Per l’ “amore conoscitivo” - In memoria di Kurt H. Wolff
SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
Note per un nuovo patto sociale
di Federico La Sala *
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Il cielo della preistoria (Marx) getta ancora le sue terribili ombre sul nostro presente e continua a devastare sempre piu la nostra mente e la nostra Terra. Si continua a credere che la civiltà dell’amore - come ha ammesso l’ultimo ‘hegelo-marxista’ nella sua recente circolare del 23.2.1994 - sia possibile, e non un’utopia (1), ma nessuno (non i filosofi, e meno che mai il Papa) osa far pulizia nel cielo delle nostre idee di violenza, di tramonto e di morte (Occide-re-nte). E tutti perseverano nel ritenere cosa sacra e giusta “per diritto naturale che la materia obbedisca alla forma, il corpo all’anima, l’appetito alla ragione, i bruti all’uomo, la moglie al marito, l’imperfetto al perfetto, il peggiore al migliore, per il bene dell’uno e l’altro dei due”(2).
Se è vero che un uomo più una donna ha prodotto per secoli e per millenni un uomo (3), non è un caso che la dinamica del rapporto tra il soggetto, l’umanità, e l’oggetto, la natura, sia stato concepito dialetticamente, e uni-totalitariamente - sia in senso idealistico sia materialistico - come un percorso bellico di superamento delle differenze e trionfo dell’Uomo. E il mondo in cui hanno vissuto e vivono l’uomo e la donna è stato sempre e solo interpretato come il mondo dell’Uomo e del Cittadino: si ricordi che in Italia solo l’altro ieri, 1946, è stato riconosciuto il diritto di voto alle donne.
Cogliere le cose alla radice non è facile. E la radice dell’uomo non è l’uomo stesso. Si ricordi quanto la completa conoscenza scientifica del fenomeno della procreazione sia recente nella scienza occidentale. E si ricordi che «dopo l’antica credenza nella sola responsabilità del maschio, la questione viene riveduta, diventa argomento di polemiche e resta a lungo incerta», e che, «fino al 1906, data in cui l’insegnamento adotta la tesi della fecondazione dell’ovulo con un solo spermatozoo e della collaborazione di entrambi i sessi alla riproduzione e la Facoltà di Parigi proclama questa verità ex cathedra, i medici si dividevano ancora in due partiti, quelli che credevano, come Claude Bernard, che solo la donna detenesse il principio della vita, proprio come i nostri avi delle società pre-patriarcali (teoria ovista), e quelli che ritenevano [...] che l’uomo emettesse con l’eiaculazione un minuscolo omuncolo perfettamente formato che il ventre della donna accoglieva, nutriva e sviluppava come l’humus fa crescere il seme»(4).
Si tratta di riprendere da capo, a partire dalle radici, l’interrogazione sia su che cosa significa pensare sia, e ancor di più, su che «cosa significa creare rapporti e legami», e su come trasformare i vecchi esistenti rapporti di produzione. Nel momento in cui, accanto all’uomo, la donna «è entrata nel campo e può essere amica o nemica»(5), se vogliamo ridurre e non raddoppiare il numero già infinito delle occasioni di guerre e di distruzione, altre sono le domande e altre sono le risposte di cui abbiamo bisogno:
"Prigionieri di una logica vecchia e con radici profonde secondo la quale v’è sempre chi vince e chi perde, si riuscirà ad uscire da questo gioco che consente, al massimo, di invertire le parti? Che senso ha rifiutare la propria oppressione dell’altro, per rivendicare il diritto ad opprimerlo nello stesso modo e con gli stessi strumenti ? Come strappare il potere dalle mani di chi lo detiene, senza esercitare lo stesso potere su chi viene reso impotente? Come superare i tempi delle rivendicazioni, del capovolgimento dei termini che lascia intatta la natura dell’oppressione la qualità del rapporto tra chi tiene il coltello dalla parte del manico e chi si trova con un coltello puntato?
È un problema che non riguarda soltanto il rapporto tra l’uomo e la donna, ma tra l’oppressore e l’oppresso, tra il forte e il debole, tra chi ha il potere e chi non lo possiede: sono quindi domande che coinvolgono l’intera struttura sociale e tutti i valori da essa prodotti, e non possono trovare risposte parziali. Ma nel rapporto tra l’uomo e la donna v’è qualcosa di piu complicato e insieme più semplice: la necessità naturale che reciprocamente li unisce e che la storia ha diviso. La sopraffazione dell’uno sull’altro poggia su questa reciproca necessità, che può essere garanzia di un cambiamento.
Riconoscere lo stesso peso alle esigenze, ai bisogni e ai desideri di entrambi - anche se la donna, tra l’altro, sarà madre se vuole - non dovrebbe essere un’operazione che esige il massacro"(6).
Si tratta di uscire «da interi millenni di labirinto» secondo un’espressione di Nietzsche: e per questo non servono più né l’astuzia della ragione né la volontà di potenza. Non v’è nessuno da uccidere o da aggiogare, e tutti e tutte da liberare - Teseo, Arianna e il Minotauro. Per una nuova terra, abbiamo bisogno di un nuovo cielo, non più platonico e non più cristiano-hegeliano. Ha ragione Ida Magli: L’Osservatore romano «mi contesta perché affermo che non è più tollerabile per la coscienza dell’uomo moderno teorizzare l’ amore di un dio che ha voluto la morte del figlio per salvarci? E perché affermo che non era questo il messaggio di Gesù? Ma è la storia dei duemila anni di Europa cristiana a dimostrare con le sue infinite guerre che si tratta di una religione di morte. Quello che stiamo vivendo in questi giorni lo dimostra meglio che qualsiasi laboratorio. È nel centro delle religioni del sacrificio - ebraismo, islamismo, cristianesimo - che si deve continuare ad uccidere per salvarsi: perché là dove esiste sacrificio deve esistere il sacrificatore [...].. Perché condanno Wojtyla? Perché rappresenta, nel mondo moderno, l’incarnazione del sacerdote-sacrificatore dell’Antico e del Nuovo Testamento, e, come tale, non può non individuare nelle donne le vittime per eccellenza. Strumenti sacrificali, al servizio della procreazione anche là dove vengono stuprate appositamente come in Bosnia, perché procreino figli ai nemici vincitori come sempre è avvenuto in tutte le guerre, da quelle di cui parla Omero fino ad oggi»(7).
Siamo ancora nella preistoria: come in cielo, cosi in terra. Ma nessuno sembra rendersene conto, e disponibile a «interrogarsi anche su ciò che sembra talmente ovvio, da non suscitare il minimo dubbio, anzi, da non apparire alla coscienza neanche come fatto su cui interrogarsi». Ha ragione Ida Magli: «Le donne sono esseri storici, sono persone. Chiedo a Wojtyla di prenderne atto. Soltanto questo».
Il re è nudo, letteralmente. Si tratta di non continuare a chiudere un occhio o, che è lo stesso e peggio, a chiudere gli occhi sull’incarnazione e sulla nascita -«questa origine, sperimentabile come quell’evento che noi siamo»(8) -e «non smettere mai di porsi domande»: sàpere aude!
Benché occasionali e velocissime, le riflessioni qui presentate questo tentano: fare luce sull’ombelico del sogno (Freud) della ragione (Hegel) del re (Platone). Per tutti e per tutte, ciò che è in giuoco è proprio l’aprire gli occhi (nel doppio senso di nascere e conoscere) su quel crocevia di relazioni chiasmatiche da cui emergiamo, che ci costituiscono e strutturano, e che ci legano alla stessa realtà in cui viviamo - in grande e pericolosa ignoranza.
Pur se con molti limiti, Feuerbach l’aveva capito quando affermava che la vera dialettica non è un monologo del pensatore solitario con se stesso, ma un dialogo tra l’io e il tu. «Due esseri umani occorrono per creare l’uomo, sia l’uomo spirituale sia quello fisico: la comunione dell’uomo con l’uomo è il primo principio e il primo criterio della verità e della validità universale»(9). Cosi Saussure: «Per trovare nell’insieme del linguaggio la sfera che corrisponde alla lingua, occorre collocarsi dinanzi all’atto individuale che permette di ricostruire il circuito della parole. Questo atto presuppone almeno due individui, il minimo esigibile perché il circuito sia completo. Siano dunque due persone che discorrono...»(10).
Uomo e donna, prima di tutto. All’origine della nostra stessa vita, come dell’intera società, non vi sono il silenzio e la morte: v’è l’amore. È l’amore che illumina le differenze e svela la comune identità: vere duo in carne una, sia nell’unione dei due (uomo e donna) sia nell’uno (figlio o figlia) prodotto dai due. Ogni uomo e ogni donna nascono da donna, ma ogni individuo (letteralmente, il duo da non dividere) - sia uomo sia donna - è generato dall’uomo e dalla donna: due esseri umani, diversi nella loro fisicità (differenza sessuale) e identici nella loro soggettività (attiva e recettiva insieme). Hic Rhodus, hic saltus! Con Kant, oltre Hegel e Freud.
Né idealismo, né materialismo, non la metafora dello specchio e neppure la dialettica. La logica del X (=Chi, nel senso unificato della lettera dell’alfabeto greco simbolizzante una relazione incrociata o, appunto, chiasmatica e del pronome relativo che rinvia alle persone che si incontrano e discorrono) precede e fonda la logica del che cosa (Socrate), non viceversa: continuare a ignorare chi siamo non porta se non a prolungare la strada di coloro che «non sanno quello che fanno» e a non vedere mai né la luce del Sole, né la Terra, né noi stessi e noi stesse - neonati e neonate, in un cielo puro e in un libero mare.
Il nuovo inizio è possibile. Ma, giammai come ora, esso dipende da noi - uomini e donne della Terra. Si tratta di decidersi, consapevolmente e responsabilmente, per relazioni amorose e non per relazioni furbesche e odiose. Non ci sono altre soluzioni: o distruggere il mondo e noi stessi e noi stesse o «cambiare l’anfiteatro da gladiatori dell’insieme delle nostre relazioni» (M. Serres).
Continuare a intendere la relazione-matrice (uomo e donna all’esterno, maschile e femminile all’interno dell’uno e dell’altra) come relazione di dipendenza «significa voler svuotare della sua realtà uno dei portatori della relazione, e con ciò la relazione stessa» (M. Buber), e scegliere ancora una volta di camminare sulla vecchia strada della guerra e della distruzione.
Contro ogni illusione di continuità di istituzioni e di divinità, un fatto resta determinante. Siamo giunti a un grado zero di civiltà. La secolarizzazione non è stata uno scherzo: non solo «Dio è morto» ma anche l’Uomo. Il lungo processo storico che in Europa e nel mondo, almeno dal XVIII secolo, ha innescato la contrapposizione delle diverse forme del contesto sociale all’individuo come un puro strumento per i suoi scopi privati, come una necessità esteriore, e, nel contempo, ha spinto l’individuo a un progressivo isolamento nella società, ha ormai toccato il fondo e ha portato a galla le determinazioni più semplici (Marx).
Ciò che è emerso non è l’ideologico individuo isolato, ma l’uomo isolato e la donna isolata, con la loro diversità (differenza sessuale) e la loro identità (bisessualità psichica), e lo stesso nesso che li costituisce e unifica isolato. Ed è con questo che oggi bisogna fare i conti - se vogliamo uscire dall’inferno in cui stiamo sprofondando sempre più, non con qualcos’altro.
Nessuna restaurazione ci può salvare. Quando la potenza unificatrice scompare dalla vita dell’uomo e della donna e gli opposti hanno perduto il loro vivo rapporto e la loro reciproca dipendenza acquistando la loro autonomia, non è della filosofia - come sosteneva Hegel - che si ha bisogno. Caso mai, essa serve solo a completare l’opera.
La sua coscienza infatti, pur se desiderosa di sapere, è cieca come la coscienza di Èdipo: non sa nulla del prima e del dopo; e la sua intelligenza è capace solo di consegnare alla vecchia Giustizia e a un destino di negazione e morte tutto ciò che incontra sulla strada del suo presente. Nel proprio lavoro e sul suo terreno, è anche una coscienza eroica, astuta e potente, ma al di là non va e non può andare: è paurosa e miope, come una nòttola o una talpa, e non sa far altro che tornare indietro e rimuovere la complessità delle condizioni del suo stesso essere e del suo stesso agire.
A veder bene, il dialogo socratico come la dialettica hegeliana non sono che potenti e sofisticate macchine da guerra di una coscienza (storicamente datata) volta ad aggiogare e confinare l’altro dentro di sé (il femminile) e fuori di se (la donna) e la stessa natura, in un cerchio o, meglio, una sfera - senza tempo e senza vita, oltre che senza luce.
Il desiderio-di-sapere di questa coscienza non ha più storia, né in terra né in cielo. Oggi, gli uomini e le donne non solo hanno appreso come nascono i bambini e le bambine sulla Terra, ma, portatisi e portatesi fuori - nell’oceano cosmico, hanno visto la sfera in cui abitano: la nostra Terra è illuminata dal Sole ed è piena di vita e di brillante colore. Al di là della disperazione e del nulla, oltre le colonne di Ercole-Parmenide, hanno trovato e provato - quanto nessuna coscienza nata e cresciuta tra le mura delle varie accademie ha mai neppure lontanamente sognato - il piacere, più profondo ancora della sofferenza (Nietzsche), e "Amore più forte della Morte".
Benché accecati, Marx, Nietzsche e Freud hanno scavato più di tutti - per aprire un varco: non è la coscienza dell ’uomo o della donna che determina il nesso sociale, ma è il nesso sociale che determina la coscienza dell’uno e dell’altra. Non vi sono riusciti ma ora il nesso dialettico è stato spezzato. Lo Stato etico come il partito etico è morto, e la strada a un nuovo patto sociale e a una nuova conoscenza è aperta.
Né egoismo, né altruismo ... né un’altra religione! Si tratta di aprire le porte e le finestre della coscienza alla legge scritta nel nostro stesso corpo e nella nostra stessa mente (non nella testa di qualche filosofo-papa) e di cominciare a mettersi in cammino. La critica non ha strappato i fiori immaginari dalla catena perche l’uomo e la donna continuino a trascinarla triste e spoglia, ma perche la gettino via e colgano il fiore vivo.
Uscire dal caos è possibile, e mettere al mondo una nuova polis non è un’utopia. Ormai né a Johannesburg, né a Gerusalemme, né a Gaza, e nemmeno a Roma, si ignora che la verità nasce da due e non da uno e che amare l’altro come se stesso, o sé come un altro (12), è un dire di sì all’eterno ritorno della vita, non della morte.
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TERRA!!! |
* Si riprende qui, con lo stesso titolo, il cap. 6 della Parte III del mio lavoro: Federico La Sala, Della Terra, il brillante colore, pref. di Fulvio Papi, Roma-Salerno, Edizioni Ripostes, 1996, pp. 141-148.
NOTE:
1. Giovanni Paolo II, Lettera alle famiglie, supplemento al n. 45 di “Avvenire» di mercoledì 23 febbraio 1994, pf. 15
2 . Ginés De Sepulveda, De la justa causa de la guerra contra los Indios. Roma 1550. A riguardo, cfr. E Dussel, La conquista dell’America e il mito della modernità nella disputa di Valladolid (1550), in .”lnvarianti”, n. 22, pp. 53-58, Roma, Antonio Pellicani editore, 1992.
3. Franca Ongaro Basaglia, Donna, in Enciclopedia, 5, Torino, Einaudi, 1978, p. 89.
4. F. D’Eaubonne, Le donne prima del patriarcato, Roma, Felina Editrice, 1981, p. 11.
5. Franca Ongaro Basaglia, op. cit., p. 103.
6. F. Ongaro Basaglia, op. cit., p. 101.
7. Ida Magli, Le donne, vittime del Cristianesimo, in «L’Unità" dell’ 8 marzo 1994.
8. A. Kolleritsch, Dell’Infanzia, Genova, Il Melangolo, 1993, p. 13.
9. L. Feuerbach, Principi della filosofia dell’avvenire, f. 41 e pf. 62, Torino, Einaudi, 1971.
10. F. De Saussure, Corso di Linguistica Generale, cap. III, pf. 2, Bari, Laterza, 1991. Su questo tema, inoltre, si cfr. E. Benveniste, La soggettività nel linguaggio, in: Problemi di Linguistica generale, Milano, Il Saggiatore, 1971, pp. 310-320.
11. Cantico dei Cantici: 8.6, trad. e cura di Giovanni Garbini, Brescia, Paideia, 1992.
12. P. RICOEUR, Sé come un altro, Milano, Jaca Book, 1993.
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* IL DIALOGO, Mercoledì, 11 maggio 2005
Sul tema generale, in rete e nel sito, cfr.:
Federico La Sala
“DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE, MARIA, E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE... *
Lo sposalizio di Maria e Giuseppe
Un amore semplice
di Antonio Tarallo *
Si erge con magnifico splendore la pala del Raffaello, insigne maestro del Rinascimento: «Sposalizio della Vergine», olio su tavola firmato Raphael Vrbinas, datato mdiiii . Colpisce la maestria dei colori. Colpisce l’equilibrio perfetto delle forme. La scena del matrimonio di Maria e Giuseppe è posta in primo piano. Dietro di loro, al centro, un sacerdote. Tiene le mani di entrambi, custode delle nozze. Alla sinistra di Maria, le donne. A destra di Giuseppe, un gruppo di uomini. Nell’iconografia tradizionale, usualmente, proprio uno di questi uomini è colto nell’atto di spezzare un bastone. È un ramo secco destinato a non fiorire, a non portare frutto. Solo quello di Giuseppe, invece, fiorisce. Ma da dove proviene questa tradizione?
Secondo i vangeli apocrifi, Maria era cresciuta nel Tempio di Gerusalemme - conservando, quindi, la castità - e, quando giunta in età di matrimonio (secondo la tradizione ebraica) la troviamo promessa sposa di Giuseppe. Il Protovangelo di Giacomo ( ii secolo) ci fornisce alcune informazioni a riguardo. Giuseppe è discendente dalla famiglia di David e originario di Betlemme. Prima del matrimonio con Maria, si sposò con una donna con la quale ebbe sei figli. Rimase però, poi, vedovo. Ed è in questo contesto che si introduce la famosa tradizione del bastone fiorito di Giuseppe. Come? Andando ad approfondire il tema - grazie al lavoro che sta compiendo, da tempo, la Pontificia Accademia mariana internationale sul recupero di una vera ed autentica “storia di Maria”, su un sempre maggiore approfondimento della sua figura, scrostando le sovrastrutture che il tempo ha costruito sopra la Vergine - riusciamo a comprendere meglio questo “arcano” che si dipana tra tradizione e iconografia. Basterebbe pensare a tutte le immagini che raffigurano Giuseppe che tiene in mano un bastone fiorito. È, allora, assai interessante andare a scovare le parole che il vangelo apocrifo riserva a questo episodio: «Indossato il manto dai dodici sonagli, il sommo sacerdote entrò nel santo dei santi e pregò a riguardo di Maria. Ed ecco che gli apparve un angelo del Signore, dicendogli: “Zaccaria, Zaccaria! Esci e raduna tutti i vedovi del popolo. Ognuno porti un bastone: sarà la moglie di colui che il Signore designerà per mezzo di un segno”. Uscirono i banditori per tutta la regione della Giudea, echeggiò la tromba del Signore e tutti corsero. Gettata l’ascia, Giuseppe uscì per raggiungerli. Riunitisi, andarono dal sommo sacerdote, portando i bastoni. Presi i bastoni di tutti, entrò nel tempio a pregare. Finita la preghiera, prese i bastoni, uscì e li restituì loro; ma in essi non v’era alcun segno. Giuseppe prese l’ultimo bastone: ed ecco che una colomba uscì dal suo bastone e volò sul capo di Giuseppe. Il sacerdote disse allora a Giuseppe: “Tu sei stato eletto a ricevere in custodia la vergine del Signore”». Fin qui, ciò che una errata tradizione ci dice. Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza su questo evento che ha segnato il piano di salvezza di Dio per l’umanità intera.
Il mese di Adar era il mese dei matrimoni. Un proverbio diceva: «Quando arriva Adar, Israele si riempie di gioia!». Troviamo una Maria quindicenne, allora. È una fanciulla che si avvicina all’età in cui le ragazze d’Israele erano solite contrarre matrimonio. Molto probabile che i genitori fossero già morti. Maria era, allora, nella casa di qualche parente della sua famiglia. Il capo di quella famiglia, come rappresentante del padre di Myriam, deve occuparsi del suo futuro. Viene concordato il matrimonio di Maria con Giuseppe. Sono poche le notizie che i Vangeli ci offrono sul “promesso sposo” di Maria. Del loro incontro, nulla sappiamo. È molto probabile che si conoscessero già prima del matrimonio. Il villaggio è piccolo: Nazaret, questo piccolo paese della Galilea.
Giuseppe era della stirpe reale di Davide e, in virtù del suo matrimonio con Maria, conferirà al figlio della Vergine - Figlio di Dio - il titolo legale di figlio di Davide. È l’adempimento delle profezie. Maria sa soltanto che il Signore l’ha voluta sposa di Giuseppe, un “uomo giusto”. Come immaginare, allora, il loro matrimonio? La tradizione giudaica antica ci viene in aiuto. Sappiamo bene che tutta la comunità del villaggio partecipava a questa gioia. Gran sfarzo di abiti. Frasi dell’Antico Testamento che riecheggiavano nella cerimonia: il Talmud, il libro principe di tutto. Gli anziani della città coprivano il loro capo con veli bianchi in segno di superiorità: sono gli anziani, gli uomini più rispettati della comunità. I bambini, in quel giorno così particolare, ricevevano dolci di miele e noci. E lo sposo faceva un regalo alla sposa, un regalo significativo.
«Il ragazzo e Maria si capivano senza parole, non c’era mai tra i due il minimo urto: sembrava che entrassero l’uno nell’altra, che costituissero un’unica persona, tanto era stretta la loro unione», così lo scrittore Pasquale Festa Campanile ci presenta i due coniugi nel suo romanzo Per amore, solo per amore (1983). E a noi, piace trovare in quella parola, «amore», l’infinito Amore di Dio per l’umanità, espresso proprio in un matrimonio, in una unione sponsale tra un giovane e una giovane. Così, semplicemente. Perché Dio è semplice nel suo Amore.
* Fonte: L’Osservatore Romano, 23 gennaio 2021
* Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Il Trittico di Mérode è un dipinto di Robert Campin, olio su tavola (129x64,50 cm) conservato nel Metropolitan Museum di New York, nella sezione The Cloisters, e databile al 1427. - Il trittico, formato tipico della produzione di Campin, poteva essere chiuso, ed era probabilmente destinato alla devozione privata. La scena centrale mostra l’Annunciazione, mentre gli scomparti laterali mostrano i due committenti inginocchiati e San Giuseppe al lavoro
“DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE...
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FLS
Papa: nuovi ruoli alle donne, apre a Lettorato e Accolitato
’Ma la Chiesa non può conferire loro l’ordinazione sacerdotale’
di Redazione ANSA *
CITTA DEL VATICANO. Papa Francesco ha stabilito con un Motu proprio che i ministeri del Lettorato e dell’Accolitato siano d’ora in poi aperti anche alle donne, in forma stabile e istituzionalizzata con un apposito mandato. Le donne che leggono la Parola di Dio durante le celebrazioni liturgiche o che svolgono un servizio all’altare in realtà già ci sono con una prassi autorizzata dai vescovi.
Fino ad oggi però tutto ciò avveniva senza un mandato istituzionale vero e proprio.
Aprire ufficialmente le porte alle donne nel Lettorato e nell’Accolitato non significa che potranno diventare sacerdoti. E’ quanto precisa lo stesso Papa facendo proprie le parole di Giovanni Paolo II: "Rispetto ai ministeri ordinati la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale".
* ANSA 11 gennaio 2021 - 19:06 (ripresa parziale).
ARCHEOLOGIA FILOSOFICA E MEMORIA ANTROPOLOGICA.
USCIRE DALL’ORIZZZONTE DELLA BIBLICA "CADUTA" ...
DANTE - 2021 E LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI": RISALIRE LA CORRENTE E RITROVARE I PROPRI "GENITORI". Al di là di Caino, la nuova Eva - Maria e Giuseppe, il nuovo Adamo , e Gesù è figlio dell’ amore [charitas] che move il Sole e le altre stelle (Pd. XXXIII, v. 145).
Federico La Sala
PROFETI, SIBILLE, E MESSAGGIO EVANGELICO:
ANTONIO ROSMINI E LA "CHARITAS". Un invito a ...
Rileggere il testo della "BREVE DISSERTAZIONE DI ANTONIO ROSMINI SULLE SIBILLE" (Patricia Salomoni, "Rosmini Studies", 6, 2019). Che Rosmini abbia iniziato il suo percorso riflettendo sulle figure delle Sibille, è da considerarsi un fatto degno della massima attenzione - e, ovviamente, di ulteriore approfondimento!
La riflessione su tale tema, probabilmente, lo ha reso più vigile nel suo cammino e nella sua fedeltà alla lettera e allo spirito della "Charitas". Il "Kant italiano", infatti, iniziando il suo percorso con la tesi di laurea sulle Sibille (1822), non solo non ha perso il suo legame con la Grazia (Charis) e con le Grazie (Charites), ma - coerentemente - ha saputo custodire anche l’«h» della Charitas! E ha cercato di tenere ferma la sua distanza dalla logica economica - sempre più dilagante - della "carità" del "mercato" ("caritas") e, al contempo, dalla politica di sostegno alla diffusione della "eu-carestia" - a tutti i livelli. Ma, alla fine, non è riuscito a coniugare - come voleva, in spirito di verità e carità - - il rapporto tra filosofia (sapienza pagana) e rivelazione (sapienza ebraica).
Già all’inizio del suo percorso, benché partito con buona volontà e - kantianamente ("Sapere aude!") - con gran coraggio, infatti, egli s’inchina all’autorità di sant’Agostino ("De Civitate Dei", XVIII, 47) e - pur rendendosi conto con lo stesso Agostino che "qualsiasi predizione su Cristo poteva essere dichiarata falsa dagli empi e soggiacere al medesimo discredito, sia che si trattasse degli oracoli delle Sibille o delle profezie degli Ebrei" - conclude con un "non è gradito a Lui stesso che, nelle dispute, noi dedichiamo troppe energie più a quelli che a queste" e attribuisce la palma della credibilità solo a "queste .. certissime, luminosissime, custodite dal popolo ebraico a noi assai ostile, e protette da ogni corruzione con incomparabile ed encomiabile cura nel corso di molti secoli" (P. Salomoni, cit, p. 227).
A partire da "queste" premesse (promesse già non mantenute!), ovviamente, accolta solo la parola dei "profeti" non si può che rinarrare e riscrivere la vecchia "storia dell’Amore" di Adamo ed Eva:
E così, contravvenendo frettolosamente alle regole morali del suo stesso "metodo filosofico", il suo desiderio di lasciarsi guidare "in tutti i suoi passi dall’amore della verità", come dalla carità ("charitas") piena di grazia (charis), resta confinato nell’orizzonte della caduta e della minorità - e la presenza delle Sibille insieme ai Profeti nella Volta della Cappella Sistina è ancora un grosso problema!
Federico La Sala
The Economy of Francesco.
«Generare» non solo produrre: l’economia del prendersi cura
Da Assisi la rivoluzione di un nuovo modello di sviluppo che pensi alle generazioni future. Le proposte di Magatti, Becchetti e Consuelo Corradi
di Cinzia Arena (Avvenire, venerdì 20 novembre 2020)
Uscire dal binomio produzione e consumo per realizzare un nuovo paradigma di economia circolare che metta al centro la persona, accompagni le nuove generazioni e tuteli l’ambiente. Una rivoluzione silenziosa partita da Assisi - sede reale e simbolica dell’evento voluto da papa Francesco che ha come protagonisti duemila giovani imprenditori ed economisti - che parla alle nostre coscienze in un momento storico così complesso e pieno di incertezze. «Generatività, beni relazionali ed economia civile» è il titolo del dibattito che ha aperto la seconda giornata di «The economy of Francesco».
Sabato ci sarà il video-messaggio del Pontefice e un arrivederci all’anno prossimo, in autunno, quando si spera si potrà proseguire in presenza il cammino intrapreso in questi tre giorni di dibattiti in streaming. Un concetto quello della "generatività", che i relatori, Mauro Magatti, ordinario di Sociologia all’università Cattolica, Consuelo Corradi, professore di Sociologia alla Lumsa e Leonardo Becchetti, ordinario di economia politica all’università Tor Vergata hanno cercato di rendere concreto. Un processo di relazioni che coinvolge tutta la comunità: dai cittadini, agli imprenditori alle istituzioni.
«Sino ad oggi il circuito della produzione e del consumo hanno regolato il nostro modello economico - ha detto Magatti - . Ma un’economia basata sulla quantità produce diseguaglianze ed è entropica con l’ambiente. Occorre fare un passo più in là come dice Pascal "conoscere le ragioni del cuore che la ragione non conosce". Produrre e consumare sono alla base della civiltà umana. Il problema nasce quando produzione e consumo pretendono di diventare assolute e di dare senso alle nostre vite, da qui nasce l’ossessione del controllo».
Al contrario il "generare" è un movimento antropologico basato sul prendersi cura. «È la condizione essenziale per capire chi siamo, è la circolazione della vita e della libertà attraverso e al di dà di quello che facciamo noi». Per questo Magatti ipotizza la necessità di una transizione su quattro fronti: formativa, organizzativa, comunitaria e ambientale. «L’idea di un’economia generativa riapre il futuro che ci sembra chiuso, ci permette di mettere al mondo, prendersi cura, accompagnare e lasciare andare».
Nel suo intervento Consuelo Corradi ha declinato il tema al femminile. Partendo dalla domanda sul come raggiungere la parità di genere, Corradi ha ipotizzato due risposte. La prima, passa per il concetto del "non ancora": in Italia ad esempio «non c’è ancora ancora un presidente Repubblica o un premier donna». Ma è la seconda risposta secondo Corradi ad essere la più interessante anche se presenta delle insidie. E consiste nel mettere al centro la diversità e il ruolo fondamentale delle donne alla generatività, concetto che travalica quello di maternità. «Le donne hanno una familiarità con le difficoltà. Hanno affinità con il dolore e la fatica: non a caso sono madri, infermiere, insegnanti. Hanno il piacere del prendersi cura degli altri, nelle famiglie così come nelle aziende e negli istituti di ricerca».
Tutti elementi che contrastano con l’individualismo estremo. «Se l’unica aspettativa delle donne diventa essere pari agli uomini, autonome efficienti e determinate, finiremo per dimenticare tale bio-diversità e questa sarà una grave perdita» ha concluso la professoressa.Becchetti ha parlato delle necessità di nuovi indicatori per le politiche economiche, un nuovo paradigma che «introduca i concetti di dono e fiducia al posto della massimizzazione del profitto». Dire basta alla logica del Pil basata sulla produzione di beni. «La politica economica deve passare da un modello a due mani, vale a dire mercato e istituzioni, ad un modello a quattro mani che includa anche cittadinanza attiva e impresa responsabile come previsto dal goal 12 dell’Agenda 2030». In questa direzione si può andare solo con un impegno collettivo, trasformando le nostre scelte di tutti i giorni, facendo acquisti ragionati, premiando le imprese sostenibili da punto di vista ambientale e soprattutto umano. «Il messaggio finale è non dobbiamo pensare che il mondo si cambi solo d’alto, lo cambiano le nostre scelte costruite dal basso: votiamo ogni volta che scegliamo un prodotto».
Jill Biden, il cambio della first ladyship sulle orme di Eleanor
First Ladies. Nel primo anno da first lady Eleanor Roosevelt guadagnava quanto il presidente, spendendo i suoi soldi per cause sociali e l’emancipazione delle donne.
di Rossella Rossini (il manifesto, 13.11.2020)
Complice oltre un secolo di storia di emancipazione delle donne, di cui il suffragio universale, nel 1920 in tutti gli Stati dell’Unione, segnò una tappa importante, la svolta produsse un cambio di rotta nella first ladyship degli Stati uniti e continua a rappresentare un lascito prezioso. La scelta di Jill Biden di non rinunciare alla sua professione di insegnante di lingua e letteratura inglese colloca la nuova prima cittadina sulla strada dell’indipendenza aperta da Eleanor Roosevelt nei dodici anni trascorsi alla Casa Bianca (1933-1945), ma già imboccata come first lady dello Stato di New York, di cui Franklin Delano Roosevelt fu governatore.
Eleanor Roosevelt aveva nutrito dubbi sulla candidatura del marito e aveva accolto con perplessità la vittoria alla convenzione democratica, nel timore che ciò potesse comportare la rinuncia alla sua vita pubblica e alle sue molteplici attività. Invece, avrebbe saputo arricchire il nuovo ruolo di inedite funzioni, cementando l’unione con Franklin come «coppia politica» e divenendo negli anni una first lady a tutto tondo, che condivideva e sosteneva gli obiettivi del consorte e intanto faceva passi da gigante lungo il cammino dell’autonomia.
Leader riconosciuta nel mondo dell’associazionismo, si batteva per la pace, l’eguaglianza e la democrazia; per l’internazionalismo; per i diritti delle donne, degli afroamericani e delle fasce più emarginate della popolazione, destreggiandosi con la stessa maestria sulla scena pubblica e politica degli Stati Uniti e tra i suoi numerosi interessi e mestieri.
Di essi fecero parte l’insegnamento di storia, letteratura e affari pubblici alla Todhunter School di New York, una scuola privata per ragazze di cui era anche comproprietaria e co-direttrice; l’intenso lavoro giornalistico per testate e stazioni radiofoniche, anche commerciali, che portavano la sua voce e il suo pensiero fino negli angoli più remoti del paese; l’attività di imprenditrice, con la fondazione e gestione assieme a due amiche femministe delle Val-Kill Industries, di cui facevano parte una fabbrica di mobili, una fornace per metalli e una tessitura, che insegnavano un mestiere e davano lavoro a giovani non più in grado di mantenersi nei campi impoveriti dalla depressione.
Alla fine del primo anno da first lady della nazione Eleanor guadagnava quanto il presidente, spendendo tutti i suoi introiti per cause sociali e, forse, vedendo la sua lotta per consolidare la propria indipendenza anche economica connessa alla più ampia battaglia per i diritti e l’emancipazione combattuta per tutte le donne.
L’indipendenza non fu solo economica. Dopo l’elezione di Franklin alla guida della nazione, furono quasi 40.000 i chilometri percorsi da Eleanor nei primi mesi del primo dei quattro mandati del marito per diffondere i valori e le politiche del New Deal, avere un resoconto di prima mano dello stato in cui versava il paese sconvolto dalla Grande Depressione e riferirne al presidente, contribuendo attivamente all’adozione delle politiche di relief.
Ma se apparentemente si prestava a svolgere il ruolo di supporting wife, come aveva già fatto in qualità di first lady dello Stato di New York, nel corso di quelle visite e di quei viaggi maturava non solo la Eleanor «occhi e orecchie» del presidente, limitato nei suoi spostamenti dalla poliomielite che lo aveva colpito nel 1921, ma l’attivista e riformatrice, colei che, già conosciuta e riconosciuta come leader politica autonoma e fortemente radicata in quella che oggi si definisce la società civile, rappresentava l’ala più progressista della nuova era, attenta e sensibile alle questioni di giustizia economica e sociale, ai diritti delle donne e dei giovani, delle minoranze e dei lavoratori e impegnata a battersi contro razzismo e discriminazioni.
All’interno della partnership politica con il marito, Eleanor cercò sempre di portare avanti i progetti che le stavano più a cuore: la battaglia per l’adesione degli Stati Uniti alla Corte internazionale di giustizia; l’estensione alle donne dei programmi volti ad aumentare l’occupazione nei lavori pubblici; il progetto di riqualificazione abitativa per le famiglie povere dei minatori della Virginia occidentale; le politiche a favore degli afroamericani; programmi per i giovani, con la creazione della National Youth Administration, a lei dovuta e di cui andava fiera; una legge federale contro i linciaggi.
Oltre 200 disegni sono stati respinti al Congresso per 120 anni dal blocco dei suprematisti bianchi del Sud eletti al Senato, fino al Justice for Victims of Lynching Act of 2019 che rende il linciaggio crimine federale, discusso e approvato all’unanimità il 14 febbraio 2019.
A presentarlo come prima firmataria la senatrice democratica Kamala Harris. Dovrebbero mancare pochi passi perché diventi definitivamente legge ed entri nel codice penale.
I diritti delle donne
Quel corpo è nostro
di Ilaria Romeo (Collettiva, 08.11.2020)
L’8 novembre 1975 la Cassazione dichiara valido il numero di firme raccolte per il referendum abrogativo delle norme che vietano l’aborto. Il voto si terrà l’anno successivo tra polemiche e dibattiti spesso animati da una chiara misoginia come lo scontro tra Italo Calvino che difendeva la libertà femminile e Claudio Magris e Pier Paolo Pasolini, antiabortisti
Per stimolare ed affrettare il Parlamento all’approvazione di una legge sulla interruzione volontaria della gravidanza, nel 1975 il Partito Radicale e il Mld prendono l’iniziativa di raccogliere le firme per un Referendum abrogativo delle norme del Codice penale che vietano l’aborto.
L’8 novembre 1975 la Cassazione dichiara valido il numero di firme per il referendum (se non subentrerà una nuova legge le votazioni dovranno tenersi tra il 15 aprile e il 15 giugno 1976). Scriveva Pier Paolo Pasolini sul Corriere della Sera il 19 gennaio di quell’anno:
Un mese dopo anche lo scrittore Claudio Magris interverrà sulle pagine del Corriere esprimendo una posizione fortemente antiabortista e a tratti misogina che arrivava a irridere le misure igieniche in un articolo intitolato Gli sbagliati (nel 1981, imperterrito, Magris, in occasione del referendum sull’aborto, scriverà un altro articolo per il Corriere, schierandosi con gli avversari dell’aborto, come aveva già fatto. In questo caso però la testata aspetterà a pubblicare il pezzo all’indomani del referendum).
A Pasolini - e a Claudio Magris - risponde, a caldo, Italo Calvino:
Non dimentichiamo che fino a non tantissimi anni fa in Italia le donne non potevano votare, non potevano abortire né divorziare, potevano essere licenziate in caso di matrimonio, non potevano - da sposate - usare il proprio cognome, e se venivano uccise non era poi così grave, almeno non se si erano macchiate della colpa di aver leso l’onore maschile. Non dimentichiamo “che sarà sufficiente una crisi politica, economica o religiosa perché i diritti delle donne siano rimessi in discussione”. Non dimentichiamo e soprattutto rEsistiamo, ieri, oggi, sempre.
TEOLOGIA E ANTROPOLOGIA: GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA! O NO?!
Il punto.
Coppie omosessuali, sì alla tutela civile ma niente confusione col matrimonio
Tante reazioni alle parole del Papa nel docufilm “Francesco”. Parla Fernández arcivescovo argentino: Sin da quando era cardinale arcivescovo di Buenos Aires, Bergoglio ha distinto i due piani
di Lucia Capuzzi (Avvenire, venerdì 23 ottobre 2020)
«Ciò che dobbiamo fare è una legge sulla convivenza civile, hanno diritto a una forma di tutela legale. L’ho già sostenuto». Al di là delle forzature mediatiche, l’opinione di Jorge Mario Bergoglio sulle coppie omosessuali non è cambiata negli ultimi dieci anni.
La frase riportata nel documentario di Evgeny Afineevsky ricalca quanto già espresso nel 2010 quando, come arcivescovo di Buenos Aires, si trovò ad affrontare l’infuocato dibattito sulle nozze gay, legge fortemente voluta dal governo dell’allora presidenta Cristina Fernández de Kirchner. A ricordarlo non sono solo accreditate fonti giornalistiche di quell’epoca, tra cui il biografo ufficiale Sergio Rubín.
Ieri, in un messaggio su Facebook, monsignor Victor Manuel Fernández, arcivescovo di La Plata, teologo e profondo conoscitore del pensiero bergogliano, ricostruisce la vicenda, sottolineando come per papa Francesco, prima e dopo l’elezione al soglio pontificio, si devono distinguere due piani.
Da una parte c’è il «matrimonio», termine con un significato preciso, applicabile solo a un’unione stabile tra una donna e un uomo, aperta alla vita. «Questa unione è unica, perché implica la differenza tra l’uomo e la donna, uniti da un rapporto di reciprocità e arricchiti da questa differenza, naturalmente capace di generare vita», spiega monsignor Fernández. Qualunque altra unione simile richiede, dunque, una denominazione differente.
Unioni o convivenza civile, appunto. «Jorge Mario Bergoglio ha sempre riconosciuto, pur senza necessità di definirli matrimonio, l’esistenza di legami molto stretti fra persone dello stesso sesso, che vanno al di là del mero piano sessuale, ma sono alleanze intense e stabili. Le persone si conoscono a fondo, condividono lo stesso tetto per molto tempo, si prendono cura e si sacrificano l’uno per l’altro», afferma l’arcivescovo di La Plata. In caso di malattia grave o morte, uno dei due può desiderare i suoi beni all’altro o che sia quest’ultimo ad essere consultato invece di un familiare. «Tutto ciò può essere contemplato da una legge» sulle «unioni civili o normativa di convivenza civile, non matrimonio».
A tal proposito, monsignor Fernández conferma quanto già riportato dai media dieci anni fa. Ovvero che, durante il dibattito sul cosiddetto matrimonio igualitario in Argentina, il cardinal Bergoglio sostenne tale posizione durante un incontro ad hoc con l’episcopato: la maggioranza, però, si oppose. La questione era già emersa subito il conclave del 2013. Da allora, il successore di Pietro ha sempre mostrato sensibilità e attenzione pastorale nei confronti delle persone omosessuali. Certo, nel docu-film di Afineevsky, Francesco torna espressamente sulla questione delle unioni civili e ripropone, da Papa, quanto già affermato dieci anni fa. Nemmeno questo, però, è un inedito assoluto.
Nel libro che raccoglie le conversazioni con il sociologo Dominique Wolton, pubblicato in Francia nel 2017 e in Italia l’anno successivo, c’è già un accenno al riguardo. «Matrimonio è un termine che ha una storia. Da sempre, nella storia dell’umanità e non solo della Chiesa, viene celebrato tra un uomo e una donna», afferma Francesco in Dio è un poeta, edito nel nostro Paese da Rizzoli. E aggiunge: «È una cosa che non si può cambiare. È la natura delle cose, è così. Chiamiamole unioni civili. Non scherziamo con la verità» .
Il documentario Francesco, insignito ieri, nei giardini vaticani, del premio Kinéo, non contiene, dunque, verità sconvolgenti.
Del resto non era questo l’obiettivo dell’autore, ebreo non praticante di origini russe. Attraverso la raccolta di testimonianze e immagini, il regista cerca di narrare le ferite del mondo: le guerre, l’esodo infinito a cui sono costrette migliaia di persone, i muri vecchi e nuovi, fisici e mentali che separano gli uni dagli altri. Il racconto segue il Papa nei suoi viaggi, da Lampedusa a Manila, da Ciudad Juárez a Santiago.
Il racconto su Francesco, spiega Afineevsky, però, piano piano, si è trasformato in un film «sull’umanità che commette errori, fatta di peccatori...». La chiave è contenuta in una frase di Oscar Wilde cara al Papa e riportata nel filmato: «Ogni santo ha un passato e ogni peccatore ha un futuro».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
A FREUD (Freiberg, 6 maggio 1856 - Londra, 23 settembre 1939), GLORIA ETERNA !!! IN DIFESA DELLA PSICOANALISI.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA : VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
Federico La Sala
Oltre la pillola.
Con le donne contro la clandestinità
di Giancarla Cordignani (Avvenire, martedì 1 settembre 2020)
Gentile direttore,
«Le nuove linee guida, basate sull’evidenza scientifica, prevedono l’interruzione volontaria di gravidanza con metodo farmacologico in day hospital e fino alla nona settimana. È un passo avanti importante nel pieno rispetto della 194 che è e resta una legge di civiltà del nostro Paese». Ineccepibile: il ministro della Salute consente un aggiornamento della 194, imprevedibile solo da chi ha fatto conto di non capire che, se un farmaco è in grado di prevenire il concepimento, il tipo di procedimento farmacologico era in grado di arrivare a dosaggi tipo ’pillola del giorno dopo’ e pillola abortiva.
E siccome l’aborto chirurgico - tralasciando i risvolti psicologici che non possono mai essere dimenticati - significa pur sempre un intervento sanitario importante che rende ancor più traumatica la decisione della donna, sembra il minimo che le sia risparmiato un aggravio di sofferenza. D’altra parte le proteste dopo l’approvazione del testo ministeriale danno alle donne l’impressione di una volontà punitiva dei ’patriarchi’. Quindi, per una persona come me, credente e laica, che quando si rese conto del numero sterminato di aborti nel nostro Paese, in clandestinità, con interventi disperati e mortali, prese posizione favorevole a una regolamentazione per legge di una pratica disumana che vedeva colpevolizzata la donna, lasciata sola anche davanti al codice penale che voleva tale reato condannabile perché «contro l’integrità e la sanità della stirpe» (senza contare che lo stupro era reato non contro la persona, ma contro la morale ed era estinguibile con il ’matrimonio riparatore’), non ci sono obiezioni di merito. Tuttavia. Tuttavia, una pillola abortiva non è un analgesico o un integratore.
Non si può assumere un paio di volte all’anno. E mi sembra che, visto che non siamo ancora riusciti a conciliare la libertà e l’egoismo tra i due ’generi’, bisognerà porre in questione, laicamente, la relazione uomo-donna. L’art.1 della 194 dice che lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. Le parlamentari che votarono una legge difficile davano senso preciso a parole sostanzialmente inapplicate, ma poi non proseguì la discussione sulla cultura della legge. L’opposizione cattolica si curò solo di negarle legittimazione, nonostante la necessità di intervenire responsabilmente in una materia a cui nessuna donna ha mai dato valore positivo. Anche i più permissivi si fermano al ’sarebbe meglio non dovervi ricorrere’. Per giunta non è mai stata approvata l’educazione sessuale nelle scuole, anche se sappiamo che ormai i bambini di nove anni se la formano sui siti porno di internet: si suppone che, se una ragazzina di quindici anni è ’nei guai’, la famiglia la porti in un ambulatorio privato e non risulti nel conteggio della diminuzione degli aborti, praticati da sempre dalle coniugate, spesso anche recidive.
Quindi la pillola abortiva toglie dai problemi anche quanti vanno a pregare davanti alle cliniche ginecologiche. Ma a me, da cittadina, restano da chiarire i termini riferiti alla procreazione «cosciente e responsabile » e alla maternità libera e responsabile di cui parla la legge.
Supponendo che tutti sappiano come nascono i bambini, sia per il matrimonio, sia per la convivenza, sia per rapporti occasionali, chiedo: come vanno le relazioni tra la donna e l’uomo? Motivazioni biologiche, sentimentali, avventurose a parte, sono relazioni ’vere’, in cui la gente si parla, dice le proprie esigenze, i propri desideri, compresa la disponibilità o meno di restare incinta? Perché chi straparla solo di bambini dovrebbe sapere che il bambino deve essere ’voluto’. Si può indulgere su qualcuno che arriva ’per caso’, ma quando una donna ritiene di ’dover’ abortire quel rapporto era davvero ’libero e responsabile’, la donna, la moglie era consenziente? Perché la donna ha diritto a decidere anche ’prima’, non solamente ’dopo’. Ma prima, oltre a parlare di sé e del loro entusiasmo, qual è stata la ’qualità’ del loro incontro intimo?
Stando alla gestualità di uomini che picchiano e ammazzano le donne e al linguaggio sessista nei confronti di esseri umani femmine, stando al fatto che cantanti, sindache o parlamentari si attirano volgarità da cura psicanalitica urgente non appena aprono bocca, a letto non ci deve essere grande spreco di preliminari e galanterie. Lo dico dalla parte delle donne che, non so se ancora, ma certo ai tempi di discussione della 194 raccontavano dei loro disagi e delle paure di ’restarci’ che non permettevano grande condivisione.
Ma lo dico soprattutto per la pochezza maschile, che si contenta, a sentire le favole da bar, di potenza e numeri. Ma la qualità? Va bene che anche a tavola spesso non siete un gran che, ma vedete che l’avanzamento della civiltà dal tempo delle ghiande si è evoluta: il pranzo e la cena sono riti, si invitano gli amici e, anche se la nostra non è la tavola di Versailles, usiamo tovaglie con i pizzi, porcellane e cristallerie anche quando in realtà sono piatti di coccio e vetri colorati, imbandiamo il meglio e dalla cucina escono vivande curate che finiscono in piatti accompagnati da posate e tovaglioli, magari di carta.
Le donne tengono ai ricami anche nei letti, ’poi’ magari anche loro non sono questa gran finezza, ma la maggioranza ai preliminari ci tiene, fa parte del rito del piacere; voi uomini troppo spesso vi contentate delle pulsioni, i cattolici - poi - pensano al buon Dio e credono di sapere che cosa vuole anche lì, tutti o quasi in genere non percepiscono differenze tra l’erotismo e la pornografia.
Se ci fosse anche una semplice buona educazione non si verificherebbero ancora così tanti aborti. Perché la donna che non vuole un figlio vorrebbe essere rispettata se dice ’no’ a un uomo che la vuole ’prendere’. Perché un uomo deve anche domandarsi perché mai si sia sposato e non far prevalere il suo egoismo.
Se una donna resta incinta senza averlo voluto una qualche violenza ci sarà stata: anche solo di ignoranza della contraccezione. E da adesso in poi la Ru486 diventerà più ’facile’. Ma non è che d’ora in avanti si risparmiano le prevenzioni e, poi, la donna si mangia la sua pillola e l’uomo non ha più preoccupazione... Perché prendere un farmaco pesante tocca a lei: lui perde pure gli scrupoli morali, roba di lei, non me ne preoccupo. Perché potrebbe passare anche a lei una ’leggerezza’ per un problema sociale che tornerebbe a diventare clandestino. Come donne, come società, davvero ci sta bene?
Giornalista, scrittrice direttrice di Server Donne già parlamentare della Repubblica italiana
Gioacchino e Anna.
Volti di una storia umana abitata dall’amore eterno
di Matteo Liut (Avvenire, domenica 26 luglio 2020)
Il giorno in cui la Chiesa ricorda i nonni di Gesù, i genitori di Maria, è anche l’occasione per ricordare che ogni essere umano “è” una storia, è il frutto di un cammino, l’emergere di un senso condiviso, partecipato da chi l’ha preceduto e offerto a chi verrà. I santi Gioacchino e Anna, la cui storia è narrata nei Vangeli apocrifi, rappresentano l’intimità custodita nella vicenda del Dio che si fa uomo: Gesù ha una famiglia, segnata dalle stesse difficoltà delle altre famiglie, ma capace di aprirsi all’eterno.
Allo stesso tempo i due nonni santi sono il volto della maestosità del Vangelo: nel Risorto si riconciliano le generazioni e si realizza il Regno dell’amore che riguarda l’universo intero. La devozione per Gioacchino e Anna - celebrati nello stesso giorno dal 1584 - si è diffusa prima in Oriente; in Occidente ègiunta alla fine del primo millennio.
Altri santi. Sant’Austindo, vescovo (XI sec.); San Giorgio Preca, sacerdote (1880-1962). Letture. 1Re 3,5.7-12; Sal 118; Rm 8,28-30; Mt 13,44-52.
Ambrosiano. 1Sam 3,1-20; Sal 62 (63); Ef 3,1-12; Mt 4,18-22.
Piano d’estinzione.
Interventi urgenti o la famiglia muore
Nel rapporto Cisf 2020 un quadro allarmante sul futuro incerto di un Paese senza genitori e senza figli
di Luciano Moia (Avvenire, mercoledì 15 luglio 2020)
Nel ’Rapporto sulla popolazione’ pubblicato nel 1980, si ipotizzavano alcune tendenze - rischio denatalità, scarsa propensione dei giovani al matrimonio, limitata considerazione sociale della famiglia - considerati oggi da tutti gli studiosi come elementi che concorrono in modo dirompente al declino italiano. Sono passati quarant’anni. Quei segnali di pericolo si sono aggravati da apparire quasi irreversibili, ma la politica, oggi come allora, appare indifferente.
Lo racconta il Rapporto Cisf 2020 - La famiglia nella società postfamiliare - che traccia un quadro a tinte fosche sul futuro dell’istituzione familiare e quindi su tutti noi. Possibile evitare che la famiglia in liquefazione trascini nel baratro l’intera società? Sì, ma sarebbe necessario rifondare il welfare, avviare un nuovo sistema fiscale con l’introduzione del fattore famiglia, proporre norme stringenti per la conciliazione famiglia- lavoro. E tanto altro ancora.
Ma servirebbero interventi di ampio respiro, con un impegno coerente su base almeno decennale. L’instabilità endemica dei nostri governi non sembra purtroppo assicurare tempi e interventi così strutturali e così coraggiosi. Che fare allora? Non stancarsi di riflettere su quanto la disgregazione della famiglia e la crisi demografia finiscano per pesare sulla società, determinando fenomeni difficilmente governabili. Al di là delle incertezze pesantissime sul futuro del sistema pensionistico, sanitario, assistenziale, esistono fenomeni come l’aumento dei femminicidi, delle violenze intrafamiliari, degli abusi sui minori che sono dirette conseguenza della progressiva disgregazione familiare. Sono tra le questioni emerse ieri nel corso della presentazione del nuovo Rapporto.
«Abbiamo sempre cercato di valorizzare il positivo - ha detto il direttore del Cisf, Francesco Belletti - ma non possiamo negare che, come spiega il nostro studio, le famiglie sono sempre più piccole (il 60% ha una o due componenti). E tra vent’anni avremo almeno uno o due milioni in meno di coppie con figli. E già oggi il 36% dei giovani non vuole sposarsi, il 40% non vuole avere figli».
Non solo problemi sorprendenti. Il primo rapporto Cisf, datato 1989, già segnalava tendenze allarmanti. Trent’anni dopo quelle previsioni sono realtà. E il Covid, come ha fatto notare il sociologo Pierpaolo Donati, curatore del rapporto, ha accelerato processi già gravissimi, legati alla crescita incontrollata delle nuove tecnologie in ambito mediatico e biologico.
«La famiglia come l’ambiente si sta surriscaldando - ha osservato l’esperto che ha coniato il neologismo family warmimg - perché la cultura emergente accentua la perdita della funzione sociale della famiglia, cioè del valore prodotto dalla famiglia per la società. Se la famiglia viene fatta coincidere con il puro privato il genoma familiare (dono, reciprocità, sessualità coniugale, generatività) evapora».
Declino inevitabile? «Siamo di fronte a un trend strutturale. Dobbiamo avere la capacità di modificare alla radice queste tendenze», ha auspicato Donati. «La famiglia dev’essere messa in condizione di fare il proprio mestiere. La terapia la conosciamo bene e altri Paesi - ha osservato il presidente dell’Istat Giancarlo Blangiardo - che quando si fa qualcosa, i risultati poi arrivano».
Eppure qualche segnale positivo c’è, ha fatto notare il presidente del Cnel, Tiziano Treu: «Vent’anni fa la conciliazione famiglia-lavoro era tema pressoché sconosciuto a livello aziendale. Oggi sono esigenze diffuse». Ma la strada, inutile nasconderselo, è tutta in salita.
Uscire dal letargo "teologico" e "filologico" e dalla notte «in cui tutte le vacche sono nere»! La mistica dell’Amore (Deus charitas est), o quella di "Mammasantissima" e di "Mammona" ("Deus caritas est")?! *
Spiritualità.
Mistica cristiana: le nozze di eros e caritas
I Meridiani pubblicano il primo di tre volumi dedicati alla mistica cristiana. L’incontro con Dio supera ogni limite, fisico e linguistico, e si configura come esperienza sensibile di un amore totale
di Rosita Copioli (Avvenire, mercoledì 1 luglio 2020)
La Mistica Cristiana (Mondadori, I Meridiani, pagine. LXXXVIII+1624, euro 70,00), è il primo dei tre volumi di una vastissima opera - estesa dalle origini ai nostri giorni - ideata dieci anni fa e curata da Francesco Zambon, su ’impulso’ di Pietro Citati. Questo libro, curato da Zambon con Marco Rizzi, Sabino Chialà, Boghos Levon Zekiyan, comprende la mistica tardogreca e bizantina, siriaca, armena, latina e italiana medievale; il secondo volume presenterà la mistica tedesca e fiamminga, francese, italiana moderna; il terzo la mistica iberica (spagnola, portoghese e catalana), inglese e americana, russa, svedese. Nessun progetto ha avuto la medesima ampiezza, né pari cura filologica e critica: nemmeno i Mistici occidentali curati da Elémire Zolla; e altre pregevoli sillogi sono parziali.
Le radici sono ebraiche - nel Cantico dei Cantici, il testo più ardente e complesso dell’amore umano e divino - e greche: nel Fedro e nel Simposio di Platone, dove la ricerca della conoscenza diviene quella del bene e del bello, l’intelletto sale verso il divino: la mente si unisce allo slancio erotico, la mania che porta all’estasi: invasa da una luce alla quale tenderà tutta la tradizione occidentale fino al Rinascimento, e oltre: da Plotino, per il quale la contemplazione è superiore all’azione poiché permette la visione del vero, a Proclo; da Apuleio a Tasso, i poeti barocchi, i romantici, Yeats, Ungaretti, Luzi, Milosz.
La potenza della vista interiore è previsione e profezia. Lo afferma già Esiodo, e poi Saffo e Platone, seguiti da sant’Agostino e Dante: il poeta sprofonda nella memoria bevendo l’acqua di vita di Oceano, e lascia che il soffio del dio spiri dentro di lui, investendolo del suo nume sconvolgente. «Entra nel petto mio, e spira tue / sì come quando Marsia traesti / de la vagina de le membra sue». È il solo modo per riceverne il barlume, per glorificarlo: «O divina virtù, se mi ti presti / tanto che l’ombra del beato regno / segnata nel mio capo io manifesti».
Il mistico ricapitola ogni passaggio del Verbo incarnato e dello Spirito Santo che permette - osano i più temerari - di diventare Dio, trascinando con sé l’intera creazione. La trasfigurazione, la passione, la morte sulla croce di Gesù, il suo corpo martoriato sono lo strumento-specchio per rivivere Gesù in anima-spirito-corpo, oltrepassando i ’sensi spirituali’. Francesco nutre nelle viscere il sole - Cristo. Dalle mani e dai piedi spuntano chiodi di carne, sul costato si apre la ferita di Cristo.
Angela da Foligno aderisce al Crocifisso con i sensi dell’eros totale: «Tu sei me e io sono te». La mente di Iacopone da Todi, «En Cristo trasformata, è quasi Cristo, /cun Deo conionta tutta sta devina». Chi osa tanto, non teme la sintassi, scardina ogni figura e senso. Se fa miracoli, sfida la gravità e si innalza dal suolo, come Doucelina di Digne, altri aboliscono gli intermediari con Dio nel linguaggio, come Caterina Fieschi: «Il mio Mi è Dio, io non conosco altro Mi che esso Dio mio».
I mistici non hanno paura di niente, né del pudore, né di “ardiri” che il volgo deride: come i patriarchi della Bibbia, variano la metafora del latte della sapienza, con una passione tenerissima. Nel II secolo in Siria, un’Ode di Salomone, e Clemente Alessandrino suggono i seni del Padre e le dolci mammelle di sposa di Gesù; nel X secolo Gregorio di Narek, autore di inni inarrivabili al Cristo glorioso, invoca «comunione che distilla latte»: siamo in Armenia, dove la teologia del sacerdozio di tutti i fedeli - i corpi sono templi e altari - renderà possibile il sacrificio dell’intero popolo: il “Martirio armeno”. Misakh Metzarents (1886-1908) ne è l’ultimo fiore: «Nella notte discende ancora il ruscello di luce, / una goccia di latte della tua santità divenuta un mare; / e vedi, o Madre di Dio, ecco sto diventando bambino».
Come diceva san Tommaso d’Aquino, la mistica è la Cognitio Dei experimentalis, che Jean Gerson esplica: «Theologia mistica est cognitio experimentalis habita de Deo per amoris unitivi complexum». Ma è la più abissale delle imprese gnoseologiche e amorose. Per la “teognosia” dell’ombra, che deriva da Plotino e si distanzia da seguaci di Gesù come Giovanni e Paolo, e Agostino, mai giungeremo a conoscere Dio. La sua trascendenza rispetto a ciò che è, e all’essere stesso, è superessentialis: Dio non può essere conosciuto, descritto, visto, nemmeno dagli angeli e dai santi. Di Dio non si può parlare né in forma positiva, né in forma negativa. Ma la forma negativa si avvicina di più al suo mistero. Lo si contempla tra luce e tenebra.
Scrive Zambon: «Anche nella vita beata, al termine del reditus di tutta la creazione nel seno del Verbo, Dio sarà conoscibile solo attraverso delle mediazioni, delle teofanie (in greco, “manifestazioni, immagini di Dio”)». La teofania segue i gradi della contemplazione, della deificazione (theosis), e coincide con l’unione mistica. Ricorre alle immagini, al loro fantasma, alla fantasia: l’“alta fantasia” di Dante. La docta ignorantia fa apparire Chi è superiore alla Luce come tenebra, caligine, nube: nella “notte oscura” di Giovanni della Croce.
Una rivoluzione accade in pieno XII secolo: Guglielmo di Saint-Thierry, Bernardo di Clairvaux, Aelredo di Rievaulx, Ivo, e Riccardo di San Vittore (di cui Zambon ha curato sapientemente i Trattati d’amore cristiani del XII secolo per Valla Mondadori) mostrano a quale fuoco di trasformazione può accendersi l’intelletto d’amore che guida fino a Dio, intrecciando eros platonico e caritas paolina. Come in Ildegarda di Bingen, il grande impeto d’amore dà le ali. Culminano la poesia della fin’amor dei trovatori, le storie di Tristano e Isotta, il romanzo cortese.
Con Beatrice davanti alla candida rosa dei beati, Bernardo invita Dante a fissare Dio, nel movimento rapidissimo che imprime al creato e a noi: la metamorfosi dell’anima in Dio, l’excessus mentis, avviene per opera divina in un solo istante: «ma già volgeva il mio disio e ’l velle, / sì come rota ch’igualmente è mossa, / l’amor che move il sole e l’altre stelle». Riccardo di San Vittore è il più ardito. Amore terreno e carità hanno la stessa fonte, ma la carità non è mite. Ha la stessa struttura, manifestazioni e gradi della passione violenta. I Quattro gradi della violenta carità gridano in Iacopone da Todi: «Amor de caritate, perché m’ài ssì feruto? / Lo cor tutt’ho partuto, et arde per amore».
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus !!! O, meglio, che progetto!!!
Federico La Sala
AMARE NEL MARE DELLA VITA. Riprendere la navigazione ...
Una nota *
SE è VERO CHE “La ricerca del grande amore si fa ormai soltanto on line” (Laura Vasselli, "InLibertà", 29 giugno 2020), e, al contempo, che “La truffa esiste anche in danno della vita sentimentale” (L. V., "InLibertà", 10 giugno 2020), in una società “liquida” - dove non c’è più né un Giardino per Adamo ed Eva né una Itaca per Ulisse e Penelope - il problema su cui fare chiarezza e “chiudere l’argomento” è : “se è vero che nella vita è necessario amare innanzitutto sé stessi, come si fa a lasciare posto all’amore per qualcun altro ?”.
CONOSCER-SI: IN PRINCIPIO ERA LA “PAROLA” (IL “LOGOS”). RICORDATO CHE “Per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima : così profondo è il suo lògos" (Eraclito, fr. 45), E, insieme, RIGUARDATA LA FOTO (vedi sopra: accanto al titolo, sul dito “indice” di “due persone” l’immagine di “due ancore”), RIPARTIRE PROPRIO DA QUI : DAll’ancoraggio di “due navi”, di “DUE PERSONE CHE DISCORRONO” (Ferdinand De Saussure). Mi sembra proprio una (bella riflessione e una) buona indicazione!
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN: NARCISO E LA MORTE DELL’ITALIA. Il "rimorso di incoscienza" di Marshall McLuhan -
LA CONCESSIONE PIU’ GRANDE. Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre.
FLS
ANCORA NON ABBIAMO TROVATO "LA GIUSTA DISTANZA" NEMMENO CON NOI STESSI... *
ABITARE LE PAROLE / Distanza.
Vedersi l’un l’altro stagliati nel cielo
DI NUNZIO GALANTINO (Il Sole-24 Ore, Domenica, 28.06.2020)
Distanza. Parola - non la sola, in verità! - che perde un po’ della sua evidenza semantica quando la si trova unita ad attributi particolari. Come capita, per esempio, nelle locuzioni: “distanza sociale”, “fisica”, “interpersonale”. Per coglierne la ricchezza, bisogna anzitutto evitare l’ambiguità - a volte, vera e propria confusione - ereditata dalle locuzioni inglesi social distancing (distanziamento sociale) e social distance (distanza sociale). In sociologia e in psicologia, sono espressioni che descrivono il livello di interazione o di rifiuto tra individui appartenenti a gruppi sociali, economici e culturali diversi. Non è corretto, quindi, ricorrervi per indicare la distanza di sicurezza interpersonale o la distanza necessaria per evitare contagi tra più persone.
Un’intensa considerazione di Rainer Maria Rilke ci aiuta a guardare con occhio diverso la distanza. «Una volta che si è accettato di capire che anche tra gli esseri umani più vicini continuano ad esistere infinite distanze, può crescere un meraviglioso affiatamento, se questi riescono ad amare la distanza che li separa, che rende possibile ad ognuno di vedersi reciprocamente, per intero, stagliati nel cielo».
Qui la parola distanza ha tutt’altro significato rispetto a quello che gli dà F. Nietzsche, quando parla di pathos della distanza. Questa espressione - nel filosofo tedesco e in parte anche nella ripresa di Italo Calvino - indica l’atteggiamento dell’aristocratico che, da una presunta posizione di superiorità, “tiene a distanza” e guarda da lontano quanti non gli sono pari.
Invece, “la distanza che rende possibile ad ognuno di vedersi reciprocamente, per intero, stagliati nel cielo”, è la “distanza giusta”. Quella che permette di stabilire e coltivare relazioni sane ed equilibrate, grazie alla modulazione e alla misurazione, non esclusivamente fisica, di vicinanza-lontananza, come nel «dilemma dei porcospini», evocato da A. Schopenhauer.
I porcospini, per ripararsi dal gran freddo, provano a farlo stringendosi l’un l’altro; ma, a causa dei loro aculei, sono costretti ad allontanarsi e a cercare comunque la distanza giusta, per riscaldarsi senza farsi male a vicenda. È, sostiene il filosofo tedesco, la stessa fatica che sono chiamati a far gli uomini. Anche loro hanno bisogno di stabilire tra loro una distanza giusta. Quella che fa passare messaggi e comunicare disposizioni interiori ed emozioni. Una distanza che può persistere, nonostante gesti di grande vicinanza fisica. Chi infatti può davvero decifrare i sentimenti e le autentiche intenzioni che accompagnano le relazioni intime, anche le più belle?
Lo ha capito bene René Magritte. Con stile surreale, il pittore belga, nelle due versioni (1928) di The Lovers, mostra di non avere dubbi: nonostante i gesti di grande tenerezza, i due amanti non possono guardarsi negli occhi, non possono penetrare la loro intimità. Ad impedirglielo è l’inevitabile distanza, non fisica, esistente tra loro, rappresentata dal telo che ne avvolge il volto.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
NUOVO REALISMO E "GAIA SCIENZA": LA LEZIONE DI DANTE (E NIETZSCHE), OGGI. CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO.
FLS
L’anima e la cetra /8.
L’irrinunciabile custodia
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 16 maggio 2020)
Molte povertà sono anche povertà della parola. Una indigenza che impedisce di chiamare per nome il dolore proprio e quello degli altri. Questa povertà narrativa qualche volta precede le povertà materiali e morali, altre volte le segue, sempre le accompagna. I "cafoni" e gli oppressi di ogni tempo sono stati cafoni e oppressi anche e soprattutto per le parole che non sapevano dire e per quelle che dicevano i potenti e che loro non riuscivano e non riescono a capire. Ecco perché ogni povertà che vuole risorgere deve imparare e reimparare a parlare, finché, almeno un povero inizierà a dare un nome ai demoni della propria indigenza. Sta anche qui l’invito bellissimo che ci rivolgevano i nostri nonni: "Luigino studia"; sapevano bene che conoscere le parole dei signori era il primo passo di una liberazione.
La Bibbia, maestra e custode della parola, ne conosce le sue molte nature, ne ha visto il paradiso, ne ha intravisto l’inferno. L’ha vista, in principio, mentre creava il mondo; l’ha rivista diventare bambino, e si è stupita e commossa. Inseguendola tra la genesi e l’eskaton ha imparato la grammatica ambivalente delle parole umane. L’ha vista, bugiarda, sulla bocca di Giacobbe, poi su quella di Davide, il re più amato ma capace di uccidere con una parola menzognera, e infine su quella, bellissima, di Maria. E poi l’ha accompagnata in silenzio fino al monte dove la parola divenne grido. Ha imparato, tra molte difficoltà e fallimenti, a riconoscerla buona sulla bocca dei profeti veri e cattiva su quella dei falsi profeti. Ha capito che la parola è il contatto tra Dio e l’uomo, è il luogo dove l’umano e il divino parlano bocca-a-bocca e l’uno diventa sempre più simile all’altro. Siamo "immagine" di Elohim in molte cose, ma soprattutto lo siamo quando diamo ordine al mondo dicendolo con le parole, quando risuscitiamo noi stessi e gli altri con una parola finalmente diversa, quando feriamo e uccidiamo gli altri e noi stessi con una parola sbagliata.
Eravamo già immagine di Dio nelle grotte e nelle tende mobili del neolitico, ma lo siamo diventati di più per i miliardi di parole buone e belle che abbiamo imparato a ripeterci gli uni gli altri, ogni giorno. Solo gli dèi e gli uomini sanno parlare. Esiste, poi, un rapporto intimo ed essenziale tra la parola e la verità, che forse solo la Bibbia (e qualche poeta immenso) ci può spiegare. La verità è l’anima della parola. Come l’anima non appare in superficie, non si fa vedere, per molti non esiste. Quando la parola perde contatto con la verità perde la sua anima - o la vende al diavolo.
La parola è la protagonista del Salmo 12, un salmo sulla parola e quindi sulla profezia: «Salvami, Signore! Sparita è la lealtà; è scomparsa la sincerità tra i figli dell’uomo. Altro non fanno che mentirsi l’un l’altro, labbra adulatrici parlano con cuore doppio» (12,2-3).
Lealtà, sincerità, menzogna: questioni di parole. La sensazione certa del salmista è che la lealtà sia scomparsa dalla terra - o almeno dalla sua vita. È questa una tappa che arriva puntuale nella vita dell’uomo di fede, in particolare nei profeti. Perché i profeti, vivendo dentro del rapporto con la parola ricevuta e ridonata, sono particolarmente sensibili alla verità delle parole proprie e degli altri. Sono parola fatta carne, sempre in bilico tra il nulla e l’infinito, testimoni della forza-debole di un soffio effimero eppure capace di vincere la morte. Sono sentinelle in grado di vedere, nella notte, l’anima delle parole. Chi prega assomiglia molto al profeta: entrambi vivono della verità della parola, entrambi sono mendicanti dell’eco di parole sussurrate o gridate, entrambi non sono padroni né delle parole né, tantomeno, del ritorno dell’eco. E così sono radicalmente vulnerabili dalla manipolazione della parola, dalla menzogna. Qualche volta si convincono di essere circondati solo da menzogna. E non è raro che tra le lealtà e sincerità sparite dalla terra il profeta inserisca anche le proprie. Perché non fa parte del repertorio del profeta onesto sentirsi l’unico giusto superstite al mondo: la prima non-sincerità che avverte è la propria. Non è facile uscire da queste trappole di depressione spirituale, ma non è impossibile.
Il salmista vede e canta un aspetto cruciale della menzogna: "mentirsi l’un l’altro". Quando la menzogna prende possesso di una comunità - alcuni tipi di menzogna assumono la forma del virus - diventa reciproca. L’opposto del comandamento nuovo ("amatevi gli uni gli altri") non è solo il conflitto: è anche la menzogna reciproca. Perché come l’amore "non perdona" l’amato generando reciprocità, neanche la menzogna, spesso, perdona chi ne è toccato. Si diffonde, si moltiplica, cerca i propri simili, produce una sua perversa compagnia dove ciascuno si nutre delle menzogne degli altri e delle proprie - poche cose sono capaci di nutrirci più delle nostre bugie, che a forza di raccontarle finiamo per credere vere: perdiamo peso morale giorno dopo giorno e non ce ne accorgiamo. Una tipica forma di menzogna stigmatizzata dal salmo è l’adulazione: le "labbra adulatrici". La conosce anche il libro dei Proverbi: «Chi adula un amico, tende una rete ai suoi passi» (Pr 29,5). Tra le molte forme di adulazione, quella dell’amico è infatti particolarmente pericolosa e subdola.
Questa adulazione non è quella del falso amico (c’è anche quella). Diversamente dal falso-amico ruffiano, l’amico adulatore non ci loda in cerca di propri interessi, ma per una strana forma di pietà per noi. Sa di dire una parola non vera, ma la dice ugualmente per farci piacere. L’adulazione è molto frequente nelle richieste di stima: non abbiamo ragioni vere per stimare sinceramente un’opera o un’azione di un amico, ma decidiamo di soddisfare la sua richiesta donandogli una stima falsa. Preferiamo l’assonanza emotiva alla verità della parola. E così tendiamo "una rete ai suoi passi". Perché invece di scavare dentro quel rapporto e cercare una ragione vera di stima sincera, ci accontentiamo di una moneta falsa che spacciamo per buona. I rapporti iniziano a regredire, la parola perde verità, quell’amicizia perde la sua anima. E, come dice il Salmo, il cuore si sdoppia: un cuore sincero che tace e un cuore non-sincero che loda. Si sdoppia il cuore, si ammala l’amicizia, e col tempo il cuore bugiardo contamina e guasta quello buono. Chi trova un amico trova un tesoro; chi ne trova uno non adulatore ne trova due.
