurezza stanno agendo con serietà e con competenza per difendere la tranquillità della nostra vita. Il pericolo esiste ma si sta operando con grande impegno per prevenirlo.
Agli altri Paesi dell’Unione Europea abbiamo proposto di aumentare la collaborazione e di porre sollecitamente in comune risorse, capacità operative, conoscenze e informazioni per meglio contrastare e sconfiggere il terrorismo di matrice islamista. In questo periodo masse ingenti di persone si spostano, anche da un Continente all’altro, per sfuggire alle guerre o alla fame o, più semplicemente, alla ricerca di un futuro migliore. Donne, uomini e bambini: molti di questi muoiono annegati in mare, come il piccolo Aylan e, ormai, purtroppo anche nell’indifferenza.
Il fenomeno migratorio nasce da cause mondiali e durerà a lungo. Non ci si può illudere di rimuoverlo, ma si può governare. E si deve governare. Può farlo con maggiore efficacia l’Unione Europea e la stiamo sollecitando con insistenza.
Occorrono regole comuni per distinguere chi fugge da guerre o persecuzioni e ha, quindi, diritto all’asilo, e altri migranti che vanno invece rimpatriati, sempre assicurando loro un trattamento dignitoso.
L’Italia ha conosciuto bene, nei due secoli passati, la sofferenza e la fatica di chi lascia casa e affetti e va, da emigrante, in terre lontane. Il nostro è diventato, da alcuni anni, un Paese di immigrazione.
Molte comunità straniere si sono insediate regolarmente nel nostro territorio, generalmente bene accolte dagli italiani. Tanto che affidiamo spesso a lavoratrici e a lavoratori stranieri quel che abbiamo di più caro: i nostri bambini, i nostri anziani, le nostre case.
Sperimentiamo, giorno per giorno, sui banchi di scuola, al mercato, sui luoghi di lavoro, esperienze positive di integrazione con cittadini di altri Paesi, di altre culture e di altre fedi religiose. Il 70 per cento dei bambini stranieri in Italia, lo dice l’Istat, ha come migliore amico un coetaneo italiano. Bisogna lavorare per abbattere, da una parte e dall’altra, pregiudizi e diffidenze, prima che divengano recinti o muri, dietro i quali potrebbero nascere emarginazione e risentimenti.
Serve accoglienza, serve anche rigore. Chi è in Italia deve rispettare le leggi e la cultura del nostro Paese. Deve essere aiutato ad apprendere la nostra lingua, che è un veicolo decisivo di integrazione. Larghissima parte degli immigrati rispetta le nostre leggi, lavora onestamente e con impegno, contribuisce al nostro benessere e contribuisce anche al nostro sistema previdenziale, versando alle casse dello Stato più di quanto ne riceva. Quegli immigrati che, invece, commettono reati devono essere fermati e puniti, come del resto avviene per gli italiani che delinquono. Quelli che sono pericolosi vanno espulsi. Le comunità straniere in Italia sono chiamate a collaborare con le istituzioni contro i predicatori di odio e contro quelli che praticano violenza.
Negli ultimi anni è cresciuta la sensibilità per il valore della legalità. Soprattutto i più giovani esprimono il loro rifiuto per comportamenti contrari alla legge perché capiscono che malaffare e corruzione negano diritti, indeboliscono la libertà e rubano il loro futuro. Contro le mafie stiamo conducendo una lotta senza esitazioni, e va espressa riconoscenza ai magistrati e alle forze dell’ordine che ottengono risultati molto importanti.
Vi è, poi, l’illegalità di chi corrompe e di chi si fa corrompere. Di chi ruba, di chi inquina, di chi sfrutta, di chi in nome del profitto calpesta i diritti più elementari, come accade purtroppo spesso dove si trascura la sicurezza e la salute dei lavoratori.
La quasi totalità dei nostri concittadini crede nell’onestà. Pretende correttezza. La esige da chi governa, ad ogni livello; e chiede trasparenza e sobrietà. Chiede rispetto dei diritti e dei doveri. Sono numerosi gli esempi di chi reagisce contro la corruzione, di chi si ribella di fronte alla prepotenza e all’arbitrio.
Rispettare le regole vuol dire attuare la Costituzione, che non è soltanto un insieme di norme ma una realtà viva di principi e valori. Tengo a ribadirlo all’inizio del 2016, durante il quale celebreremo i settant’anni della Repubblica.
Tutti siamo chiamati ad avere cura della Repubblica.
Cosa vuol dire questo per i cittadini? Vuol dire anzitutto farne vivere i principi nella vita quotidiana sociale e civile. Nell’anno che sta per aprirsi si svolgerà il maggior percorso del Giubileo della Misericordia, voluto da Francesco, al quale rivolgo i miei auguri ed esprimo riconoscenza per l’alto valore del suo magistero. E’ un messaggio forte che invita alla convivenza pacifica e alla difesa della dignità di ogni persona. Con una espressione laica potremmo tradurre quel messaggio in comprensione reciproca, un atteggiamento che spero si diffonda molto nel nostro vivere insieme.
Sappiamo tutti che quando si parla di noi italiani le prime parole che vengono in mente sono genio, bellezza, buon gusto, inventiva, creatività. Sappiamo anche che spesso vengono seguite da altre, non altrettanto positive: scarso senso civico, particolarismo, individualismo accentuato.
Ricevo ogni giorno molte lettere e, in questo mio primo anno di presidenza, in giro per l’Italia e al Quirinale, ho incontrato tante persone e conosciuto le loro storie. Parlano di coraggio, di impegno, di spirito d’impresa, di dedizione agli altri, di senso del dovere e del bene comune, di capacità professionali, di eccellenza nella ricerca. E non si tratta di eccezioni. Nei miei colloqui con i rappresentanti di altri Paesi, in Italia e all’estero, ho sempre colto una considerazione e una fiducia nei confronti dell’Italia e degli italiani maggiori di quanto, a volte, noi stessi siamo disposti a riconoscere.
L’Italia è ricca di persone e di esperienze positive. A tutte loro deve andare il nostro grazie. Sono ben rappresentate da alcune figure emblematiche. Ne cito soltanto tre: Fabiola Gianotti, che domani assumerà la direzione del Cern di Ginevra, Samantha Cristoforetti, che abbiamo seguito con affetto nello spazio, Nicole Orlando, l’atleta paralimpica che ha vinto quattro medaglie d’oro. Nominando loro rivolgo un pensiero di riconoscenza a tutte le donne italiane. Fanno fronte a impegni molteplici e tanti compiti, e devono fare ancora i conti con pregiudizi e arretratezze. Con una parità di diritti enunciata ma non sempre assicurata; a volte persino con soprusi o con violenze. Un pensiero particolare alle persone con disabilità, agli anziani che sono o si sentono soli, ai malati. Un augurio speciale, infine, a tutti i bambini nati nel 2015: hanno portato gioia nelle loro famiglie e recano speranza per il futuro della nostra Italia.
Vi ringrazio, e a tutti buon 2016!».
LIBERTA’ E GIUSTIZIA. Il manifesto 18 maggio 2013
Da anni, ormai, sotto la maschera della ricerca di efficienza si tenta di cambiare il senso della Costituzione: da strumento di democrazia a garanzia di oligarchie. Non dobbiamo perdere di vista questo, che è il punto essenziale. Non è in gioco solo una forma di governo che, per motivi tecnici, può piacere più di un’altra. L’uguaglianza, la giustizia sociale, la protezione dei deboli e di coloro che la crisi ha posto ai margini della società, la trasparenza del potere e la responsabilità dei governanti sono caratteri della democrazia, cioè del governo diffuso tra i molti. L’oligarchia è il regime della disuguaglianza, del privilegio, del potere nascosto e irresponsabile, cioè del governo concentrato tra i pochi che si difendono dal cambiamento, sempre gli stessi che si riproducono per connivenze e clientele. Parlando di oligarchie, non si deve pensare solo alla politica, ma al complesso d’interessi nazionali e internazionali, economico-finanziari e militari, che nella politica trovano la loro garanzia di perpetuità e i loro equilibri.
Ora, di fronte alle difficoltà di salvaguardare questi equilibri e alla volontà di rinnovamento che in molte recenti occasioni si è manifestata nella società italiana, è evidente la pulsione che si è impadronita di chi sta al vertice della politica: si vuole “razionalizzare” le istituzioni in senso oligarchico. Invece di aprirle alla democrazia, le si vuole chiudere o, almeno, congelare. L’incredibile decisione di confermare al suo posto il Presidente della Repubblica uscente è l’inequivoca rappresentazione d’un sistema di complicità che vuole sopravvivere senza cambiare. L’ancora più incredibile applauso, commosso e grato, che ha salutato quella rielezione - rielezione che a qualunque osservatore sarebbe dovuta apparire una disfatta - è la dimostrazione del sentimento di scampato pericolo. Ogni sistema di potere a rischio, o per incapacità di mediare le sue interne contraddizioni o per la pressione esterna da parte di chi ne è escluso, reagisce con l’istinto di sopravvivenza. Ma le riforme, in questo contesto, non possono essere altro che mosse ostili. Per questo, di fronte alla retorica riformista, noi diciamo: in queste condizioni, le vostre riforme non saranno che contro-riforme e il fossato che vi separa dalla democrazia si allargherà. Contro gli accordi che nascondono contro-riforme, noi, per parte nostra, useremo tutti gli strumenti per impedirle e chiediamo a coloro che siedono in Parlamento di prendere posizione con chiarezza e impegnativamente e di garantire comunque la possibilità per gli elettori di esprimersi con il referendum, se e quando fosse il momento.
Soprattutto, a chi si propone di cambiare la Costituzione si deve chiedere: qual è il mandato che vi autorizza? Il potere costituente non vi appartiene affatto. Siete stati eletti per stare sotto, non sopra la Costituzione. Se pretendete di stare sopra, mancate di legittimità, siete usurpatori. Se proprio non vogliamo usare parole grosse, diciamo che siete come la ranocchia che cerca di gonfiarsi per diventare bue. Non è la prima volta. E’ già accaduto. Ma ciò significa forse che ciò che è illegittimo sia perciò diventato legittimo?
Per questo, difenderemo la Costituzione come cosa di tutti e ci opporremo a coloro che la considerano cosa loro. La costituzione della democrazia è, per così dire, il vestito di tutta la società; non è l’armatura del potere di chi ne dispone. La mentalità dominante tra i tanti, finora velleitari, “costituenti” che si sono succeduti nel tempo nel nostro Paese, è stata questa: di fronte alle difficoltà incontrate e al discredito accumulato, invece di cambiare se stessi, mettere sotto accusa la Costituzione. La colpa è sua! Non sarà invece che la colpa è vostra o, meglio, della vostra concezione della politica e degli interessi che vi muovono?
Su un punto, poi, deve farsi chiarezza per evitare gli inganni. Chi vuol cambiare, normalmente, è un innovatore e le novità sono la linfa vitale della vita politica. Per questo, gli innovatori godono d’una posizione pregiudiziale di vantaggio. Ma, esiste anche un riformismo gattopardesco di segno contrario: si può voler cambiare le istituzioni per bloccare la vita politica e salvaguardare un sistema di potere in affanno. Allora, il movimentismo istituzionale equivale alla stasi politica. La stasi solo apparentemente è pace: è la quiete prima della tempesta.
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Anche noi siamo per la pace; vediamo che il nostro Paese ha bisogno di pacificazione, pur se esitiamo a usare questa parola, corrotta ormai dall’abuso. Sappiamo però, anche, che la pace è esigente, molto esigente. Non può esistere senza condizioni. Dice la Saggezza Antica: “su tre cose si regge il mondo: la giustizia, la verità e la pace”. E commenta così: in realtà sono una cosa sola, perché la giustizia si appoggia sulla verità e alla giustizia e alla verità segue la pace. La pace è la conseguenza della verità e della giustizia. Altrimenti, pacificare significa solo zittire chi vuole verità e giustizia, per nascondere segreti, inganni e ingiustizie e continuare come prima. Non è questa la pace di cui il nostro Paese ha bisogno.
Non siamo né i velleitari né i giacobini che ci dipingono. Non crediamo affatto al regno perfetto della Verità e della Giustizia sulla terra. Sappiamo bene che la politica non si fa con i paternoster e temiamo i fanatici della virtù rigeneratrice. Ma da qui a tutto accettar tacendo, il passo è troppo lungo. Siamo disposti alla pacificazione, ma a condizione che, nelle forme e con i mezzi della democrazia, si abbia come fine la ricerca della verità e la promozione della giustizia. Altrimenti, pacificazione è parola al vento. La pacificazione non è un sentimento o una predica, ma è una politica. È, dunque, una cosa molto concreta, difficile e impegnativa, perché non significa stare tutti insieme in un patto di connivenza. Significa combattere le zone oscure del potere, le sue illegalità, i suoi privilegi e le sue immunità; significa operare per la giustizia in favore del riequilibrio delle posizioni sociali, della riduzione delle disuguaglianze, dei diritti dei più deboli, di coloro che la crisi economica ha ridotto allo stremo, spingendoli ai margini della società. Solo questa è pacificazione operosa e veritiera.
Si dice che le “riforme istituzionali e costituzionali” hanno questo scopo. Ma, noi temiamo che, dietro alcune riforme “neutre”, semplificatrici e razionalizzatrici (numero dei parlamentari, province, bicameralismo), ve ne siano altre, pronte a saltar fuori quando se ne presenti l’occasione propizia, le quali con la pacificazione non hanno a che vedere. Piuttosto, hanno a che vedere con ciò che si denomina “normalizzazione”.
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La procedura. Esiste, nella Costituzione (art. 138) una procedura prevista per la sua “revisione”. Ma oggi se ne immagina un’altra, farraginosa e facente capo a un’assemblea, chiamata “convenzione”. Si sta cercando la via per una spallata per la quale le procedure ordinarie, per la volontà impotente delle forze politiche, non sono sufficienti? Già il nome induce al dubbio che di ben altro che di una “revisione” si tratti. Le “convenzioni costituzionali” (a iniziare da quella di Filadelfia del 1787) possono essere convocate con limitati compiti riformatori, ma poi prendono la mano e pretendono di essere “costituenti”, cioè di scrivere nuove costituzioni. Il fatto poi che qualcuno abbia fatto riferimento a una “Commissione dei 75”, come la “Commissione per la Costituzione” che elaborò ex novo la vigente Costituzione del 1947, non fa che rafforzare questa supposizione, confermata dal fatto che ritorna il linguaggio e la mentalità della “grande riforma”. Par di capire che si voglia la riscrittura ex novo dell’architettura della politica.
L’odierna procedura - da quel poco che si capisce e dal molto che non si capisce - è un miscuglio in cui sono messi insieme parlamentari ed “esperti”, scelti dai partiti, presumibilmente in proporzione alle forze che compongono il Parlamento. Il prodotto dovrebbe passare per le commissioni “affari costituzionali” e giungere alle Camere, separate o riunite (presumibilmente per superare l’ostilità del Senato), per concludersi con l’approvazione, non senza una concessione alla democrazia del web. Il voto finale dovrebbe essere un “prendere o lasciare” (su tutto il “pacchetto” o sulle singole parti, non si sa), senza possibilità di emendamento. Poiché un tale procedimento è totalmente estraneo alla Costituzione vigente, le è anzi contrario, s’immagina che poi, con una legge costituzionale si ratificherà l’accaduto.
Non è nemmeno il caso di commentare in dettaglio questo pasticcio annunciato: la legge costituzionale di ratifica ex post non è essa stessa la confessione che quel che intanto si fa è fuori della Costituzione? i “garanti della Costituzione” non hanno nulla da eccepire? la convenzione nascerebbe come proiezione di un parlamento eletto con una legge elettorale che, col premio di maggioranza, altera profondamente la rappresentanza, ma non s’è sempre detto che le assemblee con compiti costituenti devono essere “proporzionali”? gli “esperti”, scelti dai partiti, saranno dei “fidelizzati”? il loro compito non si ridurrà alla “copertura” delle posizioni di chi li ha scelti con quello scopo? come si esprimeranno: con una voce sola, che fa tacere i dissidenti, o con più voci? se le opinioni saranno diverse - come necessariamente dovrà essere se gli “esperti” saranno scelti senza preclusioni - che cosa aggiungerà il loro lavoro a un dibattito che, tra gli esperti, dura già da più di trent’anni? se saranno chiamati a votare, cioè a scegliere, non avremmo allora dei tecnici chiamati a esprimersi politicamente? in fine, come potrebbero i parlamentari degnamente accettare l’umiliazione del voto bloccato “sì-no” sulle proposte della Convenzione? Questi arzigogoli contraddittorii non sono forse il segno della confusione in cui si caccia la volontà, quando è impotente?
Il presidenzialismo. Nel merito della riforma, ancora una volta, dietro le quinte s’affaccia la volontà di presidenzialismo: “semi” o intero. L’argomento sul quale, da ultimo, si basano i presidenzialisti, è il seguente: i tempi della presidenza Napolitano hanno visto una trasformazione “di fatto” dell’ordinamento, in questo senso. Non è allora naturale che si costituzionalizzi, regolandolo, quanto è già avvenuto? A questo riguardo, però, occorre distinguere. Una cosa è l’espansione dell’azione presidenziale utile a preservare le istituzioni parlamentari previste dalla Costituzione, nel momento della loro difficoltà, in vista del ritorno alla normalità. Altra cosa è l’azione che prelude a trasformazioni per instaurare una diversa normalità. Queste contraddicono l’obbligo di fedeltà alla Costituzione che c’è, obbligo contratto da chi fa parte delle istituzioni. Aut, aut. Non sono rispettosi dei doveri costituzionali presidenziali, e del Presidente medesimo, i sostenitori dell’avvenuta trasformazione della “costituzione materiale”. Il “garante della Costituzione” agisce per preservarla o per trasformarla?
Noi temiamo che il presidenzialismo, quali che siano le sue formulazioni e i “modelli” di riferimento, nel nostro Paese non sarebbe una semplice variante della democrazia. Si risolverebbe in una misura non democratica, ma oligarchica. Sarebbe, anzi, la costituzionalizzazione, il coronamento della degenerazione oligarchica della nostra democrazia. Sarebbe la risposta controriformista alla domanda di partecipazione politica che si manifesta nella nostra società al tempo presente. L’investitura d’un uomo solo al potere, portatore e garante d’una costellazione d’interessi costituiti, non è precisamente l’idea di democrazia partecipativa che sta scritta nella Costituzione, alla quale siamo fedeli.
Controlli. Il senso concreto del presidenzialismo che viene proposto in questa fase della nostra vita politica si chiarisce minacciosamente anche con riguardo ad altri due temi all’ordine del giorno dei riformatori costituzionali: l’autonomia della magistratura e la libertà dell’informazione. Ogni oligarchia ha bisogno di organizzare e gestire il potere in maniera nascosta, segreta. Ma la democrazia è il regime in cui il potere pubblico è esercitato in pubblico. La pubblicità delle opere dei governanti, è la condizione della loro responsabilità. Il potere non responsabile è autocratico, non democratico. Qual è il rimedio contro la chiusura del potere politico su se stesso? È la conoscenza veritiera dei fatti. E quali sono gli strumenti di tale conoscenza? Le indagini giudiziarie e le inchieste giornalistiche.
Per nulla sorprendente è che chiunque si trovi ad esercitare un potere oligarchico sia ostile alla libertà delle une e delle altre, quando forse, invece, trovandosi all’opposizione, l’aveva difesa a spada tratta. Nulla di sorprendente: non sorprendente, ma certamente inquietante la concomitanza di proposte restrittive dell’azione giudiziaria e giornalistica con i progetti di riforma del sistema di governo. Chi ha a cuore la democrazia non può ragionare secondo la logica contingente della convenienza, ma deve difendere la libertà della pubblica opinione, indipendentemente dal fatto che questa libertà possa giovare o nuocere a questa o quella parte, a questi o quegl’interessi.
La legge elettorale. La riforma della legge vigente è riconosciuta come emergenza democratica, da tutti e non da oggi. Dopo che la Corte costituzionale, con l’improvvida sentenza che aveva dichiarato inammissibile il referendum che avrebbe ripristinato la legge precedente (soluzione realisticamente prospettata, fin dall’inizio, da Libertà e Giustizia), tutti dissero in coro: riforma elettorale, fatta subito con legge. Si è visto. Anche oggi si ripete la stessa cosa, ma con quali prospettive? Esiste una convergenza di vedute in Parlamento? È difficile crederlo e già emergono le resistenze.
I due maggiori aspetti critici della legge attuale, dal punto di vista della democrazia, sono l’abnorme premio di maggioranza e le liste bloccate. Ma il premio di maggioranza farà gola ai due raggruppamenti maggiori che, sondaggi alla mano, possono sperare di avvalersene. Le liste bloccate (i parlamentari “nominati”) sono nell’interesse delle oligarchie di partito e degli stessi membri attuali del Parlamento, che possono contare sulla ricandidatura facile, tanto più in mancanza d’una legge sulla democrazia nei partiti, anch’essa sempre invocata (subito la legge!) quando scoppia qualche scandalo. Dal punto di vista della funzionalità o governabilità del sistema, occorrere poi eliminare il diverso metodo di attribuzione del premio di maggioranza nelle due Camere, ciò che ha determinato la vittoria di un partito nell’una, e la sua sconfitta nell’altra.
Il ritorno al voto con questa incongruenza sarebbe come correre verso il disastro, verso il suicidio della politica. Ma anche a questo proposito, non si può essere affatto sicuri che calcoli interessati, questa volta non a vincere ma impedire ad altri di vincere, non abbiano alla fine la meglio. Il Capo dello Stato ha minacciato le sue dimissioni, ove a una riforma non si addivenga. Altri immaginano una riforma imposta dal Governo con decreto-legge. Sono ipotesi realistiche? Possiamo davvero immaginare che un Presidente della Repubblica, che porti le responsabilità inerenti alla sua carica, al momento decisivo sarebbe pronto a sottrarvisi, precipitando nel caos? Quanto al Governo, possiamo credere ch’esso possa agire facendo tacere al suo interno le divisioni esistenti tra le forze parlamentari che lo sostengono, le quali sarebbero comunque chiamate a convertire in legge il decreto (senza contare - ma chi presta più attenzione a questi dettagli? - che la decretazione d’urgenza è vietata in materia elettorale).
* * *
E allora? C’è da arrendersi a questa condizione crepuscolare della democrazia? Al contrario. C’è invece da convocare tutte le energie disponibili, dovunque esse si possano trovare, proprio come abbiamo cercato di fare con questa pubblica manifestazione. Per raccogliere in un impegno e in un movimento comune la difesa e la promozione della democrazia costituzionale che, per tanti segni, ci pare pericolare. Dobbiamo crescere fino a costituire una massa critica di cui non sia possibile non tenere conto, da parte di chi cerca il consenso e chiede il nostro voto per entrare nelle istituzioni.
Per questo dobbiamo riuscire a spiegare ai molti che la questione democratica è fondamentale; che non possiamo rassegnarci. Essa riguarda non problemi di fredda ingegneria costituzionale da lasciare agli esperti, ma la possibilità, da tenere ben stretta nelle nostre mani, di lavorare e cercare insieme le risposte ai problemi della nostra vita. Domandare pace, lavoro, uguaglianza e giustizia sociale, diritti individuali e collettivi, cultura, ambiente, salute, legalità, verità e trasparenza del potere, significa porre una domanda di democrazia. Non che la democrazia assicuri, di per sé, tutto questo. Ma, almeno consente che non si perda di vista la libertà e la giustizia nella società e che non ci si consegni inermi alla prepotenza dei più forti.
Aveva 92 anni
È scomparsa Maria Mattei l’ultima donna costituente
di Maria Corbi (La Stampa, 13.03.2013)
Se ne va un altro pezzo di memoria del Paese, una donna, Maria Teresa Mattei, che è stata la più giovane eletta all’Assemblea Costituente e che ha contribuito a porre le basi di un Paese libero e democratico. Classe 1921, partigiana, combattente nella formazione garibaldina Fronte della Gioventù, si è sempre dedicata alla lotta per i diritti delle donne e dei bambini. È lei la madre della mimosa, il simbolo dell’8 marzo, della battaglia per la parità. Un fiore povero e diffuso che vinse sulla violetta proposta dalla Luigi Longo che voleva regalarle quel giorno.
Teresa era genovese di nascita, si iscrisse nel 1942 al Partito Comunista che lascerà nel 1955 quando rifiuterà la candidatura alle elezioni per la Camera a causa del dissenso nei confronti di Togliatti. Il nome di battaglia della Mattei era «Chicchi» e operava nella città di Firenze (a lei ed al suo gruppo si ispirò Roberto Rossellini per l’episodio di Firenze di Paisà).
Il fratello Gianfranco Mattei è un martire della resistenza. Docente e ricercatore di chimica al Politecnico di Milano, assistente prediletto del futuro premio Nobel Giulio Natta, fabbricava esplosivi per i Gap della capitale. Nel 1944 si tolse la vita nella cella di via Tasso, a Roma, per non cedere alle torture e non rischiare di rivelare il nome dei compagni.
