Fronte del video
Papa equivocato o equivoco?
di Maria Novella Oppo (l’Unità, 13.03.2009)
Forse noi atei non devoti eravamo rimasti gli ultimi a credere, anzi a non credere, nel dogma della infallibilità pontificia. Fatto sta che è stato abbastanza scioccante sentire nei tg stralci del documento in cui Benedetto XVI° interviene ancora una volta sulla vicenda dei vescovi paranazisti cui ha tolto la scomunica.
Sostanzialmente il Papa lamenta di essere stato mal interpretato, come un Berlusconi qualsiasi. Comunque, la riammissione tra le braccia della Chiesa di negazionisti e altri destrorsi sarebbe stata solo un atto di carità cristiana* e in nessun modo una concessione alle loro teorie. Il papa, insomma, si sarebbe trovato, pure lui, stritolato nel Girmi della comunicazione e costretto a precisazioni e smentite.
Ma quello che ci ha lasciato davvero di sasso è il passo in cui Benedetto XVI° lamenta la guerra che gli verrebbe fatta da qualcuno (coi baffi?) dentro il Vaticano stesso. Caspita, stavolta il Papa parla come Veltroni. È già un passo avanti.
Nessuno comprerà le nostre parole
di Maria Novella Oppo *
Mi sto montando la testa. A parte il merito e il demerito delle accuse che Silvio Berlusconi rivolge a me e alle altre compagne dell’Unità tramite il suo avvocato Fabio Lepri (notevole scrittore porno), non posso fare a meno di sorprendermi per il valore che il capo del governo attribuisce alle mie modestissime parole. Nell’atto di citazione, in particolare, è riportato un brevissimo brano di mio pugno, praticamente questo: «Qualcuno poteva pensare che il governo cercasse almeno di nascondere lo scandaloso conflitto di interessi del boss. Invece no, Berlusconi spinge la Rai contro Murdoch, perché si rompa le corna. Due nemici colpiti al costo di uno. Costo che naturalmente è pagato dagli italiani».
Ora, per queste scarse (da ogni punto di vista) paroline, l’uomo più ricco d’Italia pretenderebbe da me ben 200.000 euro, praticamente 5000 euro a parola. Tralasciando il costo delle sillabe perché la matematica non è il mio forte. Francamente, se le parole sono pietre, d’ora in avanti mi vanterò che le mie sono pietre preziose. E ringrazio Berlusconi per avermelo fatto scoprire. Anche se, questa valutazione monetaria delle singole sillabe lui deve averla praticata fin da piccolo, quando vendeva i compiti ai compagni di scuola. Ma io, essendomi sempre limitata a credere che le parole valgono per la verità che possono contenere, scopro adesso di essere miliardaria di parole e di verità. Senza che lui possa farci niente, visto che neppure uno dei suoi miliardi può comprare una delle mie parole.
E così, per la prima volta nella vita, mi sento talmente più ricca di lui, che mi suscita perfino una certa pena. Poveretto. Costretto a pagare ogni sillaba dei suoi portavoce, portaborse e porta a casa Lassie, crede di valutare allo stesso modo tutto. Si sbaglia di grosso: sappia che le mie, le nostre parole costano care e lui non se le può permettere. E anche ammesso che ci sia un giudice disposto a dargli ragione, non avrà mai i miei soldi. Intanto perché non ce li ho. E poi perché sarei disposta a versare una lira nelle sue mani solo se fosse l’uomo più povero d’Italia e me la chiedesse in elemosina all’angolo della strada.
* l’Unità, 04 settembre 2009
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
FARE COME GIOVANNI XXIII E GIOVANNI PAOLO II: RESTITUIRE L’ANELLO A GIUSEPPE!!!
STORIA E MEMORIA
MILANO - «Ravviso che lei è sempre più bella che intelligente». La frase di Silvio Berlusconi rivolta a Rosy Bindi durante la puntata di Porta a Porta dedicata alla bocciatura del lodo Alfano getta ulteriore benzina sul fuoco delle polemiche divampate dopo la decisione della Corte Costituzionale. Il premier, in collegamento telefonico, aveva accusato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, affermando che avrebbe dovuto, «con la sua influenza», garantire un voto dei giudici costituzionali favorevole al lodo Alfano. Parole che hanno provocato la dura reazione dell’esponente del Pd: secondo la Bindi, quelle del premier sono frasi gravissime. «Ravviso che lei è sempre più bella che intelligente» ha replicato secco Berlusconi, citando, non si sa quanto volontariamente, Vittorio Sgarbi che ebbe già modo di definire così l’ex ministro prodiano e che ora, parlando con Corriere.it, assicura di non voler chiedere i diritti d’autore al premier (ASCOLTA). «Non mi interessa nulla di quello che lei eccepisce» ha scandito Berlusconi.
Una «cortesia» che la stessa Rosy Bindi non ha lasciato cadere nel vuoto: «Sono una donna che non è a sua disposizione» ha replicato (riferimento neanche troppo velato alla vicenda delle escort che vede coinvolto il Cavaliere) «e ritengo molto gravi le sue affermazioni».
«REAGIRE DAVVERO» - La stessa Bindi, interpellata in mattinata da Radio Popolare, ha poi voluto precisare che «ho reagito non per difendere me dalle offese di Berlusconi che non mi sfiorano minimamente, mi sono sentita di reagire perché penso di doverlo fare in nome di tutte le donne». «Questo Presidente del Consiglio- ha aggiunto - ha una concezione strumentale delle donne, veicola messaggi pericolosi a questo Paese ed è arrivato il momento che le donne reagiscano davvero».
IL PRECEDENTE - Lo stesso Berlusconi, in ogni caso, aveva già avuto modo in passato di usare parole praticamente simili nei confronti della Bindi. Era l’8 aprile 2003 e il Cavaliere era andato a Brescia per sostenere la candidatura a sindaco di Viviana Beccalossi. Parlando della giovane esponente di An, il premier aveva spiegato che nei suoi occhi «si legge tutta la passione politica necessaria in questa sfida. È più brava che bella, il contrario di Rosy Bindi». Ma quell’intervento divenne più famoso per un’altra (involontaria?) gaffe dell’allora leader della Cdl: chiudendo il suo intervento incoraggiò infatti la portacolori del centrodestra con un equivocabile: «Forza Viviana, fagliela vedere!».
«PIÙ ALTO CHE EDUCATO» - All’indomani del battibecco negli studi di Bruno Vespa, il segretario del Partito Democratico, Dario Franceschini, ha telefonato a Rosy Bindi per esprimere alla vicepresidente della Camera la sua solidarietà per le «offese volgari e maleducate» a lei rivolte dal presidente del Consiglio. Anche Giovanna Melandri, responsabile Cultura del Pd, in una nota ha preso le difese di Rosy Bindi: «Berlusconi ha fatto gravissime affermazioni nei confronti delle istituzioni, attaccando il presidente della Repubblica e la magistratura. Altrettanto indegna è stata la frase con cui ha apostrofato Rosy Bindi: in queste offensive parole c’è tutto il ’Berlusconi-pensiero’ nei confronti delle donne: l’idea che la donna non abbia il diritto di prendere la parola se non per compiacere l’ego smisurato del sultano di Arcore. Il presidente del Consiglio ha dimostrato di essere più alto che educato». «Credo che le parole che Berlusconi ha pronunciato nei confronti di Rosy Bindi si commentino da sole nella loro profonda volgarità - ha aggiunto Anna Finocchiaro, presidente del Pd al Senato - e credo anche che una dirigente politica come Rosy non abbia certo bisogno di essere difesa. Rosy non è certamente a disposizione del Presidente del Consiglio, ma per fortuna è a disposizione e al servizio delle donne, del Pd e della democrazia del nostro Paese».
«C’E’ CONCITAZIONE, PUO’ SUCCEDERE» - Un tentativo di smorzare i toni arriva da Paolo Bonaiuti, sottosegretario della presidenza del Consiglio e portavoce di Berlusconi, in un intervento a Radio 2: «Questi sono momenti di estrema concitazione, questo può succedere. Una cosa sono i momenti asprezza politica, altra i momenti di vita normale». In precedenza, però, Bonaiuti aveva detto: «È sempre la solita storia del cane cattivo, prima lo attaccano, lui si difende. Evidentemente una difesa da una serie di attacchi mediatici che vanno avanti da mesi e mesi».
* Fonte: Corriere della Sera, 08 ottobre 2009 (ultima modifica: 09 ottobre 2009) (ripresa parziale).
Strappi e mimose
di Ida Dominijanni (il manifesto, 05.02.2011)
Per quanto tecnica sia la formula, l’aggettivo «irricevibile» con cui Napolitano ha respinto al mittente e rinviato alle camere il decreto sul federalismo ha un suono ben più forte dello strappo procedurale cui si riferisce. Irricevibile è un governo che disprezza il parlamento e prescinde dal Quirinale, irricevibile è una maggioranza di nominati arroccata nel bunker del suo padrone, irricevibile è un capo di governo che usa sistematicamente la scena internazionale per denigrare «la Repubblica giudiziaria commissariata dalle procure», irricevibile è lo stesso capo di governo che su quella stessa scena difende, unico in Occidente, lo zio - anch’esso di sua nomina - della propria favorita, irricevibile è una prassi istituzionale fondata per metodo e sistema sullo scontro fra i poteri dello Stato. Se ne contano almeno nove al calor bianco, in tre anni, fra Palazzo Chigi e il Quirinale, su questioni di procedura e di merito. È un segno, e non l’ultimo, che la situazione è da tempo oltre il livello di guardia.
Perché allora, con le pinze, si tiene ancora? Perché in campo c’è una sola strategia riconoscibile, nei suoi tratti devastati e devastanti: quella di un raìs in pieno delirio di onnipotenza («sono l’unico soggetto universale a essere tanto attaccato», ha detto di sé ieri testualmente il premier) e deciso a resistere, resistere, resistere a tutti costi, nessuno escluso. Senza limiti, perché non ne conosce. Senza vergogna, perché non ne ha. Senza tema di smentite, perché la sua capacità di scambiare il vero col falso è segno non più di manipolazione bensì di negazione della realtà. Intorno a questa maschera, solo una corte di figuranti asserviti che finiscono col restituirle lo scettro anche quando potrebbero sfilarglielo, alla Bossi o alla Maroni per capirci. Dall’altra parte, una strategia felpata, una ricerca di alleanze senza selezione e senza seduzione, una promessa di liberazione senza desiderio. Il risultato è una paralisi che si alimenta di una lacerazione al giorno, una rivelazione all’ora, uno scandalo al minuto, senza che la tela si strappi davvero e mentre chiunque non faccia parte dello zoccolo duro del raìs si chiede: com’è possibile?
È possibile, perché c’è un fantasma lì dietro la scena, che nessuno vuole davvero vedere. Berlusconi lo rimuove, i suoi avversari lo scansano in attesa della foto del peccato o della prova del reato, e tutti quanti pensano di parlare, ancora, di «politica» (federalismo, fisco e quant’altro), come se, per citare Gustavo Zagrebelsky, le notti di Arcore non fossero la notte della Repubblica. Lo sappiamo, i numeri in parlamento sono quelli che sono. Ma la democrazia parlamentare non esclude altre forme dell’azione politica, e non domanda nemmeno che si resti in parlamento a recitare una farsa. Una società stremata da vent’anni di berlusconismo merita qualcosa di più della promessa di una parodia del Cln. O di una raccolta di firme offerta l’8 marzo come un mazzo di mimose dal segretario del Pd «alle nostre donne». Non siamo di nessuno, non amiamo le mimose né tantomeno, per citare stavolta Luisa Muraro, chi conta di usarci come truppe ausiliarie di una politica inefficace.