Ma la grammatica della parola contenuta nel Salmo non finisce qui: «Quanti dicono: "La lingua è la nostra forza, le nostre labbra sono con noi: chi sarà il nostro padrone?"» (12,5). La lingua è la nostra forza: eccoci dentro un’altra dimensione essenziale della parola. È quella legata direttamente al potere, a chi, sentendosi padrone delle parole e della loro anima crede di non avere nessun padrone oltre se stesso. Chi sa parlare e usare le parole domina e opprime chi non sa parlare o parla male - lo vediamo ogni giorno.
Il divieto di pronunciare il nome di Dio invano, racchiuso nel decalogo (Es 20,7), è anche dispositivo di protezione contro i tentativi di conoscere tutte le parole e quindi comandare su tutto e tutti. È la tentazione della magia, ma anche di chi vuole diventare padrone di tutte le parole. La lotta idolatrica della Bibbia si traduce anche nel rendere una parola inaccessibile e impronunciabile; perché se una parola non può essere comandata con la parola allora i suoi padroni saranno sempre padroni parziali anche quando si sentono padroni assoluti. Il nome nella Bibbia dice sempre mistero.
Qui il salmo denuncia allora la tentazione, sempre forte e a tratti invincibile, di chi usa le parole per costruire un suo culto, una sua religione. Se "parola" è uno dei nomi di Dio, allora il potere sulle parole è sempre potere religioso. Sta qui anche la radice dell’antico e sempre attuale progetto di Babele, dove la costruzione di un linguaggio unico e totale diventa lo strumento per l’edificazione di un impero assoluto, senza "nessun padrone".
Ogni impero, incluso il nostro, inizia pretendendo di dare un nome a quell’unica parola impronunciabile, e così si trasforma in una nuova religione-idolatria più piccola e meno libera di quella che voleva superare occupandone tutti i nomi. Le religioni dove i padroni conoscono tutte le parole, dove non ne resta neanche una nascosta nel mistero della nube, diventano imperi che volendo pronunciare tutti i nomi non riescono a dirne bene nessuno.
È l’uomo religioso il primo ad essere tentato dal voler mangiare il frutto dell’albero della conoscenza di tutti i nomi della terra e del cielo. L’Adam può e deve dare il nome agli animali ma non può dare il nome a Dio. Questo è l’unico nome può essere solo rivelato e poi velato di nuovo dallo stesso rivelatore, perché nella custodia del nome di Dio c’è anche la custodia dei nostri singoli nomi. «Per l’oppressione dei miseri e il gemito dei poveri, ecco, mi alzerò - dice il Signore -, metterò in salvo il mio testimone"» (12,6). Il salmista prega che il Signore venga il soccorso del suo testimone. Il profeta è il testimone del povero oppresso dal potere delle parole.
Chi, per vocazione, ha una competenza sulla parola, chi ne conosce l’anima, la può - la deve - usare per testimoniare a favore di chi non conosce abbastanza parole per salvarsi.
Si comprende così il valore civile della profezia: i profeti sono coloro che prestano parole a chi deve difendersi dai padroni di tutte le parole. Scrittori, poeti, giornalisti, politici, sindacalisti, artisti, avvocati partecipano alla stessa funzione profetica di Isaia e Amos se sono testimoni degli oppressi dalla parola nei tribunali della storia. Il povero è colui che non conosce abbastanza parole per poter chiamare tutti gli spiriti della sua vita, e non conoscendo il loro nome non riesce a scacciarli. I profeti, e i loro amici, chiamano per nome i demoni che minacciano i poveri, e poi li mandano via. E così la parola, ogni giorno, ridiventa carne e ripete a Lazzaro: "Vieni fuori".
L’anima e la cetra/7.
Non è bene che Dio sia solo
di Luigino Bruni (Avvenire, domenica 10 maggio 2020)
Alcune persone ricordano per tutta la vita il giorno in cui hanno visto per la prima volta il cielo stellato. Lo avevano "visto" altre volte, ma in una benedetta notte è successo qualcosa di speciale e lo hanno visto veramente. Hanno fatto l’esperienza metafisica dell’immensità e, simultaneamente, hanno avvertito tutta la propria piccolezza e fragilità. Si sono, ci siamo, visti infinitamente piccoli. E lì, sotto il firmamento, sono fiorite domande diverse, quelle che quando arrivano segnano una tappa nuova e decisiva della vita: dove sono e cosa sono i miei affari? e i miei problemi? cosa è la mia vita? cosa i miei amori, i miei dolori? E poi è arrivata la domanda più difficile: e io, che sono? È il giorno tremendo e bellissimo; per alcuni segna l’inizio della domanda religiosa, per altri la fine della prima fede e l’inizio dell’ateismo - per poi scoprire, ma solo alla fine, che le due esperienze erano simili, che magari c’era molto mistero nella risposta atea e molta illusione in quella religiosa, ma lì non potevamo saperlo. Non tutti fanno questa esperienza, ma se la desideriamo possiamo provare a uscire di casa in queste notti fatte più calme e nitide dai mesi sabbatici, cercare le stelle, fare silenzio, attendere le domande - che, mi hanno detto, qualche volta arrivano.
Per qualcuno, poi, c’è stato un altro giorno decisivo. Quando quell’infinitamente piccolo ha fatto l’esperienza che quell’«Amor che move il sole e l’altre stelle» si interessava di lui, di lei, lo cercava, gli parlava, la incontrava. Giorno altrettanto decisivo, perché non basta l’esperienza vera del giorno delle stelle perché inizi la vita religiosa. Ci sono molte persone che sentono veramente vibrare lo spirito di Dio nella natura, odono la sua voce risuonare nelle notti stellate e in molti altri luoghi, ma non si sono mai sentite chiamare per nome da quella stessa voce. Come ci sono altri che hanno fatto un autentico incontro personale con la voce dentro, ma che poi non l’hanno mai sentita vivere nell’universo intero, che non si sono mai commossi riconoscendola nell’immensità del cosmo. È l’incontro tra questi due giorni che segna l’inizio della vita spirituale matura, quando l’immensità che ci svela la nostra infinita piccolezza diventa un tu più intimo del nostro nome.
L’autore del Salmo 8 ha fatto, credo, l’esperienza di entrambi questi giorni. Ha riconosciuto la presenza di YHWH nel firmamento infinitamente grande e si è sentito infinitamente piccolo; e poi ha intuito che la voce che gli parlava tra le galassie era la stessa voce che gli parlava nel cuore: «Come splende, YHWH, il tuo nome su tutta la terra: la bellezza tua voglio cantare, essa riempie i cieli immensi... Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissato, io mi chiedo davanti al creato: e l’uomo che cos’è? perché di lui ti ricordi? Che cosa è mai questo figlio d’uomo perché tu ne abbia una tale cura?» (8, 2-5). Versi meravigliosi. Dovremmo avere il cuore e le stigmate di Francesco per cantarli.
Assistiamo in presa diretta a una esperienza dell’assoluto. Quell’antico poeta ha avvertito l’immensità e la piccolezza, non si è sentito schiacciato, e ha iniziato un nuovo canto. Il canto dell’umiltà (humilitas) vera, perché l’humus ci dice chi siamo veramente solo se riusciamo per un attimo a guardarlo da distanza siderale; l’adamah (terra) svela l’Adam solo se vista dall’alto. È questa la gioia per la verità finalmente rivelatasi, per una nuova ignoranza che non umilia. L’umiltà è l’opposto dell’umiliazione. E si sperimenta una nuova infanzia, una sconfinata giovinezza: «Da fanciullo e lattante balbetto» (8,3).
Al centro del salmo una domanda: cosa è il figlio d’uomo (Ben Adam: espressione cara ai profeti e ai vangeli), di fronte a tanta immensità?! Splendida è la risposta: nonostante la sua insignificanza in rapporto alle stelle e la sua piccolezza nel tempo e nello spazio, tu ti prendi cura dell’uomo, tu ti ricordi di lui. Come a dire: se tu tenessi conto, o Dio, di quello che l’Adam è oggettivamente in rapporto all’universo sterminato, non dovresti occupartene; e invece ti prendi cura di lui, di lei. E quindi la domanda necessaria: ma questa voce che mi parla dentro è proprio la stessa che ha parlato tra le galassie? La risposta del primo giorno può essere soltanto un sì, altrimenti il cammino non incomincia! Col passare del tempo la risposta diventa: forse. Poi arrivano i lunghi anni quando la risposta è: no. Infine ritorna il sì, ma - se e quando ritorna - è un sì detto con un’altra profondità e un’altra umiltà. E qui nasce una nuova meraviglia, trabocca la gratitudine, riaffiora la preghiera degli ultimi tempi.
Sta in questa tensione tra le stelle e il cuore, abitati entrambi dalla stessa presenza, la dignità dell’Adam, dei suoi figli e delle sue figlie, la sua gloria e il suo onore. Ci si perde nelle varie ideologie quando si perde uno di questi due poli. Dobbiamo leggere il Salmo 8 in parallelo con i primi capitoli della Genesi: «E Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò» (Gn 1,27). Il versetto della Bibbia che, forse, amo di più. L’Adam è posto da Elohim al centro del giardino della creazione perché ne fosse custode e responsabile. Il Salmo ce lo ridice: «Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi» (Salmo 8,7). L’Adam diventa il primo interlocutore di Dio, perché con la sua reciprocità potesse accompagnare anche la solitudine di Dio - «non è bene che l’uomo sia solo» (Gn 2,18) va letto insieme all’altra frase non scritta nella Bibbia ma altrettanto presente: non è bene che Dio sia solo.
Non mi stupirebbe se l’autore di quell’antico salmo mentre cantava avesse sottomano questi versi della Genesi. Forse stava meditando e contemplando "cosa è l’uomo" quando, ad un certo punto, non ha più retto l’emozione e ha composto uno dei versi più belli sull’uomo mai scritti da tutta la letteratura religiosa e laica. Dopo averlo visto sub specie aeternitatis, dopo essere andato con l’anima sulla luna e averlo perso di vista tanta era la sua piccolezza, tornato a quelle parole della Genesi ha rivisto un altro uomo. E ha pronunciato questo capolavoro, che va letto dopo qualche attimo di silenzio: -«Eppure l’hai fatto poco meno di Elohim, di gloria e di onore lo hai coronato» (8,6). Eppure: a volte la Bibbia sa racchiudere in una umile congiunzione tutta la sua profezia. Siamo effimeri, siamo come l’erba ... eppure... «Una voce dice: "Grida", e io rispondo: "Che cosa dovrò gridare?". Ogni uomo è come l’erba. Secca l’erba, il fiore appassisce ... Veramente il popolo è come l’erba» (Isaia 40,6-7).
Veramente ... eppure. Siamo stati pensati, cercati e amati tra un veramente e un eppure. Veramente effimeri come l’erba, veramente infinitamente piccoli, veramente infedeli e peccatori; eppure poco meno di Dio, eppure sua immagine e somiglianza, eppure amati, curati e attesi come figli.
Questa è l’immensa antropologia biblica. La letteratura antica conosceva la metafora dell’immagine di Dio applicata all’uomo. Ma era usata per il re, per il faraone. La Bibbia la usa per ciascuno di noi, per ogni uomo e per ogni donna, per te, per me. È l’Adam, ogni Adam, l’immagine e somiglianza di Elohim; e quindi lo siamo anche noi, tutti noi. È questa la magna carta di ogni dichiarazione dei diritti dell’uomo e della donna, dei bambini, delle bambine, della dignità del creato. Il Salmo 8 è un inno a Dio e insieme un inno all’uomo. Esalta la persona dicendoci chi è quel Dio di cui egli è immagine, ed esalta Dio dicendoci chi sono l’uomo e la donna che lo riflettono. Perché se l’uno è immagine dell’altro, più l’Adam diventa bello più dice la bellezza del suo Creatore, e più lasciamo libero Dio di diventare migliore di noi, più abbelliamo noi stessi. Non capiamo l’antropologia biblica se usciamo dalla reciprocità intrinseca al simbolo dell’immagine.
Ma la bellezza e la forza di questo canto esplodono se immaginiamo il salmista cantare quel versetto 6 mentre leggeva anche i capitoli tre e quattro della Genesi: quelli della disobbedienza, della seduzione vincente del serpente, e poi Caino e il sangue di Abele, di cui il salmista sentiva ancora l’odore. È troppo semplice cantare la gloria e l’onore dell’uomo fermandosi al capitolo due. La sfida decisiva è riuscire a continuare il canto mentre i capitoli scorrono e si entra nelle pagine buie e buissime del no, quelle della rottura dell’armonia uomo-donna-creato-Dio, nelle pagine della cacciata da quel giardino meraviglioso, quelle della notte oscura del primo fratricidio della terra. E giunti lì, non smettere il canto. E poi continuarlo con l’urlo tremendo di Lamek l’uccisore di fanciulli, con la ribellione di Babele, con i peccati dei patriarchi, con le bugie e gli inganni di Giacobbe, con l’omicidio dei beniaminiti, fino all’omicidio di Davide, alle infedeltà di Salomone e di quasi tutti i re d’Israele. E non smettere mai di cantare: «Veramente ... Eppure lo hai fatto poco meno di un Dio».
Tutta la forza dell’antropologia biblica si sprigiona quando riusciamo a vincere il dolore e la vergogna e ripetiamo "veramente ... eppure" non solo di fronte al firmamento ma anche nelle carceri, nelle meschinità, nelle violenze, nei bassifondi di Calcutta, nelle via crucis che portano al Golgota. Non c’è condizione umana che non sia racchiusa tra quel veramente e quell’eppure, nessuno resta fuori. La Bibbia non ha avuto paura di narrarci i peccati e le bassezze dei suoi uomini perché credeva veramente all’immagine di Elohim. E ogni volta che nascondiamo nelle nostre storie le pagine più buie abbiamo smesso di credere che siamo immagine.
Caino ha cancellato la sua fraternità e i suoi figli continuano a cancellarla uccidendo ogni giorno Abele. Ma non ha potuto cancellare l’immagine - e se il "segno di Caino" fosse proprio l’immagine di Elohim? «O Dio, Signore nostro, come splende il tuo nome su tutta la terra!» (8,10).
L’ORAZIONE SULLA DIGNITA’ DELL’UOMO - A UNA DIMENSIONE.
Da Giovanni Pico della Mirandola* a Herbert Marcuse** e ... ***
CARO ARMANDO, PER IMPARARE "a vivere meglio senza lasciarci condizionare dalla paura della morte, cioè dalla religione, qualunque essa sia", CREDO CHE SIA NECESSARIO riconsiderare il problema di "come nascono i bambini" (a tutti i livelli) ! Hai ragione : "Non possiamo permetterci, con le Sibille, Maria Vergine, Cristo come dio, Maometto ed altre favolette l’illusione di un altro Messia"! Ci siamo addormentati nella tradizione cattolico-costantiniana e illuministica acritica (contro Kant), e abbiamo finito per "concepire" noi stessi e noi stesse secondo la bio-logia e l’andro-logia “unidimensionale” dell’omuncolo !
L’«ECCE HOMO» di Ponzio Pilato, al contrario!, ci dice proprio questo - la fine delle "favolette" e di ogni "illusione di un altro Messia". Il discorso è di diritto e di fatto, romanamente universale, vale a dire, antropologico (non limitato all’« omuncolo » di qualche "uomo supremo" o “superuomo” !) :
SE SIAMO ANCORA CAPACI DI LEGGERE, COSA VA SIGNIFICANDO NEL TEMPO LA LEZIONE DI PONZIO PILATO ?! Non è una lezione critica contro i "sovranisti" laici e religiosi di ieri e di oggi ?!
Che vogliamo fare ? Continuare a riportare noi stessi e noi stesse davanti a Pilato e ripetere da scemi e da sceme la stessa scena, riascoltare il suo "Ecce Homo" e non capire una "H" (acca) ?!
* Discorso sulla dignità dell’uomo.
P.S. - RICORDANDO ... GLI ARCADI DI TERRA D’OTRANTO, VIRGILIO, E IL “VECCHIO DI CORICO”. A SOLLECITAZIONE E CONFORTO DELL’IMPRESA.
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Federico La Sala ("Fondazione Terra d’Otranto", 01/03/2020).
Pasqua. Aramaico, ebraico, greco, latino... in che lingua Gesù parlò con Pilato?
Oltre l’aramaico, conosceva anche l’ebraico e il greco? E in che lingua avvenne il processo davanti a Pilato? Le ipotesi degli studiosi e l’importanza degli idiomi per l’evangelizzazione
di Mimmo Muolo (Avvenire, martedì 7 aprile 2020).
In che lingua parlava Gesù? E i protagonisti dei grandi eventi che portarono alla sua morte in croce? La questione, da tempo al centro del dibattito tra gli studiosi, può essere assunta proprio nei giorni della Settimana Santa, come filo rosso per comprendere alcune dinamiche fondamentali dell’annuncio della Buona Novella dall’inizio fino a noi.
Le quattro lingue della Palestina
Va detto innanzitutto che al tempo in cui si svolsero gli eventi descritti nei Vangeli quattro erano le lingue parlate in Palestina. Quella ufficiale (ma anche la meno diffusa: usata solo da un ristretto numero di funzionari pubblico) era il latino. Quella religiosa era l’ebraico, parlata nelle sinagoghe, dove si leggevano i testi della Torah, e dai farisei che erano gli ebrei più osservanti. Quella della vita quotidiana era invece l’aramaico, che il popolo aveva adottato dopo il ritorno dall’esilio babilonese (VI sec. a.C.). E infine il greco della koiné, che era un po’ come l’inglese di oggi, parlata ovunque. Ebraico e aramaico erano lingue semitiche, imparentate tra loro come ad esempio l’italiano e il napoletano, dato che l’aramaico (nell’VIII secolo a.C. lingua delle comunicazioni internazionali nella Mesopotamia) era diventata una sorta di dialetto.
Gesù parlava solo l’aramaico?
Tra queste quattro lingue è ormai certo che quella usata da Gesù per la predicazione e per i colloqui con i discepoli fosse l’aramaico. Come ricorda Rinaldo Fabris, nel suo “Gesù il Nazareno” (Cittadella Editrice), sono almeno una ventina i passi dei Vangeli canonici (scritti in greco) in cui vengono citate parole o espressioni aramaiche. Per limitarci a quelle che riguardano la Settimana Santa: “Abba” (Padre), usato da Gesù nel Getsemani; “Eloi Eloi lemà sabachtani” (Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato) cioè le ultime parole di Cristo sulla croce secondo Marco e Matteo; il toponomastico Golgotha (“Luogo del cranio”) per indicare l’altura della crocifissione; e infine l’appellativo “rabbunì” (maestro mio) con cui Maria di Madgala chiama Gesù dopo la risurrezione. E a proposito di vittoria sulla morte, possiamo citare ancora il “talità qum”, (ragazza alzati) con cui Cristo riporta in vita la figlia di Giairo.
Del resto è naturale: cresciuto ed educato in una modesta famiglia della Galilea che abitava a Nazareth, villaggio di poche centinaia di abitanti, Egli certamente aveva come lingua materna l’aramaico occidentale che si parlava nella sua terra. Tra l’altro connotato da accento diverso da quello in uso a Gerusalemme, come attesta il “riconoscimento” di Pietro, nella notte dell’arresto di Gesù (Mt 26,73) proprio a motivo di come parlava.
L’aramaico, scelta di incarnazione
Questo fatto ci dice già una cosa importante. La concretezza dell’incarnazione vale per tutti gli aspetti della vita. Gesù si esprime in un idioma che tutti possono comprendere e poco importa se non è la lingua dei dotti. Anzi proprio questa vicinanza ai “piccoli”, al punto da parlare in “dialetto”, conferma se mai ce ne fosse bisogno la sua “rivoluzione” delle periferie, come direbbe papa Francesco. Il quale, parlando ai genitori dei bambini che stava battezzando nella Cappella Sistina il 7 gennaio 2018, raccomandò: “La trasmissione della fede soltanto può farsi in dialetto, la lingua intima delle coppie. Nel dialetto della famiglia, nel dialetto di papà e mamma, di nonno e nonna”. E non è un caso che un grande santo e teologo come Tommaso d’Aquino abbia predicato il quaresimale del 1273 in dialetto napoletano.
Le ipotesi sull’ebraico e il greco
Ciò che resta ancora incerto è se Gesù sapesse parlare nelle altre lingue. Almeno l’ebraico e il greco. Quanto all’ebraico, bisogna registrare un simpatico siparietto durante la visita di papa Francesco in Medio Oriente nel 2014. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, durante un incontro ufficiale, disse al Pontefice: «Gesù ha vissuto qui, parlava ebraico». «Aramaico», lo corresse Francesco. Al che Netanyahu, immediatamente, precisò: «Parlava aramaico ma conosceva l’ebraico, perché leggeva le Scritture». Al di là dei cordiali sorrisi che chiusero l’episodio, viene da chiedersi: è proprio così?
Secondo Fabris, “sulla base delle scarne informazioni del Vangeli non si è in grado di dare una risposta categorica alla domanda se Gesù sapesse leggere e scrivere”. E anche l’episodio riferito da san Luca, in cui nella sinagoga di Nazareth Egli prende e legge il rotolo del profeta Isaia, “non può essere addotto come prova che egli è in grado di leggere il testo ebraico della Bibbia”. Probabilmente infatti, argomenta lo studioso, quel racconto è il frutto di una rielaborazione dell’evangelista al quale interessa dire che Gesù è il Messia.
Tuttavia questo punto non è pacifico fra gli esegeti. Stefano Tarocchi, biblista e preside emerito della Facoltà Teologica dell’Italia centrale, nota infatti che “diversi altri racconti dei Vangeli favoriscono la teoria secondo cui Gesù era in grado di servirsi anche dell’ebraico quando la situazione lo richiedeva”. Soprattutto le conversazioni e discussioni con capi religiosi ebrei. “Questi dialoghi di solito avvenivano in ebraico anche tra chi aveva come prima lingua l’aramaico. Per essere credibile come interlocutore, con molta probabilità Gesù usava l’ebraico quando era impegnato in discorsi teologici con i farisei, gli scribi e gli altri capi ebrei”.
Quanto al greco, alcuni esegeti hanno ipotizzato che Gesù potesse conoscerlo, dato che vicino a Nazaret c’erano Sepphoris, capitale della tetrarchia di Erode Antipa, e Tiberiade, centro commerciale di una certa importanza, dove i mercanti greci arrivavano facilmente. Ma Fabris esclude un’ipotesi del genere, così come la possibilità che egli abbia conversato o insegnato in greco.
In che lingua parlarono Pilato e Gesù durante il processo?
Più possibilista è invece Tarocchi, citando la conversazione con il centurione romano di Matteo 8,5-13. “Anche Pilato nel processo - afferma - avrebbe usato il greco, non il latino, come ha invece immaginato Mel Gibson in The Passion. Non è nemmeno ipotizzabile che un governatore romano abbia potuto conoscere ed usare l’aramaico”. Tuttavia il dialogo potrebbe essersi svolto con l’intermediazione di un interprete (anche se nei Vangeli non se ne fa menzione), perché quello a Gesù non era certamente l’unico processo che Pilato fece nella sua carriera e la registrazione di un particolare così scontato può essere stata considerata superflua.
L’importanza del greco per l’evangelizzazione
Il greco però sicuramente entra in scena - e pesantemente - dopo la risurrezione. Soprattutto grazie alle lettere di Paolo, che sono i documenti più antichi del Nuovo Testamento, tutto scritto nell’”inglese” dell’epoca.
A questo punto il cambio di priorità, e dunque di paradigma anche linguistico, appare evidente. Alla logica dell’incarnazione si affianca quella dell’universalità del messaggio evangelico, che essendo destinato a tutti gli uomini, ha bisogno di un veicolo comunicativo il più possibile conosciuto. Il greco, appunto, che diviene così la lingua della “fase due” dell’evangelizzazione, dopo il primo annuncio del Nazareno. A quel punto l’idioma originale parlato da da Gesù diventa secondario, quasi ininfluente.
"Siamo Parti, Medi, Elamìti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène, stranieri di Roma, Ebrei e prosèliti, Cretesi e Arabi e li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio", esclameranno i presenti alla predicazione degli Apostoli, il giorno di Pentecoste. La voce di Cristo raggiunge ognuno nel suo linguaggio, secondo la doppia regola dell’incarnazione e dell’universalizzazione del messaggio della salvezza. E non è un caso che la Bibbia sia oggi il libro tradotto nel maggior numero di lingue al mondo.
Il pARTicolare.
Raffaello e la Madonna del Divino Amore
di Federica Maria Marrella [2018]*
Ci fu un saggio. Una volta.
Un saggio scritto che lessi con una voracità a me inconsueta, poiché la lentezza in realtà mi caratterizza, generalmente.
Eppure, quel saggio raccontava una storia bellissima. La storia di un dipinto simbolo e ritmo di perfezione.
Tondo in cui il tutto ha bisogno del singolo elemento, di ogni singolo particolare.
Verrà esposto a Torino nella Pinacoteca Agnelli, dal 17 marzo al 28 giugno, un dipinto di Raffaello Sanzio generalmente custodito a Napoli, nel museo di Capodimonte. L’opera è La Madonna del Divino Amore, realizzata nel periodo romano dell’artista, precisamente nel 1516 - 1518. Anni in cui la volta della cappella Sistina di Michelangelo Buonarroti era stata già compiuta. Anni in cui lo stile stesso di Raffaello si modifica, si espande nelle forme, nei tondi e negli angoli, come quella punta di ginocchio che tiene seduto il bambin Gesù.
Ma osserviamo l’opera.
Raffaello ritrae Maria, la madre Anna, Gesù e San Giovannino. Questo è il gruppo centrale, sapientemente ritratto e scolpito, poiché i corpi paion scolpiti, disegnati di sguardi, presentimenti, dettagli e silenziosi discorsi.
Maria e Anna, i capi leggermente appoggiati, sembrano sostenersi nell’osservare il miracolo di fronte a loro. Un sostegno muto e abbondante di sentimento. Lo stesso dialogo silenzioso e di sguardi realizzato nel cartone di Leonardo (Il Cartone di Sant’Anna, Louvre, Parigi). Quel cartone famoso, creato anche esso molti anni prima, nel 1499-1500, cartone in cui sant’Anna guarda, però, la figlia. E la figlia guarda il Cristo. E san Giovannino guarda anche egli il Cristo. E anche qui i corpi sono possenti. Entrambi gli artisti erano rimasti colpiti e, forse consciamente, forse inconsciamente ispirati dai corpi del Buonarroti. Quei corpi di scultura che si realizzano anche in pittura, nel disegno, nello studio della forma umana.
Le Conversazioni sono sempre materia molto complessa. Eppure la massa scultorea del cartone di Leonardo, i sentimenti umani concretizzati anche con la matita in uno sfumato misterioso, il movimento creato nella roccia umana, quel peso presente e concreto, tipico dell’umanesimo leonardesco che vedeva nell’uomo e nel suo corpo il più grande mistero di ogni tempo, ecco tutto questo in Raffaello sparisce. Questa possanza fisica, che si nota osservando ogni soggetto singolarmente, nel dialogo degli sguardi prende leggerezza, eleganza. Quella perfezione di cui parla Ernst H. Gombrich raccontando La madonna della seggiola (1514), altra opera di Raffaello. Quella perfezione e leggerezza che ha bisogno del tutto per esistere.
Eppure, il tutto nel dipinto di Raffaello, non si ferma al primo piano, al dialogo silenzioso ma serrato tra madre e figlia e tra i piccoli protagonisti. Il dialogo di fronte al mistero, pretende anche la solitudine del silenzio. Il distacco. La paura. Il disagio. madonna-del-divino-amore-dopo-il-restauro-img_5938
Queste parole sembrano così lontane dalla creazione di Raffaello Sanzio, il pittore che diede vita alla perfezione della natura, alla leggerezza, al tratto perfetto. All’armonia. Il pittore che, secondo le parole di Pietro Bembo, diede vita alla natura stessa. Raffaello invece, in questo dipinto, ritrae il dolore, la perplessità, la paura del mistero e dell’incomprensibile. Ritrae la pretesa e la ricerca di solitudine.
Eccolo, il pARTicolare.
Sullo sfondo, Giuseppe. San Giuseppe, perché ha già l’aureola. È già santo, anche nel suo tormento. Con le braccia conserte, ci sembra di vederlo che cammina avanti e indietro, su quel corridoio nascosto dalla luce perfetta che inonda il soggetto in primo piano. San Giuseppe, con la sua aureola, le sue braccia conserte, la sua mano tesa ad accartocciarsi il mantello, la sua testa confusa e i suoi pensieri legittimi, cammina, avanti e indietro. Crea un solco, su quel pavimento grigio.
Lo potremmo togliere, San Giuseppe, come ha giocato Gombrich sul dipinto de La Madonna con la seggiola. Il grande storico dell’arte aveva provato con la mano a coprire un elemento del dipinto e si è accorto che tutto il resto crollava.
La perfezione geometrica e l’armonia aveva bisogno del tutto.
E anche qui, senza san Giuseppe, questa conversazione crollerebbe.
Perché di fronte al miracolo, è concessa, anzi non solo concessa, è richiesta la paura. È da vivere il dubbio. Il dubbio che solca i pavimenti.
Che si stringe nel petto.
E che ci rende santi.
E quella distanza diventa unione nei colori. Il manto di Maria, azzurro, si unisce a quel cielo terso, in cui spicca il volto barbuto di San Giuseppe. Ogni elemento si unisce. Nel dialogo silenzioso, e dove non è possibile, nella Natura.
Federica Maria Marrella
* ArtSpeciallyDay, sabato 8 dicembre 2018 (ripresa parziale - senza immagini).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
AUGUSTO, LA SIBILLA TIBURTINA, E LA "MADONNA DI FOLIGNO" DI RAFFAELLO.
FLS
Le note spirituali della Civiltà Cattolica
“L’amore delle donne accompagna la passione di Gesù”.
di p. Giancarlo Pani S.I., vicedirettore de "La Civiltà Cattolica" *
Il Vangelo di Matteo presenta il racconto della passione di Gesù incorniciato tra due episodi che hanno come protagoniste alcune donne. La prima è una donna di Betania, che unge il capo di Gesù con un prezioso olio di nardo (Mt 26,6-13), le altre sono Maria di Magdala e le donne sul Calvario quando Gesù muore (27,55s) e, dopo il sabato, si recano al sepolcro alla prima luce dell’alba (28,1). Sono figure che illuminano il mistero.
Mancavano due giorni alla Pasqua. «Mentre Gesù si trovava a Betània, in casa di Simone il lebbroso, gli si avvicinò una donna che aveva un vaso di alabastro, pieno di profumo molto prezioso, e glielo versò sul capo mentre egli stava a tavola» (Mt 26,6s). È un momento di convivialità con la presenza del Signore.
Ad un certo punto compare una donna: chi sia, non si sa, non ha nome e non dice nemmeno una parola. Compie solo un gesto. Nella sala si spande la fragranza del profumo che suscita sdegno e proteste. Perché questo spreco? Si poteva venderlo per molto denaro e darlo ai poveri!
La donna tace, e Gesù afferma: «Perché infastidite questa donna? Ha compiuto un’azione buona verso di me. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me. Versando questo profumo sul mio corpo, lei lo ha fatto in vista della mia sepoltura» (vv.10-13). La donna - rivela Gesù - ha preparato il suo corpo per la morte.
Quello che gli apostoli non riescono a comprendere e che Gesù aveva detto più volte, lo ha compreso una donna: i capi dei sacerdoti e gli scribi volevano ucciderlo. In ogni caso, lei è l’unica ad aver capito che la vita di Gesù ha un esito preciso, la morte, e la morte viene perché Gesù ha donato la vita, perché si è fatto tutto a tutti. La donna lo ha veduto, lo ha ascoltato, custodisce le sue parole nel cuore, lo ha amato; e ora vuole essergli vicino con gratitudine. Risponde con amore all’amore di Gesù. Quel profumo è il suo dono, è tutto quello che ha, è tutta la sua vita. Perciò glielo versa fino in fondo, fino all’eccesso, che è la misura dell’amore che si dona senza misura.
La donna ha fatto un’azione buona, dice Gesù; in greco, alla lettera, «un’opera bella». È la bellezza di chi ama e che non bada a nulla per la persona amata. Lei ha compreso che la morte a cui Gesù va incontro è il frutto di un’intera vita donata ai fratelli. E lei, nella sua piccolezza, nella sua povertà, ha voluto esprimerlo con il suo gesto di amore. E Gesù lo accoglie, perché sa accogliere l’amore che gli diamo, che sia poco o tanto. Per lui non conta quello che si dona, ma il cuore con cui lo si dona.
Qui è una donna che dona e la donna sa bene che cosa comporta dare al mondo una vita; lei sa che dando la vita rischia di perdere la propria. Ma è il dono di un amore totale, che non teme il dolore, la sofferenza, la morte. È la profezia di quanto Gesù sta per vivere fino alla croce. La fragranza di quel profumo accompagnerà il Signore nella passione, nella morte, nella resurrezione. È un annuncio di vita e di gioia: è il profumo di Dio, il profumo del Vangelo. «Dovunque sarà annunciato questo Vangelo, nel mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche ciò che lei ha fatto» (v. 13).
***
Sul Calvario, quando Gesù muore, ci sono le donne che lo accompagnano. Sono lì, nel dolore e nel pianto per il Signore che le ha amate e che loro hanno amato. Una presenza e un amore che sono un segno anche per noi. Quando la vita spesa per gli altri ci porta al calvario e alla croce, spesso la luce della risurrezione è talmente lontana da perdere ogni forza confortatrice. La sofferenza può essere così amara e così totalizzante da spingerci in una situazione di disperata solitudine, di fallimento senza rimedio: la forza del Vangelo per il quale abbiamo tentato di vivere ci si vanifica in mano.
Ai piedi della croce - nel Vangelo di Matteo - i discepoli non ci sono. Ai loro occhi Gesù che muore è il segno della fine di tutto, di una speranza delusa, di un drammatico fallimento. Singolare è allora la figura delle donne sotto la croce. Non è pensabile che ai loro occhi potessero esserci prospettive diverse. Anche per loro Gesù muore, anche per loro il domani è nelle tenebre. Ma c’è un amore più forte che, nel buio, le tiene ai piedi della croce: ed è a questo amore semplice ma pieno, piccolo ma autentico, che per primo si rivela la resurrezione di Gesù.
L’amore delle donne è una strada anche per noi: tante volte ci troviamo nel buio, nello sradicamento totale, nell’assurdo, nel silenzio di Dio. Ma come le donne sono rimaste ai piedi di Gesù che muore, così la nostra preghiera insistente e il nostro silenzio fedele di fronte a un Dio che sembra non rispondere, ha in sé il germe di una speranza: anche a noi, come alle donne, si manifesterà la gloria del Signore che risorge.
* La Civiltà Cattolica,·Domenica 5 aprile 2020]
Sul tema, nel sito, si cfr.:
UOMINI E DONNE, PROFETI E SIBILLE, OGGI : STORIA DELLE IDEE E DELLE IMMAGINI.
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI : LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
FLS
Coronavirus.
La Chiesa: il 19 marzo alle 21 preghiamo tutti insieme per l’Italia
Famiglie, fedeli, comunità religiosa sono invitati a recitare in casa il Rosario, uniti alla stessa ora nella festa di San Giuseppe. Al via anche un sito web con le indicazioni di diocesi e parrocchie
di Francesco Ognibene (Avvenire, giovedì 12 marzo 2020)
La preghiera sarà condivisa in diretta su Tv2000. La Cei ricorda anche il testo della celebre invocazione di Leone XIII, per la preghiera personale:
Consapevole delle necessità di accompagnamento spirituale di tanta gente “in questo tempo di prova e di difficoltà per tutti”, la “Chiesa che è in Italia” accompagna l’invito per il 19 marzo con uno strumento digitale di facile consultazione con il quale “vuole dare segni di speranza e di costruzione del futuro. A partire dal presente”.
È dunque da oggi on line https://chiciseparera.chiesacattolica.it, “ambiente digitale che raccoglie e rilancia le buone prassi messe in atto dalle nostre diocesi - fa sapere l’Ufficio nazionale per le Comunicazioni sociali in una nota -, offre contributi di riflessione e approfondimento, condivide notizie e materiale pastorale”.
Si tratta di “un’iniziativa, promossa dalla Segreteria Generale della Cei, per testimoniare ancora e sempre l’impegno della Chiesa che vive in Italia nel continuare a tessere i fili delle nostre comunità. La convinzione che ci guida è che le criticità, lo smarrimento, la paura non possano spezzare il filo della fede, ma annodarlo ancora di più in speranza e carità”.
Con Chiciseparera.chiesacattolica.it la Chiesa italiana mette a disposizione “un punto di riferimento per riscoprire un senso di appartenenza più profondo. Il nome stesso “Chi ci separerà?” (Rm 8,35) indica un percorso impegnativo: la certezza che, pur circondati da una minaccia, niente potrà mai separarci da quell’Amore che ci unisce, perché figli e fratelli, e ci rende comunità. In questo senso bisogna osare, mettersi in cammino e non fermarsi”. “Il sito appena pubblicato - conclude la
Cei - intende guardare oltre il tempo presente. E quell’oltre non può che essere anche la qualità di una comunicazione pensata e che faccia pensare. È l’orizzonte a cui tendere”.
L’ECCE HOMO, L’8 MARZO AL TEMPO DEL “CORONA VIRUS”, E LA MEMORIA DI CHRISTINE DE PIZAN ...
ALLA LUCE DEL CHIARIMENTO DEL SIGNIFICATO DELLE PAROLE DI PONZIO PILATO: “ECCE HOMO”(cfr. sopra : https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/02/26/dialetti-salentini-piticinu/#comment-269838), si comprende meglio anche il significato delle parole di Christine de Pizan, l’autrice della “Città delle dame” : «Or fus jee vrais homs, n’est pa fable,/De nefs mener entremettable » (« Allora diventai un vero uomo, non è una favola,/capace di condurre le navi» - cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Christine_de_Pizan), che dicono ovviamente non della “metamorfosi” in “vir” - uomo, ma della “metanoia” in “homo” - essere umano (su questo, in particolare, si cfr. Michele Feo, “HOMO - Metanoia non Metamorfosi”, “dalla parte del torto”, Parma, autunno 2019, numero 86, pp. 12-13).
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ASTREA ! “IAM REDIT ET VIRGO” ...
CARO ARMANDO... RICORDANDO DI NUOVO E ANCORA IL TUO PREGEVOLISSIMO LAVORO SU- GLI ARCADI DI TERRA D’OTRANTO, VIRGILIO, E IL “VECCHIO DI CORICO”. A SOLLECITAZIONE E CONFORTO DELL’IMPRESA (si cfr. https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/08/gli-arcadi-di-terra-dotranto-premessa-1-x/#comment-238474), E LA TUA CONNESSIONE TRA LA “PIZANA” CAPACE DI “CONDURRE LE NAVI” CON LA FIERA E NOBILE Carola Rackete, A SUO E TUO OMAGGIO, riprendo qui una breve scheda su:
Buon 8 marzo 2020 - e buon lavoro...
L’ORAZIONE SULLA DIGNITA’ DELL’UOMO - A UNA DIMENSIONE.
Da Giovanni Pico della Mirandola* a Herbert Marcuse** e ...
CARO ARMANDO, PER IMPARARE "a vivere meglio senza lasciarci condizionare dalla paura della morte, cioè dalla religione, qualunque essa sia", CREDO CHE SIA NECESSARIO riconsiderare il problema di "come nascono i bambini" (a tutti i livelli)! Hai ragione: "Non possiamo permetterci, con le Sibille, Maria Vergine, Cristo come dio, Maometto ed altre favolette l’illusione di un altro Messia"! Ci siamo addormentati nella tradizione cattolico-costantiniana e illuministica acritica (contro Kant), e abbiamo finito per "concepire" noi stessi e noi stesse secondo la bio-logia e l’andro-logia “unidimensionale” dell’omuncolo!
L’«ECCE HOMO» di Ponzio Pilato, al contrario!, ci dice proprio questo - la fine delle "favolette" e di ogni "illusione di un altro Messia". Il discorso è di diritto e di fatto, romanamente universale, vale a dire, antropologico (non limitato all’«omuncolo» di qualche "uomo supremo" o “superuomo”!):
SE SIAMO ANCORA CAPACI DI LEGGERE, COSA VA SIGNIFICANDO NEL TEMPO LA LEZIONE DI PONZIO PILATO?! Non è una lezione critica contro i "sovranisti" laici e religiosi di ieri e di oggi?!
Che vogliamo fare? Continuare a riportare noi stessi e noi stesse davanti a Pilato e ripetere da scemi e da sceme la stessa scena, riascoltare il suo "Ecce Homo" e non capire una "H" (acca)?!
P.S. - RICORDANDO ... GLI ARCADI DI TERRA D’OTRANTO, VIRGILIO, E IL “VECCHIO DI CORICO”. A SOLLECITAZIONE E CONFORTO DELL’IMPRESA.
COME NASCONO I BAMBINI? E COME ‘NASCONO’ I GENITORI?! ... *
Cantico dei Cantici.
Il corpo delle donne (intimità della Bibbia)
di Luigino Bruni (Avvenire, martedì 11 febbraio 2020)
Sono tra coloro che sono rimasti delusi dalla performance di Roberto Benigni al Festival di Sanremo dedicata al biblico Cantico dei Cantici. Forse perché avevo aspettative alte, grazie al ricordo, vivissimo, delle sue meravigliose letture di Dante, della Costituzione italiana, dei Dieci comandamenti; forse perché Benigni ci ha donato film molto amati per la loro poesia e forza etica.
Ma, forse, in questa delusione c’è anche qualcosa di più. Il corpo delle donne, insieme a quello dei bambini, è il primo bene che una civiltà deve tutelare e proteggere con tutte le sue forze. Quando un uomo, un maschio, parla del corpo della donna, prima deve togliersi i calzari dai piedi perché sta entrando in un territorio sacro, una terra fatta sacra da molto amore e da moltissimo dolore. Da sempre il corpo della donna, prima di essere icona dell’amore, è stato immagine di potere, di violenza, di abusi e di soprusi, di corpo ferito e di eros comprato dai maschi.
Non si può parlare del corpo delle donne senza avere ben in mente i molti millenni di storia umana in cui le donne hanno vissuto il proprio corpo come luogo da custodire e da preservare dall’uso cattivo dei maschi, un uso sbagliato che ancora troppo spesso è presente e non solo storia.
Ho guardato Benigni insieme a mia mamma e mia sorella. Due donne moderne, laiche, riconciliate con la vita e con i corpi loro, dei figli e dei mariti. Non hanno detto una parola durante lo spettacolo, ma l’aria di casa si è riempita di un pudore mescolato con l’imbarazzo e il disagio.
Accanto a loro, io ho avuto forte l’impressione di vedere sullo schermo una donna denudata in pubblico da Benigni, senza che lei avesse dato il suo consenso, denudata ai soli fini dello show. Ho visto quella giovane donna medio-orientale, vissuta due millenni e mezzo fa, e in lei ho rivisto le bellissime ragazze delle Mezzaluna fertile (il Cantico mette insieme antichi poemi nuziali babilonesi e cananei).
Una ragazza ’bruna’ in un mondo di maschi, in una cultura patriarcale che vedeva poco e male le donne, nascoste sotto la tenda, a occuparsi per tutta la vita di bambini e anziani. Quando nella Bibbia si incrocia una donna non è mai un incontro banale. Quelle donne hanno in genere lottato e sofferto molto per entrare in quel racconto, hanno dovuto farsi spazio in una cultura che non glielo dava spontaneamente.
Donne che vivevano poco e male, quasi tutte analfabete, e non di rado morivano per gravidanze non sempre volute e desiderate. Quale eros conosceva quella ragazza del Cantico? Non certamente quello delle fantasie di noi maschi del XXI secolo, né quello che ci ha raccontato Benigni.
Il Cantico è testo profetico, perché dice ai maschi e alle donne del suo tempo quale fosse il disegno di Dio sulla donna e sull’amore. Non era la descrizione dell’eros che quegli antichi scrittori vedevano attorno a loro, ma l’eros di un mondo futuro sempre desiderato e mai raggiunto.
Non dobbiamo infatti dimenticare che il Cantico è un intreccio di presenza e di assenza dell’amato. È anche un canto all’amore non trovato, che fugge, che non si trova:
«Lungo la notte, ho cercato l’amore dell’anima mia; l’ho cercato, ma non l’ho trovato. Mi alzerò e farò il giro della città per le strade e per le piazze; voglio cercare l’amore dell’anima mia. L’ho cercato, ma non l’ho trovato. Mi hanno incontrata le guardie che fanno la ronda in città: ’Avete visto l’amore dell’anima mia?’» (Cantico 3,1-3).
Senza questa dimensione di mancanza, di assenza, di limite, non si comprende l’eros che diventa solo gioco o sterile ricerca di piacere. L’eros è insieme pienezza e indigenza, ferita e benedizione. Ferita per tutti, uomini e donne, ma diversamente e di più per le donne (ferita, cioè vulnus).
Non credo che il Cantico sia stato scritto da una donna, e non lo credo per molte ragioni. Ma soprattutto non lo credo perché una donna non avrebbe parlato del proprio corpo e di quello del suo uomo con quelle parole. Le donne hanno altre parole per parlare dell’amore, dell’eros, della philia e dell’agape. Perché dell’eros le donne amano parlare solo due alla volta, nell’intimità di un rapporto d’amore, dove le parole non dette e quelle sussurrate sono importanti almeno quanto il corpo donato, e quando mancano queste poche parole diverse il corpo parla poco e male.
L’unico numero buono dell’eros è il due. E quando dell’eros si parla troppo e si parla in pubblico l’eros diventa altro, ed è bene usare altre parole molto meno nobili. La Bibbia ha da sempre letto quell’antico canto nuziale in modo sapienziale, allegorico e profetico, non per negare l’eros ma per salvarlo, perché l’unico modo per salvare l’eros è custodirlo nella sua intimità e nel suo nascondimento. E quando il Cantico viene letto senza ideologie e manipolazioni, non si fa una esperienza erotica, ma si fa una esperienza spirituale, mistica e soprattutto poetica:
«Àlzati, amica mia, mia bella, e vieni, presto! Perché, ecco, l’inverno è passato, è cessata la pioggia, se n’è andata; i fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è tornato e la voce della tortora ancora si fa sentire nella nostra campagna. Il fico sta maturando i primi frutti e le viti in fiore spandono profumo. Àlzati, amica mia, mia bella, e vieni, presto!» (2,10-13).
La poesia è stata infatti la grande assente dalla lettura di Benigni, una poesia mangiata dalla bramosia, molto infantile, di stupire gli spettatori con quell’eros ’nascosto’ dai preti e rabbini finalmente scoperto e liberato. Tutti i giorni i media usano i corpi delle donne per fare spettacolo, per vendere, per fare audience. E ogni giorno di più. La Bibbia non lo ha mai fatto. Parla poco di eros e di sesso, perché ne rispetta il mistero e l’intimità. La Bibbia va portata in tv, va portata ovunque, perché parla solo e sempre di vita. Ma se proviamo a manipolarla si chiude e non ci fa accedere al suo mistero e alla sua bellezza. Come, nonostante le probabili buone intenzioni, è accaduto l’altra sera sul palco di Sanremo.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO: "AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE" (Cantico dei cantici: 8.6). Un omaggio a William Shakespeare e a Giovanni Garbini.
COME NASCONO I BAMBINI? E COME ‘NASCONO’ I GENITORI?! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
«Canzonissima della Bibbia».
Il sorprendente dono del Cantico dei Cantici a Sanremo
di Rosanna Virgili (Avvenire, sabato 8 febbraio 2020)
Che gioia il Cantico dei Cantici a Sanremo! Grazie a Roberto Benigni che ha sorpreso e stupito il Festival con quel libretto della Bibbia che la tradizione ebraica e cristiana ha conservato come la canzone più bella, la ’canzonissima’ secondo una suggestione di Gianluigi Prato. Tre sono i trascendentali: verum, bonum e pulchrum. Importante è il bello. L’arte, nelle sue forme più nobili - quali la musica, la pittura, la poesia - è capace di far emergere il divino che si annida nella Parola, più di ogni altro linguaggio.
E allora l’idea di far conoscere e gustare il Cantico è stata davvero stupenda, appropriata, preziosa per un pubblico tanto vasto e popolare come quello del Sanremo in mondovisione (e non può inficiarla neppure la forzata ’licenza interpretativa’ che ha tradotto, tradendolo, l’amore tra amato e amata in altri amori che sono lontani e fuori dal limpido orizzonte biblico).
Del resto i duetti del Cantico, intervallati dalle voci del coro, assomigliano ai testi delle canzoni in gara e anch’essi nascono in un ambiente popolare; quadretti di vita rurale che hanno il sapore delle sere d’estate o del primo autunno quando, dopo la mietitura o la vendemmia, a notte, si faceva festa e gli occhi e le braccia dei ragazzi e delle ragazze si incrociavano, si intrecciavano, si inebriavano al sogno dei baci. Nel Cantico - scrive Guido Ceronetti - non c’è il nome di Dio, perché tutto è puro, quindi tutto è sacro! La forza dell’amore sveglia la primavera sui passi dell’amante che - inverosimilmente - è una donna. È lei a uscire per prima verso chi ancora non ha mai visto, ma è solcato nel suo desiderio profondo, nelle sue cavità vitali. Trasgressiva, testarda è la ’sorella’ del Cantico, si sottrae all’autorità dei fratelli, non cura la sua vigna ma corre verso le ’tende dei pastori’, esce nei deserti, batte la campagna, sfida le guardie alle mura della città, ’malata d’amore’! Una vera anomalia per un mondo in cui le donne non potevano scegliere i loro uomini ma venivano date in spose a scopo di procurare ai mariti una discendenza. Non avevano diritto sul proprio corpo, ma la donna del Cantico lo rapisce e ne fa guida e grammatica del viaggio dell’Amore. C’è un esodo dal sé, un’effrazione del self, per osare gli ignoti sentieri, le rischiose curve, gli anfratti del volto dell’Altro.
L’Amore è un’avventura senza garanzie, una strada senza ritorno, ’forte più della morte’. Irreversibile, fonte di creature nuove, diverse, bagnate di futuro. Amore che azzera i possessivi: ’io sono sua, mentre lui è mio’: l’estasi di un’unione che non risponde alla tentazione di divorare l’altro, rendendolo un cadavere.
Ma è pienezza di ’te’: del consegnarmi a te. Bocca d’infinito, sorso d’eternità, graffio di Vita! Nel testo originario le sue consonanti asciutte, nette, impossibili a essere fraintese. I sensi sono sentinelle e finestre del corpo, teso fuori di sé. ’Una voce, il mio amato’: il primo senso è casto come l’udito. ’Come sei bella, amica mia, come sei bella, le tue labbra una striscia di porpora’. Gli occhi di lui scoprono l’incanto della pelle di lei ’color del miele’, traduce magnificamente Luca Mazzinghi. Il tuo profumo è la quintessenzadi ogni aroma delle piante più squisite d’Oriente; ’c’è latte e miele sotto la tua lingua’; l’olfatto e il gusto si alleano nell’estasi d’Amore dove il tuo nardo è ben più forte di ogni vino drogato. Restituiscono al corpo la sua anima. Un minuto solo dura il tatto ma procura un vero svenimento; com’era per i Greci così nel Cantico, l’Amore è lelymmenos ’scioglitore di membra’. Per fare ’dei due un corpo solo’ direbbe l’Apostolo Paolo.
L’Amore è attesa, fatica, sudore di brama e di timore; esso regala attimi di estasi e anni di deserto, però quegli attimi valgono bene gli anni! L’Amore è corpo nudo, vuoto, puro, come il Santo dei Santi. Per questo il Cantico è il libro dei mistici, Paese sospeso. Dio come in un passaggio, la meghillà di Pasqua. Nel corpo che si perde è il profumo di Dio. Per questo è un gran peccato che la Chiesa abbia impedito per secoli l’accesso a questo piccolo libro, grandissimo tesoro, fonte di salute e salvezza per il corpo e per l’anima. Teniamo sveglio il cuore ora che ’il tempo del canto è tornato’.
CAPIRE IL COMPORTAMENTO UMANO.
di Antonio Rainone *
Carità o empatia?
Esiste una tematica nella filosofia del linguaggio e nell’epistemologia di W. V. Quine che può apparire per molti versi atipica o sorprendente a chi abbia del celebre filosofo statunitense un’immagine limitata alle sue concezioni fisicalistiche e comportamentistiche, per non dire “scientistiche”, non di rado considerate le più caratteristiche della sua produzione filosofica. Si tratta della tematica dell’empatia, cioè della capacità di avanzare spiegazioni o interpretazioni del comportamento (linguistico e non) di altri soggetti “mettendosi nei loro panni” o “simulandone” la situazione cognitiva o, ancora, assumendone immaginativamente il ruolo.
L’empatia - anche indipendentemente da Quine - ha peraltro suscitato una particolare attenzione nella filosofia della mente degli ultimi trent’anni, dove ha dato vita a un ampio dibattito sul cosiddetto mindreading, incontrandosi inoltre con la teoria neuroscientifica dei cosiddetti neuroni specchio 1. I più recenti lavori sulla filosofia del linguaggio di Quine dedicano una particolare attenzione a tale tematica 2, anche perché Quine, pur accennandovi in Word and Object (1960), ne ha proposto una esplicita teorizzazione solo nella sua produzione più tarda.
A partire dagli anni Settanta, ma più esplicitamente negli anni Novanta, Quine ha considerato il metodo dell’empatia come il metodo fondamentale di traduzione nel celebre Gedankenexperiment della traduzione radicale (ovvero la traduzione di una lingua completamente sconosciuta), ma anche come una capacità naturale ai fini dell’acquisizione del linguaggio e dell’attribuzione di stati mentali intenzionali (ossia percezioni, credenze, desideri ecc.) ad altri. In effetti, l’empatia ha acquisito un rilievo così crescente in Quine che nei suoi due ultimi lavori sistematici, Pursuit of Truth (1992) e From Stimulus to Science (1995), essa appare come un nucleo centrale della sua filosofia del linguaggio e della mente.
È stato del resto lo stesso Quine a sottolineare la rilevanza dell’empatia nella sua filosofia del linguaggio, “retrodatandone”, per così dire, la teorizzazione agli anni Cinquanta. Così Quine si esprime in uno dei suoi ultimi interventi sulla questione:
Il brano qui citato da Quine, ripreso dall’importante The Problem of Meaning in Linguistics (1951b, p. 63) - una notevole anticipazione della problematica della traduzione radicale - non è privo di una certa ambiguità, prestandosi a una duplice lettura. È forse vero che in Word and Object alcune affermazioni di Quine potrebbero essere interpretate come la proposta di un metodo empatico, sostenuto comunque in modo non del tutto esplicito (cfr. Rainone, 1995), ma possono essere avanzati dei dubbi circa la difesa di tale metodo nel saggio del 1951. Se da un lato il concetto di proiezione sembra proporre il metodo dell’empatia nell’attività di traduzione di una lingua completamente sconosciuta da parte di un etnolinguista, dall’altro sembra in effetti riferirsi non tanto al metodo empatico, quanto, piuttosto, a quello che, grazie allo stesso Quine, e in seguito a Donald Davidson (cfr. Davidson, 1984), sarebbe diventato noto come «principio di carità» (principle of charity). Il linguista - asseriva infatti Quine - proietta sé stesso con la sua Weltanschauung nei panni del nativo che usa una lingua sconosciuta, presupponendo (o ipotizzando) così che il suo informatore si conformi ai suoi principi logici e abbia le sue stesse credenze (ritenute vere) riguardo alla realtà (sono questi, grosso modo, i principali tenet del principio di carità, che presuppone una comune natura razionale tra interprete/ traduttore e interpretato/parlante).
In Word and Object Quine avrebbe esplicitamente utilizzato - e teorizzato - il principio di carità riguardo alla traduzione dei connettivi logici e degli enunciati “ovvi”. L’esempio più pertinente, in merito, è rappresentato dal «caso estremo» di qualche nativo che accetti come veri enunciati traducibili nella forma “p e non-p” (per esempio, “piove e non piove”), una forma enunciativa che, violando il principio di non contraddizione, deporrebbe per Quine non a favore dell’irrazionalità dei parlanti - come riteneva Lévy-Bruhl con la sua teoria della «mentalità prelogica» - ma contro la correttezza della traduzione (Quine, 1960, p. 58).
Il medesimo argomento varrebbe inoltre per la traduzione di enunciati ovvi: una risposta negativa da parte del nativo alla domanda (nella lingua nativa) “sta piovendo?” fatta sotto la pioggia costituirebbe una prova di cattiva traduzione nella lingua nativa, non del fatto che il nativo non condivida con il traduttore la credenza in qualcosa di così evidente. In generale, nota Quine in un famoso passo di Word and Object, «quanto più assurde o esotiche sono le credenze attribuite a una persona tanto più sospetti abbiamo il diritto di essere nei confronti delle traduzioni; il mito dei popoli prelogici segna solo il caso estremo» (ivi, p. 68).
Difficilmente, pertanto, la «proiezione» del linguista nei «sandali» del nativo di cui Quine parlava nel saggio del 1951 potrebbe apparire come una forma di metodo empatico, dal momento che essa “imporrebbe” al nativo uno «schema concettuale» (quello del linguista) che, per quanto il linguista può saperne, potrebbe essergli del tutto estraneo. Questo è, in fondo, il problema sottostante a tutto il celebre secondo capitolo di Word and Object 3. Non vi sarebbe alcuna garanzia, infatti, secondo Quine, che i nativi condividano lo stesso schema concettuale (la stessa Weltanschauung) del linguista. Ma il linguista non può, d’altro canto, che fare affidamento sul proprio linguaggio (o schema concettuale), data la scarsa evidenza empirica di cui dispone nel tradurre la lingua sconosciuta. Basarsi sul proprio schema concettuale, proiettandolo sul «linguaggio della giungla», è una necessità pratica, che - asseriva Quine in Word and Object - investirebbe soprattutto l’elaborazione delle «ipotesi analitiche», ovvero le ipotetiche correlazioni tra le emissioni verbali olofrastiche dei nativi e le loro possibili traduzioni mediante cui il linguista deve stabilire quali frammenti di enunciati andranno considerati termini (singolari e generali), quali congiunzioni, quali articoli, quali desinenze per il plurale e quali pronomi, sulla cui base individuare un insieme plausibile di credenze ontologiche ed epistemiche. La scelta delle ipotesi analitiche, infatti, non è altro che un modo di «catapultarsi nel linguaggio della giungla utilizzando i propri modelli linguistici » (ivi, p. 70).
Per ricordare il celebre esempio di Quine, la traduzione del proferimento di “gavagai” con “coniglio” (invece che con alternative bizzarre quali “stadi di coniglio” o “sta conigliando”, per quanto ammissibili sulla base dell’evidenza osservativa) equipara l’emissione verbale nativa a un termine generale del linguaggio del linguista, ma nulla esclude che i nativi possano essere privi di un termine referenziale generale per designare i conigli, anche se il linguista ritiene ciò “caritatevolmente” improbabile.
Utilizzare i modelli del proprio linguaggio per tradurre un linguaggio alieno non equivale quindi ad applicare un metodo empatico di comprensione, trattandosi al massimo di un’ulteriore e più ampia applicazione del principio di carità. L’empatia sembra in realtà qualcosa di diverso dalla carità: a differenza di quest’ultima, l’empatia non presuppone necessariamente una condivisione di significati e stati cognitivi (credenze). Forse l’assunzione di un’analogia di stati cognitivi tra interprete e interpretato - il «ritrovamento dell’io nel tu», secondo la celebre formula di Wilhelm Dilthey (1927, trad. it. p. 293) - può apparire inevitabile ed efficace riguardo alle risposte verbali fenomenologiche direttamente connesse a stimolazioni elementari provenienti da eventi osservativi intersoggettivi del mondo esterno (la pioggia, il colore rosso, il caldo e il freddo ecc.): ci si aspetta infatti che i nativi, che presentano una conformazione neurofisiologica e neuropsicologica analoga alla nostra, non abbiano percezioni di tipo diverso dalle nostre, rispondendo linguisticamente a tali percezioni in modo analogo a come risponderemmo noi; in tal caso l’empatia sembrerebbe indistinguibile dalla carità interpretativa, in quanto fondata sull’assunzione dell’esistenza di meccanismi percettivi comuni ai soggetti coinvolti. Ma difficilmente tale analogia potrebbe essere presupposta allorché si tratti di tradurre il linguaggio o spiegare il comportamento di soggetti appartenenti a una cultura del tutto estranea a quella dell’interprete. In questo caso l’interprete dovrà in qualche modo “entrare”, per così dire, nella “mente” dei soggetti da interpretare per comprendere il loro peculiare punto di vista, le loro credenze sulla realtà e i significati delle loro parole.
In definitiva, la differenza tra carità ed empatia può essere intesa come la differenza tra imporre il proprio punto di vista all’altro e assumere il punto di vista dell’altro. La differenza è particolarmente rilevante nei casi di interpretazione di soggetti appartenenti a “mondi” radicalmente diversi da quello dell’interprete. Se così non fosse, difficilmente gli etnoantropologi avrebbero potuto attribuire credenze animistiche o culti religiosi atipici (come i celebri cargo cults) alle popolazioni studiate (in entrambi i casi si dovrebbe trattare, secondo un’interpretazione caritatevole, di errori di traduzione o interpretazione).
Non dovrebbe costituire motivo di sorpresa, allora, che David K. Lewis, in un saggio dedicato alla problematica davidsoniana dell’«interpretazione radicale», avesse dato una definizione del principio di carità che ingloba, per così dire, anche il procedimento empatico: un soggetto di interpretazione, asseriva Lewis, «dovrebbe credere ciò che crediamo noi, o forse ciò che avremmo creduto noi al suo posto; e dovrebbe desiderare ciò che desideriamo noi, o forse ciò che avremmo desiderato noi al suo posto» (Lewis, 1974, p. 336; corsivi aggiunti). In pratica, secondo questa definizione del principio di carità, si tratterebbe di assumere empaticamente il punto di vista dei soggetti interpretati, tenendo conto delle loro credenze (eventualmente false o strane) e della loro cultura di appartenenza, attribuendo a essi non le credenze e i desideri dell’interprete, ma le credenze e i desideri che l’interprete avrebbe se fosse “nei loro panni”. Si può aggiungere, a tale proposito, che l’empatia rappresenta una sorta di “correttivo” del principio di carità, tenendo conto del punto di vista dell’altro.
Ma forse c’è ancora qualcosa da dire: mentre la carità impone dei vincoli normativi sulla razionalità dei soggetti da interpretare - vincoli a priori basati sui principi logici e sulle norme di razionalità epistemica e pratica dell’interprete, ritenuti universali 4 -, l’empatia sembrerebbe invece un metodo descrittivo ed empirico, essendo subordinata all’acquisizione di un’ampia gamma di informazioni relative alle credenze, alla cultura e alle esperienze passate dei soggetti da interpretare (inutile aggiungere che non c’è accordo su quest’ultimo punto).
4. Si può ricordare, riguardo a questa presunta universalità, che Robert Nozick ha contestato il principio di carità in quanto assunzione di tipo «imperialistico», conferendo tale principio «un peso indebito alla posizione che accade di occupare a noi, alle nostre credenze e alle nostre preferenze» (Nozick, 1993, p. 153). Giustamente, Nozick fa notare che difficilmente questa sarebbe l’assunzione di un antropologo relativamente alle cosiddette società “primitive” (ivi, p. 154).
* Cfr. Antonio Rainone, "Capire il comportamento umano. Azione, razionalità, empatia", Carocci editore, Roma, 2019, pp. 55-59, ripresa parziale.
NOTA:
USCIRE DALL’INFERNO EPISTEMOLOGICO. Amore (Charitas) o Mammona (Caritas)?! Il «principio di carità» ("caritas"!), un assunzione di tipo «imperialistico» (Robert Nozick, "La natura della razionalità", 1995). Una storia di lunga durata...:
VICO E MARX CONTRO LA PRASSI (ATEA E DEVOTA) DELLA CARITÀ POMPOSA. Alcune note su un testo del Muratori
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
CREATIVITÀ E IMMAGINAZIONE COSMOTEANDRICA (cosmologia, teologia, e antropo-logia!). QUALE DIO: AMORE ("CHARITAS") O "MAMMONA"? QUALE MADRE: "MARIA-EVA" O "MARIA-MARIA"?!....*
SANTA MESSA NELLA SOLENNITÀ DI MARIA SS.MA MADRE DI DIO
LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
CAPPELLA PAPALE
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Basilica Vaticana
Mercoledì, 1° gennaio 2020
«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana!
Nel primo giorno dell’anno celebriamo queste nozze tra Dio e l’uomo, inaugurate nel grembo di una donna. In Dio ci sarà per sempre la nostra umanità e per sempre Maria sarà la Madre di Dio. È donna e madre, questo è l’essenziale. Da lei, donna, è sorta la salvezza e dunque non c’è salvezza senza la donna. Lì Dio si è unito a noi e, se vogliamo unirci a Lui, si passa per la stessa strada: per Maria, donna e madre. Perciò iniziamo l’anno nel segno della Madonna, donna che ha tessuto l’umanità di Dio. Se vogliamo tessere di umanità le trame dei nostri giorni, dobbiamo ripartire dalla donna.
Nato da donna. La rinascita dell’umanità è cominciata dalla donna. Le donne sono fonti di vita. Eppure sono continuamente offese, picchiate, violentate, indotte a prostituirsi e a sopprimere la vita che portano in grembo. Ogni violenza inferta alla donna è una profanazione di Dio, nato da donna. Dal corpo di una donna è arrivata la salvezza per l’umanità: da come trattiamo il corpo della donna comprendiamo il nostro livello di umanità. Quante volte il corpo della donna viene sacrificato sugli altari profani della pubblicità, del guadagno, della pornografia, sfruttato come superficie da usare. Va liberato dal consumismo, va rispettato e onorato; è la carne più nobile del mondo, ha concepito e dato alla luce l’Amore che ci ha salvati! Oggi pure la maternità viene umiliata, perché l’unica crescita che interessa è quella economica. Ci sono madri, che rischiano viaggi impervi per cercare disperatamente di dare al frutto del grembo un futuro migliore e vengono giudicate numeri in esubero da persone che hanno la pancia piena, ma di cose, e il cuore vuoto di amore.
Nato da donna. Secondo il racconto della Bibbia, la donna giunge al culmine della creazione, come il riassunto dell’intero creato. Ella, infatti, racchiude in sé il fine del creato stesso: la generazione e la custodia della vita, la comunione con tutto, il prendersi cura di tutto. È quello che fa la Madonna nel Vangelo oggi. «Maria - dice il testo - custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (v. 19). Custodiva tutto: la gioia per la nascita di Gesù e la tristezza per l’ospitalità negata a Betlemme; l’amore di Giuseppe e lo stupore dei pastori; le promesse e le incertezze per il futuro. Tutto prendeva a cuore e nel suo cuore tutto metteva a posto, anche le avversità. Perché nel suo cuore sistemava ogni cosa con amore e affidava tutto a Dio.
Nel Vangelo questa azione di Maria ritorna una seconda volta: al termine della vita nascosta di Gesù si dice infatti che «sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore» (v. 51). Questa ripetizione ci fa capire che custodire nel cuore non è un bel gesto che la Madonna faceva ogni tanto, ma la sua abitudine. È proprio della donna prendere a cuore la vita. La donna mostra che il senso del vivere non è continuare a produrre cose, ma prendere a cuore le cose che ci sono. Solo chi guarda col cuore vede bene, perché sa “vedere dentro”: la persona al di là dei suoi sbagli, il fratello oltre le sue fragilità, la speranza nelle difficoltà; vede Dio in tutto.
Mentre cominciamo il nuovo anno chiediamoci: “So guardare col cuore? So guardare col cuore le persone? Mi sta a cuore la gente con cui vivo, o le distruggo con le chiacchiere? E soprattutto, ho al centro del cuore il Signore? O altri valori, altri interessi, la mia promozione, le ricchezze, il potere?”. Solo se la vita ci sta a cuore sapremo prendercene cura e superare l’indifferenza che ci avvolge. Chiediamo questa grazia: di vivere l’anno col desiderio di prendere a cuore gli altri, di prenderci cura degli altri. E se vogliamo un mondo migliore, che sia casa di pace e non cortile di guerra, ci stia a cuore la dignità di ogni donna. Dalla donna è nato il Principe della pace. La donna è donatrice e mediatrice di pace e va pienamente associata ai processi decisionali. Perché quando le donne possono trasmettere i loro doni, il mondo si ritrova più unito e più in pace. Perciò, una conquista per la donna è una conquista per l’umanità intera.
Nato da donna. Gesù, appena nato, si è specchiato negli occhi di una donna, nel volto di sua madre. Da lei ha ricevuto le prime carezze, con lei ha scambiato i primi sorrisi. Con lei ha inaugurato la rivoluzione della tenerezza. La Chiesa, guardando Gesù bambino, è chiamata a continuarla. Anch’ella, infatti, come Maria, è donna e madre, la Chiesa è donna e madre, e nella Madonna ritrova i suoi tratti distintivi. Vede lei, immacolata, e si sente chiamata a dire “no” al peccato e alla mondanità. Vede lei, feconda, e si sente chiamata ad annunciare il Signore, a generarlo nelle vite. Vede lei, madre, e si sente chiamata ad accogliere ogni uomo come un figlio.
Avvicinandosi a Maria la Chiesa si ritrova, ritrova il suo centro, ritrova la sua unità. Il nemico della natura umana, il diavolo, cerca invece di dividerla, mettendo in primo piano le differenze, le ideologie, i pensieri di parte e i partiti. Ma non capiamo la Chiesa se la guardiamo a partire dalle strutture, a partire dai programmi e dalle tendenze, dalle ideologie, dalle funzionalità: coglieremo qualcosa, ma non il cuore della Chiesa. Perché la Chiesa ha un cuore di madre. E noi figli invochiamo oggi la Madre di Dio, che ci riunisce come popolo credente. O Madre, genera in noi la speranza, porta a noi l’unità. Donna della salvezza, ti affidiamo quest’anno, custodiscilo nel tuo cuore. Ti acclamiamo: Santa Madre di Dio. Tutti insieme, per tre volte, acclamiamo la Signora, in piedi, la Madonna Santa Madre di Dio: [con l’assemblea] Santa Madre di Dio, Santa Madre di Dio, Santa Madre di Dio!
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETÀ. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!!
Federico La Sala
ECUMENISMO E PROBLEMA DELL "UNO" ... *
Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe.
Contemplando con fede la casa di Nazareth ogni credente può scorgervi un modello
di Matteo Liut (Avvenire, domenica 29 dicembre 2019)
La vita nasce da una relazione che si apre all’infinito, perché ogni essere umano che viene al mondo è segno dell’amore sconfinato di Dio. La famiglia è scrigno prezioso che ha la responsabilità di dare forma a questa continua promessa di futuro.
Oggi il rito romano pone la festa della Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, icona universale di un’intimità domestica portatrice di un messaggio rivoluzionario: Dio abita in mezzo a noi. Contemplando la casa di Nazareth ogni credente non può non scorgervi un’ispirazione e un modello: i piccoli gesti di cura e attenzione vissuti tra quelle mura testimoniano lo stile dell’agire di Dio nella storia. Ecco perché per i cristiani farsi compagni di strada degli ultimi significa prima di tutto essere luce di speranza e di amore per le persone più vicine: tutti abbiamo bisogno di aprirci continuamente alla vita attraverso relazioni d’amore.
Altri santi. San Davide, re (X sec. a.C.); san Tommaso Becket, martire (1118-1170).
Letture. Sir 3,3-7.14-17; Sal 127; Col 3,12-21; Mt 2,13-15.19-23.
Ambrosiano. Pr 8,22-31; Sal 2; Col 1,13b.15-20; Gv 1,1-14.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
FLS
La rivista.
«Rompere il muro della diseguaglianza tra donna e uomo nella Chiesa»
Il numero di dicembre di "Donna Chiesa Mondo", supplemento dell’Osservatore Romano, dedicato al rapporto di papa Francesco con il mondo femminile
di Gianni Cardinale (Avvenire, sabato 28 dicembre 2019)
“Le donne e Francesco”. È questo il titolo dell’ultimo numero di “Donna Chiesa Mondo”, il supplemento mensile dell’Osservatore Romano coordinato da Rita Pinci interamente dedicato all’universo rosa. Il fascicolo, in uscita oggi in allegato al quotidiano diretto da Andrea Monda, ospita interventi di donne - laiche e consacrate - che “dicono ciò che pensano di papa Francesco in rapporto alla questione femminile nella Chiesa”. E lo dicono in piena libertà. Numerosi i contributi, dal contenuto a volte pungente.
Stefania Falasca di Avvenire sottolinea che “al di là della formazione personale, la sollecitudine con la quale papa Francesco, fin dalla sua elezione, si è dedicato alla questione delle donne, del loro ruolo e accesso alle responsabilità ecclesiali, evidenzia l’urgenza di affrontare una realtà che riguarda la visione della Chiesa stessa e investe la sua natura gerarchica e comunionale”. È tale visione infatti “che spinge il Papa a percepire il monocolore maschile come un difetto, uno squilibrio, una minorazione della Chiesa considerato che senza le donne essa risulta deficitaria nell’annuncio e nella testimonianza e che dunque compromette la sua missione”.
Alla luce del recente Sinodo sull’Amazzonia la teologa Serena Noceti da parte sua ricorda che “nel quadro della visione del ministero ordinato consegnata dal concilio Vaticano II, la teologia sistematica è interpellata oggi per valutare la possibilità di ordinare donne diacono”. Così “sessanta anni dopo il votum di mons. de Uriarte Bengoa, ancora una volta dall’Amazzonia, la richiesta di donne diacono - come voce profetica? - raggiunge la chiesa intera e sollecita la teologia a ‘pensare in novità’”.
Mentre la “filosofa femminista” Luisa Muraro lamenta che anche la volontà di cambiamento di papa Francesco sarebbe però "un’eccezione" al livello "alto" della Chiesa dove prevale ancora "la preoccupazione di andare d’accordo con una tradizione che ha, fatalmente, l’impronta del tra-uomini di potere".
Tra i temi affrontati nel fascicolo anche lo spinoso problema della violenza contro le suore, sessuale e sotto forma di abuso di potere, da parte degli stessi uomini della Chiesa. "Il pontefice ha rotto il silenzio sulla violenza - sottolinea suor Jolanta Kafka, la nuova presidente della Uisg, Unione Internazionale Superiore Generali, che riunisce 1900 congregazioni per oltre 450.000 consacrate - e questo ci dà la possibilità di parlare, di essere, anche come Uisg, un luogo di ascolto e di aiuto non solo nei confronti della violenza sessuale, ma di ogni abuso di potere".