Anni più tardi la Mattei raccontò che da quel lutto nacque in lei e in Bruno Sanguinetti (che dopo la guerra sposerà) l’idea di uccidere il filosofo Giovanni Gentile. Per fare in modo che i gappisti incaricati dell’agguato potessero riconoscerlo, alcuni giorni prima li accompagnò lei stessa (che conosceva personalmente il filosofo) presso l’Accademia d’Italia della Rsi, che lui dirigeva. «Mentre usciva lo indicai ai partigiani, poi lui mi scorse e mi salutò».
Sessant’anni dopo rivendicò quella scelta: «Se un grande pensatore si schiera con un regime orribile come la Repubblica di Salò, si assume una responsabilità enorme. È un tradimento che non si può perdonare». Nel 1946 si presentò alle elezioni per l’Assemblea Costituente, candidata nel Pci. Venne eletta e fu la più giovane deputata al Parlamento. Nel 1947 fondò, insieme alla democristiana Maria Federici, l’Ente per la Tutela morale del Fanciullo. Con la morte di Maria Teresa Mattei i componenti dell’assemblea costituente ancora in vita sono solo due: Giulio Andreotti e Emilio Colombo.
Addio a Teresa Mattei partigiana e femminista
Fu la più giovane eletta nell’Assemblea della Costituente. È morta a 92 anni
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 13.03.2013)
Fu sua l’idea della mimosa, per la festa dell’8 marzo. E riuscì a spuntarla su Luigi Longo, che voleva regalare le violette, come era d’uso in Francia. Ma a Teresa Mattei apparve più giusto un fiore povero, quel velluto giallo gialle diffuso nelle campagne. È morta ieri nella sua casa di Usigliano (Pisa) la più giovane dei Costituenti. Partigiana, combattente nella formazione garibaldina, Teresa era nata a Genova il primo febbraio del 1921. A 21 anni l’iscrizione al Pci, un partito ancora clandestino. “Chicchi” il suo nome di battaglia: a lei e al suo gruppo s’ispira Roberto Rossellini per l’episodio fiorentino del celebre Paisà. Non manca il coraggio, alla combattiva Chicchi. Anni più tardi ricorderà il ruolo giocato nell’uccisione di Giovanni Gentile, che lei conosceva dai tempi dell’università, essendosi laureata a Firenze in filosofia. «Per fare in modo che i gappisti lo riconoscessero», racconterà Teresa, «alcuni giorni prima li accompagnai presso l’Accademia d’Italia della Rsi, che Gentile dirigeva». Mentre lo studioso usciva dal suo studio, lo indicò ai partigiani. «Lui mi scorse e mi salutò».
Il temperamento d’acciaio l’aveva già dimostrato nel 1938, quando venne espulsa da tutte le scuole del regno per aver rifiutato di assistere alle lezioni in difesa della razza. Forse l’unica giovane italiana a farlo, o almeno tra i pochissimi. E nel 1955 sarà cacciata dal Pci perché contraria alla linea togliattiana. D’altra parte esempi di coraggio non mancavano in famiglia. Nel 1944 suo fratello Gianfranco, partigiano dei Gap, si tolse la vita nella cella di via Tasso a Roma pur di non tradire i suoi compagni.
Anche in Parlamento la partigiana Chicchi non mancò di dare battaglia ai suoi colleghi maschi. Un saggio recente di Laura Di Nicola ricorda la sua lotta perché le donne avessero accesso a tutti gli ordini e gradi della magistratura. Ma le parlamentari elette alla Costituente erano 21 su 558, e passò la linea che di fatto giudicava le donne «incapaci di equo giudizio» (soltanto nel 1963 potranno entrare in magistratura). La battaglia cominciata da Bianca Bianchi e Angelina Merlin, Teresa Mattei e Maria Maddalena Rossi fu al centro di una vivace discussione sulle pagine del Mercurio diretto da Alba De Céspedes, che sostenne con argomenti modernissimi «la capacità delle donne di comprendere tutto quello che gli uomini non comprenderanno mai», proprio per la capacità di «scendere in fondo al pozzo».
In difesa dei diritti delle donne - e dei minori - Teresa Mattei continua il suo impegno nel dopoguerra, fondando prima l’Ente per la tutela morale del fanciullo, più tardi un centro studi per la progettazione di servizi e prodotti per l’infanzia. Ancora negli anni Sessanta rinnova la sua militanza dalla parte dei bambini, coniugandola con la passione per il cinema. Nel 1966 diventa presidente della Cooperativa di Monte Olimpino a Como, che con Bruno Munari e Marcello Piccardo realizza film nelle scuole.
Anticonformista nella vita pubblica, e in quella privata. Sposata due volte, suscita scandalo quando aspetta il primo figlio da Sanguinetti - suo compagno nell’azione contro Gentile - perché non ancora coniugata. Con Bruno si sposeranno a Budapest nel luglio del 1948.
Tra gli ultimi testimoni dell’antifascismo, della Resistenza e della Costituzione, Teresa Mattei portò dentro le istituzioni il punto di vista delle donne. E su posizioni spesso ribelli lo difenderà fino alla fine del suo mandato. Ora riposa nella sua casa di Lari, tra nuvole gialle di mimosa.
Teresa Mattei, partigiana e deputata, è morta a 92 anni.
Un suo scritto sull’uccisione di Giovanni Gentile
di Teresa Mattei
(...) Era assolutamente inaccettabile per noi, giovani universitari, veder primeggiare nel nostro Paese questo piccoso ed ambizioso filosofo autarchico mentre marcivano nelle galere fasciste migliaia di oppositori, fra i quali Antonio Gramsci e Umberto Terracini; mentre venivano vilmente assassinati pensatori come Gobetti e Amendola; mentre erano estromessi dall’insegnamento e perseguitati filosofi come Piero Martinetti e Giuseppe Rensi, o storici come Gaetano Salvemini.
D’altra parte Gentile non è mai stato mio “maestro”, l’ho sempre aspramente criticato, insieme a tanti miei compagni ed amici, per la sua semplificazione dell’idealismo hegeliano in chiave nazionalista e bottegaia. Egli rappresentava inoltre il primo esempio sistematico di corruzione e di clientelismo nel baronato universitario, e la chiusura provinciale del pensiero nell’autarchia culturale dell’Italietta.
La decisione di eliminarlo presa da noi nel ’44 non è stata guidata da ansia di vendetta come stolidamente è stato insinuato da alcuni commentatori: ben al contrario è stata un atto guidato dalla consapevolezza storica e politica che con la sua esecuzione si chiudevano definitivamente i conti con il maggior responsabile della cultura fascista e con l’equivoco della pacificazione di cui era portatore.
Una pacificazione che sognava il proseguimento del regime fascista addobbato di nuove vesti democratiche.
Sicuramente le torture efferate e la morte di mio fratello Gianfranco, dei suoi compagni e di mille altri, insieme ai proclami per i renitenti alla leva della Repubblica di Salò, di cui Giovanni Gentile è stato il più cinico celebratore, così come la conseguente fucilazione sotto i nostri occhi di tanti giovani a Firenze in Campo di Marte, a Torino al Martinetto, a Milano in Piazzale Loreto, e in tante altre piazze d’Italia, ci hanno determinato ad agire esattamente in quel momento intensificando senza pietà la guerra civile contro fascismo e nazismo, e quindi contro i loro ideologi. (...) Non eravamo nell’orto dei Getsemani: eravamo in guerra, e di guerra era dunque il diritto. Il nostro Paese era occupato, umiliato e messo a ferro e fuoco, da molti tradito. Gentile era il simbolo di questo tradimento.
Quale maggior tradimento della patria e della libertà se non quello perpetrato dall’ideologo del fascismo, già ministro della Pubblica Istruzione, nei confronti della gioventù italiana, mandata al macello nelle guerre criminali volute dal regime?
Questi giovani, costretti ad uccidere e a morire come aggressori e invasori di altri Paesi, dall’Africa alla Russia, dalla Grecia all’Albania, infangando la tradizione di civiltà del nostro Paese e anche il valore dimostrato dai soldati italiani nella prima Guerra Mondiale. I nostri GAP erano organizzati militarmente e nessuna azione era frutto di decisioni personali, la lotta era impari e mortale, così le azioni erano freddamente e tempestivamente decise ed eseguite.
E qui voglio ricordare che in quello stesso periodo più di 40.000 giovani patrioti italiani e 600.000 militari dell’esercito italiano, venivano deportati nelle fabbriche e nei Lager nazisti con il pieno appoggio e la collaborazione dei repubblichini.
Infine l’ignoranza della mia biografia politica di tanti commentatori mi accosta allo stalinismo, senza sapere che in quel momento noi ci sentivamo strettamente al fianco del popolo russo, che fu determinante nella vittoria contro il nazi-fascismo, con un tributo di 20 milioni di morti.
Nel momento in cui abbiamo conosciuto le degenerazioni a cui aveva portato lo stalinismo sono stata una delle prime dall’interno del PCI a denunciarle pagando con la mia radiazione dal partito, nel 1955.
Mi è stata chiesta la ragione del mio silenzio in tutti questi anni. È proprio la gravità della attuale situazione politica italiana, incoraggiata ed aiutata dal revisionismo storico così ben rappresentato in trasmissioni televisive, sulla stampa, nell’editoria, affidato a pseudo storici del nuovo regime, a spingermi a rendere testimonianza sulle responsabilità della cultura dominante così incline ad un pericoloso, devastante sistema illiberale, di cui vediamo quotidianamente l’avanzata.
Si sta cambiando la Carta Costituzionale, stravolgendone i principi fondamentali, quei principi che noi avevamo mutuato direttamente dal grande patrimonio culturale, etico e politico della Resistenza e che si era avvalso di una stragrande concordia alla Costituente.
La storia è fatta dalle forze in gioco, dai protagonisti e dai testimoni e non certo dagli storici. Essi possono al massimo indagarla, verificarla e raccontarla.
Lari, 12 Ottobre 2004
Teresa Mattei
Superare la carta? Andiamoci piano
di Gaetano Azzariti (il manifesto, 12 gennaio 2013)
«Mai le costituzioni sono state amate dal potere. Esse nascono con l’esplicito scopo di «limitare i sovrani», contrapponendo a questi i diritti fondamentali delle persone. Non può stupire, dunque, che il sistema politico dominante abbia sempre mostrato la volontà di far venir meno la forza normativa delle costituzioni, adottando strategie di "superamento" sempre più vigorose nel corso di quest’ultimo ventennio.
Dobbiamo però anche riconoscere che la costituzione ha mostrato una forte capacità di resistenza e che essa continua ad ergersi a difesa dei diritti e contro le pretese assolutistiche dei poteri. È in nome della costituzione che si è evitato il peggio. Certo la lotta per il diritto non è un pranzo di gala e le condizioni storiche entro cui si sta svolgendo non sono oggi le più favorevoli. Da più parti si denuncia dunque un calo di prescrittività delle costituzioni.
Ciò vuol dire che esse hanno perduto il loro ruolo storico? Siamo sicuri che la crisi delle costituzioni (della loro effettività, non del loro valore) debba indurci a denunciarne il superamento? Possiamo veramente gettare la costituzione dietro le nostre spalle per guardare avanti senza più il peso di un residuo storico? È proprio vero - come è stato scritto su questo giornale da Luca Nivarra - che solo toghe e guitti televisivi possono ancora dare credito a un testo che stabilisce principi ormai superati dal primato del diritto europeo, mentre una sinistra radicale deve guardare avanti, verso l’Europa dei movimenti e del "comune"?
Mi permetto di dissentire. Credo che in tal modo si sottovalutino, da un lato, la specificità e il valore storico delle disposizioni costituzionali, dall’altro, le conseguenze politiche di una strategia "di sinistra" di abbandono della costituzione. A differenza delle norme contenute nei codici (civile, penale, etc.), gli articoli di una costituzione non hanno la pretesa di dettare mere regole di comportamento, valide nei casi specifici e di volta in volta.
Le disposizioni costituzionali hanno un’altra ambizione. Più alta se si vuole, comunque diversa. Indicano i principi di civiltà cui deve conformarsi la società. Ciò comporta che mentre i codici devono essere applicati, le costituzioni devono essere attuate. Pietro Calamandrei - è noto - parlava della nostra costituzione come di una rivoluzione promessa, Jürgen Habermas indica nella "presbiopia" il carattere proprio e più prezioso delle costituzioni moderne. Questa natura programmatica del testo costituzionale implica la continua tensione tra costituzione da attuare e una legislazione che sia ad essa conforme.
È vero che la via per l’affermazione dei principi costituzionali è lunga e difficile, ma è anche vero che in nome della costituzione si sono ottenute le maggiori vittorie politiche e normative sino ad ora in tutti i paesi occidentali. La costituzione è sempre stata al fianco dei diritti dei lavoratori (basta leggere l’art. 1 per convincersi del suo valore), dalla parte dei diritti fondamentali delle persone e contro le logiche disumane del mercato (si veda l’art. 2), al servizio della diversità di genere e di condizioni sociali (un occhiata al terzo articolo è sufficiente), e potrei continuare elencando tutti i 139 articoli della nostra costituzione per richiamare il progetto di civiltà costituzionale.
Sin dalla metà del secolo scorso si è discusso se il valore programmatico delle disposizioni costituzionali determinasse una loro sostanziale impotenza precettiva. Cioè se la costituzione dovesse essere condannata a rappresentare solo un libro dei sogni, al più un programma politico, ma non in grado di imporsi come norma giuridica effettiva. Ma è questa una discussione ormai capziosa: è evidente che la costituzione è un’«arma» giuridica fondamentale contro gli arbitri dei poteri e un potente «propulsore» per le politiche costituzionali che sostengono i principi di eguaglianza e libertà. È opportuno disfarsene?
Francamente penso che senza la costituzione i movimenti di lotta per i diritti in Italia e in Europa andrebbero a mani nude a fronteggiare un potere che, senza più limiti, finirebbe per travolgere ogni aspettativa del bene «comune».
Miriam, ragazza libera
La giornalista e scrittrice Miriam Mafai è morta ieri a Roma dopo lunga malattia. Il 2 febbraio aveva compiuto 86 anni.
di Angelo d’Orsi (il Fatto, 10.04.2012)
“Ragazza rossa”: così i primi commenti, appena si è diffusa la notizia della scomparsa di Miriam Mafai, una ottantaseienne rocciosa, ma capace di sorridere e, come sanno coloro che l’hanno conosciuta da vicino, anche di ridere, fragorosamente. Non sono poi così numerose le donne che hanno lasciato un segno di rilievo nella vicenda dell’Italia degli ultimi decenni, dalla Resistenza storica alla nuova resistenza contro il tirannello di Arcore: la Mafai è stata una di quelle poche, che ha attraversato la storia italiana, imprimendo la sua orma specialmente nel giornalismo. Forse la sua stagione più felice è stata quella della direzione del settimanale Noi Donne, dalla 1965 al 1970: nel suo partito, il Pci, in cui ancora esercitava un ruolo eminente il suo compagno, Gian Carlo Pajetta, il femminismo non era merce comune, e a lei spetta l’indubbio merito di averlo fatto circolare. Il sodalizio con Pajetta - oltre che l’incontro e l’incrocio tra due grandi famiglie della sinistra storica italiana: da un canto gli eroici Gaspare e Giuliano Pajetta, e d’altro canto, la tuttora viva e vegeta Simona Mafai, icona della lotta alla mafia in Sicilia, con alle spalle genitori quali Mario Mafai e Antonietta Raphael - credo che, almeno visto dall’esterno, non avrebbe potuto essere più felice: due figure di “indipendenti nel partito”, vigorose, ironiche, a tratti sarcastiche, capaci di scarti improvvisi. Lui, Pajetta, rimase davvero, pur brontolando, “il ragazzo rosso” - come si intitolò efficacemente la sua autobiografia -; lei, invece, il colore rosso parve volerlo buttare nel dimenticatoio, fin dagli anni Settanta, passando da Paese Sera alla nascente Repubblica, dunque assai prima della occhettiana svolta della Bolognina del 1989, che, nella analisi della Mafai, in qualche modo, confermava il suo giudizio ipercritico su tutta la storia del comunismo italiano, di cui ella era stata militante fin dai tempi gloriosi della lotta di Liberazione.
NON EBBE mai funzioni direttive in seno al Partito di Togliatti, Longo e Berlinguer, ma neppure in seguito tra PdS e PD, ma fu, in queste ultime formazioni, sempre un’anima critica. Mi capitò qualche anno fa di partecipare a un dibattito con lei e Rossana Rossanda, due grandi donne della sinistra italiana: provenienti da un passato comune, le vedevo lontanissime, nelle analisi del presente, e dei suoi possibili sviluppi.
Mi colpiva nella Mafai - donna di grande vigore intellettuale, dalle analisi forse troppo sicure, al punto da far velo, quella sicurezza, alla comprensione dei fenomeni - proprio quella sua energia volta a gettare via il bambino con l’acqua sporca, come se il comunismo italiano avesse talmente tante responsabilità - di tragici errori o di scelte sbagliate -, da costringere tutti coloro che, come lei, l’avevano percorso, a tradurre in abiura la “colpa”.
Insomma, all’opposto di Rossana, che pure di autocritiche ne ha fatte (talora anche qualcuna di troppo), la quale cercava di distinguere, analizzare, tenendo alta la bandiera di un altro comunismo - o socialismo - possibile, lei, Miriam, era dura nel suo voltar le spalle a un’intera tradizione. Il “cupio dissolvi”, tuttavia, mai in lei raggiunse le forme grottesche di cui abbiamo visto tante prove: dal “non sono mai stato comunista” al “fingevamo di essere comunisti”, di molti dirigenti attuali del Partito Democratico...
E che dire della posizione della Mafai sulle guerre post’ 89? Sempre il paradigma della “guerra antifascista” usato per giustificare gli americani e le loro bombe, dal Kosovo all’Iraq. Queste posizioni la Mafai le ha espresse nei suoi editoriali - di grande efficacia -, specie per il quotidiano di Scalfari, ma anche in una vasta produzione saggistica, di piacevole lettura, ma in cui, bisogna dirlo, si trovano sovente analisi discutibili e giudizi perentori, non suffragati dai documenti. Del resto, il testimone non è lo storico. E lei è stata, comunque, una grande, vivida testimone di tempi difficili. Così dobbiamo ricordarla e renderle omaggio.
Oggi all’Accademia della Crusca un convegno sulla lingua con cui fu scritta la Carta
Quelle diecimila parole che fanno la costituzione
Nel testo l’aggettivo "eguale" appare quattro volte; "sacro", invece, una. Manca il termine "laicità", mentre "solidarietà" compare in un passaggio
di Enzo Golino (la Repubblica, 11.11.2011)
Carlo Azeglio Ciampi l’ha definita "la Bibbia laica"; Giorgio Napolitano, il giorno del giuramento, affermò che «l’unità costituzionale» si è fatta «sostrato dell’unità nazionale». Gli anni passano e sempre più, in Parlamento e fuori, si accentua il dibattito - pur necessario, ma afflitto da striscianti velleità lottizzatorie - sulla necessità di aggiornare la nostra Carta cambiando con saggezza specifiche norme. Arriva dunque opportuno il convegno multidisciplinare sui concetti e le parole del lessico costituzionale italiano dal 1848 al 1948 organizzato oggi a Firenze dall’Accademia della Crusca e aperto dalla presidente Nicoletta Maraschio. Partecipano costituzionalisti, storici, linguisti.
L’ultima relazione della giornata è di Erasmo Leso, storico della lingua italiana all’Università di Verona, studioso del linguaggio giacobino e del linguaggio fascista. Si occupa del rapporto fra lingua della Costituzione e lingua di tutti iniziando dalle analisi pionieristiche di Tullio De Mauro (autore della più volte accresciuta e ristampata Storia linguistica dell’Italia unita, Laterza) approdate poi nel saggio introduttivo al testo della Costituzione edito nel 2006 da Utet-Fondazione Bellonci. Infatti, a sessant’anni dal voto del 2 giugno 1946 e dalla nascita del Premio Strega, la Fondazione decise di assegnare alla Carta un Premio Strega speciale: autore collettivo i 556 parlamentari eletti dal popolo.
Professor Leso, dal 1° gennaio 1948, e per tutto l’anno - dopo l’approvazione il 22 dicembre 1947 a larghissima maggioranza - il testo doveva essere depositato in ogni Comune per consentire ai cittadini di prenderne visione e cognizione. -Ma quanta gente, allora, avrà potuto leggerlo e capirlo?
«De Mauro ricorda che nel 1951 solo il 40 per cento della popolazione aveva la licenza elementare o titoli superiori. Ma per la sua estrema leggibilità, sia pure con l’aiuto di lettori più esperti, oggi - precisa De Mauro, indicandone la consistenza numerica - il testo è di lettura facile per tutta la popolazione in possesso di licenza elementare, quasi il 90 percento. Si tratta di 9369 parole: i lemmi singoli sono 1357, i periodi 420, e ogni periodo ha in media 19,6 parole».
Un ventenne, studente universitario, le chiede due parole chiave di ieri e due di oggi della nostra Carta: lei quali indicherebbe?
«"Libertà", e se ne capisce l’intenzione visto che l’Italia usciva dal ventennio fascista; e "lavoro", una scelta al cospetto di un Paese distrutto che doveva essere ricostruito. Oggi invece, "solidarietà" e ancora "lavoro"».
Tendenza alla semplificazione, sobrietà espressiva, quasi nulla di enfasi aulica sono caratteristiche ormai accertate del nostro lessico costituzionale. Vuole suggerirmi qualche esempio?
«Articolo 52, prima riga: "la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino". L’aggettivo "sacro", certamente impegnativo a causa del complesso significato e nell’uso alto del termine appare soltanto qui, e non altrove. Anzi, un frammento in cui si parlava di "sacri principi di autonomia e dignità della persona umana" è stato lasciato cadere».
Insomma, la regola è stata l’antiretorica, quasi un understatement rispetto alla rutilante oratoria fascista.
«Sì, altra norma adottata dai costituenti è quella di far passare un messaggio senza nominarlo esplicitamente, senza riassumerlo in parole d’ordine, in slogan. "Eguaglianza", che pure è una parola fondamentale nello spirito dell’intera Costituzione appare solo tre volte; "eguale" appena quattro volte, e "uguale" mai».
E le parole più frequenti?
«In prima linea "legge", 138 volte, più 41 al plurale; e - ovviamente - "Repubblica" con 95 occorrenze. A distanza si collocano "diritto", 55 volte plurale compreso, "Costituzione" 36, "cittadino" 29 plurale compreso, "lavoro" 18, "libertà" 13 e via scrutinando...».
Con il senno di poi, avrebbe diminuito o aumentato la frequenza non solo di queste, oppure ne avrebbe introdotto qualche altra mai citata?
«Avrei inserito la parola "laicità", assente, e aumentato "solidarietà", presente una sola volta».
Difendere la Costituzione oggi l’Italia in piazza
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 12 marzo 2011)
Questo è un estratto dell’appello che sarà letto oggi in Piazza del Popolo a Roma nella manifestazione “A difesa della Costituzione”
Da anni, lo sappiamo, la Costituzione è sotto attacco. Un attacco che, negli ultimi tempi, è divenuto sempre più diretto, violento, sfacciato. Le proposte di modifiche costituzionali riguardanti la giustizia ne sono l’ultima conferma. Per questo siamo qui, per contrastare una volta di più una voglia eversiva dei fondamenti della Repubblica.
Sedici milioni di cittadini, ricordiamolo, hanno saputo difendere la Costituzione e i suoi principi il 25 e il 26 giugno 2008, votando contro la riforma costituzionale voluta dal centrodestra. Ma quella straordinaria giornata è stata troppo rapidamente archiviata. Da chi ha tratto un frettoloso sospiro di sollievo per lo scampato pericolo. E da chi si era preoccupato di dire che la bocciatura di quella riforma non doveva pregiudicare la necessaria riforma costituzionale. E così quel voto non ha costituito il punto di partenza per una nuova consapevolezza costituzionale, neppure per le timorose forze politiche d’opposizione che pure avevano sostenuto il referendum contro quella riforma.
Così è tornato con prepotenza il progetto di mutare alla radice la tavola dei valori di riferimento, la Costituzione, fuori da ogni regola condivisa, ora facendo prevalere interessi particolari se non personali, ora lasciando spazio a pressioni di matrice ideologico-religiosa che vogliono agire in presa diretta sul funzionamento del sistema politico. Gli equilibri istituzionali ne risultano sconvolti, le tutele giudiziarie sono contestate, la garanzia di libertà e diritti, perduta nel Parlamento, si rifugia nella Presidenza della Repubblica e, soprattutto, nella Corte costituzionale.
Ma, in tempi così perigliosi, la Costituzione sta conoscendo una rinnovata e inattesa attenzione. Parlar di Costituzione ha un suono benefico e sta producendo una identificazione con essa di un numero crescente di persone, consapevoli della necessità di essere esse stesse protagoniste di una azione di promozione e difesa dei diritti. In questo momento, in decine di città, vi sono flash mobs di studenti che distribuiscono copie della Costituzione, come già quel prezioso libretto era stato impugnato in tante altre manifestazioni. La Costituzione sta incontrando il suo popolo. E questo popolo è consapevole che la politica deve essere in primo luogo, e sempre, politica costituzionale, se vuole riguadagnare la sua forza e la sua nobiltà.