Vergognatevi, così nasce l’etica
quelle riflessioni da Leopardi a Marx
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 22 gennaio 2011)
L’indignazione è un moto dell’animo nutrito dal senso di vergogna, un’emozione fondamentale nella fenomenologia dell’etica sociale. Come altre emozioni, la vergogna è "generativa di comportamento" in quanto mette in moto sentimenti, come l’indignazione e la colpa, che agiscono direttamente sulla volontà: per alleviarli si è portati a giustificare la proprie azioni e infine a reagire. Se l’emozione della vergogna è in se stessa non razionale, la serie di sentimenti e azioni che alimenta sono dunque di tipo strategico: le forme con le quali l’individuo che si vergogna agisce sono propositi razionali volti a rimediare il misfatto che ha generato vergogna. Per esempio Papa Benedetto XVI ha commentato i numerosi casi di pedofilia nel clero cattolico con queste parole: "Proviamo profonda vergogna e faremo tutto il possibile perché ciò non accada più in futuro".
Per questa sua capacità generativa di comportamento, l’emozione della vergogna è stata messa da Giambattista Vico alle origini della società: se "la natura di tutte le cose sta nel loro cominciamento", allora la natura della storia umana sta nella vergogna primaria, quella di Adamo ed Eva di fronte alla nudità che scoprirono di avere non appena violarono il patto di obbedienza con il loro creatore. Nella Genesi come nel Pentateuco, la vergogna e la colpa figurano alle origini della responsabilità morale. Il rossore che sale sulle guance di chi prova vergogna è il segno della socialità di questa emozione, del bisogno di riconoscimento da parte degli altri e nello stesso tempo del controllo che quel riconoscimento opera sulle nostre azioni: chi prova vergogna non riesce a sostenere lo sguardo altrui e abbassa gli occhi a terra. Questa dimostrazione di vergogna è correlata e complementare alla reazione di indignazione che la conoscenza di un comportamento vergognoso induce.
Pertanto, la vergogna ha una fenomenologia doppia: la persona colpevole può provare il desiderio di nascondersi (così nasce il senso di umiliazione); chi assiste può reagire con sdegno. È per questa doppia valenza che poeti e filosofi hanno attribuito alla vergogna un ruolo liberatorio, non solo per l’individuo ma anche per la collettività.
Non provare vergogna, e per converso non provare indignazione, sono da questo punto di vista il segno di una realtà impermeabile all’ethos perché indifferente, e di un atteggiamento di apatico realismo. Una persona che non si vergogna non sente di dover reagire o cambiare comportamento. Per questo scrittori e filosofi si sono spesi per svegliare le coscienze dormienti, educare il senso di indignazione, smuovere l’emozione della vergogna. E quest’opera della cultura dimostra come la vergogna sia segno della civiltà. La forza di questa emozione è naturale ma la forma che prende dipende dall’ethos di una società. Per esempio, ciò che il comportamento sessuale prescrive o censura non è identico in tutte le società, gli "oggetti" della vergogna e quindi dell’indignazione sono contestuali e socialmente situati; ma il meccanismo che li governa è universale nella sua fenomenologia. Universale nel senso che, per riprendere la Bibbia e Vico, le radici della responsabilità morale (e quindi della punibilità) stanno nella capacità che gli individui hanno di sentire la vergogna e la colpa. Su questa base si sviluppa l’azione educativa e culturale.
Nel 1823, Giacomo Leopardi annotava nello Zibaldone: "Niuna cosa nella società è giudicata, né infatti riesce più vergognosa, del vergognarsi". Convinto della funzione attiva ovvero pratica del "vergognarsi", Leopardi aveva immortalato la deprimente condizione dell’Italia nel Canto Sopra il monumento di Dante, come a voler muovere i lettori: "Volgiti indietro, e guarda, o patria mia/quella schiera infinita d’immortali/E piangi e di te stessa ti disdegna/Che senza sdegno omai la doglia è stolta/Volgiti e ti vergogna e ti riscuoti/E ti punga una volta/Pensier degli avi nostri e de’ nepoti ."(...)
Provare vergogna sembra quindi essere di sprone, sembra indurre a reagire, come ha scritto Silvana Patriarca. Quante volte si sente ripetere (e si dice) "mi vergogno di essere italiano/a"? Innumerevoli volte, soprattutto negli ultimi anni. Dirlo, ripeterlo instancabilmente segnala la speranza che dalla capacità di sentire vergogna nasca l’indignazione, e di qui la decisione di reagire, di cambiare.
Su questa catena di fenomeni lo stesso Marx - notoriamente contrario all’uso di emozioni e sentimenti nella spiegazione dei fenomeni sociali - vergò parole straordinarie a proposito delle politiche illiberali del governo prussiano, commentando che, senza cadere in un vuoto patriottismo, sarebbe stato auspicabile che i tedeschi avessero provato vergogna, e aggiungeva: "Non è la vergogna che fa le rivoluzioni", tuttavia "la vergogna è già una rivoluzione in qualche modo... se un’intera nazione esperimenta davvero il senso di vergogna è come un leone accovacciato pronto a balzare".
Le altre donne
di Concita De Gregorio *
Esistono anche altre donne. Esiste San Suu Kyi, che dice: «Un’esistenza significativa va al di là della mera gratificazione di necessità materiali. Non tutto si può comprare col denaro, non tutti sono disposti ad essere comprati. Quando penso a un paese più ricco non penso alla ricchezza in denaro, penso alle minori sofferenze per le persone, al rispetto delle leggi, alla sicurezza di ciascuno, all’istruzione incoraggiata e capace di ampliare gli orizzonti. Questo è il sollievo di un popolo».
Osservo le ragazze che entrano ed escono dalla Questura, in questi giorni: portano borse firmate grandi come valige, scarpe di Manolo Blanick, occhiali giganti che costano quanto un appartamento in affitto. È per avere questo che passano le notti travestite da infermiere a fingere di fare iniezioni e farsele fare da un vecchio miliardario ossessionato dalla sua virilità. E’ perché pensano che avere fortuna sia questo: una valigia di Luis Vuitton al braccio e un autista come Lele Mora. Lo pensano perché questo hanno visto e sentito, questo propone l’esempio al potere, la sua tv e le sue leader, le politiche fatte eleggere per le loro doti di maitresse, le starlette televisive che diventano titolari di ministeri. Ancora una volta, il baratro non è politico: è culturale. E’ l’assenza di istruzione, di cultura, di consapevolezza, di dignità. L’assenza di un’alternativa altrettanto convincente. E’ questo il danno prodotto dal quindicennio che abbiamo attraversato, è questo il delitto politico compiuto: il vuoto, il volo in caduta libera verso il medioevo catodico, infine l’Italia ridotta a un bordello.
Sono sicura, so con certezza che la maggior parte delle donne italiane non è in fila per il bunga bunga. Sono certa che la prostituzione consapevole come forma di emancipazione dal bisogno e persino come strumento di accesso ai desideri effimeri sia la scelta, se scelta a queste condizioni si può chiamare, di una minima minoranza. È dunque alle altre, a tutte le altre donne che mi rivolgo. Sono due anni che lo faccio, ma oggi è il momento di rispondere forte: dove siete, ragazze? Madri, nonne, figlie, nipoti, dove siete. Di destra o di sinistra che siate, povere o ricche, del Nord o del Sud, donne figlie di un tempo che altre donne prima di voi hanno reso ricco di possibilità uguale e libero, dove siete? Davvero pensate di poter alzare le spalle, di poter dire non mi riguarda? Il grande interrogativo che grava sull’Italia, oggi, non è cosa faccia Silvio B. e perché.
La vera domanda è perché gli italiani e le italiane gli consentano di rappresentarli. Il problema non è lui, siete voi. Quel che il mondo ci domanda è: perché lo votate? Non può essere un’inchiesta della magistratura a decretare la fine del berlusconismo, dobbiamo essere noi. E non può essere la censura dei suoi vizi senili a condannarlo, né l’accertamento dei reati che ha commesso: dei reati lasciate che si occupi la magistratura, i vizi lasciate che restino miserie private.
Quel che non possiamo, che non potete consentire è che questo delirio senile di impotenza declinato da un uomo che ha i soldi - e come li ha fatti, a danno di chi, non ve lo domandate mai? - per pagare e per comprare cose e persone, prestazioni e silenzi, isole e leggi, deputati e puttane portate a domicilio come pizze continui ad essere il primo fra gli italiani, il modello, l’esempio, la guida, il padrone.
Lo sconcerto, lo sgomento non sono le carte che mostrano - al di là dei reati, oltre i vizi - un potere decadente fatto di una corte bolsa e ottuagenaria di lacchè che lucrano alle spalle del despota malato. Lo sgomento sono i padri, i fratelli che rispondono, alla domanda è sua figlia, sua sorella la fidanzata del presidente: «Magari». Un popolo di mantenuti, che manda le sue donne a fare sesso con un vecchio perché portino i soldi a casa, magari li portassero. Siete questo, tutti? Non penso, non credo che la maggioranza lo sia. Allora, però, è il momento di dirlo.
* l’Unità, 19 gennaio 2011: http://concita.blog.unita.it/le-altre-donne-1.266857.
Brava Rosy!
di Renato Sacco (mosaicodipace, 04.10.2010)
Punti di vista. Anche le barzellette, e sono tante, contro ebrei e donne che il nostro Presidente ci ha raccontato rischiano di essere commentate dal punto di vista dei potenti o dell’opportunità politica. Per l’ultima barzelletta (rubata al contesto privato, cosa gravissima, ha accusato qualcuno!) contro le donne e contro Rosy Bindi, con tanto di bestemmia finale, molti commenti, anche prese di posizioni critiche, per fortuna. Io però volevo guardare questa situazione dal punto di vista della. vittima, Rosy Bindi appunto.
A lei va tutta la solidarietà, ovviamente, ma soprattutto la stima e il ringraziamento per aver dimostrato di essere una donna e una credente a testa alta. Ha risposto sempre con pacatezza e fermezza, in modo nonviolento, sia al Presidente sia a qualche autorevole Vescovo romano che invitava a ’contestualizzare’ e a non fare polemiche pretestuose.
Brava Rosy! Brava come donna, laica, che non ostenta la propria fede come una spada contro qualcuno, ma nemmeno la nasconde, e proprio in questa occasione manifesta tutta la sua coerenza e maturità. Al di là di tutto, quello che si dovrebbe dire di fronte a questa brutta storia (le battute contro gli ebrei, le barzellette contro le donne raccontate ai militari...) credo sia giusto esprimere un grazie sincero a questa donna, esempio di un laicato maturo, adulto, che sa pensare con la propria testa e che non si fa intimidire dai potenti, né quando sono politici né quando sono Pastori.