Da segnalare poi un appello al Papa a firma di Marinella Perroni, teologa e biblista al Pontificio Ateneo Sant’Anselmo: "Date l’esempio al mondo, anche quello che si ritiene ’civilizzato’ e che invece fa ancora tanta fatica ad accettare che, tra uomo e donna, non c’è uno che è soggetto (anche di parola) e l’altra che è oggetto (anche di parola), ma che, ormai, la soggettualità non può che essere condivisa. E ognuno parli di sé. Abbiamo gran bisogno di ascoltare uomini che parlano di maschilità. Anche nella Chiesa".
Il supplemento si chiude con una paginetta dal titolo forte: “Rompere il muro della diseguaglianza”. In essa tre fondatrici dell’Associazione Donne in Vaticano - Romilda Ferrauto, Adriana Masotti, Gudrun Sailer - sostengono che "anche in Vaticano le donne sono a volte viste, da uomini, ma anche da altre donne, come persone di minor valore intellettuale e professionale, sempre disponibili al servizio, sempre docili ai comandi superiori". Di qui l’urgenza appunto di "rompere il muro della diseguaglianza fra donne e uomini nella Chiesa".
Sulla scia dell’insegnamento di Papa Francesco, per cui “l’alleanza dell’uomo e della donna è chiamata a prendere nelle sue mani la regia dell’intera società”. Con un invito “alla responsabilità per il mondo... e anche nella Chiesa”.
USCIRE DALLA CAVERNA E DALL’INFERNO EPISTEMOLOGICO, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE COSMO-TE-ANDRICA PLATONICA. Materiali sul tema... *
Veder le stelle con gli occhi di Dante
Fisici, cosmologi, poeti, scrittori, teologi e mistici sono da sempre affascinati dalla “scienza stellare” dantesca: lo ricorda l’inglesista Tracy Daugherty in un nuovo saggio
di Gianni Vacchelli (Avvenire, mercoledì 18 dicembre 2019)
Dante ci sorprende sempre e ci spiazza, anche quando crediamo di averlo incasellato, almeno su un aspetto. Così potremmo pensare che la sua astronomia sia realmente irricevibile e superata. Ad esempio per il grande poeta Thomas Eliot, anche acuto dantista, come tutti sappiamo, «non è essenziale che la quasi inintelligibile astronomia di Dante sia capita ». Eppure non è così. E se forse l’accademia riserva in genere una rispettosa ma un po’ distaccata attenzione alla “scienza stellare” dantesca, fisici, cosmologi, oltre che poeti, scrittori, teologi e mistici ne sono da sempre affascinati. Soprattutto oggi gli uomini di scienza. Ce lo ricorda anche l’americano Tracy Daugherty, professore emerito di Inglese all’Oregon State University, nonché romanziere, nel suo recente e interessante saggio Dante and the Early Astronomer [Dante e la Prima Astronoma] ( Yale University Press).
In verità il libro di Daugherty, come si evince anche dal sottotitolo “Scienza, avventura e una donna vittoriana che aprì i cieli”, è sì dedicato a Dante ma insieme all’astronoma Mary Acworth Evershed (conosciuta pure come M.A. Orr, col cognome da nubile, prima di sposare John Evershed, importante astronomo lui stesso).
Mary è una donna inglese, nata nel 1867. Amava la poesia e il cielo stellato, e un viaggio in Italia all’età di 20 anni, a Firenze e a Ravenna, fu fondativo per la sua ricerca: decise così di studiare attentamente tutti i riferimenti astronomici nella Commedia di Dante, che arriverà a leggere in italiano. E nel 1913 Mary, con il cognome di Orr, pubblicò il suo importante studio Dante and the Early Astronomers, troppo presto dimenticato e che sarebbe utile riscoprire e tradurre in italiano. Nonostante il modello tolemaico di Dante fosse totalmente superato, Mary ammirò «la fedeltà dantesca agli insegnamenti dell’astronomia come l’aveva imparata dai suoi maestri», «la fantastica precisione dentro una struttura chiara» nel descrivere i fenomeni celesti. Per lei «il Poeta possedeva l’istinto e le attitudini di un ricercatore scientifico: una mente irrequieta, un abito di attenta osservazione».
Studiosa dei crateri lunari e delle macchie del sole, che «Dante aveva riconosciuto tre secoli prima che venissero scientificamente rilevate», Mary rimase affascinata anche da come Galileo, che stava aprendo all’umanità una nuova immagine di universo, rimanesse fedele alla retorica, all’immaginazione, ai ritmi danteschi. Le sue descrizioni del sole nelle Lettere sulle macchie solari echeggiavano le discussioni astronomiche di Beatrice in Paradiso II, sulle macchie lunari. Per la Evershed «Galileo considerò sempre Dante un pari, e la sua maestria artistica un modello... per lui la Commedia non era un cimitero di teorie astronomiche scartate, ma un prologo poetico a future scoperte». Allo stesso modo anche lei «seguì le tracce dell’universo di Dante, afferrò l’uso da parte di Galileo dell’arte di Dante per far avanzare le sue nozioni scientifiche e partecipò alla rivoluzione mentale che espanse l’esistenza e la conoscenza nel modo in cui Einstein - e Dante - predissero che sarebbe accaduto».
E in effetti il libro di Daugherty accenna in più parti ad una seconda e in qualche modo diversa linea di ricezione delle idee astronomiche del Poeta. Se la Evershed, con Galileo prima di lei, ha ammirato la coerenza e l’accuratezza “scientifica” del dettato dantesco, pur nel paradigma tolemaico non più accettabile, oggi molti «scrittori come il matematico Mark A. Peterson, lo storico della scienza Edward Grant e lo storico William Egginton hanno sostenuto in modo persuasivo che le concezioni medievali di Dante sulla forma dell’universo sembrano agli astronomi contemporanei sorprendentemente preveggenti». Dante insomma avrebbe «inventato un nuovo spazio topologico, la 3-sfera, o ipersfera», come scrive il citato Peterson in una sua analisi del 1979. In qualunque caso, una cosa è certa: la rappresentazione grafica del cosmo dantesco, ancora largamente accettata e quasi onnipresente su tutte le antologie scolastiche, con la terra al centro, i nove cieli intorno e l’Empireo sopra tutti, per lo più rappresentato come una sorta di “buffo cappellino” all’intero universo dantesco, è inaccettabile, testo di Dante alla mano.
Basta rileggere due complessi ma splendidi passi paradisiaci. In Paradiso XXVII, 106ss., Dante spiega la natura del Primo Mobile, la prima e più esterna delle sfere cosmiche ruotanti attorno alla Terra in base al modello geocentrico dell’universo, da cui trarrebbero origine il moto e il tempo. E scrive: «Luce e amor d’un cerchio lui comprende, / sì come questo li altri; e quel precinto / colui che ’l cinge solamente intende» (Pd XVVII, 112-114). Qui il Poeta sembrerebbe descrivere l’Empireo come un’ultima realtà capace di cingere il Primo Mobile e tutti gli altri cieli a seguire. Eppure nel canto successivo, Paradiso XXVIII, 16ss., avviene qualcosa di straordinario: Dante vede al centro dell’universo non la terra bensì un punto luminosissimo, il cui splendore non può essere sostenuto da occhi umani: «un punto vidi che raggiava lume / acuto sì, che ’l viso ch’elli affoca / chiuder conviensi per lo forte acume» (Pd XXVIII, 16-18). Il mistero divino è adesso centro dell’universo, «da quel punto / depende il cielo e tutta la natura» (vv.41-42), ed è come se il Poeta scorgesse «un altro universo», rovesciato e fatto, ugualmente, di nove cerchi concentrici, sede delle gerarchie angeliche ruotanti intorno a Dio.
È a partire da questi passi danteschi che il fisico rumeno Roman Patapievici, nel suo prezioso e oggi introvabile libretto Gli occhi di Beatrice ( Bruno Mondadori 2006), scrive: «L’immagine allo specchio è simile a quella reale, solo che è invertita. Il mondo invisibile diventa allora un calco rovesciato del mondo visibile: l’Empireo è Dio-centrico mentre la Terra è diavolo-centrica... l’invisibile obbedisce a norme opposte rispetto al visibile. Per spiegare queste simmetrie non resta che concepire l’universo visibile (con al centro la Terra) e l’Empireo (con al centro Dio) come due sfere che hanno in comune la superficie, cioè il “Primo Mobile”: il che equivale appunto a una ipersfera, oggetto della geometria di Riemann adottato da Einstein per descrivere l’universo nella relatività generale ». Su questa intuizione tornano recentemente anche due fisici italiani, Marco Bersanelli, nel suo Il grande spettacolo del cielo (Sperling & Kupfer 2016) e Carlo Rovelli in Ci sono luoghi al mondo dove più che le regole è importante la gentilezza ( Corriere della Sera 2018), che loda la «straordinaria intelligenza, anche matematico-scientifica» di Dante.
Questa ipotesi in verità ha una storia lunga e viene fatta risalire al matematico svizzero Andreas Speiser, che ne scrisse nel 1925, ripreso appunto poi da Mark Peterson, dall’astrofisico svizzero Bruno Binggeli e infine da Patapievici. Per altro già nel 1922 Pavel Florenskji in un breve e densissimo scritto, Gli immaginari in geometria, aveva sostenuto, a partire dalla “piroetta” effettuata dal Dante-personaggio in If XXXIV al centro della terra, che la concezione dello spazio della Commedia è abbordabile solo con il sostegno teorico della relatività einsteiniana e della geometria non-euclidea. Per concludere sorprendentemente: «Squarciando il tempo, dunque, la Divina Commedia finisce inaspettatamente per trovarsi non indietro, ma avanti rispetto alla scienza nostra contemporanea ».
Eppure forse il punto è un altro, anche se le riletture della fisica e della matematica contemporanee sono importanti, e certo da approfondire in uno studio esaustivo. Perché Dante ragiona da un mythos diverso dal nostro e le sue “preveggenze” gli vengono da una visione mistica dell’esistente. Ecco allora che il mistero divino sarà insieme imprendibile sfera e centro concentrico della realtà, contenente e contenuto, trascendente e immanente, come recitava un folgorante aforisma del medievale Libro dei XXIV filosofi: «Dio è una sfera infinita, il cui centro è ovunque e la circonferenza in nessun luogo».
La fisica contemporanea vi intravede un’iper-sfera. Sia. Per Dante la posta in gioco però è forse ancora più complessa: non solo ravvisare in tutto ciò il mistero divino, ma comprendere come la trinità Dio(Mistero)-Uomo-Cosmo sia in una relazione costitutiva e rappresenti tutta la realtà: non Dio, l’Uomo o il Cosmo da soli.
Potremmo ricordarci allora l’intuizione cosmoteandrica (cosmo-dio-mondo) del filosofo e teologo indocatalano Raimon Panikkar, che parlava anche di teofisica, «non tanto come “fisica di Dio”, ma come “del Dio della Fisica”, del Dio creatore del mondo, dove il mondo non è sentito in quanto autonomo, indipendente e diviso da Dio, ma costitutivamente connesso a Lui». L’ardore di Dante è stato quello di provare a tenere insieme queste dimensioni della realtà - misteriosa, umana e materiale - con tutti i saperi che aveva a disposizione, anche fallaci, limitati, scientificamente. È questo che ci attende oggi: mantenere viva e prolungare la tensione dantesca, aggiornandola all’altezza dei tempi. E le potenti preveggenze del Poeta sembrano guidarci, perché «poca favilla gran fiamma seconda».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’INCARNAZIONE AL DI LA’ DELL’ IMMAGINAZIONE "TE-ANDRICA" DEL CATTOLICESIMO-COSTANTINIANO: DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. Ipotesi di rilettura della "Divina Commedia".
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
FLS
Marta Cartabia, il cuore di Salomone e la riserva della Repubblica
Preoccupazione umana nell’esercizio della funzione di giudice, rapporto molto stretto con il presidente Mattarella, profonda conoscenza del diritto internazionale e comparato. Tre figli, e in cuffia i Metallica. Profilo della prima presidente della Consulta
di Maria Antonietta Calabrò (HUFFPOST, 11/12/2019)
Precisa, puntuale, acuta. L’opinione pubblica ha conosciuto il suo nome e il suo volto incorniciato dal caschetto, quest’estate, a fine agosto quando - apertasi la crisi di governo gialloverde - il suo nome è stato fatto come possibile nuovo presidente del Consiglio. Ma dopo qualche giorno di rumors, Marta Cartabia, vicepresidente della Corte dal 2014 ha smentito l’ipotesi. “L’incarico alla Corte costituzionale, che mi è stato affidato otto anni fa e che si concluderà nel settembre 2020, richiede grande impegno e responsabilità e intendo portarlo a compimento per il valore che la Costituzione gli attribuisce per la vita del Paese e soprattutto per quella di ogni singola persona”, dichiarò allora.
Com’è noto, l’impegno di giudice di palazzo della Consulta dura nove anni, e lei, babyboomer , nata nel 1963, ordinario di diritto costituzionale a Milano Bicocca (relatore della sua tesi di laurea un altro presidente della Corte Valerio Onida), è stata nominata, lei cattolica, all’Alta Corte dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nel settembre 2011.
Il nome di Cartabia come possibile premier non era uscito a caso, ma come quello di una personalità che avrebbe potuto garantire la discontinuità chiesta dal Pd per una possibile alleanza con il M5s.
Già nel 2018 aveva pensato alla giurista il Presidente Sergio Mattarella per guidare un governo neutrale per traghettare il Paese verso nuove elezioni.
Già da queste poche note emerge il primo tratto decisivo del nuovo presidente della Corte Costituzionale (che ha scritto un libro a quattro mani con Luciano Violante, “Giustizia e Mito”): una levatura altissima, al di sopra delle parti, centrata sui valori della Costituzione.
Ma la riga finale del suo comunicato di agosto, il riferimento ai valore che la “Costituzione attribuisce per la vita del Paese, e soprattutto per quella di ogni singola persona”, è indice di una sua preoccupazione umana costante nell’esercizio della sua funzione di giudice.
Il giudice non come asettica “bocca della legge”, ma il giudice “con il cuore di Salomone”, inteso come il mitico re biblico dell’Antico Testamento, esempio estremo di saggezza che per “scoprire” la vera madre di un neonato conteso tra due donne, ordinò di tagliare in due il bambino, sicuro, come poi avvenne, che la vera madre sarebbe stata quella che avrebbe lasciato suo figlio all’altra donna, affinché vivesse.
Tanto che Marta Cartabia ha curato un volume proprio dedicato a “La legge di Salomone. Ragione e diritto nei discorsi di Benedetto XVI” insieme ad Andrea Simoncini dell’Università di Firenze.
Un altro tratto distintivo della Cartabia è il rapporto molto stretto con il Presidente della Repubblica, Mattarella, nonostante siano quasi “opposti”. Lui, uomo, più anziano, siciliano, “cattolico democratico”.
Lei, la più giovane Presidente della Consulta, donna, lombarda, cattolica, vicina fin dall’Università, a CL.
Quella tra Cartabia e Mattarella è cementata dal fatto che, dopo la morte della moglie e prima dell’elezione al Quirinale, Mattarella ha vissuto nella foresteria della Corte Costituzionale, dove alloggiano il presidente e i vicepresidenti, tra cui la Cartabia appunto, quando sono a Roma, a due passi a piedi dal Palazzo della Consulta.
Per tre anni Cartabia è stata la sua vicina di pianerottolo in poco più di sessanta metri quadri. Due stanze (una camera da letto e una seconda camera adibita a studio), bagno, salotto con angolo cottura. Mobili di noce scuro, pareti sempre pulite e fresche di tinteggiatura, ma l’arredamento non ha niente di più che non sia l’essenziale. Quasi fosse studente fuori sede.
Il terzo tratto della Cartabia che vale la pena sottolineare è la conoscenza del diritto internazionale e comparato (tra l’altro è stata allieva di Joseph Weiler, eminente giurista ebreo, titolare della cattedra Jean Monnet della New York Law School), molto importante in questo periodo di transizione globale.
Già nel 2006 ha curato un volume (Rubettino) che ha pubblicato in Italia alcuni saggi di Mary Ann Glendon, docente di Harvard (che è stata professore anche dell’attuale Segretario di Stato americano, Mike Pompeo), “Tradizioni in subbuglio”, saggi comparsi su riviste giuridiche americane: riflessioni storiche e teoriche sulle condizioni per lo sviluppo della democrazia, sul ruolo dei giudici nei sistemi di civil law e di common law; sulle tematiche generali dei diritti umani alla libertà di religione e al diritto di famiglia.
Marta Cartabia ha 3 figli e ama la montagna (ad agosto, mentre di lei si parlava come possibile prima donna premier lei era impegnata nella scalata della vetta del Gran Paradiso), il trekking e la musica rock, e corre con nelle cuffie la musica dei Beatles e dei Metallica.
Ha sempre conciliato le responsabilità cui è stata chiamata, con la sua famiglia: “Penso che questo duplice aspetto della mia vita mi aiuti a mantenere un pizzico di equilibrio”, ha dichiarato di recente.
Tutte queste caratteristiche che fanno della Cartabia, il giudice gentile con il cuore del Re Salomone, a 56 anni, una vera e propria riserva della Repubblica.
BENEDETTO XVI/ Per fare politica occorre il “cuore” di Salomone
Ieri, presso la Biblioteca del Quirinale, è stato presentato il volume “La legge di Salomone. Ragione e diritto nei discorsi di Benedetto XVI”.
Ne parla ANDREA SIMONCINI *
L’idea di questo libro nasce da una constatazione: oggi la Chiesa è accusata spesso di entrare “a gamba tesa” nei dibattiti politici ovvero nelle discussioni di tipo giuridico; da più parti si ritiene che le gerarchie cattoliche pretendano di dettare ex cathedra i contenuti del dibattito democratico, distorcendo, così, tale dibattito. Un’accusa del genere è fondata? Questa obiezione nasce dalla vera posizione della Chiesa sulle questioni politiche e giuridiche? Davvero il Papa e la Chiesa intendono entrare in questi dibattiti “dettando” ai politici ed alle istituzioni cosa dovrebbero dire o fare?
Cosí è nato il progetto che Marta Cartabia ed io abbiamo curato, quello cioè di raccogliere assieme e ripubblicare cinque grandi discorsi pubblici che il Papa emerito Benedetto XVI ha tenuto dinanzi ad istituzioni civili, politiche o accademiche (Regensburg, Westminster, Collège des Bernardins, Nazioni Unite e Bundestag); chiedendo poi ad un gruppo di autorevoli esperti nel campo delle scienze giuridiche e politiche, espressivi delle più diverse sensibilità religiose, geografiche, culturali, accademiche e istituzionali, di proporne un commento.
Il risultato è andato al di là delle più ottimistiche previsioni. I nomi che hanno accettato di partecipare sono davvero tra gli studiosi più autorevoli e chi vorrà acquistare il libro potrà scorrerne l’elenco completo.
Cattolici, ebrei, protestanti, musulmani, agnostici, tutti hanno accettato di paragonarsi con questo pensiero. Alcuni hanno posto domande o sollevato interrogativi, altri hanno sottolineato la fecondità della posizione della Chiesa soprattutto dinanzi alle sfide che vive la società umana contemporanea. Tutti, comunque, hanno accettato questo dialogo con il Papa emerito come un interlocutore all’altezza delle sfide e dei valori in gioco, rifiutando così la riduzione caricaturale cui molto spesso viene sottoposta la posizione del magistero cattolico.
Ma il punto più interessante è che questo dialogo sta proseguendo oltre le pagine del libro.
La giornata di ieri lo dimostra: un panel d’eccezione ha accettato di proseguire la discussione lanciata dal volume, riprendendo le tesi di fondo del pontefice emerito e sviluppandone ulteriormente le potenzialità. Il dibattito è stato ricchissimo di contributi interessanti; un punto tra gli altri è emerso sinteticamente: le idee riguardanti il pensiero politico-giuridico della dottrina cattolica molto spesso sono stereotipi.
Per dimostrare questa conclusione proviamo un esperimento mentale: se oggi invitassimo un campione casuale di uomini politici o di responsabili di istituzioni pubbliche a stilare una lista dei temi toccati dal Papa emerito in questi suoi discorsi pubblici, prima di leggerli, è molto probabile che nell’elenco troveremmo: difesa della vita, eutanasia, contraccezione, divorzio, fecondazione assistita e così via. Rimarremmo, perciò, molto sorpresi nel non trovare nessuno di questi argomenti nei testi. Attenzione! Non che al Papa o alla Chiesa non interessino quei temi, anzi! Ma in questi discorsi, in cui il tema è il fondamento dell’ordine giuridico, il punto di attacco è molto più profondo e radicale. La preoccupazione non è dire alla politica cosa deve fare, ma − più alla radice − riconoscere da cosa nasce la politica.
«Nella storia, gli ordinamenti giuridici sono stati quasi sempre motivati in modo religioso: sulla base di un riferimento alla Divinità si decide ciò che tra gli uomini è giusto. Contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato, maiun ordinamento giuridico derivante da una rivelazione. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto - ha rimandato all’armonia tra ragione oggettiva e soggettiva, un’armonia che però presuppone l’essere ambedue le sfere fondate nella Ragione creatrice di Dio».
In questo passaggio del discorso pronunciato al Bundestag di Berlino è racchiuso il cuore del pensiero di Benedetto XVI: non la rivelazione, ma «la ragione e la natura nella loro correlazione» costituiscono «la fonte giuridica valida per tutti».
Dunque, il problema non è dire ai governanti cosa debbono fare, ma come far sì che essi usino correttamente la propria ragione nelle scelte che debbono fare.
In questo senso è davvero sorprendente l’unitarietà della traiettoria che lega il Papa emerito a Papa Francesco. Questa battaglia per un’idea non ridotta di ragione e di verità che costituisce il più grande contributo civile e laico della Chiesa.
Come ha detto Papa Francesco nella lettera inviata ad Eugenio Scalfari, “Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione! Tant’è vero che anche ciascuno di noi la accoglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc. Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita. Non ha detto forse Gesù stesso: «Io sono la via, la verità, la vita»? In altri termini, la verità essendo in definitiva tutt’uno con l’amore, richiede l’umiltà e l’apertura per essere cercata, accolta ed espressa”.
La verità, quindi, chiede umiltà e apertura e qui non possiamo non riconoscere la eco di quel “cuore docile, che sappia rendere giustizia al suo popolo e sappia distinguere il bene dal male” che chiede Salomone a Dio e che il papa emerito ha additato a modello per i politici di qualsiasi credo.
* Fonte: Il Sussidiario.net, 31.01.2014
LETTERA APOSTOLICA
Admirabile signum
DEL SANTO PADRE
FRANCESCO
SUL SIGNIFICATO E IL VALORE DEL PRESEPE *
1. Il mirabile segno del presepe, così caro al popolo cristiano, suscita sempre stupore e meraviglia. Rappresentare l’evento della nascita di Gesù equivale ad annunciare il mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio con semplicità e gioia. Il presepe, infatti, è come un Vangelo vivo, che trabocca dalle pagine della Sacra Scrittura. Mentre contempliamo la scena del Natale, siamo invitati a metterci spiritualmente in cammino, attratti dall’umiltà di Colui che si è fatto uomo per incontrare ogni uomo. E scopriamo che Egli ci ama a tal punto da unirsi a noi, perché anche noi possiamo unirci a Lui.
Con questa Lettera vorrei sostenere la bella tradizione delle nostre famiglie, che nei giorni precedenti il Natale preparano il presepe. Come pure la consuetudine di allestirlo nei luoghi di lavoro, nelle scuole, negli ospedali, nelle carceri, nelle piazze... È davvero un esercizio di fantasia creativa, che impiega i materiali più disparati per dare vita a piccoli capolavori di bellezza. Si impara da bambini: quando papà e mamma, insieme ai nonni, trasmettono questa gioiosa abitudine, che racchiude in sé una ricca spiritualità popolare. Mi auguro che questa pratica non venga mai meno; anzi, spero che, là dove fosse caduta in disuso, possa essere riscoperta e rivitalizzata.
2. L’origine del presepe trova riscontro anzitutto in alcuni dettagli evangelici della nascita di Gesù a Betlemme. L’Evangelista Luca dice semplicemente che Maria «diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio» (2,7). Gesù viene deposto in una mangiatoia, che in latino si dice praesepium, da cui presepe.
Entrando in questo mondo, il Figlio di Dio trova posto dove gli animali vanno a mangiare. Il fieno diventa il primo giaciglio per Colui che si rivelerà come «il pane disceso dal cielo» (Gv 6,41). Una simbologia che già Sant’Agostino, insieme ad altri Padri, aveva colto quando scriveva: «Adagiato in una mangiatoia, divenne nostro cibo» (Serm. 189,4). In realtà, il presepe contiene diversi misteri della vita di Gesù e li fa sentire vicini alla nostra vita quotidiana.
Ma veniamo subito all’origine del presepe come noi lo intendiamo. Ci rechiamo con la mente a Greccio, nella Valle Reatina, dove San Francesco si fermò venendo probabilmente da Roma, dove il 29 novembre 1223 aveva ricevuto dal Papa Onorio III la conferma della sua Regola. Dopo il suo viaggio in Terra Santa, quelle grotte gli ricordavano in modo particolare il paesaggio di Betlemme. Ed è possibile che il Poverello fosse rimasto colpito, a Roma, nella Basilica di Santa Maria Maggiore, dai mosaici con la rappresentazione della nascita di Gesù, proprio accanto al luogo dove si conservavano, secondo un’antica tradizione, le tavole della mangiatoia.
Le Fonti Francescane raccontano nei particolari cosa avvenne a Greccio. Quindici giorni prima di Natale, Francesco chiamò un uomo del posto, di nome Giovanni, e lo pregò di aiutarlo nell’attuare un desiderio: «Vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello».[1] Appena l’ebbe ascoltato, il fedele amico andò subito ad approntare sul luogo designato tutto il necessario, secondo il desiderio del Santo. Il 25 dicembre giunsero a Greccio molti frati da varie parti e arrivarono anche uomini e donne dai casolari della zona, portando fiori e fiaccole per illuminare quella santa notte. Arrivato Francesco, trovò la greppia con il fieno, il bue e l’asinello. -La gente accorsa manifestò una gioia indicibile, mai assaporata prima, davanti alla scena del Natale. Poi il sacerdote, sulla mangiatoia, celebrò solennemente l’Eucaristia, mostrando il legame tra l’Incarnazione del Figlio di Dio e l’Eucaristia. In quella circostanza, a Greccio, non c’erano statuine: il presepe fu realizzato e vissuto da quanti erano presenti.[2]
È così che nasce la nostra tradizione: tutti attorno alla grotta e ricolmi di gioia, senza più alcuna distanza tra l’evento che si compie e quanti diventano partecipi del mistero.
Il primo biografo di San Francesco, Tommaso da Celano, ricorda che quella notte, alla scena semplice e toccante s’aggiunse anche il dono di una visione meravigliosa: uno dei presenti vide giacere nella mangiatoia Gesù Bambino stesso. Da quel presepe del Natale 1223, «ciascuno se ne tornò a casa sua pieno di ineffabile gioia».[3]
3. San Francesco, con la semplicità di quel segno, realizzò una grande opera di evangelizzazione. Il suo insegnamento è penetrato nel cuore dei cristiani e permane fino ai nostri giorni come una genuina forma per riproporre la bellezza della nostra fede con semplicità. D’altronde, il luogo stesso dove si realizzò il primo presepe esprime e suscita questi sentimenti. Greccio diventa un rifugio per l’anima che si nasconde sulla roccia per lasciarsi avvolgere nel silenzio.
Perché il presepe suscita tanto stupore e ci commuove? Anzitutto perché manifesta la tenerezza di Dio. Lui, il Creatore dell’universo, si abbassa alla nostra piccolezza. Il dono della vita, già misterioso ogni volta per noi, ci affascina ancora di più vedendo che Colui che è nato da Maria è la fonte e il sostegno di ogni vita. In Gesù, il Padre ci ha dato un fratello che viene a cercarci quando siamo disorientati e perdiamo la direzione; un amico fedele che ci sta sempre vicino; ci ha dato il suo Figlio che ci perdona e ci risolleva dal peccato.
Comporre il presepe nelle nostre case ci aiuta a rivivere la storia che si è vissuta a Betlemme. Naturalmente, i Vangeli rimangono sempre la fonte che permette di conoscere e meditare quell’Avvenimento; tuttavia, la sua rappresentazione nel presepe aiuta ad immaginare le scene, stimola gli affetti, invita a sentirsi coinvolti nella storia della salvezza, contemporanei dell’evento che è vivo e attuale nei più diversi contesti storici e culturali.
In modo particolare, fin dall’origine francescana il presepe è un invito a “sentire”, a “toccare” la povertà che il Figlio di Dio ha scelto per sé nella sua Incarnazione. E così, implicitamente, è un appello a seguirlo sulla via dell’umiltà, della povertà, della spogliazione, che dalla mangiatoia di Betlemme conduce alla Croce. È un appello a incontrarlo e servirlo con misericordia nei fratelli e nelle sorelle più bisognosi (cfr Mt 25,31-46).
4. Mi piace ora passare in rassegna i vari segni del presepe per cogliere il senso che portano in sé. In primo luogo, rappresentiamo il contesto del cielo stellato nel buio e nel silenzio della notte. Non è solo per fedeltà ai racconti evangelici che lo facciamo così, ma anche per il significato che possiede. Pensiamo a quante volte la notte circonda la nostra vita. -Ebbene, anche in quei momenti, Dio non ci lascia soli, ma si fa presente per rispondere alle domande decisive che riguardano il senso della nostra esistenza: chi sono io? Da dove vengo? Perché sono nato in questo tempo? Perché amo? Perché soffro? Perché morirò? Per dare una risposta a questi interrogativi Dio si è fatto uomo. La sua vicinanza porta luce dove c’è il buio e rischiara quanti attraversano le tenebre della sofferenza (cfr Lc 1,79).
Una parola meritano anche i paesaggi che fanno parte del presepe e che spesso rappresentano le rovine di case e palazzi antichi, che in alcuni casi sostituiscono la grotta di Betlemme e diventano l’abitazione della Santa Famiglia. Queste rovine sembra che si ispirino alla Legenda Aurea del domenicano Jacopo da Varazze (secolo XIII), dove si legge di una credenza pagana secondo cui il tempio della Pace a Roma sarebbe crollato quando una Vergine avesse partorito. Quelle rovine sono soprattutto il segno visibile dell’umanità decaduta, di tutto ciò che va in rovina, che è corrotto e intristito. Questo scenario dice che Gesù è la novità in mezzo a un mondo vecchio, ed è venuto a guarire e ricostruire, a riportare la nostra vita e il mondo al loro splendore originario.
5. Quanta emozione dovrebbe accompagnarci mentre collochiamo nel presepe le montagne, i ruscelli, le pecore e i pastori! In questo modo ricordiamo, come avevano preannunciato i profeti, che tutto il creato partecipa alla festa della venuta del Messia. Gli angeli e la stella cometa sono il segno che noi pure siamo chiamati a metterci in cammino per raggiungere la grotta e adorare il Signore.
«Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere» (Lc 2,15): così dicono i pastori dopo l’annuncio fatto dagli angeli. È un insegnamento molto bello che ci proviene nella semplicità della descrizione. -A differenza di tanta gente intenta a fare mille altre cose, i pastori diventano i primi testimoni dell’essenziale, cioè della salvezza che viene donata. Sono i più umili e i più poveri che sanno accogliere l’avvenimento dell’Incarnazione. A Dio che ci viene incontro nel Bambino Gesù, i pastori rispondono mettendosi in cammino verso di Lui, per un incontro di amore e di grato stupore. È proprio questo incontro tra Dio e i suoi figli, grazie a Gesù, a dar vita alla nostra religione, a costituire la sua singolare bellezza, che traspare in modo particolare nel presepe.
6. Nei nostri presepi siamo soliti mettere tante statuine simboliche. Anzitutto, quelle di mendicanti e di gente che non conosce altra abbondanza se non quella del cuore. Anche loro stanno vicine a Gesù Bambino a pieno titolo, senza che nessuno possa sfrattarle o allontanarle da una culla talmente improvvisata che i poveri attorno ad essa non stonano affatto. I poveri, anzi, sono i privilegiati di questo mistero e, spesso, coloro che maggiormente riescono a riconoscere la presenza di Dio in mezzo a noi.
I poveri e i semplici nel presepe ricordano che Dio si fa uomo per quelli che più sentono il bisogno del suo amore e chiedono la sua vicinanza. Gesù, «mite e umile di cuore» (Mt 11,29), è nato povero, ha condotto una vita semplice per insegnarci a cogliere l’essenziale e vivere di esso. Dal presepe emerge chiaro il messaggio che non possiamo lasciarci illudere dalla ricchezza e da tante proposte effimere di felicità. Il palazzo di Erode è sullo sfondo, chiuso, sordo all’annuncio di gioia. -Nascendo nel presepe, Dio stesso inizia l’unica vera rivoluzione che dà speranza e dignità ai diseredati, agli emarginati: la rivoluzione dell’amore, la rivoluzione della tenerezza. Dal presepe, Gesù proclama, con mite potenza, l’appello alla condivisione con gli ultimi quale strada verso un mondo più umano e fraterno, dove nessuno sia escluso ed emarginato.
Spesso i bambini - ma anche gli adulti! - amano aggiungere al presepe altre statuine che sembrano non avere alcuna relazione con i racconti evangelici. Eppure, questa immaginazione intende esprimere che in questo nuovo mondo inaugurato da Gesù c’è spazio per tutto ciò che è umano e per ogni creatura. Dal pastore al fabbro, dal fornaio ai musicisti, dalle donne che portano le brocche d’acqua ai bambini che giocano...: tutto ciò rappresenta la santità quotidiana, la gioia di fare in modo straordinario le cose di tutti i giorni, quando Gesù condivide con noi la sua vita divina.
7. Poco alla volta il presepe ci conduce alla grotta, dove troviamo le statuine di Maria e di Giuseppe. Maria è una mamma che contempla il suo bambino e lo mostra a quanti vengono a visitarlo. La sua statuetta fa pensare al grande mistero che ha coinvolto questa ragazza quando Dio ha bussato alla porta del suo cuore immacolato. All’annuncio dell’angelo che le chiedeva di diventare la madre di Dio, Maria rispose con obbedienza piena e totale. Le sue parole: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1,38), sono per tutti noi la testimonianza di come abbandonarsi nella fede alla volontà di Dio. Con quel “sì” Maria diventava madre del Figlio di Dio senza perdere, anzi consacrando grazie a Lui la sua verginità. Vediamo in lei la Madre di Dio che non tiene il suo Figlio solo per sé, ma a tutti chiede di obbedire alla sua parola e metterla in pratica (cfr Gv 2,5).
Accanto a Maria, in atteggiamento di proteggere il Bambino e la sua mamma, c’è San Giuseppe. In genere è raffigurato con il bastone in mano, e a volte anche mentre regge una lampada. San Giuseppe svolge un ruolo molto importante nella vita di Gesù e di Maria. Lui è il custode che non si stanca mai di proteggere la sua famiglia. Quando Dio lo avvertirà della minaccia di Erode, non esiterà a mettersi in viaggio ed emigrare in Egitto (cfr Mt 2,13-15). E una volta passato il pericolo, riporterà la famiglia a Nazareth, dove sarà il primo educatore di Gesù fanciullo e adolescente. Giuseppe portava nel cuore il grande mistero che avvolgeva Gesù e Maria sua sposa, e da uomo giusto si è sempre affidato alla volontà di Dio e l’ha messa in pratica.
8. Il cuore del presepe comincia a palpitare quando, a Natale, vi deponiamo la statuina di Gesù Bambino. Dio si presenta così, in un bambino, per farsi accogliere tra le nostre braccia. Nella debolezza e nella fragilità nasconde la sua potenza che tutto crea e trasforma. Sembra impossibile, eppure è così: in Gesù Dio è stato bambino e in questa condizione ha voluto rivelare la grandezza del suo amore, che si manifesta in un sorriso e nel tendere le sue mani verso chiunque.
La nascita di un bambino suscita gioia e stupore, perché pone dinanzi al grande mistero della vita. Vedendo brillare gli occhi dei giovani sposi davanti al loro figlio appena nato, comprendiamo i sentimenti di Maria e Giuseppe che guardando il bambino Gesù percepivano la presenza di Dio nella loro vita.
«La vita infatti si manifestò» (1 Gv 1,2): così l’apostolo Giovanni riassume il mistero dell’Incarnazione. Il presepe ci fa vedere, ci fa toccare questo evento unico e straordinario che ha cambiato il corso della storia, e a partire dal quale anche si ordina la numerazione degli anni, prima e dopo la nascita di Cristo.
Il modo di agire di Dio quasi tramortisce, perché sembra impossibile che Egli rinunci alla sua gloria per farsi uomo come noi. -Che sorpresa vedere Dio che assume i nostri stessi comportamenti: dorme, prende il latte dalla mamma, piange e gioca come tutti i bambini! Come sempre, Dio sconcerta, è imprevedibile, continuamente fuori dai nostri schemi. Dunque il presepe, mentre ci mostra Dio così come è entrato nel mondo, ci provoca a pensare alla nostra vita inserita in quella di Dio; invita a diventare suoi discepoli se si vuole raggiungere il senso ultimo della vita.
9. Quando si avvicina la festa dell’Epifania, si collocano nel presepe le tre statuine dei Re Magi. Osservando la stella, quei saggi e ricchi signori dell’Oriente si erano messi in cammino verso Betlemme per conoscere Gesù, e offrirgli in dono oro, incenso e mirra. Anche questi regali hanno un significato allegorico: l’oro onora la regalità di Gesù; l’incenso la sua divinità; la mirra la sua santa umanità che conoscerà la morte e la sepoltura.
Guardando questa scena nel presepe siamo chiamati a riflettere sulla responsabilità che ogni cristiano ha di essere evangelizzatore. Ognuno di noi si fa portatore della Bella Notizia presso quanti incontra, testimoniando la gioia di aver incontrato Gesù e il suo amore con concrete azioni di misericordia.
I Magi insegnano che si può partire da molto lontano per raggiungere Cristo. Sono uomini ricchi, stranieri sapienti, assetati d’infinito, che partono per un lungo e pericoloso viaggio che li porta fino a Betlemme (cfr Mt 2,1-12). Davanti al Re Bambino li pervade una gioia grande. Non si lasciano scandalizzare dalla povertà dell’ambiente; non esitano a mettersi in ginocchio e ad adorarlo. Davanti a Lui comprendono che Dio, come regola con sovrana sapienza il corso degli astri, così guida il corso della storia, abbassando i potenti ed esaltando gli umili. E certamente, tornati nel loro Paese, avranno raccontato questo incontro sorprendente con il Messia, inaugurando il viaggio del Vangelo tra le genti.
10. Davanti al presepe, la mente va volentieri a quando si era bambini e con impazienza si aspettava il tempo per iniziare a costruirlo. Questi ricordi ci inducono a prendere sempre nuovamente coscienza del grande dono che ci è stato fatto trasmettendoci la fede; e al tempo stesso ci fanno sentire il dovere e la gioia di partecipare ai figli e ai nipoti la stessa esperienza. Non è importante come si allestisce il presepe, può essere sempre uguale o modificarsi ogni anno; ciò che conta, è che esso parli alla nostra vita. Dovunque e in qualsiasi forma, il presepe racconta l’amore di Dio, il Dio che si è fatto bambino per dirci quanto è vicino ad ogni essere umano, in qualunque condizione si trovi.
Cari fratelli e sorelle, il presepe fa parte del dolce ed esigente processo di trasmissione della fede. A partire dall’infanzia e poi in ogni età della vita, ci educa a contemplare Gesù, a sentire l’amore di Dio per noi, a sentire e credere che Dio è con noi e noi siamo con Lui, tutti figli e fratelli grazie a quel Bambino Figlio di Dio e della Vergine Maria. E a sentire che in questo sta la felicità. Alla scuola di San Francesco, apriamo il cuore a questa grazia semplice, lasciamo che dallo stupore nasca una preghiera umile: il nostro “grazie” a Dio che ha voluto condividere con noi tutto per non lasciarci mai soli.
Dato a Greccio, nel Santuario del Presepe, 1° dicembre 2019, settimo del pontificato.
FRANCESCO
* Fonte: Lettera apostolica. Papa Francesco a Greccio: ecco il vero significato del presepe di Mimmo Muolo, Avvenire, 30.11.2019 (ripresa parziale).
“DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE.
Un commento a De Domo David. 39 autori per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò
PROVANDO E RIPROVANDO. LA STELLA E IL NARDO... Ricordando quanto sia determinante e fondamentale, oggi, ripensare sul piano antropologico (andrologico e ginecologico) e teologico la figura della “sacra famiglia” e di san Giuseppe (si cfr. i commenti a "Ggimentu, gimmientu e ggimintare" di A. Polito, Fondazione Terra d’Otranto, 06.07.2018), e “come nascono i bambini”, non posso non PLAUDIRE alla realizzazione del “convegno e del libro per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò”, con tutti i suoi molteplici contributi!!!
SUL TEMA DELLA «GIUSEPPOLOGIA», MI SIA LECITO, si cfr.: GESU’ “CRISTO”, GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE (“CHARITAS”) DI GIUSEPPE E DI MARIA!!!
Federico La Sala
"GIUSEPPE": "DE DOMO DAVID". Un convegno e un libro ... *
De Domo David e l’edizione di Nardò, dalla Congregazione degli Oblati di San Giuseppe
di padre Alberto Santiago (Fondazione "Terra d’Otranto", 12/11/2019)
Buona serata a voi tutti: saluto cordialmente mons. Filograna, vescovo di Nardò, il Rettore della Confraternita di San Giuseppe Patriarca monsignor Santantonio, le Autorità presenti, il Priore della Confraternita Mino De Benedittis, i sodali e tutti i convenuti.
Porto il saluto della Congregazione degli Oblati di San Giuseppe fondata da san Giuseppe Marello nel 1870, e di tutto l’ambito giuseppino, che si compone anche della Congregazione di S.Giuseppe fondata da s.Leonardo Murialdo, e vari Istituti femminili, tutti informati ed entusiasti dell’iniziativa che si celebra nella diocesi di Nardò-Gallipoli.
Vengo inoltre come portavoce del Centro Studi del “Movimento Giuseppino” di Roma, che promuove l’interazione tra i devoti di san Giuseppe, per favorire e valorizzare la conoscenza della sua missione nel piano dell’Incarnazione, e animare la vita ecclesiale con la pratica delle virtù evangeliche tipiche di san Giuseppe.
Il sito del «Movimento Giuseppino» si propone di raccogliere e presentare con organicità di contenuti costantemente aggiornati, le informazioni riguardanti san Giuseppe in ogni suo aspetto, provenienti dai vari Centri nazionali e internazionali di studi. Il sito è aperto a ogni forma di confronto e collaborazione da parte di quanti volessero segnalare integrazioni, inesattezze e lacune, ma soprattutto ampliare l’orizzonte delle conoscenze. Sarà senz’altro disponibile a segnalare questa iniziativa di oggi nelle prossime settimane.
Vi trasmetto un fervido augurio poi da parte di p. Tarcisio Stramare, teologo e biblista, la cui opera di approfondimento negli studi teologici su san Giuseppe, e sui relativi documenti pontifici, ha diffuso la conoscenza e la devozione al Custode del Redentore. E’il titolo scelto da papa Giovanni Paolo II per riassumere il ruolo di san Giuseppe nel mistero dell’incarnazione, e risale però a un’antica concezione teologica che può aver ispirato lo scultore dell’angelo sull’altare maggiore di questa chiesa di Nardò: un angelo, appunto, “custode”, come una presenza che protegge dal male e da ogni pericolo. Quale miglior correlazione con la figura di san Giuseppe che porta in salvo il Figlio dalle insidie di Erode? La statua collocata nella parte più alta di questo bellissimo altare rispecchia l’atteggiamento di Giuseppe nei confronti di Gesù, chiamato ad assicurare la sua sopravvivenza e la sua crescita.
La giornata di oggi è punto di arrivo di un progetto, ideato per celebrare i quattrocento anni di vita della Confraternita di San Giuseppe Patriarca a Nardò, di ricerca e di approfondimento sul patrimonio artistico della chiesa, e sulle forme di devozione al santo.
Promosso con il patrocinio della Diocesi di Nardò-Gallipoli, della Fondazione Terra d’Otranto e della Confraternita, il libro che accompagna questo convegno richiama l’attenzione per il suo titolo, lungo come negli incunaboli di una volta: De domo David. La Confraternita di San Giuseppe Patriarca e la sua chiesa a Nardò. Studi e ricerche a quattro secoli dalla fondazione (1619-2019).
Ma sono soprattutto le prime parole a destare la curiosità del lettore: perché De domo David?
Questa espressione ricorre nella liturgia, e si legge nel vangelo di Luca ai versetti 26-27 del primo capitolo: “... missus est angelus Gabriel ... ad virginem desponsatam viro, cui nomen erat Ioseph de domo David ...” Possiamo ricordare anche la novena di Natale: “Ecce veniet Deus, et homo de domo David sedere in throno ...”.
Certamente da questi antecedenti deriva il motto della Confraternita di San Giuseppe Patriarca: De domo David, e quindi il titolo del libro, che si legge anche sulla convessa facciata della chiesa.
L’obiettivo di un libro ampiamente illustrato, come questo, è appunto che il lettore possa in qualche misura entrare in relazione con le opere, in modo che ogni immagine sia come uno specchio capace di coinvolgere lo spettatore. E che l’arte diventi una esperienza del mondo che modifica radicalmente chi la fa, ampliando la comprensione che il soggetto ha di sé e della realtà che lo circonda.
Concepito come libro di pregio, fuori commercio e con una tiratura di poche centinaia di copie, il volume curato da Marcello Gaballo e Stefania Colafranceschi è risultato un lavoro di altissima qualità sia per la strutturazione dei materiali, sia per la quantità di illustrazioni (quasi 800) in eccellente risoluzione.
Grazie alla collaborazione spontanea di studiosi in varie città d’Italia e delle diocesi del Salento, si è potuto realizzare un percorso ricco e qualificato, sorprendente per varietà di contributi; vi sono articoli di taglio dottrinale, storico e artistico, e molti contributi da Confraternite, Oratori, Associazioni legate a san Giuseppe. L’elaborato che ne è conseguito si rivela dunque molto rappresentativo.
Non potevamo immaginare questo lungo cammino attraverso il tempo - poiché gli articoli spaziano tra IV e XIX secolo -, come pure le conoscenze emerse sul patrimonio artistico di questa chiesa e i suoi significati.
Ringrazio tutti i collaboratori che hanno messo a frutto le loro competenze e lo spirito di ricerca, dando un apporto importante sul piano culturale nelle sue varie forme, ma anche considerevole per la conoscenza della figura di s. Giuseppe, solo apparentemente secondaria e silenziosa.
Esprimo l’apprezzamento inoltre per la disponibilità della Biblioteca Casanatense di Roma e il Museo Pitrè di Palermo, che hanno fornito materiale di particolare interesse; la Congregazione della Misericordia Maggiore di Bergamo per le riproduzioni degli arazzi cinquecenteschi, la Pinacoteca di Brera, la Galleria Nazionale di Parma e tutti i numerosi prestatori delle immagini pubblicate.
Principalmente ringrazio la Confraternita, all’origine di questo ambizioso progetto, e la Fondazione Terra d’Otranto che l’ha sostenuto e realizzato.
Rivolgo i saluti più cordiali agli autori qui presenti: Giovanni Boraccesi -che ha preso in esame gli argenti pugliesi raffiguranti san Giuseppe-, Marino Caringella -che illustra esempi di iconografie giuseppine-, Stefano Cortese -che documenta le antiche pitture parietali nel Salento-, Giuseppe Fai -che tratta la devozione del santo nella sua città di Parabita-, Antonio Faita -che presenta le opere statuarie dei celebri Verzella-, Antonio Solmona -che pone in evidenza alcune iconografie presenti a Galatone- e Stefano Tanisi -che esamina i dipinti nelle diocesi di Otranto e Ugento-, unitamente agli altri collaboratori.
Altri autori, come da programma, esporranno personalmente i propri contributi.
Il lavoro compiuto in questa ricorrenza, che ha fatto scoprire a tutta l’Italia la storia e l’arte di questa chiesa e di questa confraternita, di questa diocesi e della Puglia, è importante per ideare e costruire nuovi traguardi; è augurabile che parte di questo libro sia condiviso nel futuro Simposio internazionale di studi su san Giuseppe, che si terrà tra due anni in Guatemala. E’ una mèta possibile, sulla base delle svariate testimonianze acquisite, e dell’esperienza maturata in itinere.
Le stesse intenzioni mi vengono riferite per una ulteriore presentazione di questo libro a Roma, nella prestigiosa sede dell’antichissima e prestigiosa Biblioteca Casanatense, che come vedrete ha contribuito a realizzarlo mettendo a disposizione centinaia di incisioni e miniature dei secoli XV - XVIII, omaggiando questa chiesa e questa Diocesi.
E centinaia sono anche le rare riproduzioni di canivet di Lo Cicero e santini di Damato, alcuni tra i più importanti collezionisti italiani, che hanno messo a disposizione per la prima volta tante preziosità, accrescendo il prestigio del lavoro editoriale che questa sera presentiamo.
Con questo auspicio invito a far tesoro delle oltre seicento pagine del volume, tutte a colori e in pregevole edizione, e a proiettarsi nel futuro prossimo, in unità di intenti con il mondo giuseppino, che ancora una volta ringrazia per la particolare attenzione che questo lembo d’Italia ha voluto dedicare al santo di cui porta il nome.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
FESTA DI SAN GIUSEPPE E DEL PAPA’ - NON DEL PAPA!!! BASTA CON LA "MALA EDUCACION" E CON LA "MALA FEDE"!!! RESTITUIRE A GIUSEPPE L’ANELLO DEL "PESCATORE" E GIUSEPPE A MARIA E ALLA SUA FAMIGLIA - UMANA E DIVINA!!! LA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE INVESTE L’ AVVENIRE DELL’INTERA UMANITA’, NON QUELLO DEI VESCOVI DELLA CHIESA "CATTOLICA"
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
Federico La Sala
MIO NONNO ERA UN RE
di Michele Feo *
Il filosofo Emanuele Severino parla spesso in interviste e ricordi autobiografici del fratello Giuseppe morto in guerra, dicendo che fu studente alla Scuola Normale Superiore di Pisa e lì ascoltò le lezioni di Giovanni Gentile; lo ripete con dovizia di particolari novellistici nel «Corriere della sera» del 31 dicembre 2018.
Ma il nome di Giuseppe è assente in tutti gli elenchi a stampa degli allievi della scuola pisana, da quello curato nell’immediato dopoguerra dal filologo e segretario della Scuola Alessandro Perosa all’ultimo del 1999. Poiché l’esempio del fratello sembra essere stato determinante per la scelta di vita di Emanuele, par di capire che la collocazione formativa di Giuseppe a Pisa, all’ombra di Gentile, debba riverberare su Emanuele un po’ di quella gloria.
Sempre, anche il figlio della lavandaia e del tavernaro, quando ha asceso la scala sociale, si crea antenati nobili; le povere ma belle donzellette alla fine della favola si scoprono figlie di regine e il tribuno popolare Cola di Rienzo rivelò di essere il risultato di una bassa avventura dell’imperatore nei quartieri bassi di Roma.
Corollario: o i repertori pisani devono essere emendati o il filosofo si è distratto e anche lui si è lasciato catturare dal mito delle origini favolose.
Michele Feo
NOTA:
"DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE". Una storia di lunga durata
MIO NONNO ERA IL IL PAPÀ DI ADAMO ED EVA...
“Se vogliamo andare avanti non è a Parmenide che dobbiamo pensare. Ma, se si vuole, a Talete. Egli sapeva che l’azzurro circondava la Terra. Che vuol dire questo? E’ presto detto (e poi chiudo). La chiave ce la fornisce l’altra recente polemica innescata da Paolo Rossi, e, in particolare, la risposta di [Emanuele] Severino alla provocazione dello stesso Rossi. La questione è quella della nascita. Chiariamo.
Con la sua costanza e con la sua testardaggine, Rossi - lo storico-segugio (Severino parla di cagnolini) - è riuscito a mettere alle strette il Leone, e, l’ha fatto uscire dalla foresta pietrificata o, che è lo stesso, dal campo (Essere=Verità) di Parmenide. Perseguitato per «vent’anni», Severino non ce l’ha fatta più e ha ceduto. E, costretto a scoprire le sue carte, ha dovuto ammetterlo: non è nato ad Elea (Parmenide) e nemmeno a «Como» (Heidegger). «Io sono nato - ha dichiarato Severino - a Brescia. Me lo ha detto mia madre e mio padre: è scritto sui documenti». Il giogo del Destino della Necessità è stato spezzato: HIC SUNT LEONES - a Brescia!. Era ora: Emanuele è solo un poco Severino, ma è con noi - come noi, semplici mortali.
Fuor di metafora: questo è il problema: La croce dei filosofi, per eccellenza. Ce n’è voluto per riportare a galla dalle profondità del mare dell’essere (altro che pantano o pozzanghera, entro cui era stato buttato da Parmenide e dai suoi edipici figli - i platonici di tutti i tempi) Talete: qual è il principio di tutte le cose? Questi sono i problemi: così nasce la filosofia [...] (cfr. Federico La Sala, "Per una nuova cultura all’altezza del Pianeta Azzurro", «La Critica Sociologica», n. 93, 1990, pp. 111-115; in: “Della Terra, il brillante colore”, Pref. di Fulvio Papi, Edizioni Nuove Scritture, Milano 2013, pp. 98-99, senza note).
Federico La Sala
IL MITO DELLE ORIGINI FAVOLOSE E IL PECCATO ORIGINALE... *
Arte e sacro. Che cosa c’era sul leggio di Maria?
Nelle raffigurazioni dell’Annunciazione il libro su cui legge Maria compare tardi, dal IX secolo. Il filologo Michele Feo va a caccia delle tante ipotesi sul contenuto del volume
di Rosita Copioli (Avvenire, sabato 19 ottobre 2019)
La storia della Madonna è un meraviglioso romanzo per immagini. Più misteriosa tra tutte l’Annunciazione perché è il mistero stesso di Maria. Ma anche la più rivoluzionaria nella storia dell’umanità, perché fonda il mondo dopo Adamo: il mondo da Gesù Cristo, origine del nostro tempo. E poi perché racchiude tutto il turbamento, anzi lo sconvolgimento, e insieme la concentrata tenerezza della Vergine prima che concepisca e nel suo stesso istante: l’anticipazione dell’aurora, prima che irrompa il giorno in lei, in ognuno di noi.
Le scarne parole di Luca e Matteo non sono prive di immagini potenti, anzi assolute: per Alberto Magno l’ombra non è l’oscurità - che non viene dalla somma luce - ma l’immagine specchiata dell’onnipotenza; tuttavia solo i Vangeli apocrifi ci mostrano le scene, gli oggetti, i simboli, che i pittori prediligono. In essi Maria è alla fonte, al pozzo con la brocca, poi in casa, intenta a filare scarlatto e porpora (colori della regalità) accanto a un vaso dove fiorisce il giglio di Gesù; più tardi ha con sé un libro aperto e talora lo legge.
Sono queste le raffigurazioni che si susseguono dovunque nei secoli, in molteplici varianti. Soprattutto impone infinite riflessioni la presenza del libro, che compare tardi, dal IX secolo, su un cofanetto d’avorio francese dall’aria regale. Perché quella ragazza umile e il libro, che fu strumento di distinzione, non solo per la sapienza, ma nelle classi sociali? E significava soprattutto autorevolezza, garanzia di verità? E cosa era scritto nel libro di Maria, oltre alle parole dei profeti, dei salmi, dei Vangeli, del Magnificat?
Si può rispondere che Maria stessa è un libro, contiene il passato e soprattutto il futuro: un libro profetico al massimo grado. Ma c’è quella commistione di realtà e di sentimenti, che colpisce nel profondo, e non si accontenta di spiegazioni teologiche. In Maria il mistero teologico è reale e carnale, attraversa la vita quotidiana, gli affetti delle madri nelle famiglie, tutte le forme reali e immaginarie, che le madri quotidiane e le divinità femminili hanno mostrato in ogni tempo e spazio.
Michele Feo, filologo e acutissimo investigatore dei testi, ne è stato così commosso e catturato, da inventariarne le immagini per uno studio colto e appassionato (Cosa leggeva la Madonna; Polistampa, pagine 304, euro 20,00). Ma non dobbiamo pensare che l’indagine di Feo si limiti a un excursus erudito che riguarda soltanto l’abbinamento con il libro. Si estende a ogni riflessione che tocca Maria, con una condivisione totale e sottile della femminilità e dei suoi valori più profondi.
Mentre segue nei secoli e nelle contestualizzazioni delle opere le Annunciazioni, decifrando e commentando le iscrizioni e le composizioni, Feo non dimentica mai l’origine. Chi è veramente Maria? Cosa accade nel momento in cui riceve l’annuncio traumatico dell’angelo che ha sconvolto lei fino a noi stessi? Perché l’Annunciazione non è un evento che si conclude, ma un progetto che ci riguarda inesorabilmente? Come sono diventati lontani nei secoli i sensi originari? Come tutto è diventato infinitamente indecifrabile, sebbene continuino a colpirci quegli atti e quei gesti e quelle mani della ragazza non ancora madre, che talora si specchiano nelle mani dell’angelo, o - come nella Vergine Annunciata palermitana di Antonello da Messina - emergono in assoluta eloquenza fuori dal quadro?
La ricchezza di questo libro sta anche nella presentazione di testi preziosi che accompagnano la figura dell’Annunciazione; non solo quelli sacri, o Dante, o Petrarca (di cui Feo è massimo studioso), che nel cammino dell’amore che nobilita attraverso la donna, compie la «rivoluzionaria e decisiva collocazione della Vergine a chiusura dei Rerum vulgarium fragmenta». Feo ci traduce molti testi straordinari: ora popolari, ora dei più sofisticati umanisti che intrecciano la Vergine con le divinità greco-latine, ora di mistici ottocenteschi, ora di teologi moderni. Il valore del libro sta anche nel sapiente dialogo che Feo intrattiene tra culture diverse.
Vorrei aggiungere una testimonianza, che ha origine da due antiche tradizioni romagnole. Esse hanno riscontri nei calendari popolari e nel Tempio malatestiano di Rimini, dove compaiono le due porte che le anime passano: nel segno del Capricorno abbandonano la carne attraverso la porta degli dèi e dell’immortalità; nel segno del Cancro si incarnano. Nell’Annunciazione (e incarnazione) del 25 marzo, nell’equinozio di primavera, Maria è seduta, intenta a filare il lino “marzuolo”. In questa immagine, che riprende il protovangelo di Giacomo, Maria è l’umile donna antica, attenta alla rocca, al fuso, al telaio. Ma rievoca anche archetipi: Elena che in Omero tesse una tappezzeria di porpora con le lotte di Greci e Troiani in cui lei è al centro; Cloto che fila lo stame della vita.
La vigilia di Natale, a Ravenna, in una filastrocca che inizia con l’invocazione «Levati, levati mio sole / con il raggio del Signore», tre angeli donano a Maria tre forcine o tre falci d’oro: lei le porge al Signore, e Lui con queste mette in moto la ruota del cosmo: è la nascita di Gesù e del tempo: il compimento dell’Annunciazione avviene nel solstizio d’inverno, sotto il segno del Capricorno. In sintonia con tradizioni immemoriali, raccolte da quelle platoniche, Maria tra primavera ed estate incarna, mentre nel cuore dell’inverno, con il “sole invitto” libera dalla carne, verso l’eternità.
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Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
Michele Feo, Mio nonno era un re , "Il grande vetro".
Come MARIA: "FIGLIA DEL TUO FIGLIO", così GIUSEPPE: "FIGLIO DEL TUO FIGLIO"!!! Dante non "cantò i mosaici" dei "faraoni".
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Sulla divinità di Gesù. il Vaticano corregge Scalfari
Nota della Sala Stampa vaticana: dal fondatore di Repubblica libera e personale interpretazione. La precisazione dopo le sconcertanti e irreali frasi attribuite al Papa sulla divinità di Gesù Cristo
di Riccardo Maccioni (Avvenire, mercoledì 9 ottobre 2019)
Qualcuno stamattina leggendo “La Repubblica” avrà fatto un balzo sulla sedia. Nel suo commento al Sinodo intitolato “Francesco e lo spirito dell’Amazzonia” il fondatore del quotidiano Eugenio Scalfari attribuisce infatti al Papa riflessioni e opinioni quanto meno sconcertanti.
In particolare Scalfari scrive: «Chi ha avuto, come a me è capitato più volte, la fortuna d’incontrarlo e di parlargli con la massima confidenza culturale, sa che papa Francesco concepisce il Cristo come Gesù di Nazareth, uomo, non Dio incarnato. Una volta incarnato, Gesù cessa di essere un Dio e diventa fino alla sua morte sulla croce un uomo».
E a conferma di quanto appena detto, il giornalista e filosofo, passa in rassegna, modificandola anche un po’, la Passione di Gesù, soffermandosi in particolare sul grido di Cristo in croce, tratto dal Vangelo di Marco che riprende il Salmo 22: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Un’invocazione che Scalfari riassume in “Signore mi hai abbandonato”. «Quando mi è capitato di discutere queste frasi - aggiunge Scalfari - papa Francesco mi disse: “Sono la prova provata che Gesù di Nazareth una volta diventato uomo, sia pure un uomo di eccezionali virtù, non era affatto un Dio”». Davvero, quella di Scalfari, un’interpretazione troppo libera e palesemente irreale, al punto da meritarsi una “correzione”.
Arrivata con una nota del direttore della Sala Stampa della Santa Sede, Matteo Bruni: «Come già affermato in altre occasioni, le parole che il dottor Eugenio Scalfari attribuisce tra virgolette al Santo Padre durante i colloqui con lui avuti non possono essere considerate come un resoconto fedele di quanto effettivamente detto, ma rappresentano piuttosto una personale e libera interpretazione di ciò che ha ascoltato, come appare del tutto evidente da quanto scritto oggi in merito alla divinità di Gesù Cristo».
Del resto per capire che le espressioni attribuite al Pontefice non potevano essere reali sarebbe bastato recuperare le parole del Papa, ripetute in più occasioni. Poteva essere sufficiente anche solo riprendere pochi passaggi dell’udienza generale del 18 dicembre 2013: «Dio ha voluto condividere la nostra condizione umana al punto da farsi una cosa sola con noi nella persona di Gesù, che è vero uomo e vero Dio. Ma c’è qualcosa di ancora più sorprendente. La presenza di Dio in mezzo all’umanità non si è attuata in un mondo ideale, idilliaco, ma in questo mondo reale, segnato da tante cose buone e cattive, segnato da divisioni, malvagità, povertà, prepotenze e guerre. Egli ha scelto di abitare la nostra storia così com’è, con tutto il peso dei suoi limiti e dei suoi drammi. Così facendo ha dimostrato in modo insuperabile la sua inclinazione misericordiosa e ricolma di amore verso le creature umane».
Concetti ribaditi a Caserta il 28 luglio 2014: «L’Apostolo Giovanni è chiaro: “Colui che dice che il Verbo non è venuto nella carne, non è da Dio! È dal diavolo”. Non è nostro, è nemico! Perché c’era la prima eresia - diciamo la parola fra di noi - ed è stata questa, che l’Apostolo condanna: che il Verbo non sia venuto nella carne. No! L’incarnazione del Verbo è alla base: è Gesù Cristo! Dio e uomo, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, vero Dio e vero uomo».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA!!! NON IL FIGLIO DEL "DIO" ("CARITAS") DELLA CHIESA AF-FARAONICA E COSTANTINIANA !!!
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Un governo per difendere la Costituzione
M5S-Lega. Il dovere delle forze democratiche è quello di dar vita a un governo che ripari i guasti prodotti proprio da chi quelle politiche velenose contro la vita e la dignità delle persone ha praticato e intende riproporre con più forza ove vincesse le elezioni
di Luigi Ferrajoli (il manifesto, 25.08.2019)
C’è una ragione di fondo che impone alla sinistra la formazione di un governo giallo-rosso: la necessità, prima di porre termine alla legislatura, di disintossicare la società italiana dai veleni in essa immessi da oltre un anno di politiche ferocemente disumane contro i migranti. La Lega di Salvini intende «capitalizzare il consenso» ottenuto a tali politiche pretendendo nuove elezioni e chiedendo al popolo «pieni poteri».
L’idea elementare della democrazia sottostante a questa pretesa - poco importa se per analfabetismo istituzionale o per programmatico disprezzo delle regole - è la concezione anticostituzionale dell’assenza di limiti alla volontà popolare incarnata dalla maggioranza e, di fatto, dal suo capo: dunque, l’esatto contrario di quanto voluto dalla Costituzione, cioè la negazione del sistema di vincoli, di controlli e contrappesi da essa istituito a garanzia dei diritti fondamentali delle persone e contro il pericolo di poteri assoluti e selvaggi.
Non dimentichiamo quanto scrisse Hans Kelsen contro questa tentazione del governo degli uomini, e di fatto di un capo, in alternativa al governo delle leggi: «la democrazia», egli scrisse, «è un regime senza capi», essendo l’idea del capo al tempo stesso non rappresentativa della complessità sociale e del pluralismo politico, e anti-costituzionale perché in contrasto con la soggezione alla legge e alla Costituzione di qualunque titolare di pubblici poteri.
Di fronte a queste pretese, il dovere delle forze democratiche - di tutte quelle che si riconoscono non già nell’idea dell’onnipotenza delle maggioranze ma in quella dei limiti e dei vincoli ad esse imposte dalla Costituzione - è quello di dar vita a un governo che ripari i guasti prodotti proprio da chi quelle politiche velenose contro la vita e la dignità delle persone ha praticato e intende riproporre con più forza ove vincesse le elezioni.
Dunque un governo di disintossicazione dall’immoralità di massa generata dalla paura, dal rancore e dall’accanimento - esibito, ostentato - contro i più deboli e indifesi.
Non un governo istituzionale o di transizione, che si presterebbe all’accusa di essere un governo delle poltrone, ma al contrario un governo di esplicita e dichiarata difesa della Costituzione che ristabilisca i fondamenti elementari della nostra democrazia costituzionale: la pari dignità delle persone, senza differenze di etnia o di nazionalità o di religione, il diritto alla vita, il rispetto delle regole del diritto internazionale, prima tra tutte il dovere di salvare le vite umane in mare, il valore dei diritti umani e della solidarietà, il rifiuto della logica del nemico, come sempre identificato con i diversi e i dissenzienti e immancabilmente accompagnato dal fastidio per la libera stampa e per i controlli della magistratura sull’esercizio illegale dei poteri.
Su questa base non ha nessun senso condizionare il governo di svolta a un no a un Conte-bis o alla riduzione del numero dei parlamentari.
L’alternativa possibile è un governo Salvini, preceduta dalla riduzione dei parlamentari ad opera di una rinnovata alleanza giallo-verde, e poi chissà quante altre e ben più gravi riforme in tema di giustizia, di diritti e di assetto costituzionale.
Una probabile maggioranza verde-nera eleggerebbe il proprio capo dello Stato e magari promuoverebbe la riforma della nostra repubblica parlamentare in una repubblica presidenziale. Di fronte a questi pericoli non c’è spazio per calcoli o interessi di partito.
PER LA CRITICA DELLA FACOLTÀ DI GIUDIZIO E DELLA CREATIVITÀ DELL’ "UOMO SUPREMO"... *
Ferrarotti nella società irretita dalla tecnica
Reminisco, ergo sum: il pensiero "involontario"
di Simone D’Alessandro (Doppioero, 25 giugno 2019)
Secondo Ferrarotti, decano della sociologia italiana, gli uomini oltrepassano la prevedibilità perché hanno memoria. Paradossalmente è la consapevolezza dei ricorsi storici che ci rende affatto stufi di ciò che è razionalmente prevedibile. A renderci sfuggenti è proprio ciò che siamo stati. Più precisamente: ciò che ricordiamo di essere stati.
L’assioma di Cartesio si rovescia: da Cogito ergo sum a Reminisco ergo sum.
In Il pensiero involontario nella società irretita, pubblicato quest’anno da Armando editore, egli affronta la memoria che costituisce l’essenza della nostra sopravvivenza sulla terra, tema che ricorre in altre sue opere precedenti. Il ricordo è, oggi, intaccato dalla comunicazione elettronica che lo rende superfluo.
Più che un saggio canonico è un pamphlet che analizza come la modernità dimentica, per citare il classico di Paul Connerton, in quanto funzionalmente portata verso questa fatalità.
La mancanza di memoria rende, infatti, l’umano sostituibile o impiegabile per altro.
Il suo agire meccanico e routinario viene preferito a quello imprevedibile dell’homo sapiens che coniuga la regola con l’emozione, direbbe de Masi.
Tanto vale sostituirlo con un’entità strumentale ben più efficiente, ma questo già accadeva con L’homme machine di de la Mettrie: utopia e distopia al tempo stesso.
Ferrarotti condanna la “ripetizione” come morte dell’invenzione radicale, perché la produzione si annulla nella cieca “riproduzione” e nell’incrementale “miglioramento” fine a se stesso.
Quando nulla cambia, quando tutto si dispiega in un eterno presente, l’unica cosa da fare è automatizzare l’esistente.
La memoria diventa, allora, strumento di resistenza verso tale deriva.
Essa non è semplicemente utile, né banalmente peculiare del nostro essere umani, detentori di un’identità personale da coltivare.
La memoria è molto di più, perché ci distoglie dalla retorica delle soluzioni facili che, proprio per questo, si rivelano sempre autoritarie giammai autorevoli.
La nostra società di Informatissimi idioti, altro fortunato titolo ferrarottiano di alcuni anni fa, viene algoritmicamente plagiata da un potere panoptico che riduce anche l’esercizio democratico in mero tecnicismo. Potere e autorità sono termini spesso utilizzati in modo intercambiabile, ma in questa facile analogia si nasconde una fallacia epistemologica.
Mentre il potere schiaccia, l’autorità permette la crescita.
La contrapposizione tra potere autoritario e proattività autorevole è un altro tema che assilla un intellettuale che è stato tra i primi frequentatori di Olivetti, addetto alla Presidenza per le Questioni Sociali nel 1949 e, successivamente, deputato per il Movimento di Comunità.
Ferrarotti appartiene a quella tradizione solida di intellettuali organici, resilienti e consapevoli del destino declinante dell’occidente.
In un momento in cui la filosofia e la sociologia vengono eliminate nelle università del Brasile, uno scienziato sociale rivendica il primato del pensiero umanistico, oggi costretto al suicidio dalle regole del profitto.
Applicazione disciplinata delle procedure o vocazione che metabolizza le tecniche rendendole apparentemente spontanee? Trasformazione di ciò che sei attraverso empowerment o attitudine che prevede miglioramento di ciò che già sei?
Questo è il dilemma nella società di oggi che deve scegliere se governare o essere governata dalla tecnica che elimina tutto ciò che ritiene disfunzionale.
Per maestri del pensiero quali Heidegger e Severino il destino sembrerebbe esser tracciato, ma in Ferrarotti vi è un imprevedibile vitalismo che disattiva ogni forma di disperazione.
Contestualmente alla pubblicazione del suo libro, la Luiss University Press dà alle stampe l’ultima fatica del filosofo francese Éric Sadin: Critica della ragione artificiale, nella quale si evidenzia il ruolo delle nuove tecnologie intelligenti che erodono le facoltà di giudizio e azione soggettiva. Forse non è un caso! Sadin, recuperando in senso letterale il ruolo politico della filosofia, svela il retro pensiero antiumanistico dei discorsi che sostengono l’indiscriminato sviluppo tecnologico.
Siamo giunti all’avveramento della profezia di Luhmann che negli ultimi suoi lavori annunciava l’avvento di una società senza persone?
Ferrarotti non cade nel tranello dei radicalismi. Evita di sposare la causa degli “apocalittici”, ma trova ingenuo l’atteggiamento ottimista degli “integrati”.
Ci ricorda che il vero pensiero non cede alle tentazioni della soluzione finale, piuttosto ci prepara a vivere quotidianamente con il problema: «l’atto filosofico più importante che oggi si possa compiere, è dato dal buon uso della crisi e dall’accettazione, pacata, del disagio. Non si tratta di contemplare rassegnati. Non è in gioco la Gelassenheit heideggeriana e neppure il “surrender”, la resa di Kurt H. Wolf. Si tratta di un’attesa vigile». Per questo bisogna contrastare la procedura, il modello come soluzione finale: il modello è un deja vù!
C’è sempre uno scienziato che crede di aver inventato un modello totalmente innovativo (ingenuità) che possiede qualcosa che altri modelli non hanno (propaganda) e che permette, una volta implementato, di risolvere tutti i problemi (utopia).
Un modello è una variabile dipendente da altre variabili: il contesto, i pregiudizi dell’epoca, le persone che trovi lungo il cammino, il ruolo effettivo che ricopri, la casualità.
L’allenamento mentale dell’uomo in grado di guidare il cambiamento, dovrebbe basarsi sulla capacità critica di falsificare tutti i modelli.
I modelli sono riduzionistici rispetto alle dinamiche del reale. Non si può governare la complessità rinunciando alla complessità. Di questo la sociologia critica è perfettamente consapevole.
Un modello che diventa procedura genera mostri, ostacolando il salto di qualità.
Più di cento anni fa, Max Weber lanciava un monito sulle conseguenze del processo di razionalizzazione della società occidentale, rinchiusa in una gabbia d’acciaio.
Quel monito è rimasto inascoltato!
Il XXI secolo ha spalancato le porte alla Dittatura del calcolo, come ci ricorda il matematico Zellini nella sua ultima pubblicazione del 2018.
Aumentano i libri sulla gestione automatica, cibernetica o per emulazione-memorizzazione di modelli. Eppure i livelli di criticità e di conflittualità - politica, organizzativa, economica, sociale, ambientale - sono aumentati rispetto al cosiddetto trentennio glorioso del secolo scorso.
Anche negli anni precedenti ai due conflitti mondiali, si erano imposti paradigmi di stampo positivistico finalizzati a modellizzare la realtà per ottimizzarne la funzionalità.