Appello alla mobilitazione
di Direttivo Nazionale Ass. "Salviamo la Costituzione" - 24 gennaio 2011 *
Il 24 gennaio 2011, sotto la presidenza di Oscar Luigi Scàlfaro, il Direttivo Nazionale dell’associazione ’Salviamo la Costituzione’ ha approvato alla unanimità il seguente appello:
“Nel 2006 un referendum popolare respinse a grande maggioranza il più grave tentativo di demolire il nostro sistema costituzionale, accentrando tutti i poteri nelle mani del Presidente del Consiglio.
Ignorando il risultato del referendum, lo stesso tentativo di sovversione della Costituzione repubblicana rischia oggi di realizzarsi in fatto, con procedimenti, iniziative e comportamenti che ne mettono in discussione i principi fondamentali: la divisione dei poteri, il ruolo del Parlamento, l’indipendenza della Magistratura, i ruolo del Capo dello Stato.
L’impegno delle istituzioni per risolvere i problemi dei cittadini italiani lascia sempre più il passo alla esasperata ricerca di strumenti ed espedienti per rafforzare i poteri del capo del Governo, garantirgli una totale immunità, asservire il Parlamento ai suoi voleri e interessi personali, emarginare le Istituzioni di garanzia (dal Presidente della Repubblica alla Magistratura), condizionare l’informazione al fine di manipolare le idee e le scelte dei cittadini.
Nei fatti, si restringono sempre più gli spazi di reale partecipazione democratica e l’effettività dei diritti di libertà politica.
Rivolgiamo a tutti coloro che rivestono responsabilità istituzionali un forte appello a rispettare il giuramento di fedeltà alla Costituzione e dunque ad astenersi da scelte e comportamenti che ne violino i principi e a prendere tutte le iniziative necessarie per rimuovere le situazioni di incompatibilità e ristabilire il rispetto dei valori costituzionali.
A tutte le cittadine e i cittadini rivolgiamo l’appello a una forte mobilitazione per la difesa e l’attuazione della Costituzione e a viverne nella quotidianità lo spirito e i valori.
Solo su queste basi l’Italia può risorgere e risorgerà.”
Il Presidente
Oscar Luigi Scalfaro
* DA "LIBERACITTADINANZA": http://www.liberacittadinanza.it/articoli/appello-alla-mobilitazione
COSTITUZIONE, LINGUA, E PAROLA ...
di Gustavo Zagrebelsky ( la Repubblica, 25.04.2010)
Le lettere dei condannati a morte della Resistenza non sono state scritte per venire in mano a noi che le leggiamo. Sono state concepite in un momento della vita che solo a pochi è dato di vivere.
Quel momento terribile e solenne della contemplazione attuale della propria morte, quando in lucidità e coscienza si è faccia a faccia con se stessi, spogliati di tutto ciò che non è essenziale. Esse sono indirizzate alla cerchia delle persone più vicine e care, in cui sono riposti gli affetti e da cui nascono e si alimentano le energie vitali che ci conducono ad agire nel mondo. Questi testi sconvolgenti parlano della morte freddamente disposta da esseri umani nei confronti di altri esseri umani e questi ultimi colgono negli ultimi istanti della loro vita, nell’attesa consapevole della fine. Ogni facoltà spirituale deve essere stata provocata fino all’estremo. La psiche non può essere sollecitata più di così, dicono coloro i quali, per un motivo inaspettato, sono scampati alla morte e hanno potuto rendere testimonianza. Le parole scritte in quelle circostanze, soprattutto quelle svuotate dall’uso quotidiano - amore, affetto, perdono, casa, papà e mamma - , dalla retorica politica - patria, onore, umanità, pace, fedeltà al giuramento - o dall’estraneità alla nostra diretta esperienza - torturare, fucilare, impiccare, tradire - tornano d’un colpo a riempirsi di forza e significato essenziali. Sono parole ultime, destinate a restare chiuse entro cerchie affettive limitate. Ma chiunque sia disposto a liberarsi per un momento dall’abitudine della mediocrità che tutto livella, smussa e ottunde, può meditarle in sé, senza intermediari.
Se affrontiamo questa lettura emotivamente gravosa, facciamolo col pudore di chi sa di accingersi a qualcosa simile a una profanazione, in colloquio diretto e silenzioso, da coscienza a coscienza. Soprattutto, leggiamo col pudore di chi sa guardarsi dalla presunzione del voler giudicare. Queste lettere chiedono di comprendere, non di giudicare. Nessuno di noi - intendo: nessuno di coloro che non appartengono alla generazione di allora - può pretendere l’autorità del giudice. Se è vero che ci si conosce soltanto nel momento decisivo della scelta esistenziale e che solo lì ciò che di profondo è latente in noi viene a galla, noi non ci conosciamo. Non siamo stati messi alla prova. È facile, ma futile, profferire giudizi e perfino esprimere adesione ideale, ammirazione per gli uni e sdegno o condanne per gli altri. Dovremmo sempre chiederci chi siamo noi, per voler giudicare.
Dovremmo temere che qualcuno ci dica: ti fai bello di ciò che è di altri; tu forse saresti stato dalla parte dei carnefici o saresti stato a guardare. E non sapremmo come rispondere. Conosciamo le condizioni del nostro Paese all’8 settembre del 1943 e immaginiamo quali poterono essere le molte ragioni, ideali e personali, influenti sulle scelte che allora a molti si imposero. Nessuno di noi può avere la certezza che, in quelle condizioni ed esposti alle stesse pressioni, saremmo stati dalla parte giusta e non saremmo stati portati dalle circostanze dalla parte dei criminali. Questo non significa affatto parificare le posizioni o giustificare i crimini. Significa cercare di capire, dicendo con franchezza a noi stessi: rendiamo grazie alla provvidenza o alla sorte perché ci è stato risparmiato di vivere in quel tempo.
La generazione che ha vissuto i fatti di cui parliamo non esiste più. Per le nuove generazioni e, soprattutto, per chi oggi è ragazzo, non si tratta di rivivere o rievocare vicende in cui vi sia stato un coinvolgimento anche soltanto indiretto, attraverso il ricordo di chi le visse. Inevitabilmente questi testi sono letti oggi con un’attutita percezione dell’originario significato politico e impatto emotivo, nel momento della lotta per la liberazione dall’incubo totalitario, dal nazismo e dal fascismo, nel momento in cui si coltivava l’aspirazione a un’Italia nuova, giusta, civile, pacificata. «Sappi che tuo figlio muore per un alto ideale, per l’ideale della Patria più libera e più bella», scrive un anonimo. Gli orientamenti politici erano diversi, ma comune era l’idea, anzi la certezza di un riscatto morale imminente, che avrebbe trasformato nel profondo, e in meglio, la società italiana. Le Lettere sono un’elevatissima testimonianza di questa tensione. In tutte si legge la consapevolezza di vivere un momento di svolta nella storia d’Italia. Il dopo non avrebbe dovuto, né potuto assomigliare al prima.
Ai figli piccoli, che non possono ancora comprendere, si dà l’appuntamento a quando, cresciuti, sarebbero stati in grado di capire per quale altra Italia i padri e le madri avevano combattuto ed erano morti. In momenti critici come quelli degli anni ’43-’45, non si poteva restare a guardare. Tutti dovevano contribuire. In molte lettere è testimoniata l’irresistibilità dell’appello a prendere posizione. «Nel mio cuore si è fatta l’idea (purtroppo non da troppi sentita) che tutti più o meno è doveroso dare il suo contributo», scrive una donna ai fratelli, per giustificare, anzi scusare la sua scelta. Molti sentono così di dover spiegare il perché del loro "aver preposto" l’Idea, la Patria o il dovere ai legami familiari e domandano perdono di questo.
Naturalmente, non tutti stavano dalla stessa parte. Nei confronti di chi stava dall’altra, la disposizione spirituale è molto varia. Alcuni chiedono vendetta. Ma altri parlano del nemico col rispetto dovuto a chi una scelta, sbagliata ma non necessariamente in malafede, ha pur fatto: «Negli uomini che mi hanno catturato ho trovato dei nemici leali in combattimento e degli uomini buoni durante la prigionia». Altri, ancora, si rimettono a una giustizia superiore, invitando chi resta a fare altrettanto: coloro che mi uccidono sono uomini e «tutti gli uomini sono soggetti a fallire e non hanno perciò diritto di giudicare poiché solo un Ente Superiore può giudicare tutti noi che non siamo altro che vermi di passaggio su questa terra». Altri ancora invitano al perdono: «Perdono a coloro che mi giustiziano perché non sanno quello che fanno e non sanno che l’uccidersi tra fratelli non produrrà mai la concordia».
Il disprezzo, se mai, è verso gli inescusabili, coloro che non prendono posizione, coloro "che non furon ribelli né pur fedeli" (Inferno, III, 38-39), cioè gli ignavi, gli "attendisti". Su questo punto dobbiamo constatare una grande distanza tra noi e chi ha lasciato la vita per una ragione ideale sul fronte antifascista ma, allo stesso modo, anche chi ha combattuto sul fronte opposto. Si estende ogni giorno di più un giudizio che non solo assolve, ma addirittura valorizza l’atteggiamento di chi è stato a guardare, per poi eventualmente godere dei frutti di libertà ottenuti col sacrificio di altri. Nelle Lettere, leggiamo invece parole come queste: «Quando penso che siamo vicini molto vicini alla nostra ora, mi raccomando e son più che certo che tutti in quell’ora scatteranno in piedi, impugneranno qualsiasi arma e colui che non l’adopera sarà un vile e un codardo».
Non risulta che l’accanimento revisionistico di tutto ciò che ha a che fare con i fatti e gli atti della Resistenza sia arrivato direttamente ed esplicitamente alle Lettere, per sminuirne, relativizzarne, se non negarne l’alto valore civile. Può essere che si arrivi anche a questo. Il pericolo è rappresentato piuttosto da un oblio che si vorrebbe giustificato da un’interpretazione pacificatrice da stendere su quegli avvenimenti. Essi sarebbero il frutto di un’esasperazione incompatibile con l’autentico nostro carattere nazionale, un carattere rappresentato da quella parte maggioritaria del popolo italiano che ha assistito da estranea o con atteggiamenti di puro soccorso umanitario, nell’attesa dell’esito degli eventi. Secondo questa visione, i combattenti sui due fronti, fascista e antifascista, avrebbero rappresentato entrambi una deviazione estranea alla nostra tradizione: una tradizione moderata, ostile agli eccessi, aperta a ogni aggiustamento e a ogni compromesso, garantita da una presenza moderatrice e stabilizzatrice come quella della Chiesa cattolica.
Gli uni e gli altri, insieme alla lotta mortale che combatterono e alle ragioni etiche e politiche che li contrapposero, sarebbero così da condannare alla pubblica dimenticanza, come elementi accidentali e come fattori di perturbazione della storia che autenticamente appartiene al popolo italiano. In questo modo, fascismo e antifascismo sono prima accomunati in un medesimo giudizio di equivalenza, per poter poi essere congiuntamente messi ai margini della pubblica ricordanza. All’antifascismo, quale fattore costitutivo delle istituzioni repubblicane, verrebbe così a sostituirsi qualcosa come un "nonfascismo-nonantifascismo", conforme al genio, che si pretende propriamente italiano, di procedere diritto tra opposti eccessi. Questa tendenza è pienamente in atto nel senso comune, alimentata da una storiografia e da una memorialistica sorprendentemente sicura di sé nelle definizioni del carattere nazionale e nella qualificazione dell’attendismo come virtù di saggezza pratica, invece che come vizio di apatia: una storiografia che, quando si avventura su simili strade, è più ideologia che scienza.
Chi ha sacrificato la vita, non importa da che parte, trarrebbe motivo di sconforto e offesa da questo giudizio liquidatorio. Sarebbe forse portato a riportarsi a quanto stabilito da Solone, tra le cui leggi - riferisce Plutarco (Vita di Solone, 20,1) - ve n’era una, del tutto particolare e sorprendente, che privava dei diritti civili coloro i quali, durante una stasis (un conflitto tra i cittadini), non si fossero schierati con nessuna delle parti contendenti. Egli voleva, a quanto pare, che nessuno rimanesse indifferente e insensibile di fronte al bene comune, ponendo al sicuro i propri averi e facendosi bello col non partecipare ai dolori e ai mali della patria; ma voleva che ognuno, unendosi a coloro che agivano per la causa migliore e più giusta, si esponesse ai pericoli e portasse aiuto, piuttosto che attendere al sicuro di schierarsi dalla parte dei vincitori.
Una simile legge sembra dettata da indignazione morale e non da prudenza politica. L’idea di una guerra civile obbligatoria certo spaventa. Ma giustificare l’ignavia e l’opportunismo, farne anzi una virtù pubblica, è cosa diversa e incomprensibile, a meno che si abbia in mente un popolo prono e incapace perfino di avvertire d’esserlo. Ma, forse, Solone mirava a qualcosa di più profondo: non alla guerra civile obbligatoria per legge, ma alla prevenzione della guerra civile. Tutti devono sapere che, nel momento della crisi che precipita, nessuno sarà giustificato se avrà fatto solo da spettatore dei drammi e delle tragedie dei suoi concittadini, da estraneo. Tutti allora operino per evitare che quel momento arrivi; operino dunque preventivamente per la concordia, per la pace, per isolare fanatici, violenti e demagoghi.
Le Lettere contengono la voce d’un altro popolo, di uomini e donne, d’ogni età e classe sociale, consapevoli del dovere della libertà e del prezzo ch’essa, in momenti estremi, comporta. Chi le legge oggi vi trova un’Italia diversa dalla sua, cioè dalla nostra, dove non si esitava a correre pericoli estremi per parole che oggi non si pronunciano più o, se le si pronunciano, lo si fa con il ritegno di chi teme d’appartenere a una generazione di sopravvissuti. Sono quasi una sfida, un invito a misurarci rispetto a quel tempo, il tempo della libertà e della democrazia riconquistate; un invito a domandarci quale strada abbiamo percorso da allora.
Il testo è parte dell’intervento che sarà letto stasera alle 21 all’Auditorium di Roma in occasione del 25 aprile
La democrazia al tempo delle emergenze
di Francesca Rigotti (l’Unità, 16 febbraio 2010)
Nel 1979 il filosofo ebreo tedesco Hans Jonas, emigrato negli Stati Uniti a causa delle persecuzioni razziali, pubblicò un libro che sarebbe divenuto una pietra miliare nel campo dell’etica pubblica: «Il principio di responsabilità».
Aveva fretta di scrivere, Jonas, perché sapeva di essere vecchio e aveva paura che il tempo non gli bastasse (oddio, aveva l’età che ha ora il pluriliftato, trapiantato, tinto e truccato presidente del consiglio italiano, ma una considerazione di sé evidentemente più realistica e meno vanesia).
Decise quindi, per scrivere più velocemente, di tornare al tedesco dopo quarant’anni di frequentazione scritta e parlata dell’inglese, e mise giù, in una lingua un po’ arcaica quanto impeccabile, i suoi pensieri sul tema della responsabilità da parte degli uomini nei confronti dei loro simili, delle generazioni future, dell’ambiente, dell’intero pianeta, di fronte ai problemi dell’età della tecnica. Uno dei punti che Jonas affronta è proprio come reagire alle catastrofi, naturali o indotte, chiedendosi a chi spetta prendere decisioni e sulla base di quali principi. Ora, chi si occupa di questi problemi da un punto di vista teoretico sa bene che le catastrofi chiedono spesso una reazione rapida e risposte veloci ma non isteriche che si traducano in azioni efficaci. Sa anche, tuttavia, che la democrazia non è la forma di governo della velocità e nemmeno quella della segretezza. La democrazia richiede deliberazioni riflesse e ponderate nonché trasparenza di metodi.
Come conciliare dunque il tempo della riflessione con il tempo dell’azione senza che il sistema assuma tratti dittatoriali? Come conciliare l’efficienza dell’intervento con la giustizia dei principi e il rispetto della trasparenza? Il problema non è di facile soluzione: esso ha bisogno, avrebbe detto Gramsci, di tutta la nostra intelligenza. C’è bisogno che ci organizziamo con tutta la nostra forza per creare forme di democrazia partecipativa, non paternalistica, per predisporre strutture di sorveglianza preventiva e di pronto intervento in caso di incidenti di varia natura e livello; per rispondere in prima persona - questa è responsabilità, direbbe Jonas - guidati da leggi che favoriscano l’impegno civico più che l’assistenza dall’alto.
Occorre assumersi la responsabilità, dimettersi se lo dice la coscienza e non se lo ordina il capo, ridersela di atteggiamenti tipo la luce accesa di notte a Palazzo Venezia a significare «dormite tranquilli, ghe pensi mi». No grazie, ci pensiamo noi che siamo intelligenti e forti.
Roma sfida l’Europa per difendere il crocifisso
di il manifesto (il manifesto, 22 gennaio 2010)
Galeotto, probabilmente, fu l’incontro nel pieno delle polemiche sull’approvazione del processo breve al Senato tra il premier Silvio Berlusconi e l’ex capo dei vescovi italiani Camillo Ruini avvenuto proprio l’altro ieri. Fatto sta che ieri mattina il «gran visir» Gianni Letta ha dato l’annuncio, in occasione della presentazione del libro «I viaggi di Benedetto XVI in Italia»: «Il ricorso italiano contro la sentenza della Corte di Strasburgo sull’esposizione dei crocifissi nei luoghi pubblici è pronto - ha spiegato - proprio stamane c’è stato un incontro alla Farnesina per mettere a punto gli ultimi dettagli».
Nella cornice dell’ambasciata italiana presso la Santa Sede, Letta ha definito la decisione della Corte di Strasburgo «il grave torto», e ha aggiunto: «Abbiamo fiducia che il nostro ricorso possa trovare accoglimento, anche perché sono molti i paesi europei che stanno venendo sempre più numerosi a sostegno dell’azione italiana». Presto dunque al Consiglio d’Europa andrà in onda l’ennesima puntata della lunga saga sul crocifisso.
La Corte, pochi mesi fa, aveva accolto il ricorso di una cittadina italiana di origini finlandesi Soile Lautsi che da quasi dieci anni si batte perché nelle aule scolastiche non sia esposto il crocifisso. Secondo i magistrati del Consiglio d’Europa, con sentenza emessa all’unanimità, la presenza del crocifisso in classe condiziona l’educazione degli studenti che possono interpretarlo come simbolo di una religione ufficiale. E, riscontrando la violazione degli articoli della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo riguardanti i diritti all’istruzione e alla libertà di pensiero, coscienza e religione, la Corte ha condannato l’Italia a risarcire con cinquemila euro la Lautsi per danni morali.
Sin da subito il governo si è schierato contro la decisione della Corte europea, promettendo di fare ricorso. Ma poi non se ne aveva più avuto notizia. Ieri, l’annuncio del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Letta, che parla a poche ore dall’incontro tra il premier e Ruini.
L’approvazione della Chiesa non si è fatta attendere: «Quella del governo italiano è un’iniziativa da apprezzare e da lodare», ha detto il presidente della Cei Angelo Bagnasco. «La sentenza - ha aggiunto il cardinale - veramente va contro non solo all’oggettività della storia europea ma anche al sentire popolare, della gente».
Il rispetto delle donne passa dalla Costituzione
di Gabriella Manelli *
Siamo orfani di politica. Il potere ha preso il suo posto: chi lo detiene lo usa attraverso mezzi privati, ...soldi, scambi di favori. Non abbiamo una cultura della responsabilità morale. Dopo anni di partecipazione si è spenta nellamente dei cittadini la dimensione pubblica ». (Nadia Urbinati)Nonpiù cittadini, ma governanti e governati. E le donne? «Veline ingrate». Le donne, secondo «loro», dovrebbero sempre ringraziare qualcuno delle proprie conquiste, e in larga misura anche lo fanno, espropriandosi non solo del proprio corpo, ma anche della propria capacità di scegliere e decidere. Tutto il contrario dell’autodeterminazione di buona memoria. Dunque il silenzio delle donne segno di un silenzio dentro. Silenzio interiore di chi ha perso i contatti con se stessa e silenzio politico. «Il personale è politico », si diceva quando si era decise a partire da sé per fare una nuova proposta politica; e si faceva autocoscienza. E così si inventavano una proposta politica e un pensiero politico diversi da quelli dei governanti e dei partiti , che si ispirano a una idea di politica asettica. Invece il grande impatto del movimento femminista, la sua grande capacità di essere metapartitico, al di là e al di sopra della volontà e della stessa analisi dei partiti (vedi divorzio, aborto, nuovo diritto di famiglia...) nasceva dalla capacità di mettersi in gioco, di non lasciare fuori dall’orizzonte politico le passioni, dall’audacia di esplorare vie nuove, «andare alla ricerca di terre e mari sconosciuti: sconosciuti, eppure già esistenti» ( Romitelli, «L’odio per i partigiani»).
«Solo osando, la politica riesce a fare storia»: è Machiavelli, citato da Romitelli, sempre a proposito di partigiani. La stessa cosa si può dire delle donne, ieri e oggi: se vorranno tornare a incidere sulla storia, come è avvenuto negli anni 60-70 del secolo scorso, non potranno che affrontare in modo inedito, sperimentale, quanto di irrisolto, di incognito vi è oggi nei rapporti fra governanti e governati. Con passione e audacia. Che poi sono anche le risposte adunproblema, secondomedariformulare: come coinvolgere le «altre» donne? Con audacia e passione, appunto, empatia.
Tra parentesi, sarebbe interessante dipanare il filo intrecciato di passione e audacia che lega donne e partigiani. Una cosa è certa: numerose furono le donne che, mentre combattevano insieme ai partigiani per i diritti di tutti, intrapresero il loro cammino di crescita personale e politica. Mettere al primo posto la relazione con le altre donne è stata un’altra scelta politica non solo delle femministe, ma, molto prima, delle «madri della Repubblica», le 21 donne che hanno preso parte all’Assemblea Costituente. Indicando nella relazione, cioè nella «via dell’amore», come dice Luce Irigaray, la dimensione fondamentale dell’individuo e quindi la via maestra per un’altra politica.
* l’Unità, 22 ottobre 2009
I padri costituenti e la difesa della Carta
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 20.10.2009)
Il primo grido di allarme per le tentazioni distruttive verso la nostra Costituzione manifestate dalle maggioranze guidate da Silvio Berlusconi venne lanciato nel 1994 da Giuseppe Dossetti, uno dei padri più rappresentativi della nostra carta fondamentale e della nostra coscienza costituzionale. Con una lettera inviata il 25 aprile di quello stesso anno all’allora sindaco di Bologna, Walter Vitali, Dossetti lanciava i comitati per la difesa della Costituzione con queste parole: «Si tratta cioè di impedire ad una maggioranza che non ha ricevuto alcun mandato al riguardo di mutare la nostra Costituzione: [quella maggioranza] si arrogherebbe un compito che solo una nuova Assemblea Costituente, programmaticamente eletta per questo, e a sistema proporzionale, potrebbe assolvere come veramente rappresentativa di tutto il nostro popolo. Altrimenti sarebbe un colpo di stato».
Dossetti fu uno dei 556 deputati dell’Assemblea Costituente eletta il 2 giugno 1946, e poi membro della Commissione per la Costituzione (conosciuta anche come commissione dei 75) il cui compito era di elaborare un progetto di Costituzione. Il 21 novembre 1946, Dossetti presentò in Commissione la proposta relativa al diritto di resistenza. Queste le sue parole: «La resistenza individuale e collettiva agli atti dei poteri pubblici, che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino». Rileggere oggi le discussioni dei costitutenti sul tema dell’oppressione e della necessità che la Costituzione si doti di strumenti di autodifesa è un’esperienza intellettuale unica perché rivela quanta attenzione, preparazione e serietà ci fosse in quell’Assemblea costitutiva della nostra democrazia. Riprendere in mano quella storia, quelle discussione è diventato essenziale per la nostra libertà.
Dossetti era un tomista e pensava al potere politico (quello costituito nello stato) come alla fonte di un rischio permanente dal quale premunirsi. Aldo Moro fu dalla sua parte e nonostante le ragionevoli perplessità nei confronti di un principio che era essenzialmente metagiuridico e di difficile traduzione in legge, tuttavia anche lui come Dossetti comprese quanto fosse essenziale per una democrazia che la cittadinanza venisse concepita e vissuta come un’identità politica non solo giuridica, perché alla sua base stava il dovere morale di preservare i fondamenti della sua stessa esistenza. È il cittadino che preserva se stesso preservando la carta.
E così, quando nel 1994 il padrone di Mediaset impresse una direzione autoritaria alla politica italiana e i partiti dell’opposizione anche allora sembrarono non comprendere per davvero la natura nuova e inquietante di quel corso politico, Dossetti riprese il ruolo morale di padre costituente e tornò a fare il dovere che la cittadinanza richiede: lanciò un movimento di cittadini attivi per esprimere un chiaro e forte "No!" alle manipolazioni della carta da parte di maggioranze o leader bramosi di dominio illimitato; un movimento che avesse il compito di far capire a tutta la nazione che la Costituzione non era a disposizione - proprio come non lo sono le donne, secondo la bella risposta di Rosy Bindi al capo della maggioranza.