"Anch’io penso - dice Rosy Bindi - che contestualizzare fatti e parole sia importante... La contestualizzazione è in fondo un esercizio di laicità ma potrebbe diventare relativismo. Se è così, c’è qualcosa di contraddittorio e profondamente diseducativo nel minimizzare la blasfemia del premier. Ha senso - continua - invocare l’impegno di una nuova generazione di politici cattolici chiamati a fare la giustizia e a dare il buon esempio nel servizio alla comunità, e poi autorizzare volgarità e bestemmie a seconda dei contesti? Non c’è giustizia se non è accompagnata da un po’ di onestà, di coerenza personale e per i credenti non c’è carità senza verità".
Grazie, Rosy. E spero che siano in molti, anche preti e Vescovi, ad esprimerti la propria solidarietà, come donna e come credente adulta.
Rosy Bindi
“Indignata sono io sapevano bene chi candidavano. Che partito è?”
“Giudicheranno gli italiani chi usa le istituzioni per scopi politici
La mia storia parla da sola”
di Giovanna Casadio (la Repubblica, 30.05.2015)
ROMA «Indignati? Indignata sono io, io... Lo hanno candidato loro De Luca e sapevano chi era..., sta succedendo una roba fuori dal mondo, ma che Pd è diventato questo? ». Rosy Bindi è nel suo ufficio al quinto piano di Palazzo San Macuto, dopo la “bomba” di Vincenzo De Luca “bollato” come impresentabile. La presidente dell’Antimafia, la “pasionaria” dem, l’ex presidente del Pd eletta per acclamazione, l’antirenziana che ha sfidato la “rottamazione”( «Ma è la mia ultima legislatura»), lei, Bindi, è in trincea. Telefonano da Radio Radicale e le chiedono di tenere una diretta perché tra gli ascoltatori è «un trionfo». «No, no grazie», rifiuta. Ed è una nemesi davvero strana: essere attacca dai compagni di partito e difesa dai Radicali che la cattolica Bindi ha sempre avversato. Prova a scherzare, comunque. «Capisco che tra Carbone e l’inferno ci possono essere dei rapporti...». Carbone è Ernesto. È il renziano che la accusa per primo di avere piegato la commissione Antimafia a «vendette interne di corrente partitica». L’inferno di accuse è quello che la travolge.
Dicono che si è vendicata di Renzi. Che avere inserito De Luca tra gli impresentabili per un reato del 1998, che sarebbe stato già prescritto se l’ex sindaco di Salerno non avesse rinunciato alla prescrizione, che è stata quindi una sua vendetta politica.
Bindi s’inalbera: «Sono indignata io, certo, che qualcuno voglia con queste accuse senza fondamento delegittimare il lavoro di una istituzione. E la mia storia parla da sola. Non conosco l’uso a scopi personali o di parte delle istituzioni. Non mi appartiene e credo che lo sappiano tutti. Giudicheranno gli italiani chi usa le istituzioni per fini politici, ma certamente non sono io». Però lei ha tolto dal cilindro all’ultimo momento, e all’insaputa di tutti, il “caso” De Luca. Non poteva dirlo prima? Persino il capogruppo dem in commissione Antimafia ricostruisce la cosa così.
Pronta la replica: «Tutti sanno e sapevano tutto su De Luca. Da quanti giorni? E la fonte non era certo la commissione. Mi sbaglio o è stato il tema principale di questa campagna? Forse non erano note le posizioni di alcune persone che sono nella lista, ma De Luca è stato candidato con la totale conoscenza e consapevolezza della sua situazione. Cosa cambia da ora?» Cambia in effetti che c’è il bollino dell’Antimafia, che De Luca viene coinvolto in una lista di impresentabili, alcuni con sospetti di 416bis.
Ma Bindi insiste: «Dovevo usare due pesi e due misure? Io non intendo replicare e abbassarmi a interloquire ad accuse assurde». Ribadisce che la lista degli impresentabili («Parola che io non uso, qui si tratta di chi non è in regola con il codice») presentata alla vigilia delle elezioni regionali, non ha disturbato la campagna elettorale. Ma non altera così il voto di domenica? Sbotta: «Meglio dell’ultimo giorno, potrei dire. La verità è che tutti hanno fatto campagna liberamente e se la legge mi affida un compito di informare sulle qualità dei cittadini, quando avrei dovuto farlo? Dopo? Complimenti per il ragionamento».
Nel Pd di Renzi il clima è diventato tesissimo e lo scontro senza esclusione di colpi. Bindi, che ha marcato il suo dissenso persino non partecipando al voto di fiducia sull’Italicum, è a questo punto più vicina a lasciare il Pd di Renzi?
«E perché mai? - risponde - Non si possono confondere partito e istituzioni». L’ultimo invito lo rivolge ai cittadini perché vadano a votare: «Gli elettori sono in grado di decidere, il mio è un invito ad andare a votare. Agli italiani non manca certo l’intelligenza di fare delle scelte». Svicola alla domanda se voterebbe De Luca. La risposta del resto è nel fatto. «Io voterò in Toscana e sono contenta di farlo in una regione in cui non c’è un dato politico di questo genere». Un confronto con De Luca? Non se ne parla.
Troppi attacchi al papa così a Benedetto XVI manca uno spin doctor
di Marco Ansaldo (la Repubblica, 23 agosto 2010)
Quando il Papa è in viaggio all’estero, c’è un momento molto importante della giornata, addirittura centrale da un punto di vista mediatico. Si svolge immancabilmente all’alba, quando nella stanza d’albergo dove alloggia l’assistente del direttore della Sala stampa vaticana, il burbero ed efficientissimo Victor van Brantegem, avviene la distribuzione dei testi che il Santo Padre leggerà quel giorno.
Così fu anche la mattina del 12 settembre 2006, a Ratisbona, primo viaggio di Joseph Ratzinger nella sua Baviera come Benedetto XVI. Ma quella volta accadde qualcosa. Una volta pronunciata la sua lezione all’università, le agenzie di stampa rilanciarono il discorso puntando soprattutto su una citazione di Manuele II Paleologo, dalla quale poteva evincersi il messaggio che per il Papa cattolico l’Islam è una religione violenta, votata alla guerra santa. Una frase che estrapolata dal suo contesto ampio e articolato, 12 pagine fitte, scosse profondamente il mondo islamico che reagì indignato alla vigilia del viaggio seguente di Benedetto nella Turchia di fede musulmana. Eppure, otto ore prima che il testo venisse pronunciato, gli stessi giornalisti leggendolo mentre facevano colazione capirono che quella sola frase poteva dare adito a pericolosi fraintendimenti e risultare potenzialmente esplosiva. Segnalarono subito la cosa all’ufficio stampa papale, insistendo, ma nulla venne cambiato. E puntualmente una bufera internazionale si abbatté violenta e durissima sul Vaticano, con tanto di richieste di scuse al Pontefice da parte di alti esponenti religiosi islamici, sopite infine dalla geniale intuizione della preghiera comune del Papa di Roma con il Mufti di Istanbul nella Moschea Blu. Ma com’è possibile che a Ratisbona nessuno dello staff papale avesse avuto la prontezza di avvisare Benedetto dei rischi?
Un libro illuminante in proposito affronta non solo l’interessante ricostruzione di quell’incidente, ma tutta una serie di infortuni clamorosi e crisi mediatiche in cui il Vaticano si è trovato impigliato, soprattutto in quest’ultimo anno difficile per il Papa tedesco. Lo hanno scritto due fra i più preparati vaticanisti italiani, Paolo Rodari e Andrea Tornielli (Attacco a Ratzinger, editore Piemme). Ratisbona infatti fu solo il primo caso, a cui ne seguirono molti. Quello della nomina del vescovo polacco Wielgus, in odore di spionaggio; della scomunica revocata al prelato negazionista Williamson; delle parole in Africa sui preservativi destinati ad aumentare il problema dell’Aids; della difficile gestione dello scandalo sulla pedofilia nella Chiesa; fino all’inedito scontro fra cardinali, con l’attacco della rampante eminenza austriaca Schoenborn all’ex segretario di Stato vaticano Sodano.
Tutti questi infortuni destinati a intaccare gravemente l’immagine dell’istituzione cattolica e di chi la guida, sostengono i due autori, potrebbero invece essere sapientemente depotenziati da parte della Santa Sede. Basterebbe un accurato controllo preventivo e la possibilità successiva di applicarlo, come l’incidente di Ratisbona ha dimostrato e pure i casi seguenti, che Rodari e Tornielli analizzano uno per uno nelle loro complesse sfaccettature e nei brutali effetti successivi. La loro deflagrazione rivela piuttosto che la Gerarchia difetta - anche se ciò può sembrare strano - di una vera strategia comunicativa. Manca una regìa complessiva. E ci si limita, dopo, a tamponare le falle, a spegnere gli incendi, a disinnescare bombe già esplose. Le mansioni affidate all’attuale direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi, uomo di grandissima preparazione e abnegazione, e la sua stessa confidenza e accessibilità al Papa appaiono diverse da quelle del suo predecessore, Joaquim Navarro Valls, che con Karol Wojtyla aveva non solo un rapporto di consigliere, ma agiva come un vero e proprio spin doctor.
Una questione a cui la Santa Sede dovrà prestare molta attenzione. Perché come ha efficacemente spiegato ai due vaticanisti un autorevole porporato interno ai sacri palazzi, gli attacchi a Ratzinger si sono moltiplicati. «Attacchi di ogni tipo. Una volta si dice che il Papa si è espresso male, un’altra volta si parla di errore di comunicazione, un’altra ancora di un problema di coordinamento tra gli uffici curiali, un’altra di inadeguatezza di certi collaboratori. Vuole sapere la mia impressione? Non c’è una squadra che lo sostiene adeguatamente, che previene l’accadere di certi problemi, che riflette su come rispondere in modo efficace. Che cerca di far passare, di espandere l’autentico suo messaggio, spesso distorto. Così la domanda più frequente è diventata questa: a quando la prossima crisi?»
Lui e il Vaticano, questione di feeling
di Bruno Tinti (il Fatto Quotidiano, 3 luglio 2010)
Adesso si capisce un po’ meglio perché Vaticano e B&C vanno così d’accordo. In effetti un cattolico praticante e, per la verità, anche un laico raziocinante, avevano qualche difficoltà a capire come le più alte gerarchie della chiesa cattolica continuassero a gratificare B. della loro affettuosa solidarietà nonostante la figura morale dell’uomo fosse certamente abbietta. Probabilmente nei cattolici destava minor stupore il fatto che B, colpevole di gravi reati e assolto per prescrizione a seguito di una legge costruita da lui e nel suo personale interesse, venisse ciò non di meno ricevuto in Vaticano; in fondo di reati fiscali, societari, contro la pubblica amministrazione si trattava, il loro tasso d’immoralità poteva essere giudicato modesto da chi si occupa di anime e non di soldi (?).
Meno comprensibile poteva sembrare che le gerarchie ecclesiastiche continuassero ad avere rapporti cordiali con persona amica di imputati e condannati per mafia, chi in primo grado, chi in secondo, chi in via definitiva, e che aveva addirittura ospitato in casa sua un riconosciuto mafioso: ma insomma, che mafia e religione costituiscano un binomio pressoché inscindibile (basta osservare l’esibita ma sincera devozione dei mafiosi frequentatori abituali delle messe) è noto a tutti. Certamente incomprensibile e incoerente era però il permanere di ottimi rapporti con persona che si scopava puttane previamente convocate in allegri festini presso la residenza di governo, che frequentava senza apparenti ragioni istituzionali o semplicemente amicali una minorenne, che era, ohibò, divorziato e risposato civilmente, ragione per la quale a milioni di fedeli è rifiutato il sacramento della comunione. Questo proprio non si riusciva a capire.