Risultato: le procedure generano mostri! Il positivismo ha creato sistemi autoritari.
Il modello migliora ciò che già sei, ma non cambia la natura di ciò che sei.
Allora vale la pena riscoprirsi imprevedibili e non farsi irretire dalla macchina.
L’uomo prende decisioni anche in assenza di informazioni. La macchina no!
Il 15 gennaio 2009, il pilota di linea Chesley Burnett “Sully” Sullenberger fa ammarare il volo US Airways 1549 sul fiume Hudson. Con la sua manovra, resa necessaria dall’impatto del velivolo con uno stormo di uccelli che manda in panne entrambi i motori, salva la vita a 155 persone.
Ciò nonostante l’aviazione lo sottopone a una commissione di inchiesta, perché ritiene che il pilota abbia agito in maniera pericolosa e avventata. La tesi sostenuta dagli ispettori era che avrebbe potuto fare ritorno presso l’aeroporto e atterrare con molti meno rischi. Solo dopo 15 mesi di indagini e decine di simulazioni, il NTSB convalida senza riserve la decisione di Sully.
Inizialmente una serie di test aveva sconfessato la scelta del pilota, ma si trattava di simulazioni che non tenevano conto dei 20 secondi che erano stati necessari a Sully per valutare la situazione dopo lo spegnimento dei motori. Includendo questo lasso di tempo nei test, la decisione del pilota si è dimostrata la più corretta.
Questa divagazione su una storia di vita era necessaria, perché consonante con il modo di osservare e interpretare la realtà di Ferrarotti.
L’analisi qualitativa della micro sociologia, fatta di esperienze singole e di “ricerche di comunità”, dalle quali emergono conoscenze non rilevabili con i dati statistici, fanno parte di quella tradizione della filosofia sociale e della sociologia qualitativa che non può essere cancellata, ma deve necessariamente coniugarsi con le metodologie di carattere quantitativo, accettando il problema dell’irriducibilità dei fenomeni sociali al mero dato misurabile.
Ferrarotti non dimentica la lezione ottocentesca, ancora attuale, di dover tenere assieme spiegazione (erklären) e comprensione (verstehen) , mantenendo una rotta scientifica alimentata da una tensione critica verso fenomeni che corrodono la coesione sociale.
Egli appartiene alla schiera di quei pensatori che vogliono incidere sulla realtà senza cadere in tentazioni ideologiche, preservando l’onesta dello scienziato sociale.
A lui si addice la frase che egli stesso cita in un’altra delle sue opere pubblicate quest’anno: Potere e autorità.
Nell’ultima pagina di questo lavoro, cita l’ultima opera di Charles Wright Mills, The Marxists, dove in esergo compare una frase che ogni sociologo dovrebbe far propria:
«I have tried to be objective, I do not claimed to be detached». Ho cercato di essere obiettivo. Non pretendo di essere distaccato.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
Federico La Sala
IL PRIMOGENITO TRA MOLTI FRATELLI E LA COSTITUZIONE DOGMATICA DELL’IMPERO SU CUI NON TRAMONTA MAI IL SOLE...*
1. La gioia della verità (Veritatis gaudium) esprime il desiderio struggente che rende inquieto il cuore di ogni uomo fin quando non incontra, non abita e non condivide con tutti la Luce di Dio[1]. La verità, infatti, non è un’idea astratta, ma è Gesù, il Verbo di Dio in cui è la Vita che è la Luce degli uomini (cfr. Gv 1,4), il Figlio di Dio che è insieme il Figlio dell’uomo. Egli soltanto, «rivelando il mistero del Padre e del suo amore, rivela l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione»[2].
Nell’incontro con Lui, il Vivente (cfr Ap 1,18) e il Primogenito tra molti fratelli (cfr Rm 8,29), il cuore dell’uomo sperimenta già sin d’ora, nel chiaroscuro della storia, la luce e la festa senza più tramonto dell’unione con Dio e dell’unità coi fratelli e le sorelle nella casa comune del creato di cui godrà senza fine nella piena comunione con Dio. Nella preghiera di Gesù al Padre: «perché tutti siano uno, come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi» (Gv 17,21) è racchiuso il segreto della gioia che Gesù ci vuole comunicare in pienezza (cfr 15,11) da parte del Padre col dono dello Spirito Santo: Spirito di verità e di amore, di libertà, di giustizia e di unità. [:::] "(Costituzione Apostolica «Veritatis gaudium» di Papa Francesco circa le Università e le Facoltà ecclesiastiche, 29.01.2018. Proemio)
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Mediterraneo contesto del pensiero di pace.
Il Papa a Napoli, per la teologia che serve
di Stefania Falasca (Avvenire, giovedì 20 giugno 2019)
«La teologia dopo “Veritatis gaudium” nel contesto del Mediterraneo» è il titolo del convegno internazionale promosso dalla Pontificia Facoltà teologica dell’Italia meridionale-Sezione San Luigi di Napoli. L’incontro che si è aperto giovedì verrà concluso venerdì mattina alle 12 da un intervento di papa Francesco. Al suo arrivo ad attenderlo, il Papa troverà, tra gli altri, il cardinale Crescenzio Sepe, arcivescovo di Napoli e Gran cancelliere della Facoltà; il decano della Facoltà padre Pino Di Luccio e gli altri responsabili, il vescovo di Nola, Francesco Marino in rappresentanza dei presuli della Campania, e il gesuita Joaquin Barrero Diaz, assistente regionale per l’Europa del Sud. A Napoli sarà presente anche il presidente della Cei, cardinale Gualtiero Bassetti.
A Napoli, per la teologia che serve: quella del contesto. Che è quella che parte "dal basso" e non si stacca dalla vita concreta con tutte le sue contraddizioni, le sue tensioni e indaga i segni dei tempi per cogliere l’attualità della Parola di Dio, appunto, nel contesto in cui viviamo. Per capire e studiare i problemi che investono l’umanità e insieme proporre risoluzioni. E in questo caso, a Napoli, il contesto è il Mediterraneo, culla di dialogo e scambi e battaglie e oggi soprattutto teatro di conflitti. È per questa teologia che venerdì, nella partenopea collina di Posillipo, papa Francesco busserà alla porta della Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale - che ha dato corpo a un convegno di due giorni sulla nuova frontiera del Mare Nostrum a partire dalla Veritatis gaudium - per una riflessione conclusiva.
Il tema della sua relazione, "La teologia dopo Veritatis gaudium nel contesto del Mediterraneo" sarà così una messa a punto di una prospettiva e una spinta d’eccezione a un percorso indicato.
Il Papa ha voluto scegliere il luogo di questo contesto proprio per rilanciare e dare forma e contenuto pratici alla riforma teologica che quasi un anno e mezzo fa ha promulgato con la pubblicazione della costituzione apostolica destinata alle università e facoltà teologiche ecclesiastiche.
Nel proemio della Veritats gaudium, queste, infatti, non sono solo chiamate a offrire percorsi di formazione qualificata dei presbiteri, delle persone di vita consacrata e dei laici impegnati, ma «costituiscono una sorta di provvidenziale laboratorio culturale in cui la Chiesa fa esercizio dell’interpretazione performativa della realtà che scaturisce dall’evento di Gesù Cristo e che si nutre dei doni della sapienza e della scienza di cui lo Spirito Santo arricchisce in varie forme tutto il Popolo di Dio: dal sensus fidei fidelium al magistero dei pastori, dal carisma dei profeti a quello dei dottori e dei teologi».
Un «provvidenziale laboratorio culturale», insomma, nella visione del Papa, che porta a concepire anche le facoltà teologiche come le definiva Ivan Illich, academic inn, nel senso di una convergenza di studium e convivium. Un luogo privilegiato di servizio dove, l’intreccio fruttuoso delle conversazioni, può diventare l’autentico tessuto vitale e scientifico se anche il centro visibile e spaziale dell’università viene aperto nella consapevolezza che il modo migliore per dialogare non è solo quello di parlare e discutere, «ma quello di fare qualcosa insieme».
«È giunto ora il momento - ha scritto ancora Francesco nel proemio - in cui questo ricco patrimonio di approfondimenti e di indirizzi, verificato e arricchito per così dire "sul campo" dal perseverante impegno di mediazione culturale e sociale del Vangelo messo in atto dal popolo di Dio nei diversi ambiti continentali e in dialogo con le diverse culture, confluisca nell’imprimere agli studi ecclesiastici quel rinnovamento sapiente e coraggioso che è richiesto dalla trasformazione missionaria di una Chiesa "in uscita"».
Per il Papa il rinnovamento della teologia non può che passare dall’ascolto e dall’osservazione attenta di tutte quelle esperienze che il popolo di Dio già sta facendo e in cui sta avvenendo una sintesi tra le diverse culture delle persone e proprio nell’ascolto di queste esperienze, in cui il Vangelo tocca davvero il vissuto umano, si troveranno i criteri, le prospettive, gli impulsi che ci aiuteranno a rinnovare la teologia.
«Far precedere la partecipazione al convegno con una visita tra i terremotati di Camerino forse indica proprio questo», sintetizza il decano gesuita Pino Di Luccio, docente di teologia biblica. Quella della sua Facoltà, è una teologia "in contesto" nella direzione della riforma delineata da papa Bergoglio nella Veritatis gaudium che si distingue per l’attitudine al dialogo con le culture, per l’orientamento inter e trans-disciplinare, per le competenze nelle varie discipline del sapere, e per l’apertura e la conoscenza delle altre religioni.
La sezione San Luigi della Facoltà dal 2016 promuove iniziative all’insegna della convivenza, dell’interculturalità e del dialogo con i musulmani e gli ebrei, anch’essi tra i relatori del convegno cominciato giovedì.
A tema c’è anche il documento di Abu Dhabi. L’insieme di Paesi, attraversati dal Mediterraneo e uniti dal dialogo di due uomini che si incontrano, è simbolo e inizio di un nuovo periodo interreligioso per una via di fratellanza nel Mediterraneo. -Del resto nel documento che febbraio il grande imam di al-Azhar Ahmad al-Tayyeb ha firmato assieme a papa Francesco si chiede che questo diventi oggetto di ricerca e di riflessione in tutte le scuole, nelle università e negli istituti di educazione e di formazione, «al fine di contribuire a creare nuove generazioni che portino il bene e la pace e difendano ovunque il diritto degli oppressi e degli ultimi». E certamente non mancherà, in questo contesto, di essere menzionato dal Papa.
VERSO IL "PARADISO TERRESTRE" (DANTE, 2021):
DALLA TRINITA’ DI ADAMO ED EVA ALLA TRINITA’ DI GIUSEPPE E MARIA. Al di là della Trintà edipica....*
Trinità, il mistero che abita dentro noi
di Ermes Ronchi (Avvenire, giovedì 13 giugno 2019)
Memoria emozionante della Trinità, dove il racconto di Dio diventa racconto dell’uomo. Dio non è in se stesso solitudine: esistere è coesistere, per Dio prima, e poi anche per l’essere umano. Vivere è convivere, nei cieli prima, e poi sulla terra. I dogmi allora fioriscono in un concentrato d’indicazioni vitali, di sapienza del vivere. Quando Gesù ha raccontato il mistero di Dio, ha scelto nomi di casa, di famiglia: abbà, padre... figlio, nomi che abbracciano, che si abbracciano. Spirito, ruhà, è un termine che avvolge e lega insieme ogni cosa come libero respiro di Dio, e mi assicura che ogni vita prende a respirare bene, allarga le sue ali, vive quando si sa accolta, presa in carico, abbracciata da altre vite. Abbà, Figlio e Spirito ci consegnano il segreto per ritornare pienamente umani: in principio a tutto c’è un legame, ed è un legame d’amore.
Allora capisco che il grande progetto della Genesi: «facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza», significa «facciamolo a immagine della Trinità», a immagine di un legame d’amore, a somiglianza della comunione. La Trinità non è una dottrina esterna, è al di qua, è dentro, non al di là di me. Allora spirituale e reale coincidono, verità ed esistenza corrispondono. E questo mi regala un senso di armoniosa pace, di radice santa che unifica e fa respirare tutto ciò che vive.
In principio c’è la relazione (G. Bachelard). «Quando verrà lo Spirito di verità, vi guiderà... parlerà... dirà... prenderà... annunzierà». Gesù impiega tutti verbi al futuro, a indicare l’energia di una strada che si apre, orizzonti inesplorati, un trascinamento in avanti della storia. Vi guiderà alla verità tutta intera: la verità è in-finita, «interminati spazi» (Leopardi), l’interezza della vita. E allora su questo sterminato esercito umano di incompiuti, di fragili, di incompresi, di innamorati delusi, di licenziati all’improvviso, di migranti in fuga, di sognatori che siamo noi, di questa immensa carovana, incamminata verso la vita, fa parte Uno che ci guida e che conosce la strada. Conosce anche le ferite interiori, che esistono in tutti e per sempre, e insegna a costruirci sopra anziché a nasconderle, perché possono marcire o fiorire, seppellire la persona o spingerla in avanti.
La verità tutta intera di cui parla Gesù non consiste in concetti più precisi, ma in una sapienza del vivere custodita nell’umanità di Gesù, volto del Padre, respiro dello Spirito: una sapienza sulla nascita e sulla morte, sulla vita e sugli affetti, su me e sugli altri, sul dolore e sulla infinita pazienza di ricominciare, che ci viene consegnata come un presente, inciso di fessure, di feritoie di futuro.
(Letture: Proverbi 8,22-31; Salmo 8; Romani 5,1-5; Giovanni 16,12-15)
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI. In memoria di Kurt H. Wolff.
"NUOVA ALLEANZA"?!: A CONDIZIONE CHE ACCANTO A "MARIA" CI SIA "GIUSEPPE"!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
ADAMO ED EVA, IL "FAMILISMO AMORALE", E L’USCITA DA INTERI MILLENNI DI LABIRINTO... *
Etica pubblica.
Salvatore Natoli e la politica per la città nuova
Nel nuovo libro il filosofo riflette sull’attesa del Regno e su come l’agone sociale renda possibile la sua costruzione con la cura del bene comune
di Roberto Righetto (Avvenire, venerdì 24 maggio 2019)
Aveva ragione Baudelaire, quando in uno dei suoi pensieri colse appieno l’essenza della Modernità: «Teoria della vera civiltà. Non consiste nel gas o nel vapore o nei tavolini parlanti, consiste nella dimenticanza del peccato originale». E se non esiste più questa coscienza della colpa, insita nell’uomo sin dall’inizio, sparisce completamente anche l’idea di salvezza, di redenzione. È questo uno dei presupposti del nuovo libro di Salvatore Natoli, Il fine della politica. Dalla teologia del regno al governo della contingenza (Bollati Boringhieri, pagine 130, euro 15) che sarà presentato lunedì prossimo al teatro Franco Parenti di Milano dall’autore con Davide Assael.
Il filosofo noto per i suoi saggi sul dolore e sulla felicità, nonché per le sue numerose interlocuzioni, da non credente, col mondo dei credenti (memorabili alcuni suoi confronti con personalità come il cardinal Martini, il biblista Sergio Quinzio o il monaco Enzo Bianchi), in questo volume si interroga sul destino della politica, ma in realtà la sua esplorazione riguarda tutto il percorso dell’umanità. A partire dall’idea di éschaton o éschata, “le cose future”, sorta nell’ambito del giudaismo ma riadattata dal cristianesimo e il cui influsso ha segnato in maniera decisiva tutta la storia dell’Occidente, dal Medioevo alla Modernità.
In realtà già Omero ne parla e se ne serve per definire «ciò che sta fuori», cioè «il più lontano, l’estremo». Nella Bibbia invece per i profeti designa la fine dei giorni e così nei Vangeli e in Paolo, ove emerge un concetto di tempo come promessa e compimento. I primi cristiani com’è noto attendevano un ritorno se non immediato assai ravvicinato di Gesù e si aspettavano che si compisse la promessa della salvezza e la cancellazione del male dalla faccia della terra. Commenta Natoli: «Il cristianesimo, nella sua essenza, non in altro consiste se non nell’annuncio del regno di Dio. Esso è già venuto con la venuta di Cristo nel mondo, tuttavia non si è ancora manifestato nella sua pienezza, (...) tant’è che il regno è ancora da invocare, anzi è la prima cosa da chiedere: venga il tuo regno».
L’éschaton è allora l’aver fede che nel futuro si adempirà quanto è stato promesso: di qui la felice formula “già e non ancora” che viene applicata alla Chiesa, che vive in sé la dimensione della salvezza ma ne attende la piena realizzazione. Col passare dei decenni e dei secoli, il tempo dell’attesa si è dilatato dato che la storia prosegue il suo corso, ed è esattamente questo il tempo della po-litica: inevitabile, da Paolo in poi, il tentativo di definire il rapporto fra la Chiesa e il potere, assieme alle prime formulazioni di una teologia della storia.
Natoli dedica diverse pagine alla questione del katéchon, quella potenza che trattiene il dilagare del male, ma al contempo impedisce il manifestarsi pieno del progetto di Dio sull’umanità. Già nell’antichità essa fu identificata da alcuni teologi con l’impero romano (c’è chi vide in Nerone l’Anticristo), ma perlopiù esso rimase, e rimane, un’entità misteriosa e indefinibile. Sta di fatto che i cristiani si trovarono sempre più immersi nel loro tempo e costretti a fare i conti con le potenze mondane.
Fu sant’Agostino a elaborare la prima vera e propria teologia della storia nel De civitate Dei. Il vescovo di Ippona vedeva il potere politico come una realtà che ha il compito preminente di contenimento del male, mentre Tommaso d’Aquino nei secoli successivi gli assegnerà una funzione positiva: il perseguimento del bene comune. In un saggio uscito in America nel 1949 e in Italia edito dal Saggiatore, Significato e fine della storia, il pensatore tedesco Karl Löwith scriveva: «L’impossibilità di elaborare un sistema progressivo della storia profana sulla base della fede ha la contropartita nell’impossibilità di tracciare un piano significativo della storia mediante la ragione. Ciò è confermato dal senso comune: infatti chi oserebbe pronunciare un giudizio definitivo sullo scopo e sul senso degli eventi contemporanei?».
Non molto diversamente sembra pensarla Natoli che però, pur prendendo atto del processo di secolarizzazione e della trasformazione dell’éschaton cristiano nell’utopia razionalistica e illuministica, continua a pensare che pure le società contemporanee abbiano una riserva di futuro, anche se ormai solo terreno. La legge del progresso, grazie alla quale si trasferiva all’operatività umana - alla scienza e alla tecnica in primis - la possibilità di progettare il futuro, già ai tempi di Voltaire si scontrava tuttavia con l’inesorabilità del destino: è noto lo sconcerto dei philosophes dinanzi alla tragedia del terremoto di Lisbona. E se è vero che la dimenticanza dell’éschaton è stata resa possibile in primo luogo per colpa della Chiesa, divenuta nei secoli passati sempre più «una grande macchina organizzativa che ha modellato la vita delle persone» perdendo di vista la dimensione spirituale, è altrettanto vero che l’utopia del cambiamento dell’uomo e della società ha generato mostri come i totalitarismi. Lo sguardo di Natoli si fa più disincantato: «Sono in tanti - scrive - a sostenere che il tempo della politica è, ormai, finito; e certamente lo è, se la politica la si pensa ancora in termini novecenteschi. Il Novecento, in particolare la prima metà, non è stato solo un tempo politico ma un tempo dell’iperpolitica».
Ciò nonostante, egli indica ancora una possibilità: «Se non c’è più alcuna “fine” da attendere, è necessario attendere alle cose del mondo, prendersele in carico». Compito della politica è allora la giustizia, la pace è moderare i conflitti, provvedere al benessere. Se essa ha perduto il senso dell’éschaton, mantiene un telos, vale a dire un fine. E questo può costituire un terreno di azione comune per credenti e non credenti che vogliano ancora impegnarsi nell’azione politica. Così Natoli può concludere: «È in forza della comune umanità, della pietas che lega tra loro uomini e popoli, che la specie mortale può salvarsi. Ora, cosa più della politica deve provvedere a ciò che è comune? Liberaci dal male è un’invocazione che si rivolge a Dio e per chi crede lo è ancora. Ma cos’altro è la realizzazione del regno, se non questo?».
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETÀ. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA.
DANTE, IL LETARGO DI SECOLI, E LA CRISI DELL’EUROPA - SULLA STRADA DI GOETHE O DI ENZO PACI (“NICODEMO O DELLA NASCITA”, 1944)?!
Federico La Sala
Sé come un altro ovvero “resa e cattura”: la prospettiva di Kurt Wolff
di Roberto Cipriani *
Premessa
Quando Francesca Sacchetti (2012) ha investigato i “percorsi della soggettività tra fenomenologia ed ermeneutica” ha individuato un filone preciso di pensiero che da Husserl (1922, 1929, 1963) conduce a Schütz (1932) e poi a Paul Ricoeur (2002). Ma altrettanto si può dire per quanto riguarda il percorso da Husserl (1922, 1929, 1956, 1963, 1973) a Kurt Wolff (1972a, 1976, 1984, 1984a) come punto di arrivo e di consonanza con Ricoeur stesso, vista la comune matrice fenomenologica e la conoscenza che il sociologo della Brandeis University ha delle opere di Ricoeur (1967, 1970), come si evince dal suo saggio sul rapporto fra “resa e cattura” e fenomenologia (Wolff 1984).
Surrender and Catch: Experience and Inquiry Today (Wolff (1976) è un testo che denota una chiara influenza dovuta all’insegnamento di Karl Mannheim, maestro di Kurt Wolff negli anni Trenta. L’origine della formula “resa e cattura” ha evidenti radici classiche greche nell’idea di ἐποχή, che riguarda l’attesa, la sospensione, una sorta di scetticismo metodologico, ma poi anche nell’espressione latina assensionis retentio (rinvio della decisione). “Surrender and catch” è pure una sorta di “sociologia comprendente” che risale alla nota verstehende Soziologie di matrice tedesca, distinguendo fra “surrender” (resa generica) e “surrender to” (resa a qualcuno o qualcosa). Detto altrimenti non si tratta solo di una teoria ma anche di una metodologia.
La valenza qualitativa della resa e della cattura
Kurt Wolff ha dedicato ben quattro pubblicazioni alla sua inestricabile connessione fra “resa e cattura”. Il primo libro è del 1972 ed ha come titolo Surrender and Catch: A Palimpsest Story (Wolff 1972). Il secondo (Wolff 1976) è pubblicato come volume di una serie di filosofia della scienza. Il terzo (Wolff 1978) è una riedizione in brossura del precedente. Il quarto (Wolff 1995) è una ripresa del tema di “resa e cattura” a suggello di 23 anni di rielaborazioni dal 1972 al 1995, che hanno visto l’autore impegnato su più fronti disciplinari.
Soprattutto gli articoli pubblicati su riviste insistono specificamente sulla tematica della resa declinata sotto diverse angolature: fenomenologica (Wolff 1972a, 1984), filosofica (Wolff 1979), conoscitiva (Wolff 1982, 1982a, 1983) ed ermeneutica (Wolff 1984a). Appare difficile individuare un possibile ambito al quale Kurt Wolff non abbia tentato di applicare il suo strumento teorico, rappresentato principalmente dalla disponibilità alla resa, all’avere fiducia nell’altro e nella sua alterità sostanziale (Wolff 1994). Ne consegue che il taglio principale della sua epistemologia e metodologia di fondo rimane appunto la rinunzia ad esprimere posizioni in prima persona, da ricercatore, fatta eccezione ovviamente per la scelta operativa iniziale, che in maniera precipua appare un’opzione dichiaratamente qualitativa (Corradi 1987). Il che è ampiamente documentato anche nei Kurt Wolff Papers, Robert D. Farber University Archives della Brandeis University di Waltham (Massachusetts), che contengono un box intitolato Surrender as a Response to Our Crisis, datato 1962 (Wolff 1962), ed un altro denominato Surrender and Catch, Hermeneutics, Phenomenology, Critical Theory, senza indicazione di data.
A ben considerare, tutta l’esistenza stessa di Kurt Wolff si muove lungo le coordinate della resa da una parte e della cattura dell’altra (Stehr 1981) e dunque la sua sociologia esistenziale è anche un volere la resa prima e la cattura poi ma proprio per sfuggire specularmente, a posizioni rovesciate dunque, al rischio della resa incondizionata al nemico ideologico e politico ed altresì della cattura, cioè della privazione di ogni libertà di pensiero ed azione. Tutto ciò si tramuta per Wolff in una scelta epistemologica e metodologica insieme che riflette da presso il suo stesso itinerario biografico: un continuo arrendersi ad ogni possibile forma di sapere per poi impossessarsene, fosse una lingua straniera, la storia, la filosofia, la poesia e non ultima la sociologia e di conseguenza il pensiero di Mannheim - di cui fu studente attento ed assiduo (Wolff 1991, 57-79) -, Simmel e Durkheim.
La definizione di resa
Wolff è uno studioso poliedrico e quindi anche le sue concettualizzazioni risentono di tale caratteristica. Inoltre il modello della resa è qualcosa che si sperimenta esistenzialmente in vari campi: dalla natura all’indagine empirica, dall’arte alla riflessione teoretica, dalla politica alla poesia, dalla filosofia alla storia ed alla sociologia.
Da un punto di vista strettamente metodologico i dati vanno accettati per quelli che sono, quasi un fatto naturale, scontato, cui affidarsi senza remore. In pari tempo occorre rinunciare a formulare ipotesi previe ed aspettative di qualunque genere. Anzi l’unica aspettativa ha da essere quella dell’attesa degli sviluppi in corso. L’alterità non si coglie a prima vista. Non si può pretendere di capire, “catturare” l’altro appena al primo incontro esplorativo. Altrimenti prevalgono le esperienze dello studioso rispetto a quelle dell’intervistato, il quale a sua volta si lascia catturare solo assai lentamente, comunque parzialmente, anzi molto parzialmente. Pertanto non è lecito e non conviene fare supposizioni sulla natura, sul profilo degli altri.
La cattura arriva ben dopo, allorquando si è instaurato un dialogo che permette la conoscenza e l’esperienza comune fra intervistatore ed intervistato, in una nuova prospettiva reciproca che appare come un nuovo inizio, un nuovo modo di essere nel mondo. Wolff, per completezza di discorso, arriva pure a dire che la cattura non è necessariamente un concetto, perché può essere ben altro: da un’opzione ad un’opera d’arte, da un cambiamento di atteggiamento ad un chiarimento, come pure un avvicinamento alla resa.
La relazione fra resa e cattura è quanto mai complessa, perché ha un andamento senza fine, senza limite alcuno. Invero, come riconosce lo stesso Wolff (1994a, 371), lo spunto iniziale proviene da una distinzione mannheimiana fra interpretazione ideologica ed interpretazione sociologica (Mannheim 1926), poi divenuta rispettivamente, in chiave wolffiana, interpretazione intrinseca, che cioè usa i termini propri di quanto deve essere interpretato senza fare alcun ricorso a risorse esterne, ed interpretazione estrinseca che si serve dell’ausilio di tutto il contesto storico-sociale.
Successivamente, nello sviluppo del pensiero di Wolff, sono diventati cinque gli aspetti della resa. Il primo concerne la massima sospensione della socializzazione ricevuta, facendo tutto il possibile per potere capire qualcuno o qualcosa, un po’ come avviene per uno studente che si cala al massimo nella disciplina che studia, trascurando gran parte di quanto già sa.
Il secondo aspetto riguarda il fatto che la comprensione anche di un’esperienza unica non può esaurire tutta l’esperienza, che dunque è ancora da acquisire.
Il terzo ambito attiene alla duplice verità: scientifica ed esistenziale. Quest’ultima è la verità della resa, che è in linea con l’esame rigoroso delle più importanti esperienze.
In relazione con la verità esistenziale c’è l’estasi come quarta componente della resa, al di fuori della vita di ogni giorno e con uno spirito che non è molto diverso da quello poetico, nel suo lasciarsi condurre oltre la realtà.
La quinta caratteristica della resa è infine il rispetto per il mistero, nella dialettica fra interminabilità dell’analisi e riconoscimento indefettibile del misterioso. Ne deriva una labilizzazione, cioè un indebolimento o persino una scomparsa di norme, principi, orientamenti o tradizioni, ormai labili appunto. Da qui la necessità di un nuovo inizio della ricerca di ciò in cui credere, dopo aver messo da parte il precedente patrimonio culturale. Ma non ci si può affidare ad un’indagine senza fine senza accettare al contempo l’idea di un’inesauribilità del mistero. E dunque la cattura non pone termine al processo conoscitivo ma anzi presuppone che essa conduca ad un’altra resa e così via. Insomma resa e cattura sono indissolubilmente congiunte fra loro.
Sullo sfondo di questo itinerario è operante il pensiero di Mannheim, emergente anche nell’idea del Sich-Haben, cioè del possedere se stessi, che si realizza nell’azione della resa, la quale si coniuga altresì con il perdere se stessi (è in fondo anche il sé come un altro di Ricoeur). Pertanto il possedersi ed il perdersi fanno parte di un unico e medesimo processo. In tal modo grazie all’esperienza fatta si possono stabilire norme.
Ha ben visto Arlene Goldbard (arlenegoldbard.com/2008/12/13/surrene-and-catch/) nel definire la proposta di Wolff un nuovo paradigma, opera di uno studioso che pratica quel che predica. A suo parere la resa è arte, innovazione, che mira alla comprensione ed all’integrazione. Ma soprattutto si tratta di un “amore cognitivo, che fa vedere, non rende ciechi”, secondo l’espressione di Wolff stesso, che a sua volta individua cinque elementi: 1) il coinvolgimento totale, per cui chi ama si sente tutt’uno con chi è destinatario/destinataria del suo amore, in una situazione del tutto simile a quella della resa, che comporta uno stato di tensione o comunque di concentrazione; 2) il superamento di quanto si è appreso in precedenza; 3) la pertinenza di ogni aspetto che giunga all’attenzione del ricercatore, per cui l’amante si interessa ad ogni cosa che riguardi il suo amato o la sua amante; 4) l’identificazione, per cui chi ama si perde nel suo amore ma per ritrovare se stesso; 5) il rischio di dover subire qualche effetto dannoso, in quanto chi procede alla resa desidera il cambiamento, non senza conseguenze a livello relazionale, intersoggettivo, nonché di stima, per cui insieme con la resa si devono affrontare anche offese di vario tipo.
Il ricorso alla resa è stressante e va controcorrente rispetto alle tradizioni ed alle convenzioni, gestite da chi detiene il potere di controllo su di esse. La resa è secondo Wolff (1977) l’esercizio più radicale della ragione umana. La ribellione è al servizio dell’amore per una società più umana. In fondo l’amore per la conoscenza è la prosecuzione della plurimillenaria azione della filosofia nel corso della storia.
Sé come un altro ovvero “resa e cattura”: la prospettiva di Kurt Wolff di Roberto Cipriani *
Una metodologia per l’analisi qualitativa
L’esperienza della resa e della cattura è totalizzante anche nel senso di abbracciare più dimensioni, da quella filosofica a quella psicologica, da quella fenomenologica a quella esistenziale, dalla critica radicale all’esistenzialismo e non da ultimo alla metodologia essenzialmente qualitativa.
I materiali di riflessione offerti da Wolff sono molteplici e non tutti riproponibili nel campo dell’analisi sociologica, ma servono a fornire un’aura, un’atmosfera, un atteggiamento di fondo che diventa asse portante, chiave di volta dell’approccio conoscitivo. Nondimeno è possibile rintracciare spunti significativi, suggerimenti operativi, che poi possono rifluire nell’attività di ricerca come veri e propri strumenti d’indagine. Così per esempio la modalità di scrivere riflessioni sui materiali di ricerca non può non rappresentare un prodromo, un’anticipazione di quella che sarà poi una caratteristica dell’analisi qualitativa: scrivere memos sui dati della ricerca in maniera tale da farli diventare ulteriori oggetti di ricerca, veri e propri dati da considerare a pieno titolo come suscettibili di approfondimento. Anche la diaristica, com’è noto, rientra giustamente fra gli elementi abituali sottoponibili ad indagine ed anzi ne costituisce un riferimento spesso imprescindibile e piuttosto fertile di risultati, come mostra fra l’altro, in Italia, il successo dell’iniziativa di una raccolta archivistica appunto di diari, ad opera di Saverio Tutino prima e di Duccio Demetrio (1996) ora ad Anghiari, con la Libera Università dell’Autobiografia, ed a Pieve Santo Stefano, con la Fondazione Archivio Diaristico.
Anche lo studio delle lettere, della documentazione personale, rientra nel filone classico della sociologia qualitativa, a partire dal classico e fondativo lavoro di Thomas e Znaniecki (1918-1920) sul contadino polacco in Europa ed in America. Ma forse il rinvio più emblematico e ricco di convergenze va fatto alla linea metodologica ed allo stile di ricerca contenuti nella Grounded Theory di Glaser e Strauss (1967), in cui la resa nei confronti del dato è altrettanto assoluta come in Wolff.
A dire il vero il taglio degli scritti del Nostro è largamente filosofico, ma anche sociologico in modo non convenzionale. Anzi, in questa scelta di fondo, è da mettere in evidenza lo spirito con cui l’autore affronta la problematica della conoscenza dell’alterità intersoggettiva: egli si serve di una esposizione letteraria, retorica quasi, per addurre prove convincenti sulla praticabilità e sull’affidabilità della sua opzione primigenia: sospendere i giudizi previi, rinunciare alle basi ed ai principi culturali di riferimento, ma con l’obiettivo di riuscire meglio a capire l’altro ed il mondo sociale circostante.
Se anche Wolff non fornisse alcuna indicazione di metodo - il che evidentemente non è - tuttavia il suo messaggio è chiaro: occorre fare tabula rasa dell’abituale modo di procedere (e dei criteri che l’orientano), al fine di rendersi disponibili all’accoglienza di qualunque indicazione provenga dal terreno di ricerca, dalle persone e dalle cose, dalla natura e dall’ambiente, dalle relazioni sociali e dai fenomeni sociali. Peraltro anche la forma scelta da Wolff per entrare in comunicazione con i suoi lettori, come già con i suoi allievi, è tipicamente evocativa più che esplicativa, allusiva più che esplicita, esistenziale più che accademica, colloquiale più che regolativa, aperta più che dogmatica.
Se Peter Berger e Thomas Luckmann (1966) con il loro lavoro sulla costruzione sociale della realtà hanno analizzato in modo sistematico l’influenza dei processi di socializzazione, Kurt Wolff (1976) ne ha stigmatizzato il peso impediente rispetto ad una conoscenza adeguata della realtà sociale. Gli uni e l’altro apportano contributi ormai divenuti classici, ma senza che la considerazione prestata ai primi pregiudichi l’attenzione da rivolgere al secondo. Invero entrambe le prospettive risultano strategiche per ogni impostazione relativa ad una sociologia di tipo qualitativo. Tuttavia è necessario dosare sapientemente i riferimenti alle due correnti di pensiero al fine di trovare un giusto equilibrio tra formule parimenti valide ed accettabili. Ove ve ne fosse bisogno, basterebbe richiamare la circostanza, non secondaria, del rifarsi di tutti e tre al pensiero magistrale di Alfred Schütz (1962-1966, 1996), con la sua fenomenologia di base, segnatamente in riferimento al rapporto con quel che si presenta o meglio si dà come “appresentazione” (Appräsentation) allo studioso-ricercatore (Schütz 1932).
Per un verso Berger e Luckmann segnalano la tendenza a “pensare come il solito” e per un altro verso Wolff proprio a ciò vorrebbe che si rinunziasse, onde permettere una più ampia comprensione dell’alterità, specialmente attraverso l’esperienza della discussione in comune, non a caso tipica di un’altra opzione metodologica di matrice qualitativa, secondo l’approccio ermeneutico di Oevermann (1979). Insomma tutto torna, il circolo virtuoso di una certa tradizione sociologica mitteleuropea si riaffaccia di continuo ed offre risorse essenziali per l’analisi sociologica basata sulla dimensione qualitativa.
Si può dire che quando Wolff pensa ad un’altra persona mette in atto la sua resa alla cattura, in quanto egli parte dal presupposto che la comprensione si raggiunge in misura adeguata solo e se si prescinde almeno inizialmente (e per un po’ di tempo ancora e fino ad un certo punto) dal proprio quadro di riferimento. Però una volta raggiunta la meta della comprensione mediante la cattura questa è da ritenere solo un’ulteriore tappa lungo un percorso mai esaurito e mai esauribile, in quanto rimane sempre sullo sfondo l’imperscrutabilità del mistero.
Questo procedimento di resa è accompagnato da presso da una sorta di “amore cognitivo” che aiuta a superare le difficoltà iniziali della resa e permette di raggiungere la presa, la conoscenza, la comprensione, grazie a dei risultati che sono cognitivi ed esistenziali allo stesso tempo. In altre parole la resa è anche una conversione (che consente peraltro l’estasi), come pure una ribellione verso il passato e la tradizione, per guardare piuttosto al futuro, in chiave creativa ed acquisitiva di ulteriori saperi. Si potrebbe pure dire che si tratta di un’ingenuità necessaria e foriera di esiti imprevedibili. Il “perdersi” nella resa prelude alla salvezza nel momento della cattura, anche se poi è solo una tappa lungo un tragitto ancora lungo.
La resa ha un carattere quasi artistico e religioso, in vista di una procedura cognitiva fatta di amore ed attenzione all’altro. A poco a poco in modo maieutico si fanno venire fuori dall’esperienza i concetti utili per la comprensione (non si può non vedere in questo un processo che appartiene anche ad altre soluzioni metodologiche: la Grounded Theory di Glaser e Strauss come l’ermeneutica oggettiva di Oevermann). L’alternativa è costituita da risultati solo approssimativi e probabili, mentre la “pretesa” di Wolff è di raggiungere ciò che è ineluttabilmente vero, o almeno - a giudizio di altri studiosi - più affidabile di quanto verificabile attraverso la strumentazione classica dell’approccio solo statistico-quantitativo. Sullo sfondo, come obiettivo finale, c’è il desiderio di mutare lo status quo. Dunque la resa non è uno stare fermi ma un altro modo di agire.
Inoltre la distinzione fra offerta ed accettazione della situazione data è solo fittizia, in quanto essa è strumentale per capire la realtà sociale. In effetti la stessa distinzione operata è frutto di quanto avvenuto, del che ci si accorge in un momento posteriore rispetto all’evento in questione.
Il significato della cattura
Alcune anticipazioni sulla dialettica fra resa e presa (o cattura) si trovano sparse in pubblicazioni antecedenti il 1976. Specificamente è il volume dal titolo Trying Sociology (Wolff 1974b, 44-45) che prelude a quello che sarà il libro successivo (Wolff 1976) completamente dedicato al tema della resa e della cattura, quale sviluppo di una particolare concezione della sociologia mannheimiana della conoscenza.
Il termine speculare, rispetto a quello di resa, è cattura (Wolff 1976, 20). Innanzitutto è bene precisare che meglio sarebbe stato da parte di Wolff risalire all’origine latina precisa del termine “concetto”, il quale ha come base il verbo all’infinito cum capere, che letteralmente significa “prendere con”, “prendere insieme”, che esprime compiutamente il pensiero wolffiano in quanto allude direttamente ad una presa congiunta, insieme con l’interlocuzione, l’incontro, l’intervista; ma il cogliere è anche un raccogliere insieme, che può sottendere e sottintendere una messa insieme dei risultati ottenuti con l’opzione iniziale costituita dalla resa, vera e propria finestra sul mondo altro, sull’altrui punto di vista, sui diversi pensieri in atto nella realtà sociale. Il con-prendere è una specie di sintonia creata fra l’io ed il tu, fra due soggetti generalizzati messi l’uno dinanzi all’altro e rispondenti con le loro reazioni, percezioni, attitudini, repliche, deduzioni.
La novità delle concezioni, appunto del cum capere continuo messo in moto dalla relazione interpersonale, giustifica ampiamente la decisione iniziale (ed un po’ iniziatica) della resa, dell’affidamento, dell’accoglienza gratuita, senza ricatti né economici, né affettivi o di altra natura. L’esito finale difficilmente non è seguito da un apprezzamento positivo del percorso seguito, nonostante la sua imprevedibilità di fondo e l’assenza di eventuali esperienze previe rassicuranti. Le previsioni non rientrano in questa prospettiva epistemologica e metodologica insieme, altrimenti molto risulterebbe tanto scontato quanto inconcludente, perché non farebbe altro che confermare il già noto, rendendolo ancora più refrattario ad ogni discorso di cambiamento, di trasformazione, di miglioramento dell’esistente.
Conclusione
In fondo la stessa proposta wolffiana mira all’innovazione, alla rivolta di stampo camusiano, al superamento dello status quo. Il sottosopra che è provocato dall’inversione fra resa e cattura prelude ad una trasformazione della società stessa e comunque indica un’alternativa almeno metodologica rispetto ai canoni abituali della ricerca sociologica. Si tratta pure di un cambiamento di mentalità, che comporta l’abbandono delle concezioni pregresse. La coppia resa-cattura funge quasi da vento liberatore e purificatore, che fa cadere pregiudizi inveterati ed apre nuovi orizzonti, anche per quel che riguarda, ad esempio, le relazioni fra ebrei e musulmani. Il ricorso alla soluzione pacifica della resa e cattura potrebbe costituire, fra l’altro, un suggerimento di tipo politico. Così, in definitiva, la resa e la cattura wolffiane portano assai lontano, ben oltre il contesto fenomenologico di origine, comune anche a Paul Ricoeur.
* Cfr. Roberto Cipriani, “Sé come un altro ovvero ‘resa e cattura’: la prospettiva di Kurt Wolff”, in Busacchi, Costanzo (a cura), Paul Ricoeur et ‘les proches’. Vivere e raccontare il Novecento., Effatà Editrice, Cantalupa (Torino), 2016, pp. 269-82 (ripresa parziale - senza bibliografia).
NEL REGNO DI EDIPO: "L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE", L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO. Come nascono i bambini e le bambine... *
Appello di una femminista alle donne cristiane che sono contro il Congresso mondiale delle famiglie
di Luisa Muraro (Libreria delle donne, 29 Marzo 2019)
Care amiche, vorrei sottoscrivere il vostro Appello contro il Congresso delle famiglie a Verona. Sono d’accordo con quello che dite, in primo luogo che la famiglia non è un’entità naturale ma un’istituzione culturale, che quasi sempre mostra una forte impronta patriarcale.
A me e a voi, suppongo, è chiaro che prima della famiglia, comunque intesa, c’è la diade formata da una donna e dalla creatura che lei ha concepito e portato al mondo. È un rapporto molto speciale, che precede i dualismi tipici della cultura maschile: la donna che accetta di entrare nella relazione materna, alla sua creatura dà la vita e insegna a parlare, le due cose insieme. Ed è un “insieme” che si tende, come un ponte insostituibile, sopra l’abisso della schizofrenia umana.
Vorrei ma non posso sottoscrivere il vostro Appello perché, nella difesa delle nuove forme familiari, non c’è una critica di quelle che si costituiscono da coppie che, sfortunatamente o naturalmente sterili, invece di adottare, si fanno fare la creatura a pagamento.
Da donne cristiane, mi aspettavo una calorosa difesa dell’adozione e un’energica richiesta della sua estensione a persone e coppie finora escluse dalla legge. Ma, ancor più, essendo voi donne, mi aspettavo una difesa della relazione materna libera e responsabile così come oggi è diventata possibile. Invece, parlate solo di genitorialità, usate cioè una parola tipica del linguaggio neutro-maschile. E a voi che parlate del corpo femminile come luogo di spiritualità incarnata, chiedo: che famiglia è mai quella che nasce con il programma esplicito, messo nero su bianco, di cancellare la relazione materna che si sviluppa con la gestazione in un intimo scambio biologico e affettivo?
Voi, a differenza di tanti cattolici, leggete la Bibbia e sapete che la cosiddetta gravidanza per altri, ossia la donna che partorisce senza diventare madre, corrisponde pari pari ad antiche usanze del patriarcato, usanze che sembravano superate. Le ultime pagine del Contratto sessuale di Carole Pateman, parlano proprio di questo sostanziale arretramento. Detto alla buona, ci sono “nuove” famiglie che di nuovo hanno solo la tecnologia.
A proposito: che cosa pensano di tutto questo gli uomini vicini a voi, i vostri compagni di fede e d’impegno politico? Perché non compaiono nel vostro Appello? Mi è venuto un sospetto, di ritrovarmi davanti a quel noto comportamento maschile che è di nascondersi dietro a una o più donne quando si vuol far passare pubblicamente qualcosa che è contro le donne. Devo portare degli esempi? Ma, se questo non fosse vero, scusatemi.
(www.libreriadelledonne.it, 28 marzo 2019)
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Cultura e civiltà. L’ordine simbolico della madre.....
NEL REGNO DI EDIPO. L’ordine simbolico di "mammasantissima"
"L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE": L’ALLEANZA CATTOLICO-"EDIPICA" DEL FIGLIO CON LA MADRE!!!
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Federico La Sala
DOPO “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETTERATURA: ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA ....
Tre note... *
A) - EUROPA, STRASBURGO 1770: CON “MARIA ANTONIETTA” IN VIAGGIO PER VERSAILLES.
Nel 1770 a Strasburgo, nei pressi del confine del Sacro Romano Impero con la Francia, Goethe “guarda un arazzo che narra le storie di Giasone, di Medea e di Creusa”, preparato “per le feste in onore dell’arrivo della sposa” di Luigi XVI di Borbone, Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena che si stava trasferendo a Versailles, e così commenta: «dunque un esempio del più infelice matrimonio»!
Goethe mostra di avere una conoscenza superficiale della leggenda di Giasone, e della sua nave Argo, e del come e del perché sia arrivata proprio lì, sulle sponde del Reno, in quell’ambiente e per quella occasione, e, colpito, ne resta segnato per moltissimi anni: “era «estremamente» indignato dalla scelta e glien’è restato - commenta Curtius - il ricordo se dopo quarant’anni lo ritiene ancora degno di esser raccontato (Dichtung und Warheit, II, 9)”.
Nel 1950, Ernst R. Curtius, che ha già pubblicato nel 1947 “Letteratura europea e Medio Evo latino”, in un saggio intitolato “La nave degli argonauti” (cfr. Id.,“Letteratura della letteratura”, Saggi critici a cura di Lea Ritter Santini, Bologna 1984, pp. 301-325), quasi a conclusione, dopo aver ricordato che per Dante “il viaggio di Giasone è la più stupefacente impresa di tutti i tempi” e premesso che “il pensiero storico di Dante ha bisogno di prospettive millenarie - come quello di Goethe,” così prosegue e commenta: “A guardarlo oggi, Goethe si avvicina sempre più a Dante, e non solo nel tempo. Come Dante, anche egli rappresentò ancora una volta il Thesaurus della tradizione europea. Anche in lui troviamo il mito degli Argonauti”.
Curtius cosa sta cercando di dire - e di fare con le parole, con queste parole? Cambiata di segno, la sua affermazione appare essere una forma di sollecitazione subliminale volta ad avvicinare sempre più Goethe a Dante, sino a portarci a pensare: «dunque un esempio del più felice “matrimonio”»! Ma qualcosa resiste, sia nella memoria di Goethe sia di Curtius e fa emergere un non-detto del messaggio. Un’ipotesi: forse, e per caso, sono le stesse parole “sussurrate” al cuore e alla mente di Maria Antonietta dalla madre, l’Imperatrice Maria Teresa d’Austria, al momento del suo trasferimento a Parigi: «Rimanete una buona tedesca!», «Rimanete un buon tedesco!»?!
Incredibilmente Curtius - pur sapendo che “Giasone, nel XVIII canto dell’Inferno, compare fra i seduttori e Virgilio glielo presenta con ammirazione”, che “la nobile e bella figura giovanile di Giasone era già piaciuta ad Ovidio” e, ancora, che “Dante va oltre” lo stesso Ovidio e gli attribuisce “i tratti dell’eroe ideale” riservati “ai suoi prediletti” - fa sua la maschera di Goethe (“Der Bautigam” è il titolo di una sua poesia del 1829), divenuto egli stesso un Argonauta (“Linceo è l’Antifaust, Linceo è Goethe, l’argonauta trasformato”) e, nel tentativo di avvicinarsi “sempre più a Dante”, ricorda più il Thesaurus (il “Tresor” e il “Tesoretto”) della tradizione di Brunetto Latini, che quello della “Divina Commedia”, della nuova Argo, la nave del viaggio terrestre e celeste di Dante - più il Vitello (“T-aurus”) d’oro della tradizione egiziana, che il Vello d’oro dell’Ariete di Giasone e del Vello d’oro dell’Agnello di Dante. Che cagliostrosità!
Dopo i “venticinque secoli a la ‘mpresa” di Giasone (Dante, Par., XXXIII, 95), Curtius - ipnotizzato dalla magia di Goethe, che “scherzando” si autodefiniva “un Argonauta”, prende la sua maschera tratta fuori “dall’esatta descrizione storica dei mitologi”, e fa suo “il suo testamento. In ogni età c‘è una Argo, come aveva predetto Virgilio: «Ci saranno ancora un altro Tifi e un’altra Argo a trasportare eroi eletti»”.
Ma per quale destinazione?! Ancora e sempre per Versailles?!
Non è meglio uscire dal “letargo”, svegliarsi dal “sonno dogmatico”, e uscire “a rivedere le stelle”?!
B) - L’EUROPA, DOPO “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETTERATURA.
A commento dei “tratti dell’eroe ideale”, attribuiti da Dante a Giasone, in nota, Curtius] così scrive: “Una anticipazione del romanticismo burgundo che circonda Giasone. Filippo il Buono di Borgogna sposò nel 1430 Isabella del Portogallo. In questa occasione - o forse quale omaggio alla popolazione di allora, stupenda nel navigare - fondò l’ordine del Toson d’Oro. I suoi protettori erano Giasone e Gedeone. Anche nella loro storia un vello miracoloso aveva avuto la sua parte (Libro dei Giudici, IV, 36-40). Un auto sacramentale di Calderón si intitola La Piel de Gedeon (1650), stampato nella edizione di Pando y Mier (1717), vol. III; in tedesco in F. Lorinser: Calderóns geistliche Festpiele, vol IX. Sul romanticismo di Giasone: v. Georges Doutrepont, La Littérature Française à la Cour des Ducs de Bourgogne, 1909, pp. 147-176” (cfr. Ernst R. Curtius, Letteratura della letteratura..., op. cit., pp. 317-318).
Benché nella “Letteratura europea” (1947) abbia citato il lavoro dello storico olandese Johan Huizinga (morto nel 1945), in particolare l’opera “L’autunno del Medio Evo” (del 1919), una straordinaria lettura del “secolo della Borgogna”, ove si racconta diffusamente di “ordini e voti cavallereschi”, della nascita dell’ordine del Toson d’oro, ecc - ora, qui, nel saggio “La nave degli Argonauti” (1950), Curtius non ne fa alcun cenno; e, addirittura, delle opere di Calderón cita solo “La Piel de Gedeon” (ma non “El divino Jasón”, “El divino Orfeo”, “El Laberinto del Mundo”, ecc.)!
Cosa è successo?! La “maschera” di Goethe, forse, gli ha giocato giocato un brutto scherzo e lo ha costretto a rimettersi nei panni di Faust? Incredibilmente, già in “Letteratura europea e Medio Evo Latino”, dato per valido il calcolo dei “venticinque secoli” di Dante dall’impresa di Giasone (Par., XXXIII, 95), tre anni prima (1947), egli aveva già scritto: “La letteratura europea abbraccia il medesimo periodo di tempo della cultura europea, comprende cioè circa ventisei secoli (calcolati da Omero a Goethe” (p. 20).
Che dire? Davvero “Goethe si avvicina sempre più a Dante”?! Boh?! Bah!
C) - CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. A che gioco giochiamo?!
Nel 1929, in un breve saggio dedicato a "Hugo Hofmannsthal. In memoriam" (op. cit., pp. 165-176), Curtius scrive: "La regalità era la figurazione più interiore nel rapporto tra Hofmannsthal e il mondo. La funzione di poeta non era per lui che una delle forme in cui essa si manifestava [...] tutte le opere di Hofmannsthal tendono verso la forma ideale di un theatrum mundi, un poema cosmico allegorico-simbolico che eleva il caso dell’esistenza all’ordine delle grandi leggi, che nel temporale, fanno apparire l’eterno. L’allegoria non è qui indebolita ricchezza di vita e la maschera non è apparenza, al contrario, soltanto quando riusciamo a vedere la deformazione, la maschera della nostra esistenza, ne comprendiamo il senso e la verità più profonda".
E poco oltre, condividendo il programma e lo spirito della sua “rivoluzione conservatrice”, così prosegue : "La nostra poesia ha molto sentimento del mondo (Weltgefuhl), ma poco mondo: ha molte visioni del mondo (Weltanschauungen), ma mediocre ne è la sua conoscenza. In Goethe esisteva la possibilità di unire i due aspetti e ristabilire le giuste proporzioni. Ha dovuto condurre il suo Faust alla corte dell’imperatore: era anzi ancora legato all’impero e colorate feste d’incoronazione avevano illuminato la sua infanzia. Non ha sentito più battere il cuore dell’impero [...] L’orizzonte universale del vecchio impero asburgico era stato dato in eredità a Hofmannsthal. Vienna e Madrid non ne facevano meno parte [...]". E, così chiude: “Hofmannsthal ha raccolto nel suo tesoro reale, i beni più preziosi del linguaggio e dell’anima dei paesi latini: noi lo conserviamo come la sua eredità, come «munus Austriacum»”.
Nel 1932 fa il passo “decisivo”: pubblica “Deutscher Geist in Gefahr “ (“Lo spirito tedesco in pericolo”), un libro (una raccolta di articoli di quegli anni), e nella postfazione, confidando nella “metafisica dello spirito”, chiude con il richiamo al “Veni creator spiritus” - “l’inno del franco-renano Rabano Mauro” (“Mille anni più tardi un altro franco-renano, Goethe, ha tradotto questo “splendido canto religioso” e lo ha definito un “appello al genio”) - e con l’auspicio che “sotto questo segno la fede nella Germania e la fede nello spirito possono trovarsi legate e confermate” (cfr. Ernst R. Curtius, “Lo spirito tedesco in pericolo”, in Annamaria Bercini, “Il discorso politico culturale del «Deutscher Geist in Gefahr» di Ernst Robert Curtius”, Bologna 2015)
Le illusioni di Curtius di diventare una guida spirituale della “rivoluzione conservatrice” sono infondate e vengono spazzate via in un baleno: “Il 24 marzo del 1933, subito dopo l’ascesa al Reichstag di Hitler, sul Beiblatt del «Völkischer Beobachter», il giornale ufficiale del partito nazista sin dal 1920, comparve un durissimo articolo di Hermann Sauter (che di lì a qualche anno diverrà direttore della Stadtbibliothek di Monaco), Deutscher Geist in Gefahr? , che era in effetti una stroncatura senza appello del libro di Curtius. L’assenso di Curtius alla missione tedesca è, come si può vedere, in realtà una negazione del nuovo, potente volere tedesco. Ma questo è il nostro credo: che il vero spirito tedesco otterrà nuovamente onore, e sarà capace di avere valenza mondiale, quando sarà ripulito dal peso accumulato nella cosiddetta libertà spirituale del decennio passato. Sauter concludeva con quello che appare un vero avvertimento da mafioso. Curtius può avere ancora un ruolo importante nella nuova Germania, ma a patto di non tentare più di fare il Kulturpolitiker, perché non capisce nulla dei fondamenti autentici - cioè biologici - della cultura tedesca.” (cfr. Carlo Donà, “Lo spirito tedesco e la crisi della mezza età: «Deutscher Geist in Gefahr» (1932)” ).
Dopo la catastrofe della Germania del “Terzo Reich”, Curtius ancora non capisce: continua il suo “sogno” calderonico e la “vacanza” nel suo “illuminato” (contro e) pre-illuministico “stato di minorità” (I. Kant, 1784). E nel 1947, come se niente fosse successo, alla fine del primo capitolo di “Letteratura europea Medio Evo latino”, intitolato “Letteratura europea”, con un “occhiolino” a Benedetto Croce (e alla memoria di Hegel), riprende il lavoro per il “nuovo ordine culturale”, già proposto nel “Deutscher Geist in Gefahr” del 1932, e ricomincia: “Della letteratura europea l’eroe fondatore (heros ktistes) è Omero, l’ultimo autore universale è Goethe. Ciò che questi rappresenta per la Germania lo ha riassunto Hofmannsthal [...] La letteratura del secolo XIX e dell’inizio del XX non è stata ancora scandagliata, in essa non è stato ancora distinto ciò che è vivo e ciò che è morto. Ciò potrà dare materia per molte dissertazioni, la parola decisiva sarà però pronunciata non dalla storia della letteratura, ma dalla critica letteraria. Per questo compito noi, in Germania, abbiamo Friedrich Schlegel - e seguaci” (op. cit., p. 24)!
Purtroppo, per Curtius, che è vissuto e cresciuto all’interno di coordinate storico-culturali da Sacro Impero (romano, spagnolo, e germanico), e nelle cui orecchie risuona ancora l’ordine dato a Maria Antonietta dalla Madre-Imperatrice (“Rimanete un buon tedesco!”), “la vita è sogno” e non c’e alcuna possibilità di riconsiderare critica-mente né il lavoro di Ernst H. Kantorowicz (anch’egli vicino al “cerchio” di Stefan George) sulla figura dell’Imperatore Federico II (1927/1931), né tantomeno “l’autunno del Medio Evo”, il “declino del simbolismo” e la lezione su Dante di Johan Huizinga ("L’autunno del Medio Evo" [1919, 1921, 1928]): “[...] per indicare il rapporto fra l’autorità spirituale e quella temporale il Medioevo si serviva costantemente di due similitudini simboliche [...] La forza del simbolo è tale da intralciare l’indagine sullo sviluppo storico dei due poteri. Dante, avendo riconosciuto la necessità e il valore decisivo di tale indagine, si vede costretto, nel suo Monarchia, a spezzare prima la forza del simbolo, contestando la sua applicabilità, ed aprendosi così la strada alla ricerca storica".
La totale incomprensione del “relazionismo” proposto da Karl Mannheim in “Ideologia e Utopia” (1929), esaminato e rigettato nel capitolo quarto dello “Spirito tedesco in pericolo”, impedisce a Curtius di aprire gli occhi su stesso e sul mondo, di uscire dal relativismo-assolutismo dogmatico in cui naviga, e di smetterla di sognare il “sogno dei visionari” (sul tema, mi sia lecito, cfr.: “Heidegger, Kant, e la miseria della filosofia - oggi”).
“Sogno o son desto?”: a che gioco si continua a giocare? Non è meglio cambiare gioco!? Per l’Europa - e per l’intero Pianeta? Boh? e bah!?
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Federico La Sala
Storia.
Il sogno di Napoleone: l’archivio dell’impero
Bonaparte aveva capito che, controllando la memoria dei popoli, li si teneva in pugno e si poteva scrivere la storia come prova della legittimità del proprio potere
di Edoardo Castagna (Avvenire, giovedì 11 aprile 2019)
Del saccheggio napoleonico di opere d’arte, con i lunghi strascichi relativi alle restituzioni o alle mancate restituzioni, molto si è scritto. Assai meno del saccheggio di uomini, della “carne da cannone” razziata come e più di quadri e statue in ogni angolo d’Europa, per finire seppellita tra le colline boeme o nelle steppe di Russia. Tutti iscritti all’anagrafe della storia come “francesi” sebbene in gran parte francesi non fossero affatto, come lo stesso Napoleone si premurò poi di rimarcare. Ma le appartenenze nazionali, così come le tradizioni storiche e le memorie collettive, si costruiscono. Ed è per questo che tra i tanti saccheggi napoleonici uno, perseguito con particolare tenacia, si concentrò sugli archivi delle varie capitali via via occupate e inglobate nell’Impero.
Vicenda meno nota di altre, ben ricostruita da Maria Pia Donato nel suo L’archivio del mondo. Quando Napoleone confiscò la storia (Laterza, pagine 170, euro 19,00). La sua versione dell’eterno sogno della biblioteca universale si declinò utilitaristicamente verso la condensazione sotto un unico controllo di quella che avrebbe dovuto essere la fonte primaria sia per la scrittura della storia nei secoli a venire, sia per la costruzione di una tradizione e di un’identità comune a tutta l’Europa posta sotto lo scettro di Napoleone, in ideale rimando all’unità medievale dei “due soli” a cui esplicitamente tale operazione si ispirò. Furono infatti la conquista, nel 1809, degli archivi del Sacro Romano Impero e del Papato a mettere in moto la macchina accentratrice dell’archivio dell’Impero.
Come in tante altre occasioni, la storia seguiva la propria strada indipendentemente dalla volontà degli uomini, tanto che l’idea di centralizzare gli archivi europei, sottolinea la Donato, seguì e non precedette l’inizio della sua realizzazione: il suo Napoleone è perfettamente tolstojano, in balìa di quegli stessi eventi epocali che si illude di governare. Stando al trattato con l’Austria nel 1809, avrebbero dovuto passare sotto controllo francese soltanto gli atti relativi ai territori ceduti agli occupanti: i quali invece, con militaresca ruvidità, prelevarono in blocco le carte conservate a Vienna, quali che fossero e di ogni epoca. Furono riempite oltre 2.500 casse, caricate sui carri e spedite a Parigi.
Simile fu la brutalità con la quale si procedette al- l’acquisizione degli archivi di Roma, il cui sequestro in realtà fu, almeno inizialmente, funzionale alla volontà di Napoleone di mettere sotto pressione il Papa: tanto che nel 1813, quando l’imperatore credette di averla spuntata su Pio VII, ordinò la restituzione delle carte. Per rimangiarsela, naturalmente, quando mutò nuovamente idea sul conto del Pontefice. Nel frattempo però, e anche in contraddizione con i tatticismi politici del momento, maturava in lui e nei suoi collaboratori «l’idea di creare un sito centrale della memoria per l’impero, anzi una grandiosa raccolta delle testimonianze scritte della civiltà», nota la Donato; via via furono acquisiti gli archivi olandesi, spagnoli, piemontesi, belgi, della galassia di staterelli tedeschi.
A sovrintendere al tutto fu l’archivista capo Pierre-Claude-François Daunou: ex prete, ex illuminista, ex fervente repubblicano, infine comodamente adagiato nell’ordine bonapartista (al quale peraltro sarebbe sopravvissuto). Nella sua opera trasfuse, al pari di quella contemporanea e simmetrica dei curatori del Louvre, del Jardin des plantes o della Biblioteca nazionale di Parigi, l’ideale e l’ambizione enciclopedici degli Idéologues illuministi. «Fu elaborata sul campo - nota la Donato - la dottrina che Édouard Pommier ha chiamato “la teoria del rimpatrio”, ossia l’idea che solo nella Francia rigenerata le opere delle scienze e delle arti avrebbero potuto sprigionare il loro potenziale di conoscenza ed emancipazione».
Daunou aveva ben servito Napoleone compilando un Saggio storico sul potere temporale dei papi tutto teso a mostrare le malefatte plurisecolari del Papato e le buone ragioni di un imperatore nel volerlo ridurre alla sua mercé; il Saggio venne ripetutamente riveduto e ampliato proprio grazie alle nuove fonti archivistiche divenute disponibili. Ma Daunou non era un mero cortigiano, anzi: nella sua opera di gran maestro dell’archivio napoleonico diede indubbie prove di capacità organizzative, di intelligenza pratica (fu l’inventore di quelle “schede”, uniformi per formato e ordine delle informazioni, divenute poi di uso universale fino all’avvento della digitalizzazione) e anche di un po’ di visionarietà.
Non ci fu il tempo di costruire l’immenso palazzo che avrebbe dovuto ospitare i Grandi Archivi, ma quello per affermarne la centralità storica sì: non solo, prosegue la Donato, «furono l’invenzione simbolica di un impero in cerca di radici», ma offrivano anche l’occasione di coltivare la storia pragmatica che era stata degli Idéologues. L’archivio serviva (anche) a scrivere la storia», e per questo esserne i controllori significava essere i controllori della memoria dei popoli. Nelle carte degli archivi si trovano i mattoni fondamentali per erigere quei monumenti umani collettivi che sono le identità naziona-li: una lezione, questa, che gli Stati- nazione che sarebbero sorti dopo il tramonto dell’età napoleonica, e che rientrarono in possesso dei rispettivi archivi, avrebbero ben messo a frutto.
8 marzo, verso la prima passeggiata spaziale di sole donne
Protagoniste due astronaute e una donna controllore di volo
di Redazione ANSA *
La giornata della donna quest’anno ha un sapore particolare sulla Stazione spaziale internazionale (Iss) perché fervono i preparativi per la prima passeggiata spaziale della storia completamente al femminile: programmata per venerdì 29 marzo, avrà come protagoniste due astronaute della Nasa, Anne McClain e Christina Koch, che usciranno dalla Stazione spaziale per circa sette ore supportate da Terra da Kristen Facciol, controllore di volo donna dell’agenzia spaziale canadese Csa, pronta a seguire le operazioni dal Johnson Space Center della Nasa a Houston. Lo ha rivelato lei stessa con un tweet.
"Ho appena scoperto che sarò alla console per dare supporto alla prima passeggiata spaziale tutta al femminile con @AstroAnnimal e @Astro_Christina e non posso trattenere la mia eccitazione!!!!", ha scritto ai suoi follower.
La prima attività extraveicolare (Eva) di sole donne cadrà a quasi 35 anni di distanza dalla prima passeggiata spaziale al femminile: fu compiuta il 25 luglio 1984 dalla russa Svetlana Savitskaya, uscita dalla stazione spaziale sovietica Salyut 7 per tre ore e 35 minuti. Da allora diverse donne hanno camminato nello spazio, compresa l’astronauta dei record Peggy Wilson, che nella sua lunga carriera ha condotto ben dieci Eva.
Entrambe le sue ’eredi’, McClain e Koch, arrivano dalla classe di candidati astronauti selezionata dalla Nasa nel 2013 e composta per metà proprio da donne. McClain è già a bordo della Iss da dicembre per la spedizione 58, mentre la collega Koch arriverà il 14 marzo.
SULLE TRACCE DI EUROPA. ARACNE, PENELOPE, E "UN FALSO MITO"... *
Pàllade, la dèa del Tritone, aveva seguito con attenzione il racconto. Elogiò il canto delle dee d’Aònia, e trovò giusta la loro ira. Ma poi, tra sé: “Lodare va bene, ma anche io voglio essere lodata, nemmeno io permetterò che si disprezzi la mia divinità impunemente!” E decise di rovinare Aracne della Meònia, la quale - le era giunta voce - non intendeva considerarsi inferiore a lei nell’arte di lavorare la lana. Costei, non per ceto o lignaggio era famosa, ma perché era un’artista. Suo padre, Idomone di Colofonie, tingeva la lana spugnosa con porpora di Focèa; la madre era morta, ma anch’essa era una popolana, della stessa condizione del marito. Malgrado ciò, Aracne con la sua attività si era fatta n gran nome per le città della Lidia, benché, nata appunto da umile famiglia, abitasse nell’umile Ipèpe.
Per vedere i suoi meravigliosi lavori, spesso le ninfe del Timolo lasciarono i loro vigneti, le ninfe del Pactòlo lasciarono le loro acque. E non soltanto meritava vedere i tessuti finiti, ma anche assistere a quando li faceva, poiché era un vero spettacolo. Sia che agglomerasse la lana greggia nelle prime matasse, sia che lavorasse di dita e sfilacciasse uno dopo l’altro con lungo gesto i fiocchi simili a nuvolette, sia che con l’agile pollice facesse girare il liscio fuso, sia che ricamasse, si capiva che la sua maestria veniva da Pàllade. Ma Aracne sosteneva di no, e invece di essere fiera di una così grande maestra, diceva impermalita: “Che gareggi con me! Se mi vince potrà fare di me quello che vorrà”.
Pàllade si traveste da vecchia, si mette sulle tempie una finta capigliatura bianca e prende anche un bastone che sorregga le membra piene di acciacchi. Poi comincia a parlare così: “Non tutto è male nell’età avanzata. Più si invecchia più cresce l’esperienza. Dài retta a me: ambisci pure ad essere la più grande tessitrice, tra i mortali; ma non voler competere con la dèa,e chiedile con voce supplichevole di perdonarti per quello che hai detto, o temeraria; chiediglielo, e non ti rifiuterà il perdono”.
Aracne le lancia una torva occhiata, lascia andare i fili già cominciati e a stento trattenendosi dal percuoterla, con una faccia che tradisce l’ira, così dice di rimando a Pàllade che ancora non si è palesata: “O scimunita, smidollata dalla lunga vecchiaia, vivere troppo eccome se rovina! Queste cose valle a dire a tua nuora, valle a dire a tua figlia, se ne hai una! Io mi so regolare benissimo da me, e perché tu non ti creda di aver combinato qualcosa con i tuoi ammonimenti, sappi che io la penso come prima. Perché non viene qui? Perché non accetta la sfida?”
Allora la dèa: “È venuta!”, dice, e si spoglia della figura di vecchia e si rivela - Pàllade. Le ninfe e le donne della Lidia si prostrano dinnanzi alla divinità; soltanto la vergine non si spaventa. Tuttavia trasalisce, e un improvviso rossore le dipinge suo malgrado il viso e poi ridilegua, come l’aria s’imporpora al primo comparire dell’aurora e dopo breve tempo s’imbianca, quando sorge il sole. Insiste sulla via che ha preso, e per insensata bramosia di gloria corre verso la propria rovina.
E infatti la figlia di Giove non rifiuta, e non l’ammonisce più, e nemmeno rinvia più la gara. Subito si sistemano una da una parte, l’altra dall’altra, e con gracile filo tendono ciascuna un ordito. L’ordito in alto è legato al subbio, il pettine di canna tiene distinti i fili, la spola appuntita inserisce la trama, con l’aiuto delle dita, e i denti intagliati nel pettine, dando un colpo, comprimono la trama passata tra un filo e l’altro.
Lavorano tutte e due di lena, e liberate le spalle dalla veste muovono le braccia esperte, con tanto impegno che non sentono fatica. Mettono nel tessuto porpora che ha conosciuto la caldaia a Tiro, e sfumature delicate, distinguibili appena: così, quando la pioggia rifrange i raggi solari, l’arcobaleno suole tingere con grande curva, per lungo tratto, il cielo, e benché risplenda di mille diversi colori, pure il passaggio dall’uno all’altro sfugge all’occhio di chi guarda, tanto quelli contigui si assomigliano, sebbene gli estremi differiscano. Anche intridono i fili di duttile oro, e sulla tela si sviluppa un’antica storia.
Pàllade effigia il colle di Marte nella città della di Cècrope [ATENE] e l’antica contesa sul nome da dare alla contrada. Sei dèi più sei, e Giove nel mezzo, siedono con aria grave e maestosa su scanni eccelsi: ciascuno ha come impressa in volto la propria identità; l’aspetto di Giove è quello di un re. Poi disegna il dio del mare, mentre colpisce col lungo tridente il macigno di roccia e da questo squarciato fa balzare un cavallo indomito, perché la città gli venga aggiudicata. A sé stessa assegna uno scudo, un’asta dalla punta acuminata, un elmo e l’egida per proteggere il capo e il petto; e rappresenta la terra che percossa dalla sua lancia genera l’argentea pianta dell’ulivo con le sue bacche; e gli dei che guardano stupefatti; infine la propria vittoria. Ma perché la rivale capisca da qualche esempio cosa dovrà aspettarsi per così folle ardire, aggiunge ai quattro angoli quattro altre sfide, vivaci nei colori, ma nitide nei tratti minuti. In un angolo si vedono Ròdope di Tracia ed Emo, ora gelidi monti, un tempo esseri mortali, che avevano usurpato il nome degli dei maggiori. Dall’altra parte la sorte pietosa della madre dei Pigmei: avendola vinta in una gara, Giunone impose che diventasse una gru e s’azzuffasse col suo popolo. Poi effigia Antigone, che una volta osò competere con la consorte del grande Giove e che dalla regale Giunone fu mutata in uccello: né Ilio né il padre Laomedonte poterono impedire che, spuntatele le penne, come candida cicogna applaudisse sé stessa battendo il becco. Nell’angolo che rimane Cìnira, perdute le figlie, abbraccia i gradini di un tempio, già carne della sua carne, e, accasciato sulla pietra, si staglia in lacrime.
Contorna i bordi con rami d’olivo, segno di pace, e con la pianta che le è sacra conclude l’opera sua.
Aracne invece disegna Europa ingannata dalla falsa forma di toro: diresti che è vero il toro, vero il mare; la si vede che alle spalle guarda la terra e invoca le compagne, e come, per paura d’essere lambita dai flutti che l’assalgono, ritragga timorosa le sue gambe. E raffigura Asterie che ghermita da un’aquila si dibatte, raffigura Leda che sotto le ali di un cigno giace supina; e vi aggiunge Giove che sotto le spoglie di un satiro ingravida di due gemelli l’avvenente figlia di Nicteo; che per averti, Alcmena di Tirinto, si muta in Anfitrione; che trasformato in oro inganna Dànae, in fuoco la figlia di Asopo, in pastore Mnemosine, in serpe screziato la figlia di Cerere. Effigia anche te, Nettuno, mentre in aspetto di torvo giovenco penetri la vergine figlia di Eolo, mentre come Enìpeo generi gli Aloìdi, e inganni come ariete la figlia di Bisalte; te, che la mitissima madre delle messi dalla bionda chioma conobbe destriero, che la madre con serpi per capelli del cavallo alato conobbe uccello e Melanto delfino. Ognuno di questi personaggi è reso a perfezione e così l’ambiente. E c’è pure Febo in veste di contadino, e le volte che assunse penne di sparviero o pelle di leone, e che in panni di pastore ingannò Isse, figlia di Macareo. C’è come Libero sedusse Erìgone trasformandosi in uva, come Saturno in cavallo generò il biforme Chirone.
Tutto intorno alla tela corre un fine bordo, con fiori intreccisti a rami d’edera flessuosi.
Neppure Pàllade, neppure la Gelosia poteva trovar qualcosa da criticare in quell’opera. Ma la bionda dèa guerriera ci rimase malissimo e fece a brandelli la tela che illustrava a colori le colpe degli dèi, e trovandosi in mano la spola di legno del Citoro, tre e quattro volte colpì con quella sulla fronte Aracne, figlia di Idmone. La poveretta non lo tollerò, e corse impavida a infilare il collo in un cappio.