La sovranità non è la stessa cosa del governo; e non lo sarebbe nemmeno se per ipotesi il governo godesse del 99% dei consensi elettorali. La differenza tra sovranità e maggioranza eletta che governa per un tempo limitato non è numerica, ma di forma e di sostanza. E infatti, nonostante Berlusconi si riempia la bocca della parola "popolo" egli pensa ai suoi elettori e a quelli che le sue strategie commerciali possono eventualmente catturare. Ma la sovranità e la costituzione non sono a disposizione di una parte, di nessuna parte, e non hanno nulla a che fare con la massa che un leader pensa di catturare, tenere o imbonire.
La ragione di questa indisponibilità è ancora una volta ben espressa dalle parole di Dossetti: «C’è una soglia che deve essere rispettata in modo assoluto... oltrepasserebbe questa soglia qualunque modificazione che si volesse apportare ai diritti inviolabili civili, politici, sociali previsti nell’attuale Costituzione. E così pure va ripetuto per una qualunque soluzione che intaccasse il principio della divisione e dell’equilibrio dei poteri fondamentali, legislativo, esecutivo e giudiziario, cioè per ogni avvio, che potrebbe essere irreversibile, di un potenziamento dell’esecutivo ai danni del legislativo, ancorché fosse realizzato con forme di referendum, che potrebbero trasformarsi in forme di plebiscito... In questo senso ho parlato prima di globalità del rifiuto cristiano e ritengo che non ci sia possibilità per le coscienze cristiane di nessuna trattativa».
La coscienza cristiana di Dossetti coincideva in quel caso perfettamente con quella pubblica del cittadino perché la difesa delle prerogative costituzionali era difesa della libertà di ciascuno di distinguersi ed essere autonomo dalla pretesa di omologazione e dominio di una maggioranza. Nel maggio 1947, intervenendo sul tema proposto da Dossetti, Antonio Giolitti (allora Pci) ricordò che «la garanzia essenziale del regime democratico è... l’autogoverno morale e politico del cittadino». Per questa ragione, benché il diritto di resistenza (che avrebbe dovuto essere contenuto nell’Articolo 50) non passò l’esame, esso fa parte comunque nella cultura etica della cittadinanza democratica. La vita della Costituzione è nelle mani dei cittadini. Ha scritto anni fa Paolo Pombeni che le idee dossettiane e dei costituenti sulla resistenza come autodifesa della Costituzione «scomparvero dall’attenzione dell’Assemblea Costituente e dalla stessa memoria storica», ma il loro principio ispiratore ha una portata che «dovrebbe essere rivalutata» perché, si potrebbe aggiungere, la Costituzione, scritta da una generazione che non è piú, è viva nel nostro presente e la sua persistenza é un nostro dovere civile.
Dal femminismo alle veline
-«Così abbiamo rivoltato il significato delle parole»
di Marisa Ombra *
Ragioni anagrafiche mi portano a guardare al fenomeno delle veline partendo da molto lontano, niente meno che dalla guerra e dalla Resistenza. D’altra parte quello è l’inizio, ed è da quell’inizio che occorre partire per misurare la portata di ciò che sta accadendo di questi tempi. In quegli anni infatti comincia - o meglio riprende, dopo il fascismo - la lunga marcia delle donne per ottenere la cittadinanza in questo Paese (a questo riguardo consiglierei la lettura del bel libro di Bianca Guidetti Serra «Bianca la rossa»). Sarebbero occorsi decenni. Avremmo ottenuto diritti ed eguaglianza, libertà e posto nel mondo. Non avremmo aspettato che le leggi cadessero dall’alto, avremmo costruito la cittadinanza conquistando postazioni in ogni piega della società, assumendoci responsabilità e diventando parte essenziale del tessuto che fa funzionare la cosa pubblica. Un Paese arcaico e un po’ bigotto sarebbe diventato, per nostro principale merito, aperto e civile. Per chi è nata politicamente in quei lontani anni ed è stata parte di questo faticoso ma felice cammino, l’oggi si presenta di una tristezza infinita. Grande anche la delusione per quello che già viene descritto come «il silenzio delle donne». Di questo vorrei parlare.
Credo che tutte siamo rimaste attonite davanti all’operazione culturale che si è svolta sotto i nostri occhi: una operazione che, se non ha cancellato, ha sicuramente stravolto buona parte dell’impianto teorico che ha accompagnato il movimento politico delle donne. Le parole chiave sono state rivoltate. Scoperta del corpo, liberazione sessuale, affermazione di sé, autonomia, identità, desiderio, eguaglianza, differenza, eccetera, hanno preso significati opposti. L’affermazione orgogliosa «il corpo è mio e lo gestisco io» per esempio. Intendeva dire la vergogna e chiudere con l’antica figura della donna oggetto, riposo del guerriero, «regalo fatto da Dio agli uomini ». Era sembrata una svolta irreversibile, l’affermazione di un nuovo senso comune.
Non si può dire che le donne non si siano impossessate del proprio corpo. Per farne cosa? Donne immagine e prostitute di lusso hanno fatto di sé una nuova moderna (?) figura del mercato, che procede attraverso l’oculato bilanciamento dei costi e dei profitti, il dosaggio fra servilismo e pretesa di compensi dissociati da ogni personale competenza. Il corpo è diventato impresa da mettere a frutto. Direi che il ritorno indietro è ancora più mortificante del già vissuto. Perché in questa contrattazione uno dei due contraenti ha il potere (anche quando è piccolo potere), l’altra mette sulla bilancia una proprietà massimamente effimera. È questo che volevamo? Com’è potuto accadere? La tendenza non sarebbe inquietante se l’ambizione di avere visibilità e successo attraversoun perverso mercanteggiamento, non fosse diventata l’orizzonte di buona parte di una generazione, il senso stesso della vita, dell’essere donna («mi sento velina dentro» risponde una ragazza all’intervistatrice). E se le ragazze in corsa non fossero spesso accompagnate dalle madri: madri giovani, che hanno visto passare sotto i loro occhi, forse addirittura attraversato, il femminismo.
Da una signora che probabilmente non ha attraversato il femminismo, è venuta una parola che aveva contato molto per le donne di un’epoca segnata dalla soggezione e dall’esclusione: dignità. Avendo nella mente e nel cuore quella parola, una generazione è arrivata a raddrizzare la schiena ed hacominciato a risalire verso la libertà. Ciò che oggi comunica smarrimento e sensazione di impotenza è la perdita di questo sentimento. Perché l’uso programmato del corpo implica una tensione di tutto l’essere, cervello compreso; occupa l’anima. Si realizza così un paradosso: l’autonomia, la capacità di decidere del proprio destino, viene cercata attraverso l’asservimento volontario e la perdita della dignità. Molte di noi, credo, in questi mesi si sono fatte domande e hanno provato vergogna. Sono convinta che quel che manca è la presa di parola collettiva, se non altro per non far mancare una rappresentazione diversa di ciò che una donna vuole e può fare.
* l’Unità, 06 ottobre 2009
Il presidente e la difesa della Costituzione antifascista
La lezione di democrazia del Presidente
di Jolanda Bufalini*
LA DEMOCRAZIA REPUBBLICANA C’è “la leggerezza negli atteggiamenti con cui si assumono atteggiamenti dissacranti e si tende a mettere in causa un patrimonio di principi che ha costituito per l’Italia una acquisizione sofferta”.
LA CADUTA DEL FASCISMO, LE FORZE ALLEATE, LA RESISTENZA“Avevo 18 anni il 25 luglio del 1943 quando fui raggiunto via radio a tarda sera dalla fulminante notizia della caduta di Mussolini...al fondo vi era una crisi profonda tra il paese e il fascismo, a cominciare dall’andamento disastroso della guerra irresponsabilmente voluta da Mussolini... Torna alla mente l’euforia di quel momento. Avevamo già maturato, insieme ad altri della nostra generazione non solo la più radicale contrapposizione al fascismo ma anche la convinzione, cui non era stato facile giungere, che la salvezza dell’Italia potesse avvenire solo dalla sconfitta ad opera delle forze alleate.....Ma alla fine del settembre 1943, ebbi la percezione diretta della condizione durissima in cui era precipitata la mia città, Napoli, chiamata a vivere l’esperienza dell’occupazione alleata.
LA COSTITUZIONE Napolitano cita i governi di coalizione antifascista, l’Assemblea eletta dal popolo con il mandato di adottare la Carta Costituzionale, il voto alle donne..... “La democrazia italiana rinacque su basi più ampie e più solide e non senza contrasti ma in un processo irresistibile dall’alto e dal basso.... La Costituzione repubblicana non è dunque una specie di residuato bellico ... I valori dell’antifascismo e della Resistenza non restarono mai chiusi in una semplice logica di rifiuto e di contrasto, sprigionarono sempre impulsi positivi e propositivi, e poterono perciò tradursi, con la Costituzione, in principi e in diritti condivisibili anche da quanti fossero rimasti estranei all’antifascismo e alla Resistenza. Perciò il 25 aprile non è festa di una parte sola”.
ISTITUZIONI DI GARANZIA “Rispettare la Costituzione significa anche riconoscere il ruolo fondamentale del controllo di costituzionalità e dunque l’autorità delle istituzioni di garanzia. Queste non dovrebbero mai formare oggetto di attacchi politici e giudizi sprezzanti. Tutte le istituzioni di controllo e di garanzia non possono essere viste come elementi frenanti del processo decisionale, ma come presidio legittimo di quella dialettica istituzionale che in definitiva assicura trasparenza, correttezza, tutela dei diritti dei cittadini”.
POTERI DELL’ ESECUTIVO Spetta ancora una volta al Parlamento pronunciarsi sulla possibilità di procedere sulla revisione della Costituzione, sugli obbiettivi da perseguire, sul grado di consenso a cui tendere....Ma molte cose sono via via cambiate a partire dagli anni ’90 con il crescente ricorso alla decretazione d’urgenza e da ultimo con il rafforzarsi del vincolo tra governo e maggioranza parlamentare, così come con il drastico ridursi della frammentazione politica in Parlamento. Ciò ha indotto uno studioso e protagonista come Giuliano Amato a giudicare “oggi obsoleta la tradizionale constatazione della debolezza del governo nel rapporto con il Parlamento”.
IL FEDERALISMO Condivisa e percorribile è di certo l’ipotesi di una riforma della Costituzione che segni il superamento dell’anomalia di un anacronistico bicameralismo perfetto, il coronamento dell’evoluzione in senso federale, da tempo in atto, come ho ricordato, con la istituzione di una Camera delle autonomie in luogo del Senato tradizionale.
LA DIVISIONE DEI POTERI Il Presidente cita Bobbio a proposito dell’esigenza di tenere sempre ben ferma la validità e irrinunciabilità delle “principali istituzioni del liberalismo” - concepite in antitesi a ogni dispotismo - tra le quali -, “la garanzia di diritti di libertà (in primis libertà di pensiero e di stampa), la divisione dei poteri, la pluralità dei partiti, la tutela delle minoranze politiche”. E sempre Bobbio metteva egualmente l’accento sulla rappresentatività del Parlamento, sull’indipendenza della magistratura, sul principio di legalità. Tutto ciò non costituisce un bagaglio obsoleto, sacrificabile - esplicitamente o di fatto - in funzione di “decisioni rapide, perentorie e definitive” da parte dei poteri pubblici. E mi sarà permesso di richiamare anche il riconoscimento del Capo dello Stato come “potere neutro”, secondo il principio che, enunciato da Benjamin Constant due secoli fa, ispirò ancora i nostri padri costituenti nel disegnare la figura del Presidente della Repubblica.
IL PARLAMENTO Ho egualmente menzionato come essenziale la rappresentatività del Parlamento : a proposito della quale penso si possa dire che essa non viene fatalmente incrinata da regole vigenti in diversi paesi democratici, finalizzate ad evitare un’eccessiva frammentazione politica, ma rischia di risultare seriamente indebolita in assenza di valide procedure di formazione delle candidature e di meccanismi atti ad ancorare gli eletti al rapporto col territorio e con gli elettori.
L’EUROPA L’impegno per l’ulteriore, più conseguente sviluppo dell’integrazione europea è per noi italiani parte essenziale dell’impegno a proiettare nel futuro la nostra Costituzione repubblicana. La prospettiva dell’Europa unita, a favore della quale consentire alle necessarie limitazioni di sovranità, fu evocata nel dibattito dell’Assemblea costituente e fu di fatto anticipata nel lungimirante dettato dell’articolo 11 della nostra Carta.
L’ABRUZZO In queste settimane, dinanzi alla tragedia del terremoto in Abruzzo, l’Italia è stata percorsa da un moto di solidarietà che ha dato il senso della ricchezza di risorse umane - vere e proprie, preziose riserve di energia - su cui il paese può contare, in uno spirito di unità nazionale....Parlo di un rilancio, davvero indispensabile, del senso civico, della dedizione all’interesse generale, della partecipazione diffusa a forme di vita sociale e di attività politica. Parlo di uno scatto culturale e morale e di una mobilitazione collettiva, di cui l’Italia in momenti critici anche molto duri - perciò, oggi, di lì ho voluto partire - si è mostrata capace.
* l’Unità, 22 aprile 2009
La laicità è più della polemica con la Chiesa cattolica
L’Italia ha avuto un pensiero laico di altissimo livello europeo, spesso in posizione di avanguardia. Un pensiero che ha attraversato tutta la modernità, e che non ha mai trovato adeguata rappresentazione nella dimensione più propriamente politica
di Biagio Di Giovanni (il Riformista, 22.04.2009)
Che cos’è la laicità? È qualcosa di molto più ampio di una polemica, per quanto aspra, nei confronti della Chiesa cattolica, avverte Michele Ciliberto, curatore di un bel volume elegantemente intitolato al tema: "Biblioteca laica. Il pensiero libero dell’Italia moderna" (Laterza 2008). E il primo commento che viene spontaneo al lettore, è che l’Italia ha avuto un pensiero laico di altissimo livello europeo, spesso in posizione di avanguardia: a opera di quella intellettualità italiana cosmopolitica che dall’umanesimo in poi ha contribuito a fare l’Europa. Un pensiero, quello laico, che ha attraversato tutta la modernità, e che forse non ha mai trovato una adeguata rappresentazione nella dimensione più propriamente politica.
Come se i pensieri che hanno percorso la cultura e la vita civile si inaridissero a contatto con un potere che raramente si è collocato alla loro altezza, pure per i ritardi nel farsi l’Italia nazione. Per cui i discorsi di Cavour sulla libera Chiesa in libero Stato, pronunciati in Parlamento fra il marzo e l’aprile del 1861, poco prima della morte (e riportati a conclusione del volume), restano esempio raro di una coscienza politica laica cristallina, che rapidamente declinò verso deboli compromessi istituzionali.
La storia della Chiesa ha costituito un ostacolo per la storia dell’Italia nazione secondo l’idea di Machiavelli, non di un agitatore sconsiderato: ma si è perso il seme del problema. Ne ha ritardato l’unità, prima operando attraverso la separazione, sottraendo parti di legittimazione allo Stato, lasciandolo guardare come una mera macchina di potere; poi, attraverso una costante invasione di campo (rare le eccezioni: il grande Giovanni XXIII su tutti) che fa del nostro Paese qualcosa di unico nel panorama europeo su questo tema. E qui tutti hanno avuto le loro responsabilità, soprattutto quella sinistra che intese costruire un aspetto del compromesso sociale e politico con la costituzionalizzazione dei Patti lateranensi, condizione privilegiata per la Chiesa, cui non corrisponde, per essa, una uguale serie di doveri civili.
Ma torniamo al libro, che consiglio soprattutto, al giovane lettore, di tenere sul comodino, ogni sera qualche pagina da leggere. «Nella laicità - scrive Ciliberto - si è espressa una vera e propria concezione della sapienza - quella mondana, civile che appare in modo luminoso nei testi qui adunati. Se si vanno a leggere i capisaldi di tale cultura, ci imbattiamo in concetti decisivi come quelli di legge, di conflitto, di eguaglianza, di dissimulazione, di bisogno, di libertà di stampa, di opinione pubblica, fino all’argomentazione del rifiuto della tortura e della pena di morte».
Laicità, dunque, come sapienza mondana, dove si affollano i temi della condizione umana finita, che si muove fra necessità, libertà e dubbio, tra virtù e fortuna, che accetta di stare nel mare della vita, sapendo che «gli uomini non comandano alle stelle», come scriveva Machiavelli, o che «gli uomini sono al buio delle cose», come diceva lo scarno Guicciardini, e che «le religioni nascono, crescono e muoiono», come insegnava Pietro Pomponazzi.
Gli straordinari frammenti sulla religione di fra’ Paolo Sarpi, che, liberamente religioso, paventava quei pensieri che rendevano gli avvenimenti «più soggetti alla provvidenza che alla disposizione umana». E la "libertas philosophandi" nasce in questo orizzonte, conquista combattendo la sua autonomia, per cui «chi proibisce ai Cristiani lo studio della filosofia e delle scienze proibisce loro anche di essere cristiani», come scriveva fra’ Tommaso Campanella, dal carcere dell’inquisizione contro le pretese della Chiesa di allora. E Giordano Bruno, con eroico furore, scelse di morire per non abiurare alla sua convinzione.
Insomma, il senso di una sapienza assai umana, premessa di vita civile, che contribuì alla rappresentazione di una cultura non preda di un relativismo algido e agnostico, ma che pose pure le basi di quella religione civile capace di costruire istituzioni, la religione civile che va da Machiavelli a Francesco De Sanctis e a Bertrando Spaventa. Proprio questa sapienza diventa rispettosa della vita, fonte di istituzioni umane. Essa condanna, nelle pagine di Beccaria, con anticipo su tutta Europa, la pena di morte e la tortura, condanna motivata nell’autonomia della vita morale. E poi afferma la necessità della educazione pubblica, della libera stampa, del conflitto da cui nasce armonia, di una autonoma costituzione politica, di una legge che spezzi i privilegi, e di una religiosità cristiana intrinsecamente non clericale, come nelle pagine di Alessandro Manzoni dedicate al tema della responsabilità umana.
Insomma, una grande Italia, di cui qualche volta ci dimentichiamo, persi nelle nostre controversie quotidiane, in alcune miserie presenti e passate, o supini rispetto a visioni che riportano indietro la nostra coscienza civile, quasi che la religione non dovesse germinare dall’interno della nostra viva umanità, ma si scandisse in un suo tempo separato come un recinto del sacro da cui promanano i custodi della verità.
SCHEDA -LATERZA
Michele Ciliberto (a cura di)
Biblioteca laica
Il pensiero libero dell’Italia moderna
con la coll. di O. Catanorchi e F. Dell’Omodarme
In breve
«Chi proibisce ai cristiani lo studio della filosofia e delle scienze proibisce loro anche di essere cristiani.» Così scriveva Tommaso Campanella, nell’Apologia di Galileo del 1616, in difesa del principio della libertas philosophandi, predicato specifico e irrinunciabile dell’indagine umana cui non sfuggono né la natura né la religione. È solo un esempio del significato e del valore di quella cultura italiana nella quale si è raccolto quanto di meglio la nostra storia ha generato lungo i secoli moderni. Cultura laica - da non confondere con anticlericale, come spesso è accaduto - nella quale si è espressa una vera e propria concezione del sapere. «Se si vanno a leggere i capisaldi della cultura laica, ci imbattiamo in concetti decisivi come legge, conflitto, eguaglianza, dissimulazione, bisogno, libertà di stampa, opinione pubblica, fino all’argomentazione del rifiuto della tortura e della pena di morte. Princìpi, ieri come oggi, di una sapienza che in Italia ha trovato uno dei suoi luoghi di nascita e di maggiore sviluppo.» Una sapienza mondana e civile, che appare in modo luminoso nei testi qui raccolti - da Leon Battista Alberti a Camillo Benso di Cavour, passando, tra gli altri, per Giordano Bruno, Machiavelli, Leopardi, Manzoni - i quali, organizzati tematicamente, affrontano argomenti come la condizione umana, la nascita (e la morte) delle religioni, la loro funzione civile, la critica della Chiesa di Roma e del cristianesimo, la teorizzazione della ‘libera Chiesa in libero Stato’.
Indice
Premessa - Introduzione - I TESTI - 1. Sulla condizione umana - 2. Nascita (e morte) delle religioni - 3. Miracoli, ‘contrazioni’, indemoniati - 4. Sulla funzione civile della religione - 5. Critica della Chiesa di Roma e del cristianesimo - 6. ‘Libertas philosophandi’ - 7. Sapienza mondana - 8. Né guelfi né ghibellini: libera Chiesa in libero Stato - Indice dei nomi Indice completo
Recensione di Massimo Todori - Il Sole-24 ore
Il popolo
L’oggetto del desiderio della nuova demagogia
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 31.03.2009)
La concezione liberale lo vede non come una massa uniforme che applaude un uomo ma come un insieme di individui e cittadini. E’ nell’Ottocento che gli viene attribuita in quanto volontà collettiva la fonte della legittimità dei governi e anche la sovranità politica
"Il popolo" è tra le categorie politiche quella forse più ambigua e più abusata, al punto di essere ora adottata addirittura per designare un partito, come se "la parte" e "il tutto" si identificassero; anzi, come se "la parte" si proponesse identica al tutto.
L’origine del termine "popolo" è latina e nella tradizione romana repubblicana aveva un significato di opposizione/distinzione rispetto a una parte di popolazione che non era popolo: l’aristocrazia o il patriziato. Per questa sua connotazione non socialmente unitaria, dovendo decidere la denominazione della nuova assemblea convocata all’indomani della presa della Bastiglia, nel 1789, i costituenti francesi preferirono l’aggettivo "nazionale" a "popolare".
L’incorporazione del "popolo" nella concezione moderna della sovranità statuale e poi la sua identificazione con la nazione vennero perfezionate nel corso dell’Ottocento. Nel 1835 Giuseppe Mazzini lo definì "l’unica forza rivoluzionaria" esistente anche se "mai scesa nell’arena" politica, fino ad allora il luogo esclusivo della "casta" aristocratica e militare. Popolo venne a identificarsi con volontà collettiva e quindi con la sorgente del consenso fondamentale senza il quale nessun governo poteva dirsi legittimo.
Ma è proprio nella natura singolare del nome che sta il problema. Nelle principali lingue europee ad eccezione della lingua inglese, i termini Popolo, Peuple, Volk designano un’entità organica, un tutto unico la cui volontà è una ed è legge. Lo stesso Jean-Jacques Rossueau, al quale ingiustamente è stata attribuita la paternità teorica della democrazia totalitaria, aveva anticipato i rischi di plebiscitarismo quando, descrivendo l’assemblea popolare come unico legittimo sovrano, aveva precisato con molto acume che i cittadini vi si recano individualmente, e poi, una volta riuniti in assemblea, danno il loro voto in silenzio, ragionando ciascuno con la propria testa e senza consentire a nessun oratore di manipolare i loro consenso.
Le adunate oceaniche di memoria fascista e nazista sono state una negazione della volontà popolare democratica alla quale pensava Rousseau e che è così ben definita nella nostra costituzione.
Quelle adunate di popolo, che ricalcavano il modello dell’antica Sparta dove le assemblee si concludevano urlando il "sì" o il "no" alla proposta del consiglio, non erano per nulla un segno di democrazia. In Atene, alla quale dobbiamo la nostra visione della democrazia, i cittadini si recavano all’assemblea e votavano individualmente, con voto segreto, e infine contavano i voti uno per uno, non fidandosi dell’impressione acustica provocata dall’urlo come a Sparta.
Il modo di raccogliere il consenso e la procedura di computa dei voti sono stati da allora i due caratteri cruciali che hanno dato democraticità alla categoria ambigua di popolo; che hanno anzi consentito di togliere l’ambiguità ed evitare l’abuso.
È chiaro infatti che se il termine "popolo" è singolare, sono le regole che si premuniscono di renderlo plurale. Il popolo dei populisti, quello per intenderci della concezione fascista e plebiscitaria, non è lo stesso del popolo democratico: ne è anzi la sua degenerazione e negazione. È ancora a un autore classico che ci si deve affidare per comprendere questa distinzione cruciale.
Nella Politica Aristotele distingue tra varie forme di democrazia, procedendo da quella meno pessima o sufficientemente buona a quella assolutamente pessima: la migliore è quella nella quale le funzioni del popolo di votare in assemblea sono affiancate da quelle di magistrati eletti; la peggiore è quella demagogica, un’unità nella quale la voce del demagogo diventa la voce del popolo e il pluralismo delle idee si assottiglia pericolosamente.
Nel Novecento, Carl Schmitt ha dato voce a questa visione di democrazia plebiscitaria o cesaristica integrandola con una critica radicale del Parlamento: perché perdere tempo a discutere se ci si può valere di un leader che sa quel che il popolo vuole visto che la sua volontà è una sola con quella del suo popolo?
Il termine popolo acquista dunque un significato meno ambiguo e soprattutto liberale quando è associato non a una massa uniforme che parla con una voce e si identifica con un uomo o un partito, ma invece all’insieme degli individui-cittadini che fanno una nazione.