Fino ad oggi, veramente, quando abbiamo scoperto che anche le alte gerarchie ecclesiastiche sono convinte che gli unti dal signore meritino l’impunità giudiziaria. Magistratura e polizia belghe indagano su atti di pedofilia commessi da ecclesiastici? Cercano le prove di questi disgustosi delitti? Eseguono perquisizioni e, chissà, intercettazioni telefoniche (lì si può, pare che sia considerata una cosa intelligente da fare se si vogliono scoprire reati e colpevoli)? Addirittura trovano documentazione comprovante le violenze sessuali commesse da ecclesiastici in danno di bambini? Perfino sequestrano questa documentazione? E come reagisce la chiesa belga? La commissione nominata dalla conferenza episcopale si dimette per protesta: perché le indagini le dovevano fare loro per primi; poi, in piena trasparenza, ne avrebbero comunicato i risultati a polizia e magistratura. Da morir dal ridere, se non fosse drammatico.
Ma questa è la chiesa belga, si dirà, intemperanze alla periferia dell’Impero; che c’entra il Vaticano? Eh, non è stato il Vaticano a esprimere stupore e sdegno per le indagini della polizia belga? E non è stato tale padre Federico Lombardi, portavoce del Vaticano, a sostenere che le condotte tenute dalla Chiesa “non hanno inteso e non hanno favorito alcuna copertura di tali delitti, ma anzi hanno messo in atto un’intensa attività per affrontare, giudicare e punire adeguatamente tali delitti nel quadro dell’ordinamento ecclesiastico”? E alla fine non è stato il Vaticano che ha presentato un ricorso alla Corte Suprema degli Stati Uniti sostenendo la sua immunità a fronte delle denunce delle vittime di tale Andrew Ronan, un prete pedofilo, come tale noto alla sua gerarchia, che però si era limitata a trasferirlo di sede in sede ogni volta che veniva denunciato? E, alla fine, non sono stati lo stesso Papa e il cardinale Bertone ad incazzarsi con la polizia e la magistratura belghe?
Così adesso si capisce perché c’è tanto feeling tra B. e il Vaticano. Sono tutti e due convinti di essere al di sopra della legge. Il Vaticano perché è unto dal Signore; e B. perché è unto dal popolo. È quest’originale battesimo che rende inapplicabile ai preti pedofili la giustizia secolare: i loro delitti saranno puniti “adeguatamente nel quadro dell’ordinamento ecclesiastico”. Il che comunque sarebbe sempre meglio (se davvero avvenisse, ma la storia di padre Ronan non autorizza molta fiducia) di quanto avviene nell’entourage di B&C, dove non solo non si “punisce” nessuno ma chi commette delitti fa carriera politica. Sarà perché in Italia manca una figura (per dire, vista l’impresentabilità di B&C, magari il presidente della Repubblica) che possa convincentemente affermare, come ha fatto il premier belga Yves Leterme: “Ciò che mi interessa, come primo ministro di questo paese, è che il potere giudiziario possa esprimersi in modo autonomo ed è proprio questo che sta succedendo. Le perquisizioni sono la prova che in questo paese c’è una separazione di poteri tra Stato e Chiesa e che il potere giudiziario può agire in modo autonomo”?
ASSASSINI
di don Aldo Antonelli
Siamo sotto una grandinata di bombardamenti senza sosta e senza misura e senza ritegno. Dalle prediche blasfeme di don Berlusconi alle false esecrazioni morali del Papa, passando per i comizi fascisti dell’onorevole Bagnasco.
A ruoli invertiti il puttaniere pluridivorziato fa omelie sull’amore e il papa che da cardinale per 24 anni, dal 1981 al 2005, ha visto passare sotto le sue mani tutti i casi gravi di devianza sessuale commessi da sacerdoti senza che movesse un dito. E’ sua la lettera solenne del maggio 2001 (Epistula de delictis gravioribus) che poneva sotto segreto pontificio tali delitti.
Il Falso per antonomasia e il falsificatore di professione fonda il Movimento dei Missionari della Verità e il cardinale chiude gli occhi e allunga la mano per benedire. Anzi allunga tutte e due le mani: una per prendere e l’altra per benedire.
Da ladri professionisti ben si intendono: ambedue ladri di cosciena e di buona fede. Ladri di libertà e di dignità.
C’è un tribunale inte rnazionale cui deferirli?
L’uno con il suo sorriso a gremagliera e l’altro con il pastorale a mò di scimitarra!
Il primo che rifonda il Fascismo del nuovo millennio e il secondo che riscrive il Sillabo in lingua moderna.
Ambedue ladri e ambedue assassini: uccisori di democrazia e affossatori del Concilio.
Disobbedir loro è ormai un dovere morale, urgente e improcrastinabile.
Aldo Antonelli parroco
I PASTORI SI MANGIANO LE PECORE? E’ "UN FENOMENO RIDOTTO"!!!
IL PESCE VIVO, IL PESCE FRITTO E IL PONTEFICE MASSIMO (Giovenale, IV Satira).
SMS: “E’ vero che non si può accusare Berlusconi di abigeato (furto di bestiame) come titola Il Giornale. Ma è perché si è già portato via tutte le pecore”.
Regime, scene di un crollo
di Furio Colombo (il Fatto, 17.03.2010)
Un giorno qualcuno potrà dividere il regime Berlusconi (finora quindici anni ininterrotti) in tre periodi: quello del finto innocente, della negazione risoluta davanti ai fatti. Chi, io? ma io mi dimetterei immediatamente se fosse vero; quello in cui comincia lui e poi si guarda intorno smarrito come nel gioco “lo schiaffo del soldato”; quello della rivendicazione del fatto (o reato) compiuto come di un naturale e legittimo diritto. E la violenta denuncia: “Ci dobbiamo difendere”.
Ho detto “quindicennio ininterrotto” del regime Berlusconi nonostante due periodi (uno molto breve) di governo del centrosinistra a causa di due trovate di Berlusconi che spero gli storici non trascureranno. Il primo è di agire, in democrazia, con la trovata di sospendere la democrazia nel suo partito. Ciò gli dà uno spazio di libertà (a parte i soldi, a parte il conflitto di interessi) che i suoi avversari, appesantiti dalla necessità del consenso, non possono fronteggiare. Il secondo è di non governare mai e di fare opposizione, anzi campagna elettorale sempre. Per farlo deve arrecare danno - e lo fa - alla Repubblica. Il danno più grave è portarsi via - forse solo a causa del suo fascino leaderistico - potenti funzionari dello Stato, guardiani delle garanzie, verificatori e tutori della legalità, notai della vita istituzionale e della vita pubblica. Clamoroso è il caso dell’Autorità delle Comunicazioni.
Comincia il crollo del regime. Si vedono ovunque nel Pdl crepe, lacerazioni, perdite di rispetto. Le barzellette rimbalzano tra sms ed e-mail, tra l’Italia e il mondo. Quella che trovate oggi sul telefonino spiega: “E’ vero che non si può accusare Berlusconi di abigeato (furto di bestiame) come titola Il Giornale. Ma è perché si è già portato via tutte le pecore”.
Il fatto è che sta facendo crollare la Repubblica e con lui cadono nel vuoto i lavoratori senza fabbrica, i precari senza contratto, le aziende svendute senza padrone. Ma con lui cominciano a cadere anche pezzi importanti delle Istituzioni repubblicane. Per ogni regola è stato legiferato uno strappo. Per ogni strappo ci vuole un garante a rovescio. Un garante della illegalità. Sarà una lista lunga e un danno immenso.
STATO E CHIESA: UN’ALLEANZA A LUCI ROSSE. LA CHIESA CATTOLICO-ROMANA, LA MISOGINIA, E LA MISURA DELLA ILLEGALITA’. Una nota di Marie-Thérèse Van Lunen Chenu, seguita da una riflessione di Franco (Bifo) Berardi sulla classe dirigente del semiocapitalismo barocco.
La Chiesa e la misoginia
di Marie-Thérèse Van Lunen Chenu
in “www.temoignagechretien.fr” del 24 marzo 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)
L’ondata di notizie su ripetuti casi di pedofilia nella Chiesa cattolica ha suscitato molti commenti che portano in ritorno delle valutazioni interessanti. Vi si legge che una prima messa in discussione del celibato obbligatorio per i preti trova ora degli ardenti oppositori, mentre restano stigmatizzate la frequente immaturità della scelta di vita da parte di persone troppo giovani, una formazione rimasta a lungo inadeguata nei seminari, la mancanza di relazioni con il mondo femminile, l’autoritarismo, la cultura del segreto e della negazione nell’istituzione ecclesiale.
Mi stupisco tuttavia che il dibattito non sia ancora stato allargato fino a prendere in considerazione il problema sempre più sensibile della marginalizzazione - se non dell’eliminazione - delle donne nelle strutture dell’istituzione romana. E che i commentatori neppure abbiano affrontato un problema di fondo: la natura della testardaggine con cui Roma si impegna nella difesa del primato del sesso maschile.
Quali sono allora le cause e gli effetti di questo attaccamento eccezionale dell’istituzione romana ad un primato del sesso maschile, fino a giungere alla sua vera “sacralizzazione” nel clericalismo? Una critica che potremmo definire “pastorale” (venuta proprio dall’interno della Chiesa) si è unita, almeno da un decennio, ad una prima analisi femminista che smaschera quel gioco semantico che si ostina a chiamare “servizio” ciò che, scelto ed esercitato spesso con la più grande generosità personale, resta tuttavia un monopolio ed un potere.
Ci si chiede allora come questo servizio ultimo della “rappresentazione di Cristo per compiere l’eucarestia”, quel potere-servire che si declina solo al maschile, non influenzi l’identità clericale e, per ciò stesso, l’idealizzazione e il carattere di rifugio che dei giovani possono investirvi? E sembra ingenuo stupirsi che alcuni di loro siano tentati di sfuggire, con questa scelta, ad una identificazione sessuata esigente.
La mia riflessione va quindi più in là rispetto al deplorare ciò che pudicamente viene chiamato “difficoltà a vivere la castità”. Parlo qui delle turbe del comportamento che possono essere legate ad una difficoltà non risolta dell’identificazione personale. Essere capaci di identificarsi come un essere maschile significa poter accettare il “di fronte” di una uguale partner femminile. E sostengo che l’idealizzazione del primato maschile, la sua canonizzazione in qualche modo, e la giustificazione permanente che ne viene fatta attraverso il rifiuto della competenza e dell’autorità delle donne, possono turbare il processo di identificazione maschile e arrivare talvolta ad influenzare una scelta per il presbiterato o la vita religiosa.
In fondo, le cause sarebbero ben più imbricate di quanto non si pensi tra la proibizione fatta alle donne di accedere al ministero sacerdotale e l’obbligo del celibato per il prete maschio. Sono radici profonde e tenebrose che si intrecciano tra denigrazione della sessualità, marginalizzazione delle donne, primato accordato al sesso maschile, sacralizzazione del sacerdozio, rapporto sclerotico alla tradizione e questo governo autoritario, clericale e monosessuato.