Vedendola pendere, Pàllade ne ebbe compassione e la sorresse, dicendo così: “Vivi pure, ma penzola, malvagia, e perché tu non stia tranquilla per il futuro, la stessa pena sia comminata alla tua stirpe e a tutti i tuoi discendenti!” Detto questo, prima di andarsene la spruzzò di erbe infernali, e subito al contatto del terribile filtro i capelli scivolarono via, e con essi il naso e gli orecchi; e la testa diventa piccolissima, e tutto il corpo d’altronde s’impicciolisce. Ai fianchi rimangono attaccate esili dita che fanno da zampe. Tutto il resto è pancia: ma da questa, Aracne riemette del filo e torna a rifare - ragno - le tele come una volta.
RIANDANDO CON LA MEMORIA alla “poesia” della RAGAZZA e del RAGNO, della “TARANTATA”, di Pellegrino Scardino di San Cesario, e, RICORDANDO CHE il mito di ARACNE raccontato da OVIDIO (Metamorfosi, VI, 1-145) "narra della sfida tra Athena ed Aracne sull’arte della tessitura. E’ proprio Aracne a lanciare la sfida, e ne pagherà le tragiche conseguenze: non solo ha osato sfidare la dea, ma la rabbia che suscita in Athena è nel fatto che le sue tele si mostrano addirittura superiori a quelle della dea stessa. L’ira che la fanciulla provocherà in Athena sarà tale da costringerla al tentativo di suicidarsi: non poteva reggere difatti il peso della rabbia divina. Ma la dea fermerà il tentativo di suicidio di Aracne e la trasformerà in ragno" e, ANCORA, che sul tema - come ha ricordato lo stesso Gianfranco Mele (ARACNE, LE TARANTATE, E UN FALSO MITO - il prof. Armando Polito ha offerto brillanti contributi di approfondimenti iconografici, credo sia opportuno invitare ancora e di nuovo a una lettura attenta dell’intera narrazione ovidiana, per cercare possibili ragioni del "falso mito".
CONTRARIAMENTE a quanto si è pensato e si continua a pensare, c’è un filo doppio che lega Athena e Aracne - una identità speculare (uguale e opposta) che emerge chiara dal confronto della loro situazione "familiare" e e della loro “ideologia” emergente dalle "immagini" dei loro arazzi: quello di Athena che celebra la fondazione di Atene, sé stessa, e la punizione di chi osa sfidare soprattutto la sposa di Zeus, e, quello di Aracne che celebra le "avventure" di Zeus (e di altri déi) con donne mortali, a partire dal famoso "ratto di Europa" ...
ENTRAMBE, rimaste senza madre (quella di Aracne è morta, quella di Athena l’ha "ingoiata" Zeus) ed entrambe al "servizio" dei loro "Padri", SONO tutte e due collegate nelle varianti del mito a Penelope, come da scena di una xilografia del XVI sec.: Pallade e Penelope con le ancelle e Aracne indignata a tessere la tela - in attesa di un... Ulisse/Zeus, partito per le sue avventure “europee”. O, dato che ormai l’Europa è sulla via del tramonto, anche questa "variante" è da ritenersi "un falso mito"? O, in altro modo, che Athena, Aracne, Penelope, e la stessa Arianna tentano di offrire ancora la chiave per saper riconoscere un falso mito e riprendere il cammino? O no?
Federico La Sala
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Doomsday Clock.... Fine della Storia o della "Preistoria"?
TROIA, L’OCCIDENTE, E IL PIANETA TERRA. PER LA PACE PERPETUA.
L’immaginario del cattolicesimo imperiale.... *
Olimpiade, la mamma feroce che fece di Alessandro Magno un re
Una biografia ricostruisce intrighi, delitti e ambizioni della sovrana epirota. Mentre il figlio conquistava il mondo lei elargiva consigli su come trattare i sudditi
di Giorgio Ieranò (La Stampa TuttoLibri 09.02.2019)
Forse non è vero che dietro a ogni grande uomo c’è sempre una grande donna. Ma dietro a molti grandi condottieri c’è spesso una madre ingombrante. Gengis Khan, stando alla Storia segreta dei mongoli, aveva paura solo della mamma, l’intrepida Hoelun. Maria Letizia Bonaparte vegliò severa sul figlio Napoleone per tutta la sua vita.
Ad Alessandro Magno toccò invece in sorte Olimpiade, donna inquietante e strana. Secondo gli antichi, praticava oscuri culti misterici, durante i quali maneggiava serpenti che poi si portava persino nel letto. Era devota ai riti dionisiaci, che celebrava con torme di femmine invasate, tra le quali si distingueva, scrive Plutarco, per essere «la più selvaggia». Si diceva che persino il marito, il re di Macedonia Filippo II, persona non facilmente impressionabile, ne fosse terrorizzato. Ma Olimpiade fu soprattutto una donna di potere.
Senza di lei, forse, Alessandro non sarebbe mai divenuto re: fu la madre, con il delitto e l’intrigo, a spianargli la via verso il trono.
Certi ritratti a tinte fosche di Olimpiade nascono forse proprio dal fatto, scandaloso per gli autori antichi, maschi e maschilisti, che una donna fosse riuscita a imporsi come protagonista politica (qualcosa di simile accadrà poi con un’altra spregiudicata regina, Cleopatra).
Ne è convinto Lorenzo Braccesi, storico del mondo antico, che dedica ora alla mamma di Alessandro Magno una biografia documentata e avvincente. Olimpiade ne emerge con tutte le sue ambiguità. Una donna che, da un lato, scrive Braccesi, appariva avvolta in «una nebbia misterica dove il mito poteva sovrapporsi alla vita e alla realtà». Ma, d’altro lato, era una sovrana accorta e astuta. Del resto, era nata figlia di re: suo padre, Neottolemo I, era signore dell’Epiro, un piccolo regno la cui dinastia vantava però una discendenza da Achille. Aveva poi sposato un altro re, Filippo di Macedonia. I due si sarebbero conosciuti proprio durante una cerimonia misterica, un rituale d’iniziazione alle oscure divinità dell’isola di Samotracia. E il loro figlio, Alessandro, era destinato a diventare il più grande di tutti i re, fondatore di un impero universale che andava dalle rive del Nilo a quelle dell’Indo.
Olimpiade è immersa negli eventi che, nella seconda metà del IV secolo, cambiano la storia del mondo. Dapprima accanto al marito Filippo, che, con la battaglia di Cheronea (338 a. C.), schiaccia la libertà di Atene e diviene padrone della Grecia. Poi seguendo da lontano i trionfi di Alessandro. Mentre il figlio avanza impetuoso nei territori dell’impero persiano, guidando le sue falangi attraverso i deserti e le montagne dell’Asia, la madre intrattiene con lui una corrispondenza di cui Braccesi ricompone le tracce partendo dai testi degli storici antichi. Olimpiade dispensa saggi consigli su come comportarsi con i sudditi. E il figlio le racconta con orgoglio i suoi successi. Si accinge anche, con festosa sollecitudine, a comunicarle di avere scoperto, nella remota India, le sorgenti del Nilo, salvo poi fare ammenda del clamoroso errore.
Il ruolo di regina madre Olimpiade aveva dovuto conquistarselo. I re di Macedonia erano poligami. Filippo, nel 337 a. C., aveva sposato una nobile macedone, di nome Cleopatra. Plutarco riferisce che Olimpiade, «donna collerica e gelosa», s’infuriò per queste nuove nozze. C’era il rischio che Cleopatra partorisse un erede di puro sangue macedone, che avrebbe messo fuori gioco Alessandro, il figlio della principessa epirota.
Nel 336 a. C., mentre entrava nel teatro di Ege (oggi Verghina), l’antica capitale del regno macedone, Filippo venne ucciso da un sicario di nome Pausania. Fu Olimpiade ad armare la mano del regicida? Lo storico Giustino racconta che la regina andò a deporre una corona di fiori sul capo di Pausania, giustiziato e appeso a una croce. Non erano solo calunnie: Braccesi riesamina tutte le testimonianze e conclude che, quasi certamente, Olimpiade fu la mandante dell’omicidio del marito. Comunque sia, grazie all’assassinio di Filippo, Alessandro ottenne subito il trono. E Olimpiade, per evitare rischi futuri, costrinse la rivale Cleopatra a impiccarsi dopo averne ucciso la figlia bambina.
La regina avrebbe pagato il prezzo dei suoi intrighi. Dopo la morte di Alessandro a Babilonia, nel 323 a. C., i suoi generali iniziarono a combattere per spartirsi l’impero. Olimpiade, a questo punto, era sempre più solo una presenza ingombrante. Tentò di salvare la dinastia ma fu uccisa nel 316 a. C. Di lei resterà la leggenda cupa e misteriosa. Solo Giovanni Pascoli, nel suo poemetto Alexandros, la immaginerà diversa. Una madre assorta nella malinconia, che, ascoltando lo stormire della quercia profetica del tempio di Zeus a Dodona, nel natio Epiro, crede di sentire la voce del figlio lontano. Una madre «in un sogno smarrita», mentre «il vento passa e passano le stelle».
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’immaginario del cattolicesimo romano.
GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA!!! NON IL FIGLIO DEL "DIO" ("CARITAS") DELLA CHIESA AF-FARAONICA E COSTANTINIANA !!!
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".... *
Una ribellione diversa
di Lea Melandri *
Sabato 12 gennaio si terrà a Milano, nella Casa della donne, l’assemblea di “Non una di meno” in preparazione dello “sciopero delle donne dell’8 marzo“.
Una giornata di sciopero delle donne ha un evidente significato forte per diversi motivi.
Sovverte un ordine che, dato come “naturale”, ha permesso di protrarre per secoli il dominio di un sesso sull’altro, la consegna delle donne al ruolo di madri, mogli, figlie, sorelle “di”, custodi della famiglia e della continuità della specie; la cura e il lavoro domestico possono finalmente essere visti per quello che sono sempre stati: “un grande aggregato dell’economia” (per dirla con Antonella Picchio), il sostegno materiale, psicologico, affettivo all’impegno “civile” dell’uomo.
“Per secoli - come scrive Virginia Woolf - le donne sono state gli specchi magici in cui si rifletteva la figura dell’uomo raddoppiata. Senza questa facoltà, la terra probabilmente sarebbe ancora palude e giungla”. Questi specchi sono stati “indispensabili ad ogni azione violenta ed eroica”.
Favorisce la presa di coscienza che “vivere per l’altro e attraverso l’altro” è stata la conseguenza dell’espropriazione di esistenza propria che le donne hanno subito, asservimento dei loro corpi e dei loro pensieri, cancellazione del loro tempo, confuso con l’immobilità delle leggi naturali.
Afferma visibilmente, con migliaia di presenze nelle strade e nelle piazze, che le “porte di casa”, le solitudini “private”, si aprono solo attraverso la costruzione di una socialità inedita tra donne, fatta di amicizia, amore, azione, intelligenza di sé e del mondo sottratta a modelli imposti e interiorizzati;
Lo sciopero delle donne, inoltre, porta allo scoperto la cultura e le pratiche politiche che fanno del femminismo la “rivoluzione più lunga”, ma anche la più “radicale” nello svelamento del sessismo - eterosessismo, superiorità maschile, ecc.- come fondamento di tutte le forme di dominio, servitù, violenza, disuguaglianza, che la storia ha conosciuto finora.
Denunciare, infine, la violenza maschile contro le donne in tutte le sue forme manifeste o invisibili, non deve impedirci di fare dell’8 marzo 2019 una giornata di lotta “creativa”.
Per tutte queste ragioni, mi sembra importante che ci poniamo alcune domande.
Su che posto riusciamo a dare nel nostro agire politico alla soggettività - l’esperienza, il vissuto delle singole donne (ragioni, ma anche sentimenti, sogni, pregiudizi, ecc.) - senza la quale è difficile avviare processi di identificazione necessari all’allargamento della rete e della sua azione.
Su come riprendere, in quella giornata, alcuni punti essenziali del Piano contro la violenza, in modo particolare per quanto riguarda la violenza in ambito domestico e il rapporto della cultura femminista con la scuola.
Su come evitare la sorte toccata ad altri movimenti, quando hanno creato un linguaggio e modalità di militanza chiusi e comprensibili a poche attivisti, finendo per diventare “fortezze nel deserto”.
Su come mantenere e approfondire i collegamenti internazionali senza perdere la specificità della situazione italiana.
* Insegnante, giornalista, scrittrice e saggista, riferimento per il movimento delle donne italiano. Tra i suoi libri: L’infamia originaria; Come nasce il sogno d’amore; Le passioni del corpo. La vicenda dei sessi tra origine e storia; La perdita; Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà. Altri suoi articoli sono leggibili qui.
* Comune Info, 10 gennaio 2019 (riproduzione parziale - senza immagini).
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO ---- UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
EDUCARE AL GENERE UMANO. La "storia" della Luna e del Sole...
Maschi/femmine. La parità (non) si insegna a scuola
di Paola Zanca (Il Fatto, 25.11.2018)
La storia della Luna e del Sole è in un sussidiario di quarta elementare. Un mito della tradizione orale africana che diversi editori hanno inserito nei libri di testo della scuola pubblica italiana. Il racconto spiega come mai la Luna e il Sole, marito e moglie, non stiano mai insieme in cielo: hanno litigato perché lei non gli ha fatto trovare la cena pronta. Una “infame pigraccia” che si è perfino permessa di mangiare la polenta che il marito si era poi cucinato da sé. Il lieto fine: il Sole lancia il tagliere con la cena bollente in faccia alla Luna che “dolorante e vergognosa corse a nascondersi”.
La “dimensione di genere”,spiega bene Cristina Gamberi in Educare al genere (Carocci), influisce sulle nostre vite “da quando nasciamo fino alla terza età, e specie nell’adolescenza, quando si gettano le basi del divenire uomini e donne”.
Secondo il rapporto Eurydice, tutti i Paesi europei hanno messo in atto politiche di educazione di genere in ambito didattico: tutti tranne Estonia, Ungheria, Polonia, Slovacchia. E Italia. “Nella società italiana - notano le associazioni delle Donne in Rete contro la violenza - gli stereotipi e pregiudizi di genere, i ruoli tradizionali assegnati a uomo e donna, sono riprodotti sin dai primi testi scolastici”.
E se “l’educazione è sessista”, per parafrasare il titolo della ricerca di Irene Biemmi sugli stereotipi di genere nei libri delle elementari, c’è poco da stupirsi se, per la metà degli intervistati da Ipsos per conto del dipartimento Pari Opportunità, le donne non dovrebbero lavorare a tempo pieno se hanno figli piccoli, sono le principali responsabili della cura della famiglia e si sono avvalse del proprio aspetto fisico per la loro realizzazione professionale.
È l’humus in cui nasce e prolifera la mentalità che è alla base della violenza. Ecco perché - spiega Biemmi, ricercatrice all’università di Firenze - è “scorretto associare l’educazione di genere alle misure di contrasto alla violenza” perché, piuttosto, l’educazione è lo strumento attraverso cui “costruire dinamiche relazionali sane e paritetiche tra maschi e femmine”. Quelle, quindi, in cui la violenza - né esercitata né subìta - ha diritto di cittadinanza.
Uscire dalla “logica emergenziale” è il passo fondamentale. E solo dalla scuola si può provare a farlo: con la formazione obbligatoria degli insegnanti e con un intervento sui libri di testo che escano dai “binari rosa/azzurro” - spiega Biemmi -. “La femmina buona e mansueta, il maschio brillante anche se vivace”.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PER L’ITALIA, "DUE SOLI". Come MARIA: "FIGLIA DEL TUO FIGLIO", così GIUSEPPE: "FIGLIO DEL TUO FIGLIO"!!! Dante non "cantò i mosaici" dei "faraoni"...
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907 - con una nota introduttiva di Federico La Sala Studio europeo nelle scuole, ma il Ministro "censura" la domanda sui metodi contraccettivi (la Repubblica/Salute, 14.02.2008, p. 19).
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
Federico La Sala
Natività della Vergine Maria.
Dio si “costruisce una casa” in mezzo agli uomini
di Matteo Liut (Avvenire, sabato 8 settembre 2018)
Siamo creature chiamate a generare Dio nel mondo, una “missione” vissuta fin dall’inizio della propria esistenza da Maria, che è stata un ponte tra il Creatore e le creature. La festa di oggi, che celebra la natività della Vergine Maria, è legata indissolubilmente a quella del Natale: nella lettura dei Padri, infatti, con la nascita di Maria Dio si “costruisce una casa” in mezzo agli uomini, una dimora che poi lui stesso abiterà nell’Incarnazione.
La ricorrenza odierna è nata in Oriente ed è stata introdotta anche in Occidente da papa Sergio I nel VII secolo. Oggi questa festa è un invito a curare la nostra vita e la nostra interiorità perché è qui che s’incontra Dio. Una lezione “mistica” che i cristiani non devono mai dimenticare se non vogliono ridurre la fede a semplici “buone pratiche”.
Altri santi. Santi Adriano e Natalia, sposi e martiri (IV sec.); san Federico Ozanam, laico (1813-1853).
Letture. Mi 5,1-4; Sal 12; Mt 1,1-16.18-23.
Ambrosiano. Ct 6,9d-10; Sir 24,18-20; Sal 86; Rm 8, 3-11; Mt 1,1-16 oppure Mt 1,18-23 / Gv 20,1-8.
PER LA CRITICA DELLA FACOLTÀ DI GIUDIZIO E DELLA CREATIVITÀ DELL’ "UOMO SUPREMO" ... *
L’effetto Matilda raccontato da Ben Barres, scienziato transgender
Un’attivista per i diritti delle donne vissuta alla fine dell’Ottocento, una storica della scienza e un importante neurobiologo. Il filo rosso che collega queste tre persone si chiama effetto Matilda.
di Simone Petralia (OggiScienza, 16 agosto 2018)
IPAZIA - Matilda Joslyn Gage è stata una femminista e una libera pensatrice statunitense. Nel corso della sua vita ha lottato per il suffragio femminile, per i diritti dei nativi americani e per l’abolizione della schiavitù. “Woman as inventor”, un suo breve saggio del 1870, è al tempo stesso un elogio dell’inventiva femminile e una denuncia lucida e argomentata delle discriminazioni e delle disparità di trattamento a causa delle quali il talento delle donne è spesso calpestato o non riconosciuto.
L’effetto Matilda: cos’è
La comunità scientifica, si sa, non è esente da pregiudizi. A parità di abilità e conoscenze, per esempio, uno scienziato famoso godrà di maggior credito rispetto a un ricercatore poco noto. Nel 1968, il sociologo Robert K. Merton ha definito questa forma di discriminazione “effetto san Matteo”, dal verso attribuito all’evangelista: “a chiunque ha, sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha” (Mt 13, 12). Prendendo spunto dal lavoro di Merton e dal saggio di Matilda Joslyn Gage, nel 1993 la storica della scienza Margaret W. Rossiter ha sviluppato il concetto di “effetto Matilda”.
L’effetto Matilda indica la tendenza a sottovalutare o a sminuire i risultati scientifici conseguiti dalle donne. È stato dimostrato che le ricerche condotte da scienziate suscitano in media meno interesse e vengono citate con minor frequenza rispetto a lavori analoghi realizzati da uomini; quando l’importanza di una scoperta compiuta da una donna è innegabile, invece, questa viene spesso attribuita a un collega maschio. L’effetto Matilda ha segnato la carriera di molte grandi scienziate - da Nettie Stevens a Rosalind Franklin, da Cecilia Payne Gaposchkin a Wu Jianxiong - le quali spesso si sono viste negare un premio Nobel che sarebbe spettato loro di diritto; ma a subirne gli effetti sono state e sono tuttora anche migliaia di ricercatrici sconosciute che vedono il loro lavoro ignorato o svilito a causa di questo pregiudizio.
Il punto di vista di Ben Barres
“Ho vissuto nei panni di una donna e in quelli di un uomo. Questo mi ha dato la possibilità di riflettere sulle barriere che le donne devono affrontare”. Sono parole di Ben Barres, neurobiologo americano. Morto prematuramente nel dicembre del 2017, Barres è ricordato soprattutto per le sue importanti ricerche sul modo in cui le cellule gliali contribuiscono alla formazione e allo sviluppo dei neuroni. È stato uno scienziato di successo, ma - da uomo transgender - anche un alfiere della causa LGBTQ+, sempre in prima linea per il raggiungimento della parità dei diritti di tutte le minoranze.
Barres ha effettuato la transizione dal genere femminile a quello maschile nel 1997, quando aveva 42 anni e lavorava già da tempo alla Stanford University. Nel corso della sua vita ha avuto quindi la possibilità di toccare con mano le piccole e grandi differenze nel modo in cui solitamente ci si relaziona a un altro essere umano, a seconda che lo si percepisca come un uomo o come una donna. Soprattutto ha vissuto sulla sua pelle, per anni, ciò che per la maggior parte degli uomini è pura teoria: l’effetto Matilda.
Nel corso di una conferenza tenutasi nel gennaio del 2005, Lawrence Summers - importante economista, all’epoca presidente della Harvard University - aveva sostenuto che la scarsa presenza femminile in certi ambiti scientifici, come la matematica o l’ingegneria, è da imputare a una caratteristica innata delle donne, la mancanza di una attitudine intrinseca alla scienza. Poco tempo dopo anche lo psicologo cognitivo Steven Pinker e il biologo Peter Lawrence avevano formulato ipotesi analoghe. Quella del determinismo sessuale è un’idea che, in forme e con sfumature differenti, viene riproposta periodicamente. Alcuni scienziati e intellettuali - tra cui il nostro Piergiorgio Odifreddi - sostengono ancora oggi che la difficoltà che le donne hanno a emergere in certe discipline, come la matematica, sia dovuta al fatto che non sono biologicamente portate per l’astrazione.
Nel luglio del 2006, a distanza di alcuni mesi dalle esternazioni Summers e degli altri studiosi, esce su Nature un lungo articolo in cui Barres espone il suo punto di vista sulla questione. La domanda a cui cerca di rispondere è evidente sin dal titolo: “Does gender matter?”, il genere condiziona davvero le performance in ambito scientifico? La risposta è molto chiara: sì. Il genere conta, dice Barres, non tanto perché le donne abbiano caratteristiche innate che le rendono meno capaci degli uomini, quanto piuttosto per l’assunzione sociale che le donne siano per natura meno capaci. In altre parole, a condizionare i risultati scientifici femminili è proprio l’effetto Matilda.
Barres ha la possibilità di replicare alle affermazioni di Summers e degli altri sostenitori dell’innatismo biologico non da un punto di vista puramente teorico, ma rifacendosi alle sue esperienze personali. Avendo vissuto la prima parte della sua vita da donna, ha toccato con mano il sessismo strisciante e ha poi potuto paragonarlo al trattamento successivo riservatogli in quanto uomo. Quando studiava al MIT, racconta, era stata l’unica persona della sua classe - composta soprattutto da ragazzi - a risolvere un complesso problema matematico; il professore, non si sa se per gioco o sul serio, le aveva detto che a risolverlo doveva essere stato il suo fidanzato. Durante il dottorato ad Harvard aveva fatto domanda per un posto all’università; i candidati erano solo due: lei, che all’attivo aveva sei importanti pubblicazioni, e un uomo che aveva pubblicato un solo paper. Venne scelto il candidato maschile. Poco dopo la transizione, un membro della facoltà che aveva assistito a un seminario di Barres non sapendo che fosse transgender, aveva detto che le sue ricerche erano con ogni evidenza superiori a quelle della sorella. Aveva letto le pubblicazioni precedenti di Barres, firmate col nome femminile, senza capire che si trattava della stessa persona; il solo fatto che a scriverle fosse stata una donna era bastato a modificare, in peggio, la sua percezione sulla qualità complessiva del lavoro.
Nel suo articolo, oltre a raccontare episodi legati alla sua storia personale, Barres dimostra la pervasività dell’effetto Matilda ricorrendo anche ai dati. Numerose statistiche, infatti, dimostrano come il pregiudizio di genere sia un potente bias, una vera e propria distorsione cognitiva che condiziona il modo in cui si giudicano le persone. Questo avviene in tutti gli ambiti, anche in un contesto apparentemente evoluto e razionale come quello scientifico. Le donne che fanno domanda di finanziamento per le loro ricerche, per esempio, devono essere 2.5 volte più produttive degli uomini per essere considerate egualmente competenti.
Altri studi sulle minoranze
Altri studi dimostrano come il pregiudizio riguardi, oltre che le donne, anche tutte le persone appartenenti a minoranze di qualche tipo, sia etniche che legate all’orientamento sessuale o all’identità di genere. Sembra che l’unico modo per tenersi al riparo da questo bias sia essere maschi, bianchi, cisgender - cioè non transgender - e ovviamente eterosessuali. “La gente che non sa che sono transgender”, scrive Barres nel suo articolo, “mi tratta con molto più rispetto. Posso persino completare un’intera frase senza essere interrotto da un uomo”. Le persone riconosciute come transgender, invece, devono affrontare pregiudizi analoghi a quelli delle donne, soprattutto coloro che affrontano un percorso di transizione contrario rispetto a quello di Barres, ovvero dal genere maschile a quello femminile; passaggio percepito da molti, in maniera più o meno inconscia, come una sorta di “declassamento sociale”.
Tornando all’effetto Matilda, Barres nota come siano in pochi ad ammettere che si tratti di un problema reale del mondo scientifico. Non solo quasi tutti gli uomini sono inconsapevoli dei loro privilegi, ma anche molte donne sembrano essere riluttanti a riconoscere il peso reale della discriminazione di genere. Questo per varie ragioni, tra cui un fenomeno noto come “rifiuto dello svantaggio personale”, per cui le donne confrontano i loro risultati solo con quelli ottenuti da altre donne, escludendo gli uomini e inserendosi implicitamente in una categoria a parte.
Sono molte le cose che si potrebbero fare per contrastare l’effetto Matilda. In primo luogo, sostiene Barres, evitare di far sentire le ragazze - a scuola, in famiglia e in qualsivoglia contesto - non all’altezza dei loro coetanei maschi o non adatte a intraprendere una carriera scientifica; a lanciare segnali di questo tipo sono, in maniera il più delle volte inconsapevole, gli stessi genitori o gli insegnanti. Occorre poi che la comunità scientifica lavori per migliorare l’equità nei processi di selezione e per dare sempre più posizioni di leadership alle donne e a persone appartenenti a minoranze. “La diversità fornisce un punto di vista più ampio, più sensibilità e maggior rispetto per le diverse prospettive, valori inestimabili in qualsiasi ambito”. Serve, infine, riconoscere che il problema esiste. Non voltarsi dall’altra parte, ma parlare, esporsi, raccontare quello che si è subito e non vergognarsi - mai - di essere chi si è. Seguire, insomma, l’esempio di Ben Barres.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
FILOSOFIA, E TEOLOGIA POLITICA DELLA’ "ANDRO-POLOGIA" ATEA E DEVOTA....
LA RISATA DI KANT: SCHOPENHAUER (COME RATZINGER) A SCUOLA DEL VISIONARIO SWEDENBORG.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
AUTOSTRADE PER IL CIELO: CARTE TRUCCATE E "PONTE PERICOLANTE". L’*AMORE* Di MARIA E GIUSEPPE E LA "PREGHIERA UFFICIALE PER L’INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE 2018" :
PREGHIERA UFFICIALE PER L’INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE 2018 *
Dio, nostro Padre,
Siamo fratelli e sorelle in Gesù, tuo Figlio,
Una famiglia unita dallo Spirito del tuo amore.
Benedici ognuno di noi con la gioia dell’amore.
Rendici pazienti e gentili,
Amorevoli e generosi,
Accoglienti con i bisognosi.
Aiutaci a vivere il tuo perdono e la tua pace.
Proteggi tutte le nostre famiglie con il tuo amore,
Specialmente coloro che ti affidiamo ora con la nostra preghiera:
[facciamo un momento di silenzio per pregare per i membri della famiglia e altre
persone che ci stanno a cuore, ricordandoli per nome].
Aumenta la nostra fede,
Rendi forte la nostra speranza,
Conservaci nel tuo amore,
Aiutaci ad essere sempre grati del dono della vita che condividiamo.
Ti chiediamo questo nel nome di Cristo, nostro Signore,
Amen
Maria, madre e guida nostra, prega per noi.
San Giuseppe, padre e protettore nostro, prega per noi.
Santi Gioacchino e Anna, pregate per noi.
San Luigi e Zelia Martin, pregate per noi.
*Fonte: https://www.worldmeeting2018.ie/WMOF/media/downloads/prayerA4-IT.pdf
* L’Incontro mondiale. «Famiglia, sfida globale». Ecco il senso dell’incontro di Dublino. L’arcivescovo Martin, primate della Chiesa d’Irlanda: Amoris Laetitia, messaggio di misericordia nella complessità. Uno spazio dedicato anche al soloroso tema degli abusi (di Luciano Moia, Avvenire, venerdì 17 agosto 2018: https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/famiglia-sfida-globale-ecco-il-senso-di-dublino).
SUL TEMA, IN RETE, SI CFR.:
GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA!!! NON IL FIGLIO DEL "DIO" ("CARITAS") DELLA CHIESA AF-FARAONICA E COSTANTINIANA !!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
Federico La Sala (18.08.2018)
ANTROPOLOGIA E ANTROPOLOGIA RELIGIOSA.
LA POTENZA DEL DE-SIDER-IO. NOI SIAMO I FIGLI E LE FIGLIE DEL SOLE, I FIGLI E LE FIGLIE DELLE STELLE. ... *
ANTICHI RITORNI
Stelle cadenti? ’Lacrime’ sì... ma non del genere che credete
Perché agli astri è connesso il ’desiderium’. A ben guardare la tradizione cristiana ha soppiantato una credenza pagana, molto più antica ma meno ‘romantica’.
di Alba Subrizio *
Mi perdoneranno i nostri lettori se ho deciso di riproporvi un articolo del nostro blog di qualche anno fa, ma la data (il 12 agosto) ’obbliga’ a parlarne. Sono queste, infatti, le sere in cui siamo tutti con il naso all’insù per vedere di cogliere qualche stella cadente; innamorati, scaramantici, speranzosi o scettici che siano semplicemente desiderosi di osservare il fenomeno astrale, tutti sperano di carpire almeno una delle scie luminose che attraversano la volta celeste in queste calde notti estive.
Non è un caso che alla ‘caduta’ di una stella sia connesso l’esprimere un desiderio, se è vero - come è vero - che il concetto di ‘desiderio’, in quanto brama di qualcosa, è intrinsecamente ed etimologicamente connesso agli astri, dal momento che la parola latina “desiderium” deriva dalla preposizione de (indicante movimento dall’alto verso il basso) + sidus, sideris (ossia “stella”, “astro”), ossia il desiderio è propriamente “ciò che viene dalle stelle”.
Si è soliti pertanto, nella cultura odierna, confessare i propri sogni alla volta celeste, sperando che questi presto o tardi possano avverarsi. Si tratta del fenomeno delle Perseidi, lo sciame meteoritico, così chiamato perché gravitante nella costellazione di Perseo, che ogni anno, orbitando intorno al sole dal 10 al 20 agosto (con picco il 12), è visibile dalla Terra. Nella cultura cristiana e popolare tale ‘sciame’ è noto anche come lacrime di San Lorenzo, dal nome del santo martirizzato sulla graticola, che si festeggia in tale data.
A ben guardare però la tradizione cristiana ha soppiantato una credenza pagana, molto più antica ma meno ‘romantica’. Ebbene, è da premettere che il mese di Augustus, dedicato appunto all’imperatore Ottaviano Augusto, è uno dei mesi dove si celebravano la maggior parte delle feste legate al mondo agricolo, alla coltivazione dei campi, alle fertilità dunque; feste che spesso erano accompagnate da processioni durante le quali aveva luogo la cosiddetta “fescennina iocatio”, ovvero la ‘facezia fescennina’. I fescennini erano, difatti, dei versi mordaci a sapore volgare ed erotico che alludevano al “fascinum”, termine che nella lingua latina aveva una certa ambivalenza, poiché significava sia “malocchio” (da cui il nostro ‘fascinatura’) sia “membro virile”; non è un caso che ad essere portato in processione era l’enorme fallo del dio Priapo.
Orbene, i nostri antenati romani associavano il fenomeno astrale del passaggio delle Perseidi a ben altro genere di ‘lacrime’, o per meglio dire ‘gocce’: quelle dovute alla eiaculazione del seme del dio della fertilità. E voi, ce l’avete un desiderio irrealizzabile? Provate magari a pregare Priapo e a sperare di vederne il seme.
Alba Subrizio
Biografia: «E quel giorno che ha potere solo sul mio corpo e su null’altro, ponga pure fine, quando vorrà, alla mia vita. Con la miglior parte di me volerò eterno al di sopra degli astri e il mio nome non si potrà cancellare, fin dove arriva il potere di Roma sui popoli soggiogati, là gli uomini mi leggeranno, e per tutti i secoli vivrò della mia fama...». Così Publio Ovidio Nasone conclude il suo capolavoro “Le Metamorfosi”; sulla scia del grande Sulmonese. E, allora, eccomi qui a raccontarvi di miti, eziologie e pratiche del mondo antico... che fanno bene anche oggi.
* Il Mattino di Foggia, 12/08/2018
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
PAPA FRANCESCO
MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA
DOMUS SANCTAE MARTHAE
Lunedì, 21 maggio 2018
(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLVIII, n.114, 22/05/2018)
A Santa Marta, il 21 maggio, Papa Francesco ha celebrato per la prima volta la messa nella memoria della beata Vergine Maria madre della Chiesa: da quest’anno infatti la ricorrenza nel calendario romano generale si celebra il lunedì dopo Pentecoste, come disposto dal Pontefice con il decreto Ecclesia mater della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti (11 febbraio 2018), proprio per «favorire la crescita del senso materno della Chiesa nei pastori, nei religiosi e nei fedeli, come anche della genuina pietà mariana».
«Nel Vangeli ogni volta che si parla di Maria si parla della “madre di Gesù”» ha fatto subito notare Francesco nell’omelia, riferendosi al passo evangelico di Giovanni (19,25-34). E se «anche nell’Annunciazione non si dice la parola “madre”, il contesto è di maternità: la madre di Gesù» ha affermato il Papa, sottolineando che «questo atteggiamento di madre accompagna il suo operato durante tutta la vita di Gesù: è madre». Tanto che, ha proseguito, «alla fine Gesù la dà come madre ai suoi, nella persona di Giovanni: “Io me ne vado, ma questa è vostra madre”». Ecco, dunque, «la maternalità di Maria».
«Le parole della Madonna sono parole di madre» ha spiegato il Papa. E lo sono «tutte: dopo quelle, all’inizio, di disponibilità alla volontà di Dio e di lode a Dio nel Magnificat, tutte le parole della Madonna sono parole di madre». Lei è sempre «con il Figlio, anche negli atteggiamenti: accompagna il Figlio, segue il Figlio». E ancora «prima, a Nazareth, lo fa crescere, lo alleva, lo educa, ma poi lo segue: “La tua madre è lì”». Maria «è madre dall’inizio, dal momento in cui appare nei Vangeli, da quel momento dell’Annunciazione fino alla fine, lei è madre». Di lei «non si dice “la signora” o “la vedova di Giuseppe”» - e in realtà «potevano dirlo» - ma sempre Maria «è madre».
«I padri della Chiesa hanno capito bene questo - ha affermato il Pontefice - e hanno capito anche che la maternalità di Maria non finisce in lei; va oltre». Sempre i padri «dicono che Maria è madre, la Chiesa è madre e la tua anima è madre: c’è del femminile nella Chiesa, che è maternale». Perciò, ha spiegato Francesco, «la Chiesa è femminile perché è “chiesa”, “sposa”: è femminile ed è madre, dà alla luce». È, dunque «sposa e madre», ma «i padri vanno oltre e dicono: “Anche la tua anima è sposa di Cristo e madre”».
«In questo atteggiamento che viene da Maria che è madre della Chiesa - ha fatto presente il Papa - possiamo capire questa dimensione femminile della Chiesa: quando non c’è, la Chiesa perde la vera identità e diventa un’associazione di beneficienza o una squadra di calcio o qualsiasi cosa, ma non la Chiesa».
«La Chiesa è “donna” - ha rilanciato Francesco - e quando noi pensiamo al ruolo della donna nella Chiesa dobbiamo risalire fino a questa fonte: Maria, madre». E «la Chiesa è “donna” perché è madre, perché è capace di “partorire figli”: la sua anima è femminile perché è madre, è capace di partorire atteggiamenti di fecondità».
«La maternità di Maria è una cosa grande» ha insistito il Pontefice. Dio infatti «ha voluto nascere da donna per insegnarci questa strada». Di più, «Dio si è innamorato del suo popolo come uno sposo con la sposa: questo si dice nell’antico Testamento. Ed è «un mistero grande». Come conseguenza, ha proseguito Francesco, «noi possiamo pensare» che «se la Chiesa è madre, le donne dovranno avere funzioni nella Chiesa: sì, è vero, dovranno avere funzioni, tante funzioni che fanno, grazie a Dio sono di più le funzioni che le donne hanno nella Chiesa».
Ma «questo non è la cosa più significativa» ha messo in guardia il Papa, perché «l’importante è che la Chiesa sia donna, che abbia questo atteggiamento di sposa e di madre». Con la consapevolezza che «quando dimentichiamo questo, è una Chiesa maschile senza questa dimensione, e tristemente diventa una Chiesa di zitelli, che vivono in questo isolamento, incapaci di amore, incapaci di fecondità». Dunque, ha affermato il Pontefice, «senza la donna la Chiesa non va avanti, perché lei è donna, e questo atteggiamento di donna le viene da Maria, perché Gesù ha voluto così».
Francesco, a questo proposito, ha anche voluto indicare «il gesto, direi l’atteggiamento, che distingue maggiormente la Chiesa come donna, la virtù che la distingue di più come donna». E ha suggerito di riconoscerlo nel «gesto di Maria alla nascita di Gesù: “Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia”». Un’immagine in cui si riscontra «proprio la tenerezza di ogni mamma con suo figlio: curarlo con tenerezza, perché non si ferisca, perché stia ben coperto ». E «la tenerezza» perciò è anche «l’atteggiamento della Chiesa che si sente donna e si sente madre».
«San Paolo - l’abbiamo ascoltato ieri, anche nel breviario l’abbiamo pregato - ci ricorda le virtù dello Spirito e ci parla della mitezza, dell’umiltà, di queste virtù cosiddette “passive”» ha affermato il Papa, facendo notare che invece «sono le virtù forti, le virtù delle mamme». Ecco che, ha aggiunto, «una Chiesa che è madre va sulla strada della tenerezza; sa il linguaggio di tanta saggezza delle carezze, del silenzio, dello sguardo che sa di compassione, che sa di silenzio». E «anche un’anima, una persona che vive questa appartenenza alla Chiesa, sapendo che anche è madre deve andare sulla stessa strada: una persona mite, tenera, sorridente, piena di amore».
«Maria, madre; la Chiesa, madre; la nostra anima, madre» ha ripetuto Francesco, invitando a pensare «a questa ricchezza grande della Chiesa e nostra; e lasciamo che lo Spirito Santo ci fecondi, a noi e alla Chiesa, per diventare noi anche madri degli altri, con atteggiamenti di tenerezza, di mitezza, di umiltà. Sicuri che questa è la strada di Maria». E, in conclusione, il Papa ha fatto notare anche come sia «curioso il linguaggio di Maria nei Vangeli: quando parla al Figlio, è per dirgli delle cose di cui hanno bisogno gli altri; e quando parla agli altri, è per dire loro: “fate tutto quello che lui vi dirà”».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"TEBE": IN VATICANO NON C’E’ SOLO LA "SFINGE" - C’E’ LA "PESTE"!!! Caro Benedetto XVI ... DIFENDIAMO LA FAMIGLIA!? MA QUALE FAMIGLIA - QUELLA DI GESU’ (Maria - e Giuseppe!!!) O QUELLA DI EDIPO (Laio e Giocasta)?!
LA COMPETENZA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA DEL VATICANO E’ "PREISTORICA" E "MAMMONICA". Il "romanzo familiare" edipico della chiesa e della cultura cattolico-romana è finito
Federico La Sala
Quarant’anni di legge 194
di Paola Govoni (Il Mulino, 21 maggio 2018)
I dati del Guttmacher Institute indicano che, ovunque ci siano leggi che consentono l’interruzione volontaria della gravidanza (Ivg), questa è in calo, anche in Italia. Eppure, negli ultimi anni in molti di quei Paesi, inclusa l’Italia, si sono accese polemiche sull’aborto e le leggi che lo regolamentano.
Basta una rapida occhiata alla letteratura per vedere che a dimostrarsi preoccupati - ossessionati? - da questioni relative all’aborto sono più spesso uomini che donne. L’interesse nei confronti del tema sembra infatti nascere soprattutto da campagne denominate pro-life o “teoria gender”, i cui portavoce sono spesso uomini.
D’altra parte, anche in ambito storiografico, nonostante nell’ultimo secolo e mezzo la storia delle donne a opera di donne sia diventata via via più ricca, i testi importanti (o più citati) su questioni di donne e sessualità restano quelli degli uomini. Su qualsiasi tema gli uomini sono più citati delle donne, ma su questioni di sesso sono imbattibili, anche quando si tratta di allattamento, come già nel caso del botanico Linneo.
Si tratta di una tradizione colta antichissima che ha spesso condiviso con la società, anche la meno acculturata, l’equazione donna = sesso. Questo spiega come sia possibile che ancora oggi e ovunque nel mondo il sesso resti il principale strumento di controllo delle donne: una responsabilità che è sociale, che ci coinvolge tutti e tutte e che non possiamo delegare, come molti ancora fanno, alla scienza.
Come racconta in Una stanza tutta per sé, una mattina dell’autunno del 1928 Virginia Woolf si recò alla British Library per preparare alcune lezioni su creatività e indipendenza economica delle donne. Una scorsa al catalogo le bastò per rendersi conto che ogni anno veniva pubblicato a firma di uomini un numero impressionante di libri sul “sesso - e cioè le donne”. In dialogo con le ragazze del Newnhan e del Girton College per le quali stava preparando lezioni divenute memorabili, esclamò: “Vi rendete conto di essere, forse, l’animale più discusso dell’universo?”. -Woolf si accorse subito che a scrivere del tema non erano tanto biologi e medici, quanto gli autori più disparati, spesso senza alcuna qualificazione. Scelta una dozzina di quei volumi “in maniera assolutamente arbitraria”, ne cercò di analoghi di donne su uomini. Non ne trovò e il lavoro proseguì spedito.
Quel vuoto è un sollievo anche per le storiche che, come me, coltivano un certo orgoglio di categoria. Restando in ambiti di privilegio, sono diverse le umiliazioni che ci sono state inflitte, per esempio una secolare esclusione dalle università. Ma nonostante la nostra ignoranza, ci è risparmiato almeno l’imbarazzo di doverci occupare di autrici di libri su uomini e sesso analoghi a quelli incrociati da Woolf.
Bertrand Russell seppe ammettere con ironia il problema quando osservò che “Aristotele maintained that women have fewer teeth than men; although he was twice married, it never occurred to him to verify this statement by examining his wives’ mouths” (The Impact of Science on Society, 1952). Vero o meno che fosse il dettaglio dei denti, Aristotele, come molti altri filosofi naturali e scienziati, resta utile per indagare i pregiudizi in cui gli uomini più intelligenti e colti possono cadere quando si tratta di donne.
Sebbene la tentazione sia forte, le considerazioni rapide fatte fin qui non vogliono portare a conclusioni del tipo: quando uomini come quelli a capo dei movimenti pro-life parlano di aborto, conviene sorridere e occuparsi d’altro. L’aborto è una questione che, ancorché flaianamente seria, è drammatica. Penso tuttavia che sia salutare considerare con distacco chi (per ragioni che lascio alla psicoanalisi), oggi come nell’Ottocento, sente il bisogno di scrivere di aborto sostituendo dati verificati e approcci pragmatici a un problema sociale, con invettive moraleggianti contro le donne: antico strumento di battaglia ideologica (non politica) che dire scomposta è poco. Ho l’impressione che nei confronti di quelle prese di posizione convenga mantenere bassi i toni per evitare fenomeni cosiddetti di backslash, cioè un inasprirsi di atteggiamenti negativi nei confronti delle donne. In ambito accademico è per esempio probabile che certe derive costruzioniste degli anni Settanta e Ottanta, coltivate da élite prive di contatti con il mondo sociale reale, non abbiano giovato alle battaglie delle donne per la parità, ma semmai alimentato confusione tra i/le giovani (la vaghezza di certe argomentazioni può solo diventare gergo da ipse dixit) e insoddisfazione in chi è esclusa/o dai privilegi di cui godono quelle élite.
Il mio invito a mantenere bassi i toni non significa subire in silenzio. Tutt’altro. Bisogna parlare e molto di questi temi, soprattutto in ambito educativo, dal nido all’università. Per esempio, gli/le adolescenti dovrebbero conoscere i vantaggi sociali concreti che porta un’educazione alla piena parità di diritti e di doveri (già, ci sono anche quelli), per non dire dell’educazione sessuale che, come mostrano i dati del Guttmacher Institute, è cruciale perché cali il ricorso all’aborto. Un’educazione che in Italia è trascurata o osteggiata (per ragioni che pure lascio alla psicoanalisi). D’altra parte, l’ignoranza è la realtà con la quale il Paese si confronta (su questo punto, è noto, c’è solo l’imbarazzo della scelta, tra i dati Pisa, i bassi investimenti in educazione terziaria, il posizionamento problematico delle università nelle diverse classifiche internazionali e così via). E le ripercussioni sociali sono pesanti, si tratti di corruzione, di diritti dei carcerati o delle donne: nella classifica che misura i diritti di queste ultime, l’Italia è passata dal 72° posto nel 2006 all’82° su 144 Paesi nel 2017.
La storia delle donne è ricca di esempi che mostrano che posizioni o diritti conquistati restano comunque precari. In ambito scientifico, nel 1984 fu Margaret Rossiter, dati quantitativi alla mano, a parlare di backslash nei confronti delle scienziate americane dopo la Prima guerra mondiale. Oppure, si pensi al caso più clamoroso, quello della computer science, il sapere che ormai regge le società e le economie mondiali. Nella Silicon Valley le donne sono sottorappresentate, benché siano state pioniere nel mondo dell’informatica, nella ricerca come nell’imprenditoria. La storia non è progressiva e sui diritti bisogna vigilare.
L’aborto va prevenuto con l’educazione, impedirlo porta le povere a ricorrervi in clandestinità, le abbienti a ottenerlo in un Paese confinante. Ogni decisione che riguardi la vita e la morte dovrebbe a mio parere essere possibile in un contesto normativo il più possibile flessibile che tutela le libertà. Su morte e vita non abbiamo dati e/o argomentazioni sufficienti per stabilire con certezza quei confini che alcune/i pretendono per demandare la scelta: chi alla scienza, chi alla religione, chi alla giurisprudenza. In dialogo con quelle culture, la scelta su vita e morte può solo essere nostra, libera, responsabile e valutata caso per caso.
Rimettere in discussione la legge che consente l’Ivg è pericoloso per la libertà di tutte/i. Come la scienza, anche la storia ci offre dati utili su cui meditare: ogni volta che si è preteso di limitare le libertà di qualcuna/o, fossero avversari politici, scientifici o religiosi, donne, ebrei o sinti, prima o poi sono state limitate anche le libertà di chi aveva iniziato a gridare.
Diritto & mito
Edipo e l’equilibrio di poteri
di Mauro Campus (Il Sole-24 Ore, Domenica, 20.05.2018)
Interrogare i classici per meglio interpretare la contemporaneità è uno degli esercizi cui ogni società matura dovrebbe rivolgersi costantemente. Il nostro rapporto con le radici del pensiero moderno dovrebbe essere automatico perché esse riflettono le caratteristiche delle comunità che nei secoli si sono fondate guardandole. Per i popoli che si sono culturalmente legittimati sul repertorio mitografico fluito dalle esperienze che i classici riassumono e riordinano, tale esercizio è saldato a basilari caratteri identitari. Da questa consapevolezza nasce l’esigenza di due giuristi come Marta Cartabia e Luciano Violante di misurarsi con Edipo, Antigone e Creonte. Com’è intuibile, l’analisi proposta, pur accarezzando a tratti l’approccio filologico, non ha alcuna pretesa di spiegare nuovamente l’enorme messe di riferimenti all’ordine sociale che i miti sintetizzano, si propone piuttosto di indagare le intersezioni fra quei riferimenti e la percezione contemporanea della giustizia e di un efficiente ordine sociale. Si tratta di un ragionamento la cui curvatura riflette la vita professionale dei due autori, i quali hanno sperimentato e sperimentano i dilemmi che un alto ufficio istituzionale pone.
Per quanto Cartabia e Violante riconducano l’analisi al piano giuridico presentissimo in Edipo Re e Antigone, il montaggio del loro ragionamento finisce per incrociare - seppur per allusione - l’attualità politica che, vista da quella prospettiva, richiama le evidenti incrinature dell’equilibrio dei poteri che connotano lo stato di salute della democrazia e della rappresentanza. Si tratta di temi che, sebbene i due saggi (Edipo Re di Cartabia, Antigone di Violante) si tengano correttamente lontani dall’oggi, lo descrivono però con perfezione adamantina. Ma il tentativo di non cadere nell’esplicitazione dei richiami al presente è in realtà limitato dall’universalità dei personaggi e delle vicende affrontate nelle due conversazioni.
Il perimetro in cui si articola la riflessione parallela dei due autori è definito dal conflitto tra legge umana e legge divina, tra coscienza individuale e ragion di Stato. Questa è la quinta con cui i due testi stabiliscono una dialettica che guarda i modi attraverso i quali la società occidentale si è costruita, riconosciuta e, poi, è entrata in una crisi che pare a tratti irreversibile, specie quando ancora si confronta con la contrapposizione che dovrebbe immaginarsi superata: quella tra lex e ius. E se Antigone è da sempre un interlocutore privilegiato di chi ne ha osservato la dimensione giuridica, invece i riferimenti all’equilibrio dei poteri e ai dilemmi con i quali chi governa dovrebbe dialogare sono presentissimi in Edipo. Egli è un monarca posto dinanzi alla rovina della città che regge, Tebe, dopo l’assassinio del padre e l’incesto con la madre. È quel crimine che lo colloca al centro di un complesso gioco dei punti di vista, delle ottusità, degli arcani, delle riluttanze dei protagonisti. È il conflitto tra la legge degli avi e la nuova legge della città: un conflitto irrisolto nel V secolo a.C. che ricorda le linee di faglia che la crisi delle democrazie fa sperimentare agli evolutissimi regimi capitalisti contemporanei.
Con il tempo la tendenza a identificare ciò che è buono e giusto con ciò che è consentito dalla legge e ciò che è male con quello che la legge proibisce ha costruito l’identità dell’Occidente e ha alimentato la fiducia nelle virtù del sistema democratico. Un sistema che ha fatto superare la condizione di coro al popolo e lo ha reso cittadino e attore. Ed è da cittadini che ci sentiamo sollevati dalla responsabilità personale di decidere che cosa è buono e che cosa non lo è, ma è nell’esperienza della cittadinanza - pure così confortevolmente mediata - che torna centrale il dilemma tra ciò che è religione, ciò che è morale e quello che il diritto può regolare.
Il limes tra queste realtà appare ancora incerto e problematizzato dall’assenza di entità divine capaci di comporre conflitti apparentemente insanabili. Comporre quelle distinzioni ed equilibrarle è però necessario alla civiltà. Sono gli uomini che ora devono - attraverso la mediazione - conciliare tendenze potenzialmente conflittuali e quindi interpretare (o reinventare) lo spirito con cui Atena convinse le Eumenidi a partecipare alla vita della città. Fu quello il modo per interrompere i loro incantesimi e garantire l’edificazione di un futuro florido.
PENSARE L’«EDIPO COMPLETO» (S. FREUD). UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO... *
L’Occidente è colpevole. Ma l’Occidente è la salvezza
Psichiatra e antropologa marocchina, Rita El Khayat parla in questa intervista di colonialismo, migrazioni e Primavere Arabe. «In certi momenti storici è meglio un regime forte. Tra Assad e Isis scelgo Assad».
di Lorenzo Cremonesi (Corriere della Sera, La Lettura, 13.05.2018)
Non si tira indietro nell’accusare «il colonialismo e i danni gravissimi che ha causato ai Paesi arabi e nelle province del mondo islamico». Però è anche profondamente innamorata della cultura occidentale, della sua difesa per i diritti umani e delle donne in particolare. «La mia salvezza intellettuale e civile è cominciata quando giovanissima ho studiato la lingua francese», non si stanca di ripetere. E ai migranti che attraversano il Mediterraneo per approdare in Europa non lesina critiche. «Mi stupisce la caparbietà con cui restano attaccati ai valori e alle tradizioni dei loro Paesi d’origine. Proprio non li capisco!», esclama. «Hanno rischiato la vita per venire in Occidente. Ma se non vogliono cambiare ciò che hanno lasciato, allora perché non se ne rimangono a casa loro? Se credono che a Roma o a Parigi si possono uccidere le figlie che rifiutano di sposare i mariti scelti per loro dalle famiglie non hanno compreso davvero nulla di questo nuovo mondo, meglio che tornino da dove sono partiti».
Il coraggio intellettuale di Rita El Khayat sta anche nella sua aperta disponibilità ad affrontare la complessità delle contraddizioni di un pensiero libero come il suo. Nata nel 1944 a Rabat, marocchina legata alle tradizioni del Maghreb profondo, è scrittrice (ha pubblicato una quarantina di saggi, di cui 14 tradotti in italiano), ma anche psichiatra, antropologa, ha scelto di esercitare a Casablanca la professione di «antropo-psichiatra». Il prossimo 18 maggio parteciperà a Milano a un convegno promosso dall’Asla (Associazione studi legali associati) in un seminario dedicato a Donne e potere.
Partiamo dal tema che tratterà in Italia: non crede vi siano ben poche differenze tra donne e uomini di potere?
«Assolutamente sì. Non cambia niente. Le donne al comando si comportano esattamente come hanno sempre fatto gli uomini, con le stesse ingiustizie, le stesse prevaricazioni e nepotismi, lo stesso sistema di privilegi per chi obbedisce e di punizioni per chi si oppone. Semmai le donne sono ancora più dure, più spietate e più forti degli uomini, proprio per il fatto che hanno dovuto faticare molto di più per imporsi. Lo noto in Francia come in Marocco e nel resto del Maghreb. Ma sono in atto mutamenti epocali. Dove le donne sono diventate economicamente indipendenti avvengono importanti processi di adattamento reciproci tra i due sessi; necessiteranno decenni per trovare nuovi equilibri».
In Medio Oriente ci eravamo illusi che le Primavere Arabe portassero giustizia e libertà. Ma alle vecchie dittature laiche si sono contrapposti i radicalismi islamici oscurantisti e fanatici. Ci siamo trovati a dover scegliere tra la repressione di Bashar Assad e gli orrori di Isis. Lei cosa sceglierebbe?
«Nel 2011, all’inizio delle cosiddette Primavere arabe, stavo con le piazze della rivoluzione. Consideravo Assad uno spietato e sanguinario dittatore. Ma poi, quando ho visto cosa Isis faceva alle donne, lo scempio dei diritti umani, le ragazze yazide vendute in piazza come schiave sessuali, mi sono detta: “Mio Dio, meglio Bashar. Se vince Isis torneremo al Medio Evo”. Ho scritto un libro su questo mio ripensamento. Al caos preferisco un regime ordinato che garantisca la crescita economica e la scolarizzazione diffusa. In certi periodi storici un regime forte come quelli di Franco o Salazar può rivelarsi utile. Più tardi potranno arrivare le riforme in senso democratico ed emergere quelle che Karl Marx definiva le sovrastrutture volte a migliorare la qualità della vita umana».
Dunque, in Egitto, meglio Hosni Mubarak e il regime ancora più duro di Abdel Fattah al Sisi? Un Libia meglio Gheddafi, meglio la vecchia nomenklatura corrotta in Tunisia?
«Le Primavere arabe sono state un movimento di protesta elitario esaltato dalla stampa occidentale, che però non era una vera rivoluzione per il fatto che mancava di leader e di chiare ideologie. Le minoranze che manifestavano in piazza sapevano cosa volevano abbattere, ma non avevano alcuna idea su come e con cosa sostituirlo. Così sono arrivati i movimenti islamici ben organizzati. Alcune conseguenze sono stati i peggioramenti dei diritti civili, inclusi quelli delle donne. Però poi ogni Paese va visto e compreso nella sua storia particolare».
Per esempio?
«Molti anni fa visitai l’Iraq di Saddam Hussein. Era una dittatura, certo. Ma il livello delle scuole era buono, il Paese funzionava. Gheddafi però non lo pongo sullo stesso piano: era un pazzo, uno psicopatico, una personalità con gravissimi disturbi psichici. Aggiungo che il Maghreb è una realtà diversa dai Paesi arabi. In Marocco, dopo gli attentati terroristici di Casablanca nel 2003, abbiamo avuto riforme radicali, è stato cambiato il diritto di famiglia. -Nel 2012, dopo il caso di Amina Filali, la sedicenne suicida perché secondo le nostre vecchie leggi costretta a sposare il suo violentatore, abbiamo riformato ulteriormente i nostri codici. Ora sono vietati i matrimoni ai minorenni e le ragazze hanno diritto di scelta. Però resta il problema dell’ignoranza diffusa. Per i poveri che non vanno a scuola in realtà cambia ben poco. Se non conosci i tuoi diritti non sai neppure come difenderti. È una legge universale.
Noi oggi abbiamo una donna a capo del ministero della Famiglia che ha avuto il coraggio di affermare che le famiglie che hanno un reddito quotidiano pari a 1,80 euro non sono povere. Quando le è stato chiesto cosa farebbe se sua figlia fosse violentata lei ha risposto che la cosa è impossibile, lasciando intendere che le violenze sessuali accadono solo tra poveri. Può anche essere vero. Ma i poveri costituiscono la maggioranza della popolazione dall’India all’Afghanistan al Medio Oriente allargato».
Nel suo libro «Il complesso di Medea», dopo aver trattato delle ingiustizie subite dalle donne nelle società mediterranee dove imperano le tre religioni monoteiste, affronta anche un tema molto delicato: sovente sono le donne anziane a comportarsi nel modo più duro e intransigente nei confronti delle ragazze, specie se belle e vergini. Tra l’altro spesso nelle società tribali sono le anziane a effettuare l’infibulazione sulle bambine e sono prima di tutti le madri a costringere le figlie nei matrimoni combinati. Donne vecchie contro giovani?
«In Marocco diciamo che il paradiso è sotto i talloni delle madri. In un mio libro del 1986 ho analizzato il vecchio sistema patriarcale giungendo alla conclusione che senza un forte matriarcato non può esistere il patriarcato. Parliamo di un sistema sociale che privilegia il gruppo, la tribù, il nucleo familiare allargato. Il maschio anziano domina, ma alle sue fondamenta sta la madre, la donna che da giovane ha rispettato le regole, ha generato figli funzionali al gruppo e nella maturità assurge a pilastro fondamentale della casa perpetuando le leggi che stanno alla radice di quel modo di essere. In quel mondo gli anziani non saranno mai abbandonati. I vecchi sono come i totem freudiani, rappresentano il potere e la sua continuità. Si tratta di un sistema sociale chiuso, assolutamente diverso dall’individualismo liberale occidentale, dove le giovani donne devono stare in casa a generare e curare i bambini. I figli maschi sono formalmente più liberi delle sorelle, però la loro dipendenza dalla madre è molto più forte».
Ovvio che lei abbia sempre scelto l’individualismo occidentale al tribalismo orientale, vero?
«Sempre. Non ho mai avuto dubbi! La mia libertà di donna, di intellettuale, di individuo con diritti e doveri non poteva esprimersi in altro modo se non nei canoni culturali e sociali occidentali. Mia madre non ebbe la mia libertà, sognava di studiare francese, ma le fu vietato, fu una vittima. Io amo scrivere negli aeroporti, viaggiare, essere sola a pensare. Se avessi dovuto sacrificare le mie aspirazioni personali alle regole sociali tribali non sarei mai diventata ciò che sono».
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Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO".
Federico La Sala
Lettera aperta ai dirigenti della Rai TV
"Pago il canone e pretendo che i giornalisti della tivù pubblica sappiano come nascono i bambini".
di Luisa Muraro
Le sindache (e i sindaci) d’Italia, possono credere nella cicogna che porta i bambini, ma quelli che preparano i telegiornali, no, loro no. Pago il canone e pretendo che i giornalisti della tivù pubblica sappiano come nascono i bambini. Nel telegiornale delle ore19 di sabato 28 aprile, hanno dato la notizia di un bambino che ha due padri, anzi “due papà”, e come tale è stato regolarmente iscritto all’anagrafe di Roma. Non sembrava l’annuncio di un qualche miracolo della scienza medica. La signora che ha letto la notizia, se, come dobbiamo supporre, era incredula, l’ha nascosto molto bene. E così dovranno fare, suppongo, le segretarie, le maestre, i parenti, i nonni, i pediatri, e via via, fino a quando l’interessato, reso consapevole, smetterà di annunciare che lui ha due papà. Che commedia sia questa, se questo è tutto il progresso in cui possiamo sperare, io non so. Dico solo una cosa ai dirigenti della Rai tivù: c’è un sacco di posto per la finzione, per la fantapolitica, per la finta realtà, per la pubblicità e la propaganda; evitate, per favore, di usare lo spazio delle notizie per raccontare certe storie. Prima ho detto “pretendo”, ma ho sbagliato, scusate, nei vostri confronti non ho diritti, pago il canone e ho l’obbligo di pagarlo in ogni caso.
*www.libreriadelledonne.it, 29 aprile 2018
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
Federico La Sala
Il Vangelo dalla parte della Maddalena
Escono in un libro gli esercizi spirituali che il cardinale Carlo Maria Martini tenne in Israele tra la fine del 2006 e l’inizio del 2007. Sono dedicati alla figura della santa peccatrice
di Vito Mancuso (la Repubblica, 16.03.2018)
La simpatia del cardinal Martini per Maria Maddalena appare evidente dalla prima all’ultima parola degli esercizi spirituali da lui tenuti in Israele tra la fine del 2006 e l’inizio del 2007, come evidente è la sua simpatia per le consacrate dell’Ordo Virginum della diocesi di Milano per le quali aveva preparato gli esercizi e alle quali diceva: «Vi riconosco nella vostra bellezza interiore ed esteriore, perché quando l’anima rimane nella sua costante proposta di servizio a Dio, rimane bella e questa bellezza si diffonde».
Io penso sia proprio così, e penso che Martini sia stato a sua volta un esempio di questa misteriosa connessione tra etica ed estetica avvertita già dagli antichi greci con l’ideale della kalokagathía, perché il morbo di Parkinson contro cui già allora combatteva, e che l’avrebbe portato alla morte il 31 agosto 2012, non giunse mai a privarlo della sua originaria e nobile bellezza.
Cosa siano gli esercizi spirituali lo spiega lo stesso Martini dicendo che non sono un corso di aggiornamento, né una lettura spirituale della Bibbia, né un’occasione di preghiera; sono invece “un ministero dello Spirito Santo”, nel senso che “è lo Spirito Santo che parla al mio cuore per dirmi ciò che vuole da me adesso”.
Gli esercizi spirituali sono quindi un tempo di ascolto e di raccoglimento per capire la propria situazione qui e ora, e come tali prevedono «un silenzio assoluto a tavola e anche negli altri momenti», perché, avverte Martini, «soltanto una parola detta qua e là disturba tutti».
Maria Maddalena è «il segno dell’eccesso cristiano, il segno dell’andare al di là del limite, il segno del superamento»: nell’eccedere della sua vita travagliata ma sempre dominata dall’amore, si dà per Martini la chiave privilegiata per «essere introdotti nel cuore di Dio».
Il cuore di Dio. Mediante la storia della Maddalena, Martini giunge a parlare di Dio, e parlando di Dio giunge a illuminare la logica e il ritmo dell’essere, cogliendo nell’amore il suo segreto più profondo: «Dio è tutto dono, è tutto al di là del dovuto e questo è il segreto della vita».
Individuare “il cuore di Dio” significa quindi per Martini individuare “il segreto della vita”. In questa prospettiva egli illumina magistralmente il paradosso dell’esistenza segnalando la dinamica profonda secondo cui ci si compie superandosi, ci si arricchisce svuotandosi, si raggiunge l’equilibrio perdendolo.
È la pazzia evangelica. La quale però, in quanto verità dell’essere, è universale, e quindi è avvertita anche al di là del cristianesimo, per esempio già da Platone che coglieva la medesima logica di eccedenza scrivendo che «la mania che proviene da un dio è migliore dell’assennatezza che proviene dagli uomini» ( Fedro 244 d). Maniaca in senso platonico, la Maddalena è definita da Martini “amante estatica”, cioè letteralmente “fuori di sé” e in questo modo è indicata quale via privilegiata per accedere al cuore di Dio.
Per lui è infatti evidente che «non può comprendere Dio chi cerca solo ragioni logiche», mentre lo può comprendere «chi vive qualche gesto di uscita da sé, di dedizione al di fuori di sé, al di fuori del dovuto», perché Dio, simbolo concreto del mistero dell’essere, “è uscita da sé”, “dono di sé”.
In questa prospettiva la Maddalena, perfetta esemplificazione della logica evangelica, fa capire che “solo l’eccesso salva”. Per “eccesso” Martini intende “uno squilibrio dell’esistenza”. E proprio questo è il punto: che la vita si alimenta di tale squilibrio. Il nostro universo non viene forse da un eccesso, cioè dalla rottura di simmetria all’origine del Big Bang? E la vita non è a sua volta squilibrio, essendo la morte, come disse Erwin Schrödinger nelle lezioni al Trinity College di Dublino, “equilibrio termico”? E cosa sono l’innamoramento e le passioni di cui si nutre la nostra psiche, se non, a loro volta, squilibrio?
Afferma Martini: «Quando definisco me stesso, mi definisco di fronte al mistero di Dio e mi definisco come qualcuno che è destinato a trovarsi nel dono di sé... e tutto questo si dà perché Dio è dono di sé». Prosegue dicendo che molti non capiscono Dio perché non lo collegano a questa dinamica di uscita da sé, visto che «soltanto quando accettiamo di entrare in questa dinamica della perdita, del dare in perdita, possiamo metterci in sintonia con il mistero di Dio».
In questa prospettiva Martini giunge a parlare di Dio secondo una teologia della natura che avrebbe fatto felice il confratello gesuita Pierre Teilhard de Chardin, riferendosi a «quella forza che potremmo dire trascendente, perché è in tutta la natura fisica, morale, spirituale ed è la forza che tiene insieme il mondo... la forza che si può concepire come una lotta continua contro l’entropia e il raffreddamento».
Anche il voto di verginità delle consacrate alle quali rivolgeva i suoi esercizi appare a Martini un segno di quell’eccesso di amore che fa sì che nel mondo non vi sia solo la forza di gravità che tira verso il basso, ma anche «una forza che tira verso l’alto, verso la trasparenza, la complessità e anche verso una comprensione profonda di sé e degli altri fino ad arrivare a quella trasparenza che è la rivelazione di ciò che saremo». Ovvero, conclude Martini, “la vita eterna”.
La categoria dell’eccesso
Maria Maddalena secondo il cardinale Martini *
L’eccesso è per Martini la “categoria” che ci consente non solo di comprendere il mistero di Dio adombrato nella passione, morte e risurrezione di Gesù, ma ciò che esprime il senso profondo dell’essere cristiano, della maturità cristiana.
Ancora una volta è attraverso i personaggi di Giovanni che Martini costruisce questa sua visione, in particolare è Maria di Magdala a guidarci in questo ultimo tratto di cammino. «Maria di Magdala è una figura particolarmente importante nei Vangeli, è il prototipo della persona che accede alla fede nel Risorto. Se gli altri due episodi narrati da Giovanni rappresentano piuttosto una comunità che accoglie il mistero della Risurrezione, l’episodio che ha per protagonista la Maddalena è piuttosto dedicato al singolo credente o meglio al non credente che diventa credente».
Chi è Maria Maddalena? Tutti i vangeli la annoverano tra le donne che si recano al sepolcro. Forse, dice Martini, tale menzione indica «una qualche funzione di leadership», ma non abbiamo elementi sufficienti. Compare inoltre nei racconti della passione e nella vita pubblica di Gesù, dove è messa «sullo stesso piano dei discepoli». La sua figura però si può comprendere anche grazie al confronto con altre figure femminili presenti nel vangelo. Per esempio la peccatrice in casa di Simone, le «Marie di Betania» e, infine, la sposa del Cantico; come lei, la Maddalena «ha cercato Gesù con una passione inesausta, con una perseveranza invincibile e di conseguenza è una figura della ricerca di Gesù e del Signore risorto». Tutte rimandano in qualche modo a un «eccesso d’amore».
Nel testo si legge che il primo giorno dopo il sabato Maria si reca al sepolcro «di buon mattino», quando era ancora buio. Un atteggiamento inusuale e anche un po’ rischioso, che la dipinge fin da subito come una «donna che supera le convenzioni». Esce di casa perché non si dà pace e non si preoccupa di ciò che può capitarle o di ciò che può pensare la gente. Quando arriva al sepolcro ha una prima intuizione degli eventi, ma ancora parziale, distorta. -Sconvolta, va da Simon Pietro e dagli altri discepoli, ma, fa notare Martini, riferisce una sua versione dei fatti. In fondo cosa ha visto? La pietra ribaltata e il sepolcro vuoto; su questi elementi costruisce una storia; il corpo di Gesù è stato rubato. L’inquietudine di non sapere dove lo hanno portato non le dà pace.
* L’Osservatore Romano, 17 luglio 2017
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MICHELANGELO E LA SISTINA (1512-2012). I PROFETI INSIEME ALLE SIBILLE PER LA CHIESA UN GROSSO PROBLEMA .... DOPO 500 ANNI, PER IL CARDINALE RAVASI LA PRESENZA DELLE SIBILLE NELLA SISTINA E’ ANCORA L’ELEMENTO PIU’ CURIOSO. Materiali sul tema, per approfondimenti
Federico La Sala
N. Fraser, Scales of Justice. Reimagining Political Space in a Globalizing World, Polity Press, Cambridge (UK) 2008, pp. 224, ISBN 978-07456-4486-8 *
di Brunella Casalini (Jura Gentium. Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale)
Giocando sulla plurivocità semantica del termine inglese "scales", con il titolo Scales of Justice Nancy Fraser evoca due immagini: la bilancia come simbolo classico della capacità della giustizia di agire in modo imparziale e lo spazio cui necessariamente deve far riferimento qualsiasi teoria della giustizia. Sia il concetto di imparzialità sia la dimensione spaziale della giustizia sono oggi oggetto di una contestazione radicale. La contrapposizione tra paradigma redistributivo e paradigma del riconoscimento si è mossa oltre la problematica della risoluzione equa dello scontro tra rivendicazioni conflittuali; è infatti la sostanza stessa dell’idea di giustizia ad essere messa in discussione da coloro che si dividono sulla priorità di redistribuzione e riconoscimento, presentandole come istanze incommensurabili che non possono trovare risposta semplicemente pesandole sulla stessa bilancia.
Una teoria della giustizia che tenga conto delle diverse concezioni sostantive della giustizia oggi presenti nel dibattito politico, qualora ritenga che ciascuna di esse colga aspetti importanti e diversi del fenomeno dell’ingiustizia, secondo la Fraser, deve rispondere a due sfide: la prima consiste nel vedere cosa possa essere salvato dell’ideale dell’imparzialità e come esso possa essere riformulato, la seconda nel decidere contestualmente, accettando l’esistenza di una pluralità di prospettive, a quale visione della giustizia dare di volta in volta maggiore attenzione.
Da Justice Interruptus (1997) all’acceso confronto con Axel Honneth, contenuto in Recognition or Redistribution?, la Fraser ha tentato di superare la contrapposizione tra paradigma del riconoscimento e paradigma redistributivo, mediante due operazioni principali: 1) una teorizzazione del riconoscimento incentrata sulla differenza di status, che tende a separare la politica del riconoscimento dalla politica dell’identità, e a vedere nel mancato riconoscimento un’ingiustizia, un impedimento alla parità partecipativa, e non un ostacolo all’autorealizzazione e una ferita psichica (come nei modelli di Honneth e Taylor); e 2) la formulazione di un dualismo di prospettiva capace di cogliere analiticamente tanto le dinamiche di esclusione connesse alle caratteristiche intrinseche del sistema economico capitalistico quanto quelle legate al sistema simbolico-culturale, così da poter proporre soluzioni di volta in volta diverse a seconda delle specifiche condizioni di particolari gruppi sociali e dei presupposti necessari a garantire la parità partecipativa.
Accusata di aver dimenticato il ruolo autonomo della sfera politico-giuridica e l’importanza delle discriminazioni che avvengono sul piano prettamente giuridico e politico, a cominciare dal saggio Redefining Justice in a Globalizing World (2005, qui ripubblicato), Nancy Fraser ha posto accanto alla dimensione culturale del riconoscimento e alla dimensione economica della redistribuzione, una terza dimensione specificamente politica: la dimensione della rappresentanza.
Il criterio della rappresentanza risponde a una questione decisiva oggi nei dibattiti intorno alle diverse teorie della giustizia, dibattiti che non vertono più sul "che cosa" la giustizia deve riconoscere, ma sempre più su "a chi" deve riconoscerlo, su quali sono e come si determinano i confini della comunità cui una teoria della giustizia intende applicarsi.
La theory of justice as parity of participation della Fraser viene così a configurarsi come una teoria tridimensionale, che costituisce una sorta di ripresa e revisione della triade weberiana di classe, status e partito - cui, del resto, l’autrice esplicitamente si è richiamata fin dall’inizio nella sua ridefinizione del paradigma del riconoscimento.
L’aggiunta della terza dimensione appare inscindibile dall’attenzione per la questione del framing, dell’inquadratura dello spazio entro cui si pongono problemi di giustizia. In un contesto post-socialista, post-fordista e soprattutto post-westphaliano le ingiustizie sono insieme incentrate su questioni di misrecognition, misredistribution e misframing. Distribuzione e riconoscimento potevano essere considerate come le due dimensioni cruciali della giustizia finché il quadro di riferimento dello stato-nazione era dato per scontato.