Individui singoli perché il consenso non è una voce collettiva nella quale le voci individuali scompaiono, ma un processo che tutti contribuiscono a formare. Il pluralismo è il carattere che fa del popolo un popolo democratico; anche perché il voto è l’esito di una selezione tra diverse proposte o idee che devono potersi esprime pubblicamente per poter essere valutate e scelte.
Vox populi vox dei ha un senso non sinistro solo a una condizione: che la democrazia abbia regole e diritti non alterabili dalla maggioranza grazie ai quali i cittadini possono liberamente partecipare al processo di definizione e interpretazione di quella "voce".
Ma se la "vox dei" abita un luogo definito e unico - sia esso un partito o un potere dello stato o un uomo - se acquista un significato unico, allora è la voce non più del popolo ma di una sua parte che si è sostituita ad esso.
Concludendo in sintonia con questa analogia religiosa, vale ricordare che l’unanimità e la concordia ecclestastica finirono quando il pluralismo interpretativo del cristianesimo si affermò. La democrazia costituzionale può essere a ragione considerata una forma di protestantesimo politico.
«8 marzo: una bambina, una donna, senza chiesa»
a cura di Paolo Farinella, prete
Ricevo dagli amici della Comunità “Evangelho è Vida” del Bairro Rio Vermelho di Goiás (Brasile), datata «Giorno per giorno» 6 marzo 2009, questa amara riflessione sulla bambina di 9 anni violata e il vescovo spietato. Ve la comunico senza commenti come antidoto alla stupidaggine dell’8 marzo, un altro inganno per le donne che ci cascano anche. Il titolo in cima è mio. (Paolo Farinella)
Carissimi,
“Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli. Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna” (Mt 5, 20-22). Parole severe quelle di Gesù. Non dissimili da quelle di alcuni maestri del suo tempo, che ricordavano: il comandamento è di non spargere il sangue, ora, chiunque umilia il suo prossimo, chiunque lo fa arrossire di vergogna, è come se ne spargesse il sangue, è perciò lui stesso omicida.
La mattina, alla preghiera, noi non siamo molti, sei, sette, otto persone al massimo. Che oggi, quando, in apertura, si è fatta la memoria della vita, erano tutte, tra lo smarrito e l’indignato. Perché noi non siamo abituati a pastori così. Come quello che è entrato, alla stregua di un carro armato, in una storia, già di per sé fin troppo dolorosa, triste e drammatica.
La storia parla di una bambina di nove anni che, assieme alla sorella quattordicenne (handicappata psichica), era costretta da tre anni a subire le violenze del giovane patrigno. Tali violenze si sono tradotte negli ultimi tempi in una gravidanza gemellare per la bambina più piccola, un fuscello di trentasettechili di peso. Che sua madre, il giorno in cui questa accusa forti dolori al ventre, porta in ospedale a Recife. E lì viene fuori la verità, amarissima. Con tutto ciò che ne segue. L’arresto del patrigno e la decisione di interrompere la gestazione della bimba.
La storia potrebbe anche chiudersi qui, con in più, soltanto, il rispetto, il silenzio, l’abbraccio umano di quanti sono ancora capaci di voler bene. Tra cui, sperabilmente la gente di chiesa. Per alleviare, se mai fosse possibile, l’eccesso del dolore. E invece. Invece arriva fuori lui, il pastore, che da Gesù dovrebbe aver imparato il primato della misericordia, l’invito a non giudicare, la generosità fino al dono della vita. Ma che, sfortunatamente, “mica tutti ne sono capaci”. E così lui sale in cattedra, non sia mai per denunciare i potenti, ma per umiliare e schiacciare i poveri e chi si è fatto toccare dall’enormità della loro sofferenza. E scomunica quanti, per altro, hanno agito nel rispetto della legge: la direzione dell’ospedale dove si è svolto l’intervento, l’equipe medica che lo ha realizzato, la madre che lo ha autorizzato. La bambina non ha invece potuto formalmente scomunicarla, ma solo perché è minorenne.
Fosse stato per lui, chissà! Del resto lui è lo stesso “pastore” inviato nel 1985 all’archidiocesi di Olinda e Recife, per sostituire dom Helder Câmara, normalizzare quella chiesa, demolire sistematicamente il lavoro pastorale del profetico arcivescovo dei poveri.
Il medico che ha coordinato l’intervento, il dott. Rivaldo Mendes de Albuquerque, cattolico, ha dichiarato: “Non riceviamo un solo centesimo per questo tipo di operazioni. Lo facciamo per il rispetto che una donna (in questo caso una bambina!) vittima di violenza merita, e che l’arcivescovo, sfortunatamente, tratta senza nessuna misericordia. È curioso che chi ci ha condannato alla scomunica non ha proferito una sola parola diretta all’uomo che ha stuprato questa bambina. Per dom José Cardoso Sobrinho, l’unica cosa che conta è il Diritto Canonico. Gli manca il cuore. Ho compassione del nostro arcivescovo, che non ha saputo essere misericordioso con una bambina innocente”.
Ha ragione il dott. Rivaldo: non smarrimento, non indignazione, solo compassione. Chissà che domani, salendo all’altare quel vescovo riesca a ricordare la frase di Gesù: “Se presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono” (Mt 5, 23-24), e magari, tutto paramentato, vada a cercare quella madre e le sue bimbe, e gli si inginocchi davanti e chieda loro perdono. Per intanto facciamolo noi, ci sarà rimasto qualche cristiano nella chiesa di Olinda e Recife, vero?
Il Postino della Comunità del Bairro
Intervento
del Presidente della Repubblica
Giorgio Napolitano
in occasione della celebrazione della
Giornata Internazionale della Donna
- Quirinale, 7 marzo 2009 -
Rivolgo innanzitutto il più cordiale saluto ed augurio alle donne italiane di ogni età e di ogni condizione sociale. Questa è la vostra Festa, questa è la vostra Giornata, ed è l’occasione per esprimervi la riconoscenza della Nazione, la riconoscenza delle istituzioni che molto debbono alla vostra presenza operosa, al vostro peculiare e insostituibile contributo in tutti i luoghi in cui si costruisce la convivenza civile e il benessere comune del paese.
E sono lieto che domani il ministro Carfagna possa portare anche il mio saluto alle donne che operano con le nostre Forze Armate nella missione in Kossovo.
In un giorno come questo è giusto richiamare l’attenzione in primo luogo sui passi avanti che anche nel corso dell’ultimo anno si sono fatti nel senso dell’affermazione del ruolo delle donne nella società italiana: che si sono fatti per loro merito, grazie al loro impegno. E’ qui il senso del titolo che abbiamo voluto dare a questa celebrazione dell’8 marzo: "Onore al Merito". E è molto significativa la partecipazione, stamattina, di donne brillantemente affermatesi in molteplici attività di studio, professionali, imprenditoriali, sociali, artistiche.
Non c’è dubbio, d’altronde, che la componente femminile si stia imponendo, per migliori risultati, a tutti i livelli, nel sistema di istruzione e formazione; essa, tra l’altro, si rafforza e addirittura prevale in facoltà universitarie considerate un tempo di pertinenza maschile. Abbiamo visto nell’ultimo anno come tenda a rafforzarsi, la componente femminile, nelle organizzazioni dei lavoratori e in quelle dei datori di lavoro; e tenda a rafforzarsi, sia pur lentamente, nei Consigli di Amministrazione delle aziende e nei ruoli dirigenziali. A proposito di questi ultimi, un attento sociologo ha nei giorni scorsi indicato i motivi per cui la promozione di donne a dirigenti "può essere un vero e proprio ’moltiplicatore’ dei risultati aziendali".
Non a caso, dunque, possiamo oggi consegnare onorificenze al merito della Repubblica a un’importante professionista nel campo dell’attività fotografica, alla promotrice di una coraggiosa iniziativa di sostegno dei disabili gravi e delle loro famiglie, a una ricercatrice scientifica di alto livello, ad una giovane stella della danza, a una delle non molte - purtroppo - direttrici d’orchestra, alla prima donna entrata a far parte del Direttorio della Banca d’Italia con il ruolo di Vice Direttore Generale, e ad una eminente veterana dell’insegnamento, un’insigne docente di matematica, Emma Castelnuovo, alla quale rendo speciale omaggio anche perché rappresenta, e ci ricorda, la resistenza al fascismo che oltre a privare le donne di fondamentali ed elementari diritti le costrinse, se ebree come lei, con le infami leggi razziali ad abbandonare con i loro colleghi e studenti le scuole pubbliche rifugiandosi con coraggio in un esperimento di scuola privata esclusivamente ebraica.
Le affermazioni recenti, in vari ambiti, di personalità femminili, quali quelle che ho ricordato, care amiche partecipanti, sono le luci. Ma sappiamo che restano tante ombre: in particolare, quelle della sempre modesta, molto modesta presenza femminile nelle istituzioni rappresentative e in funzioni dirigenti nel mondo della politica. Restano molte ombre sulla strada della parità salariale e innanzitutto della partecipazione delle donne alle forze di lavoro e all’occupazione complessiva. E non possiamo non chiederci in questo momento - nel contesto di una crisi finanziaria ed economica che dà segni piuttosto di ulteriore aggravamento che non di allentamento - quanto rischi di essere particolarmente colpito il lavoro femminile : tema sul quale ancora non si vede concentrarsi abbastanza l’attenzione, la riflessione, l’impegno.
Questo è il panorama generale a cui ci richiama l’8 marzo: un panorama che non può peraltro ignorare l’ombra più pesante di tutte, la vergogna e l’infamia delle violenze contro le donne, degli stupri, e di tutte le forme di molestia, di vessazione, di persecuzione nei confronti delle donne. Nel mondo e in Italia: in una parte del mondo in modi orribili, barbarici; in Italia verso donne italiane o straniere non fa differenza, ad opera di stranieri o di italiani non fa differenza.
Ha scritto ieri il Segretario generale dell’ONU, Ban Ki Moon: "la violenza sessuale contro le donne è un crimine contro l’umanità. Viola tutto quello per cui si battono le Nazioni Unite. Provoca conseguenze che vanno ben al di là del visibile e dell’immediato. L’impatto sulle donne e sulle ragazze, sulle loro famiglie, sulle loro comunità e sulle loro società in termini di vite e di focolai spezzati, va oltre ogni possibile calcolo".
Nel nostro paese possiamo dire che si stanno facendo dei passi avanti anche nel reagire a ogni sorta di violenza contro le donne e ad ogni sorta di pratiche lesive della loro dignità. Passi avanti sul piano della presa di coscienza e della denuncia, con un crescente coinvolgimento delle scuole, come ci dice il successo del concorso i cui vincitori sono stati appena premiati. E passi avanti sul piano dell’intervento legislativo e dell’azione di governo, come ci dicono le iniziative poco fa richiamate dal ministro Carfagna, alcune delle quali già ampiamente condivise in Parlamento.
Il quadro di riferimento generale per portare avanti la causa delle donne in tutti i suoi aspetti resta, più che mai, la nostra Costituzione. I valori più preziosi per le donne - libertà, emancipazione, partecipazione attiva alla vita sociale e civile, uguaglianza di opportunità, pieno riconoscimento, a parità con gli uomini, dei talenti e dei meriti - sono, lo sappiamo, il prodotto di un lungo processo di trasformazione della società, della cultura e del costume, il prodotto di una graduale maturazione della coscienza collettiva. Ma è con la Costituzione che quei valori si sono fatti principi. E diritti.
Principi cui ispirare la legislazione, la giurisprudenza, i comportamenti effettivi di molteplici soggetti pubblici e privati. Diritti da garantire, anche attraverso il ricorso alla giustizia, da rispettare nel concreto dei rapporti sociali e civili. Diritti via via sanciti dalla Dichiarazione universale e dalle Carte europee, da ultimo quella del 2000, ora integrata a pieno titolo nel Trattato dell’Unione.
Così, agli articoli 3, 29, 37 della Costituzione repubblicana hanno corrisposto nel corso degli anni la riforma del diritto di famiglia, nel segno dell’"uguaglianza morale e giuridica dei coniugi", e un gran numero di leggi, nazionali e regionali, di sentenze, di accordi sindacali, che hanno concorso a un più alto riconoscimento della condizione della donna da parte della società e dello Stato.
La democrazia si consolida, si pone al riparo da ogni rischio, si sviluppa com’è necessario, se si rafforzano il ruolo e il contributo delle donne attraverso il più conseguente rispetto e svolgimento dei principi e dei diritti sanciti dalla Costituzione. Principi e diritti che fanno della nostra Carta una Costituzione vitale, di assoluta validità in tutta la sua prima parte, anche perché aperta al nuovo, proiettata verso il futuro. Una Costituzione da richiamare non per un qualche omaggio formale ma per un convinto ancoraggio al suo dettato e al suo spirito - insomma, una Costituzione da far vivere: anche con il decisivo impulso delle donne italiane.
Se la Costituzione trova radici nell’Esodo
DA ROMA GIOVANNI RUGGIERO (Avvenire, 29.11.2008)
Quanto la Costituzione sia stata a cuore dei costituenti cattolici che contribuirono a scriverla - se non si volessero leggere tutti gli atti dell’Assemblea costituente - si capisce da una frase folgorante di Dossetti, come la riporta Giancarla Codrignani che a Roma ha moderato un convegno su Bibbia e Costituzione, promosso da Biblia, l’associazione laica di cultura biblica. «Se i Dieci Comandamenti dovessero far cilecca, - avrebbe detto dunque Dossetti - salvate almeno la Costituzione».
La nostra Magna Carta ha 60 anni, e Biblia la sta leggendo per cercare in essa fili segreti e delicati che la ricollegano alla tradizione culturale e religiosa occidentale, pur riconoscendone la profonda laicità «che - spiega Valerio Onida, presidente emerito della Consulta - come principio supremo non vuol dire che lo Stato sia estraneo o ostile alla religione, ma che riconosce il pluralismo religioso e la piena libertà di aderire all’una o all’altra confessione». Che la religione potesse essere occasione di divisione, specie nel 1948 in una Italia che usciva lacerata dalla guerra, lo intuì anche La Pira che non insistette perché un preambolo alla Carta contenesse la formula «in nome di Dio».
Andando più lontano, - e lo fa Mario Miegge, docente di filosofia teoretica a Ferrara - il patto sociale, che le Costituzioni in qualche modo cristallizzano, ha radici dirette nella Bibbia. Il filosofo le rintraccia nell’Esodo, e cioè nel patto sinaitico tra Dio e il suo Popolo. «Il richiamo all’Esodo - sostiene Miegge - è presente, a partire dal Medioevo, in molti documenti della storia politica. Ma se questo patto non resta saldamente legato alla memoria della oppressione e della liberazione, è esposto al pericolo di prendere a sua volta connotati di esclusione e di discriminazione nei confronti degli estranei, e si accrescono i rischi che la democrazia stesa si trasformi in un regime autoreferenziale, eventualmente plebiscitario e tendenzialmente totalitario».
La massima espressione di questo patto, la nostra Costituzione la traduce nell’articolo 3 che scolpisce la ’pari dignità sociale’. È una formula di non poco conto: «In essa - dice Piero Coda, presidente dell’Associazione teologica italiana - vengono coagulati tre dati che intendono formare un tutt’uno: la dignità, e cioè l’intrinseco valore riconosciuto a ogni cittadino in quanto tale; specificata dalla qualifica della parità, e cioè dall’essere essa identica in ciascuno di coloro che la posseggono e la esercitano; e insieme dalla sua socialità, e cioè dalla connotazione per cui essa, la pari dignità, è tale nel e per il suo proporsi nella relazione dell’uno, o degli uni, verso l’altro, o verso gli altri». In tutto questo intreccio - si chiede il teologo - quale ruolo ha giocato l’ispirazione biblica e in particolare quella cristiana? «Tale ispirazione - sostiene Coda - ha offerto alla civiltà umana, in specie a quella occidentale, un ampio e lavorato humus teologico e insieme antropologico per la percezione e la realizzazione della dignità sociale dell’uomo e della donna, a partire dal riconoscimento e dalla promozione della loro libertà e uguaglianza».
Costituzione, edizione critica gratis per il 60° *
In occasione del sessantesimo anniversario dell’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica italiana, la casa editrice Utet offre in omaggio a tutti coloro che la richiedano (numero verde 800-224664) un’edizione esclusiva commentata da Tullio De Mauro e Lucio Villari.
L’introduzione di De Mauro fornisce un’approfondita analisi storico-linguistica delle 9.369 parole che ricorrono nel testo, con il 74% dei lemmi tratti dal vocabolario di base della lingua italiana: una percentuale altissima rispetto alle consuetudini del nostro corpus legislativo, che testimonia l’impegno dei costituenti per garantire la massima accessibilità al testo da parte di tutti i cittadini.
Villari, invece, sottolinea coma la Costituzione, anche nel panorama delle costituzioni vigenti in Occidente, sia tra le più dirette ed esplicite nella rivendicazione e nella difesa dei diritti democratici.
* Avvenire, 06.09.2008.
Costituzione, è ora di tornare a scuola
di Nicola Tranfaglia (l’Unità, 26.O6.2008)
Gentile ministro,
la cronaca quotidiana consegna ogni giorno ai lettori e all’opinione pubblica nazionale episodi continui di comportamenti scorretti e antidemocratici di italiani che mostrano di non conoscere la nostra Costituzione e le leggi fondamentali dello Stato manifestando sentimenti razzisti, volontà di aggressioni dentro e fuori la famiglia, comportamenti contrari alle regole approvate dei costituenti e scritte sessant’anni fa nel testo del 1948.
Di fronte a una simile situazione che esprime nel nostro Paese una sorta di crisi morale e di smarrimento dei valori fondamentali che dovrebbero informare le nostre azioni spetta allo Stato intervenire con una massiccia campagna di informazione e di educazione popolare. Mi chiedo allora e lo chiedo a lei in quanto titolare come ministro della Pubblica Istruzione se il governo, nell’anno che segna il sessantesimo anniversario della Carta costituzionale, se non sia il caso di metter da parte ogni esitazione e fare qualcosa che i governi della Repubblica non hanno mai fatto fino ad ora: decidere di organizzare nelle scuole elementari che segnano il primo incontro dei bambini con la scuola un’educazione civica obbligatoria che dia a tutti, con appositi corsi principali, gli elementi essenziali di conoscenza della costituzione e delle leggi.
È quello che fanno da molto tempo i governi europei nell’Europa anglosassone e del Nord. In un Paese come l’Italia nel quale governano in quattro regioni le associazioni mafiose indigene e straniere travolgendo le leggi dello Stato e indicando alle nuove generazioni, non lo stato di diritto ma una comunità retta da metodi mafiosi, violenti, parassitari, non è necessario e urgente incominciare subito a instillare nei nostri bambini il senso della democrazia e del governo delle leggi?
Molti ricorderanno che, già alcuni decenni fa, venne introdotta in Italia una materia che si chiamava Educazione Civica ma lo si fece male, nella scuola secondaria e in aggiunta a tutti i programmi esistenti, con il risultato che l’efficacia fu assai scarsa. Ed ora in alcune scuole ci sono progetti degli insegnanti sulla legalità o sulla lotta alla mafia.
Nell’uno o nell’altro caso, sono iniziative sporadiche e che non coprono l’intero territorio nazionale. Quello che è necessario e urgente di fronte alla mafia che avanza ed è sempre più insidiosa e penetrante, è una campagna generale e obbligatoria che veda protagonista lo Stato, mobiliti tutte le scuole e tutti gli insegnanti che sono in grado di farlo puntando a formare cittadini democratici che hanno idee chiare sullo Stato di diritto e su quella che è una democrazia moderna.
Si tratta di far capire a bambini che si affacciano alla vita che cosa significa osservare le regole, comportarsi in maniera onesta e leale, non badare soltanto a se stessi, rispettare gli altri, far valere i propri diritti ma osservare anche i propri doveri, escludere il parassitismo e la violenza dai propri comportamenti.
Sa il ministro che, secondo il decimo rapporto di «Sos Impresa», la mafia è in Italia la più grande azienda del Paese? Che il sommerso nel nostro Paese è una percentuale assai alta rispetto al Pil e rapprensenta una ricchezza enorme sottratta al fisco e al controllo dello Stato? Perché, se si sente il bisogno di introdurre elementi di educazione civica, come lei stessa ha dichiarato nei giorni scorsi, non lo si fa nell’unico modo efficace sperimentato in altri Paesi con risultati assai positivi, invece che con le modalità precedenti risultate negli scorsi decenni più o meno inutili?
Dico queste cose perché, da oltre trent’anni, ho dedicato miei studi al fenomeno mafioso e ho potuto verificare che, come scriveva Giovanni Falcone in tempi ormai lontani, la repressione giudiziaria non avrà mai ragione da sola della mafia. E, prima di lui, un conservatore illuminato come Leopoldo Franchetti lo aveva capito, già nel 1876, dopo un viaggio in Sicilia. Si cattureranno i capimafia ma l’esercito mafioso sostituirà i generali caduti e proseguirà la sua azione criminale.
Soltanto se si influirà sul modo di pensare e sentire degli italiani, e in particolare delle masse popolari, e si farà in modo che la vita economica delle comunità locali e del Paese sia sana, sarà possibile stroncare il cancro mafioso che, come ogni fenomeno umano, è destinato ad avere un inizio e una fine. Ma se lo Stato resta immobile e non lo contrasta in maniera efficace, resteremo ancora per anni e per decenni a registrare le imprese violente di Cosa nostra, della ‘ndrangheta e della camorra, per non parlare delle consorelle straniere.
Mi auguro che lei, ministro, possa e voglia riflettere su questa idea e dare agli italiani una risposta e una speranza.
Maria Teresa Antonia Morelli (a cura di)
Le donne della Costituente
Edizione 2007
Collana Collana Fondazione della Camera dei Deputati
ISBN 9788842083603
Argomenti Storia d’Italia
In breve
Solo 21 furono le donne elette il 2 giugno 1946 su 556 componenti l’Assemblea costituente. Alcune di loro divennero grandi personaggi, come Nilde Iotti; altre rimasero a lungo nelle aule parlamentari, come Elisabetta Conci e Vittoria Titomanlio; altre infine tornarono, prima o dopo, alle proprie occupazioni, come Ottavia Penna Buscemi e Laura Bianchini. Tutte, con il loro impegno e le loro capacità, segnarono l’ingresso delle donne nel più alto livello delle istituzioni rappresentative. A tutte la Fondazione della Camera dedica questo volume.
Ciascuna opera della serie “Voci dal Parlamento” è dedicata all’attività di personalità di particolare rilievo nella storia della Camera dei Deputati. L’obiettivo è rendere testimonianza del lavoro e dell’impegno civile attraverso la raccolta sistematica degli interventi pronunciati presso l’Assemblea di Montecitorio, nelle Commissioni permanenti e, se del caso, presso il Senato. Questo volume raccoglie gli interventi all’Assemblea costituente ed è corredato da un’ampia e aggiornata bibliografia e da un DVD con i testi integrali, immagini, filmati e testimonianze di alcune protagoniste di quella stagione.
Indice
Introduzione di Cecilia Dau Novelli - Profili biografici - Nota introduttiva - Ringraziamenti - Le donne nella «Commissione dei 75» e nelle sottocommissioni - Attività legislativa in assemblea - Attività non legislativa in assemblea - Bibliografia - Bibliografia delle opere delle costituenti e sulle costituenti - Indice dei nomi
Ansa» 2008-01-23 11:05
60/0 DELLA COSTITUZIONE, CERIMONIA ALLA CAMERA
ROMA - E’ cominciata con l’Inno di Mameli nell’Aula della Camera la cerimonia per il sessantesimo anniversario della Costituzione della Repubblica italiana. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano è stato accolto da un lungo e caloroso applauso non appena è entrato nell’emiciclo della Camera per la celebrazione dei 60 anni della Costituzione. Napolitano si è seduto al posto del presidente dell’aula, con a fianco i presidenti delle Camere Fausto Bertinotti e Franco Marini, e la banda dei Carabinieri dalla tribuna ha cominciato a suonare l’Inno nazionale. Tutti i parlamentari della Repubblica, che hanno ascoltato in piedi la banda, hanno poi battuto le mani.
BERTINOTTI, MOBILITARE ENERGIE DEL PAESE - "Per la realizzazione dei grandi obiettivi programmatici della Costituzione ancora oggi possono essere mobilitate le migliori energie del Paese". Lo afferma il presidente della Camera Fausto Bertinotti in uno dei passaggi del suo saluto nell’Aula di Montecitorio per il sessantesimo anniversario della Costituzione. "C’é una grande risorsa del Paese, ancora in larga misura non utilizzata, ed è la ricchezza della sua società civile, delle sue articolazioni, dei suoi giacimenti di solidarietà e partecipazione, delle organizzazioni democratiche di base. Ma - ribadisce Bertinotti - non si possono trascurare, d’altra parte, i rischi che si evidenziano nelle disuguaglianze, nelle manifestazioni di crisi della coesione sociale, nelle manifestazioni di violenza che segnano drammaticamente l’altra faccia della modernizzazione in corso". "Perciò - ammonisce il presidente della Camera - bisogna tornare allo spirito della nostra Costituzione".