Così, che ci si ponga all’interno o all’esterno dell’istituzione, la crisi attuale designa come una sfida insieme ecclesiale e sociale la necessità di un vero dibattito e di cambiamenti la cui importanza non si limiterà al solo campo religioso. Infatti la Chiesa cattolica è in ritardo sulla società per mettere in atto questi cambiamenti che ormai vengono definiti “umani”: nell’identificare e curare le cause di una valutazione negativa della sessualità, le è necessario, al contempo, affrontare il suo rapporto con la sessuazione.
Chi dice “sessuazione” riconosce evidentemente la bi-sessuazione fondamentale dell’umanità. Con quali mezzi allora far comprendere che l’istituzione si è sclerotizzata e si esaurisce in un approccio maschile della femminilità, proprio al contrario rispetto a quello che fu l’atteggiamento di Cristo verso le donne? Non è “la questione delle donne nella Chiesa” che fa problema, come si sente dire con leggerezza..., è quella di una Chiesa autoritaria che difende il suo primato clericale maschile e rifiuta un confronto pieno con una buona metà dei suoi membri.
Si tratta qui di una mancanza strutturale legata, più di quanto non faccia pensare una prima apparenza, agli scandali attuali. Ci si chiede fino a quando Roma penserà di poter attenuare tali scandali con delle scuse pubbliche ed una vergogna manifestata “a nome di tutta la Chiesa”? E fino a quando le donne, che sono state più spesso cuoche che consigliere nei seminari, non esprimeranno pubblicamente il loro disaccordo?
Molte di loro sono già, di fatto, unitamente a degli uomini anch’essi consapevoli delle riforme necessarie, se non in rottura pastorale, almeno in rottura di coscienza con l’istituzione... Accettare in maniera riconoscente e responsabile la sessuazione, la sessualità, e quindi le donne di oggi come vere partner, suppone insieme un lavoro pluridisciplinare ed un ampio dibattito di società e di Chiesa.
Teologia ed ecclesiologia sono interpellate: che cosa abbiamo fatte per perdere la capacità profetica del messaggio cristiano, che testimoniava il principio del rispetto delle donne in un’epoca di misoginia sociale, ma che resta ridotto al silenzio dalla sua contro-testimonianza di sessismo ecclesiale nell’oggi di parità sociale?
La sfida è importante per il cattolicesimo, se vuole conservare il suo posto in seno al cristianesimo e la sua credibilità “umana”. Certi cristiani, e in maggior numero certe cristiane, sperano ancora che la gravità attuale delle accuse e delle messe in discussione possa diventare un punto a cui far riferimento per una conversione profonda del cattolicesimo romano.
*Marie-Thérèse van Lunen Chenu è membro di “Femmes et Hommes en Église” e di “Genre en christianisme”
di Franco (Bifo) Berardi (il manifesto, 27 marzo 2010)
Negli ultimi mesi la protesta contro il regime berlusconiano ha raggiunto toni quasi patetici. Si parla di crisi del berlusconismo come per esorcizzare la realtà di una perfetta corrispondenza tra la corruzione del ceto politico-imprenditoriale e il cinismo diffuso nella società. Ma la crisi dove sarebbe? L’escalation di arroganza non è segno di una crisi, direi, ma del suo contrario: è segno della stabilizzazione di un sistema che non ha più bisogno di legge perché basta la legge del più forte per regolare le relazioni di precarietà, sfruttamento e schiavismo nel campo del lavoro e della vita quotidiana.
Quanto più evidente è il disprezzo del ceto al potere per la legge e le regole, tanto più la protesta si concentra sulla difesa della legalità. Il problema è che la legge e le regole non valgono niente quando non esiste la forza per renderle operanti. E dove sta la forza, cos’è la forza in un sistema centrato sulla produzione mediatica della coscienza? Nel discorso corrente quel che accade in questo paese è visto come una bizzarra forma di corruzione dello spirito pubblico, come una singolare e isolata sospensione della democrazia. Allo stesso modo gli inglesi guardarono agli italiani dopo la prima guerra mondiale, e le democrazie occidentali interpretarono Mussolini: un fenomeno di marginale arretratezza culturale, o piuttosto un’anomalia culturale. Poi l’esempio di Mussolini produsse effetti su larga scala, fino a precipitare il mondo nella più grande carneficina della storia.
Tra riforma e controriforma
Forse occorrerebbe smetterla di considerare il caso italiano come un’anomalia: al contrario è l’esempio estremo degli effetti prodotti dalla deregulation, fenomeno mondiale che distrugge prima di tutto ogni regola nel rapporto tra lavoro e capitale. Vi è certamente una specificità culturale italiana che merita di essere studiata capita, approfondita. Ma grazie a Mussolini e a Berlusconi questa specificità ha finito per esprimersi come forma anticipatrice del destino del mondo.
Nel libro Vuelta de Siglo (Mexico city, Era editorial, 2006) il filosofo messicano Bolivar Echeverria parla di due modernità che configgono e si intrecciano fin dall’inizio del sedicesimo secolo. La prima è la modernità borghese fondata sulla morale protestante e sulla territorializzazione delle cose mondane e del dovere industriale. L’altra è modellata dalla Controriforma e dalla sensibilità del Barocco. Questa seconda modernità è stata rimossa e marginalizzata nello spirito pubblico dell’Occidente capitalista a partire dal momento in cui l’industrializzazione dell’ambiente umano ha richiesto una riduzione del sociale al processo di meccanizzazione. La vita della borghesia industriale è basata sulla severa dedizione al lavoro instancabile e sull’affezione proprietaria ai prodotti del lavoro. La borghesia è una classe territorializzata perché l’accumulazione di valore non può essere dissociata dall’espansione del mondo delle cose fisiche. Non esiste più la borghesia perché la produzione non si svolge più nel borgo, ma nella rete, e la ricchezza non si fonda più sulla proprietà di oggetti fisici, ma sulla deterritorializzazione finanziaria.
Echeverria osserva che fin dal sedicesimo secolo la Chiesa Cattolica ha creato un flusso alternativo di modernità, fondato sulle competenze immateriali dell’immaginazione e sulle potenze della deterritorializzazione linguistica e immaginativa. Il potere spirituale di Roma è sempre stato fondato sul controllo delle menti: questo è il suo capitale, fin quando la sua potenza venne marginalizzata dalla borghesia industriale.
La fonte dell’accumulazione
Ma quando le immagini, non più semplici rappresentazioni della realtà, divengono simulazione e stimolazione psico-fisica, i segni divengono la merce universale, oggetto principale della valorizzazione di capitale. Se l’economia borghese territorializzata era fondata sulla severità iconoclasta del ferro e dell’acciaio, la deterritorializzazione post-moderna è fondata invece sulla macchina caleidoscopica della produzione semiotica. Questa è la ragione per cui possiamo parlare di semiocapitalismo: perché le merci che circolano nel mondo economico - informazione, finanza, immaginario - sono segni, numeri, immagini, proiezioni, aspettative. Il linguaggio non è più uno strumento di rappresentazione del processo economico e vitale, ma diviene fonte principale di accumulazione, che continuamente deterritorializza il campo dello scambio.
La dinamica di progresso e crescita, nata dallo spazio fisico territoriale della fabbrica, ha obbligato le due classi fondamentali dell’epoca industriale, classe operaia e borghesia, al rispetto delle regole politiche e contrattuali. La morale protestante delle regole fonda la contrattazione collettiva e la funzione sociale dello stato.
A partire dagli anni ’70 la relazione tra capitale e lavoro è stata trasformata, grazie alla tecnologia digitale e alla deregulation del mercato del lavoro. Un effetto enorme di deterritorializzazione ne è seguita, e il modello borghese è stato spazzato via, insieme alla vecchia coscienza di classe operaia. La finanziarizzazione dell’economia globale ha eroso l’identificazione borghese di ricchezza proprietà fisica e lavoro territoriale. Quando il lavoro perde la sua forma meccanica e diviene immateriale, linguistico, affettivo, la relazione deterministica tra tempo e valore si rompe. La genesi del valore entra in una fase di indeterminazione e di incertezza. La via è aperta verso un prevalere di una visione neo barocca, e all’istaurazione di una logica aleatoria nel cuore stesso dell’economia. Quando il linguaggio diviene il campo generale della produzione quando la relazione matematica tra tempo-lavoro e valore è rotta, quando la deregulation distrugge tutte le garanzie, solo un comportamento di sopraffazione criminale può prevalere.
La violenza della deregulation
Questo è accaduto, in tutto il mondo non solo in Italia dal momento in cui le politiche neoliberiste hanno occupato la scena. Il principio della scuola neoliberale, la deregulation che ha distrutto i limiti legali e politici all’espansione capitalista non può intendersi come un mutamento puramente politico. Occorre vederlo nel contesto dell’evoluzione tecnologica e culturale che ha spostato il processo di valorizzazione dalla sfera della meccanica industriale al campo della produzione semiotica.
Il lavoro cognitivo non si può ridurre alla misura del tempo dato che il rapporto tra lavoro tempo e valorizzazione diviene incerto, indeterminabile. Il mercato del lavoro globale diviene il luogo della pura legge della violenza, della sopraffazione. Non si tratta più di semplice sfruttamento, ma di schiavismo, di violenza pura contro la nuda vita, contro il corpo indifeso dei lavoratori di tutto il mondo. La violenza è diventata la forza economica prevalente nell’epoca neoliberista. In Messico come in Italia come in Russia come in molti altri paesi il mercato finanziario, il mediascape e il potere politico sono nelle mani di persone che hanno ottenuto il loro potere con l’illegalità e con la violenza. Per non parlare del ruolo che corporation come Halliburton e Blackwater hanno svolto e svolgono nel provocare guerre e nel distruggere vite e città perché questo è il loro lavoro, perché il loro business ha bisogno della guerra per prosperare. La violenza è la forza regolatrice dell’economia semiocapitalista, perchiò non é contrastabile con i richiami alla legalità e alla moralità.
Come cento anni fa littlie è l’avanguardia del capitalismo non protestante e la seconda modernità di Echeverria, che si presentò per alcuni secoli come pura reazione antimoderna emerge oggi come principio fondativo del capitalismo mondiale. L’esperienza italiana durante gli ultimi cento anni è stato il teatro principale di questo ritorno dello spirito barocco. Le performance di Mussolini e di Berlusconi sono fondate entrambe sulla esibizione teatrale dell’energia maschile, ma anche sulla capacità di penetrare nei recessi del linguaggio nel campo profondo dell’autopercezione collettiva.
Curzio Malaparte, in un libro intitolato L’Europa vivente, ragionava su questo punto: il fascismo raccoglie l’eredità della Controriforma e dello spirito barocco, e la trasforma in un’energia che è al tempo stesso anti-moderna e neo-moderna. «Noi saremo grandi anche senza passare con un ritardo di tre secoli attraverso la Riforma: saremo grandi anzi unicamente contro la Riforma. La nuova potenza dello spirito italiano che già si manifesta per chiari segni non potrà essere se non antieuropea».