Con la globalizzazione e la contestazione della cornice keynesiano-westphaliana, la dimensione politica emerge come la terza dimensione fondamentale nell’ambito delle teorie della giustizia. Domanda cruciale diviene infatti se la teoria della giustizia debba continuare a muoversi nello spazio della cittadinanza nazionale, se debba divenire cosmopolitica o se debba venire a riguardare le "comunità transnazionali del rischio".
La Fraser si è sentita inizialmente vicina alle posizioni di coloro che - come Iris Marion Young - hanno cercato di arrivare alla formulazione di una concezione transazionale mediante l’individuazione dei soggetti destinatari della giustizia in base al c.d. "all affected principle", ovvero in base ad un principio che fa riferimento alla possibile co-implicazione oggettiva di soggetti anche lontani tra loro in una rete di relazioni causali che può scavalcare i confini nazionali. Ora, Fraser riconosce due limiti a questa soluzione teorica: da un lato, il rimando a reti causali oggettive sembra delegare alle scienze sociali l’individuazione dei soggetti interessati; dall’altro, a causa del paradosso prodotto dal c.d. butterfly principle, per cui siamo tutti influenzati da tutto, rischia di non riuscire a delimitare lo spazio di relazioni sociali rilevanti.
Per ovviare a questi inconvenienti, l’autrice propone quale alternativa il c.d. all subjected principle, in base al quale chi è soggetto ad una data struttura della governance (concepita in senso lato in modo da poter comprendere non solo gli stati, ma anche, per esempio, le organizzazioni non governative e agenzie come il WTO e il IMF), ha diritto ad essere riconosciuto come destinatario di giustizia da parte di quella medesima struttura. Il principio all subjected individua non un unico "chi" destinatario della giustizia, ma una pluralità di "chi" collocati a livello locale, nazionale, regionale e, in alcuni casi, globale.
L’individuazione dei soggetti destinatari della giustizia transazionale può avvenire soltanto lasciando voce alla contestazione e al dialogo ai diversi livelli e creando canali istituzionali formali che consentano di arrivare a decisioni vincolanti. In questa direzione, la Fraser guarda al ruolo che rivestono oggi i movimenti sociali globali: la loro contestazione del quadro westphaliano è insieme un modo per rivendicare il diritto a determinare il "chi" della giustizia e il "come" arrivare alla sua definizione.
Sbagliano tuttavia, secondo la Fraser, i sostenitori delle visioni populiste, à la Negri e Hardt, che collocano il nesso contestazione/decisione nella società civile, perché le formazioni presenti nella società civile non sono da sole capaci di trasformare le loro proposte in decisioni politiche stringenti e perché esse mancano di rappresentatività e democraticità per poter rivendicare il diritto a ridisegnare i confini della giustizia. Una giustizia transnazionale richiede adeguati canali istituzionali che rispondano alla società civile, ma funzionino al tempo stesso secondo eque procedure e un sistema di rappresentanza che ne assicuri il carattere democratico dando legittimità alle decisioni prodotte. I tratti delle nuove sfere pubbliche transnazionali e delle nuove istituzioni democratiche globali rimangono, tuttavia, al momento, estremamente vaghi nel disegno della Fraser, che evita qui, per altro, di confrontarsi criticamente con le istituzioni sovranazionali esistenti, con i loro limiti e le loro possibilità di riforma.
* La bilancia della giustizia. Ripensare lo spazio politico in un mondo globalizzato di Nancy Fraser edito da Pensa Multimedia, 2012.
FILOSOFIA DELLA RIVELAZIONE. "L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE": "GENERARE DIO". L’immaginario del cattolicesimo romano....
Narciso e l’arte di restare a galla: una lezione di Massimo Cacciari
di Luisa Muraro *
Narciso non sapeva niente di narcisismo. Il pastorello vanitoso si sporge per specchiarsi, casca nello stagno e annega. Doveva venire in Italia a imparare dai nostri uomini di spicco. Specchiarsi e, soprattutto, restare a galla, è un’arte. Per esempio, come fa il narciso italiano quando succedono cose notevoli che lo mettono ai margini? Aspetta un po’ che passino ma se non passano, come sta succedendo con il femminismo?
Massimo Cacciari, intervistato sul suo ultimo libro risponde con una lezione esemplare.
Il suo libro è di argomento teologico ed è il giorno di Natale. Il Professore si vanta di aver fatto una scoperta filosofica, teologica e politica su Maria di Nazareth. L’intervistatore, Nicola Mirenzi, è ammirato ma mostra incredulità. L’intervistato ammette di non essere stato il primo e fa il nome di un grande teologo del passato. L’intervistatore chiede: come mai neanche le femministe si sono dedicate a pensare la grandezza di Maria? Neanche loro, conferma il professore. Dice il falso ma lui non teme che la verità gli secchi la lingua perché non la sa, lui di femminismo non ha mai voluto saper niente con un minimo di precisione. L’ignoranza, però, non basta più con i tempi che corrono, ci vuole un tampone e Cacciari l’ha pronto. Ripete un elogio del femminismo fatto da altri (sempre lo stesso, “ultima vera rivoluzione” ecc.). Intanto pensa: nessuno può lontanamente aver visto quello che ho visto io! E a voce alta dice: le femministe “sono rimaste vittime della lettura maschilista dell’incarnazione, hanno guardato Maria come una figura servile, totalmente oscurata dal rapporto tra padre e figlio, non riuscendo a scorgere quello che c’è oltre”. Questa è la mossa classica dell’intellettuale italiano: s’inventa una posizione “femminista” fasulla, che gli pare verosimile e che trova facile da eliminare.
Termina così l’intervista; la trovate su Huffington Post, che in seguito ha pubblicato l’intervento di Nadia Lucchesi su questo argomento; lo trovate anche qui.
Inventarsi un femminismo finto, dopo quasi mezzo secolo di un movimento che sta modificando i tratti di una civiltà, e uno studioso di chiara fama che crede di poterlo fare impunemente, tutto questo non sarebbe possibile senza la complicità dei suoi pari e dei mass-media che vanno per la maggiore. È questo un andazzo che è durato troppo e danneggia il nostro paese. Da notare però anche, in questo caso, un certo desiderio maschile di mettersi alla luce della differenza femminile. Nadia Lucchesi e le sue amiche sono intervenute a smentire il Professore con molta serenità, come se, sotto le sue arie da grande pensatore, riconoscessero uno dei pastori che andarono alla grotta di Betlemme. (Luisa Muraro)
Il commento di Nadia Lucchesi e amiche all’intervista di Massimo Cacciari
Se i filosofi hanno ignorato Maria, le filosofe ne hanno invece valorizzata la figura, liberandola dagli stereotipi e dalle incomprensioni della tradizione. Penso, per nominarne alcune, a María Zambrano, a Simone Weil e a Edith Stein. Le femministe hanno guardato ben oltre la lettura maschilista dell’incarnazione: come scriveva Luisa Muraro nel 2011 «Data la scarsa conoscenza del femminismo, dovuta più alla novità delle idee che all’ignoranza delle persone, vi capiterà di leggere che noi femministe eravamo contro la figura di Maria. No, non solo la mariologia fu un terreno di coltura del femminismo cattolico, ma anche le agnostiche si sono dedicate a strappare Maria alla devozione di tipo patriarcale. Penso al Magnificat di Rosetta Stella (Marietti)... Di Maria si è enfatizzato il protagonismo, la mobilità, l’autonomia. La sua verginità è stata interpretata in termini d’indipendenza simbolica dagli uomini. Fondamentale è stato l’apporto di Luce Irigaray, che, dagli anni Ottanta, ha contribuito a diffondere un nuovo linguaggio religioso...» (Maria. Il latte della Vergine, Madre di Dio e Dio lei stessa, Il manifesto - Alias, 24 dicembre 2011).
Infatti, Luce Irigaray ha pubblicato nel 2010 «Il mistero di Maria» (Edizioni Paoline, 2010), mentre nel 2002 Nadia Lucchesi aveva dato alle stampe «Frutto del ventre, frutto della mente: Maria, madre del Cristianesimo» (Luciana Tufani, Ferrara 2002).
Nel 2014 si è svolto a Venezia il convegno «Rivisitazione di Maria. Per una teologia in lingua materna», a cura di Laura Guadagnin e Grazia Sterlocchi delle associazioni Settima Stanza e Waves in collaborazione col Centro Donna, mentre a Roma, all’interno del progetto speciale culturale Biblioteche di Roma 2014 «Presenza e mistero di Maria», Annarosa Buttarelli e Suor Michela Porcellato sono intervenute sul tema: «La sovranità di Maria di Nazareth».
Raffaella Molinari e Monica Palma, relatrici di un intervento dal titolo «Maria della Sororità, Nostra Signora Nostra Sorella» continuano il lavoro straordinario di Ivana Ceresa, fondatrice della Sororità, un ordine religioso posto sotto l’autorità di Maria, concepita come figura di donna potente.
Da più di cinquant’anni, inoltre, Angela Volpini diffonde un’immagine di Maria che rappresenta l’umanità realizzata e ci insegna la “via della felicità sulla terra”.
Non parlo dei tantissimi contributi delle teologhe cattoliche e non, che hanno interpretato in modo non tradizionale la figura della Vergine, della Maestra di Sapienza: cito, per nominarne solo una, Elisabeth Schüssler-Fiorenza, teologa statunitense, femminista cattolica, autrice di due opere fondamentali: «In memoria di Lei» (Claudiana, Torino 1990) e «Gesù, figlio di Myriam, profeta della Sophia» (Claudiana, Torino 1996).
* www.libreriadelledonne.it, 19 gennaio 2018
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO". Una riflessione di Massimo Cacciari su "cosa significa ereditare il passato"
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI. In memoria di Kurt H. Wolff.
Federico La Sala
L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO: IL MAGGIORASCATO. UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"...
La relazione
Quarant’anni di un diritto
Così la legge 194 ha fatto crollare gli aborti in Italia
di Maria Novella De Luca (la Repubblica, 16.01.2018)
ROMA «Le donne hanno smesso di morire d’aborto, basterebbe questo per dire che la legge 194 ha funzionato e funziona. E io me le ricordo, quarant’anni fa, quelle donne e ragazze che arrivavano di notte in ospedale, devastate dalle emorragie dopo le famose interruzioni con il ferro da calza. Molte restavano mutilate per sempre. Con la legge 194 l’aborto ha smesso di essere una questione privata per diventare una questione sociale di cui lo Stato si è fatto carico. È stata una rivoluzione. Imperfetta, ma una rivoluzione». Carlo Flamigni ha 85 anni, è uno dei ginecologi più famosi d’Italia, pioniere della fecondazione assistita, ma anche protagonista di quella battaglia che negli anni Settanta ha cambiato nel profondo la nostra società, la famiglia, la maternità.
Approvata nel 1978, confermata dal referendum del 1981, la legge sull’aborto compie quarant’anni il 22 maggio prossimo. Un tempo abbastanza lungo per fare un bilancio, come infatti suggerisce la Relazione al Parlamento sull’attuazione della 194 presentata dalla ministra Lorenzin, dove per la prima volta si tenta una “analisi storica”. E se i numeri di quest’anno confermano la drastica riduzione degli aborti, passati dai 234.801 del 1982 (l’anno in cui le “Ivg”, interruzioni volontarie di gravidanza, raggiunsero il massimo storico) ai 84.926 del 2016, nello stesso tempo si assiste a un vero e proprio boom della contraccezione d’emergenza. In particolare dell’uso della “pillola dei cinque giorni dopo” (EllaOne) le cui vendite, dopo la caduta dell’obbligo di ricetta medica per le donne maggiorenni, è passata dalle 7mila confezioni del 2012 alle 189.589 del 2016. Se dunque abbiamo imparato a non abortire (pur potendo farlo), sul fronte dell’uso di pillola e condom siamo davvero indietro. Di fatto una contraddizione.
Ma al di là dei dati di oggi, nello sguardo sui 40 anni della legge, la Relazione afferma un principio fondamentale. «L’aborto volontario, dopo una prima fase iniziale, è costantemente diminuito e non è mai stato un mezzo di controllo delle nascite».
Se pensiamo che nel 1961, come denunciò una famosa inchiesta di “Noi donne”, gli aborti clandestini superavano il numero (spaventoso) di un milione l’anno, è evidente quanto la legge del 1978 abbia segnato il passaggio da un’Italia quasi post contadina a un’ Italia moderna. Livia Turco, a lungo parlamentare del Pd, ministra delle Pari Opportunità e poi della Salute, quella stagione da giovane militante comunista se la ricorda bene. E al tema della difesa della legge 194 ha dedicato un bel libro uscito di recente: “Per non tornare nel buio”. Perché in fondo nulla è garantito. E le proposte di revisione (restrittiva) della legge si susseguono ad ogni legislatura.
«Lo scontro fu feroce e lacerante. La Destra e una parte dei Cattolici dicevano che la legalizzazione avrebbe fatto aumentare a dismisura il numero degli aborti, banalizzandone la scelta. Invece oggi si dimostra che l’autodeterminazione delle donne ha prodotto una cultura della responsabilità e soprattutto si è arginata la piaga dell’aborto clandestino. Ma è della applicazione della 194 che bisogna tornare a parlare, uscire dal cono d’ombra». Perché l’obiezione di coscienza è ormai un dramma.
Spiega Livia Turco: «Ci sono interi ospedali dove le interruzioni non vengono praticate e le donne devono migrare di regione in regione, spesso con il rischio di superare i tempi legali. E poi i dati sul ricorso alla pillola del giorno dopo dimostrano che è sulla contraccezione che bisogna investire, pensando ai giovani, rendendola gratuita. Ma credo che una maggiore diffusione della Ru486, l’aborto farmacologico, potrebbe mitigare il ricorso all’obiezione di coscienza».
Immigrate, ragazze giovani. Sono loro le donne più a rischio. (Il 30% di tutte le interruzioni riguarda le straniere). Silenzio e solitudine i loro nemici.
Racconta Carlo Flamigni: «A 40 anni dalla sconfitta delle mammane e dei cucchiai d’oro, ci troviamo di fronte a un nuovo tipo di clandestinità che il ministero rifiuta di vedere. Avete presente quante pillole per abortire si possono comprare su Internet? O farmaci che comunque aumentano la contrazioni uterine? La legge 194 va protetta e pubblicizzata, la contraccezione favorita in ogni modo. Altrimenti si torna indietro».
Michele Mariano è l’unico ginecologo non obiettore del Molise. Dirige un piccolo reparto di eccellenza all’ospedale “Cardarelli” di Campobasso, dove applica la legge 194. «Ormai da me arrivano donne da tutto il centro Sud. È incredibile. Dal Lazio, dall’Abruzzo, dalla Campania, perché i centri chiudono. Fanno centinaia di chilometri ma sanno che qui saranno accolte. E poi le migranti, spesso sbarcano in Italia già incinte. Ho visto troppe donne rovinate dagli aborti clandestini prima che ci fosse la legge, per questo continuo a lavorare in trincea, praticando 400 aborti l’anno. Sono orgoglioso di quello che faccio, ma sa qual è l’amarezza? A 40 anni dalla nascita di questa legge, noi che l’abbiamo voluta, siamo anche tra gli ultimi ginecologi ad applicarla, perché ormai tutti obiettano. Cosa accadrà quando andremo in pensione?».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
La Costituzione non è mai al sicuro, occhio ai programmi elettorali
1947-2017. La Carta come una bussola nella sfida del voto
di Anna Falcone (il manifesto, 28.12.2017)
Sarà la cifra tonda, sarà che questo compleanno della Costituzione arriva dopo la schiacciante vittoria referendaria del 4 dicembre, fatto sta che mai come quest’anno la ricorrenza della firma è stata fortemente sentita dagli italiani, che hanno partecipato in tanti alle iniziative organizzate per l’occasione in tutta Italia. E non solo per rinnovare il ricordo: questa celebrazione e il messaggio che ne scaturisce assumono un valore cruciale per le prossime elezioni politiche.
Lo hanno giustamente sottolineato Felice Besostri ed Enzo Paolini nell’articolo pubblicato ieri sulle pagine di questo giornale. Perché chi ha vinto la battaglia referendaria, e continua a difendere davanti alle Corti le ragioni della legittimità costituzionale delle leggi elettorali, o a sostenere chi lo fa, non potrà sottrarsi, al momento del voto, a un giudizio di coerenza fra schieramenti politici e rispetto del voto referendario.
Il fatto che a 70 anni dalla sua entrata in vigore la Costituzione è e rimane, in gran parte, inattuata rappresenta - per chi voglia raccoglierla seriamente - la sfida politica per eccellenza delle prossime elezioni. Non a caso, molti elettori ed elettrici, che non si rassegnano all’esistente, chiedono agli schieramenti in campo di ripartire proprio dall’attuazione della Costituzione e dalla implementazione dei diritti già riconosciuti dalla Carta quale antidoto alle inaccettabili diseguaglianze del nostro tempo. Un passaggio necessario, se non indispensabile, per rafforzare la credibilità dei programmi politici e, auspicabilmente, ricucire quel rapporto di fiducia fra politica e cittadini mai così in crisi. Un vulnus democratico tradotto in un astensionismo che sfiora ormai il 55% dell’elettorato: dato più che allarmante a cui non ci si può e non ci si deve rassegnare.
Rilanciare il messaggio della necessaria difesa e attuazione della Costituzione - in particolare delle norme che garantiscono il pieno e trasparente esercizio della democrazia e attribuiscono alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli che alimentano e aggravano le condizioni di diseguaglianza fra cittadini - diventa, allora, cruciale, soprattutto alla vigilia di una tornata elettorale le cui regole saranno scandite dall’ennesima legge elettorale ad alto rischio di incostituzionalità.
Pur nella piena consapevolezza che la Costituzione non delinea un programma univoco, capace di blindare le scelte dei diversi governi - è necessario riconoscere, infatti, e una volta per tutte, che esiste un nucleo duro di principi e diritti fondamentali inderogabili che ogni forza politica deve impegnarsi ad attuare, nelle forme e nei modi che ritiene più opportuni, per rispettare quella fedeltà alla Costituzione che li lega indissolubilmente alla Repubblica e ai suoi compiti costituzionali. Un patto democratico di diritti e obiettivi programmatici, inequivocabilmente vincolanti, che deve tornare ad essere il cuore di ogni programma elettorale. Soprattutto a Sinistra.
Sia chiaro: non è un’indicazione di voto, ma il suggerimento a una riflessione suppletiva sul voto e su chi auspicabilmente si impegnerà in maniera chiara e credibile a difendere e attuare la Costituzione. Nella piena consapevolezza che un tale ambizioso obiettivo, per essere concreto, deve essere condiviso da tanti, e non è monopolizzabile da pochi o da forze marginali. Perché la Costituzione non è perfetta, né intoccabile, ma è l’unico punto certo che abbiamo, il primo “bene comune” in cui si riconoscono gli italiani in questa difficile fase di transizione democratica. Se questa virerà verso il restringimento progressivo degli spazi di partecipazione e di democrazia o verso modelli più avanzati dipenderà anche dal se e come eserciteremo il nostro diritto di voto.
In tal senso, l’astensionismo, anche come forma estrema di protesta, più che sortire un ‘ravvedimento’, rischia di favorire le destre nel prossimo Parlamento, e con esse la formazione di uno schieramento largo e più ampio della compagine del futuro governo che, se non arginato, potrebbe trovare i numeri per unire le forze di quanti - avendo fallito le riforme del 2006 e del 2016 - potrebbero convergere su un progetto analogo, se non peggiore. Un’operazione che, (ipotesi remota, ma non impossibile) qualora dovesse raccogliere il sostegno dei 2/3 dei componenti di ciascuna Camera potrebbe non dare spazio neppure alla raccolta delle firme per chiedere il referendum costituzionale e, con esso, il pronunciamento popolare.
Per questo è necessario sollecitare le forze politiche in campo affinché si pronuncino, tutte, sul loro programma costituzionale: sul se e come intendano intervenire sulla Costituzione; sul se e come intendano dare attuazione al suo nucleo duro di principi e diritti inderogabili; sul se e come intendano metterla “in sicurezza” da possibili incursioni di future maggioranze gonfiate. Perché non ci si debba più trovare in futuro a contrastare una riforma o, peggio, una riscrittura della Carta, di parte e neppure menzionata nei programmi elettorali e adeguatamente dibattuta nel Paese. Ai tanti italiani che si sono recati al voto il 4 dicembre, almeno questo, è dovuto.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
Il pretesto della pazzia
Le donne ribelli o vittime di violenza erano spesso rinchiuse in manicomio
Un saggio di Annacarla Valeriano (Donzelli) sull’uso degli ospedali psichiatrici come strumento per colpire i comportamenti femminili ritenuti trasgressivi. Una pratica intensificata sotto il fascismo ma proseguita anche nel dopoguerra
di Paolo Mieli (Corriere della Sera,12.12.2017)
Un lavoro straordinario, quello portato a compimento da Annacarla Valeriano, che ha passato in esame le cartelle cliniche delle ricoverate nel manicomio Sant’Antonio Abate di Teramo, a partire dall’ultimo decennio dell’Ottocento fino al 1950, per definire un «percorso dell’esclusione» assai particolare. Esclusione che «tende a essere interpretata spesso come una condizione ineluttabile toccata in sorte ai più deboli, ai più disperati, la naturale conseguenza di stili di vita condotti fuori dagli schemi». E che proprio per questo «appare» come un «oggetto» opaco, «confinata ai margini di società in continua trasformazione o racchiusa tra le mura di un luogo deputato a gestirla, fino a farne perdere le tracce».
Un «percorso» che inizia, ovviamente, ben prima della marcia su Roma, ma che - come vedremo - trova il suo culmine ideologico proprio nel ventennio mussoliniano. Ne è venuto fuori un libro prezioso, Malacarne. Donne e manicomio nell’Italia fascista (Donzelli), che, è prevedibile, verrà discusso con grande interesse.
In principio - come ha raccontato David Forgacs in Margini d’Italia. L’esclusione sociale dall’Unità a oggi (Laterza) - fu la legge del 1904, imperniata sul concetto del malato di mente come persona pericolosa e «non più adeguata all’evoluzione sociale dei tempi» che dovrà essere iscritta nel casellario giudiziario come da imposizione dell’articolo 604 del Codice di procedura penale.
Un’importante questione sarà in tempi immediatamente successivi quella della «cornice eugenetica» all’interno della quale, già nel corso della Prima guerra mondiale, andrà collocato il trattamento delle donne (ma non solo) negli ospedali di cura delle malattie mentali. Il punto di riferimento era, però, precedente all’esplosione del conflitto, per la precisione il primo Congresso internazionale di eugenica tenuto a Londra nel 1912, i cui risultati erano stati immediatamente recepiti e portati nel nostro Paese dal Comitato italiano per gli studi di eugenica, nato nel 1913 proprio per «studiare i fattori che possono determinare il progresso o la decadenza delle razze, sia sotto l’aspetto fisico, sia sotto quello psichico».
Ma, avverte Valeriano, l’eugenica italiana - a differenza di quel che si potrebbe credere - non era affatto in sintonia con quelle dell’Europa settentrionale: la prevenzione, l’igiene, il recupero morale delimitarono i confini del discorso scientifico in Italia e consentirono al nostro Paese di non sfociare nelle «esagerazioni» tedesche.
Poi venne la Grande guerra. Le donne ricoverate in frenocomio tra il 1915 e il 1918 - «con patologie che sembravano avere un collegamento diretto con i traumi bellici» - «furono probabilmente inquadrate in quella categoria psichicamente tarata, incapace di sopportare l’urto degli eventi, sulla quale era bene adottare delle misure di risanamento».
Se si guarda alle cartelle cliniche, «è facile accorgersi di come ad essere medicalizzata fosse stata la sfera dei sentimenti»: «emotività, paura, rifiuto, quando non incanalati», erano deviati in «un indicibile tormento», con «manifestazioni a colorito depressivo che avevano perlopiù congelato le pazienti in stato di torpore e apatia». In questa dimensione sospesa «tutto il mondo si era annullato ed era rimasta in piedi solo la violenza del trauma vissuto».
L’immobilità, l’incapacità di assolvere i ruoli, di accudire i figli e di «far continuare la vita» - come scrive Anna Bravo in Donne e uomini nelle guerre mondiali (Laterza) - il non essere più le stesse persone che gli uomini avevano lasciato a casa nel giorno dell’arruolamento, animano i documenti che fotografano «un microcosmo femminile lacerato dall’esperienza bellica, irrimediabilmente compromesso nelle sue consuetudini». Bombardamenti, «ansie, attese, paure, fame erano divenuti orizzonti familiari nella quotidianità delle donne e non tutte riuscirono a uscirne indenni». Quantomeno negli equilibri psichici. I «deliri di perdizione e di rovina» erano «una manifestazione tipica dell’angoscia indotta dalla guerra». Attraverso la negazione del proprio corpo, della propria personalità, del proprio essere nel mondo aveva trovato espressione la sensazione di essere state tagliate fuori da un universo di valori e di abitudini al quale non si sarebbe più fatto ritorno.
In Italia il cosiddetto «grande internamento manicomiale», scrive Valeriano, può essere individuato in un periodo tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. Ed è nel corso di questi decenni che viene edificato un consistente numero di manicomi su tutto il territorio nazionale. Questo periodo coincide con la nascita di un Paese moderno «così come siamo abituati a pensarlo oggi». Un «Paese moderno» nel quale, accanto alle campagne, cominciavano a svilupparsi grandi agglomerati urbani capaci di accogliere famiglie sempre più numerose, in cui compaiono «infrastrutture potenziate» anche dal sistema manicomiale, concepito per «assistere la follia», ma usato «soprattutto per mantenere l’ordine pubblico e la tutela della moralità, attraverso la presa in carico della pericolosità sociale e del pubblico scandalo».
Questo aspetto «già dispiegato all’indomani dell’Unità d’Italia, si irrobustisce negli anni del fascismo quando, con la stretta repressiva attuata dal regime, si ampliano i contorni che circoscrivono i concetti di marginalità e devianze».
I manicomi, di riflesso, accentuano la loro dimensione di controllo, affiancandosi allo Stato per contribuire a plasmare «uomini e donne chiamati ad assolvere una serie di compiti che rispecchiano il clima dei “tempi nuovi” e a mettere le proprie vite al servizio della “rivoluzione fascista”». È in questa fase storica che in manicomio finisce la «malacarne» che, «nella sua destinazione di genere», è composta da «quelle donne che si discostano dall’ideale fascista della sposa e madre esemplare e che con le loro condotte intemperanti, con le loro esuberanze, con la loro inadeguatezza fisica, rischiano di intaccare il patrimonio biologico e morale dello Stato».
Attorno a queste «anomalie della femminilità», ridotte dallo sguardo psichiatrico a semplici «corpi» che «non eseguono più i loro doveri e che si dimostrano incapaci di qualsiasi freno», il regime mussoliniano «intreccia discorsi diversi, attingendo in larga parte alle costruzioni culturali di matrice positivista intessute per conferire un’identità a quelle frange marginali che sono in antitesi con la parte sana della società».
Dalla consultazione della documentazione medica e della pubblicistica di regime «balza però agli occhi come i “discorsi” sulle donne diverse non siano una novità introdotta dal fascismo ma siano stati, semmai, ideologicamente utilizzati nel corso del Ventennio per delimitare la devianza femminile e contrapporre ad essa un’immagine pubblica di femminilità disposta ad assolvere compiti e doveri nell’interesse comune». Si tratta «di un’operazione di reinvenzione delle identità femminili».
Attuata dal regime «con la volontà esplicita di inserire anche le donne in un più ampio progetto di educazione spirituale e morale, al fine di trasformarle in cellule organicamente produttive, soggetti capaci di interagire armonicamente con l’apparato statale, fondendosi in esso come ingranaggi perfettamente sincronizzati». L’ospedale per «malati di mente», in uno scenario di questo tipo, «oltre a controllare e custodire l’anormalità, diventa», scrive Valeriano, «uno dei luoghi in cui attuare una politica di sorveglianza che annulla i diritti individuali in nome dell’ordine pubblico».
All’istituzione psichiatrica vengono consegnate «quelle donne che si rifiutano di conformare il proprio stile di vita agli ideali proposti dal fascismo e che, proprio per questa ragione, hanno bisogno di essere rieducate attraverso la disciplina manicomiale per riportare le loro condotte entro i recinti di una normalità biologicamente e socialmente costruita».
Lo stesso richiamo alla «normalità biologica» diventa essenziale all’interno della politica sanitaria che, già a partire dal 1927, si incardina sui temi della «difesa» e della «cura della razza» e si impegna per la «realizzazione di obiettivi di politica demografica attraverso l’allontanamento dalla società di coloro che, tarati sotto il profilo somatico e morale, non possono trovare altro spazio di accoglienza se non in luoghi - come i manicomi - deputati al trattamento dei comportamenti più turbolenti e al risanamento degli istinti deviati».
In questo sistema assistenziale, «riprogrammato sugli obiettivi di politica demografica», i manicomi «conoscono uno sviluppo sostanziale e registrano per tutto il Ventennio un aumento costante dei ricoverati, tanto che tra il 1927 e il 1941 i pazienti passano da circa sessantamila a quasi novantacinquemila unità». Tra le loro mura vengono rinchiuse «le madri inadeguate - che hanno ricusato un ruolo materno vissuto come costrittivo - oppure le ragazze ribelli, colpevoli di non saper controllare pulsioni sessuali, caratteri indomiti, e assimilate, in diversi casi, a vecchie figure patologiche come le isteriche di Charcot»; ma anche donne che oggi tutti sarebbero naturalmente portati a «tutelare», come «le vittime di violenza carnale o dei traumi di guerra».
Poi il fascismo cadde, ma il secondo dopoguerra fu, per la «malacarne», ugualmente terribile. Annacarla Valeriano riporta alla luce diversi casi inquietanti. Quello della giovane ricoverata dopo essersi ribellata allo zio e alla madre, con i quali aveva avuto dissidi e «litigi continui», finché il medico di famiglia l’aveva dichiarata «affetta da isterismo di alto grado».
La presa di coscienza avvenne solo negli anni Sessanta. Dapprima con un libro di Lieta Harrison, Le svergognate (Edizioni di Novissima). Poi con una serie di articoli di Angelo Del Boca, successivamente raccolti nel volume Manicomi come lager (Edizioni dell’Albero). In quegli stessi anni Sessanta il ministro socialista della Sanità, Luigi Mariotti, inizia una campagna di denuncia degli ospedali psichiatrici, divenuti, a suo dire, vere e proprie «bolge dantesche».
È incredibile, ma ancora cinquant’anni fa - come documenta ampiamente Pier Maria Furlan in Sbatti il matto in prima pagina. I giornali italiani e la questione psichiatrica prima della legge Basaglia (Donzelli) - i manicomi erano affollati da donne «sane trattate come pazze solo per punizione». Donne rinchiuse perché avevano palesato un «temperamento ostinato e ribelle», compiendo «fughe frequenti e immotivate da casa», cercando la compagnia di «uomini di qualunque ceto e condizione».
In alcuni casi erano accusate di essersi rese protagoniste di litigi «con la portiera e i vicini di casa». In altri di aver condotto «vita irregolare con spiccate tendenze erotiche e rifiuto di qualsiasi ordine o minima regola di vita». Talvolta di aver «tralasciato le preoccupazioni per la famiglia» e qualcuna di aver preferito spendere «sconsideratamente il denaro che il marito le affidava». Oppure di aver esibito, a detta dei parenti più stretti, un «comportamento inadeguato» e «abnorme in campo sessuale».
Qualcuna, anziché dedicarsi alle «faccende», aveva cominciato a «uscire molto spesso e a dimenticare l’ora del rientro a casa». Suo padre raccontava di aver fatto tutto il possibile «per frenarla, ma lei non voleva sentire niente, né consigli, né minacce». Per giunta aveva gettato l’ombra del disonore sulla famiglia «perché la si vedeva spesso coi giovanotti».
Un’altra era stata considerata affetta da «disturbi sotto forma di intolleranza alla disciplina familiare» che la portavano a compiere «conquiste amorose, fughe da casa».
Un’altra ancora era ripetutamente fuggita dalla famiglia e - a detta dei suoi parenti - aveva preso l’abitudine a «sperperare il proprio denaro regalandolo e facendo acquisti non necessari» (ma i medici avevano accertato che questa «alterazione psichica» si era manifestata dopo che era stata «ripetutamente percossa alla testa con un bastone dal proprio marito, riportando contusioni multiple al capo»). In qualche caso, dopo che il medico di famiglia aveva diagnosticato «isterismo di alto grado», gli psichiatri, avendo tenuto la paziente in osservazione per oltre un mese, l’avevano considerata «rassegnata per la sua sorte tragica», ma «perfettamente orientata e cosciente» e l’avevano restituita alla famiglia (uno zio che la maltrattava), specificando che non riconoscevano in lei «alcuna malattia mentale».
Questo genere di medici più scrupolosi erano, però, un’eccezione. Quasi sempre la diagnosi di «comportamento quanto mai strano e dovuto senza dubbio a squilibrio mentale» (o cose del genere) era sufficiente per rinchiudere molte di queste povere persone in pubblici lager per malate di mente. Sul finire degli anni Sessanta alcune giovani erano state ricoverate a forza con l’accusa di essersi allontanate da casa e dal lavoro «per unirsi con i capelloni» o perché erano andate «nelle bettole a fare l’amore».
Qualcosa del genere si prolungò ancora per anni e anni. Praticamente fino al 13 maggio del 1978, quando fu approvata la cosiddetta legge Basaglia. Incredibile.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO. -DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". - L’importanza della lezione dei "PROMESSI SPOSI", oggi.
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Storiografia in crisi d’identità ...
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
Violenza sulle donne: 84 vittime in 9 mesi. Boldrini: ’E’ uno sfregio a tutta la nostra comunità’
Gabrielli,calano reati spia, allarma sommerso
di Melania Di Giacomo *
Sono 84 gli omicidi di donne nei primi nove mesi del 2017, in calo rispetto ai 109 nello stesso periodo del 2016. Di questi 61 si sono verificati in ambito familiare, e 31 sono stati femminicidi, termine non giuridico ma di uso comune, che identifica l’omicidio di una donna da parte di un uomo come forma estrema di prevaricazione. Sono i dati aggiornati della Polizia sugli omicidi volontari, che non tengono ancora conto di quelli che si sono verificati negli ultimi due mesi. Secondo il rapporto Eures in 10 mesi sono state 114 le donne uccise.
Boldrini, sfregia tutta la nostra comunità - "Sbaglia chi pensa che la violenza sia una questione che riguarda esclusivamente le donne. No, riguarda tutto il Paese e sfregia la nostra comunità. Quindi, se su questo tema vogliamo fare sul serio, non può esserci solo la risposta delle vittime o delle altre donne, come in gran parte avviene ora: sono quasi sempre le donne a protestare, a ribellarsi, a promuovere mobilitazione". Lo dice la presidente della Camera Laura Boldrini all’evento ’In quanto donna’ nell’Aula di Montecitorio cui partecipano oltre 1.400 donne. "La metà delle donne che vengono uccise sul pianeta - sostiene - sono uccise per femminicidio. Sono uccise, cioè, in quanto donne e per mano di chi dovrebbe amarle. In Italia ne viene uccisa una ogni due giorni e mezzo. Lo dice l’Istat. Ed è un dato spaventoso".
"Il caso Weinstein ha scoperchiato la vergogna" delle molestie nel luogo di lavoro "in un mondo glamour e patinato come quello del cinema americano, provocando un terremoto in tanti altri ambiti della società. In Italia non ha avuto certo lo stesso effetto. Nel nostro Paese questo tema fatica ad affermarsi. Mi farebbe piacere se ciò accadesse perché non ci sono molestatori, ma ho paura che non sia così". "La verità - rileva Boldrini - è che le donne tendono a non denunciare le molestie, e purtroppo in molti casi nemmeno le violenze e gli stupri, perché temono di non essere credute, temono di perdere il lavoro. Perché sanno che in questo Paese persiste un forte pregiudizio contro di loro, quasi che debbano giustificarsi di aver denunciato. Ma è il momento di non stare più zitte", dice Boldrini. "Siamo la maggioranza, non una sparuta minoranza. E sappiamo farci sentire! Sappiamo trovare la forza di rialzarci e parlare pubblicamente delle violenze subite. E il Paese non può ignorarci più", conclude.
E le cronache dicono che le donne uccise sono tre solo negli ultimi giorni: Maddalena Favole, 84 anni, uccisa domenica dal figlio in provincia di Cuneo; Anna Lisa Cacciari trovata morta lunedì nella sua cosa a Bubrio e Marilena Negri, la 67enne, accoltellata ieri al parco Milano. Le cifre degli ultimi 10 anni, dicono che gli omicidi volontari diminuiscono nel nostro Paese, ma non quelli in cui la vittima è donna, che erano, infatti, 150 nel 2007 e 149 nel 2016. Di conseguenza è aumentata la percentuale rispetto al totale, dal 24% degli omicidi nel 2007, al ben più grave 37% nel 2016. Il 73% avvengono tra le mura di casa e nel 56% dei casi l’assassino è il partner o l’ex partner. Ci sono poi quelli che le forze dell’ordine chiamano ’reati spia’: stalking, maltrattamenti in famiglia e violenze sessuali. Tutti in calo quest’anno. Le denunce per stalking sono state 8.480 tra gennaio e settembre 2017, in calo del 15,76% rispetto alle 10.067 nello stesso periodo del 2016; i maltrattamenti in famiglia sono stati 9.818 a fronte di 10.876 nello stesso periodo del 2016; le violenze sessuali (di cui oltre il 90% su donne) 3.059 a fronte di 3.095 nello stesso periodo del 2106 (- 1,16 %).
Secondo la Polizia, questi reati sono "indici importanti di un rapporto uomo-donna malato, che può pericolosamente degenerare". Sono tutti in leggera flessione, ma i dati però vanno letti con attenzione: da un lato possono essere un segnale positivo nella lotta alle discriminazioni di genere, ma dall’altro, la riduzione delle denunce, può nascondere un sommerso di paura e solitudine. Un aspetto messo in rilievo dal Capo della Polizia, Franco Gabrielli che parla di un "numero oscuro" di chi non denuncia perché pensa ai figli, alle conseguenze, alla vergogna: "Noi forze di polizia interveniamo quando il male è acuto e si manifesta. Ma questo genere di reati, che sono in fondo dei crimini contro l’umanità prima ancora che con la repressione deve essere affrontato con la prevenzione". La prevenzione si fa con l’informazione e con le politiche sociali.
Per oggi, quando in tutto il mondo si celebra la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, indetta dall’Onu nel 1999, sono numerose le iniziative in tutte le città.
A Roma si tiene la manifestazione nazionale ’Non Una di Meno’, le cui organizzatrici propongono un piano per un "cambiamento strutturale" nel mondo della scuola, nella sanità, nel lavoro, nella giustizia e nei media. Montecitorio sarà aperto solo a visitatrici, per l’evento "#InQuantoDonna", voluto dalla presidente Laura Boldrini. E in tutta Italia la Marina Militare illuminerà di arancione i suoi palazzi storici e monumenti.
"L’Italia civile si unisce per dire basta alla vergogna della violenza sulle donne", ha scritto su Twitter il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, che accompagna al messaggio l’hashtag #giornatacontrolaviolenzasulledonne.
* ANSA, 25 novembre 2017 (ripresa paziale).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". Dalla democrazia della "volontà generale" alla democrazia della "volontà di genere". L’importanza della lezione dei "PROMESSI SPOSI", oggi.
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
Il filosofo Semen.
Tutta la verità sull’amore secondo Wojtyla
Il filosofo francese Yves Semen spiega la teologia di Giovanni Paolo II su sessualità e matrimonio: «Le sue catechesi sono armi della luce per contrastare oggi l’ideologia del gender»
di Antonio Giuliano (Avvemire, martedì 7 novembre 2017)
Chiamatela pure “teologia del sesso”. Nessuna reticenza, nessun imbarazzo. L’ha definita proprio così il suo autore, un papa, un santo della Chiesa. La “scandalosa” Teologia del corpo di san Giovanni Paolo II è un tesoro prezioso che pur affermando verità scomode non ha alcuna soggezione nei confronti della cultura dominante. Sono ben 129 discorsi sull’amore umano che il pontefice polacco pronunciò nelle sue udienze del mercoledì dal 1979 al 1984. Una raccolta che spiazza ancora oggi come testimonia da anni un laico francese, il filosofo Yves Semen, presidente- fondatore dell’Istituto di Teologia del corpo a Lione e professore presso la Libera Facoltà di Filosofia a Parigi.
Appassionato e competente divulgatore delle lezioni di Karol Wojtyla, Semen ha curato ora un nuovo Compendio della teologia del corpo di Giovanni Paolo II (Ares, pagine 216, euro 15). Oltre a rivedere la traduzione dei testi, lo studioso ha tenuto conto del manoscritti originali di queste catechesi redatte in polacco ben prima dell’elezione al soglio pontificio. Non è dunque casuale che Wojtyla più che la sua firma personale abbia voluto mettere quella da pontefice: «Si tratta del più vasto insegnamento mai proposto da un Papa su uno stesso argomento ed è significativo che abbia voluto presentarlo all’inizio del suo pontificato come a farne il pilastro di tutto il suo magistero». A corredo del compendio, Semen inserisce anche un utile glossario che riprende parole e concetti dirompenti, come “godimento”: «Nella Teologia del corpo il piacere legato al godimento è talvolta considerato in senso positivo in quanto piacere erotico nobile conforme al disegno divino sulla sessualità umana, talvolta in senso negativo quando è ricercato per sé stesso e mediante l’uso e la strumentalizzazione dell’altra persona a servizio di un piacere egocentrico». Un manuale controcorrente che, smentendo i soliti pregiudizi, esalta il corpo e la sessualità umana, mettendo in luce un desiderio di infinito che nessun “consumo” o possesso può appagare.
George Weigel, biografo di Giovanni Paolo II, l’ha definita «una sorta di bomba ad orologeria teologica». Ma i cattolici hanno compreso la Teologia del corpo?
«Solo da qualche anno sono stati pubblicati libri di buona divulgazione e iniziative per farla conoscere. Adesso si stanno per diffondere anche all’estero i Forum Wahou (www.forumwahou. fr) che dal 2015 in Francia hanno già radunato migliaia di persone: nel corso di un week end la gente scopre la grandezza e la bellezza dell’amore nel piano divino. L’Istituto che presiedo dal 2014 ha già formato più di 120 persone in grado di insegnare questa teologia. Formiamo anche i genitori perché a loro spetta la responsabilità primaria dell’educazione sessuale dei ragazzi. Il successo che stiamo riscontrando, è il segno che qualcosa di nuovo sta nascendo nella Chiesa».
Difensore energico dell’Humanae vitae, Giovanni Paolo II ha detto che: «La prima, ed in certo senso la più grave difficoltà è che anche nella comunità cristiana si sono sentite e si sentono voci che mettono in dubbio la verità stessa dell’insegnamento della Chiesa». Crede che un giorno la Chiesa possa rivedere il magistero di Wojtyla?
«Non è la Chiesa che può cambiare la Teologia del Corpo ma è la Teologia del corpo che può cambiare la Chiesa! Bisogna lavorare alla sua larga e fedele diffusione perché la visione della persona e dell’amore che promuove è liberatrice e permette di comprendere la dimensione “profetica e sempre attuale” dell’ Humanae vitae, per usare le parole di Benedetto XVI».
La società oggi dà al “corpo” un significato diverso da quello di Giovanni Paolo II che risale al principio, all’uomo creato a immagine di Dio.
«La cultura contemporanea ha reso il corpo un materiale privo di senso che può essere manipolato in tanti modi. Fino alle affermazioni deliranti del transumanesimo. Per Wojtyla invece il corpo è stato fatto per realizzarsi nel dono di sé e per rivelare il divino: “Il corpo, e soltanto esso, è capace di rendere visibile ciò che è invisibile: lo spirituale e il divino. Esso è stato creato per trasferire nella realtà visibile del mondo il mistero nascosto dall’eternità in Dio, e così esserne segno”».
La Teologia del corpo insiste tanto sulla persona creata maschio e femmina. Un ammonimento profetico contro la diffusione del gender che oggi vuole annullare le differenze sessuali.
«Sì è una teologia della mascolinità e della femminilità che dimostra come il sesso non sia un semplice attributo, ma un dato fondamentale antropologico che qualifica la persona. È in questo senso che il cardinale Ouellet disse che la teologia di Giovanni Paolo II è l’unico vero “antidoto” all’ideologia del gender. Le catechesi di Wojtyla sono armi della luce per affrontare la corruzione antropologica del gender».
Niente contraccettivi, niente rapporti prematrimoniali... Spesso la Chiesa è stata accusata di dire sempre di “no”.
«Ma la Chiesa dice “sì”. Sì alla verità dell’amore come dono di sé. Sì alla verità del corpo fatto per essere donato. Sì alla nobiltà e alla dignità della sessualità. Sì alla grandezza del dono della vita. Sì al matrimonio come vocazione autentica alla santità. Sì al celibato offerto come annuncio profetico del Regno».
Perché i metodi naturali, che non sono contraccettivi, sono ancora poco conosciuti?
«Non se ne parla abbastanza, sebbene essi permettono di esercitare una maternità e una paternità realmente responsabili nel rispetto dell’integrità del corpo della donna. Molti però lo stanno comprendendo: in Francia, in dieci anni, la percentuale di donne che utilizzano la pillola è scesa dal 46% al 33%».
La teologia del corpo riprende un passo del Discorso della Montagna che Wojtyla stesso ammoniva dal considerarlo solo un divieto, ma come chiave per uno sguardo puro che ci permetterà un giorno di godere in anima e corpo il “sommo piacere” della visione di Dio.
«Quando Gesù dice: “Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore” rivolge un appello al cuore dell’uomo, a non farsi dominare dalla concupiscenza che mira ad usare l’altro e a considerarlo oggetto di godimento e possesso. Ecco perché Giovanni Paolo II non ha esitato a affermare che uno può essere adultero anche con la propria moglie se la considera come oggetto per appagare il proprio istinto sessuale. Quando gli è stato obiettato che era “troppo esigente”, ha semplicemente risposto: “Non sono io che sono esigente, è Cristo”».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
Federico La Sala
AL DI LA’ DELL’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE (E DEL FIGLIO), DONNE E UOMINI, CITTADINE-SOVRANE E CITTADINI-SOVRANI. Il "romanzo familiare" edipico della chiesa e della cultura cattolico-romana è finito... *
Libere di scegliere sul nostro corpo: sit-in in varie città e corteo a Roma
Non Una di Meno. Giornata mondiale per l’aborto libero e sicuro, nella capitale manifestazione anche contro le ricette antistupro che colpevolizzano donne e migranti
di Rachele Gonnelli (il manifesto, 29.09.2017)
A Roma il comitato della rete Non Una di Meno ha organizzato, oltre a un presidio in mattinata davanti al Policlinico Umberto I - sempre contro i troppi ginecologi obiettori e per l’utilizzo della pillola abortiva Ru486 - anche un corteo. O meglio, un sit-in in piazza dell’Esquilino che in serata si è trasformato in un piccolo corteo - tollerato dalla polizia - fino a piazza Vittorio.
CARTELLI E TAMBURI hanno accompagnato la manifestazione romana che, oltre alla libertà di scelta per quanto riguarda l’interruzione volontaria di gravidanza, si è caratterizzata per una rivendicazione più a tutto tondo sul corpo delle donne. E quindi «contro tutte le risposte securitarie che a Roma ci vogliono propinare dalle varie autorità come soluzioni antistupro», spiega Sara, dai militari a cavallo nei parchi, al vademecum pubblicato dal quotidiano il Messaggero, contro il quale c’è già stato un sit-in di protesta specifico la scorsa settimana. «Vogliono colpevolizzare le donne per come si vestono e gli immigrati - spiega ancora Sara - nascondendo che l’80 per cento delle violenze sessuali accadono tra le mura domestiche».
LE FEMMINISTE ROMANE non ci stanno e insistono a dire, dal camion-palco della manifestazione, negli slogan gridati e sui cartelli che «le strade sicure le fanno le donne che le attraversano», contro tutti quelli che vorrebbero invece rinchiuderle in casa o messe sotto scorta e sotto tutela. E infatti scrivono anche «Le strade libere non le fanno i militari, i taxi o i lampioni», e anche, con evidente riferimento ai carabinieri di Firenze: «Dopo una sbronza mi aspetto un mal di testa non uno stupro».
SUI SAMPIETRINI dietro la Basilica di Santa Maria Maggiore le ragazze più giovani sono le più diffidenti con i giornalisti, temono di essere strumentalizzate. Ma un grappolo di studentesse del liceo Tasso accetta di parlare, collettivamente e senza nomi. Hanno 17 anni, al quarto anno, di varie sezioni, e non si sono riunite in collettivo o in assemblea «perché nel nostro liceo non è molto possibile», dicono. Hanno iniziato a parlare tra loro a partire dalle lezioni di un comune professore di filosofia. «Dice di essere dalla nostra parte - spiegano - ma in realtà molte sue lezioni sono solo propaganda di un maschilismo soft, ci dice di non girare di notte con le gambe nude, perché altrimenti “ve la siete cercata”, per lui niente cambierà mai, il femminismo è solo speculare al maschilismo, che invece è sbagliatissimo, e certi ruoli sono cementati dalla tradizione, per cui immutabili. Alla fine non fa che dare spazio a discorsi razzisti sugli immigrati e non dice i dati veri, siamo dovute andarli a cercare ma neanche i giornali li chiariscono».
È GIOIOSO il corteo romano e mescolati tra le tante donne ci sono anche uomini, di varia età. «Se ce ne sono di più è perché le nostre donne stanno facendo un percorso anche con loro, e questo è un successo», sostiene Simona di Non Una di Meno. Ma le ragazze del Tasso sostengono che «sono le donne che dovrebbero essere più partecipi su ciò che le riguarda direttamente».
NON SI VEDONO INVECE cartelli del tipo «la 194 non si tocca», che invece contrassegnavano i presidi davanti agli ospedali pugliesi, dove l’obiezione di coscienza nei reparti Ivg raggiunge punte dell’89 per cento. Non che nel Lazio la situazione sia tanto migliore: al Policlinico a fare gli aborti ci sono solo medici assunti a tempo determinato. E anche le sale parto sono insufficienti.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO".
LA COMPETENZA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA DEL VATICANO E’ "PREISTORICA" E "MAMMONICA". Il "romanzo familiare" edipico della chiesa e della cultura cattolico-romana è finito
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. Una nota di Eleonora Cirant (e altri materiali).
Federico la Sala
FILOLOGIA E FILOSOFIA/TEOLOGIA. AMORE, RESPONSABILITÀ, E SESSUALITÀ... *
IN MEMORIA DI SANT’AGOSTINO (E IN ONORE DEL LAVORO DELLA FONDAZIONE "TERRA D’OTRANTO").
Lode a Marcello Gaballo per questa bellissima e preziosa nota su "L’affresco di sant’Agostino nella cattedrale di Nardò" (cfr.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/08/28/laffresco-di-santagostino-nella-cattedrale-di-nardo/#_ftn1) - e il lavoro di De Giorgi: la sua trascrizione della scritta sul cartiglio (ormai scomparsa) "iuste/et cas/te viv/ere et/ xarita(te)" - contrariamente alla protervia che ha portato allo "sproposito maiuscolo" e alla brutta abitudine instauratasi almeno a partire da Ludovico A, Muratori di una "caritas" latina! - conserva ancora la memoria del legame della tradizione dell’evangelo (non: "vangelo"!) con la lingua greca ("charis", "charites"... "charitas").
FILOLOGIA E FILOSOFIA/TEOLOGIA. Giambattista Vico ("De constantia iurisprudentis", 1721) giustamente e correttamente e onestamente così pensava e scriveva: "Solo la carità cristiana insegna la prassi del Bene metafisico"("Boni metaphysici praxim una charitas christiana docet"). Sapeva che Gesù ("Christo") aveva cacciato i mercanti FUORI dal tempio, e non aveva autorizzato i sacerdoti a vendere a "caro-prezzo" (lat.: "caritas") la "grazia" (gr.: "Xapis", lat.: "Charis") di Dio (lat.: "Charitas")!!! Due padroni: Dio "Charitas" o dio "Caritas"?!, Dio Amore o dio Mammona?! In questo bivio ("X") ancora siamo, oggi - e ancora non sappiamo sciogliere l’incognita (""x")!
Sul tema, mi sia consentito, si cfr. la seguente nota:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO": LA LEZIONE DI VICO. Un breve testo dalla "Prefazione ai lettori" del "Trattato sulla carità cristiana" di Ludovico A. Muratori.
MURATORI E RATZINGER. "DEUS CARITAS EST": FINE DEL CRISTIANESIMO. TOLTA AL PESCE ("I.CH.TH.U.S.") L’ ACCA ("H"), IL COLPO ("ICTUS") E’ DEFINITIVO!!!
ALLA LUCE DEL lavoro di ARMANDO POLITO e MARCELLO GABALLO SU "SANTA MARIA DI CASOLE E LE SUE SIBILLE" (cfr.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/24/santa-maria-casole-copertino-le-sue-sibille/), all’affresco di Sant’Agostino (databile forse più precisamente nella seconda metà del sec. XV), mi augurerei una rinnovata e maggiore attenzione non solo a tutta la figura dell’affresco ma, in particolare, all’immagine del bastone-pastorale con i suoi DUE SERPENTI. Essa richiama, con chiarezza, non solo la figura di Mosè ma anche e soprattutto la figura di ERMETE TRISMEGISTO con il suo caducèo (e, con essa, della Sibilla Pizia, di Apollo, e di Delfi).
L’affresco di Sant’Agostino nella cattedrale di Nardò, a mio parere, è un luminosissimo segno "manifesto" della diffusione della concezione umanistico-rinascimentale nella Terra d’Otranto e, insieme, del grande lavoro che porterà infine la Chiesa e Michelangelo a celebrare le Sibille (5) insieme ai Profeti (7) nella Volta della Cappella Sistina: ovvero, dice chiaramente del ruolo "giocato" dalla figura di Agostino nella costruzione dell’ orizzonte ecumenico umanistico e rinascimentale.
Sul tema, si cfr., unitamente al già citato lavoro di A. Polito e M. Gaballo, la mia nota sul
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
NEL LIBRO DI Marcello Gaballo e Armando Polito, "Santa Maria di Casole a Copertino (Lecce) ed altri repertori di Sibille" (Fondazione Terra d’Otranto 2017), è ripreso l’intero capitolo 23 del Libro XVIII del "De civitate Dei" (per eventuali approfondimenti, si cfr. sant’Agostino, "La città di Dio": http://www.augustinus.it/italiano/cdd/index2.htm)
PER MEGLIO CAPIRE il filo che lega l’ecumenismo umanistico-rinascimentale (Niccolò Cusano, "La pace della fede", 1453) con l’ecumenismo del presente attuale (nuovo Concilio di Nicea, 2025) e, insieme, la portata simbolica del particolare PASTORALE di sant’Agostino nell’affresco della Cattedrale di Nardò, mi sia consentito rinviare all’immagine del pastorale del Patriarca di Costantinopoli e all’intervista relativa all’ INCONTRO DI PAPA FRANCESCO E BARTOLOMEO I A ISTANBUL (cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5791).
Federico La Sala
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Amore e responsabilità (Karol J. Wojtyla) - e "caritas" (J. Ratzinger) !!! Fonti cattoliche a confronto...
MA NON E’ POSSIBILE FARE CHIAREZZA? SI TRATTA DELLA PAROLA FONDANTE E DISTINTIVA DELLA FEDE CRISTIANA!!! DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?!
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
Chi ha paura di Jorge Mario Bergoglio
di Riccardo Cristiano (Articolo 21, 1 settembre 2017)
Le anticipazioni di un libro intervista che contiene la trascrizione di dodici dialoghi con il sociologo Dominique Wolton (titolo: “Politique et sociétéˮ, edizioni L’Observatoire) riferiscono che Papa Francesco ha detto di essere andato per alcuni mesi da una psicanalista. In queste ore non sono pochi i giornali che riferiscono le condanne preconciliari della psicanalisi. Forse è il bisogno di trovare qualcosa di “inaudito” in quanto ha detto Bergoglio. Eppure a partire da Pio XII, passando attraverso gli apprezzamenti positivi del Vaticano II nei confronti della psicologia del profondo, si è giunti al riconoscimento di Paolo VI - nella Sacerdotalis coelibatus (1967) - della possibile necessità di un aiuto psicanalitico per i sacerdoti in difficoltà. Questa evoluzione è stata facilitata da una schiera di psicoanalisti dichiaratamente cattolici.
C’è un saggio, ad esempio, del professor Bresciani sul debito della Chiesa verso la psicoanalisi e Sigmund Freud nel quale possiamo leggere: “Freud, nonostante proponesse una vera e propria antropologia, militava decisamente per l’alleanza terapeutica con il malato; mettendosi a livello del sofferente si prestava ad un ascolto profondo e ad una partecipazione alla sua vita emotiva. [Un studio del professor] Ancona vede qui un Freud vicino alla pedagogia cristiana più di quanto egli stesso pensasse. Il suo ideale di uomo come colui che è capace di «amare e lavorare», la sua posizione sulla possibilità di sublimazione della sessualità, la conclusione della sua opera di ricerca con l’affermazione che la coscienza «resta la sola luce che nelle tenebre della vita psichica ci illumina e ci guida», erano posizioni passibili di sviluppi meno conflittuali.”
Passa in ombra così l’usuale coraggio di Jorge Mario Bergoglio, che anche in questa “confessione” di essere andato per sei mesi da una psicanalista ebrea, che lo ha molto aiutato, sembra stare in questo: anch’io sono un uomo, e tutti gli uomini hanno bisogno di aiuto. Lo dice lui, noi lo diciamo molto più difficilmente. -L’epoca buia dello scontro tra religione e psicanalisi è andata in soffitta da tempo. Ma siccome siamo in un’epoca che si fa nuovamente buia, intrisa di odio per l’altro, di pregiudizio, fondamentalmente di paura, sono moltissime le affermazioni fatte da Papa Francesco che colpiscono. E che per leggere bene dovremmo avere il suo stesso coraggio, cioè quello di toglierci il paraocchi e leggere per quel che sono. Un invito ad andare oltre gli steccati di oggi, oltre quei confini che ci chiudono in ghetti tanti asfittici quanto rassicuranti.
Leggiamo alcuni altri passaggi fondamentali delle sue riflessioni, partendo dall’ Africa e i migranti.
“[...]L’Europa ha sfruttato l’Africa ... non so se possiamo dirlo! Ma alcune colonizzazioni europee... sì, hanno sfruttato. Ho letto che un capo di stato africano appena eletto come primo atto di governo ha presentato al Parlamento una legge per il rimboschimento del suo paese - ed è stata promulgata. Le potenze economiche del mondo avevano tagliato tutti gli alberi. Rimboschire. La terra è secca per essere stata sfruttata e non c’è più lavoro. La prima cosa da fare, come ho detto alle Nazioni Unite, al Consiglio d’Europa in tutto il mondo, è trovare qui fonti per creare di posti di lavoro, investire. È vero che l’Europa deve investire anche a casa propria. Anche qui esiste un problema di disoccupazione. L’altro motivo per la migrazione è la guerra. Possiamo investire, le persone avranno una fonte di lavoro e non dovranno partire, ma se c’è guerra, dovranno ancora fuggire. Ora chi fa la guerra? Chi dà le armi? Noi.”
Per un uomo come Papa Francesco generalizzare è sempre difficile, ma se proprio deve farlo non generalizza sulle “razze”, ma sulle azioni degli Stati e le loro conseguenze. Per condannare? No, per esortare a invertire tendenza, a non cercare scorciatoie, a non vedere nelle vittime degli esseri inferiori, ma delle vittime.
Passiamo a Laicità e religioni. “Lo stato laico è una cosa sana. C’è una laicità sana. [...] Credo che la Francia - questo è il mio parere personale, non quello ufficiale della Chiesa - dovrebbe “elevareˮ un po’ il livello della laicità, nel senso che deve dire che anche le religioni sono parte della cultura. Come esprimerlo in modo laico? Attraverso l’apertura alla trascendenza. Ognuno può trovare la sua forma di apertura.” Come si vede, come si legge, qui non c’è una pretesa di superiorità del credente, ma la rivendicazione della spiritualità dell’uomo, del suo bisogno “naturale” di trascendenza.
Quarto punto, l’Europa. “Non vedo più Schumann, non vedo più Adenauer... L’Europa, in questo momento, ha paura. Chiude, chiude, chiude... L’Europa ha una storia di integrazione culturale, multiculturale come dice lei, molto forte. I Longobardi, i nostri Longobardi oggi, sono barbari che sono arrivati molto tempo fa... E poi tutto si fonde e abbiamo la nostra cultura. Ma qual è la cultura europea? Come definirei oggi la cultura europea? Sì, ha importanti radici cristiane, è vero. Ma non è sufficiente per definirla. Ci sono tutte le nostre capacità. Queste capacità per integrarsi, per ricevere gli altri. C’è anche la lingua nella cultura. Nella nostra lingua spagnola, il 40% delle parole è arabo. Perché? Perché erano lì per sette secoli. E hanno lasciato il segno... Credo che l’Europa abbia delle radici cristiane, ma non sono le uniche. Ci sono altre che non possono essere negati. Tuttavia, credo che sia stato un errore non citare le “radici cristianeˮ nel documento dell’Unione europea sulla prima Costituzione, e questo è stato anche commesso dai governi. Era un errore non vedere la realtà. Questo non significa che l’Europa debba essere interamente cristiana. Ma è un patrimonio, un patrimonio culturale, che abbiamo ricevuto.”
C’è qualcosa di enorme in queste parole, in questa capacità di ricordarci che quel che è stato vero ieri è vero anche oggi. Non esiste purezza, esiste contaminazione. La purezza è delle pietre, la contaminazione è della vita. Anche se non vogliamo più capirlo qualcuno, per fortuna, ce lo ripete.
L’insistenza sulla morale «sotto la cintura». “Ma noi cattolici, come insegniamo la moralità? Non puoi insegnarla con precetti del tipo: “Non puoi farlo, devi farlo, devi, non devi, puoi, non puoiˮ. La morale è una conseguenza dell’incontro con Gesù Cristo. È una conseguenza della fede, per noi cattolici. E per altri, la moralità è una conseguenza dell’incontro con un ideale, o con Dio, o con se stessi, ma con la parte migliore di se stessi. La morale è sempre una conseguenza... C’è un grande pericolo per i predicatori, quello di cadere nella mediocrità. Condannare solo la morale - la prego di perdonare l’espressione - “sotto la cinturaˮ. Ma degli altri peccati, quali l’odio, l’invidia, l’orgoglio, la vanità, l’uccisione dell’altro, prendere la vita, non se ne parla. Entrare nella mafia, fare accordi clandestini...”
Il Vaticano, se posso dir così, è apparso a lungo strabico: l’etica vista dalla Città del Vaticano sembrava riguardare l’inizio e la fine della vita, la morale limitata alla sfera sessuale... Ora l’etica torna a riguardare tutta la vita, dal momento in cui si concepisce a quando si muore, passando però per tutti i momenti della nostra esistenza: da quando sfruttiamo a quando veniamo sfruttati, da quando siamo vittime a quando facciamo nostra vittima un altro. Poco?
Amoris laetitia e rigidità. “La tentazione è sempre quella dell’uniformità delle regole... Prenda ad esempio l’esortazione apostolica Amoris laetitia. Quando parlo di famiglie in difficoltà, dico: “Dobbiamo accogliere, accompagnare, discernere, integrare...ˮ e poi ciascuno vedrà le porte aperte. Quello che sta realmente accadendo è che le persone sentono dire la gente: “Non possono fare la comunione”, “Non possono farlo”: la tentazione della Chiesa è lì. Ma “noˮ, “noˮ e “noˮ!”
Papa Francesco parla di uniformità delle regole, si potrebbe dire che allora la sua Chiesa non si pensa un giudice eterno ed esterno alla storia. Poco?
«L’aborto rimane un peccato grave». “ L’estensione del potere di assolvere il peccato dell’aborto a tutti i sacerdoti, «attenzione, questo non significa banalizzare l’aborto. L’aborto è grave, è un peccato grave. È l’omicidio di un innocente. Ma se c’è peccato, è necessario facilitare il perdono.” Un papa non poteva fare un esempio più rilevante e drammatico per indicare la portata rivoluzionaria della misericordia. Che non è “cancellare il peccato”, ma rigenerare la vita del peccatore. La misericordia così appare la vera cultura alternativa all’odio e, quindi, al terrorismo.
Reciprocità con i musulmani. “Non accettano il principio della reciprocità. Alcuni paesi del Golfo sono aperti e ci aiutano a costruire chiese. Perché sono aperti? Perché hanno lavoratori filippini, cattolici, indiani... Il problema in Arabia Saudita è che è davvero una questione di mentalità. Con l’Islam, comunque, il dialogo sta andando bene, perché non so se lo sa, ma l’Imam di Al-Azhar è venuto a trovarmi. E ci sarà incontro: vado. Penso che farebbe bene a loro fare uno studio critico sul Corano, come abbiamo fatto con le nostre Scritture. Il metodo storico e critico di interpretazione li farà evolvere.”
E’ questo il punto per me più importante, più forte. Senza nessuna pretesa di superiorità, né religiosa né culturale, Bergoglio indica la strada della salvezza dell’islam, in una parola: ermeneutica. Non esita a far presente ai suoi interlocutori il punto decisivo, il punto “critico”, ma lo fa per il bene dell’islam, dei musulmani. E questo, francamente, è commovente.
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SUL TEMA, BEL SITO, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
EUROPA ED EVANGELO. LA ’CROCE’ DI CRISTO ("X" = lettera alfabeto greco) NON HA NIENTE A CHE FARE CON IL "CROCIFISSO" DELLA TRADIZIONE COSTANTINIANA E CATTOLICO-ROMANA.
Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è morto.
INDIETRO NON SI TORNA: GIOVANNI PAOLO II, L’ULTIMO PAPA. PER IL DIALOGO A TUTTI I LIVELLI: UT UNUM SINT.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
Federico La Sala
LA CHIESA ANGLICANA SORPASSA LA CHIESA "CATTOLICA". Il cattolicismo "andropologico" romano è finito:
Antonio (non più don) Potenza si è sposato a Westminster
di Alessio Porcu - 8 luglio 2017
Togliamoci subito di mezzo la notizia di gossip. Antonio (non più don) Potenza si è sposato. L’ex segretario del chiacchierato 191mo abate di Montecassino Pietro Vittorelli si è unito in matrimonio con Celeste, la ragazza di Cassino che aveva conosciuto nell’archivio del museo dell’abazia. E per la quale ha lasciato: la tonaca di benedettino, la carica di segretario dell’abate, nonché la carriera spianata verso i vertici dell’Ordine.
Il matrimonio è stato celebrato nel pomeriggio all’interno della cattedrale di Westminster a Londra, direttamente dal dean John Hall che è il decano di Westminster. Il rito è stato quello anglicano. Officiato in un giorno particolare: quello del compleanno della sposa. Tra le foto è possibile riconoscere con sicurezza l’assessore comunale e già cerimoniere abbaziale Benedetto Leone nonché l’avvocato Gianrico Ranaldi. Sono seduti l’uno accanto all’altro nell’immagine che li vede nel chiostro di Westminster Abbey durante il concerto per violino che si è tenuto al termine della cerimonia religiosa.
Puntare sul pettegolezzo, di fronte ad una notizia così sarebbe un grave limite.
Perché Antonio (non più don) Potenza poteva convolare a nozze ovunque gli fosse garbato. Ma farlo a Westminster ha un significato molto profondo e particolare. Il suo matrimonio rappresenta un segnale forte alla Chiesa di Roma ed a Papa Francesco. E’ un messaggio con il quale sollecitare a rimettere nell’agenda il tema del celibato dei preti.
Non è un caso che il rito sia stato celebrato dal dean John Hall: non è solo il decano di Westminster. In quanto tale, è anche il capo del capitolo dell’abbazia. Che è prelatura personale della Corona. Quindi il dean risponde direttamente alla Regina (che è il capo della Chiesa anglicana) non al Vescovo di Londra come ordinario, né all’arcivescovo di Canterbury come metropolita. L’abate Pietro Vittorelli ed il suo segretario Antonio Potenza avevano lavorato molto sui rapporti tra Chiesa di Roma e Anglicani. Avevano cercato di favorire il dialogo ecumenico. Più volte erano stati a Londra ed avevano ospitato a Montecassino i vertici della chiesa di Sua Maestà.
Antonio Potenza in questo momento è formalmente un exclaustrato. E’ cioè un monaco che non conduce più vita monastica ed ha lasciato l’ordine. L’iter lo aveva avviato a gennaio 2016, presentando la domanda e trasferendosi quasi subito a Londra. Ma avendo preso i voti monastici resta sempre un consacrato: il sacramento è per sempre e in nessun modo può essere tolto.
Il suo matrimonio celebrato a Westminster può essere un modo per tentare di accelerare i meccanismi di dialogo che in qualche modo erano stati attivati proprio dai due vertici dell’abazia di Montecassino negli anni scorsi.
«E’ la visione di una Chiesa pre Tridentina - analizza il filosofo Biagio Cacciola - in quanto a quel tempo era prevista la possibilità dell’unione matrimoniale pur conservando il sacerdozio. Soltanto dopo il secolo XI con papa Gregorio VII, Ildebrando di Soana, ci fu il radicamento del celibato. Che era però legato soprattutto ad una questione di convenienza. Infatti, il papato era egemone sotto il profilo territoriale ed avere figli, essendo sacerdoti, avrebbe tolto alla Chiesa strutture e terreni»
Il tema è aperto. In Puglia esiste una diocesi di rito Bizantino Orientale che è incardinata nella Chiesa di Roma. Non è di rito Ortodosso. E prevede l’istituto dell’uxoriato cioè i sacerdoti sono sposati.
Quel matrimonio, celebrato a Westminster, paradossalmente è anche una risposta ai preti sposati anglicani passati al Cattolicesimo, motivo di attrito tra Chiesa Anglicana e Cattolica, cinque anni fa.
In questo periodo Antonio (non più don) Potenza lavora per anglicani in una delle loro strutture di Londra. Alcuni sostengono trattarsi di un hotel nel cuore della City. Formalmente, potrebbe rivendicare il titolo di don. Ma per ora, tolti i formalismi farisaici, per i fedeli di Roma non lo è. Le prossime settimane, con i successivi passi, diranno come stanno le cose.
L’ITALIA, LA CHIESA CATTOLICA, I "TESTICOLI" DELLE DONNE E LA "COGLIONERIA" DEGLI UOMINI OVVERO ANCHE LE DONNE HANNO LE "PALLE". L’ammissione di Giovanni Valverde, del 1560!!!:
Lettere
Quanto è atavica la mentalità maschile
La donna che non genera è esposta a un dubbio logorante.
Ed è guardata ancora con sospetto
Risponde Umberto Galimberti *
Alla parità tra maschi e femmine non si arriverà mai, perché, non essendo in grado di generare, i maschi capiscono del mondo femminile unicamente quello che loro ritengono sia proprio della donna, e precisamente ciò che per natura a loro non è concesso. Svincolati dai ritmi della natura, i maschi, per occupare il tempo e non morire d’inedia nell’ozio, hanno inventato la storia, e in questa storia hanno inserito la donna come generatrice, madre dei loro figli, prostituta per le loro soddisfazioni sessuali e, a sentire Lévi-Strauss, il più grande antropologo del ’900, come merce di scambio nei loro traffici.
Un altro antropologo, Bronislaw Malinowski, riferisce che gli abitanti delle numerose tribù da lui visitate ignoravano il ruolo maschile nella generazione, e pur tuttavia, le donne da lui interrogate, rispondevano che tutti i figli assomigliano al padre, mentre la madre, genitrice riconosciuta dai suoi figli, non ha con essi alcuna somiglianza. La coppia parentale, "paritetica" nella riproduzione sessuale, diventa "gerarchica" nella rappresentazione sociale. A questo schema non sfugge neppure Aristotele per il quale "la femmina offre la materia e il maschio la forma", e neanche il mito cristiano di Maria Vergine, che con il suo corpo mette al mondo il figlio di Dio che di sé dice: "Io e il Padre siamo una sola cosa" (Gv. 10,30).
Questo impianto ideologico, che affonda negli abissi del tempo e della storia, governa ancora la mentalità maschile, che da qui prende spunto per esercitare il suo potere sul mondo femminile ridotto al rango di "materia", a proposito della quale Aristotele scrive: "La femmina desidera il maschio come la materia desidera la forma, il brutto desidera il bello".
A questo punto il dominio dell’uomo sulla donna appare come perfettamente "naturale", perché non c’è niente di più naturale e di più evidente del suo corpo fatto apposta per la generazione. Ebbene, proprio nella differenza tra il corpo dell’uomo e il corpo della donna si trova la prova inconfutabile del dominio del primo sulla seconda, di cui sono convinti non solo gli uomini, ma anche le donne che per secoli hanno trovato naturale il dominio esercitato su di loro da parte dell’uomo. Com’è noto, infatti, il potere non sta tanto nell’esercizio della sua forza, ma nel consenso dei dominati alla propria subordinazione.
È da questo consenso, quello dei subordinati, che lei si deve liberare. E liberandosi potrà persuadere la mente di qualche uomo e di qualche donna che la donna non è solo materia per la generazione e i piaceri sessuali, ma al pari dell’uomo può generare anche a un altro livello, quale può essere la realizzazione di sé nel mondo lavorativo, in quello culturale, persino in quello sessuale senza doversi ridurre alla pura e semplice opacità della materia. E se sente sopra di sé la disapprovazione di molti tra quanti le stanno intorno, sappia che dobbiamo fare a meno di mezzo mondo per poter generare il nostro mondo, che non è deciso solo dalla biologia al servizio della specie, perché la specie, come sappiamo, è interessata agli individui unicamente per la sua sopravvivenza. E dopo che hanno generato, nella sua crudeltà innocente, li destina alla morte, perché altri individui, nascendo e generando, le assicurino la sua vita.
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO ...