Gremita la tribuna riservata al corpo diplomatico. Sono presenti anche i presidenti emeriti della Repubblica Francesco Cossiga, Oscar Luigi Scalfaro e Carlo Azeglio Ciampi, il presidente del Consiglio Romano Prodi, diversi ministri e tutti i leader politici, tra cui Silvio Berlusconi. In Aula ci sono pure i rappresentanti delle Regioni. Nella tribuna del presidente della Repubblica, quella centrale posta sopra il banco della presidenza, siedono le tre ’first lady’ della Repubblica: la signora Clio Napolitano con le mogli di Fausto Bertinotti e Franco Marini.
Prima di prendere parte alla celebrazione il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi si è diretto nella sala dove si trovavano il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, i due presidenti delle Camere, Fausto Bertinotti e Franco Marini, diversi esponenti del governo ed alcuni senatori a vita. Berlusconi, dirigendosi verso la sala, ha incontrato il presidente del Consiglio Romano Prodi. I due si sono fermati e si sono stretti la mano. Berlusconi si è poi intrattenuto qualche minuto a salutare le più alte cariche dello Stato.
La bussola moderna della nostra Costituzione
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 21 agosto 2007)
Vi è un’aria di riscoperta della Costituzione che assomiglia sempre di più ad una riconquista. Lontani i tempi dell’"inattuazione" o del "disgelo" o dell’"arco" costituzionale, che facevano apparire quel testo come un affare di politici e di specialisti, gli articoli della Costituzione si stanno rivelando uno strumento potente per affrontare e risolvere problemi difficili dell’organizzazione sociale, della stessa vita quotidiana. Una riscoperta "dal basso", si potrebbe dire.
Gli esempi sono davanti a noi. Un commento di Adriano Sofri sul proscioglimento dell’anestesista del caso Welby è stato giustamente presentato su questo giornale con il titolo "Quel semplice articolo della nostra Costituzione", che è poi quello che, riconoscendo il diritto alla salute, vieta di imporre trattamenti che contrastano "con il rispetto della persona umana", consentendo così a ciascuno di noi di fare liberamente le proprie scelte di vita. La Corte di Cassazione, riprendendo indicazioni della Corte costituzionale, ha appena ribadito che il diritto alla identità sessuale è fondato sull’articolo 2, che tutela la libera costruzione della personalità. Nella discussione sulle coppie di fatto è sempre l’articolo 2 a ricordarci che devono essere tutelati i diritti derivanti dal far parte di una "formazione sociale".
Sono soltanto gli ultimi casi che, insieme a molti altri, smentiscono la tesi di una Costituzione invecchiata anche nella sua prima parte. È vero il contrario. La Costituzione si conferma "presbite", capace di guardare lontano, secondo la felice definizione di Piero Calamandrei, tanto che sono proprio i problemi posti dai mutamenti culturali e dalle novità tecnologiche a trovare risposte nelle norme costituzionali, senza che sia sempre necessario ricorrere a nuove leggi. E lo fa con la forza dei valori in essa riconosciuti, smentendo in tal modo anche la tesi di una società svuotata di riferimenti forti, prigioniera ormai di una deriva "relativistica".
Ma ci sono anche altre conferme dell’attualità del modello costituzionale italiano.
Analizzando qualche settimana fa i problemi delle identità nazionali e dell’integrazione, Jean-Paul Fitoussi così scriveva sempre su questo giornale. «L’uguaglianza di fronte alla legge è certamente un principio essenziale, ma debole; che andrebbe quindi completato con una concezione più esigente dell’uguaglianza, grazie a un impegno della repubblica proporzionale all’entità dell’handicap di ogni suo cittadino, per liberarlo dal peso della sua condizione iniziale». Ma questo è esattamente lo schema che si ritrova nell’articolo 3 della Costituzione che, ribadito il principio dell’eguaglianza formale, lo integra appunto con l’obbligo della Repubblica di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Un’indicazione, questa, particolarmente importante per cogliere la dimensione complessiva dell’eguaglianza, non riducibile alla parità delle condizioni di partenza. Proprio le innovazioni scientifiche e tecnologiche impongono la considerazione dell’eguaglianza come "risultato". Ad esempio, per garantire effettivamente l’accesso alle cure e ai farmaci, l’accesso alla conoscenza reso possibile da Internet non basta affermare in astratto il pari diritto di ciascuno, se poi le condizioni materiali e culturali creano condizioni di disuguaglianza e di esclusione.
La Costituzione rivela così una specifica virtù. Obbliga a fissare lo sguardo su un orizzonte largo, a valutare l’intero contesto in cui si collocano le questioni da affrontare. A qualcuno, tuttavia, questo contesto appare monco, amputato da una adeguata considerazione del mercato e della concorrenza, che meriterebbero una più adeguata "dignità costituzionale". Ma è davvero così?
La libertà dell’iniziativa economica privata è affermata esplicitamente in apertura dell’articolo 41, e questa formulazione dovrebbe essere ritenuta soddisfacente da chi vuole che il mercato abbia un suo spazio costituzionale. Certo, quell’articolo afferma poi che l’iniziativa economica non può svolgersi in contrasto con la sicurezza, la libertà, la dignità umana: e qualche avventato riformatore ha proposto di riscriverlo eliminando ogni vincolo o limite all’attività d’impresa. Ma i nuovi interventi legislativi sollecitati dal dramma delle morti sul lavoro confermano l’attualità e l’essenzialità, dunque l’ineliminabilità, del riferimento alla sicurezza. E il limite rappresentato dal rispetto della dignità è un segno ulteriore della lungimiranza della Costituzione. Due anni fa la Corte di giustizia delle Comunità europee, un organo certo non sospetto di ostilità al mercato, ha adottato proprio la linea indicata dall’articolo 41 fin dal 1948, affermando che il principio di dignità deve essere sempre tenuto presente nel valutare la legittimità delle attività economiche.
Ancora. La vita quotidiana ci parla del precariato, che ha appena sollecitato l’attenzione del Presidente della Repubblica, e dei problemi della famiglia, tante volte sollevati dalle diverse forze politiche. Ricordiamo, allora che l’articolo 36 stabilisce che la retribuzione deve garantire al lavoratore ed alla sua famiglia «una esistenza libera e dignitosa». Questa norma è già servita per respingere la tesi di chi pretendeva che la legittima misura della retribuzione fosse solo quella che si limitava a garantire la mera sopravvivenza del lavoratore. Oggi ci ricorda che nessuna esigenza produttiva può giustificare la miseria salariale alla quale sono costretti tanti lavoratori; e che le tanto invocate politiche della famiglia non possono consistere solo in interventi pubblici, ma esigono pari attenzione per il modo in cui si configurano concretamente i rapporti tra dipendenti e datori di lavoro.
Questa lettura della Costituzione non serve soltanto per sottolineare l’attualità della sua prima parte (altra questione è la buona "manutenzione" della seconda parte). Ne conferma la vitalità nelle aree più sensibili della vita sociale, nelle materie in cui più acute si manifestano le esigenze individuali. Una progressiva e crescente vicinanza della Costituzione ai cittadini può divenire una via per riconciliarli con le istituzioni. Una impresa che sembra troppo spesso disperata, ma che non può essere abbandonata, a meno che non ci si voglia rassegnare ad una definitiva regressione culturale e politica, ignorando anche la nuova penetrazione nella società dei principi costituzionali.
Ma l’auspicabile consapevolezza culturale e politica esige un’attenzione intensa per un’ interpretazione della Costituzione che ne utilizzi le potenzialità per dare risposte alle nuove domande ininterrottamente poste dalle diverse dinamiche che percorrono la società. Che cosa diventa la libertà di circolazione in un mondo sempre più videosorvegliato? La libertà di comunicazione quando si conservano tracce di ogni nostro contatto elettronico? La libertà di manifestazione del pensiero nell’era di Internet? La libertà personale quando si moltiplicano le forme di controllo del corpo? E bisogna guardare alla conoscenza come bene comune, alla Rete come il più grande spazio pubblico che l’umanità abbia conosciuto, ai nuovi intrecci tra genetica e costruzione del corpo, alla questione ambientale che in Italia fu possibile affrontare proprio partendo dalle norme costituzionali su paesaggio e salute.
Questioni ineludibili. Se libertà e diritti non vengono considerati nel nuovo ambiente tecnologico, si rischia una drammatica riduzione delle garanzie costituzionali. Le capacità prospettica della Costituzione deve essere utilizzata per mettere a punto una agenda dei diritti consapevole di un futuro che è già tra noi. L’annunciato rinnovamento della politica guarderà anche in questa direzione?
Ahi Costantin di quanto mal fu madre
di EUGENIO SCALFARI *
Tra le tante questioni che affliggono il nostro paese, insolute da molti anni e alcune risalenti addirittura alla fondazione dello Stato unitario, c’è anche quella cattolica. Probabilmente la più difficile da risolvere. Personalmente penso anzi che resterà per lungo tempo aperta, almeno per l’arco di anni che riguardano le tre o quattro generazioni a venire. Roma e l’Italia sono luoghi di residenza millenaria della Sede apostolica e perciò si trovano in una situazione anomala rispetto a tutte le altre democrazie occidentali. Se guardiamo agli spazi mediatici che la Santa Sede, il Papa, la Conferenza episcopale hanno nelle televisioni e nei giornali ci rendiamo conto a prima vista che niente di simile accade in Francia, in Germania, in Gran Bretagna, in Olanda, in Scandinavia e neppure nelle cattolicissime Spagna e Portogallo per non parlare degli Usa, del Canada e dell’America Latina dove pure la popolazione cattolica ha raggiunto il livello di maggiore densità.
Da noi le reti ammiraglie di Rai e di Mediaset trasmettono sistematicamente ogni intervento del Papa e dei Vescovi. L’"Angelus" è un appuntamento fisso. Le iniziative e le dichiarazioni dei cattolici politicamente impegnati ingombrano i giornali, il presidente della Repubblica, appena nominato, sente il bisogno di inviare un messaggio di "presentazione" al Pontefice, cui segue a breve distanza la visita ufficiale. Tutto ciò va evidentemente al di là d’una normale regola di rispetto e dipende dal fatto che in Italia il Vaticano è una potenza politica oltre che religiosa. Ciò spiega anche la dimensione dei finanziamenti e dei privilegi fiscali dei quali gode il Vaticano, la Santa Sede e gli enti ecclesiastici; anche questi senza riscontro alcuno negli altri paesi.
Infine il rapporto di magistero che la gerarchia ecclesiastica esercita sulle istituzioni ovunque vi sia una rappresentanza di cattolici militanti e la funzione di guida politica che di fatto orienta i partiti di ispirazione cattolica e quindi cospicui settori del Parlamento.
La questione cattolica è dunque quella che spiega più d’ogni altra la diversità italiana. Spiega perché noi non saremo mai un "paese normale". Perché una parte rilevante dell’opinione pubblica, della classe politica, dei mezzi di comunicazione, delle stesse istituzioni rappresentative, sono etero-diretti, fanno capo cioè e sono profondamente influenzati da un potere "altro". Quello è il vero potere forte che perdura anche in tempi in cui la secolarizzazione dei costumi ha ridotto i cattolici praticanti ad una minoranza. "Ahi Costantin, di quanto mal fu madre...".
La questione cattolica ha attraversato varie fasi che non è questa la sede per ripercorrere. Basti dire che si sono alternate fasi di latenza durante le quali sembrava sopita, e di vivace ed aspra riacutizzazione.
Il mezzo secolo della Prima Repubblica, politicamente dominato dalla Democrazia cristiana, fu paradossalmente una fase di latenza. La maggioranza era etero-diretta dal Vaticano e dagli Stati Uniti, il Pci era etero-diretto dall’Unione Sovietica. Entrambi i protagonisti accettavano questo stato di cose, insultandosi sulle piazze e dai pulpiti, ma assicurando, ciascuno per la sua parte, un sostanziale equilibrio. Quando qualcuno sgarrava, veniva prontamente corretto.
Ma la fase attuale non è affatto tranquilla, la questione cattolica si è riacutizzata per varie ragioni, la prima delle quali è l’emergere sulla scena politica dei temi bioetici con tutto ciò che comportano.
La seconda ragione deriva dalla linea assunta da Benedetto XVI che ritiene di spingere il più avanti possibile le forme di protettorato politico-religioso che il Vaticano esercita in Italia, per farne la base di una "reconquista" in altri paesi a cominciare dalla Spagna, dal Portogallo, dalla Baviera, dall’Austria e da alcuni paesi cattolici dell’America meridionale. Le capacità finanziarie dell’episcopato italiano forniscono munizioni non trascurabili per sostenere questo disegno che ha come obiettivo l’esportazione del modello italiano laddove ne esistano le condizioni di partenza.
A fronte di quest’offensiva le "difese laiche" appaiono deboli e soprattutto scoordinate. Si va da forme d’intransigenza che sfiorano l’anticlericalismo ad aperture dialoganti ma a volte eccessivamente permissive verso i diritti accampati dalla "gerarchia". Infine permane il sostanziale disinteresse della sinistra radicale, che conserva verso il laicismo l’antica diffidenza di togliattiana memoria.
Si direbbe che il solo dato positivo, dal punto di vista laico, sia una più acuta sensibilità autonomistica che ha conquistato una parte dei cattolici impegnati nel centrosinistra. Ma si tratta di autonomia a corrente variabile, oggi rimesso in discussione dalla nascita del Partito democratico e dai vari posizionamenti che essa comporta per i cattolici che ne fanno parte. Con un’avvertenza di non trascurabile peso: secondo recenti sondaggi nell’ultimo decennio i cattolici schierati nel centrosinistra sarebbero discesi dal 42 al 26 per cento. Fenomeno spiegabile poiché gran parte dell’elettorato ex Dc si trasferì fin dal 1994 su Forza Italia; ma che certamente negli ultimi tempi ha accelerato la sua tendenza.
* * *
Un fenomeno degno di interesse è quello del recente associazionismo delle famiglie. Non nuovo, ma fortemente rilanciato e unificato dal "forum" che scelse come organizzatore politico e portavoce Savino Pezzotta, da poco reduce dalla lunga leadership della Cisl e riportato alla ribalta nazionale dal "Family Day" che promosse qualche mese fa in piazza San Giovanni il raduno delle famiglie cattoliche.
Da allora Pezzotta sta lavorando per trasformare il "forum" in un movimento politico. "Non un partito" ha precisato in una recente intervista "ma un quasi-partito; insomma un movimento autonomo che potrà eventualmente appoggiare qualche partito di ispirazione cristiana che si batta per realizzare gli obiettivi delle famiglie. Sia nei valori che sono ad esse intrinseci sia per i concreti sostegni necessari a realizzare quei valori".
L’obiettivo è ambizioso e fa gola ai partiti di impronta cattolica, ma Pezzotta amministra con molta prudenza la sigla di cui è diventato titolare. Dico sigla perché al momento non sappiamo quale sia la sua realtà organizzativa e la sua effettiva spendibilità politica.
Sembra difficile che il nascituro movimento delle famiglie possa praticare una sorta di collateralismo rispetto ai settori cattolici militanti nel Partito democratico: la piazza di San Giovanni non sembrava molto riformista, le voci che l’hanno interpretata battevano soprattutto su rivendicazioni economiche ma non basterà riconoscergliele per acquistarne il consenso e il voto. A torto o a ragione le famiglie e le sigle che le rappresentano ritengono che quanto chiedono sia loro dovuto. Il voto elettorale è un’altra cosa e non sarà Pezzotta a guidarlo. Ancor meno i vari Bindi, Binetti, Bobba nelle loro differenze. Voteranno come a loro piacerà, seguendo altre motivazioni e inclinazioni, influenzate soprattutto dai luoghi in cui vivono e dai ceti sociali e professionali ai quali appartengono.
* * *
Un elemento decisivo della questione cattolica e dell’anomalia che essa rappresenta è costituito dalla dimensione degli interessi economici della Santa Sede e degli enti ecclesiastici, del loro "status" giuridico e addirittura costituzionale (il Trattato del Laterano è stato recepito in blocco con l’articolo 7 della nostra Costituzione) e dei privilegi fiscali, sovvenzioni, immunità che fanno nel loro insieme un sistema di fatto inattaccabile. Basti pensare che la Santa Sede rappresenta il vertice di un’organizzazione religiosa mondiale e fruisce ovviamente d’un insediamento altrettanto mondiale attraverso la presenza dei Vescovi, delle parrocchie, degli Ordini religiosi, delle Missioni. Ma, intrecciata ad essa c’è uno Stato - sia pure in miniatura - che gode d’un tipo di immunità e di poteri propri di uno Stato e quindi di una soggettività diplomatica gestita attraverso i "nunzi" regolarmente accreditati presso tutti gli altri Stati e presso le organizzazioni internazionali.
Questa doppia elica non esiste in nessun’altra delle Chiese cristiane ed è la conseguenza della struttura piramidale di quella cattolica e della base territoriale da cui trasse origine lo Stato vaticano e il potere temporale dei Papi. Non scomoderemo Machiavelli e Guicciardini, Paolo Sarpi e Pietro Giannone per ricordare quali problemi ha sempre creato il potere temporale nella storia della nazione italiana, nell’impossibilità di realizzare l’unità nazionale quando gli altri paesi europei avevano già da secoli raggiunto la loro ed infine lo scarso senso dello Stato che gli italiani hanno avuto da sempre e continuano abbondantemente a dimostrare. Sarebbe storicamente scorretto attribuire unicamente al potere temporale dei Papi questo deficit di maturità civile degli italiani, ma certo esso ne costituisce uno dei principali elementi.
Purtroppo il temporalismo è una tentazione sempre risorgente all’interno della Chiesa; sotto forme diverse assistiamo oggi ad un tentativo di resuscitarlo che si esprime attraverso la presenza politica diretta dell’episcopato nelle materie "sensibili" il cui ventaglio si sta progressivamente ampliando.
Negli scorsi giorni l’atmosfera si è ulteriormente riscaldata a causa di una frase di Prodi che esortava i sacerdoti a sostenere la campagna del governo contro le evasioni fiscali e lamentava lo scarso contributo della Chiesa ad un tema così rilevante.
Credo che Prodi, da buon cattolico, abbia pronunciato quella frase in perfetta buonafede ma, mi permetto di dire, con una dose di sprovveduta ingenuità. Lo Stato non rappresenta un tema importante per i sacerdoti e per la Chiesa. Ancorché i preti e i Vescovi siano cittadini italiani a tutti gli effetti e con tutti i diritti e i doveri dei cittadini italiani, essi sentono di far parte di quel sistema politico-religioso che a causa della sua struttura è totalizzante. La cittadinanza diventa così un fatto marginale e puramente anagrafico; salvo eccezioni individuali, il clero si sente e di fatto risulta una comunità extraterritoriale. Pensare che una delle preoccupazioni di una siffatta comunità sia quella di esortare gli italiani a pagare le tasse è un pensiero peregrino. Li esorta - questo sì - a mettere la barra nella casella che destina l’otto per mille del reddito alla Chiesa. Un miliardo di euro ha fruttato all’episcopato italiano quell’otto per mille nel 2006. Ma esso, come sappiamo, è solo una parte del sostegno dello Stato alla gerarchia, alle diocesi, alle scuole, alle opere di assistenza.
* * *
Come si vede la pressione cattolica sullo Stato "laico" italiano è crescente, si vale di molti mezzi, si manifesta in una pluralità di modi assai difficili da controllare e da arginare.
Le difese laiche - si è già detto - sono deboli e poco efficaci: affidate a posizioni individuali o di gruppi minoritari ed elitari contro i quali si ergono "lobbies" agguerrite e perfettamente coordinate da una strategia pensata altrove e capillarmente ramificata. Quanto al grosso dell’opinione pubblica, essa è sostanzialmente indifferente. La questione cattolica non fa parte delle sue priorità. La gente ne ha altre, di priorità. È genericamente religiosa per tradizione battesimale; la grande maggioranza non pratica o pratica distrattamente; i precetti morali della predicazione vengono seguiti se non entrano in conflitto con i propri interessi e con la propria "felicità". In quel caso vengono deposti senza traumi particolari.
Perciò sperare che la democrazia possa diventare l’"habitus" degli italiani è arduo. Gli italiani non sono cristiani, sono cattolici anche se irreligiosi. Questo fa la differenza.
* la Repubblica, 5 agosto 2007
Intervento del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in occasione della celebrazione della Festa della Liberazione
Genova, 25 aprile 2008
Rinnovo innanzitutto l’omaggio appena reso alla memoria dei vostri 1863 caduti, il cui sacrificio rispecchia l’ampiezza e l’eroismo delle schiere dei combattenti per la libertà nella città di Genova e nel suo entroterra. Desidero nello stesso tempo rivolgere un saluto e un apprezzamento particolare all’Istituto ligure per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea e al suo presidente sen. Raimondo Ricci : un istituto che ha sempre costituito un luogo di incontro e di unità, impegnandosi ad approfondire e trasmettere ricostruzioni obbiettive e non di parte dell’esperienza della Guerra di Liberazione. Esso ha continuato - con iniziative anche recenti cui avrò modo di riferirmi - ad alimentare una coscienza storica comune, affidata non a stereotipi ma a conoscenze e valutazioni inoppugnabili.
E sono da ciò confortato nel guardare a questa celebrazione come non rituale e non ripetitiva. Sappiamo quel che significa per l’Italia la data del 25 aprile : essa segna la liberazione piena del paese dalla dittatura e dall’occupazione straniera, la riconquista su tutto il territorio nazionale di una condizione di libertà, unità e indipendenza. Ma dobbiamo ogni volta sentirci impegnati a trasmettere nella sua interezza, a ripercorrere nella sua complessità, l’esperienza vissuta nel drammatico periodo in cui “l’Italia era tagliata in due” : esperienza tradottasi in una straordinaria prova di riscatto civile e patriottico. Questo fu la Resistenza, dai primi giorni seguiti alla firma dell’armistizio e al crollo dell’8 settembre 1943 fino ai gloriosi momenti conclusivi della liberazione delle nostre città e della nostra terra. Ed essa non può perciò appartenere solo a una parte della nazione, ma deve porsi al centro di uno sforzo volto a “ricomporre, in spirito di verità” - come dissi nel mio primo messaggio al Parlamento - “la storia della nostra Repubblica”. Dobbiamo giungere sempre più decisamente a questa condivisione, a questo comune sentire storico. E credo che in tal senso si siano compiuti nel corso degli anni - da una celebrazione all’altra del 25 aprile - importanti passi avanti, importanti progressi.
Ho un anno fa celebrato il 25 aprile a Cefalonia, per rendere commosso omaggio all’eroismo e al martirio delle migliaia di militari italiani, che in quell’isola greca trasformata in roccaforte, scelsero di battersi in spirito di fedeltà alla patria italiana, caddero in combattimento, furono barbaramente trucidati dopo la sconfitta e la resa - soldati, ufficiali, generale Comandante - o portati alla morte in mare, o deportati in Germania. E ho attribuito un significato speciale al ricordo di quella tragedia, successiva all’8 settembre 1943, che resta la più terribile espressione della rabbia e della ferocia nazista dinanzi alla volontà di riscatto nazionale degli italiani costretti a una innaturale e servile alleanza. Un significato speciale, dicevo, nel senso dell’impegno a cogliere e porre in primo piano una componente della Resistenza che fino a tempi recenti non è stata abbastanza valorizzata. Parlo del contributo dei militari.
Sappiamo tutti quale apporto essenziale venne dalle formazioni partigiane, nelle montagne e nelle città, e da molteplici forme di solidarietà popolare, che si espresse tra l’altro nell’appoggio spontaneo ai giovani che si rifiutavano di subire la chiamata alle armi con la repubblica di Salò, agli ebrei che cercavano di sfuggire a un destino di morte, e anche a molti militari alleati fuggiti dai campi di prigionia che spesso si univano alle unità dei combattenti della libertà.
Ma molto importante fu il concorso dei militari, chiamati a repentine, durissime prove all’indomani dell’armistizio, degli ufficiali e dei soldati che si unirono ai partigiani rafforzandone la capacità di combattimento e infine delle nuove forze armate che si raccolsero nel Corpo Italiano di Liberazione. E grande significato ebbe anche la resistenza di centinaia di migliaia di militari italiani internati in Germania nei campi di concentramento, che respinsero, in schiacciante maggioranza, l’invito a tornare in Italia aderendo al regime repubblichino.
A quest’ultima esperienza dedicò un bel libro di memoria storica con il titolo “L’altra resistenza”, un testimone e analista d’eccezione, Alessandro Natta ; e mi piace ricordare che presentai proprio io quel libro qui a Genova dieci anni orsono.
Le ragioni, le molle della ribellione e della lotta di tanti nostri militari vanno ricercate senza retorica, se non in una coscienza politica già pienamente maturata, piuttosto nel senso dell’onore e della dignità nazionale e personale, e in un impulso di solidarietà umana e di corpo tra gli appartenenti a reparti militari sottoposti a dure prove comuni.
Più in generale, ci fu solo nel tempo una saldatura tra i giovani e i giovanissimi che ingrossarono le fila della Resistenza e il patrimonio ideale e politico degli uomini dell’antifascismo.