Sul corpo delle donne
Malaparte è ben consapevole - come lo erano stati i futuristi - del fatto che la modernità che il fascismo afferma è fondata sulla rimozione della femminilità. Il fascismo è sessualità che aborrisce e teme la sensualità. «Soffrire è necessario per vivere. La gloria e la libertà costano sangue, e soffrire bisogna per vivere con superbia e dignità fra superbi. Chi non riconosce questa verità fondamentale della vita umana si condanna alla bestialità. Chi predica l’odio alla sofferenza, chi predica alegge del paradiso e non quella dell’inferno (i socialisti) nega tutto ciò che di grande ha in sé un uomo, cioè tutto quello che un uomo ha in sé di umano. Un’umanità epicurea, paradisiaca, è anticristiana e antiumana» (Malaparte, L’Europa vivente).
La femminilità dell’autopercezione italiana è in gioco, nel caso di Mussolini come nel caso di Berlusconi. Mussolini e i giovani futuristi del 1909 volevano sottomettere disprezzandolo il corpo della donna (e il corpo sociale in quanto sottomesso e femminile). Berlusconi e la classe di lunpen che lo circonda vuole sporcare il corpo della donna, sottometterlo all’autodisprezzo cinico, sentimento prevalente e vincente della classe dirigente del semiocapitalismo barocco.
Le regole che i legalisti rivendicano sono decaduti nella cultura e nel lavoro. Occorre liberare la società dal legalismo, perché la società cominci a non rispettare le regole del semiocapitale, a essere autonoma nella post-legalità che il Semiocapitale ha istituito. Ciò che occorre alla società è la forza per non rispettare le regole non scritte che il capitalismo ha imposto, e per affermare un altro modo di vita, una nuova solidarietà del lavoro. Allora, nel campo senza regole del semiocapitalismo, la società potrà affermare i suoi bisogni e soprattutto le sue potenzialità. Difendere la legge diviene un lavoro risibile, quando il potere dichiara ogni giorno nei fatti che quelle regole non contano più niente. Solo a partire dall’abbandono di ogni illusione legalista sarà possible creare autonomia sociale, essere all’altezza (o se si preferisce alla bassezza) della sfida che il semiocapitale ha lanciato.
Se il «padrone» chiede 200mila euro
di Silvia Ballestra *
Eccomi qui: io, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e 200.000 euro che ci dividono. Il prezzo (richiesto) dell’intimidazione che l’uomo più ricco e potente d’Italia lancia a una scrittrice che vive soltanto del suo lavoro, proprietaria soltanto delle sue opinioni e padrona di scriverle su un giornale indipendente. Uno dei pochi giornali che Silvio Berlusconi non può comprare, né controllare, e che per questo tenta di uccidere.
Duecentomila euro, cifra spaventosa. Undici anni di lavoro di un italiano medio, e per me pure di più. Un paio di settimane di Ronaldinho. Cento notti di lavoro (duro lavoro, aggiungo) di Patrizia D’Addario (secondo quanto da lei dichiarato e pagati dall’imprenditore Tarantini, questo lo aggiungo per gli avvocati). Trentatré virgola tre periodico ciondoli come quelli regalati alla giovane Noemi Letizia dal padrone di tutto che lei chiama papi. Quattro o cinque spot sulle sue reti in serata di grande audience e quindi di subcultura deleteria per il Paese. Quasi un terzo dei soldi gentilmente donati all’avvocato Mills dall’imprenditore Berlusconi in cambio di testimonianze compiacenti, secondo una sentenza di primo grado del Tribunale di Milano.
Duecentomila euro. Un sacco di soldi, troppi, per una persona normale. Il tutto, per aver espresso delle opinioni. Non male per uno che ha tutto e che - nessuno lo nota mai, ma è proprio così - è pagato nelle sue funzioni anche con i miei soldi. Che vola su voli di Stato (anche) a mie spese. Che dovrebbe lavorare (anche) al mio servizio di cittadina. Che dovrebbe fare (anche) i miei interessi. Un pubblico ufficiale, un incaricato di pubblico servizio, il Presidente del Consiglio dei ministri di cui non sono per nulla, ma proprio zero, soddisfatta. Incredibile che io possa dire questo di un capo della Azienda sanitaria locale, di un funzionario comunale, di un travet qualunque, e non del signore che (purtroppo) governa il nostro Paese e le nostre vite. Da troppo tempo. Ecco, ho pensato tutto questo. E poi ho pensato anche: non li ho 200.000 euro. Peccato.
* l’Unità, 04 settembre 2009
Messaggi di solidarietà per l’Unità
Migliaia di persone ci hanno scritto chiedendoci cosa possono fare per sostenere l’Unità, oggetto di una campagna di intimidazione da parte di Silvio Berlusconi. Come sapete siamo da mesi oggetto da parte sua di insulti, attacchi personali ai nostri giornalisti, denigrazione pubblica.
Il premier ha invitato gli imprenditori a non fare pubblicità sul nostro giornale. I lettori ci hanno proposto di avviare una raccolta di fondi, sono pronti a versare denaro per sostenere le spese legali. Non c’è bisogno di questo. C’è bisogno di diffondere il giornale e di farlo conoscere ogni giorno di più: sarà questo il nostro antidoto. La forza dei fatti, la libera circolazione delle opinioni.
Così abbiamo lavorato ieri, forti della vostra sollecitazione, a preparare nella versione on line una nuova e semplicissima modalità di sostegno: abbonarsi. Grazie a tutti voi
* l’Unità, 05 settembre 2009
Nessuno comprerà le nostre parole
di Maria Novella Oppo *
Mi sto montando la testa. A parte il merito e il demerito delle accuse che Silvio Berlusconi rivolge a me e alle altre compagne dell’Unità tramite il suo avvocato Fabio Lepri (notevole scrittore porno), non posso fare a meno di sorprendermi per il valore che il capo del governo attribuisce alle mie modestissime parole. Nell’atto di citazione, in particolare, è riportato un brevissimo brano di mio pugno, praticamente questo: «Qualcuno poteva pensare che il governo cercasse almeno di nascondere lo scandaloso conflitto di interessi del boss. Invece no, Berlusconi spinge la Rai contro Murdoch, perché si rompa le corna. Due nemici colpiti al costo di uno. Costo che naturalmente è pagato dagli italiani».
Ora, per queste scarse (da ogni punto di vista) paroline, l’uomo più ricco d’Italia pretenderebbe da me ben 200.000 euro, praticamente 5000 euro a parola. Tralasciando il costo delle sillabe perché la matematica non è il mio forte. Francamente, se le parole sono pietre, d’ora in avanti mi vanterò che le mie sono pietre preziose. E ringrazio Berlusconi per avermelo fatto scoprire. Anche se, questa valutazione monetaria delle singole sillabe lui deve averla praticata fin da piccolo, quando vendeva i compiti ai compagni di scuola. Ma io, essendomi sempre limitata a credere che le parole valgono per la verità che possono contenere, scopro adesso di essere miliardaria di parole e di verità. Senza che lui possa farci niente, visto che neppure uno dei suoi miliardi può comprare una delle mie parole.
E così, per la prima volta nella vita, mi sento talmente più ricca di lui, che mi suscita perfino una certa pena. Poveretto. Costretto a pagare ogni sillaba dei suoi portavoce, portaborse e porta a casa Lassie, crede di valutare allo stesso modo tutto. Si sbaglia di grosso: sappia che le mie, le nostre parole costano care e lui non se le può permettere. E anche ammesso che ci sia un giudice disposto a dargli ragione, non avrà mai i miei soldi. Intanto perché non ce li ho. E poi perché sarei disposta a versare una lira nelle sue mani solo se fosse l’uomo più povero d’Italia e me la chiedesse in elemosina all’angolo della strada.
* l’Unità, 04 settembre 2009
MAPPE. Sul condom solo due su dieci d’accordo con Ratzinger
L’80% dice sì a testamento biologico e fecondazione assistita
Biotestamento e preservativo gli italiani bocciano il Papa
Nonostante le singole divergenze quasi il 55% si fida del Pontefice
di ILVO DIAMANTI *
Da tempo le posizioni della Chiesa e del Pontefice non provocavano tanto dibattito. Divisioni profonde. Al di là delle stesse intenzioni del Vaticano. Lo prova la reazione del cardinale Angelo Bagnasco, Presidente della Cei, alle polemiche sollevate dall’affermazione del Papa, durante la visita in Africa, circa l’inutilità del preservativo nella lotta contro l’Aids. Il risentimento del cardinale, peraltro, sembra rivolgersi soprattutto verso la Francia, il cui governo ha ribadito ieri le proprie critiche. Marc Lazar, d’altra parte, sulla Repubblica, ha posto l’accento sulla timidezza, quasi l’imbarazzo dei commenti politici in Italia su questi argomenti. Non solo nel centrodestra, anche nel centrosinistra. Peraltro, in Italia, più che in Francia e negli altri paesi europei, il rapporto con la Chiesa e con l’identità cattolica è importante. Ma anche ambivalente.
In ambito politico ma prima ancora nella società, come emerge dagli orientamenti verso le questioni etiche e bioetiche più discusse. A partire dalla più recente: l’affermazione del Papa sull’uso del preservativo. Trova d’accordo una minoranza ridotta di persone, in Italia. Circa 2 su 10, secondo un sondaggio di Demos, condotto nei giorni scorsi. Che salgono a 3 fra i cattolici praticanti più assidui. La posizione politica non modifica questa opinione in modo sostanziale. Il disaccordo con il Papa, in questo caso, resta largo, da sinistra a destra. D’altra parte, lo stesso orientamento emerge su altri argomenti "eticamente sensibili". Circa 8 italiani su 10 ritengono giusto riconoscere alle persone il diritto di scrivere il proprio "testamento biologico", altrettanti si dicono favorevoli alla fecondazione assistita, 6 su 10 sono contrari a rivedere in senso restrittivo l’attuale legge sull’aborto. Pochi meno, infine, sono d’accordo a riconoscere alle coppie di fatto gli stessi diritti di quelle sposate. Con la parziale eccezione delle coppie di fatto, le posizioni dei cattolici praticanti, anche in questi casi, non divergono da quelle prevalenti nella società. Mentre le opinioni dei praticanti saltuari, la grande maggioranza della popolazione, coincidono con la "media sociale".
Ciò potrebbe rafforzare il dubbio sulle ragioni che ispirano la timidezza delle forze politiche in Italia, visto che gran parte dei cittadini, compresi i cattolici, mostrano distacco e perfino dissenso verso le indicazioni della Chiesa. Tuttavia, occorre considerare un altro aspetto, altrettanto significativo e in apparenza contrastante. In Italia, nonostante tutto, la grande maggioranza dei cittadini - quasi il 60% - continua ad esprimere fiducia nella Chiesa. Non solo: il giudizio su Papa Benedetto XVI non è cambiato, in questa fase. Il 55% delle persone mostra fiducia nei suoi confronti. Qualcosa di più rispetto a un anno fa. Il che ripropone il contrappunto emerso in altre occasioni. Gli italiani, cioè, continuano a fidarsi della Chiesa, dei sacerdoti, delle gerarchie vaticane. Ne ascoltano le indicazioni e i messaggi. Anche se poi pensano e agiscono di testa propria. In modo diverso e spesso divergente. Si è parlato, al proposito, di una religiosità prêtàporter. Di un "dio relativo". Interpretato e usato su misura. Ma si tratta di un giudizio riduttivo. Il fatto è che la Chiesa, il Papa intervengono sui temi sensibili dell’etica pubblica e privata in modo aperto e diretto. Offrono risposte magari discutibili e spesso discusse. Contestate da sinistra, sui temi della bioetica. Ma, in altri casi, come sulla pace e sull’immigrazione, anche da destra. Tuttavia, offrono "certezze" a una società insicura. Alla ricerca di riferimenti e di valori. Per questo quasi 8 italiani su 10, tra i non praticanti, considerano importante dare ai figli un’educazione cattolica (Demos-Eurisko, febbraio 2007). Mentre una larghissima maggioranza delle famiglie destina l’8 per mille del proprio reddito alla Chiesa cattolica.