Fedeli, femminicidio fenomeno strutturale e trasversale
Serve nuovo patto scuola-famiglia-società, competenze a docenti
di Redazione *
ROMA - "La violenza sulle donne non è un’emergenza sociale ma un fenomeno strutturale, trasversale in tutti i ceti sociali, in tutte le età della vita, e che riguarda gli uomini". Così Valeria Fedeli, ministra dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca partecipando a un convegno sulla violenza di genere e sui minori.
"Si tratta di una violazione dei diritti che interroga i rapporti che si sono storicamente determinati tra uomini e donne. Siamo convinti che la scuola e l’università devono fare il loro lavoro tenuto conto del ruolo molto importante di tutte le agenzie formative. Noi - aggiunge la ministra - siamo pronti a affrontare il tema della formazione e delle nuove competenze su questo tema da parte dei nuovi insegnati.
Ora - conclude Fedeli - serve un nuovo patto tra scuola, famiglia e società. E su questo fronte siamo pronti a fare la nostra parte, pur di superare, a partire dalla scuola, le discriminazioni tra ragazze e ragazzi che poi portano alla violenza".(ANSA).
METTERSI IN GIOCO, CORAGGIOSAMENTE. LA LIBERTA’ DI MARIA E DI GIUSEPPE ...
Milano. Scritta pro aborto sulla chiesa, la reazione del parroco vola sui social
Lettera aperta di don Andrea Bellò sulla pagina Facebook della Parrocchia san Michele Arcangelo e santa Rita, a Milano, è diventata virale.
di Gigio Rancilio (Avvenire, mercoledì 31 maggio 2017)
Questa è una piccola “brutta” storia ma che sta dando ottimi frutti. Arriva dalla pagina Facebook della Parrocchia san Michele Arcangelo e santa Rita, in zona Corvetto, periferia sud di Milano. E come tutte le notizie, soprattutto quelle che girano sui social, va verificata. Al telefono la voce femminile che risponde al numero della parrocchia, appena dici che sei un giornalista, si irrigidisce un po’. E ti liquida con un “il parroco non c’è”. Sfoderi la voce più pacata che riesci a fare e spieghi: “Volevo soltanto sapere se la storia è vera e se la pagina Facebook della parrocchia è davvero vostra”. “Sì, è tutto vero. Ma il parroco non c’è”.
Il parroco è don Andrea Bellò, diventato famoso nelle ultime ore, suo malgrado, per un post Facebook che ha firmato e pubblicato sulla pagina della Parrocchia san Michele Arcangelo e santa Rita. Ottenere 3700 reazioni, 307 commenti e 1590 condivisioni, per una pagina che normalmente registra 15 mi piace, è un record.
A colpire gli utenti è stata la reazione di don Andrea, dopo che il muro della sua parrocchia è stato imbrattato con una scritta offensiva: “Aborto libero (anche per Maria)”. Il parroco ha deciso di scrivere su Facebook una lettera aperta all’anonimo “imbrattatore”.
Eccola:
Che una Chiesa venga imbrattata da scritte offensive, purtroppo non è una novità. E nemmeno che un parroco usi i social per cercare un dialogo con un aggressore. E non è una novità nemmeno che un sacco di persone plaudano alla sua scelta.
Ciò che è nuovo, anzi rinnovato è il coraggio di questo gesto. La bellezza di questo gesto. L’esempio di questo gesto.
Le donne ancora ai margini della ricerca, si lavora per cambiare
Giornata internazionale per le donne e le ragazze nella scienza
di Redazione ANSA *
Grandi assenti dai vertici della ricerca, in Italia come in molti altri Paesi, le donne vivono ancora nell’ombra nei laboratori scientifici e nelle universita’. Nonostante molte ricercatrici siano esempi di eccellenza riconosciuti a livello internazionale, la maggior parte di esse non riesce ancora ad emergere come meriterebbe. E’ un problema sentito in tutto il mondo e che affonda le radici nella cultura. Fare in modo che il loro ruolo esca allo scoperto e che abbiano i riconoscimenti che meritano e’ l’obiettivo della Giornata Internazionale per le donne e le ragazze nella scienza promossa dalle Nazioni Unite.
L’iniziativa e’ nata nel 2015 allo scopo di portare le donne ad ottenere parita’ di accesso e partecipazione nella scienza. Scienza e uguaglianza di genere sono infatti, secondo le Nazioni Unite, entrambe vitali per raggiungere gli obiettivi per lo sviluppo concordati a livello internazionale, compresi quelli previsti dall’agenda 2030 dell’Onu per lo Sviluppo Sostenibile.
"Donne e ragazze continuano ad essere escluse da una piena partecipazione nella scienza", rileva sul suo sito il Centro regionale di informazione delle Nazioni Unite. La conferma di questo scenario arriva da una ricerca condotta in 14 Paesi sulla carriera universitaria delle ragazze indica che solo il 18% consegue la laurea triennale, l’8% quella specialistica e appena il 2% arriva al dottorato di ricerca.
Se poi consideriamo in dettaglio la situazione in Italia il quadro e’ ancora meno edificante: una recente indagine europea condotta dalla Fondazione L’Oreal per le donne e la scienza ha indicato che l’Italia e’ il Paese europeo con piu’ pregiudizi nei confronti delle donne nella ricerca: addirittura 7 italiani su 10 sostengono che le donne non possiedano le capacita’ necessarie per accedere a occupazioni di alto livello in ambito scientifico.
In Italia come in molti altri Paesi la presenza delle donne negli studi scientifici segue un andamento a piramide, con una base nella quale fin dalle scuole superiori le ragazze rappresentano oltre il 50% degli studenti e che si assottiglia inesorabilmente procedendo verso il vertice: le disparita’ crescono man mano che si avanza verso posti di responsabilita’ e potere decisionale. E’ cosi’ che le donne sono il 30% dei professori associati, il 20% dei professori ordinari e fra gli 80 rettori le donne sono appena 4 o 5.
Per sollecitare il dibattito le Nazioni Unite hanno organizzato per domani, nel quartier generale dell’Onu, un forum nato dalla collaborazione tra il Royal Academy of Science International Trust (Rasit) e il Dipartimento dell’Onu per gli Affari economici e sociale della Divisione per la politica sociale e lo sviluppo (Desa-Dspd). Tra le iniziative in Italia, quella dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn), che decida alle studentesse delle scuole secondarie una mattinata in compagnia delle ricercatrici e dei ricercatori impegnati in un campo affascinante come la ricerca sulle particelle.
di Francesca Rigotti (DOPPIOZERO, 16 Dicembre 2016)
Dopo che Giuseppe l’ebreo fu tirato su dal pozzo e venduto dai suoi fratelli ai mercanti di schiavi Medianiti, e prima che venisse acquistato dall’eunuco Potifar per conto del faraone d’Egitto, molti, al mercato degli schiavi, si erano offerti di comprarlo. Tra loro una vecchia filatrice che mostrando alcuni gomitoli di lana colorata da lei stessa filata disse al sensale: «Ci sono anch’io, vendi a me quel giovanotto, lo desidero pazzamente, ecco qui il mio pegno». Il sensale rise: «Anima semplice, guarda che per questo gioiello di schiavo mi hanno offerto tesori; con il tuo filo non puoi comprarlo». «Lo so che in questo mercato io non lo compro» gli rispose la donna. «Mi sono messa in fila perché dicano, amici e nemici: anche lei ci ha provato». Con questo magnifico apologo, tratto da una breve storia scritta fra i secc. XII e XIII dal mistico persiano Farid al-din ’Attar, inizia il primo capitolo/non capitolo del saggio/non saggio di Luisa Muraro dal titolo Al mercato della felicità (nuova edizione presso Orthotes di un libro uscito per i tipi di Mondadori nel 2009).
La storia dell’anziana donna che vorrebbe comprare il bel giovanotto da lei pazzamente desiderato mi è proprio piaciuta, sia per il rovesciamento dei ruoli di gender, sia per il messaggio finale: anche la vecchia ci ha provato, provarci è importante. Se non vai al mercato non avrai nulla. E fin qui tutti d’accordo. Ma anche se vai al mercato coi tuoi gomitoli di lana colorata, si potrebbe obiettare, non otterrai un bel niente e tanto meno Giuseppe in persona. E allora? Che cosa cambia? Cambia il desiderio, cambia l’intensità del desiderio, cambiano gli effetti del desiderio sulla realtà - afferma Muraro - perché il reale non è indifferente al desiderio. Vuol dire allora, continuiamo a domandarci, che se desideri molto, avrai? Avrai che cosa, la merce che desideri? O l’apologo sta soltanto a significare che la realizzazione (=il divenire reale) del desiderio avverrà soltanto se desideri non beni materiali, per i quali i gomitoli di certo non bastano, ma un altro tipo di oggetti: l’arte, la libertà, il rispetto, la cura?
Mi par di capire che Muraro intenda l’uno e l’altro. Da una parte ella esalta quella capacità che oggi molti glorificano con estrema facilità e faciloneria, ovvero la resilienza. Resilienza, termine preso in prestito dall’ingegneria e trasferito dal linguaggio della tecnologia dei materiali a quelli dell’ecologia, del linguaggio informatico e della psicologia; qui esso indica, nell’illustrazione offerta da Marco Belpoliti, «la capacità di un organismo di autoripararsi dopo un danno: un sistema operativo capace di adattarsi e resistere all’usura. La capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, di ricostruirsi restando sensibili alle opportunità positive che la vita offre». Dunque, in altre parole, l’abilità di far tesoro degli handicap e delle carenze per diventare campioni di qualcosa, dal giornalismo allo sport.
È una sorta di resilienza la dote della vecchia filatrice, il cui oggetto del desiderio, il bel Giuseppe, è posto talmente in alto da essere irraggiungibile? È un altro modo per esprimere la morale cattolica nel punto in cui essa esorta a fare di necessità virtù commisurando i desideri alle possibilità, e diventare una buona monaca, nelle parole di Alessandro Manzoni, anche se ti hanno monacato a forza contro la tua volontà?
I due messaggi di Muraro vengono rafforzati nel pensiero esposto nel secondo non capitolo del non saggio, Dei difetti fai profitti (se premetto le negazioni è perché il volume di Muraro non è una monografia tematica quanto una serie di considerazioni sparse ispirate a lavori precedenti e disposte lungo un percorso personale che l’autrice espone alla condivisione). Un «pensiero per tutti», lo chiama, che per tutti e tutte non è in quanto si ancora a due pilastri non da tutti/e condivisibili: la prospettiva fideistica cattolica con inclinazione alla mistica, primo, e, secondo, la posizione - all’interno del femminismo - definita di tipo «differenzialista».
Io per esempio non condivido né il primo né il secondo pilastro; per quanto riguarda il secondo, faccio parte di quelle donne legate alla «landa d’insensatezza» - così Muraro la definisce - del femminismo dell’eguaglianza e dell’emancipazione che esige parità dei sessi e non sopporta la logica religiosa (non necessariamente cristiana, in questo tutte le religioni monoteiste sono sorelle) della differenza/complementarietà dei sessi, che mi sembra una sorta di apartheid sessuale: diversi ma uguali, o uguali ma diversi, come preferite, voi di qua noi di là e tutti felici e contenti. Io donna con le mie caratteristiche (innate? naturali? genetiche?) che risiedono nell’attenzione, nella cura, nella passività, nella devozione o nell’accompagnamento (sic) e di là gli uomini col coraggio, la decisionalità, l’audacia, l’attività, la creatività. O anche tutti insieme, non importa, purché sia ribadita la differenza.
Per quanto riguarda il primo pilastro mi associo alla posizione di Virginia Wolf: noi siamo le parole, noi siamo la musica, noi siamo la realtà, sicuramente e decisamente non esiste alcun Dio; cui aggiungo, di mio, noi siamo la misericordia che mette un po’ di riparo al male; di Dio, se Dio ci fosse.
Ecco che allora il pensiero della differenza, già saldato con la dottrina della chiesa, si connette in Muraro col pensiero della resilienza o del far profitti da difetti, usando a proprio vantaggio il fatto di essere donne, minus habentes, dotate, lo dice Sant’Agostino, di parvus intellectus. Bello. Suona bene. (Hillary Clinton ci ha provato e le è andata male. Clinton ha perso perché ha affermato di essere donna ma essere una donna, e una donna di una certa età, non coincide con l’ideale vittorioso di forza, dinamicità e potenza che gli USA pretendono di incarnare). Il femminismo di Muraro con la sua logica del mercato della felicità esorta dunque a lottare contro il male di essere nate donne per vivere il femminile liberamente e incondizionatamente. Il suo è il femminismo filato col filo della resilienza e del far profitto del difetto, e tessuto al telaio della fede e della mistica. Che piace e ha successo. Non è il mio e di chi mi accompagna nella «landa d’insensatezza», ma pazienza.
*
Luisa Muraro, Al mercato della felicità, revisione a cura di Clara Jourdan, Napoli-Salerno, Orthotes, 2016, pp. 178 (prima edizione: 2009 Arnoldo Mondadori Editore, Milano).
SCHEDA EDITORIALE.
In questo libro Luisa Muraro, tra le più importanti filosofe italiane, lancia una sfida: che cosa sarebbe la nostra vita senza grandi desideri? Si può desiderare ciò che sembra impossibile da ottenere? Nella cultura che cambia senza andare avanti, in un’economia che cresce e si espande ma non si cura di far crescere né la gioia né il senso di sicurezza, nella vita che sembra tutta un mercato, con l’umanità stretta fra il troppo e troppo poco, traspare l’intuizione che il reale non è indifferente al desiderio e non assiste indifferente alla passione del desiderare. Il mondo è salvo solo a patto che coloro che lo abitano abbiano aspettative incommensurabili ai propri mezzi e non perdano mai la fiducia di essere destinati a qualcosa di grande.
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO":
L’accesso alle Scritture per l’altra metà del Settimo cielo
Saggi. Da Giuditta a Chiara da Siena, al papato di Bergoglio. «Il potere delle donne nella Chiesa» di Adriana Valerio per Carocci
di Alessandro Santagata (il manifesto, 14.1.2017)
La questione del ruolo delle donne nella Chiesa cattolica tocca direttamente il nodo del potere pastorale e delle strutture del cattolicesimo. Lo conferma in maniera convincente Il potere delle donne nella Chiesa. Giuditta, Chiara e le altre (Carocci editore, pp. 248, euro 18), l’ultima pubblicazione di Adriana Valerio, storica del cristianesimo e autrice di importanti contributi sul conflitto di genere nella storia della Chiesa.
La riflessione prende le mosse dal recente intervento di papa Francesco volto a istituire una commissione di studio sul diaconato femminile. Si tratta dell’ultimo di una serie di interventi che «hanno riaperto questioni antiche, suscitando speranze e opposizioni che, ancora una volta, indicano come la posta in gioco sia il potere nella Chiesa». «Se infatti - prosegue Valerio - il ministero fosse realmente inteso e vissuto come servizio non ci sarebbe alcun ostacolo per consentirlo anche alle donne. Ma evidentemente non è così. Le donne rimangono «a servizio», ma non hanno alcun ruolo decisionale».
IL TEMA DEL «SERVIZIO» nei suoi molteplici significati rappresenta il filo rosso con il quale si può leggere la vasta, per quanto sintetica, analisi proposta dall’autrice. Nelle Scritture, per esempio, da un lato si rimanda a contesti culturali nei quali la donna è sottomessa alle istituzioni di una società patriarcale e gerarchica, dall’altro non mancano episodi che rimandano alla condizione reale della donna dell’Oriente antico e aprono orizzonti di possibile emancipazione. È da leggere in quest’ottica l’ambivalente figura di Ester che attraverso la seduzione piega il dominio maschile ai propri fini. Lo stesso strumento usato da Giuditta che diventa emblema della fragilità del potere.
Si tratta dunque di un potere ambivalente che può risultare decisivo per le sorti di Israele, ma nello stesso tempo che spaventa e necessita di norme di controllo. In questo contesto - spiega Valerio - Gesù e la sua comunità sovvertono le regole di purità e impurità e integrano a pieno titolo le donne nel loro progetto di rifondazione religiosa. Per Paolo di Tarso «non c’è maschio e femmina, perché tutti siete uno in Cristo». Eppure, il cristianesimo presenta tra le sue aporie l’aver messo in discussione i rapporti di potere tra le persone riproponendoli però in maniera palese già a partire dal primo processo di clericalizzazione tra il II e III secolo.
PRENDE COSÌ FORMA una «teologia del peccato» che si nutre di un’interpretazione forzata delle lettere paoline e «vedrà la donna responsabile in prima persona di un debito infinito davanti a un Dio offeso e punitivo». Arriviamo così al cuore dello studio: l’esclusione dal sacerdozio, motivata da Tommaso sulla base della soggezione naturale del genere femminile, lo stratificarsi di un’antropologia negativa volta stigmatizzare la sessualità della donna («debole nel corpo e imperfetta nella ragione»), e contemporaneamente la presenza di donne in diverse posizione di potere.
L’autrice ci restituisce un panorama popolato da diaconesse e badesse, talvolta dignitarie di poteri feudali e semi-episcopali, e di protagoniste di esperimenti nuovi, come nel caso di Chiara d’Assisi che si presenta come «madre che non domina ma governa». Chiudono la rassegna alcune grandi figure del Novecento come Dorothy Day, fondatrice nel 1933 del movimento Catholic Worker, Eileen Egan, dirigente della sezione americana di Pax Christi, e Barbara Ward, economista di chiara fama e «uditrice» al Concilio Vaticano II.
Parlando dell’attualità della Chiesa di Bergoglio, Valerio auspica un cambiamento profondo che possa conciliare la religione con l’avvenuta trasformazione del paradigma antropologico.
IL CATTOLICESIMO è chiamato a «sperimentare modalità nuove di autorità feconda, creativa e condivisa» rifuggendo l’assimilazione alle categorie politico-androcentrice del passato, riscoprendo il sacerdozio come reale «servizio» e il messaggio originario del Cristo liberatore e sovversivo. Il nodo politico da sciogliere riguarda quindi principalmente la Chiesa, ma le implicazioni tra religioso e secolare analizzate in questo libro lasciano intuire le potenzialità civili di una riforma di questo tipo in una società ancora fortemente androcentrica.
Il Cantico dei cantici
La verità sull’amore nascosta nel più erotico dei libri
Il testo biblico che descrive il desiderio resta un codice segreto. Come dimostrano gli ultimi studi
di Silvia Ronchey (la Repubblica, 06.12.2016)
Di cosa parliamo quando parliamo del Cantico? Questa domanda non può avere risposta. «Il cantico è un enigma», scriveva Agostino (“Sermo” 46, 35). È un mistero nel senso tecnico della parola. L’iniziato non parlerà perché non potrà farlo (“mysterion” da “myein”, «tenere le labbra serrate»). Il profano parlerà, ma non saprà di che parla. «Perché chi sa non parla e chi parla non sa», secondo il detto di Lao Tse.
Ma alla fine del I secolo, quando si formò il canone della bibbia giudaica, il sapiente Rabbi Aqiba disse: «Il mondo intero non vale il giorno in cui il Cantico dei cantici è stato donato a Israele, perché tutte le Scritture sono sante, ma il Cantico dei cantici è il Santo dei santi». Già allora che cosa fosse il Cantico non lo si sapeva né voleva dire: la sua santità era direttamente proporzionale al suo mistero; anzi, era proprio la profondità abissale dei suoi enigmi a sprigionare quel vertice di santità.
«Petali di loto le labbra del mio amato /colano mirra. Il suo inguine è avorio / tempestato di zaffiri. / Favi colanti le tue labbra mia sposa / miele e latte sotto la tua lingua / come incenso del Libano / l’aroma del tuo grembo / giardino chiuso fonte sigillata. / Entri il mio amato nel suo giardino / succhi il suo frutto prodigioso. / Nel mio giardino entravo / mia sorella mia sposa / e la mirra e ogni essenza rapivo / e succhiavo il miele dal favo».
Poemetto di età post-esilica, forse patchwork di canti attinti al patrimonio della tradizione assiro-babilonese ed egizia oltre che ebraica, con echi greco- ellenistici nello stile di Teocrito, il Cantico è indubitabilmente un testo erotico, quasi pornografico.
Nella traduzione latina di Girolamo: Dilectus meus misit manum suam per foramen / et ventrem meus intremuit ad tactum eius. «Il mio amato infila la mano nel mio grembo/ le mie viscere fremono per lui. / Per aprirgli mi alzo /le mie mani colano mirra /dalle dita la mirra fluisce / sul chiavistello che impugno». Secondo la tradizione rabbinica, alcuni brani del Cantico venivano cantati nelle taverne. Si sdegnava Rabbi Aqiba: «Chi canta il Cantico nelle taverne o lo tratta come una canzone profana non avrà posto nel mondo futuro».
Levitò presto l’esegesi anagogica midrashica, gelosamente sacra, del Cantico come celebrazione dell’alleanza sponsale tra JH-WH e Israele, protratta poi nell’interpretazione cristiana che per secoli e secoli vi lesse la figura dell’amore di Cristo per la chiesa, non senza lasciare spazio a una congerie di altri sistemi allegorici minori, spesso iniziatici - astrologici, cabalistici, filosofico- sapienziali -, nella letteratura medievale, rinascimentale e moderna. Sulle ali della metafora della sposa-chiesa i versetti del Cantico si disseminarono nella fonosfera della liturgia, della musica, della letteratura, tramandole come mantra sempre meno dischiusi al senso. Più la torsione simbolica della teologia occidentale sottraeva loro il significato naturale - da Ambrogio a Gregorio Magno, da Guglielmo di Saint-Thierry a Bernardo di Clairvaux, da Francesco di Sales a Bossuet - più le sillabe e le immagini spandevano il loro mistero elementare.
Nigra sum sed formosa.
Da Monteverdi a Giovanni della Croce, da Maupassant a Moreau duemila anni di omissioni hanno addensato connessioni così colossali nel Cantico da renderlo simile all’Aleph di Borges: un punto dello spazio letterario che contiene una pluralità infinita di altri punti. Già il Talmud ammoniva, comunque, a non sottovalutare la letteralità che nessun testo biblico deve mai perdere. I letteralisti o naturalisti sono sempre, a ragione, esistiti: bizantini come Teodoro di Mopsuestia o giudaici come Ibn Ezra. Un grande saggio protestante del Cinquecento, Sébastien Castellion, propose di eliminare il Cantico dal canone dei testi ispirati, in polemica con Calvino; lo seguì Herder. Il Novecento ha visto anche esegeti ecclesiastici cattolici, da Dietrich Bonhoeffer a Luis Alonso Schökel, assaliti dal dubbio: se dietro i versetti del Cantico non ci fosse nulla?
Bisogna intendersi. Il Cantico è nulla. È un prisma trasparente nella cui luce si riflette, moltiplica e illumina qualunque esperienza reale o spirituale, intellettuale o dottrinale vi si accosti. Inoltre, dietro al Cantico c’è il nulla. «In verità, il vuoto del Cantico è lì per confermarne la sacralità. Il Cantico è un pezzo di vuoto sacrale. Dico che è vuoto per non negargli niente», ha scritto Guido Ceronetti.
Almeno quanto l’Ecclesiaste evoca il vuoto e almeno quanto Giobbe il dolore, il Cantico evoca la dolorosa inattingibilità dell’amore. «L’uomo non può capire il Cantico se non ha mai amato», ha scritto Bernardo. Anima mea liquefacta est. Quaesivi, et non inveni illum. Vocavi, et non respondit mihi. «La mia anima si disfa. / Lo cerco e non lo trovo / lo chiamo e non risponde».
Ha scritto Jung: «Mi sono ripetutamente trovato di fronte al mistero dell’amore, e non sono mai stato capace di spiegare cosa sia. Qui si trovano il massimo e il minimo, il più remoto e il più vicino, il più alto e il più basso, e non si può mai parlare dell’uno senza considerare l’altro. Non c’è linguaggio adatto a questo paradosso. Qualunque cosa si possa dire, nessuna parola potrà mai esprimere tutto».
Nessuna parola può esprimere tutto, ma il Cantico, illusionisticamente, lo fa. Se la natura del desiderio è indicibile, il Cantico la dispiega in enigmi. «Mettimi come un sigillo sul tuo cuore / come un tatuaggio sul tuo braccio / perché forte come la morte è l’amore / duro come l’Ade il desiderio ». L’amore è più forte della morte: cosa vuol dire? che l’amore può vincere la morte? che il piacere è una piccola morte? che l’eros è la morte dell’io e ci fa uscire dai suoi confini portando all’insania, come già segnalato da Lucrezio?
«L’eros lo conosciamo solo nella distanza del fallimento. Prima del fallimento non si dà conoscenza », ha scritto Christos Yannaras, massimo esperto contemporaneo del Cantico (alcune delle sue pagine in AA.VV., Il più bel canto d’amore. Letture e riscritture del Cantico dei cantici, Qiqajon, Comunità di Bose, pagg. 231, euro 20, che del Cantico contiene anche la migliore traduzione italiana, di Enzo Bianchi). «Dopo il fallimento sappiamo che l’eros è il modo della vita, ma un modo inaccessibile alla natura umana. Il modo della vita lo palpiamo nella privazione, nel calco dell’assenza ».
La riflessione sull’eros del teologo ortodosso Yannaras conclude oggi il discorso sul Cantico aperto da un altro filosofo greco-orientale, Origene: nel III secolo, quando da poco quell’erma testuale bifronte che esaltava un amore fisico e carnale fino all’oscenità era entrata nel libro sacro a tre religioni e in queste aveva cominciato a porre, o trasporre, il suo enigma. Enfant prodige del platonismo alessandrino, a poco più di vent’anni Origene si era evirato. Aveva, narra Eusebio, troppo da fare coi libri, giorno e notte, e questa era per lui già «una passione e una ginnastica ». Nulla doveva distoglierlo dal comparare e commentare i testi della bibbia. Il suo fu il più grande esperimento di applicazione dell’esegesi allegorica neoplatonica al cristianesimo.
Nel Commento al Cantico, opera della sua maturità, uscito ora in traduzione italiana insieme alle magnifiche Omelie sul Cantico di un altro grande padre greco, Gregorio di Nissa (Origene, Gregorio di Nissa, Sul Cantico dei cantici, a c. di V. Limone e C. Moreschini, Bompiani, pagg. 1565, euro 50), raccolse l’eredità della ricerca platonica sull’essere e la sua contrapposizione fra anima e corpo, tra metafora e lettera, tra esoterismo e “annuncio”. Sottrasse al Cantico letteralità e fisicità per accenderne l’erotismo metaforico in un modo che nessuno aveva mai osato prima: utilizzandolo in senso psicologico. Col bisturi della filologia neutralizzò la carne degli sposi, per lasciare tutto lo spazio al loro puro spirito. Operò, in un certo senso, come aveva operato sul suo stesso corpo.
L’autoevirazione di Origene, che la tradizione antica riporta, fu reale o simbolica? Di fatto, in uno dei più fantasmagorici trompe l’oeil della letteratura universale, con Origene il Cantico perse per sempre il suo originario connotato realistico per diventare un’allegoria dell’eros mistico, di quell’amore sofferente che sta in ogni atto di ricerca o tentativo di creazione o impulso di unione.
La Sulamita che cerca lo sposo non è solo Israele, secondo l’interpretazione giudaica, e non è solo la chiesa, secondo la versione cristiana vulgata. È in primo luogo l’anima, che secondo la tradizione platonica cerca sempre, e non trova, la perfezione del Logos. Con il Commento al Cantico di Origene il cristianesimo orientale si è fin dall’inizio affiancato agli altri grandi saperi tradizionali nell’esprimere il quaesivi et non inveni, il “cerco e non trovo” che si applica a tutte le sfere dell’indagine, ma anzitutto a quella su noi stessi.
Chi era veramente Maria Maddalena?
Per volere di papa Francesco il 22 luglio, per la prima volta, si celebra la festa di santa Maria Maddalena, che sino a oggi era memoria obbligatoria. La storia di questa donna nelle parole dei Vangeli e nei commenti di Gianfranco Ravasi, Carlo Maria Martini, Cristiana Dobner e Timothy Verdon
Lo scorso 3 giugno la Congregazione per il Culto Divino ha pubblicato un decreto con il quale, «per espresso desiderio di papa Francesco», la celebrazione di santa Maria Maddalena, che era memoria obbligatoria, viene elevata al grado di festa. Il Papa ha preso questa decisione «per significare la rilevanza di questa donna che mostrò un grande amore a Cristo e fu da Cristo tanto amata», ha spiegato il segretario del Dicastero, l’arcivescovo Arthur Roche. Ma chi era Maria Maddalena, che Tommaso d’Aquino definì «apostola degli apostoli»?
Magdala
Nei Vangeli si legge che era originaria di Magdala, villaggio di pescatori sulla sponda occidentale del lago di Tiberiade, centro commerciale ittico denominato in greco Tarichea (Pesce salato). Qui, negli anni Settanta del Novecento è stata condotta un’estesa campagna di scavi dai francescani dello Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme: è venuta alla luce una vasta porzione del tessuto urbano comprendente, fra gli altri, una grande piazza a quadriportico, una villa mosaicata e un completo complesso termale. Con successivi scavi i francescani hanno riportato alla luce anche importanti resti di strutture portuali. In un’area adiacente, di proprietà dei Legionari di Cristo, una campagna di scavi avviata nel 2009 ha invece permesso di rinvenire la sinagoga cittadina, una delle più antiche scoperte in Israele: per la sua posizione, sulla strada che collega Nazaret e Cafarnao, si ritiene che probabilmente sia stata frequentata da Gesù.
Gli equivoci sull’identità
Maria Maddalena fa la sua comparsa nel capitolo 8 del Vangelo di Luca: Gesù andava per città e villaggi annunciando la buona notizia del regno di Dio e c’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità e li servivano con i loro beni. Fra loro vi era «Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demoni». Come ha scritto il cardinale Gianfranco Ravasi, «di per sé, l’espressione [sette demoni] poteva indicare un gravissimo (sette è il numero della pienezza) male fisico o morale che aveva colpito la donna e da cui Gesù l’aveva liberata. Ma la tradizione, perdurante sino a oggi, ha fatto di Maria una prostituta e questo solo perché nella pagina evangelica precedente - il capitolo 7 di Luca - si narra la storia della conversione di un’anonima “peccatrice nota in quella città”, che aveva cosparso di olio profumato i piedi di Gesù, ospite in casa di un notabile fariseo, li aveva bagnati con le sue lacrime e li aveva asciugati coi suoi capelli». Così, senza nessun reale collegamento testuale, Maria di Magdala è stata identificata con quella prostituta senza nome.
Ma c’è un ulteriore equivoco: infatti, prosegue Ravasi, l’unzione con l’olio profumato è un gesto che è stato compiuto anche da Maria, la sorella di Marta e Lazzaro, in una diversa occasione (Gv 12,1-8). E così, Maria di Magdala «da alcune tradizioni popolari verrà identificata proprio con questa Maria di Betania, dopo essere stata confusa con la prostituta di Galilea».
La liberazione dal male
Afflitta da un gravissimo male, di cui si ignora la natura, Maria Maddalena appartiene dunque a quel popolo di uomini, donne e bambini in molti modi feriti che Gesù sottrae alla disperazione restituendoli alla vita e ai loro affetti più cari. Gesù, nel nome di Dio, compie solo gesti di liberazione dal male e di riscatto della speranza perduta. Il desiderio umano di una vita buona e felice è giusto e appartiene all’intenzione di Dio, che è Dio della cura, mai complice del male, anche se l’uomo (fuori e dentro la religione) ha sempre la tentazione di immaginarlo come un prevaricatore dalle intenzioni indecifrabili.
Sotto la croce
Maria Maddalena compare ancora nei Vangeli nel momento più terribile e drammatico della vita di Gesù. Nel suo attaccamento fedele e tenace al Maestro Lo accompagna sino al Calvario e rimane, insieme ad altre donne, ad osservarlo da lontano. È poi presente quando Giuseppe d’Arimatea depone il corpo di Gesù nel sepolcro, che viene chiuso con una pietra. Dopo il sabato, al mattino del primo giorno della settimana - si legge al capitolo 20 del Vangelo di Giovanni - torna al sepolcro: scopre che la pietra è stata tolta e corre ad avvisare Pietro e Giovanni, i quali, a loro volta, correranno al sepolcro scoprendo l’assenza del corpo del Signore.
L’incontro con il Risorto
Mentre i due discepoli fanno ritorno a casa, lei rimane, in lacrime. E ha inizio un percorso che dall’incredulità si apre progressivamente alla fede. Chinandosi verso il sepolcro scorge due angeli e dice loro di non sapere dove sia stato posto il corpo del Signore. Poi, volgendosi indietro, vede Gesù ma non lo riconosce, pensa sia il custode del giardino e quando Lui le chiede il motivo di quelle lacrime e chi stia cercando, lei risponde: «“Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo”. Gesù le disse: “Maria!”» (Gv 20,15-16).
Il cardinale Carlo Maria Martini al riguardo commentava: «Avremmo potuto immaginare altri modi di presentarsi. Gesù sceglie il modo più personale e il più immediato: l’appellazione per nome. Di per sé non dice niente perché “Maria” può pronunciarlo chiunque e non spiega la risurrezione e nemmeno il fatto che è il Signore a chiamarla. Tutti però comprendiamo che quell’appellazione, in quel momento, in quella situazione, con quella voce, con quel tono, è il modo più personale di rivelazione e che non riguarda solo Gesù, ma Gesù nel suo rapporto con lei. Egli si rivela come il suo Signore, colui che lei cerca».
Il dialogo al sepolcro prosegue: Maria Maddalena, «si voltò e gli disse in ebraico: “Rabbunì!”, che significa: “Maestro!”. Gesù le disse: “Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”. Maria di Magdala andò ad annunziare ai discepoli: “Ho visto il Signore!” e anche ciò che le aveva detto» (Gv 20, 16-18).
La maternità della Maddalena
«La Maddalena è la prima fra le donne al seguito di Gesù a proclamarlo come Colui che ha vinto la morte, la prima apostola ad annunciare il gioioso messaggio centrale della Pasqua», osserva la teologa Cristiana Dobner, carmelitana scalza. «Ella esprime la maternità nella fede e della fede ossia quella attitudine a generare vita vera, una vita da figli di Dio, nella quale il travaglio esistenziale comune ad ogni uomo trova il suo destino nella risurrezione e nell’eternità promesse e inaugurate dal Figlio, «primogenito» di molti fratelli (Rom 8,29). Con Maria Maddalena si apre quella lunga schiera, ancor oggi poco conosciuta, di madri che, lungo i secoli, si sono consegnate alla generazione di figli di Dio e si possono affiancare ai padri della Chiesa: insieme alla Patristica esiste anche, nascosta ma presente, una Matristica.
La decisione di Francesco è un dono bello, espressione di una rivoluzione antropologica che tocca la donna e investe l’intera realtà ecclesiale. L’istituzione di questa festa, infatti, non va letta come una rivincita muliebre: si cadrebbe stolidamente nella mentalità delle quote rosa. Il significato è ben altro: comprendere che uomo e donna insieme e solo insieme, in una dualità incarnata, possono diventare annunciatori luminosi del Risorto».
Nella storia dell’arte: la mirofora
Maria Maddalena, nel corso dei secoli, è stata raffigurata principalmente in quattro modi: «Anzitutto - afferma monsignor Timothy Verdon, docente di storia dell’arte alla Stanford University e direttore del Museo dell’Opera del Duomo di Firenze - è spesso ritratta come una delle mirofore, le pie donne che la mattina di Pasqua si recarono al sepolcro portando gli unguenti per il corpo del Signore. Fra loro la Maddalena è riconoscibile per il fatto che, a partire dalla fine del Medioevo, viene raffigurata con lunghi capelli sciolti, spesso biondi: questo fa capire che gli artisti, secondo una tradizione affermatasi in Occidente (e non condivisa nell’Oriente cristiano), la identificavano con la donna peccatrice che aveva asciugato i piedi di Gesù con i propri capelli. I capelli lunghi sono quindi un’allusione a questo intimo contatto e alla condizione di prostituta: le donne per bene non andavano in giro con i capelli sciolti».
La penitente
Nell’arte del tardo Medioevo Maria Maddalena compare anche come penitente perché - spiega Verdon - secondo una leggenda ella era una grande peccatrice che, dopo la conversione e l’incontro con il Risorto, era andata a vivere come romitessa nel sud della Francia, vicino a Marsiglia, dove annunciava il vangelo: «Il culto della Maddalena penitente ha affascinato molti artisti, che l’hanno considerata il corrispettivo femminile di Giovanni Battista. In genere viene raffigurata con abiti simili a quelli del Battista oppure è coperta solo dai capelli. La bellezza esteriore l’ha abbandonata, il volto è segnato dai digiuni e dalle veglie notturne in preghiera, ma è illuminata dalla bellezza interiore perché ha trovato pace e gioia nel Signore. La statua della Maddalena penitente di Donatello, scolpita per il Battistero di Firenze, è un autentico capolavoro».
L’addolorata
Sovente la Maddalena è ritratta anche ai piedi della croce: una delle opere più significative, a giudizio di Verdon, è un piccolo pannello di Masaccio (esposto a Napoli) nel quale la Maddalena è ritratta di spalle, sotto la croce, le braccia protese a Cristo, i lunghi capelli biondi che cadono quasi a ventaglio su un enorme mantello rosso: «Un’immagine di forte drammaticità. Non di rado il dolore composto della Vergine è stato contrapposto a quello della Maddalena, quasi senza controllo. Si pensi ad esempio, alla Pietà di Tiziano, nella quale la donna avanza come volesse chiamare il mondo intero a riconoscere l’ingiustizia della morte di Gesù, che giace fra le braccia di Maria; oppure si pensi al celebre gruppo scultoreo di Niccolò dell’Arca, nel quale fra le molte figure la più teatrale è proprio quella della Maddalena che si precipita con la forza di un uragano verso il Cristo morto».
Chiamata per nome
Vi sono inoltre molte raffigurazioni dell’incontro con il Risorto: «Esemplari e magnifiche sono quelle di Giotto, nella Cappella degli Scrovegni, e del Beato Angelico nel convento di san Marco», conclude Verdon. «Maria Maddalena ha vissuto un’esperienza di salvezza profonda per opera di Gesù: quando si sente chiamata per nome in lei si accende il ricordo dell’intera storia vissuta con Lui: c’è tutto questo nell’iconografia della scena che chiamiamo “Noli me tangere”».
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fonte: Vatican Insider, articolo di Cristina Uguccioni del 20/07/2016 (senza foto)
I maestri del disprezzo per le donne
di Daniela Monti (Corriere della Sera, 08.06.2016)
Nel 1929 Virginia Woolf, nel saggio Una stanza tutta per sé, inventa una storia: quella di Judith, ipotetica sorella di William Shakespeare, stessa genialità, stessa irrequietezza, stessa voglia di fare del fratello. Per seguire il proprio talento, Judith si istruisce come può, leggendo il poco che trova per casa (ma appena i genitori se ne accorgono, le tolgono i libri e le mettono in mano delle calze da rammendare), rifiuta il matrimonio spezzando il cuore al padre, scappa per inseguire il sogno di fare teatro e viene accolta da un impresario che la schernisce e da un agente teatrale che, impietosito, la mette incinta. Alla fine, non trova altra via di uscita che uccidersi.
Mentre il talento del fratello è celebrato, il suo non vale niente: ha sfidato l’ordine naturale delle cose che la vuole debole, inferiore, indegna di ricevere un’istruzione e, insieme, selvaggia e ingestibile, una a cui mettere fin da subito il guinzaglio; si è illusa di potersi esprimere da donna e artista, senza neppure ricorrere all’espediente di camuffarsi da uomo, che pure è una strada battuta; ha sbagliato tutto, è andata fuori ruolo e infatti non c’è nessuno disposto ad ascoltarla. Così Judith «giace sepolta a un certo incrocio, lì dove ora gli autobus si fermano nei pressi di Elephant and Castle». Potessimo posare una lapide mortuaria, sopra ci sarebbe scritto: coraggiosa e ingenua Judith Shakespeare, vittima di due millenni di pregiudizi contro le donne.
Perché quello contro il genere femminile, «a conti fatti, appare come il più antico, radicato, diffuso pregiudizio che la vicenda umana è stata in grado di produrre», scrive Paolo Ercolani nel suo Contro le donne (Marsilio, pp. 318, e 17,50), resoconto dettagliato di come, dalle origini della società occidentale, scrittori, filosofi, intellettuali abbiano alimentato un dibattito «tutto fra uomini» - le donne sembrano assenti dalla filosofia, se non come oggetto del discorso dei filosofi maschi - «per arrivare a stabilire l’inferiorità inemendabile e irrecuperabile dell’essere femminile». I grandi filosofi greci, i padri della Chiesa, gli illuministi, i rivoluzionari, i filosofi idealisti, persino quel campione della causa femminile che fu John Stuart Mill: un’operazione culturale a senso unico che affonda le radici nella presunta «deficienza fisica» delle donne per poi esportare tale mancanza in altri campi, quelli dell’etica, della morale, dell’organizzazione politica della società.
Fu nell’Atene democratica, «tanto esaltata dalla tradizione occidentale, che si diffuse il costume di imporre alle donne il velo di fronte a situazioni pubbliche e a uomini scapoli, al contrario di quello che accadeva a quel tempo in Persia o in Siria», scrive Ercolani, aprendo il fronte della globalizzazione del pregiudizio, il quale, come le malattie contagiose, è riuscito a infettare culture lontane e all’apparenza inconciliabili, stringendole in un unico blocco misogino.
E loro, le donne? «Molto spesso sono le donne stesse a sminuirsi rispetto al maschio, in una sorta di autofobia indotta da secoli di indottrinamento», scrive Ercolani. Il femminismo, che pure è una delle grandi narrazioni della modernità, resta ai margini del lungo excursus, diventando esso stesso un bersaglio quando «negando l’esistenza di una specificità femminile (differente dal maschio) e prefigurando irrealistici scenari di individui a-sessuati ha finito con il fare da sponda al pensiero misogino».
La via d’uscita proposta sta nel ridefinire i canoni dell’identità e soggettività umana, al di là del «narcisismo di genere». Come scriveva Caterina Botti nel suo Prospettive femministe (Mimesis), «fino a relativamente poco tempo fa l’assenza delle donne dalla filosofia non era considerata una questione degna di nota. Oggi invece lo è».
SUL TEMA, IN RETE, SI CFR.:
Storie congetturali che raccontano l’inaudito
SAGGI. «Il contratto sessuale» di Carole Pateman pubblicato per Moretti&Vitali. I fondamenti nascosti della società moderna in un libro che dopo quasi trent’anni fa ancora discutere
di Alessandra Pigliaru (il manifesto, 14.05.2016)
Dare conto di ciò che Carole Pateman ha prodotto in relazione al pensiero politico moderno è decisivo. Al centro di numerose discussioni pubbliche, sia accademiche come docente al dipartimento di Scienze Politiche dell’università della California, sia politiche per le sue caustiche critiche alla democrazia liberale, tra i molti volumi e interventi che ha scritto nel corso della sua lunga vita soltanto uno è stato tradotto in italiano. Unico però, in tanti sensi - di cui il primo è l’aver costituito un punto di non ritorno. Si tratta di The sexual contract, pubblicato nel 1988 (Stanford U.P.) e tradotto per la prima volta in Italia nove anni dopo (Editori riuniti). Ormai nel dimenticatoio dei tanti «fuori commercio», è allora più che lodevole la sua recente ristampa.
Il contratto sessuale (Moretti&Vitali, pp. 339, euro 21, traduzione di Cinzia Biasini, collana «Pensiero e pratiche di trasformazione») è pietra miliare della teoria politica contemporanea, così scrive Olivia Guaraldo nell’ottima introduzione di questa nuova edizione, inquadrando il lavoro che Carole Pateman ha condotto non solo sotto il rilievo del dibattito femminista, ma anche nel senso di inaggirabilità che ha assunto nella scolarship internazionale da parte di chi si occupa di contrattualismo. A osservare la diversità di ricezione in Italia e all’estero, non potrà sfuggire che in altri paesi del mondo le ristampe sono proseguite costanti in questi decenni.
L’inganno iniziale
La discontinua ricezione de Il contratto sessuale ne perimetra tuttavia la circolazione, tracciando il terreno in cui hanno attecchito le tesi di Pateman, ovvero quasi esclusivamente nell’ambito della riflessione del pensiero della differenza sessuale (di cui l’esito più recente in merito è Sovrane, di Annarosa Buttarelli per Il Saggiatore). Avere l’occasione di rileggere un testo simile significa oggi ribadire con forza intanto la tesi iniziale, e cioè che esiste un momento precedente al contratto sociale - così chiaro nello stesso titolo - che non è stato compreso dai teorici sei-settecenteschi (Hobbes, Locke, Rousseau e poi lo stesso Kant) quando si sono prodigati dapprima a stabilire l’esistenza di quel patto secondo loro originario - e poi a descrivere con minuziosa tenacia le forme della vita associata. Tornare a Pateman non è solo consigliabile a chi desidera rispolverarne il tenore teorico-pratico.
Assistere allo svelamento dell’inganno iniziale vuol dire stanare il rimosso, misurarsi con una radicalità che può costruire un ragguardevole equipaggiamento per leggere il presente. La storia «congetturale» a cui si affida Pateman serve certo all’avanzamento rivoluzionario della sua tesi; al contempo e per converso, dispone anche la cifra di ciò che è stato «il racconto più autorevole dell’età moderna».
Molti sono allora gli elementi da rimarcare della conquistata libertà civile. Intanto non è universale, visto che il contratto originario istituisce sia la libertà che il dominio, bensì ha un attributo maschile e dipende dal diritto patriarcale.
E se massiccia è stata la decostruzione operata da Pateman intorno alla radice democratica moderna, individualista e proprietaria, la narrazione ha a che fare con la genesi del diritto politico inteso come «diritto patriarcale o diritto sessuale, ossia in quanto potere che gli uomini esercitano sulle donne»; da qui viene proposta la tesi secondo cui il contratto sessuale si mantenga su un patto tra fratelli, un «fratriarcato». Seguendo la lezione di Adrienne Rich, anche Pateman si posiziona nella certezza che esista una «legge del diritto sessuale maschile». Tale diritto è, sostanzialmente, quello coniugale.
Assunzioni materiali
Eppure, se nella separazione tra contratto sociale e contratto sessuale si viene a delineare una precisa rappresentazione (il primo è tangente alla sfera pubblica e il secondo alla sfera privata), ignorando la metà della storia si cade facilmente in equivoco. Alla fine degli anni ‘80, cioè quando Pateman scrive, ha in mente di fare luce sulle strutture istituzionali di Gran Bretagna, Australia e Stati Uniti per chiarire come, attraverso l’interezza della storia del contratto originario, si verifichino comunanze patriarcali insospettabili.
In questa direzione, l’autrice analizza diversi tipi di contratto, da quello di matrimonio, disossato in verità da numerosi contributi soprattutto da parte di teoriche femministe, a quello di lavoro, come anche quello che viene a definirsi tra prostituta e cliente. Tutte assunzioni che andrebbero discusse, e che infatti lo sono state possibilmente piegandole ai vari contesti, transitori e pur sempre materiali. Se i contratti presi in esame sono connotabili da iter che ne prevedono regolamentazioni o proibizioni da parte della legge, è chiaro come si tratti di particolari forme ascrivibili alla proprietà che si ritiene ciascuno e ciascuna abbiano sulle proprie persone. Ciò nonostante, «il contratto sessuale è il mezzo attraverso il quale gli uomini trasformano il proprio diritto naturale sulle donne nella sicurezza civile patriarcale».
Contingenze complesse
A restituire gradi di attualità che il testo non solo conserva ma intuisce con puntuale efficacia, il riferimento è a una clausola su cui Pateman si sofferma alla fine del settimo capitolo e che è da tenere presente nel contratto sessuale: la maternità surrogata, definita «una nuova forma di accesso e di uso del corpo femminile da parte degli uomini».
Questo per dire come il dibattito intorno alla «surrogazione», fosse il caso di tenerlo a mente quando imperversa spesso non privo di strumentalità e costruzione di blocchi identitari, aveva assunto già alla fine degli anni ‘80 una declinazione cruciale. Il caso sollevato da Pateman accenna alla celebre sentenza disposta dalla corte del New Jersey (1986 ma in due fasi e l’una contraddittoria rispetto l’altra) passata poi alla storia come «il caso Baby M.» in cui la «madre surrogante» cambiò idea e decise di non separarsi più dalla bambina. Se il carattere vincolante dello statuto giuridico di questi contratti poneva infatti delle questioni complesse in uno scenario come quello in cui già diverse erano le agenzie aperte per la surrogazione, venivano già dettagliati numeri rispondenti a profitti precisi, differenziando circa il legame tra accordi commerciali o non commerciali con la relativa soglia di legalità e liceità o meno secondo i paesi.
Ciò che viene messa a tema è però la domanda iniziale, quella secondo cui a essere in gioco sia una semplice prestazione. Da un punto di vista contrattuale infatti è puramente accidentale che la prestazione attenga o meno a questo o a quell’oggetto, così come trascurabile è il fatto che ciò che viene prodotto sia un bambino, una bambina. Su questo punto, come per altri su cui Pateman si sofferma, Il contratto sessuale è un volume ancora incandescente che vale la pena di essere rimeditato.
L’urgenza di una riforma
di Vito Mancuso (la Repubblica, 13.05.2016)
FORSE ci troviamo al cospetto della prima significativa mossa di quella che potrebbe essere una rivoluzione davvero epocale. Credo la più importante tra tutte le meritorie iniziative di riforma intraprese finora dal pontificato di Francesco. Se c’è una via privilegiata infatti per il rinnovamento di cui la Chiesa cattolica ha oggi un immenso bisogno, essa è la via femminile.
PIÙ della riforma della curia, più dell’ecumenismo, più della riforma della morale sessuale, più della libertà di insegnamento nelle facoltà teologiche, più di molte altre cose, l’ingresso delle donne nella struttura gerarchica della Chiesa cattolica avrebbe l’effetto di trasformare in modo irreversibile tale veneranda e anche un po’ acciaccata istituzione.
Prendendo atto dell’emancipazione femminile ormai giunta a compimento in Occidente in tutti gli ambiti vitali, Giovanni Paolo II aveva prodotto una serie di documenti altamente elogiativi verso ciò che egli definiva “genio femminile”, si pensi alla lettera apostolica Mulieris dignitatem del 1988 e alla specifica Lettera alle donne del 1995. Né in questi testi né altrove però il papa polacco definì mai cosa intendesse realmente con tale espressione, usata in seguito più di una volta anche da Benedetto XVI nei suoi interventi in materia. Anche papa Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium del 2013 ha parlato di “genio femminile”. Ieri però, con l’apertura al diaconato femminile, parlando davanti a oltre ottocento suore superiore, questa ermetica espressione papale ha ricevuto finalmente la possibilità di passare da edificante proclamazione retorica a concreto sentiero istituzionale.
Forse a breve non si parlerà più di genio femminile, ma di geni femminili, perché le singole donne avranno finalmente la possibilità di tornare a donare a pieno titolo il loro patrimonio genetico all’intero organismo di madre Chiesa, la quale ora nella sua mente è femminile unicamente quanto alla grammatica, mentre quanto al diritto canonico è esclusivamente maschile (e da qui le deriva l’attuale sterilità, perché anche la vita spirituale, oltre a quella biologica, ha bisogno di cromosomi y e di cromosomi x).
Ho usato l’espressione “tornare a donare” perché l’apertura al diaconato femminile da parte di Francesco non è una novità assoluta, già nel Nuovo Testamento si parla di diaconesse. Anzi, tale apertura papale può comportare la rivoluzione epocale di cui parlavo proprio perché rimanda a una doppia fedeltà: a una fedeltà al presente, al fine di rendere la Chiesa cattolica all’altezza di tempi in cui l’emancipazione femminile è almeno in Occidente un processo pressoché compiuto, e a una fedeltà al passato, al fine di recuperare la straordinaria innovazione neotestamentaria quanto al ruolo delle donne.
Se si leggono i Vangeli infatti si vede come Gesù, in modo del tutto discontinuo rispetto alla prassi rabbinica del tempo, ricercasse e incoraggiasse la presenza femminile. Luca per esempio scrive che nel suo ministero itinerante «c’erano con lui i Dodici e alcune donne», dando anche i nomi delle stesse: Maria Maddalena, Giovanna, Susanna e aggiunge «molte altre», espressione da cui è lecito inferire un numero di seguaci donne più o meno pari a quello dei seguaci uomini.
Non deve sorprendere quindi che la Chiesa primitiva conoscesse le diaconesse, come appare da san Paolo che scrive: «Vi raccomando Febe, nostra sorella, che è diaconessa della chiesa di Cencre» (Romani 16,1; il testo ufficiale della Cei purtroppo è infedele all’originale perché traduce il greco diákonon con “al servizio”! Ben diversa la Bible de Jérusalem che traduce correttamente “ diaconesse de l’Église”).
Che esito avrà l’istituenda commissione di studio sul diaconato femminile? Quanto tempo passerà prima che sia effettivamente al lavoro? Quanto prima che consegni i risultati? E questi che sapore avranno? Sono domande a cui al momento non è possibile rispondere, di certo però la riforma al femminile di papa Francesco è un’urgenza da cui la Chiesa non si può più esimere. Si tratta semplicemente di giustizia: quando si entra in una qualunque chiesa per la messa le donne sono sempre in netta maggioranza, com’è possibile che nessuna di esse possa commentare il Vangelo dall’altare? Il diaconato femminile metterebbe fine a questa ingiustizia e aprirà molte nuove strade.
È un sogno destinato ad avverarsi? Nessuno lo sa, certamente però il successo della riforma al femminile di papa Francesco dipenderà dalla capacità di saper mostrare la doppia fedeltà che vi è in gioco: fedeltà alle donne di oggi e fedeltà al Maestro di duemila anni fa, fedeltà all’attualità e fedeltà a quell’eterno principio di parità emerso al momento della creazione: «E Dio creò l’essere umano a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò» (Genesi 1,27).
Donne nella Chiesa, il Papa apre al diaconato femminile *
Papa Francesco ha annunciato che istituirà una Commissione di studio sul diaconato femminile nella Chiesa primitiva ritenendo che le donne diacone sono "una possibilità per oggi".
Se all’annuncio seguirà una decisione, per la prima volta in questo millennio si riaprirà una prospettiva che era considerata definitivamente chiusa da una decisione di Giovanni Paolo II. Il diaconato, infatti, è il primo grado dell’ordine sacro, seguito dal sacerdozio e dall’episcopato. I diaconi possono amministrare alcuni sacramenti tra i quali il battesimo e il matrimonio e in alcuni paesi ci sono intere regioni nelle quali sostituiscono ormai i sacerdoti nella guida delle comunità parrocchiali.
L’apertura prefigurata da Francesco avvicinerebbe la Chiesa Cattolica a quella anglicana dove ci sono donne preti e vescovi. Al Sinodo si era parlato di questo "tema audace" con l’intervento del reverendo Jeremias Schroder, arciabate presidente della Congregazione benedettina di Sant’Ottilia.
"Sul diaconato femminile la Chiesa non ha detto no", aveva spiegato già nel 1994 il cardinale Carlo Maria Martini, commentando lo stop di Giovanni Paolo II alle donne prete: una dichiarazione solenne, ad un passo dai crismi dell’infallibilità pontificia ed alla quale Papa Francesco ha detto più volte di volersi attenere.
Malgrado quel "no", per il porporato c’erano però ancora "spazi aperti", perchè il discorso sul ruolo della donna avrebbe potuto continuare a partire dal diaconato, "che il documento non menziona, quindi non esclude". Questo perchè, avvertiva il cardinale, occorre evitare che l’ecumenismo si blocchi proprio sul tema delle donne. Il diaconato è il primo grado di consacrazione "ufficiale" che precede l’ ammissione al sacerdozio e nelle prime comunità cristiane era aperto anche alle donne. Per Martini, dunque, non sarebbe stato male riaprire anche alle donne, pur ammettendo che sul sacerdozio femminile "il documento papale è decisivo, non ammette replica, nè riformabilità".
"Tuttavia credo che il vero compito di fronte a questa lettera - aveva osservato il cardinale - non è l’ esegesi puntigliosa dal punto di vista dogmatico, ma è vedere come, con questa lettera e malgrado le difficoltà che potrà suscitare, è ancora possibile sia un cammino di dialogo ecumenico, sia soprattutto un cammino in cui mostrare presenza e missione della donna a tutto campo. Rispetto a un documento di questo tipo, che sembra chiudere una via, come già altri in passato, mentre in realtà hanno favorito un ripensamento teologico e pratico che ha fatto superare certi scogli e ha fatto comprender meglio la natura e la forza della presenza della donna nella Chiesa, io penso che uno spazio rimanga aperto".
Di fatto il principale argomento per il "no" al sacerdozio femminile è infatti l’assenza delle donne nel cenacolo al momento dell’istituzione dell’Eucaristia. Ma una recente decisione di Papa Francesco già lo "smontava" in parte: quella sull’ammissione delle donne alla Lavanda dei piedi che il Papa aveva già attuato nel primo giovedì santo del suo Pontificato, quando andando al carcere minorile di Casal del Marmo, decise che quel giorno anche le ragazze potessero partecipare come protagoniste al rito della Lavanda dei piedi, diventa quest’anno una possibilità per tutte le parrocchie del mondo.
E’ significativo che Papa Francesco abbia scelto l’incontro di oggi nell’Aula Nervi con circa 900 superiore generali degli istituti religiosi femminili per affrontare questo tema così decisivo. Le religiose gli hanno chiesto, nel corso di una sessione di domande e risposte perchè la Chiesa esclude le donne dal servire come diaconi.
E una ha aggiunto "Perchè non costruire una commissione ufficiale che potrebbe studiare la domanda?". Il papa ha risposto che aveva parlato della questione una volta qualche anno fa con un "buon, saggio professore", che aveva studiato l’uso delle diaconesse nei primi secoli della Chiesa e gli ha aveva detto che ancora non è del tutto chiaro quale ruolo avessero. E soprattutto se "avevano l’ordinazione o no? "E’ rimasto un pò oscuro quale fossero ruolo e statuto delle diaconesse in quel momento". Costituire una commissione ufficiale potrebbe studiare la questione?", si è chiesto il Papa ad alta voce. E poi si è risposto: "Credo di sì. Sarebbe fare il bene della Chiesa di chiarire questo punto. Sono d’accordo. Io parlerò per fare qualcosa di simile. Accetto la proposta. Sembra utile per me avere una commissione che chiarisca bene".
Settant’anni di voto alle donne
di Giulia Siviero (Il Post, 10 marzo 2016)
Dire alle mie figlie che quando la loro nonna è nata le donne non potevano votare mi fa sempre una certa impressione. Nella classifica mondiale dei paesi che per primi approvarono il suffragio femminile, in testa c’è la Nuova Zelanda, 1893, poi l’Australia e i paesi scandinavi, la Russia (con la Rivoluzione d’Ottobre), la Gran Bretagna e la Germania dopo la prima guerra mondiale e gli Stati Uniti nel 1920. In Italia le donne furono considerate cittadine al pari degli uomini solo alla fine dell’ultima guerra, il 10 marzo di settant’anni fa.
La conquista dei diritti politici non fu, come spesso si dice e si legge, una progressiva concessione o un’estensione dei principi liberali e democratici, ma il risultato di una lunga e dura battaglia. La rivendicazione dell’accesso alla sfera pubblica - che fin da Aristotele era stata costruita e definita sulla base dell’espulsione delle donne - provocò una tenacissima resistenza per uno specifico motivo: l’esclusione delle donne dalla vita pubblica era legata al loro assoggettamento nella sfera privata. Per questo il diritto di voto fu negato alle donne per più di un secolo e mezzo. E per questo la loro battaglia per quello specifico diritto andò ben al di là di esso.
La storia di questa battaglia inizia con un paradosso: Francia, 1789, rivoluzione. Le donne borghesi e le donne del popolo partecipano alla presa della Bastiglia, protestano, muoiono. E parlano. A teatro Olympe de Gouges mette in scena gli eventi rivoluzionari contemporanei e nel 1791 propone di rendere universali i diritti proclamati all’Assemblea nazionale estendendoli anche alle donne («Uomo, sei capace di essere giusto? È una donna che ti pone la domanda»). Nel 1793 finisce sulla ghigliottina. Nel momento fondativo dei sistemi rappresentativi moderni fu immediatamente chiaro che l’universalismo in base al quale erano stati dichiarati i diritti non era affatto universale, ma riguardava solo gli uomini. Il nuovo mondo aveva qualcosa in comune con il vecchio: il mantenimento di quella situazione di privilegio che i rivoluzionari volevano cambiare.
La prima via italiana al riconoscimento di un suffragio davvero universale fu quella giudiziaria. Il 17 marzo del 1861, la carta fondamentale della nuova Italia unita divenne lo Statuto Albertino che all’articolo 24 diceva: «Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili, e militari, salve le eccezioni determinate dalle Leggi».
Una di queste eccezioni riguardava le donne, anche se non in modo esplicito. La riforma elettorale del 1882 concesse il diritto di voto a una parte consistente del movimento operaio portando il corpo elettorale dal 2,2 per cento delle popolazione a circa il 7 per cento, ma continuò a trascurare le donne. Così la successiva legge del 1895. Nel frattempo, nel 1877, Anna Maria Mozzoni, milanese, femminista e socialista, rifacendosi alle esperienze inglesi, francesi e statunitensi presentò una petizione al governo «per il voto politico alle donne», la prima di una lunga serie ad essere bocciata.
Nel 1881 Anna Maria Mozzoni e Paolina Schiff fondarono a Milano la “Lega promotrice degli interessi femminili”, nel 1903 diverse associazioni femminili si unirono nel Consiglio nazionale delle donne italiane affiliato all’International Council of Women e nel 1905 si formarono del comitati pro-suffragio femminile che promossero l’iscrizione nelle liste elettorali di donne che avessero i requisiti prescritti dalla legge. Il 26 febbraio del 1906 Maria Montessori sul giornale La vita scrisse un articolo in cui ribadiva l’invito specificando che la legge non poneva alcun esplicito divieto. Quello stesso anno le Corti di appello di sei città (Firenze, Palermo, Venezia, Cagliari, Brescia e Napoli) pronunciarono altrettante sentenze per bocciare il riconoscimento dell’elettorato politico alle donne che alcune Commissioni elettorali provinciali avevano accolto.
Il 4 agosto del 1906 la Corte di appello di Firenze disse ad esempio che un’interpretazione estensiva dell’articolo 24 dello Statuto avrebbe portato a concludere che «le donne non sono soltanto elettrici ma anche eleggibili». E dunque:
Clamorosamente, la Corte di appello di Ancona presieduta da Ludovico Mortara fu l’unica ad accogliere la richiesta di inclusione delle donne nelle liste elettorali. Era stata presentata da nove maestre di Senigallia e da una di Montemarciano e poiché non aveva precedenti ne parlarono tutti, giuristi e giornali. Al terzo e definitivo grado di giudizio la sentenza venne però rovesciata: non in base a quello che l’articolo 24 diceva, ma in base a quello che non diceva. In base, cioè, a una radicata consuetudine.
Fallita la via giudiziaria si tentò nuovamente quella della riforma legislativa: nel 1906 Anna Maria Mozzoni e altre 25 donne presentarono una nuova petizione. Il dibattito si svolse alla Camera nel febbraio del 1907 ma si concluse ancora una volta con un rifiuto.
Il 23 aprile del 1908, a Roma ci fu il primo Congresso nazionale delle donne italiane. La presidentessa Gabriella Rasponi Spalletti cominciò così: «L’avvenire è per il trionfo delle idee non dei partiti. Tutti i pregiudizi a riguardo delle donne cadranno se il Congresso saprà provare che è possibile un lavoro comune anche militando in campi diversi». Il Congresso durò diversi giorni e fu il tentativo di tradurre le richieste avanzate dal femminismo in precisi progetti di riforma da sottoporre al governo e al parlamento. Il diritto di voto fu il tema dominante e più discusso, ma si affrontarono le questioni del diritto all’istruzione e del diritto di famiglia; si parlò del divorzio, del diritto alla ricerca della paternità delle ragazze madri e del trattamento ingiurioso dei tribunali nei confronti delle donne vittime di violenza sessuale; si propose di introdurre nelle scuole l’educazione sessuale e di abrogare il matrimonio riparatore in caso di stupro.
L’unità si ruppe su un tema estraneo ai contenuti specifici del Congresso: la questione dell’istruzione religiosa nelle scuole pubbliche. Negli accordi precedenti agli incontri venne deciso che quel tema non doveva essere discusso, ma durante i lavori le donne furono indotte da pressioni esterne a prendere una posizione: la questione fu posta ai voti e quel giorno la sala era affollatissima di uomini che chiesero di votare dicendo che avevano pagato 10 lire per la tessera e che dunque ne avevano diritto: «Noi donne paghiamo le tasse, non per questo voi uomini ci concedete il voto» disse loro Maria Montessori dalla tribuna. Ma gli uomini votarono, prevalse il rifiuto dell’istruzione religiosa e su questo cadde l’unità delle donne. Le molte forze che il Congresso era riuscito a riunire si dispersero.
Nel 1912 venne introdotto il suffragio universale maschile e per la prima volta fu applicato nelle elezioni politiche del 1913. La guerra interruppe però la lotta delle donne. Il 9 maggio del 1923 Mussolini, che era al governo da un anno, parlò del suffragio femminile e promise alle donne il voto amministrativo. In quello stesso discorso rassicurò gli uomini dicendo:
Nel 1925 entrò in vigore una legge che concesse ad alcune italiane la possibilità di eleggere gli amministratori locali. Tre mesi dopo, una riforma rimpiazzò i sindaci con i podestà e cancellò il voto amministrativo in generale. Le madri prolifiche dello stato fascista furono escluse dalla pubblica amministrazione e scoraggiate dall’istruzione superiore, venne proibita la vendita di contraccettivi e vennero stabiliti dei premi per le famiglie numerose. Molte femministe e molte delle militanti del Congresso del 1923 scapparono all’estero. Poi la guerra, di nuovo. E un nuovo attivismo, non appena fu costituito il Governo di Liberazione Nazionale. La prima richiesta per il suffragio femminile fu della Commissione per il voto alle donne dell’UDI, l’Unione donne italiane nata per iniziativa di alcune esponenti del movimento antifascista: fu sostenuta dalle rappresentanze dei centri femminili dei vari partiti e dal Comitato nazionale pro-voto nel quale confluirono le principali organizzazioni.
Il 30 gennaio del 1945 con l’Europa ancora in guerra e il nord Italia sotto l’occupazione tedesca, durante una riunione del Consiglio dei ministri si discusse del suffragio femminile che venne sbrigativamente approvato come qualcosa di ovvio o, a quel punto, di inevitabile. Il decreto fu emanato il giorno dopo: potevano votare le donne con più di 21 anni ad eccezione delle prostitute che esercitavano «il meretricio fuori dei locali autorizzati». Nel decreto venne però dimenticato un particolare non da poco: l’eleggibilità delle donne che venne stabilita con un decreto successivo, il numero 74 del 10 marzo del 1946.
Sui giornali se ne parlò pochissimo con l’eccezione dell’Unità che dedicò alla notizia un editoriale piuttosto ambiguo:
La prima occasione di voto per le donne furono le amministrative del 1946: risposero in massa, con un’affluenza che superò l’89 per cento. Circa 2 mila candidate vennero elette nei consigli comunali, la maggioranza nelle liste di sinistra.
La stessa partecipazione vi fu per il referendum del 2 giugno. Le elette alla Costituente (su 226 candidate) furono 21 pari al 3,7 per cento: 9 della Democrazia cristiana, 9 del Partito comunista, 2 del Partito socialista e una dell’Uomo qualunque. Cinque deputate entrarono poi a far parte della “Commissione dei 75”, incaricata dall’Assemblea per scrivere la nuova proposta di Costituzione. Alla socialista Merlin si deve la specifica della parità di genere inserita all’articolo 3.
Di fronte a quella novità gli uomini e i giornali ebbero atteggiamenti diversi. Il Messaggero, ad esempio, raccontò la più giovane deputata eletta chiamandola “deputatessa” (apprezzabile lo sforzo) e descrivendo i suoi riccioli:
Il primo intervento di una deputata della prima legislatura su un tema non femminile fu invece raccontato così da Anna Garofalo:
L’arte erotica (e inaspettata) della fedeltà
Il nostro tempo è cinico e pragmatico, crede alla libertà senza inibizioni, giudica l’aspirazione delle coppie al “per sempre” una farsa o una catena repressiva
Ma i legami non sempre sacrificano il desiderio: l’autentica forza dell’amore è trasformare la ripetizione in un’esperienza davvero unica e irripetibile
Quello che l’ideologia neo-libertina non vede è che ogni forma di disincanto tende, come spiegarono già Adorno e Horkheimer a ribaltarsi nel suo contrario
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 03.04.2016)
Il tempo ipermoderno sputa sulla fedeltà inneggiando una libertà fatta di vuoto. Tutto ciò che ostacola il dispiegarsi della volontà di godimento del soggetto appare come un residuo moralistico destinato ad essere spazzato via da un libertinismo vacuo sempre più incapace di attribuire senso alla rinuncia. Il principio si applica tanto ai legami con le cose quanto, soprattutto, a quelli con le persone.
Non è un caso che nel nostro paese la fedeltà sia stata recentemente considerata dai legislatori come una forma arcaica del legame amoroso al punto da volerla sopprimere negli articoli del Codice che normano le unioni civili e quelle matrimoniali. Perché evocare inutilmente un fantasma anacronistico reo di aver pesato come un macigno inutile sulla libertà affettiva e sessuale delle vite umane? Meglio liberarsene come di un tabù decrepito dalle armi desolatamente spuntate, come un ferro vecchio che non serve più a niente.
Oggi è il tempo del “poliamore”, della libertà senza inibizioni, della curiosità sperimentale, dell’esperienza senza vincoli, della morte dell’amore pateticamente romantico e dell’affermazione, al suo posto, dell’amore narcisistico che rende l’aspirazione degli amanti al “per sempre” una farsa o una ingenuità bigotta di qualche credulone, o, peggio ancora, una catena repressiva alla nostra libertà di amare che deve essere finalmente spezzata. Anche l’elevazione della fedeltà ad un rango superiore a quello della mera fedeltà (sessuale) dei corpi, teorizzata, non a caso, soprattutto dagli uomini, tradisce, in realtà, la stessa difficoltà a concepire un legame capace di durare nel tempo senza essere necessariamente mutilato nella spinta del desiderio.
Sembra un insegnamento fatale dell’esperienza: più una relazione dura nel tempo più il desiderio erotico si infiacchisce e necessita di nuovo carburante, o, meglio, di dopamina. Le neuroscienze lo confermano senza incertezza: il cervello per mantenere animato il desiderio deve essere dopato dall’eccitazione proveniente da un nuovo oggetto. L’anima, forse, si pensa, può restare fedele, ma non lo si può chiedere al corpo la cui spinta erotica non deve conoscere vincoli.
Il problema è che il nostro tempo non è più in grado di concepire la fedeltà come poesia ed ebbrezza, come forza che solleva, come incentivazione, potenziamento e non diminuzione del desiderio, come esperienza dell’eterno nel tempo, come ripetizione dello Stesso che rende tutto Nuovo. Il nostro tempo non sa né pensare, né vivere l’erotica del legame perché contrappone perversamente l’erotica al legame. È un assioma che deriva da una versione solo nichilistica della libertà: la libertà dell’amore - come la libertà in generale per l’uomo occidentale - deve escludere ogni forma di limite, deve porsi come assoluta. In questo senso la fedeltà diviene un tabù logoro che appartiene ad un’altra epoca e destinato ad essere sfatato.
Quello che l’ideologia neo-libertina del nostro tempo però non vede è che ogni forma di disincanto tende, come spiegarono già Adorno e Horkheimer in Dialettica dell’illuminismo, a ribaltarsi nel suo contrario. Il culto del poliamore, della libertà narcisistica, la polverizzazione dell’ideale romantico dell’amore porta davvero verso una vita più ricca, più soddisfatta, più generativa?
La clinica psicoanalitica ci consiglia di essere prudenti: la ricerca affannosa del Nuovo spesso non è altro che la ripetizione monotona della stessa insoddisfazione. Il punto è che il nostro tempo rischia di smarrire ogni possibile sguardo sulla trascendenza, sull’altrove, anche di quella che si dà nell’esperienza assolutamente immanente dei corpi. Perché non esiste amore se non del corpo, del volto, della particolarità insostituibile dell’Altro.
L’ideale della fedeltà può diventare - come lo è stato per diverse generazioni - una camicia di forza che sacrifica il desiderio sull’altare dell’Ideale divenendo dannosa per la vita. Quando questo accade è bene liberarsene al più presto.
Ma l’esperienza della fedeltà, vissuta non in opposizione alla libertà, ma come la sua massima realizzazione, offre alla vita una possibilità di gioia e di apertura rare. Quella che scaturisce dall’esperienza di rendere sempre Nuovo lo Stesso: la ripetizione della fedeltà rivela infatti che giorno dopo giorno il volto di chi amo può essere, insieme, sempre lo Stesso e sempre Nuovo.
Mentre il nostro tempo oppone lo Stesso al Nuovo, il miracolo dell’amore è, infatti, quando c’è, quello di rendere lo Stesso sempre Nuovo. Accade anche nella lettura dei cosiddetti classici. Lo diceva bene Italo Calvino: quando un libro diventa un classico se non quando risulta inesauribile di fronte ad ogni lettura? Quando la sua forza non si esaurisce mai, ma dura per sempre eccedendo ogni possibile interpretazione? E non è, forse, la fedeltà (ad un amore, ad un autore, ad un’idea) un nome di questa forza? Non è la fedeltà ciò che ci spinge a rileggere lo stesso libro - o un corpo che si trasforma in libro - scoprendo in esso sempre qualcosa di Nuovo? Non è il suo miracolo quello di fare Nuovo ogni cosa, soprattutto quella “cosa” che crediamo di conoscere di più? Non è questa la sua potenza: trasformare la ripetizione dello Stesso in un evento ogni volta unico e irripetibile?
Tolleranza non è ridurre le libertà delle donne
di Michela Marzano (Corriere della Sera, 31.03.2016)
Pare che George Washington, motivando ai quaccheri la ragione per la quale non avrebbe richiesto loro di adempiere il servizio militare, avesse detto che gli «scrupoli di coscienza di tutti gli uomini dovrebbero essere trattati con la più grande cura e gentilezza». E che quindi, in nome della tolleranza, si sarebbe dovuta «accomodare» persino la legge. Ma fino a che punto si possono «accomodare» alcuni diritti? È giusto arretrare anche solo sulle proprie abitudini?