Fu decisiva, e abbracciò tutti, la riscoperta, la riconquista di un senso sicuro della patria. La descrisse così una scrittrice sensibile come Natalia Ginzburg:
“Le parole patria e Italia ci apparvero d’un tratto senza aggettivi e così trasformate che ci sembrò di averle udite e pensate per la prima volta. Eravamo lì per difendere la patria, le strade e le piazze delle nostre città, i nostri cari e la nostra infanzia, e tutta la gente che passava”.
In quella guerra patriottica, e nella difesa dell’Italia anche nelle sue strutture materiali e nelle sue possibilità di futuro, si univano naturalmente partigiani e militari fedeli ai loro doveri nazionali.
Ho di recente preso visione degli atti del Convegno internazionale promosso lo scorso anno dall’Istituto ligure per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea. In quel Convegno si sono ricostruite le vicende del salvataggio del porto di Genova e di altri scali mediterranei ad opera delle formazioni partigiane. Non c’è bisogno di ricordare come la sera del 25 aprile 1945, a conclusione dell’incontro svoltosi sotto gli auspici del Cardinale Arcivescovo e nella sua ospitale abitazione, il generale Meinhold avesse firmato la resa tedesca nelle mani dei rappresentanti del Comitato di Liberazione Nazionale, presieduto da Remo Scappini. Fu quello un fatto senza eguali, che rimane un grande segno di distinzione e di onore per la Resistenza genovese. “Per la prima volta nella storia di questa guerra” - si lesse nell’appello del CLN per la Liguria - “un corpo d’esercito si è arreso dinanzi a un popolo”. Parole restate sempre care, come ci hanno infine detto anche le sue Memorie, a un protagonista dell’insurrezione di Genova, Paolo Emilio Taviani, eminente personalità politica e di governo, che per decenni continuò a testimoniare la pluralità delle ispirazioni ideali della Resistenza.
Tuttavia, anche dopo la firma della resa da parte del generale Meinhold, permaneva il rischio del piano di distruzione dei porti di Genova, Trieste e Fiume, il cosiddetto “piano Z” da tempo predisposto dai Comandi tedeschi. Poi, anche l’ufficiale nazista più determinato a far saltare il porto di Genova fu costretto ad arrendersi ai partigiani.
Quel che mi preme mettere in luce è l’impegno - documentato nello stesso Convegno del vostro Istituto - dei rappresentanti della Marina militare italiana presso l’organizzazione partigiana, il più importante dei quali, il capitano di fregata Kulczycki già comandante in seconda a bordo della corazzata Cavour , aveva dato vita a un organismo, il Vai, che riuniva tutte le forze patriottiche a carattere militare e apolitico, cadendo poi, a Genova, nella mani delle SS e venendo fucilato nel campo di Fossoli. Il nome di questi nostri eroici militari è segnato nell’Albo d’oro della Resistenza.
Ricordarli, rendere loro onore, è essenziale per rappresentare la Resistenza nella sua interezza, nell’insieme delle sue componenti, nella ricchezza delle adesioni e partecipazioni che ne garantirono il successo.
Questi sono fatti, non retorica, non mito. Vedete, c’è stato in tempi recenti un gran parlare dell’esigenza di “smitizzare” la Resistenza. Ora, è giusto - proprio per rendere più credibile la valorizzazione della Resistenza - non tacere i suoi limiti, sia o no accettabile che la si presenti come realtà ed esperienza “minoritaria” ; ma bisogna ben distinguere quel che è cresciuto come “mito” sulla base di un’analisi oggettiva, al di là della grande onda emotiva della liberazione, e quello che è stato tutt’altro. E a questo proposito vorrei dire che in realtà c’è stato solo un mito privo di fondamento storico reale e usato in modo fuorviante e nefasto : quello della cosiddetta “Resistenza tradita”, che è servito ad avvalorare posizioni ideologiche e strategie pseudo-rivoluzionarie di rifiuto e rottura dell’ordine democratico-costituzionale scaturito proprio dai valori e dall’impulso della Resistenza.
All’inizio dello scorso decennio, è apparso un saggio storico di non comune impegno e profondità, dovuto a Claudio Pavone, nel quale si sono messi in evidenza i diversi volti della Resistenza, e in particolare, accanto a quello di una guerra patriottica, quello di una “guerra civile”. Tale profilo è stato a lungo negato, o considerato con ostilità e reticenza, da parte delle correnti antifasciste. Ma se ne può dare - Pavone lo ha dimostrato - un’analisi ponderata, che non significhi in alcun modo “confondere le due parti in lotta, appiattirle sotto un comune giudizio di condanna o di assoluzione”. E questo vale anche per i fenomeni di violenza che caratterizzarono in tutto il suo corso la guerra anti-partigiana e da cui non fu indenne la Resistenza, specie alla vigilia e all’indomani della Liberazione. Le ombre della Resistenza non vanno occultate, ma guai a indulgere a false equiparazioni e banali generalizzazioni; anche se a nessun caduto, e ai famigliari che ne hanno sofferto la perdita, si può negare rispetto: un rispetto naturalmente maturato, col tempo, sul piano umano. Insomma, è possibile e necessario raccontare la Resistenza, coltivarne la storia, senza sottacere nulla, “smitizzare” quel che c’è da “smitizzare” ma tenendo fermo un limite invalicabile rispetto a qualsiasi forma di denigrazione o svalutazione di quel moto di riscossa e riscatto nazionale cui dobbiamo la riconquista anche per forza nostra dell’indipendenza, dignità e libertà della Nazione italiana.
E a cui dobbiamo anche il contesto di rispetto della nostra sovranità entro il quale fu elaborata la Costituzione repubblicana. Si guardi alla sorte che toccò ai due paesi che rimasero fino alla sconfitta totale coinvolti nella guerra voluta da Hitler, nell’alleanza guidata dalla Germania nazista. Il percorso di definizione di nuovi assetti istituzionali e costituzionali in Germania fu pesantemente condizionato dalla divisione del paese in due zone di occupazione e di influenza. Quel percorso fu affidato, nella zona occidentale, dai governatori militari delle potenze occupanti ai governi dei Länder, e la nuova “Legge fondamentale” fu approvata da un ristretto e provvisorio Consiglio Parlamentare solo nel maggio del 1949. In Giappone, la revisione costituzionale ebbe per base un progetto ispirato dal generale americano MacArthur, del quale prese addirittura il nome.
In Italia, il progetto di nuova Costituzione democratica venne invece elaborato dall’Assemblea Costituente, eletta a suffragio universale, fu discusso in piena libertà e autonomia di pensiero e approvato a stragrande maggioranza il 22 dicembre 1947. E’ difficile immaginare quale sarebbe stato il percorso, se l’Italia non avesse trovato in sé la forza per affrancarsi dall’alleanza con la Germania nazista e per prendere il suo posto, grazie al contributo delle sue nuove Forze Armate e della Resistenza, come co-belligerante nell’alleanza antifascista accanto alle formazioni occidentali che combatterono duramente per liberare il nostro paese.
Le idealità e le aspirazioni dei nostri combattenti per la libertà poterono così tradursi in un essenziale quadro di riferimento per l’elaborazione della Carta costituzionale nell’Italia divenuta Repubblica per volontà di popolo.
Quelle aspirazioni appaiono pienamente recepite nella limpida sintesi dei “Principi fondamentali” della Costituzione repubblicana e nell’insieme dei suoi indirizzi e precetti. Ricordiamo i primi dodici articoli della Carta. Diritti inviolabili dell’uomo e doveri inderogabili di solidarietà ; uguaglianza davanti alla legge di tutti i cittadini, senza distinzione di sesso, di razza, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali ; rimozione degli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana ; diritto al lavoro ; unità e indivisibilità della Repubblica ; ripudio della guerra e impegno a promuovere e favorire le organizzazioni internazionali che mirano ad assicurare la pace e la giustizia fra le nazioni - ebbene, non è precisamente questa l’Italia libera, più giusta, aperta al mondo, che i combattenti per la Resistenza sognavano? Sì, possiamo con buoni motivi dire che il messaggio, l’eredità spirituale e morale della Resistenza, vive nella Costituzione: in quella Costituzione in cui possono ben riconoscersi anche quanti vissero diversamente gli anni 1943-45, quanti ne hanno una diversa memoria per esperienza personale o per giudizi acquisiti. La Carta costituzionale - di cui stiamo celebrando il sessantesimo anniversario - costituisce infatti la base del nostro vivere comune e della nostra rinnovata identità nazionale. “Nessuna delle forze politiche oggi in campo” - desidero ribadire quel che ho detto dinanzi al Parlamento - può rivendicarne in esclusiva l’eredità”. E’ un patrimonio che appartiene a tutti e vincola tutti.
Naturalmente, la Costituzione poteva solo offrire la trama della nuova Italia sperata e invocata a mano a mano che progrediva la guerra di Liberazione, e all’indomani della sua conclusione. Non ne nascevano già definiti nella loro concretezza la società e lo Stato corrispondenti al dettato costituzionale. Dare attuazione a quei principi ha richiesto e richiede un impegno civile, culturale e politico, che non si dà una volta per tutte, che va sempre rinnovato e fatto rivivere, con l’apporto essenziale delle nuove generazioni. Impegno ed apporto, che possono essere sollecitati dal sempre più significativo collocarsi della nostra Carta e del nostro patrimonio costituzionale nel grande quadro del processo di costruzione dell’Europa unita.
Contano nella nostra Carta - a sessant’anni dalla sua entrata in vigore - non solo i principi, i diritti e i doveri, ma le istituzioni. Queste sono certamente perfettibili e riformabili rispetto al disegno che ne fu definito nel 1946-47, ma esse costituiscono, nell’essenziale, pilastri insostituibili dello Stato di diritto e della democrazia repubblicana : il Parlamento, in cui si esprime la sovranità popolare ; le Regioni e gli enti locali ; la magistratura come ordine autonomo e indipendente ; gli istituti di garanzia costituzionale. Alla vitalità di queste istituzioni è ugualmente affidato il retaggio della Resistenza, la trasmissione della drammatica esperienza vissuta dall’Italia fino alla piena liberazione dal fascismo e dall’oppressione straniera. Penso a quel che disse, sul ruolo delle istituzioni, un grande costruttore dell’Europa unita Jean Monnet, rivolgendosi nel lontano 1952 all’Assemblea della appena nata Comunità del carbone e dell’acciaio :
“Gli avvenimenti tragici che noi abbiamo vissuto” - Monnet si riferiva, evidentemente, alla seconda guerra mondiale da pochi anni conclusasi - “ci hanno forse reso più saggi. Ma gli uomini passano, altri verranno e prenderanno il nostro posto. Quel che potremo lasciar loro non sarà la nostra esperienza personale che sparirà con noi ; quel che possiamo lasciar loro sono delle istituzioni. La vita delle istituzioni è più lunga di quella degli uomini, e le istituzioni possono così, se sono ben costruite, accumulare e trasmettere la saggezza delle generazioni che si succedono”.
In questo spirito celebriamo oggi congiuntamente l’anniversario del 25 aprile e quello della Costituzione e delle istituzioni repubblicane, cui va il rispetto non formale ma effettivo e coerente degli italiani di ogni parte politica per garantire un degno avvenire democratico al nostro paese.
saggistica
Nuovo spirito alla Costituente
DI MAURIZIO SCHOEPFLIN (Avvenire, 31.05.2008)
«Questo volume intende ricostruire la proposta intellettuale di un certo filone dell’antifascismo laico, che, in fase costituente, suggerì la sfida della riscoperta delle radici cristiane della democrazia, sulla base della ricognizione di quei principi di libertà e tolleranza iscritti nella storia europea e scaturiti dal Vangelo». Con queste parole Marialuisa-Lucia Sergio presenta il suo libro Confronto con la fede. Religione civile e identità cristiana nella cultura laica della Costituzione (Studium), nel quale ricostruisce le posizioni di quegli intellettuali e giuristi laici che, all’epoca dell’Assemblea costituente, cercarono nuove vie e nuovi modi per rapportarsi con il cristianesimo, diversi da quelli di un piatto laicismo che riduce la fede e la storia cristiane a un cumulo di errori e di oscurità. E per far comprendere meglio quale sia il senso del suo lavoro, la Sergio stabilisce un interessante parallelo: «Molti elementi dell’attuale dialogo fra laici e credenti, che prende spunto proprio dalla riflessione di Benedetto XVI sul tema del rapporto fra ragione e fede, si ritrovano già nel dibattito laico del periodo della ricostruzione».
L’autrice sostiene che, in particolare, fu la cultura di matrice azionista a manifestare le aperture più significative nei confronti della concezione cristiana della politica «per quanto riguarda il diritto naturale, la concettualizzazione della ’persona umana’ e il conseguente approdo al solidarismo sociale». Dopo aver preso in esame l’antifascismo laico nel suo rapporto con la tradizione cristiana e averlo analizzato comparativamente con il liberalismo di Croce in Italia e di Strauss negli Stati Uniti, la Sergio sottolinea aperture e limiti di una proposta culturale coraggiosa sul piano delle idee, ma spesso incapace, per ragioni storiche e politiche, di oltrepassare la teoria per costruire insieme con i cattolici soluzioni condivise sul fronte della famiglia, dell’educazione e della vita.
Dunque, se, al tempo della Costituente, un importante tentativo di conciliazione tra mondi culturalmente assai diversi vi fu, bisogna riconoscere che esso non ebbe un compimento positivo, forse anche a causa di antichi pregiudizi (interessante, a questo proposito, una lettera inedita di Guido De Ruggiero che, come afferma il cardinale Cottier nella prefazione del libro, «stupisce per l’ignoranza del cristianesimo» manifestata dall’autore). L’autrice conclude la sua fatica augurandosi che sia oggi possibile recuperare quello spirito dialogante che aleggiò nell’aula dell’Assemblea Costituente.
Marialuisa-Lucia Sergio
CONFRONTO CON LA FEDE
Religione civile e identità cristiana nella cultura laica della Costituzione
Studium. Pagine 136. Euro 21
Contro la diseducazione civile
di Sergio Zavoli *
Celebrare la ricorrenza della nascita della Repubblica ha significato rinnovare, non simbolicamente, il ricordo di un evento cui Piero Calamandrei conferì, nell’ambito della nostra storia, il «primato della straordinarietà». Non solo per ciò che recise e inaugurò nella vita del Paese, ma anche per il modo in cui si ebbe il grande salto storico da cui nacque una Repubblica sorta dal libero voto dei cittadini, deciso, predisposto e svoltosi con un re ancora sul trono. Dopo la catastrofe del conflitto mondiale e della guerra civile risorgeva la Nazione e si compiva l’ideale del risorgimento democratico d’ispirazione mazziniana.
Fu Nenni - repubblicano, nella sua giovinezza - a proporre che la scelta tra monarchia e repubblica fosse contemporanea all’elezione dell’Assemblea costituente; ebbe in ciò l’appoggio di Togliatti e la proposta prevalse su quella di De Gasperi, il quale avrebbe prima voluto il voto per la Costituente e poi il referendum - che pure aveva indicato e sostenuto - per non accentuare il dissidio interno alla DC sul grande plebiscito istituzionale, che vedrà una campagna serrata, martellante, emotiva, venata di acrimonia e radicalismo.
In tutte le regioni del Sud la repubblica venne sconfitta, ma i voti di minoranza contribuirono a formare una maggioranza di due milioni di suffragi che decise il referendum: l’Italia era repubblicana, anche con il voto dei ceti progressisti meridionali, dei contadini di Carlo Levi, dei cafoni di Ignazio Silone.
Così, alla "Conferenza della pace" di Parigi, davanti al consesso dei vincitori, nel discorso rimasto famoso per l’esordio "Sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me", De Gasperi potrà aggiungere: "ma sento anche la responsabilità e il diritto di parlare come democratico antifascista, come rappresentante della nuova Repubblica, la quale armonizza in sé le aspirazioni umanitarie di Giuseppe Mazzini, la concezione universalistica del Cristianesimo e le speranze internazionaliste dei lavoratori".
Quel 2 giugno, nello stesso giorno in cui nasceva la Repubblica, rinasceva il Parlamento.
La scelta tra repubblica presidenziale e parlamentare, dibattuta a lungo nel comitato ristretto dei Settantacinque e nell’Assemblea plenaria, non aveva un esito scontato. Il modello presidenziale contava su pochi, ma agguerriti sostenitori, tra cui Calamandrei. Pesava, in ogni caso, la tragica esperienza della Repubblica di Weimar e quella dell’Italia del primo dopoguerra, esempi di un parlamentarismo debole e inconcludente, schermo troppo fragile da opporre a nazismo e fascismo. Einaudi proporrà all’Assemblea di prendere in esame i poteri che, in una lunga evoluzione, aveva via via assunto il primo ministro inglese, seppure sottoposto allo stretto controllo del Parlamento. Richiamo, per cenni, quelle dispute volendo rimarcare l’esame approfondito, lo scrupolo, il ricorso alla storia e alla dottrina, l’apertura senza pregiudizi con cui la Costituente, in diciotto mesi, svolse il suo compito. Quei temi, in particolare il cosiddetto "premierato forte", ai giorni nostri li ritroveremo al centro del dibattito politico. Ancora vivi - anzi, di una inquietante attualità - sono i grandi temi legati a quanto la Costituzione afferma nell’articolo 3: "E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana". Norma programmatica, unica tra tutte le Costituzioni dell’epoca (dove si incontrano il pensiero sociale cattolico e quello socialista) fondamento della legislazione sui diritti civili dell’ultimo trentennio e oggi nuovamente sotto attacco, ma via via più condivisi, al punto d’essere difesi superando le divisioni e gli schieramenti tradizionali. Il Parlamento della Repubblica ha una laboriosa storia di risvegli ideali; e, in concreto, di sempre rinnovate inclusioni, cioè di aperture alle forze emergenti della politica e della società civile nel mutare, e nel maturare, dei tempi. La straordinaria ricchezza costituita dalla pluralità di idee, di cultura, di progetti ispirati dalla ritornata democrazia, a veder bene non è andata dispersa. La Carta costituzionale imprimerà a un Paese minacciato dalla disunione un forte "sostrato unitario", come l’ha definito Napolitano. Quanto profondo e solido sia quel radicamento nella storia della Repubblica e della Costituzione è stato il tema di un intervento del compianto Pietro Scoppola alla Fondazione della Camera. Dalla sua analisi riprendo il passo in cui lo storico ha fatto proprio un giudizio di Dossetti, per il quale "il fiore pungente della Costituzione - come lo chiamò - germoglia dalla tragedia della seconda guerra mondiale e dalle durissime prove della Resistenza". E tuttavia, per quanto profonde e salde siano le radici della Costituzione repubblicana, "non sembra corrispondere ad esse - osservò Scoppola - un diffuso patriottismo repubblicano e costituzionale come coscienza di cittadinanza". E’ davvero stringente la sintonia tra queste parole e l’allarme pronunciato da Giorgio Napolitano, in occasione del 2 giugno, sui rischi di una deriva opportunistica, fino all’egoismo più palese, da cui il Paese sembra essere attraversato. C’è dunque ancora bisogno di educazione civica; non in forme stereotipate, ma nuove e coinvolgenti. La scuola dovrebbe fare di più, e così il sistema mediatico. A tali necessità rispondeva quella che, in altre circostanze, chiamammo l’instancabile pedagogia di Ciampi, in cui la riscoperta dell’italianità si legava all’idea di una comunità non solo storicamente, ma anche socialmente, civilmente e culturalmente solidale, nel rispetto della virtù repubblicana come la vedeva Montesquieu: amore per la cosa pubblica, che presuppone disponibilità a mettere in comune, tutti, qualcosa di sé, anzi "il meglio di sé". E Scalfaro non ha mai cessato di perorare con tutte le sue energie, in ogni modo e circostanza, l’insegnamento della Costituzione, "la più solida, equa ed efficace delle pedagogie civili".
L’educazione alla cittadinanza, come è chiamata dagli studiosi di scienze politiche, è tutt’altro che un tema minore. Nella Carta fondamentale dell’ordinamento repubblicano è chiaramente definito un diritto decisivo per la democrazia: quello di manifestare liberamente il proprio pensiero "con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione". La premessa e la garanzia più efficaci di questo diritto stanno nella pluralità delle voci; eppure ha continuato a circolare una domanda destinata a suscitare una preoccupazione non bigotta, né bizzarra: se cioè stesse entrando in crisi l’assunto democratico secondo cui società libera, pluralità di idee e d’informazione, concorso alla vita pubblica in tutte le sue forme civili, sono tutt’uno, cioè spirito di cittadinanza, lo stesso al quale ci ha ricondotto Napolitano con accenti così risoluti da indurre una serie di osservazioni, analisi e giudizi. Ed è questo il motivo per cui - trascorso il 2 giugno, e avendo appreso che solo il 30-35% degli italiani conosce il significato della ricorrenza - sono riandato all’esperienza maturata sul campo a proposito dell’uso che noi, i cosiddetti comunicatori, abbiamo fatto e facciamo della nostra storia nazionale. Imparare la democrazia, esortava Gustavo Zagrebelsky dalle pagine di un libro assai profetico. Bisogna salvare i giovani dalla malattia strisciante, persino inconsapevole, della diseducazione civile. Per prime, vanno rianimate tutte le grandi fonti del senso, del significato, a cominciare dalla famiglia, dalla scuola e dai mass-media, per evitare che i loro ruoli, raccolti e fatti suoi dalla televisione, finiscano per essere interpretati - su basi generaliste, direbbe un massmediologo - dall’onnivora e fatalmente superficiale supplenza di ogni altra designata agenzia.
Sotto questo aspetto credo sia lecito definire vacillante il mito della televisione che "mostra le cose come stanno". Non è più un mistero per nessuno che tutto il ricreato dalla TV diviene l’immagine di una realtà più vera del vero. E qui, nel rappresentare quanto va direttamente riferito allo stato reale del Paese, cioè al progressivo scollegarsi dell’interesse individuale da quello comune, si coglie il primo indebolimento dell’identità nazionale - civile, culturale, etica - e una crescente cessione alla logica del sentire privato di ciò che dovremmo saper cogliere come segni di una diffusa e critica consapevolezza civica. Se la Tv non è soltanto il mezzo più idoneo a rappresentarci il mondo, ma anche a formare il nostro giudizio sul mondo, l’ineludibile requisito di uno strumento di tanta potenza e responsabilità dovrebbe essere quello di svolgere il suo compito fondandolo su contributi di carattere etico. Inventiva, spettacolo, gradevolezza, svago - non ne verrebbero a soffrire. Anche la gara per la conquista dell’audience andrebbe pensata e perseguita richiamandosi a quel principio: passi per un giornale, che ciascuno si sceglie perché corrisponde alla propria cultura, mentalità, ideologia, ma irrompere nelle case attraverso l’etere - specie se si è servizio pubblico - chiama in causa il rapporto fiduciario che uno strumento di tanto potere deve garantire alla res publica, cioè in nome di un bene generale. Mi sono soffermato sulla TV - anche quella di proprietà privata ha responsabilità pubbliche - per la sua posizione dominante nel sistema dei media, ma l’esigenza di pluralità e il richiamo all’etica vale per il giornalismo e per qualunque altra modalità comunicativa: è dall’intero sistema che può venire l’apporto più efficace alla formazione di una società di cittadini consapevoli dei loro diritti e capaci di esercitarli. Specie in un’epoca di crescenti risorse mediatiche, dovute all’universo elettronico; cui non può sfuggire l’elaborazione e la messa in valore di pulsioni, proposte e travisamenti che sono raramente l’opera dello storico, il quale si propone di accertare la verità anche sottoponendo a nuovo esame la versione degli eventi accettata fino ad allora, e dandone una sua responsabile lettura. Molto revisionismo deteriore ha le sue origini in una cattiva informazione, una pedagogia interessata, una politica ideologica, in definitiva una cultura in cui si insinua e agisce una parziale o manomessa costruzione della realtà che può portare a lente, striscianti, suggestive amnesie di ogni genere; non escluse quelle, di non facile decifrazione, che includono principi etici, valori morali, dignità culturali. Ogni ridondanza, malizia e faziosità andrebbero banditi: quel che serve è una pacata, lucida e condivisa volontà di pace civile e sociale, fatta di lavoro, di equità, di sicurezza. È ciò che dobbiamo allo stesso atto fondativo di questa democrazia e di questa Repubblica. Cioè a noi, persone e cittadini, singoli e comunità, tenuti insieme, indivisi, da una storia che è di ciascuno e di tutti. In cui quanto va salvato, contro la vischiosità del pregiudizio, è compito di strumenti specialmente vocati a farci capire che cosa dover intendere per res publica, la quale non è mai interessata alle pronunce solenni, scolpite nel marmo, ma al principio secondo cui conoscere e condividere - pur nelle diverse, legittime identità - è la prima possibilità di difendersi e crescere. Insieme. Penso alla lucidità di De Rita nel considerare la lectio umana e civile, sociale ed etica, venuta dal Colle in un giorno che invitava a parlarci, l’un l’altro, avendo davanti agli occhi lo stesso Paese, tentato dalla trasgressione quotidiana come segno di una micro-deriva della dignità civica e del rispetto interiore; e ciò mentre - osserva De Rita - "una società che esalta l’individualismo, e ha rotto con le vecchie appartenenze, non riesce a crearne di nuove". Se non quelle spaesate, aggressive, ribelliste, violente che aggregano i senza bussola, imbarbariti dalla solitudine e dall’egotismo, alle soglie di quella che il presidente Napolitano ha chiamato "regressione civile".