Sorprende, semmai, che, su alcuni temi etici, le posizioni politiche facciano emergere differenze maggiori rispetto alla pratica religiosa. Le opinioni degli elettori della Lega, sulle coppie di fatto, quelle degli elettori del PdL, sull’aborto, appaiono più restrittive rispetto a quelle dei cattolici praticanti. Il che ripropone una questione mai del tutto risolta. In che misura sia la Chiesa a condizionare le scelte politiche e non viceversa: la politica a usare le questioni etiche per produrre e allargare le divisioni fra gli elettori. Caricando posizioni politiche di significato religioso.
Peraltro, questi orientamenti ripropongono un’altra questione, che riguarda direttamente il messaggio della Chiesa. Che gli italiani considerano una bussola importante per orientarsi, in tempi tanto difficili. Tuttavia, quando una bussola dà indicazioni così lontane e diverse dal senso comune, dalle pratiche della vita quotidiana. E puntualmente disattese. Dai non credenti, ma anche dai credenti e dagli stessi fedeli. Allora può darsi che la bussola possa avere qualche problema di regolazione.
* la Repubblica, 25 marzo 2009
Nella prolusione del presidente al Consiglio Cei durissima risposta alle critiche
E nuovi moniti su fine vita a Hiv: "Sul preservativo polemica che non aveva ragione di essere"
Cei, Bagnasco al contrattacco
"Contro il Papa offese inaccettabili"
di ORAZIO LA ROCCA
CITTA’ DEL VATICANO - "Disappunto" e richiami severi per quanti - "in Italia e all’estero" - nei giorni scorsi hanno criticato Benedetto XVI per il caso del vescovo negazionista della Shoah, monsignor Richard Williamson, uno dei 4 presuli lefebvriani ai quali il pontefice ha tolto la scomunica; critiche altrettanto severe per le polemiche esplose - "specialmente nei paesi occidentali" - sul riferimento all’"inutilità" dell’uso del preservativo per la lotta all’Aids fatta dal Papa la settimana scorsa all’inizio del viaggio in Africa e per gli "attacchi" alla Chiesa sul recente caso di Eluana Englaro.
Difesa a tutto campo di papa Ratzinger e delle opzioni morali della Chiesa cattolica da parte di Angelo Bagnasco, il cardinale presidente della Cei (Conferenza episcopale italiana), ieri pomeriggio, all’apertura del Consiglio permanente Cei, sorta di "governo" vescovile della Chiesa italiana. Nella sua prolusione, il porporato ha toccato i tre principali argomenti che negli ultimi tempi hanno costretto le gerarchie cattoliche a respingere "attacchi, richiami e polemiche pretestuose", vale a dire il caso Williamson, la vicenda Englaro e critiche piovute sulla Chiesa per l’uso del condom per combattere l’Hiv. Senza, tuttavia, dimenticare di fare un riferimento - in verità, piuttosto breve - anche ai problemi legati all’attuale recessione economica nazionale ed internazionale per la quale Bagnasco ha invitato "le istituzioni preposte" a varare provvedimenti in difesa dei soggetti più deboli, "in particolare le famiglie in difficoltà".
In apertura dei lavori, svolti nella sede della Cei vicino a piazza Irnerio, a Roma, davanti ai 30 vescovi "ministri", membri del Consiglio permanente, il cardinale Bagnasco ha subito difeso senza tentennamenti la figura del Papa "dagli attacchi ricevuti a proposito del caso Williamson". Una vicenda - è il monito del presidente della Cei - che "di certo si è prolungato, oltre ogni buon senso", a causa di "un lavorio di critica dall’Italia e soprattutto dall’estero nei riguardi del nostro amatissimo Papa" che "imponderabilmente si è andato a sovrapporre alla remissione della scomunica dei 4 vescovi consacrati da monsignor Lefebvre nel 1988".
Sul vescovo negazionista, ricorda Bagnasco, "ci siamo già espressi", in termini di severa condanna. "Nessuno, tuttavia, poteva aspettarsi che le polemiche sarebbero proseguite, e - nota il presidente Cei - in maniera tanto pretestuosa, fino a con vero e proprio disagio cui ha inteso porre un punto fermo lo steso Pontefice nell’ammirevole Lettera del 10 marzo 2009". Un testo che, a parere del cardinale, "ha fatto emergere come per contrasto (alle polemiche - ndr) il candore di chi non ha nulla da nascondere circa le proprie concrete reali intenzioni, le motivazioni concrete delle proprie scelte, la coerenza di una vita vissuta unicamente all’insegna del servizio più trasparente alla Chiesa di Cristo".
"Con ferma e concreta convinzione facciamo nostro l’appello alla riconciliazione genuina e disarmata cui al Lettera papale sollecita all’intera Chiesa", scrive ancora Bagnasco in riferimento alle 4 scomuniche cancellate, augurandosi, però, che "non si perpetuino letture volte a far dire al Papa ciò che egli con tutta evidenza non dice. Che è un modo discutibilissimo, persino un po’ insolente, per costruirsi una posizione distinta dal corretto agire ecclesiale", con evidente riferimento anche a quei vescovi, cardinali e semplici sacerdoti che si sono uniti, anche sommessamente, alle critiche antiratzingeriane.
Con altrettanta vis polemica il cardinale respinge gli attacchi a cui è stato sottoposto Benedetto XVI all’inizio del viaggio africano - concluso proprio ieri dopo la visita in Angola -, un pellegrinaggio che "fin dall’inizio è stato sovrastato nell’attenzione degli occidentali da una polemica, sui preservativi, che - lamenta il porporato - francamente non aveva ragione d’essere. Non a caso sui media africani non si è riscontrato alcun autonomo interesse...". Tuttavia, scrive nella prolusione, "nella circostanza non ci si è limitati ad un libero dissenso, ma si è arrivati ad un ostracismo che esula dagli stessi canoni laici. L’irrisione e la volgarità tuttavia non potranno mai far parte del linguaggio civile e fatalmente ricadono su chi li pratica".
Sulla lotta all’Aids, fa capire Bagnasco, il Papa ha semplicemente ricordato che col condom il male non è stato stroncato, ma ha "più opportunamente esortato la promozione di un’opera ad ampio raggio che va inquadrata nella mentalità degli africani e si concretizza in particolare nella promozione effettiva della donna", potenziando "le esperienze di cura e di assistenza, finanziando la distribuzione di medicinali accessibili a tutti...". Ma "vorremmo anche dire, sommessamente e con energia - si legge nel testo - che non accetteremo che il Papa sui media o altrove venga irriso e offeso...".
Non meno duri gli appunti sulla vicenda di Eluana Englaro, che il cardinale inquadra in una sorta di lotta tra "chi ha nella vita il bene più grande di Dio" e chi, invece, pensa che l’esistenza sia solo frutto di "casuale" evoluzionismo. "Benché quella povera ragazza non fosse attaccata ad alcuna macchina - un dato che l’opinione pubblica a scoperto solo con grande fatica - s’è voluto decretare che a certe condizioni poteva morire... contraddicendo una intera civiltà basata sul rispetto incondizionato della vita umana e smentendo un lungo processo storico che ci aveva portato ad affermare l’indisponibilità di qualunque esistenza, non solo a fronte di soprusi o violenze, ma anche di fronte a condanne penali quali la pena di morte".
Sull’onda del caso Englaro, lamenta il presidente dei vescovi italiani, si è messo in moto "una operazione tesa ad affermare un ’dirittò di libertà inedito quanto raccapricciante, il diritto a morire, cioè a darsi la morte in talune situazioni da definire". Nell’invitare a pregare per l’anima di Eluana e per "il dolore dei parenti", il cardinale si augura che "almeno ora la politica sappia fare la sua parte, varando senza lungaggini o strumentali tentennamenti un inequivoco dispositivo di legge che, in seguito al pronunciamento della Cassazione, preservi il Paese da altre analoghe avventure, favorendo le cure palliative per i malati e l’aiuto alle famiglie attraverso le Regioni".
Il pontificato delle precisazioni
Che cosa sarebbero mai delle virtù religiose incapaci di operare la giustizia concretamente?
di Vito Mancuso (la Repubblica, 24.12. 2009)
Un’altra piccola gaffe? Un’altra marcia indietro? Un’altra necessaria e non prevista "precisazione"? Abbiamo già assistito alla precisazione sull’islam dopo il discorso di Ratisbona. E poi alla precisazione sulla revoca della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani con le concomitanti dichiarazioni negazioniste di mons. Williamson, alla precisazione sulla preghiera del venerdì santo per la conversione degli ebrei.
Ora va forse interpretata allo stesso modo la dichiarazione di ieri della Sala stampa vaticana sulla travagliata via verso la beatificazione di Pio XII? Quello che è certo è che sei mesi fa padre Gumpel, il gesuita tedesco postulatore della causa di beatificazione di Pio XII, aveva dichiarato tra lo stupore del mondo che papa Pacelli non riusciva a salire agli onori dell ’altare perché Benedetto XVI era intimidito dalle pressioni del mondo ebraico.
Padre Gumpel naturalmente poi aveva smentito dicendo che era stato (anche lui) frainteso, e una settimana fa, quando si era venuti a conoscenza che Benedetto XVI aveva firmato insieme i decreti sulle virtù eroiche di Giovanni Paolo II e di Pio XII, l’idea che papa Ratzinger potesse essere intimorito dal mondo ebraico nella sua ferma determinazione di beatificare quanto prima papa Pacelli risultava del tutto inverosimile. Oggi però non è più così.
Oggi l’ennesima precisazione a cui è stato costretto il direttore della Sala stampa vaticana padre Lombardi a seguito delle proteste del mondo ebraico dimostra che Benedetto XVI non se la sente di ignorare la voce ebraica.
Non ne è capace? Non si sente sufficientemente forte per farlo, gestendo la beatificazione di Pio XII come un affare del tutto interno alla Chiesa, così come Giovanni Paolo II aveva gestito la beatificazione di Edith Stein (filosofa ebrea convertita al cattolicesimo, suora carmelitana col nome di Teresa Benedetta della Croce, morta ad Auschwitz nel 1943, beatificata nel 1987, canonizzata e proclamata patrona d ’Europa nel 1998) nonostante le proteste di alcuni settori del mondo ebraico?
Oppure invece Benedetto XVI ha a cuore immensamente il dialogo col mondo ebraico (il frutto più bello del Vaticano II dopo secoli e secoli di inimicizia e persecuzioni) e non lo vuole compromettere in nessun modo e per questo è propenso persino a rallentare nella sua ferma determinazione di beatificare papa Pacelli?
Chissà come stanno davvero le cose, non ci sono elementi per poter risolvere la questione, io posso solo dire che mi piace pensare che per Benedetto XVI il dialogo col mondo ebraico sia molto più importante della beatificazione di un suo predecessore. Il che, se è vero, significa che il dialogo con l’ebraismo ha per Ratzinger un valore immenso, perché non ci sono dubbi che egli voglia quanto prima giungere alla beatificazione di Pio XII e porre un altro tassello per anestetizzare del tutto il carattere innovativo del Vaticano II e le sue interpretazioni in tal senso.
Pio XII è il papa che aveva rimosso dall’insegnamento ed esiliato i teologi poi nominati periti conciliari da Giovanni XXIII e che furono l’anima del Vaticano II. La sua beatificazione corrisponderebbe a una definitiva sedazione dell’effervescenza conciliare, al compimento della restaurazione, per la gioia dei lefebvriani che finalmente potrebbero considerare il ritorno nel seno della Chiesa cattolica. E quanto questo sia nel cuore di Benedetto XVI è sotto gli occhi di tutti.
Se non ci fossero le proteste ebraiche sarebbe solo questione di pochissimo tempo, ma le proteste ebraiche ci sono e per questo le mormorazioni di padre Gumpel di sei mesi fa vanno prese molto sul serio. Ma a quale prezzo ieri è stata proposta la precisazione vaticana? Al prezzo di una duplice disgiunzione: quella pratica di Pio XII da Giovanni Paolo II nel loro percorso verso la beatificazione, e quella teologica delle virtù religiose dalle azioni concrete sul piano storico.
Sulla prima disgiunzione non c’è molto da dire se non esserne felici, se non altro per non ripetere la triste esperienza di un Giovanni XXIII beatificato insieme a Pio IX, al cui proposito invito i lettori che lo desiderassero a confrontare il "Sillabo" di Pio IX con la "Gaudium et spes" del concilio voluto da papa Giovanni per rendersi conto della abissale differenza tra i due papi.
Sulla seconda disgiunzione invece ci sarebbe molto da dire. In che senso, come scrive padre Lombardi, «la valutazione riguarda essenzialmente la testimonianza di vita cristiana data dalla persona (il suo intenso rapporto con Dio e la continua ricerca della perfezione evangelica) e non la valutazione della portata storica di tutte le sue scelte operative»? In che senso la vita cristiana non riguarda le scelte operate storicamente? Non ha insegnato forse Gesù a proposito dei profeti che «dai loro frutti li potrete riconoscere» (Matteo 7,20)? E come insegna tutta la teologia morale a partire da san Tommaso d’Aquino, la virtù non è eminentemente pratica?
Che cosa sarebbero mai delle virtù religiose incapaci di operare la giustizia concretamente? La Sala stampa vaticana ci ha proposto una inusitata distinzione, sconosciuta alla Bibbia e alla tradizione spirituale. Il papa teologo, diviso tra il desiderio di beatificare il suo predecessore preconciliare e i timori evocati da padre Gumpel, ha costretto il suo portavoce a una pericolosa e maldestra innovazione teologica
di Filippo Di Giacomo (l’Unità, 04.08.2010)
L’Italia non ha ratificato il trattato sulle bombe a grappolo; le bombe tanto amate dagli eserciti occidentali quando vanno ad esportare democrazia con i caccia bombardieri. L’unica voce che si è espressa, con l’abituale fermezza, contro la codardia di governi subalterni a chiunque produca soldi, anche a costo di distribuire morte agli inermi e agli innocenti, è stata quella del Papa, domenica scorsa, dopo la recita dell’Angelus. Codardia, dicevamo: infatti, Benedetto XVI ha invitato i cosiddetti potenti di questo mondo ad avere il coraggio di schierarsi a favore del diritto umanitario.
E anche memoria, perché politicamente parlando, la mancata ratifica del governo italiano è l’ennesimo brutto segno dell’involuzione culturale e morale che l’ Italia sta soffrendo nel campo della sua politica internazionale. È ancora difficile stabilire se sia stato per ricaduta diretta o solo per concomitanza ideale che Roma e l’Italia, specie negli anni del pontificato wojtylano, diventarono due laboratori del diritto umanitario internazionale.
Come ricordato dalla stampa straniera dopo l’aprile del 2005 (ma anche durante il viaggio di Benedetto XVI in Turchia) gli italiani furono i più solleciti costruttori di argini da porre ai neocon che nell’America di Bush teorizzavano - con politiche ed azioni - il clash delle civiltà. Dopo Assisi 2002, e dopo oltre cinquecento manifestazioni-evento, molte di spessore internazionale svoltesi in gran parte della Penisola, fu l’italianissimo ministro Pisanu che fece firmare a tutti i suoi omologhi dell’Unione Europea, durante un semestre di nostra presidenza, quella «carta europea della sicurezza sociale» che ha trasformato in «cultura europea» le categorie e il metodo del dialogo interreligioso e interculturale. Non per nulla il nostro Paese è stato membro fondatore della «commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza» e ha finora partecipato attivamente alle attività dell’osservatorio europeo sul razzismo e la xenofobia.
Firmataria e sollecita ratificatrice della convenzione Onu contro la tortura del 2002 (altra perla della nostra diplomazia che alla sua stesura ha molto contribuito), l’Italia ha subito trovato nella Roma di oggi la sede per la sua «città della vita», la rete internazionale di città-rifugio per i perseguitati del mondo: se qualcuno dell’attuale amministrazione capitolina lo ricordasse, rischierebbe solo di far fare bella figura ad una giunta per tanti versi impresentabile.
Anche durante il G8 di Genova, e nonostante le contestazioni e le violenze gratuite, l’Italia riuscì a far rientrare l’Africa sull’agenda dell’organizzazione internazionale e dei «grandi» del mondo. E se oggi, tra mille tentennamenti, l’Unione Europea parla di cura e prevenzione dell’aids e accetta di dialogare per la soluzione dei problemi politici e sociali di Darfur, Togo, Ruanda, Congo e Costa d’Avorio ciò avviene come continuazione della vocazione umanitaria che, al di là delle gestioni politiche, le istituzioni italiane coltivano da decenni.
Anche la battaglia per la messa al bando delle mine antiuomo, sancita con il conferimento del premio Nobel alla «campagna mondiale» che l’ha ottenuta, deve parte del suo successo all’aiuto determinante del governo e delle Ong italiane. E siamo stati il primo Paese a ratificare, nel febbraio 2002, la legislazione internazionale contro i bambini soldati contribuendo a farla progredire velocemente (era iniziata nel 1998) sia al consiglio permanente sia all’assemblea generale dell’Onu.
Anche la campagna contro la pena di morte ha tra i suoi più convinti fautori un gran numero di istituzioni e di associazioni del nostro Paese: nessuno, all’estero, nega l’origine tutta italiana della moratoria votata all’Onu. In un Paese dove si trovano fondi per una serie indefinita di sciocchezze, nessuno però trova i mezzi per conservare all’Italia il diritto umanitario, un «talento» saldamente posseduto. Da far fruttificare, anche perché non ha particolari debiti con i miti della Roma della tradizione, ma sembra piuttosto un frutto maturo della nostra società civile.
Un tesoro di competenze costruito grazie ad una rete di organizzazioni volontarie che presentano cifre da capogiro: 18.293 riportate negli appositi registri nazionali, altrettante non registrate. Con un incremento, negli ultimi dieci anni, del 120%. Una vasta rete di rapporti, spesso non ufficiali, rischia purtroppo di entrare in crisi (nonostante rappresenti un asso nella manica per la nostra politica estera) per i tagli decisi dall’attuale finanziaria nel campo della cooperazione. Eppure quando coopera con i Paesi poveri l’Italia parla la lingua dei diritti universali con un’ottica umanistica, capace di far comprendere anche ai potenti più sbadati che i poveri del mondo non possono sempre stare a guardare. Non è certo questo il momento di distrarci e di diventare afoni.
LA SUBURRA
di don Aldo Antonelli
La metastasi è arrivata anche in Abruzzo. Gli allievi hanno ben imparato la lezione che viene dal loro capo. Li conosco bene e quando li incontro li evito. Ai loro inchini ipocriti rispondo con un’alzata di testa! Non voglio aggiungere analisi ad analisi. Ci ne sono fin troppe. E’ questo popolo schienato, che non trova forza né voglia di reagire che mette paura. E’ questo alzare le spalle che umilia financo la nostra rabbia.
Già su Carta del 2009 Marco Deriu scriveva:
«Nonostante la cornice formalmente democratica, abbiamo un sovrano pressoché assoluto che si permette di fare e disfare quello che vuole, che si fa beffe della moralità, della legge e perfino della verità, negando senza alcun imbarazzo la cruda realtà dei fatti, che si è circondato di un vasto apparato di servitori che dopo aver occupato posti chiave in partiti, istituzioni, televisioni, giornali, provvedono ad apparecchiargli un "mondo" secondo le sue necessità sostenendo qualsiasi bugia e malefatta pur di non contrariarlo. Tuttavia la fisionomia di questo sovrano non assomoglia, nonostante le retorica, al drago mostruoso delle leggende; nè ai dittatori spietati e sanguinari che pure abbiamo conosciuto nel ’900. -L’ordine non è quello del terrorre ma del narcisismo e dell’iperrealismo conformistico che si avvicina più che mai a quella che Etienne De la Boetie chiamava "servitù volontaria". Le vergini che vengono offerte non vanno come vittime al sacrificio ma corrono a fare la fila e mandano i propri book fotografici per essere notate e chiamate dal sovrano».
Ma gli effetti del Berlusconismo li aveva già elencati Filippo Ceccarelli su Repubblica del 22 marzo 2006:
«La decadenza di un intero popolo e della sua creatività, l’omologazione in basso dei costumi e delle credenze, gli ostacoli messi sistematicamente tre la gambe di chi ha meno di 30anni, lo scempio della moralità e delle regole, lo svilimento della costituzione, l’assassinio del bello, il servilismo appagato e appagante, lo "squadrismo culturale", "l’imbecillità del nuovo ceto politico...».
E sempre su Repubblica del 9 ottobre 2008 Simonetta Fiori segnalava l’eredità di Berlusconi in questi termini:
«Un’Italia segnata da degrado istituzionale e morale, disgregazione morale e scarsa memoria storica».
Se non sbaglio, all’inizio di quest’anno Filippo Ceccarelli ha pubblicato un Libro intitolato la Suburra (sottotitolo: Sesso Potere, storia di due anni indecenti), in cui scrive:
«La scomparsa dell’etica, privata e pubblica, è così assoluta, così indiscussa, così estesa da suggerire una caduta intellettuale di massa, che è qualcosa di più e di peggio, di una caduta morale».
Sull’ultimo numero dell’Espresso Giorgio Bocca stigmatizza:
«Cresce la noia, il fastidio, la ripugnanza per la Suburra, per questa Italia miserabile per cui si aggirano come topi di fogna affaristi, avventurieri, profittatori. C’è qualcosa che viene prima della morale, prima del rispetto delle leggi, prima dell’onorabilità: il disgusto per la Suburra, cioè per la servitù agli appetiti, ai vizi più degradanti».
Mi fa piacere, a questo punto, citare anche Famiglia Cristiana che nell’editoriale del numero oggi in edicola scrive:
«Una concezione padronale dello Stato ha ridotto ministri e politici in ’servitori’. Semplici esecutori dei voleri del capo. Quali che siano. Poco importa che il Paese vada allo sfascio. Non si ammettono repliche al pensiero unico. E guai a chi osa sfidare il ’dominus’ assoluto».
Chissà se il cardinal Bertone la legge.....
Aldo [don Antonelli]