* l’Unità, Pubblicato il: 08.06.08, Modificato il: 08.06.08 alle ore 13.47
l’Unità 10.8.08
Quel giorno di libertà a Firenze, 64 anni fa
di Silvano Sarti, Presidente provinciale Anpi Firenze
Centinaia e centinaia di giovani, inquadrati nelle formazioni partigiane scese dalle montagne e dai boschi, centinaia di giovani inquadrati nelle squadre d’azione dei quartieri e delle zone cittadine, dopo mesi di preparazione, di attesa, di lotta in città e nei campi di battaglia, l’11 agosto iniziarono i combattimenti strada per strada per liberare la città di Firenze dai nazifascisti. La conclusione della battaglia, proseguita fino ai primi di settembre, fu di esempio per tutta Italia e per il resto dell’Europa ancora sotto il tallone di ferro di Hitler e del suo servo Mussolini.
Il Comitato Toscano di Liberazione Nazionale, che guidò l’insurrezione e si assunse il governo della città e della provincia, era costituito dagli uomini di tutti i partiti antifascisti. L’unità di intenti e di ideali, che fece superare anche divergenze e conflitti politici, fu il cemento su cui si costruì, negli anni successivi, la democrazia repubblicana in Italia.
L’Anpi di Firenze è consapevole del peso che comporta una eredità così grande, in cui confluirono anche venti anni di lotta tenace contro il fascismo, pagata con il carcere e le persecuzioni, e si pone perciò di fronte ai grandi dilemmi e problemi del presente con grande senso di responsabilità. I principi e i valori di tolleranza che si sono voluti collocare alla base del sistema democratico hanno permesso di affrontare nodi cruciali come la pacificazione e la riconciliazione nazionale. Sono stati perdonati coloro che avevano commesso il tragico errore di aderire al fascismo repubblichino, purché non si fossero macchiati di crimini (sappiamo purtroppo che poi fu fatto un uso distorto e perfino vergognoso della clemenza su cui la Repubblica democratica voleva dare avvio ad un nuovo corso della storia nazionale). Si è provato anche senso di compassione per coloro che morirono dalla parte sbagliata, per una causa sbagliata. Erano anch’essi vittime, purtroppo non sempre consapevoli, dell’inganno del fascismo, in cui erano caduti tanti giovani (istradati da cattivi maestri).
Ma questo perdono non voleva significare, e non potrà mai significare, che battersi dalla parte della libertà, come fecero i giovani partigiani, equivaleva a battersi dalla parte della dittatura e del terrore, come fecero i repubblichini.
Purtroppo la crisi dell’unità antifascista e l’inizio della guerra fredda impedirono che portasse a compimento un vero e proprio processo al fascismo che aveva infettato profondamente il nostro paese e lasciato in eredità i suoi frutti avvelenati. Una certa nostalgia di fascismo è rimasta, più o meno strisciante, più o meno vergognosa di se stessa, ma capace di tanto in tanto di rialzare la testa e di ripresentarsi in vesti nuove, sotto forma di populismo o di razzismo xenofobo, di attacco alla Costituzione e ai suoi capisaldi. Le forze della Resistenza, posti i pilasti fondamentali della nuova identità democratica del Paese, non hanno mai rinunciato a prendere posizioni e a combattere contro tentativi di colpo di stato, contro lo stragismo fascista, contro il terrorismo delle brigate rosse negli anni di piombo, contro la criminalità organizzata della mafia, della camorra, della ‘ndrangheta, contro la P2.
Su questo terreno e partendo da questi presupposti è ancora possibile e necessario costruire e sviluppare un dialogo su cui le forze della democrazia debbano cercare di costruire una società nuova, di rinnovare lo stato italiano. Da parte di ognuno ci si deve accingere a quest’opera con spirito di servizio, recuperando, in un momento di grave crisi di fiducia nei confronti della politica, che molti cittadini e soprattutto le giovani generazioni avvertono sempre più estranea e lontana, il senso profondo di un’etica dell’impegno politico, vissuto non come occasione per ottenere privilegi e sviluppare lucrose carriere, ma come slancio a favore della collettività e per il bene del paese.
I partigiani fiorentini, gli uomini della Resistenza e dell’antifascismo, hanno scritto pagine luminose in questo senso, nei momenti della lotta e nei momenti della costruzione dell’Italia Repubblicana e democratica. Oggi vogliono lasciare questo messaggio forte e inequivocabile alle generazioni nuove, quelle nelle cui mani si trova il destino del paese ed il suo futuro.
A loro un appello a impegnarsi, a battersi per costruire una società più giusta, più consapevole del diritto dei giovani allo studio, al lavoro, alla casa, alla famiglia ed un mondo più equo, dove allo spreco sfacciato di una parte, corrisponde la miseria tragica e disperata di enormi masse di individui.
Questo è il momento in cui occorre un nuovo slancio ed un rilancio dei valori antifascisti che sono sanciti nella nostra Carta costituzionale ed un impegno unitario di tutte le forze progressiste per lo sviluppo democratico e civile del nostro Paese. Nessuna energia deve andare dispersa, nessun conflitto o dissapore deve far perdere di vista gli obiettivi fondamentali della difesa della libertà, del rinnovamento dell’Italia in un’Europa che sia sempre più garanzia di crescita democratica e forza di pace nel mondo.
Corriere Fiorentino inserto del Corriere della Sera 10.8.08
Liberazione. Sessantaquattro anni dopo Teresa Mattei racconta quei giorni a Firenze
«Io, donna e partigiana viva grazie a un fascista»
«L’entrata in Palazzo Vecchio, la fame, il rispetto dei comandanti uomini. E quella volta che un gerarca mi salvò dalle Ss»
di Mauro Bonciani
La voce è flebile, gli anni e le torture subìte pesano, il tempo sfuma. Guerra, fame, paura, si intrecciano a speranza, forza, solidarietà. Il caleidoscopio di 64 anni fa si ricompone, senza sconti per nessuno, con sincerità e umanità. L’11 agosto 1944 Teresa Mattei era al comando della sua compagnia in Oltrarno, in prima linea nella battaglia di Firenze. Comunista, partigiana, costituente, la più giovane parlamentare eletta, ribelle tanto da essere esplusa dal Pci nel 1955, a 87 anni Teresa combatte ancora.
Qual è il ricordo più bello che ha della Liberazione?
«Quando siamo entrati in Palazzo Vecchio, in prefettura, allora ho capito davvero che la città era libera, ho avuto tempo per pensare; prima, nei giorni di battaglia non c’era stato tempo, sono stati momenti terribili, i più duri. In quei giorni abbiamo dovuto seppellire i morti nell’orto botanico di via La Marmora perché non c’era altro posto».
Chi era Teresa Mattei?
«Ero giovane e la nostra famiglia era antifascista. Mi sono iscritta al Pci nel 1942, nel ’44 mio fratello Gianfranco, torturato in via Tasso a Roma, si è ucciso per non rischiare di tradire i compagni, e la famiglia, babbo, mamma e sette fratelli, era dispersa».
Donna e partigiana: difficile?
«No. Noi partecipavamo alle iniziative della Resistenza esattamente come gli uomini. Non avevamo vantaggi nelle formazioni partigiane, ma li avevamo per muoverci. Era più facile portare armi, fare le staffette, aiutare chi era in montagna. E avere un compagno, un marito in montagna o in carcere ci dava più forza».
Com’era Firenze in quei mesi?
«Ricordo la fame, che fame... ho lottato con i cani randagi per strappargli pezzi di pane ammuffito. Ma c’era anche tanta solidarietà, tutti ci si aiutava e chi aveva qualcosa lo divideva con gli altri».
I comandanti partigiani uomini la rispettavano?
«Io comandavo 50 partigiani e alla vigilia della Liberazione si unirono a noi molti garibaldini scesi dalle montagne e alcuni ex-prigionieri di guerra russi, inglesi e scozzesi che ci aiutarono, e avevo il rispetto di tutti. E non ero un’eccezione. Le donne erano tante e avevano avuto un ruolo deciviso anche negli scioperi, da quelle delle tabacchine della Manifattura a quello della Galileo».
Il momento in cui ha corso più rischi?
«Mi ricordo benissimo tutte le volte che ho fatto la staffetta passando sopra Ponte Vecchio, nel corridoio vasariano, per portare gli ordini del Cln in Oltrarno (episodio ripreso da Roberto Rossellini in Paisà, ndr). Forse è stato quello».
Ha mai ucciso?
«Io per scelta non portavo armi, neppure in quei giorni. La guerra è dura e noi abbiamo fatto anche molte fucilazioni spicce con i tribunali militari del popolo in piazza Santa Maria Novella, ma non ci furono eccessi. Sapevano benissimo chi erano i veri fascisti».
Quando ha avuto paura?
«Sempre... Ma avere paura, non significava non avere il coraggio di superarla. Ho avuto paura ad esempio quando le Ss mi arrestarono a Perugia, sapevamo cosa significava e io lo sapevo bene, visto quanto era accaduto a mio fratello».
Come si salvò?
«Fui violentata e torturata dai nazisti, le vertebre mi fanno male da allora e oggi sono in carrozzella, e alla fine mi dissero: "Domattina ti fuciliamo". Ma un gerarca fascista, uno dei guardiani, continuava a dire "mi sembra una brava ragazza, non è una partigiana" e la notte mi fece fuggire. L’ho rivisto solo dopo la guerra, quando sono andata al suo processo ed ho testimoniato in suo favore, ricordando quanto aveva fatto, facendogli avere una riduzione di pena. Quando ci siamo parlati è stato emozionante; e lui mi ha detto che era diventato antifascista».
Ha qualche rimpianto per quei giorni?
«Uno solo. C’era un ragazzino repubblichino nel carcere delle Murate, un ragazzo che i fascisti avevano preso dal riformatorio e arruolato e parlandoci capii che la sua non era stata una scelta ideologica. Gli ho parlato a lungo, gli ho detto che lo avrei aiutato, che avremmo riconosciuto che lui era pentito. Ma continuava a ripetermi che era troppo brutto quello che aveva fatto, che non si perdonava anche se noi lo perdonavamo. E la notte dopo si uccise».
Qual è il messaggio della Liberazione per i ragazzi di oggi?
«Liberazione e Costituzione ci dicono che essere cittadini e non sudditi è una conquista. La grande lezione, da insegnare ai bambini fin da piccoli, è che ognuno deve essere responsabile della cosa pubblica. Che la libertà non è un dono e va sempre difesa».
Sessant’anni fa veniva promulgata la Costituzione. Con un nuovo istituto di democrazia diretta
Referendum, quel no di Togliatti
Il leader comunista, che temeva l’«immaturità delle masse», fu il capofila degli oppositori Ma il futuro presidente Luigi Einaudi e Aldo Moro riuscirono a vincere tutte le resistenze
di Anna Chimenti (Corriere della Sera, 27.12.2007)
Con la promulgazione, il 27 dicembre 1947, giusto sessant’anni fa, della Costituzione italiana, anche il referendum, oggetto di una disputa assai accesa in Assemblea costituente, entrava formalmente a farne parte, anche se per 22 anni sarebbe rimasto nel cassetto. Oggi che un referendum, di nuovo, si prepara a incidere sulle sorti del governo e forse dell’intera legislatura, in attesa che la Corte costituzionale si pronunci, è interessante andare a rileggersi il dibattito tra i padri fondatori e scoprire che i loro timori e cautele erano tutt’altro che infondati.
La scelta non fu facile. Era complicato introdurre un istituto di democrazia diretta in un sistema parlamentare come quello italiano. Inoltre, mancavano riferimenti che consentissero ai costituenti di valutare preventivamente gli effetti delle loro decisioni. Un largo uso del referendum era previsto dalla Costituzione di Weimar, ma la debolezza e il tragico approdo di quell’esperienza ne facevano un precedente di cui diffidare. Negli Stati Uniti non esisteva l’istituto dello scioglimento delle Camere ed era quindi più avvertita l’esigenza di garantire al popolo un intervento diretto al di fuori delle scadenze ordinarie. Ciò accadeva anche in Svizzera dove, tra l’altro, le limitate dimensioni del Paese rendevano più praticabili esperienze di democrazia diretta.
Fin dalle prime battute in Assemblea costituente emersero diversi schieramenti. Al referendum si accostava senza entusiasmo gran parte della sinistra. I comunisti lo ammettevano in linea teorica come «strumento di democrazia» (Grieco), come «forma di controllo popolare» (Terracini), come «espressione di un diritto popolare», ma con cautele (Laconi). Togliatti, teorico dell’immaturità delle masse, finì per diventare il capofila degli oppositori. Via via ne furono sempre meno convinti i liberali, anche se Einaudi si schierò in difesa del referendum. A sostenerlo apertamente rimasero i cattolici, che lo avevano inserito nel primo programma del Partito popolare. E i repubblicani, perché la Repubblica era nata da un referendum. Per dare un’idea delle riserve che emergevano, si pensi che a un certo punto fu proposto dal cattolico Foschini e dal repubblicano Perassi di sottoporre le richieste di referendum al pagamento di una cauzione.
In Assemblea, la discussione partì dalla proposta Mortati, che conteneva quasi tutti i tipi di referendum, a partire da due ipotesi di consultazioni promosse dal capo dello Stato, con atto controfirmato dal presidente del Consiglio, per sospendere una legge approvata dalle Camere o per dar corso a un disegno di legge del governo respinto dal Parlamento: il popolo, in questi casi, sarebbe diventato arbitro di dissidi tra organi costituzionali. E non stupisce che, come ricorda Meuccio Ruini, rispetto a queste proposte «ci fu una generale levata di scudi ». Analoga fine fece l’ipotesi di referendum propositivo, a cui si oppose prima di tutti Umberto Terracini: i costituenti ritennero infatti che in questo modo il corpo elettorale avrebbe potuto incidere notevolmente nella determinazione dell’indirizzo politico del Paese, alterando gli equilibri interni della forma di governo.
Ma il compito di una demolizione pressoché totale del referendum se lo assunse Togliatti. Prima contestando il numero di 500 mila firme, a suo parere troppo basso, richiesto per il referendum di iniziativa popolare. Poi protestando contro l’ipotesi di referendum sospensivo di una legge, perché «con tale sistema un partito fortemente riorganizzato (ed è chiaro che Togliatti non pensava al suo) avrebbe la facoltà di sospendere la vita di tutte le assemblee, cioè la vita costituzionale del Paese». Infine, aprendo uno spiraglio a un’introduzione limitata, caratterizzata da «episodicità » ed «eccezionalità» dell’istituto. Motivo ricorrente nella politica comunista che porterà il Pci, negli anni Settanta, dopo il referendum sul divorzio, ad avanzare una serie di proposte correttive e limitative, per evitare - sono parole di Berlinguer - che il referendum diventi «strumento plebiscitario in contrapposizione alla democrazia parlamentare e rappresentativa».
La questione dei limiti diventò così terreno per un’intesa. L’accordo tacito, voluto da Einaudi e da un giovanissimo, ma già allora abile mediatore, Aldo Moro, fu di varare il solo referendum abrogativo, quello a minor tasso di rischio, imporgli confini molto ridotti e creare le condizioni per cui in pratica non si dovesse ricorrervi mai. E sarà Einaudi a vincere le ultime resistenze di Togliatti, con un’argomentazione, vista oggi, quasi ingenua. «Il referendum - dirà il futuro capo dello Stato - comporta ingenti spese e nessun partito vuole sprecare denaro (...), né preoccuparsi di odiosità presso gli elettori, disturbandoli continuamente per fare un referendum». Quanto simili previsioni dovessero rivelarsi avventate, lo si vedrà ventidue anni dopo, nel 1970: quando lo scambio tra l’approvazione della legge sul divorzio, subita da una Dc sotto pressione del Vaticano contrario allo scioglimento legale del matrimonio, e l’introduzione effettiva, attraverso una legge di attuazione, della consultazione referendaria che doveva servire a cancellare il divorzio, darà il via a una vera valanga di referendum ad opera dei radicali
Non si può riconoscere a chi ha contrastato lo Stato italiano sovrano schierandosi con la Repubblica sociale il titolo di combattente. La Cassazione è chiara in merito. Tutte quelle pronunce sono concordi nel definire i repubblichini come nemici. Giuliano Vassalli, 8 gennaio 2009 (l’Unità, 25.10.2009)
L’uomo delle sfide eroiche
di GIORGIO NAPOLITANO (La Stampa, 24.10.2009) *
La lettura degli scritti di Giuliano Vassalli consente, pur presentando un ben preciso profilo, di cogliere la triplice dimensione - se così posso dire - di una personalità fra le maggiori della nostra vita democratica. Quella del grande giurista, impegnato a offrire il contributo della sua dottrina all’azione di governo e alla riflessione su esperienze ed evoluzioni altamente significative della nostra epoca nel campo del diritto. Quella di coerente e coraggioso antifascista e combattente della libertà. Quella di appassionato militante politico, sempre fedele agli ideali e alla storia del socialismo italiano. Appare chiaro lo strettissimo nesso tra questi tre aspetti della straordinaria figura di Giuliano Vassalli.
Io l’ho potuto - pur appartenendo ad una generazione un po’ più giovane - seguire e ammirare per lunghi anni nel corso della mia attività parlamentare, al di là delle rispettive collocazioni partitiche. E in tempi recenti ho avuto occasione di ascoltare suoi splendidi discorsi, come quello, che molto mi colpì, dedicato a Giacomo Matteotti.
Nella commemorazione di Aldo Moro ho ritrovato in felice sintesi il punto di vista dello studioso vicino al pensiero giuridico del collega democristiano, l’ammirazione - da giurista e da politico - per l’ispirazione morale dell’impegno di Aldo Moro e il convinto richiamo, da parte di Vassalli, alle posizioni da lui sostenute nel tormentato periodo della prigionia che avrebbe avuto per epilogo l’assassinio del presidente della Dc.
Ma quel che nella lettura degli interventi e degli scritti raccolti in questo libro suscita uno speciale interesse è la trama di vicende personali e collettive che unifica i ritratti di uomini di primo piano del movimento socialista e dell’antifascismo (compresi gli ardimentosi che accorsero in Spagna a difendere la Repubblica e caddero, come Mario Angeloni).
Si sente qui quanto profonda sia stata la identificazione di Giuliano Vassalli con momenti cruciali di una storia da lui vissuta direttamente o assunta come retaggio di generazioni precedenti la sua come quella di Matteotti e di Di Vagno. Una profonda identificazione, ideale, politica e - aggiungo e sottolineo - umana e morale, perché nell’antifascismo, socialista e di ogni altra radice, si espressero un patrimonio di valori e di esempi, una carica di intelligenza, di cultura e di generosità, che esercitano ancora oggi una suggestione senza uguali per chi voglia esplorare le radici della nostra democrazia repubblicana.
E colpisce l’affetto, quasi filiale, con cui Giuliano Vassalli si avvicina alle figure di Pertini, di Saragat, di Nenni; la modestia con cui si colloca accanto a loro nel ricordo del rapporto di collaborazione che stabilì con ciascuno di essi.
Così come colpisce il pudore di Vassalli nell’accennare alla parte che personalmente ebbe nella Resistenza e in sfide eroiche - si può ben dirlo, al di fuori di ogni retorica - contro il fascismo e contro l’occupazione e l’oppressione nazista.
Sono onorato e lieto di poter dare, con la presentazione di questo libro, un piccolo segno della riconoscenza che la Repubblica fondata sulla Costituzione deve a Giuliano Vassalli come rigoroso «giudice delle leggi», come strenuo combattente per la libertà e la dignità della patria e come sapiente servitore dello Stato democratico.
*Il ricordo di Giuliano Vassalli del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano è tratto dal libro Frammenti di storia, dello stesso Vassalli. Il volume, edito da Palomar e a cura di Matteo Lo Presti, sarà a giorni in libreria.
Addio a Vassalli, giurista partigiano
di Bruno Gravagnuolo *
Antifascista assoluto. Giurista sottile, avvocato di grido, partigiano, uomo mite e coraggioso. Ma soprattutto «un socialista e da sempre, almeno da quando giovanissimo in pieno regime entrò in contatto con il gruppo romano di Iniziativa socialista, con Zagari e Matteotti». Così, Mauro Ferri, antico compagno d’arme e di «dottrina», non solo giuridica, descrive a caldo la figura di Giuliano Vassalli, più volte ministro e presidente dal 1999 al 2000 della Corte Costituzionale. Un’amicizia robusta quella di Ferri e Vassalli, entrambi giudici costituzionali, rinsaldata dalle battaglie parlamentari e politiche. Nonché dalla comune milizia prima nel Psi, poi nel Psu e poi di nuovo nel Psi dopo la scissione.
Ma chi era Vassalli, scomparso il 21 ottobre a Roma, e che incidenza ha avuto nella politica italiana? Nasce nel 1915 a Perugia, figlio di un illustre civilista, Filippo Vassalli. Precocissimo studioso di diritto è ben presto docente di diritto penale, e da cospiratore passa alla Resistenza romana, all’ombra delle due grandi figure socialiste di quel momento, Nenni e Saragat.
Da resistente compie una mirabolante impresa, durante l’occupazione nazista. Libera sette reclusi socialisti da Regina Coeli tra i quali Saragat e Pertini, grazie a falsi documenti per un finto trasferimento di detenuti. Era il gennaio 1944, e Vassalli fa già parte della giunta centrale del Cln. Poi nell’aprile viene catturato e sottoposto a torture in Via tasso dalle Ss, fino alla liberazione alla vigilia del 4 giugno, data dell’ingresso degli americani nella capitale, per intercessione di Pio XII.
Una vicenda splendida, di coraggio e di passione, commista anche a riflessioni sul modo migliore di condurre la lotta clandestina, delle quali v’è nota in un memoriale letto dallo stesso Vassalli l’anno passato alla Fondazione Nenni: Tra cuore e ragione. E in discussione, a distanza con Nenni a Milano, v’era il quesito: attentati agli occupanti, o singole azioni mirate contro gli aguzzini per evitare rappresaglie? Ma il dopoguerra incalza, e Vassalli collabora dall’esterno ai lavori della Costituente, partecipando da «saragattiano di sinistra» alla scissione di Palazzo Barberini del 1947. Esce poi dal Psdi su una questione capitale: la rottura dell’unità sindacale. E si immerge fino al 1959 nell’attività professionale, che da penalista lo vedrà protagonista per la difesa di processi celebri. Il caso Montesi e l’omicidio Bebawi.
Dopo il 1959 riprende l’attività politica, nel Psi che s’avvia al centrosinistra. Diventa consigliere comunale, deputato, senatore, e Ministro di Grazia e Giustizia con Goria, De Mita e Andreotti. Fu anche candidato nel 1992 alla Presidenza della repubblica, quando venne eletto Scalfaro, e fa parte di tutte le commissioni insediate per la riforma dei codici di procedura penale e civile. Da ultimo la Corte Costituzionale dove troverà come giudici, antichi allievi del calibro di Capotosti, «incapaci- dice sempre Ferri- di dare del tu al prestigioso maestro universitario di un tempo» (si accordarono sul tu, «con Capotosti che continuava a chiamarlo però Professore»...).
Garantista, critico del protagonismo di certi Pm, ma «inflessibile difensore dell’obbligatorietà dell’azione penale, come elemento di salvaguardia dell’autonomia dei giudici, che intendeva preservare da coazioni del potere esecutivo». Altro punto: i diritti umani. Come elemento di raccordo con la legislazione e le convezioni internazionali. E la Costituzione? Da difendere integralmente, salvo il bicameralismo ridondante e da riformare. Quanto al presidenzialismo a Vassalli non piaceva, malgrado fosse fortemente sponsorizzato da Craxi, nel quadro della cosiddetta «grande riforma». Infine, le idee politiche. Socialista da sempre, s’è detto. E in bilico tra Saragat e Nenni, spiega Ferri, «vicino con la mente al primo, ma col cuore al secondo». E socialista in che senso? Riformista, laico, convinto che le idee socialiste fossero il veicolo dell’emancipazione dei ceti subalterni, attraverso il diritto. E i diritti: civili, sociali, economici. E attraverso la redistribuzione, saggia e da coniugare con un’economia in crescita.
Resta un piccolo giallo. Perché tanta discrezione nel diffondere la notizia della morte a decesso avvenuto due giorni dopo? Ferri, che lo aveva visto il 12 ottobre - «vivacissimo e desideroso di altri incontri» - fa un’ipotesi. Era profondamente deluso di un’Italia, quella berlusconiana che non amava e che anzi detestava: «un’Italia in decadenza e regredita». Sentiva la scomparsa del suo mondo, della sinistra e del suo influsso etico, come una ferita. Ecco, in quel suo modo di andarsene non c’è stata solo eleganza e signorilità. Ma anche una specie di protesta.
* l’Unità, 24 ottobre 2009