È ammissibile, per le donne, rinunciare a quelle libertà conquistate da poco e con tanta fatica, come è accaduto recentemente ad Amsterdam dove sono stati vietati minigonne e stivali sexy negli uffici comunali per non urtare la sensibilità di una clientela multietnica? Si può, per dirla in altri termini, tollerare l’intolleranza altrui senza rischiare di cancellare la possibilità stessa della tolleranza?
La tolleranza, come ci insegnano Locke o Voltaire, non è solo quella virtù che porta a rispettare l’altro e le sue differenze. È anche e soprattutto ciò che permette di organizzare il vivere-insieme quando si hanno opinioni morali, politiche e religiose diverse, spingendoci a sopportare anche ciò che si disapprova. In che senso? Nel senso che quegli «scrupoli di coscienza» di cui parlava Washington non dovrebbero impedire alle donne di vestirsi come vogliono o agli umoristi di ironizzare o far ridere su qualunque cosa.
Esattamente come non dovrebbero impedire, a chi lo desidera, di augurare ad amici e a parenti «Buon Natale» o «Buona Pasqua», solo perché il Natale o la Pasqua sono festività cristiane. Ecco perché in ogni democrazia liberale e pluralista, pur non sopportando il fatto che una donna si veli, si dovrebbe essere capaci di accettarlo; esattamente come si dovrebbe accettare il fatto che alcune donne mettano la minigonna o vadano in giro con abiti sexy, anche quando la cosa infastidisce.
A meno di non voler distruggere proprio la tolleranza, visto che «tolleranza» e «intolleranza» non fanno altro che elidersi reciprocamente. Se in nome della tolleranza si tollerasse l’intolleranza si finirebbe d’altronde con lo svuotare di senso il concetto stesso di tolleranza.
È questo che vogliamo? Siamo sicuri che è il modo migliore per promuovere l’integrazione nei nostri Paesi? Non rischiamo così di aumentare la conflittualità e, nel nome della convivenza, di rinunciare a valori e ideali per i quali si sono battute generazioni intere di uomini e di donne?
L’integrazione non è mai facile. Non lo è per nessuno. Non lo è stato per gli Italiani, i Polacchi, gli Spagnoli e i Portoghesi che sono emigrati il secolo scorso. Lo è ancora meno per chi viene da una cultura o da una religione completamente diversa come l’Islam. In ogni caso, si è confrontati all’alterità. E l’alterità, per definizione, è difficilmente assimilabile. Anche perché l’altro, in quanto tale, è il contrario dell’identico, e quindi di tutto ciò che si conosce e che si è intuitivamente disposti ad accettare.
Ci si può integrare, come spiega il filosofo Alasdair MacIntyre, solo a partire dalle proprie molteplici «appartenenze» (famiglia, quartiere, tradizioni, chiese...). «E la particolarità», scrive MacIntyre, «non può mai essere semplicemente lasciata alle spalle o cancellata rifugiandosi in un mondo di massime universali». Al tempo stesso, però, ci sono diritti, o anche solo abitudini, su cui sarebbe un grave errore arretrare vuoi per paura, vuoi per rispetto. Soprattutto quando si pensa a quei territori di libertà femminili che si sono conquistate pian piano, con sofferenze e sacrifici. Perché poi è sempre così che finisce: sono le donne - ma anche le persone omosessuali e transessuali - che rischiano di pagare sulla propria pelle il prezzo di quest’accomodarsi per paura di ferire la sensibilità altrui.
Come si può anche solo pensare di vietare le minigonne o di coprire delle statue nude - come è accaduto in Italia in occasione della visita del presidente dell’Iran - solo perché il nudo potrebbe imbarazzare chi non si imbarazza affatto quando, a casa sua, si tratta di imporre i propri usi e costumi? Come si può anche solo immaginare di tollerare l’intolleranza di chi è convinto che un uomo non debba nemmeno sognarsi di stringere la mano di una donna?
Oswald Spengler, ne Il Tramonto dell’Occidente, spiegava che il mondo si fa, si disfa e si rifà, indipendentemente da quello che possiamo fare o volere. Con queste parole, il filosofo tedesco anticipava profeticamente la fine della «Modernità». Al tempo stesso, però, affermava qualcosa di profondamente erroneo. Almeno per chi parte dal presupposto che, nonostante ci sia sempre qualcosa che sfugga al controllo, gli esseri umani sono comunque responsabili del proprio destino. E crede quindi che ci si debba sempre battere per salvaguardare i propri diritti ed evitare di arretrare. Tanto più che, oggi, sono numerosi coloro che vorrebbero cancellare anni di storia e di battaglie femminili.
Gli integralismi, quando si tratta delle donne, si assomigliano tutti. E con la scusa di difendere valori come la famiglia, l’onore, il pudore o la castità, vogliono di fatto tornare a quell’epoca in cui le donne, docili e silenziose per natura, dovevano accontentarsi di restare a casa, lasciando agli uomini gli oneri e gli onori della vita pubblica.
Il diavolo si nasconde spesso nei dettagli: una minigonna vietata o un velo imposto, un «vergognati» o un «resta al posto tuo», un «era meglio prima» o un «questo è puro e questo è impuro». Tanti dettagli che, col tempo, rischiano però di diventare pericolosi. Soprattutto quando, nel nome della tolleranza e del rispetto, di fatto si impongono solo intolleranza e umiliazione. Ma come si può, nel nome della tolleranza, tollerare appunto l’intolleranza?
Intervista a Silvia Federici
Colpire le donne è colpire la comunità
di Eliana Gilet
Il capitalismo si è costruito sul declassamento del lavoro di riproduzione e di cura ma non è stato capace di superare l’ultima frontiera: produrre la vita al di fuori del corpo della donna. Lo ricorda, in questa lunga e densa intervista, Silvia Federici. Ci hanno convinto che la produzione è un fine in sé, che non ha rivali in termine di valore e pertanto la vita deve esservi sottomessa. Questa mostruosità ha permeato anche tutti noi, l’abbiamo interiorizzata, così riduciamo l’importanza del tempo e del rapporto con gli altri. Nella violenta offensiva contro la gestione comunitaria della terra, poi, l’attacco alle donne è fondamentale perché sono loro che tengono unita la comunità, che difendono più direttamente la vita e sono investite dal processo che la riproduce
Dove sono le donne nella lotta di classe? Per Silvia Federici la chiave per questa risposta si trova nella divisione del lavoro e nel “grande territorio di sfruttamento” che è il lavoro domestico. “Il capitalismo - dice - si è appropriato del lavoro non retribuito, ha costruito sé stesso sul declassamento del lavoro di riproduzione e di cura. Tuttavia non è un lavoro marginale bensì il più importante, soprattutto perché produce la capacità delle persone di poter lavorare”
L’opera fondamentale della Federici si intitola Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, pubblicata nel 2004. In questo testo realizza uno studio storico sulla “caccia alle streghe” che ha inizio nel XV secolo quando l’Europa, alle origini del capitalismo, frazionò le terre comunali trasformandole in proprietà individuali che vennero concesse agli uomini. In quell’occasione, la coltivazione per la sussistenza fu separata dalla coltivazione per il mercato, le donne vennero relegate in secondo piano e sui loro corpi furono ingaggiate le battaglie che portarono molte di loro sul rogo, soprattuto le anziane depositarie di saperi e di cultura.
A Silvia Federici si mescolano un po’ le parole: “Quando sono stanca, parlare in spagnolo non è facile” dice, però fa questo sforzo, attenta alla prima domanda.
C’è una spiegazione storica per l’aumento della violenza contro la donna?
«È importante riconoscere che in questa società la violenza è sempre stata presente in forma potenziale nella relazione tra uomini e donne. Molte donne vengono picchiate se non hanno preparato da mangiare, a molte viene detto che non devono uscire la sera, che devono rimanere in casa e accudire i loro figli, è parte delle regole del lavoro domestico. Credo però che dietro all’aumento di questa violenza ci siano molte ragioni.
«La prima è la ricerca di autonomia, il rifiuto di eseguire quelle attività che tradizionalmente hanno sempre fornito agli uomini. La ricerca di indipendenza avvicina le donne al pericolo: ad esempio, con l’immigrazione che espone le donne alla violenza delle autorità di frontiera; o nel lavoro domestico presso persone che non conoscono e dove vengono maltrattate. Questo non significa che le donne devono rimanere a casa, ma vuol dire denunciare una situazione in cui per raggiungere l’indipendenza economica sono soggette a grandi rischi nell’ambito del lavoro
«In secondo luogo, penso che le donne sono state e sono coinvolte in molte lotte, tanto che la violenza non proviene solamente dai singoli uomini ma è violenza di Stato e dei gruppi paramilitari (Federici si ferma su questo punto del suo discorso che, dice, non è secondario). Le donne hanno difeso un uso non commerciale della ricchezza della natura perché hanno un concetto diverso su ciò che è prezioso. Cos’è che dà sicurezza? Non hanno fiducia nel denaro, bensì nella sicurezza di avere animali, mucche, alberi. Contro di loro c’è violenza perché sono le protagoniste di tante lotte».
Si può tracciare un collegamento tra le violenze del Medioevo e quelle attuali?
«Negli ultimi due decenni si è verificata una nuova forma di ciò che Marx ha definito “accumulazione primitiva o originaria”: una nuova fase di smisurato ampliamento del mercato globale, per il quale è necessario trasferire e distruggere molte comunità. Vengono attaccate le terre comunali ma anche le relazioni prodotte dalla gestione comunitaria della terra. L’attacco alle donne è fondamentale oggi, così come lo è stato nei secoli XVI e XVII: perché sono le donne quelle che tengono unita la comunità, sono le donne che sono coinvolte nel processo di riproduzione, sono loro che difendono in maniera più diretta la vita delle persone.
«Colpire le donne è colpire la comunità. Pensa a questo: l’accusa di stregoneria è perfetta per disintegrare una comunità, per quanto è una teoria che mi piacerebbe comprovare maggiormente. Si basa sul principio del nemico interno: quella che sembra una vicina, di notte si trasforma, in una riunione mostruosa, assieme ad altre come lei. È un modo per instaurare la paura di relazionarsi con altre donne: pertanto ha distrutto la solidarietà, perché venivano obbligate a denunciare le altre».
Cos’è che ha generato questa nuova fase della produzione capitalistica volta ad alimentare il mercato finanziario?
«Mi sembra importante sottolineare un altro problema: proprio su questi temi, ci hanno fatto un lavaggio del cervello, ci hanno convinto che la produzione è un fine di per sé, che nulla la equivale in termini di valore, che la saggezza è sottomettere la vita umana alla produzione.
«È uno dei principi fondamentali del capitalismo e in base ad esso tutto è legittimo: l’omicidio, la rapina, la guerra. Tuttavia questo ha permeato anche la nostra personalità, lo abbiamo interiorizzato. Sono molti anni che sento che il mostro è dentro noi stessi: si tende, ad esempio, a ridurre il tempo che di dedica all’amicizia, all’amore, all’incontro.
«Raúl Zibechi mi ha detto che il tempo condiviso è un elemento chiave nelle comunità zapatiste. Mi sembra fondamentale e allo stesso tempo tanto difficile, perché dobbiamo cambiare noi stessi, convincerci che una delle ricchezze più grandi è il rapporto con gli altri. E che uno dei compiti più importanti è sviluppare la nostra personalità. Viene attribuito valore a un telefono nuovo, ma non alla capacità degli esseri umani di essere più solidali, di non essere ostili, di non trattare gli altri come nemici. Non viene attribuito valore allo sviluppo della capacità di comprensione, di compassione ed empatia con tutto il resto.
«Nel capitalismo la collaborazione è importante solamente quando serve a produrre qualcosa che si può commercializzare: è per questo che abbiamo bisogno di un cambiamento di soggettività. In una villa di Buenos Aires ho incontrato delle donne che mi hanno colpito per la loro grande personalità. Hanno fatto assemblee e discusso su ciò di cui avevano bisogno: avere illuminazione nel quartiere, asfaltare la strada perché non si riempia di fango quando piove. Questo ha significato molto lavoro, ma soprattutto tante decisioni. Quando ti muovi al di fuori della logica dello Stato e del mercato, tutto diventa un rischio. Tutto è rischio.Bisogna valutare bene quello che è importante e quello che non lo è, e questo è un criterio che si elabora assieme agli altri. Può essere definito solo a partire da una rapporto di solidarietà».
Le nuove forme di resistenza passano attraverso l’incontro?
«Il concetto di creare il comune significa anche ricostruire il tessuto delle nostre società. Ognuna delle ondate di espansione capitalista ha distrutto le relazioni di fiducia, di conoscenza e la prossimità. Per esempio, negli ultimi 30 anni, negli Stati Uniti la ristrutturazione del territorio ha distrutto tutte le comunità industriali del nord-est. Comunità dove le persone avevano lavorato per anni e avevano costruito forme di contropotere perché si conoscevano e sapevano che quando c’era uno sciopero il tuo vicino era al tuo fianco, ti avrebbe sostenuto. Tutto è stato distrutto.
«Perché oggi è così facile espropriare, gentrificare? Perché non c’è nulla che unisca le persone ai luoghi. Ci sono città americane dove la tutta popolazione è nuova. Non si conoscono e quindi non hanno capacità di resistenza. La gente non è pazza. Non si può resistere all’oppressione e alla dominazione se non si ha fiducia che gli altri lottino assieme a te».
Potresti fare alcuni esempi su dove vedi questa resistenza?
Ci sono molti modi e non tutti sono ugualmente efficaci. Uno di questi implica la creazione di forme di riproduzione fuori dal mercato. Quando iniziamo a stare assieme e a pensare di costruire qualcosa in comune è chiaro che la maggioranza delle persone vive inserita in una rete di relazioni capitalista e all’inizio non può sapere se quello che sta facendo è capitalista o anticapitalista, se crescerà o cambierà.
«Tuttavia è chiaro che noi non possiamo resistere se non cominciamo a ricostruire questa rete di relazioni, che è il tessuto della nostra vita, a costruire relazioni che ci danno sostegno, solidarietà, fiducia. Opporsi alla militarizzazione della vita, alla disoccupazione, all’impoverimento intellettuale o morale: è questa, oggi, la problematica comune. Penso anche agli studenti e alla privatizzazione della conoscenza, resistere contro la mercificazione della conoscenza, che costringe ad indebitarsi per studiare.
«Le lotte contro l’espropriazione della terra sono tra le più importanti. Quando le grandi imprese di sementi, le società dell’agrobusiness, controllano le terre del mondo e noi non abbiamo nessun rapporto con quanto mangiamo, non abbiamo nessun rapporto con la natura, allora siamo come animali ingabbiati nelle città. So che alcuni economisti marxisti, celebrano la città come il luogo delle grandi relazioni. La città, tuttavia, è una realtà sociale che dipende molto dalla campagna. Quando non si controlla niente della campagna, dei boschi, della costa, dei mari, si è completamente vulnerabili verso ciò che viene imposto. Non abbiamo nessun controllo. Ed è questo che accade. E poi c’è la questione indigena, della quale non voglio parlare perché non la conosco bene».
Quali sono gli effetti di questa fase globale sui nostri corpi?
«Il corpo della donna viene sempre di più trattato come una macchina. Un esempio sono gli uteri in affitto: le donne che vengono fecondate non vengono trattate come madri dei bambini che stanno procreando. Nei contratti che firmano, viene loro proibito di sviluppare affetto per quel bambino che partoriranno. Un altro attacco è legato alla cosmesi. Nel movimento femminista le donne hanno lottato contro l’estetica come disciplina, che è stata usata per dividere le donne: questa commercializzazione del corpo della donna sta facendo il suo ritorno.
«Penso però che sia nel campo della salute dove tutto ciò diventa più evidente. Quando scopri di avere una malattia grave, tutto diventa terribile se non hai accanto una comunità che può aiutarti a capire cosa sta succedendo, a pensare ai diversi tipi di terapia, ad accompagnarti dai medici. Se non hai questa comunità, sei perduta. Il protocollo medico contro il cancro ha una concezione militare della terapia: si combatte il cancro, si distrugge, lo si attacca, e in forma molto traumatica. Il cancro al seno è un esempio paradigmatico di come vengono imposte terapie che non prendono in considerazione quello che le donne provano, le loro paure, la possibilità di cure alternative. Negli Stati Uniti si formano gruppi di donne affette da cancro al seno che si riuniscono per darsi sostegno. Questo mi sembra indicativo del grado di isolamento esistente in questa società. L’isolamento è pericoloso perché ti indebolisce: indebolisce te e la tua capacità di resistenza. Spesso dico che il corpo della donna è l’ultima frontiera del capitalismo. Produrre vita al di fuori del corpo della donna è l’ultima frontiera che il capitalismo non è stato capace di oltrepassare».
Qual è il ruolo della memoria storica in tutto questo?
«Mi sembra importante stabilire, a differenza della teoria dominante, che il capitalismo ha prodotto povertà, non ricchezza. Almeno per noi c’è stato un impoverimento. Abbiamo perso il nostro rapporto con la natura. Come potevano i polinesiani navigare senza strumentazioni ma solo con la conoscenza che il loro corpo aveva del movimento delle onde? Non lo posso sapere: abbiamo perso il rapporto con il nostro corpo e con gli altri. Il capitalismo ci ha rinchiusi in queste cose piccole, isolate, in questa paura degli altri. L’impoverimento ha le sue radici nel non essere capaci di comprendere ed apprezzare la ricchezza della relazione con gli altri. Non solo questo: l’impoverimento ha le sue radici anche nell’aver perso la capacità di sentirsi parte di qualcosa di più grande che il singolo individuo. Questo tema è un’ossessione per me. Ci hanno confinati in cose tanto piccole.
«Il capitalismo è iniziato con la recinzione dei campi per espellere i contadini, ma anche per recintare le persone. Hanno tagliato la relazione con la natura, hanno tagliato la relazione con gli altri. Hanno tagliato la relazione con il nostro corpo: mi riferisco a questa forma di autodisciplina del distacco, questo processo di estraniamento dal proprio corpo.
«Questo è impoverimento: quando ci si sente una cosa piccola, isolata e non parte di qualcosa di più grande, di una storia. È importante capire che molte persone si sentono connesse con un insieme di relazioni che va oltre la loro stessa vita, che nella fine della loro vita non vedono la fine di tutto, che vedono la propria vita continuare in quella degli altri. Questo significa sentirsi parte di qualcosa di più grande. Quando si ha paura degli altri, quando non si è capaci di apprezzare e capire la ricchezza del rapporto con gli altri, allora sì che si è poveri».
Silvia Federici è nata 1942 a Parma ma ha vissuto e insegnato negli Stati Uniti, dove è molto nota come attivista femminista marxista. Ha però lavorato in Nigeria per molti anni ed è stata cofondatrice della Committee for Academic Freedom in Africa. Fa parte, tra le molte altre cose, del Midnight Notes Collective. Questa intervista è stata realizzata in occasione del Congreso de Comunalidades che si è tenuto a Puebla, in Messico, nell’ultima settimana di ottobre 2015. È stata inizialmente pubblicata su Desinformemonos e poi ripresa anche da Brecha
“Calibano e la Strega. Donne, corpo e accumulazione primitiva”
Intervista a Silvia Federici sulla caccia alle streghe
Come è possibile che l’uccisione sistematica delle donne sia stata affrontata come un capitolo aneddotico nei libri di storia? Non ricordo nemmeno di averne sentito parlare a scuola...
Questo è un buon esempio di come la storia venga scritta dai vincitori. A metà del XVIII secolo, quando il potere della classe capitalista si consolidò e la resistenza venne in larga parte sconfitta, gli storici cominciarono a studiare la caccia alle streghe come un semplice esempio di superstizioni rurali e religiose. Di conseguenza, fino a poco tempo fa, pochi furono coloro che indagarono seriamente le ragioni che si celano dietro la persecuzione delle “streghe” e la loro correlazione con la creazione di un nuovo modello economico. Come spiego in ” Calibano e la Strega ... ” due secoli di esecuzioni e torture di migliaia di donne, condannate a una morte atroce, sono stati liquidati dalla Storia come il prodotto di ignoranza o relativo al folklore. Una indifferenza che sfiora la complicità, dal momento che la soppressione delle streghe dalle pagine della storia ha contribuito a banalizzare la loro eliminazione fisica sul rogo.
Questo fino a quando il Movimento di liberazione delle donne degli anni ’70 espresse un rinnovato interesse per la caccia alle streghe. Le femministe si resero conto di trovarsi di fronte a un fenomeno molto importante che aveva plasmato la posizione delle donne nei secoli successivi, e si identificarono con il destino delle ‘ streghe’, in quanto donne che furono perseguitate in virtù della propria resistenza al potere della Chiesa e dello Stato. Speriamo che alle nuove generazioni di studenti si insegni l’importanza di questa persecuzione.
C’è qualcos’altro che turba profondamente, ed è il fatto che, ad eccezione dei pescatori baschi di Lapurdi, i parenti delle presunte streghe non si armarono in loro difesa, dopo aver combattuto insieme durante le rivolte contadine.
Purtroppo, la maggior parte dei documenti che abbiamo sulla caccia alle streghe sono stati scritti da coloro che detenevano il potere: gli inquisitori , i giudici, i demonologi. Questo significa che ci possono essere stati esempi di solidarietà che non sono stati registrati. Ma bisogna considerare che era molto pericoloso, per le famiglie delle donne accusate di stregoneria, venire loro associati e difenderle. In realtà, la maggior parte degli uomini che sono stati accusati e condannati per stregoneria erano parenti di donne sospettate. Questo, naturalmente, non minimizza le conseguenze della paura e della misoginia, conseguenza diretta della caccia alle streghe che divulgava un immagine della donna orribile, quale assassina di bambini, serva del diavolo, distruttrice di uomini, sedotti e resi simultaneamente impotenti.
Hai individuato due conseguenze evidenti della caccia alle streghe: che è un elemento fondamentale del capitalismo e che segna la nascita della donna sottomessa e addomesticata.
La caccia alle streghe, così come la tratta degli schiavi e la conquista dell’America, fu un elemento fondamentale all’instaurazione del sistema capitalistico moderno, poiché mutò in maniera decisiva le relazioni sociali ed i fondamenti della riproduzione sociale, a partire dalle relazioni tra donne e uomini e donne e Stato. In primo luogo, la caccia alle streghe ha indebolito la resistenza della popolazione ai cambiamenti che hanno accompagnato la nascita del capitalismo in Europa: la distruzione del comune possesso della terra, l’impoverimento di massa, la fame e la nascita, nella popolazione, di un proletariato senza terra, a partire dalle donne più anziane che, non possedendo terra da coltivare, dipendevano dagli aiuti dello Stato per sopravvivere. Ha inoltre ampliato il controllo dello Stato sui corpi delle donne, criminalizzando il controllo da queste esercitato sulla propria capacità riproduttiva e sessualità (ostetriche e donne anziane furono le prime sospettate). Il risultato della caccia alle streghe in Europa fu la nascita di un nuovo modello di femminilità e di una nuova concezione della posizione sociale delle donne, che svalutava il loro lavoro in quanto attività economica indipendente (un processo che era già gradualmente cominciato) e le poneva in una posizione subordinata rispetto agli uomini. Questo è il requisito principale per la riorganizzazione del lavoro riproduttivo necessario al sistema capitalista.
Parli del controllo dei corpi: se nel Medioevo le donne esercitavano il controllo indiscusso sul parto, nella transizione al capitalismo “gli uteri diventano territorio politico controllato dagli uomini e dallo Stato”.
Non vi è dubbio che con l’avvento del capitalismo si comincia ad assistere ad un controllo dello Stato molto più forte sui corpi delle donne, realizzato non solo attraverso la caccia alle streghe, ma anche attraverso l’introduzione di nuove forme di controllo su gravidanza e maternità, e l’istituzione della pena di morte contro l’infanticidio (quando il bambino nasceva morto, o moriva durante il parto, la madre veniva accusata e giustiziata). Nel mio lavoro sostengo che queste nuove politiche, e in generale la distruzione del controllo che le donne, nel Medioevo, avevano esercitato sulla riproduzione, sono indissolubilmente legate alla nuova concezione del lavoro promossa dal capitalismo.
Quando il lavoro diventa la principale fonte di ricchezza, il controllo sui corpi delle donne assume un nuovo significato; gli stessi corpi vengono quindi visti come macchine per la produzione di forza lavoro. Penso che questo tipo di politica sia ancora molto importante oggi, perché il lavoro, la forza lavoro, restano fondamentali all’accumulazione del capitale. Questo non significa che i datori di lavoro di tutto il mondo vogliano più lavoratori, ma certamente vogliono controllare la produzione della forza lavoro, quanta ne deve essere prodotta e in quali condizioni.
In Spagna, il ministro della Giustizia vuole riformare la legge sull’aborto, escludendo i casi di malformazione del feto, proprio quando gli aiuti stanziati dalla Ley de Dependencia (legge che regolamenta e sostiene la non-autosufficienza) sono stati cancellati.
Anche gli Stati Uniti stanno cercando di introdurre leggi che penalizzano gravemente le donne e limitano la loro capacità di scegliere se avere o meno figli. Ad esempio, molti stati stanno introducendo leggi che rendono le donne responsabili di ciò che accade al feto durante la gravidanza. C’è stato il caso controverso di una donna accusata di omicidio, perché suo figlio era nato morto e poi venne scoperto che aveva fatto uso di alcune droghe. I medici esclusero che la cocaina fosse la causa della morte del feto, ma invano, l’accusa è rimasta in piedi. Il controllo della capacità riproduttiva delle donne è anche un mezzo per controllare la sessualità e il comportamento in generale delle donne.
Lo dici tu stessa: “perché Marx non ha messo in discussione la procreazione come attività sociale determinata da interessi politici?”
Questa non è una domanda facile a cui rispondere, perché oggi sembra ovvio che la procreazione e la nascita dei figli siano momenti cruciali nella produzione della forza-lavoro, e non a caso sono stati oggetto di una regolamentazione molto dura da parte dello Stato. Credo, tuttavia, che Marx non potesse permettersi il lusso di vedere la procreazione come un momento della produzione capitalistica, perché si identificava con l’industrializzazione, le macchine e l’industria su larga scala, e la procreazione, come il lavoro domestico, sembrava essere l’opposto dell’ attività industriale.
La trasformazione del corpo femminile in una macchina per la produzione di lavoro è qualcosa che Marx non poteva riconoscere. Oggi - in America, almeno - anche il parto è diventato un fatto meccanico. In alcuni ospedali, ovviamente non in quelli per persone abbienti, le donne partoriscono in catena di montaggio, con un tempo definito a disposizione per il parto, superato il quale viene chiesto un cesareo.
La sessualità è un altro argomento che tieni in considerazione da un punto di vista ideologico, dal momento che la Chiesa ha promosso con grande violenza un controllo ferreo e la criminalizzazione. Era così forte il potere che conferiva alle donne, da far sì che questo tentativo di controllo permanga tutt’ora?
Penso che la Chiesa si sia opposta alla sessualità (anche se sempre l’hanno praticata in segreto), perché ha paura del potere che esercita nella vita delle persone. E ‘ importante ricordare che, per tutto il Medioevo, la Chiesa è stata coinvolta nella lotta per sradicare la pratica del matrimonio dei preti, che era vista come minaccia alla conservazione del suo patrimonio. In ogni caso, l’attacco della Chiesa alla sessualità è sempre stato un attacco alle donne.
La Chiesa ha paura delle donne, e ha cercato di umiliarci in ogni modo possibile, reputandoci la causa del peccato originale e della perversione negli uomini, costringendoci a nascondere i nostri corpi come se fossero contaminati. Nel frattempo, si è cercato di usurpare il potere delle donne, presentando il clero come elargitore di vita e indossando la gonna come indumento.
In un’intervista hai detto che è tuttora in atto una caccia alle streghe. Chi sono gli eretici oggi?
La caccia alle streghe ha avuto luogo per diversi anni in vari paesi africani e in India, Nepal, Papua Nuova Guinea. Migliaia di donne sono state uccise in questo modo, accusate di stregoneria. Ed è chiaro che, proprio come nei secoli XVI e XVII, questa nuova caccia alle streghe è collegata con l’estensione dei rapporti capitalistici in tutto il mondo. Fa molto comodo aizzare i contadini l’uno contro l’altro, mentre in tante parti del mondo stiamo assistendo ad un nuovo processo di privatizzazione delle terre e un enorme saccheggio dei mezzi fondamentali di sussistenza. Esistono anche prove del fatto che la responsabilità di questa nuova caccia alle streghe, che a sua volta si rivolge in particolare a donne anziane, deve essere attribuita allo sforzo delle sette cristiane fondamentaliste, come il movimento pentecostale, che ha riportato nuovamente nel discorso religioso il tema del diavolo, aumentando il clima di sospetto e di paura generato dal deterioramento drammatico delle condizioni economiche.
“Omnia sunt COMMUNIA” , “Tutto è comune”, è stato il grido degli anabattisti la cui lotta e sconfitta, come racconti nel libro, è stata spazzata via dalla storia. E ‘ancora altrettanto sovversivo quel grido?
Lo è certamente, dal momento che viviamo in un tempo in cui ‘Omnia sunt Privata’. Se le tendenze attuali continueranno, presto non ci saranno più marciapiedi, spiagge o mari o acque costiere, o terreni o boschi che possano essere accessibili, senza dover pagare un prezzo. In Italia, alcuni comuni stanno cercando di approvare leggi che vietano alle persone di mettere i propri asciugamani sulle poche spiagge libere rimaste, e questo è solo un piccolo esempio. In Africa, stiamo assistendo al più grande accaparramento di terre nella storia del continente da parte dell’industria mineraria, agro-industriale, agro-combustibile... Il paese africano è in via di privatizzazione e le persone vengono espropriate ad un ritmo che corrisponde a quello dell’epoca coloniale. La conoscenza e l’educazione sono sempre più materie prime a disposizione solo di chi può pagare e anche i nostri corpi sono in corso di brevetto. Per questo ‘omnia sunt communia’ resta un’idea radicale , ma dobbiamo stare attent* a non accettare il modo in cui viene distorto questo ideale, per esempio da parte di organizzazioni come la Banca Mondiale, che con la scusa di ‘preservare la comunità globale’ privatizza terre e foreste dalle quali dipende il sostentamento di intere popolazioni.
Come affrontare la questione dei beni comuni oggi?
Il tema dei beni comuni riguarda il modo di creare un mondo senza sfruttamento, egualitario, dove milioni di persone non muoiano di fame mentre pochi consumano a ritmi osceni, e nel quale l’ambiente non venga distrutto: un mondo nel quale le macchine non aumentino il nostro sfruttamento piuttosto che ridurlo.
Questo credo sia il nostro problema comune e il nostro progetto comune: creare un nuovo mondo.
Il lungo (e incompiuto) processo verso la famiglia fondata su amore e accoglienza
Si discute molto di famiglia e di figli in questo periodo. Ma troppo spesso si dimentica che di “naturale” la famiglia ha poco o nulla, che nella storia e nelle varie culture essa ha assunto connotati molto diversi, e molto spesso violenti nei confronti di donne e bambini. In questo contesto, che significa che “i figli non sono un diritto”?
di Chiara Saraceno *
“I figli non sono un diritto”. Vero, non c’è dubbio. Vale per tutti: per le coppie formate da persone di sesso diverso come per le coppie formate da persone dello stesso sesso, per le coppie come per i/le single. Ma che cosa significa esattamente che non sono un diritto? Che chi non è fertile, o ha un partner non fertile, non ha diritto di provare e viceversa che basta essere fertili (e in un rapporto di coppia eterosessuale) per avere automaticamente il diritto di avere un figlio? Quando si discute di diritti e li si aggancia ad una idea di “natura” e di “normalità” si intraprende una strada molto scivolosa. Una strada lungo la quale si incontrano molte violenze, in particolare contro le donne e i bambini, ma talvolta anche contro gli uomini.
Qualche secolo fa in Italia le donne nubili sospette di essere incinte venivano imprigionate per evitare che abortissero, salvo togliere loro i figli perché “indegne” di essere madri. In Irlanda, come ci ha ricordato il film Le Maddalene, la cosa è durata fino a qualche decennio fa con il beneplacito della Chiesa Cattolica. In nome della protezione della “paternità legittima” i figli nati da un uomo sposato fuori dal matrimonio non potevano essere riconosciuti da quello. E una madre coniugata che avesse un figlio con un uomo diverso dal marito, magari lontano o da cui era separata, aveva di fronte a sé solo due scelte: o non riconoscerlo affinché il padre, se non a sua volta sposato, potesse farlo lui, oppure tacere, attribuendone la paternità al marito. Il tutto con buona pace dell’oggi tanto sbandierato principio che i bambini hanno bisogno di un padre e di una madre, possibilmente biologici.
Nella legge 40, fortemente voluta da una grossa fetta dei parlamentari cattolici e la cui abrogazione per via referendaria è stata attivamente impedita dalla gerarchia cattolica, si è vietata sia la riproduzione artificiale con donatore o donatrice, sia il ricorso all’esame pre-impianto degli embrioni nel caso di aspiranti genitori portatori di malattie genetiche gravi, che avrebbero comportato sofferenze atroci all’eventuale nascituro. Ci sono volute sentenze delle Corti italiane ed europea per cancellare questa mostruosità voluta da parlamentari ottusi e arroganti che, con la benedizione della Chiesa, si arrogavano il diritto di dire chi può e in quali condizioni fare figli e chi no. Se dovessero poter avere figli solo coloro che sono fertili, e in coppia eterosessuale, dovremmo non solo condannare ogni forma di riproduzione assistita, inclusa quella con gameti della coppia, ma anche vietare l’adozione.
Nella nostra società e cultura da lungo tempo si è passati da un’idea che si facessero figli - in proprio o tramite adozione - vuoi perché “venivano”, come non sempre benvenuta conseguenza di un rapporto sessuale, vuoi perché utili alla dinastia o all’impresa famigliare, ma perché danno gioia e aprono al futuro. Come ha ammesso, con un lapsus involontario, lo stesso cardinal Bagnasco, la famiglia non è un fatto ideologico, bensì antropologico. Appunto, l’antropologia, e la storia, ci mostrano che qualunque sia la “famiglia voluta da Dio”, secondo la sorprendente e astorica definizione di papa Francesco, le famiglie umane vengono in forme e contenuti diversi.
Non c’è un’unica “famiglia umana”. Ed alcune forme di famiglia anche del nostro recente passato erano intrinsecamente violente nei rapporti di genere e generazione, non solo a livello individuale, ma proprio di conformazione istituzionale.
C’è voluto un lungo processo, non del tutto compiuto, perché la dimensione fondamentale, autenticamente generativa, della genitorialità fosse l’accoglimento e l’assunzione di responsabilità e perché la cifra della relazione genitori-figli (come per la coppia) fosse l’amore E’ su questo che si gioca il “diritto ad avere figli” o, meglio, a provarci, non di fronte alla legge, ma di fronte alla propria coscienza.
Le tecniche di riproduzione assistita, e più ancora la possibilità di ricorrere ad una madre gestante per altri, acuiscono ed esplicitano la necessità di effettuare - ciascuno nel proprio foro interiore - questa valutazione: non solo perché la scelta di diventare genitori è necessariamente più esplicitamente intenzionale, ma perché coinvolge più soggetti e modifica di poco o tanto il nesso tra coppia, sessualità, generazione. Di nuovo, vale per tutti, non solo per le persone omosessuali.
Quando si smetterà di pretendere di possedere la verità e il monopolio della definizione di chi può fare famiglia e chi può avere figli, finalmente si potrà aprire una riflessione in cui tutte le parti possano trovare voce e ascolto, con rispetto e pazienza, per fare un passo ulteriore nel processo di civilizzazione della famiglia e dei rapporti di sesso e generazione.
di Nicla Vassallo (SCENARI, 25.01.2016)
Presso i Musei Vaticani, al cospetto della Scuola di Atene di Raffaello, la presenza di maschi/uomini risulta netta, netta se non fosse per un “ambiguo” individuo, a fianco di Parmenide: forse si tratta di Ipazia - non tutti concordano. Ipazia, certo, non era una donna oggetto, e così l’hanno brutalmente uccisa. Anche Diotima, prima di Ipazia, non raffigura, unica donna nel Simposio di Platone, nient’affatto una donna oggetto. Tuttavia, di tali donne la storia della filosofia ne ricorda ben poche: le donne sono state martoriate dai filosofi, con qualche eccezione a parte - Cartesio e John Stuart Mill, ad esempio.
Prendiamo Aristotele: le donne rimangono maschi menomati o mutilati; il loro essere femmine si deve alla mancanza di potenza; la loro femminilità coincide con la passività, e da passive vanno trattate, al pari di oggetti. E via di seguito con le generalizzazioni: rispetto agli uomini, le donne si attesterebbero impulsive, doppie, gelose, petulanti, spudorate. Avremmo potuto confidare in Tommaso, il santo, che invece in proposito si fa anche lui portatore dei pregiudizi aristotelici. Pregiudizi che si replicano, con variazioni sul tema, nei cosiddetti “grandi” filosofi: stando a Kant, le donne non risultano in grado di azioni genuinamente etiche per carenza di senso del dovere (del resto, che etica può possedere un oggetto?); per Hegel, esse debbono venir rinchiuse in casa, in quanto prive di ragionamento universale, che si esige invece in ambito politico e pubblico (del resto, di quale ragionamento universale dispone un oggetto?); secondo Schopenhauer le donne permangono “per natura” inferiori rispetto ai maschi, in quanto, decretate perennemente infantili, manipolatrici e bugiarde, esse mancano di intelligenza e senso di giustizia (donne, pur sempre, oggetti); a parere di Nietzsche le donne sono un gingillo, utile solo a procreare e a rappresentare un mero passatempo per gli uomini (sono strumenti, proprio come alcuni oggetti).
Le donne simboleggiano dunque irrazionalità, o, se va bene, una razionalità che dipende dagli uomini. Non ritengo infatti causale che tra le filosofe si esaltino (con o senza ragione?) donne legate a filosofi di sesso maschile: basti menzionare Eloisa (con Abelardo), Simone de Beauvoir (con Jean-Paul Sartre), Hannah Arendt (con Martin Heidegger).
Alle emozioni, invece, specie se emozioni legate alla follia, le donne, poetesse, non filosofe, vengono destinate. Saffo (solo per menzionare qualche esempio) canta amori sublimi, per poi gettarsi da una rupe. La timida e sensibilissima Antonia Pozzi, divisa tra amori, sceglie la morte con barbiturici, a ventisei anni; scrive di eros e thanatos, con selvagge siepi/di amori: morire è questo/ ricoprirsi di rovi/ nati in noi. Sylvia Plath si uccide a trent’anni, con la testa nel forno (la testa della poetessa e il forno della moglie-madre) dopo aver cantato la morte:
Morire è un’arte, come qualsiasi altra cosa.
Io lo faccio in un modo eccezionale
io lo faccio che sembra un inferno
io lo faccio che sembra reale.
Ammetterete che ho vocazione.
Anne Sexton “sopravvive” più a lungo, ma a quarantacinque anni in un garage si intossica col monossido di carbonio. E, infine, non posso che menzionare lei, Virginia Woolf, non poetessa, bensì scrittrice poetica e folgorante, che opta a cinquantanove anni per una morte “tecnicamente” difficile: con le tasche ricolme di sassi, si lascia annegare nel fiume Ouse. Lei che aveva scritto Al Faro, e di acqua s’intendeva.
Se le filosofe prima menzionate si accoppiano e associano a uomini, con le poetesse il tutto non è immediato. Di Saffo si narra che amasse le donne. Sylvia Plath cosa c’entrava davvero con Ted Hughes? E chi si ricorda di Alfred Muller Sexton? Mentre di Virginia Woolf diremmo che nutrisse una reale passione per il marito Leonard, o per Vita Sackville-West?
Le donne che rifiutano categoricamente di essere considerate donne oggetto non hanno forse alcuna scelta se non il suicidio?
E, invece, gli omicidi? Si uccide, come distruggono gli oggetti. Prendiamo Dante che nel Canto V del Purgatorio, con Pia De’ Tolomei, ci porta nel girone di coloro che, a causa di una morte violenta, trovano il pentimento, una sorta di riabilitazione, in fin di vita. Che tipo di pentimento? Di Pia De’ Tolomei, uccisa dal marito, entro un contesto familiare, ci viene comunicata la dolcezza, insieme alla volontà di venir ricordata per una qualche sua fede. Benché in relazione al mondo terreno la sua indifferenza e il suo autocontrollo rimangano sospetti, perlomeno agli occhi odierni, il suo “ricorditi di me” ci addolora: Pia suscita in noi un desiderio, una necessità di protezione. Pia De’ Tolomei invoca aiuto, così come si dovrebbe fare. Anche se non fosse mai esistita e la sua fama si dovesse solo a Dante, la Pia rimane l’emblema di un entusiasmo divorato dalla violenza. Quante e quali Pie incontriamo quotidianamente senza saper nulla di loro, e senza che nulla ci raccontino? Le sconcertanti violenze degli uomini sulle donne, nel mondo, specie all’interno delle mura domestiche, si traducono raramente in denunce. Quali le loro cause e i loro significati? Se non sei una persona, bensì un oggetto di mio possesso, mi è lecito far di te quanto mi pare. E le donne sono persone?
A rispondere negativamente è una «femminista immutata», Catharine MacKinnon, che si domanda proprio se le donne siano oggetti o esseri umani, per concludere seccamente che non sono esseri umani.
Perché? Semplice la ragione. Se le donne fossero esseri umani, non sarebbero spedite in container dalla Tailandia ai bordelli di New York, o rapite in sperduti villaggi nigeriani e gettate poi sulle strade italiane; non sarebbero sessualmente schiavizzate; non lavorerebbero tutta la vita senza salario o con salari indecenti, costrette a svolgere mansioni pesanti, pericolose o avvilenti per troppe ore al giorno; non verrebbero infibulate, percosse, stuprate; non si pretenderebbe che sposino il proprio stupratore, né sarebbero accusate di rapporti sessuali fuori del matrimonio quando denunciano l’uomo in questione; non sarebbero indotte a suicidarsi per riparare l’onore della propria famiglia; non dovrebbero nascondersi dietro burka o simili indumenti; non sarebbero costrette nelle loro case come in prigioni; non subirebbero molestie sessuali e mutilazioni genitali (nella sola Africa vi sono tuttora tre milioni di bambine ancora a rischio di subirle, nonostante l’ONU abbia recentemente e finalmente bandito dette mutilazioni); non verrebbero messe a tacere, torturate, lapidate, decapitate, o uccise appena nate (l’infanticidio delle figlie femmine è ancora praticato). La lezione che occorre ricavare da questo elenco non è onorevole: le donne rimangono sotto più punti di vista oggetti, mentre gli obiettivi femministi e delle filosofie femministe non sono stati conseguiti. «Una stanza tutta per sé» e «cinquecento sterline annue» rimangono chimere.
MacKinnon si riferisce a cosa accade nel mondo in generale. Dando un’occhiata a cosa accade solo nel mondo cosiddetto occidentale, le immagini di donne da cui si viene bombardati/e sul piano mediatico si condensano troppo spesso in donne “leggere”, la cui reale consistenza è il corpo, non una mente ragionante; sono immagini normative che esplicitano chiaramente “questo è come la donna deve essere”; sono immagini che certo possono mutare e, difatti mutano, ma che rimangono sempre centrate sul corpo. Sull’oggetto.
Difficile fuggire dalla trappola. Non tutte le donne sono intelligenti, d’accordo. Ma molte tendono effettivamente a esaltare un’apparenza fisica “femminile”. E se ci pone come “cattiva ragazza”, ovvero si trasgredisce la norma maschile eterosessuale, nel non corrispondere (almeno in qualche senso) al concetto di donna vigente, si corre il rischio dell’esclusione, e l’esclusione non è facile da sostenere.
Il concetto di donna vigente nella nostra civiltà, specie in Italia, da una parte regala in effetti mere illusioni di stabilità e d’identità, e dall’altra è rigidamente monolitico: deve così essere in una società androcentrica, razzista, eterosessista, votata alla “normalità”. Come è sostenuto, giustamente a mio avviso, il rimedio alla donna oggetto non può che consistere nel delegittimare «a priori l’esplorazione della continuità esperienziale e della base strutturale comune tra le donne» (cfr. Bordo 1990, p. 142). Del resto, molte donne, ma non tutte, cedono a venir meticolosamente assoggettate sotto diversi profili: economico, legale, politico, professionale, psichico, religioso, sessuale, sociale, e via dicendo. In modo diretto o indiretto, in misura maggiore o minore, ogni donna eterosessuale subisce commerci, devianze, etiche, leggi, identità, molestie, pratiche, politiche, violenze sessuali, oltre a doveri erotici, procreativi e riproduttivi, all’insegna di schemi rappresentazionali dettati da interessi sessuali. Ancora oggi. Che cosa specificare di più sulle donne oggetto?
Una certa normatività rimane deleteria e si converte comodamente in forme di vero e proprio autoritarismo sulla sessualità, in cui a rannuvolarsi rimane la sessualità delle donne. Diviene allora quasi scontato affermare con Monique Witting che, per esempio, le lesbiche non sono donne, perché il concetto di donna giunge a una piena elaborazione e assume un valore determinato solo nell’ambito di un atteggiamento normativo che obbliga la sessualità entro i rigidi schemi di un’eterosessualità in cui le donne vengono categorizzate, all’unico scopo di essere vessate (cfr. Wittig 1992). Si può anche concedere che si vessino gli oggetti, non le persone o gli esseri umani.
Ben si sa che, nel caso in cui non ci si comporti da donne oggetto o ci si consideri con consapevolezza donne non eterosessuali, sbalordisca sentirsi dire “tu non sei una donna”. Inquieta perché “tu non sei una donna” equivale spesso a “tu non sei una vera donna”, ove il termine “vero” maschera approvazione e disapprovazione. Proprio come quando affermiamo “la verdura di oggi non è vera verdura” intendiamo dire che tale verdura non è buona, quando diciamo “Valeria non è una vera donna” intendiamo dire che Valeria non è una donna “buona”: biasimiamo certi suoi atteggiamenti, comportamenti, ruoli che non rientrano nel concetto di donna “valido” e in uso in una certa cultura, a un determinato tempo (cfr., per esempio, Austin 1962, per considerazioni simili sul termine “real”). “Tu non sei una vera donna” comporta essere disapprovate, e lo si è perché non si corrisponde al concetto di donna vigente, di cui fanno parte parecchi pregiudizi (e allora che concetto è?) sulle differenze tra donna e uomo, a partire dalle differenze sessuali. È possibile che tu non sia una vera donna solo a causa dei tuoi desideri sessuali, che non corrispondono a quelli che la donna dovrebbe normativamente nutrire. Dunque, tu non sei una vera donna poiché rifiuti di oggettificarti.
È allora errato decretare, se non si esigono donne oggetto, che la differenza sessuale sia una componente essenziale del desiderio sessuale, è cioè errato consentire il desiderio sessuale solo tra donna e uomo, o tra femmina e maschio - tra la donna e l’uomo, tra il maschio e la femmina. Eppure è forse proprio il fine di circoscrivere il desiderio sessuale al rapporto eterosessuale che rende la differenza sessuale necessaria al desiderio sessuale, a partire dal presupposto che il rapporto sessuale deve essere finalizzato alla riproduzione, piuttosto che all’amore e alle varie rappresentazioni vissute che dell’amore si possono offrire (cfr. Vassallo 2015).
Il punto è che il maschio e la femmina, l’uomo e la donna hanno poca ragione d’essere, se con l’articolo determinativo intendiamo richiamarci a entità universali, al fine di catturare essenze maschili e femminili, che proseguono a incidere sulle donne rendendole oggetti. Tali entità/essenze possono trasformarsi in fonti di veri e propri azzardi, nell’azzerare la comprensibilità tra le tante differenze che corrono tra femmine e tra donne, così come le tante differenze che corrono tra maschi e tra uomini. La logore banalità dovrebbe venir sempre denunciata dalla buona filosofia, a partire dalle differenze tra femmine e maschi, tra donne e uomini, che la società rischia vieppiù di enfatizzare indebitamente, allo scopo di condizionare comportamenti e competenze declinate al “maschile” e al “femminile”, con donne oggetto in primo piano (cfr. Amoretti e Vassallo).
In fondo la donna rimane pura apparenza, una finzione al servizio dell’androcentrismo, del razzismo, dell’eterosessismo, della “normalità”, uno strumento normativo utile per imporre agli esseri umani di comportarsi in determinati modi, per avallare determinate pratiche e delegittimarne altre. L’idea che tutte le donne presentino similarità essenziali serve, per esempio, a legittimare il fatto che alle donne e agli uomini vengano assegnati ruoli culturali, professionali, sessuali e sociali distinti, che le donne debbano attenersi a canoni di genere cognitivamente diversi rispetto a quelli degli uomini, che i tratti fisici e psicologici delle donne debbano essere femminei, mentre quelli degli uomini mascolini. L’essenzialismo ha senz’altro legittimato un certo convenzionalismo femminile, costringendo le donne al perbenismo, vietando loro la realizzazione completa delle loro potenzialità. Del resto, le donne rimangono oggetti. Ma esso ha soprattutto ratificato il dualismo uomo/donna, da cui sono aristotelicamente zampillati altri pericolosi dualismi: mascolino/femmineo, razionale/irrazionale, attivo/passivo, culturale/naturale, oggettivo/soggettivo, e così via.
Torno ancora, in conclusione, a MacKinnon sulle donne oggetto, una conclusione dura, eppure realistica, che tratta di pornografia:
Alle donne la scelta, in quei luoghi, societari e civili, in cui la ragione è concessa.
L’amicizia uomo/donna
Meccaniche divine
di Marco Vannini *
Una diffusa opinione vuole che l’amicizia tra uomo e donna non sia possibile se non intercorre (o non sia intercorsa) tra loro anche una relazione sessuale. Un’amicizia solo spirituale sarebbe dunque qualcosa di artificioso, di ingannevole prima di tutto nei confronti di se stessi. Questa opinione presuppone che la pienezza dell’amore tra uomo e donna si manifesti nel rapporto sessuale, verso il quale tenderebbe inesorabilmente l’amore stesso come a suo compimento, e, in questo senso l’amicizia sarebbe solo una fase inferiore, più povera e modesta.
La diffusione di questa opinione dipende dal predominio di quella che Platone nel Convito chiama la Venere Pandemia, cioè volgare, nel duplice senso della parola in italiano: ampiamente diffusa tra il popolo e anche lontana dall’eleganza di ciò che è nobile. Ma la Venere Pandemia esiste, non dobbiamo negarlo, in quanto è vero che una corrente erotica passa necessariamente nei rapporti tra uomo e donna. Eros, demone mediatore tra l’uomo e Dio, incessantemente richiama verso la bellezza e spinge a ricercare l’unione con essa, e la prima forma con cui ciò si manifesta è, appunto, il desiderio sessuale. Perciò in tutti è diffusa la Venere Pandemia, che, si badi bene, è una dea e come tale va onorata. Ovvero, fuori dal mito, dobbiamo riconoscere che al fondo della natura umana esiste, insopprimibile, Eros, l’amore, che è innanzitutto desiderio di unione con un corpo. Questo onesto riconoscimento è il punto di partenza per comprendere quel mistero dell’amore che Diotima, sacerdotessa di Mantinea, rivela a Socrate. Perché il desiderio sessuale è solo la prima e più comune manifestazione della potenza del demone, che muta forma e diventa più ricco e più gioioso col crescere. Sottolineiamo questo punto. Come notava Simone Weil, solo un’epoca miserabile come la nostra può prendere sul serio Freud, l’anti-Platone per eccellenza, e la sua concezione per cui l’eros sessuale è primario, rispetto al quale sono diminuzioni le altre forme di amore.
In realtà, quando l’amore è forte, esso si muove di grado in grado verso il più, e lascia il meno, come dice la mistica medievale Margherita Porete, ripetendo, senza affatto saperlo, l’insegnamento impartito a Socrate da Diotima, a testimonianza che davvero le donne hanno “intelletto d’amore”. Così anche Agostino, nelle sue Confessioni, ricordando la giovinezza, ora che è grande e che sa cosa davvero sia l’Amore, che è Dio, riconosce che stava allora cercando l’amore: non sapeva cosa fosse, non sapeva amare, ma era l’amore che stava amando. Amare amabam perché è l’amore che si ama davvero: l’amore è il soggetto che ama, l’oggetto amato e, insieme, l’atto stesso di amare. La creatura, con la finitezza, è ciò che risveglia in noi quella “divina follia” con la quale giungono all’uomo tutti i doni più belli da parte di Dio: allora la Venere Pandemia cede il posto alla Venere Urania, che conduce l’uomo verso il cielo. L’amicizia non è una forma imperfetta di eros, ma, al contrario, il suo grado più alto.
Meister Eckhart scrive che l’amore per una creatura è in realtà amore di se stessi e da questo amore non si ricava che amarezza, giacché tutte le creature sono un nulla, dal momento che ricevono tutto il loro essere da Dio, e il contatto con il nulla non fa altro che male. L’amore per una creatura è un miracolo, di cui non c’è niente di più bello ma neanche di più straziante, perché mette davanti la finitezza, la molteplicità, e così la lontananza dall’Uno, in cui, solo, è la pace. In questo senso, scrive sempre Eckhart, dove entra la creatura, esce Dio. L’amore che ha un perché non è puro, in quanto dove c’è il perché c’è l’utile, comunque configurato. L’amore puro è senza perché. Infatti l’anima ha due occhi: uno guarda la creatura, e la ama con un amore carico di tenerezza e compassione proprio per la sua finitezza; l’altro guarda l’eterno, l’Uno, e nell’Uno ama tutte le creature di un amore che non è più per i corpi, ma per le anime che cerca di rendere migliori, così come viene reso migliore da questo amore.
Questo vale indipendentemente dal sesso. L’amicizia non è qualcosa che si deve cercare, chiedere o sperare: è una virtù, e come tale la si esercita e basta, come scrive Simone Weil. L’amicizia non è uno stato d’animo che va e viene, non è un sentimento, ma riguarda quello che i mistici chiamano il fondo dell’anima, ben più profondo dei mutevoli sentimenti, inaccessibile a tutto, fuori che a Dio nella sua nuda essenza. Riguarda non l’anima, ma lo spirito, è lì non v’è più maschio o femmina, come scrive Paolo, dove non ha più peso il sesso.
D’altra parte però non v’è dubbio che l’essere umano sia sessuato, e sesso significa divisione (sexus da secare): siamo maschi e femmine e per natura cerchiamo quella metà che ci manca, senza la quale si resta non psicologicamente pacificati, carichi di incomprensione e risentimento. Perciò è in un’amica che un uomo trova il perfetto completamento, così come una donna lo trova in un amico: certo, una corrente di Eros c’è, e deve esserci, perché lo spirito non può essere perfetto se prima il corpo e l’anima non sono perfetti, insegna ancora Eckhart, riferendosi a ciò che poi i tedeschi (come Goethe e Nietzsche) hanno chiamato Vergeistigung, spiritualizzazione, o Sublimation, ma in un senso opposto a quello in cui lo usa Freud (che lo ha rubato a Nietzsche): non mistificazione dell’istinto sessuale, ma suo inveramento.
Proprio nell’amicizia, dunque, ricca dell’eros tra uomo e donna, più che mai si manifesta la grazia di quel «sentimento popolare che nasce da meccaniche divine», come dice una canzone dei nostri giorni, l’Amore «che muove il sole e l’altre stelle». Ne possiamo addurre testimonianze infinite: dall’antichità a oggi, la storia ne è piena. Da quelle celebri come Chiara e Francesco, Teresa d’Avila e Giovanni della Croce, Giovanna di Chantal e Francesco di Sales, a quelle di intellettuali come Madame Guyon e François de Fénelon, Adrienne von Speyr e Hans Urs von Balthasar o Raïssa e Jacques Maritain, che furono anche moglie e marito. Non si tratta dunque di qualcosa che vale solo per religiosi e religiose, santi e intellettuali. Valga l’esempio di due nostri contemporanei: il domenicano Antonio Lupi e la giovane Tilde Manzotti, in cui epistolario (Amare infinitamente. Epistolario 1938-1939, a cura di Elena Cammarata, San Leolino, Editore Féeria, 2014, pagine 90, euro 12) mostra, ancora una volta, la bellezza e la profondità dell’amicizia tra uomo e donna.
* L’Osservatore Romano, supplemento "Donne, Chiesa, Mondo", gennaio 2016
Inciviltà di genere
Colonia. Donne vittime e profittatori maschi dello scontro di civiltà
di Giuliana Sgrena (il manifesto, 10.01.2016)
Se fosse stato un attacco preordinato - ma non c’è nessuna prova per sostenerlo - sarebbe stato perfetto. Mentre tutta l’Europa si prepara militarmente e psicologicamente ad affrontare attentati terroristici la maggiore destabilizzazione arriva nella notte di capodanno in piazza. In diverse piazze della Germania - Colonia, Amburgo, Stoccarda - ma anche Zurigo ed Helsinki.
Una massa incontrollabile di maschi - di origini arabe o musulmane, forse anche richiedenti asilo, ma ci sono anche occidentali, ubriachi, armati di bottiglie, anche qualche molotov, coltelli e forza bruta - aggrediscono le donne, tutte quelle che si trovano di fronte, sulla strada, le picchiano, feriscono, stuprano, perfino derubano, la polizia non può, non sa, non ha i mezzi per intervenire. Tanto che ad Amburgo sono i buttafuori dei locali notturni a salvare le donne aprendo le porte dei locali che proteggono.
È un attacco molto diverso da quello che è avvenuto a Parigi - al quale è stato da alcuni media paragonato - non sono locali di musica, ristoranti o la sede di un giornale satirico - i simboli della laicità francese - ad essere colpiti, ma la piazza come luogo di incontro di tutti e le donne, che simbolizzano il nemico - il diavolo verrebbe da dire - per i sostenitori di una cultura misogina e patriarcale.
Non solo tra i musulmani, la barbarie è ovunque. Aggredire, violentare le donne vuol dire colpire un genere nella sua più profonda identità e intimità, vuol dire usare strumenti che sono purtroppo diventati usuali nelle guerre e non solo moderne.
Un attacco di questo tipo non spinge a uscire per dimostrare di essere ancora presenti - anche se c’è chi lo fa - nonostante le bombe e i kamikaze, si può rischiare una pallottola ma andare incontro a uno stupro è diverso.
Eppure ieri le donne sono scese di nuovo coraggiosamente in piazza contro le violenze subite e contro la destra anti-islam e i neonazisti, pronte ad accusare «i nemici, uguali dappertutto, del sessismo e del fascismo». Nonostante la gente resti attonita e, colpita psicologicamente, cancella la partecipazione al famoso carnevale di Colonia.
Se fosse stato un atto terroristico sarebbe riuscito perfettamente. Ma anche se fosse stato organizzato dalle bande naziste e xenofobe, del resto i terroristi - anche quelli dell’Isis - non hanno forse la stessa ideologia fascista? La destra tedesca vedrebbe in questi atti confermata la sua previsione: verranno i barbari e stupreranno le nostre donne. E anche se non è così, la destra più estrema ne sta già approfittando. Ma anche tutta quella che vuole il respingimento dei migranti e Angela Merkel pagherà sicuramente - in termini elettorali - la sua politica di accoglienza, anche se finora era riuscita a contenere le opposizioni. La sua reazione a questi fatti è stata infatti molto dura.
Le reazioni sono state ritardate dai rapporti edulcorati della polizia che ha peccato oltre che per il mancato intervento anche per l’eccesso di politically correct: i temi della migrazione, dei profughi, dell’islam e la violenza sono tabù in Germania.
È chiaro che se tra le bande che hanno attaccato le donne ci fossero stati anche profughi o richiedenti asilo saranno loro a pagare il prezzo più alto o comunque lo saranno soprattutto i prossimi profughi che cercheranno di approdare sul territorio europeo. Lo vediamo anche in Italia dove la legge per l’abolizione del reato di clandestinità - che doveva passare tra breve in parlamento - sarà con ogni probabilità rinviata, con il beneplacito di tutti, a non si sa quando.
Ancora una volta possiamo dire che le donne sono state le vittime di questo criminale assalto ma saranno i maschi sostenitori dello scontro di civiltà ad approfittarne.
MARIA MANTELLO -L’8 dicembre, l’Immacolata Concezione, tra paganesimo e controllo sociale *
Apuleio, nelle Metamorfosi ci presenta questa apparizione:
È Iside che appare al protagonista Lucio, al momento della sua iniziazione-rinascita, ma la descrizione potrebbe tranquillamente riferirsi alle tante raffigurazioni di Maria, la madre del dio fatto uomo, La Vergine dall’Immacolata Concezione.
L’inno di s. Ambrogio
Nel suo inno di Natale, s. Ambrogio loda Il Redentore che ha fecondato Maria col suo "mistico soffio": «Veni, Redemptor Gentium, / Ostende partum virginis/ ...Non ex virili semine/ Sed mystico spiramine/ Verbum Dei factum est caro/ Fructusque ventris floruit» (Vieni Salvatore delle Genti, Rivelaci il parto verginale... non da seme umano/ ma da soffio mistico/ il Verbo di Dio si è fatto carne/ e il Frutto del ventre maturò). Si tratta del mito della fecondazione attraverso l’orecchio ("conceptio per aurem") usata dai padri della Chiesa per spiegare la verginità della Madonna e che richiama il mito pagano dove si credeva che la donnola, fosse fecondata attraverso l’orecchio. E questo molto probabilmente, come ha osservato uno dei più grandi esperti di mitologia, Karoly Kerenyi, suggerì ai padri della Chiesa che Maria fosse stata fecondata da dio attraverso le parole dell’angelo annunciatore.
Simone Martini, nella sua celebre "Annunciazione" conservata agli Uffizi, fa spiccare sul fondo oro della tavola, su cui si stagliano le figure dell’Angelo e della Madonna, le parole del versetto del Vangelo di Luca: Ave gratia plena, Dominus tecum, che si dipartono dalla bocca dell’angelo fino all’orecchio di Maria. E ancora, in un’altra celebre "Annunciazione" del 1486 di Carlo Crivelli (conservata alla National Gallery di Londra), c’è un raggio che dal cielo si dirige all’orecchio della Madonna.
Dalla Dea madre alla Madre di Cristo
La grande dea madre, che simboleggiava la nascita della natura tutta, con Maria, diviene la piena di grazia, l’ancella del Signore, la madre "puro spirito" di un figlio "puro spirito".
Tuttavia, nella società contadina dove la fertilità era considerata un valore primario, Maria sostituisce questi culti, prendendo il posto di Demetra, nel caso della madonna del frumento a Milano o quella del melograno di Pestum, al pari di tante altre Madonne sparse nel mondo dall’evangelizzazione cattolica.
A Capo Colonna, vicino Crotone, su una scogliera che domina il Golfo di Taranto, si ergeva un maestoso tempio dedicato ad Era Lacinia, protettrice dei matrimoni. Qui nel mese di maggio le donne di Crotone si recavano in processione per chiedere grazie alla dea. Oggi questa stessa processione si svolge, ma in onore di Maria Theotokos, la Madre di Dio.
Nell’"Apocalisse", Maria è la donna rivestita del sole, con la luna sotto i piedi e una corona di stelle sul capo. E così è raffigurata nella stragrande maggioranza dell’iconografia che ha accompagnato fino ai nostri giorni il suo culto.
Una divinità lunare, dunque, come anche s. Bonaventura nei Proverbi la definiva: «che bella luna deve essere stata Maria quando quell’eterno Sole fu da lei pienamente ricevuto e in lei concepito (7.20)». Le divinità lunari, per la relazione della luna con le maree, erano associate al mare, ma anche alle stelle, come guida nella navigazione, impresa certamente non facile nell’antichità.
E Maria diviene la Stella maris, che guida nelle tempeste, e nel buio della notte del peccato (d’ogni fedel nocchier fidata guida, come la definì anche Petrarca), ma anche la protettrice dei marinai.
Originariamente, stella del mare (stella maris) era Afrodite, la prima a comparire sul far della sera, e la prima a scomparire alle prime luci dell’alba. Al Vespro era detta Espero, e all’alba Fosforo. Un canto mariano assai noto ne conserva la memoria nella metabolizzazione della stella Maria: De l’aurora tu sorgi più bella, coi tuoi raggi a far lieta la terra. E fra gli astri che il cielo rinserra/ Non vi è stella più bella di te...
Attraverso Maria, la piena di grazia, quindi, i simboli cosmici della fertilità della terra e delle acque, legati alle dee madri continuano a veicolare.
A ricordo della vita cosmica, l’Immacolata Concezione conserva sul suo mantello il colore azzurro del cielo e del mare; il serpente sotto i suoi piedi. Il serpente cosmico, da simbolo di perenne vitalità e di conoscenza, è stato però trasformato dal cattolicesimo in emblema di peccato, e, primo su tutti, quel peccato originale di cui tutta l’umanità sarebbe macchiata, e sul quale si è costruita e incentrata l’ideologia del riscatto attraverso la grazia del cattolicesimo (cfr: Maria Mantello, Sessuofobia e caccia alle streghe nella storia della chiesa, in "Lettera Internazionale", n°69).
Ecco allora, che alla Vergine Maria si fa schiacciare il serpente, il peccato di unione sessuale. Ma nello schiacciare la vita concreta terrena, tuttavia, sono proprio quei simboli evocativi così carnali, che continuano a veicolare.
L’Immacolato concepimento della Madonna e di Cristo...
Il peccato originale, com’è noto, costituisce la base e il punto di partenza del Cristianesimo. Il sacrificio sulla croce del Dio-uomo, infatti, sarebbe inconcepibile sul piano dottrinario senza la presupposizione di un tale peccato, che quel sacrificio giustifica ai fini della salvezza escatologica di un’umanità “macchiata” e altrimenti condannata dal Dio padre alla dannazione eterna.
Poiché “il peccato” imbratta ogni nato bisogna che Cristo, il Dio-uomo, che proprio al riscatto da quella colpa originaria è stato preposto ne deve essere assolutamente immune.
Teologi ed ecclesiastici si preoccupano, allora, che sia concepito in un grembo immacolato.
Così in suo Decretale del 392 scriveva Papa Siricio: «Gesù non avrebbe deciso di nascere da una vergine, se non fosse stato certo della sua assoluta castità: che il suo grembo, in cui il corpo del Signore si sarebbe formato, dominio dell’Eterno Re, fosse stato insudiciato da seme maschile. Chi sostenesse questo non penserebbe in modo difforme dai perfidi ebrei».
Il concepimento ebraico narrato nella Bibbia da Isaia, dove «una giovane donna concepirà e partorirà un figlio e lo chiamerà Emmanuele» (7,14) è pertanto, trasformato dalla Chiesa in parto virginale.
Il mito pagano della partenogenesi lo si trova anche nel mondo classico e serviva a conferire una sorta di eccezionalità a personaggi illustri: si pensi a Platone (fonte: Diogene Laerzio) e ad Augusto (fonte: Svetonio) figli di Apollo, o ad Alessandro figlio del fulmine (fonte: Plutarco). Ma il cristianesimo, spogliatolo d’ogni significato metaforico, lo assume come fatto biologico reale.
La giovane donna fertile, l’alma della narrazione ebraica d’Isaia, diverrà allora Vergine: prima, durante e dopo il parto.
In tanta ossessione virginale, però, si trascura, ad esempio, che il vangelo di Marco, scritto attorno agli ultimi trenta anni del I secolo, parli esplicitamente di fratelli e sorelle di Gesù: «Non è costui il falegname, il figliuolo di Maria, e il fratello di Giacomo e di Giosè, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?» ( Marco, 6.3).
Del resto il vangelo di Matteo, non escluderebbe rapporti matrimoniali tra Maria e Giuseppe, ma rinviarli semmai a dopo la nascita di Gesù: «ma egli (Giuseppe, ndr.) non ebbe con lei rapporti coniugali, finché ella ebbe partorito il suo figlio primogenito, al quale pose nome Gesù. » (Matteo, I. 25). Ma per la Chiesa romana, la madre del Cristo sarà la sempre vergine, secondo la definizione della Volgata di s. Gerolamo (morto nel 420 ca.), dove gli originari termini ebraici di fratelli e sorelle sono opportunamente sostituiti con quelli di cugini e cugine.
L’ossessione della castità e il fiat mariano
La difesa della castità nella terrena famiglia del Gesù cristiano è talmente importante per la dottrina cattolica che la stessa Vergine Maria si vuole concepita senza macchia e lo stesso Giuseppe, suo sposo, è fatto vergine, nonostante il protovangelo di Giacomo (del II secolo), seppure allo scopo di salvaguardare inviolato l’imene della Madonna, parli di fratellastri di Gesù (evidentemente, i figli avuti da Giuseppe da precedenti nozze).
Ma la madre del Redentore non è solo la Vergine, è anche l’Ancilla Domini.
Mentre in tutti gli altri casi il “miracolo” creazionistico, il “dono divino” della vita avviene, infatti, servendosi di un maschio, nel caso di Gesù esso è realizzato direttamente da dio.
Anzi, il dio-maschio evidenzia tutta la sua forza di dominio e d’onnipotenza proprio in virtù di questo concepimento virginale, dove la partecipazione all’evento della “prescelta Maria” è risolta nella comunicazione del fatto avvenuto e, per giunta, attraverso terzi: l’angelo. Alla donna-Maria, allora, non resta che far pronunciare il famoso fiat.
Un fiat ed una verginità che percorrono tutta la dottrina cattolica, e che ai giorni nostri in particolare papa Wojtyla ha riaffermato con forza con l’enciclica Redemptoris Mater.
Il dualismo Eva la strega - Maria la santa
Il mito dell’Incarnazione e della Madre Vergine, risponde ad un ben preciso criterio d’economicità asessuata: sostituire e contrapporre alla prima donna, Eva, una nuova prima donna, Maria.
Assai esplicite, già nel III secolo, le affermazioni in tal senso.
Ad esempio, s. Ireneo (morto intorno al 202) dichiara: «Come la razza umana fu condannata alla dannazione per colpa di una vergine (Eva, ndr.) [...] l’astuzia del serpente fu vinta dalla semplicità di una colomba». (Adversus Haereses, I, 5-19).
Ma è tutto il mito dell’incarnazione cristiana per il riscatto dell’umanità dal peccato originale a strutturarsi su una sorta d’incontaminata purezza: con la casta Maria, che si contrappone alla peccatrice Eva; col casto Cristo, il nuovo capostipite di un’umanità redenta, che già s. Paolo aveva sostituito ad Adamo per la fondazione della primigenia eternità cristologia (cfr: I Corinzi 15-22; II Corinzi 5-17; Romani 5-14).
Un uomo nuovo ed una donna nuova, dunque, servono per riscrivere il Genesi ed annunciare il Verus Israel. Solo così il cristianesimo può porsi come Verità superiore, Eterna, Rivelata, Unica ed Universale, quindi Cattolica, da kata olou (katà òlou) che significa “in tutto”, “su tutto”.
Come nasce il dogma della Madre di Dio immacolata
La questione dell’incarnazione divina di Cristo ha lacerato il mondo cristiano fin dai primi secoli. Tra il IV e V secolo, sulle controversie cristologiche si giocano non solo le lotte di potere dei vescovi, ma anche quelle per la superiorità del cristianesimo sull’ebraismo e sul mondo pagano. E’ in questo contesto che Maria prende il posto delle Grandi Dee della classicità e, seppure tra forti contrasti teologici, diventa la madre di Dio.
Nel V secolo il vescovo di Costantinopoli, Nestorio, faceva notare come Maria non potesse essere generatrice di Dio, ma solo madre dell’uomo: anqrwpotòkos (anthropotòkos). Affermare il contrario avrebbe significato, infatti, negare la preesistenza di Dio all’evento e, quindi, la Sua stessa eternità. Una questione non soltanto logica ma inerente alla sostanza dell’unico dio: «se dio avesse una madre - scriveva Nestorio al Vescovo di Roma Celestino I - la vera fede non ne risentirebbe? Maria non ha messo al mondo una divinità perché l’essere creato non può essere madre di colui che l’ha creato».
Come andò a finire è cosa nota: il Concilio di Efeso, nel 431, condannò come assurde ed eretiche le posizioni di Nestorio. L’artefice di tutta l’operazione era stato il patriarca di Alessandria, s.Cirillo. Questi si era distinto nella persecuzione contro gli ebrei: in Egitto si era impadronito di tutte le sinagoghe e aveva scacciato più di 100.000 ebrei da Alessandria, era stato il mandante dell’assassinio della filosofa Ipazia, violentata e fatta a pezzi dai suoi monaci analfabeti... E che adesso voleva affermare la sua supremazia tra le chiese d’Oriente e, pertanto, si affannava ad organizzare le sue orde di monaci fanatici, tutori della “pubblca morale” e processioni di fedeli osannanti alla Madonna, quella Vergine Maria che, proprio ad Efeso, la capitale del culto di Artemide, verrà proclamata madre di Dio: qeotòkos (theotòkos).
La questione della Verginità, però, non si chiudeva ad Efeso, giacché il V Concilio ecumenico di Costantinopoli del 553 si preoccupava ancora di onorare Maria col titolo di "sempre vergine" e il Concilio Lateranense del 649 ne sanciva infine il dogma. Qualche secolo dopo, di fronte alla rivoluzione della Riforma protestante, Paolo IV, nel 1555, anno in cui egli istituisce anche gli obbligatori ghetti per gli ebrei, riaffermava con forza la verginità di Maria (ante partum, in partu, post partum).
Del resto, di fronte a fermenti rivoluzionari che pongono in crisi il cattolicesimo e i suoi poteri, non ci sarà sempre una Madonna, magari piangente, posta a vestale di Controriforme e Restaurazioni?
La purezza della Vergine Maria come potente baluardo per la riaffermazione della dommatica cattolica!
Per le donne, un modello di castità cui conformarsi che la mitologia cattolica amplifica nella moltiplicazione di sante, quasi sempre vergini e, comunque, in lotta contro il “peccato della carne” al quale non cedono, a costo di torture e sofferenze tremende.
Pio XII e Santa Maria Goretti
Da quest’ampia schiera citiamo s. Maria Goretti anche perché riproposta ai nostri giorni da Wojtyla, nonché dalla televisione pubblica italiana che alla vicenda della giovinetta, forse in omaggio al Vaticano, ha dedicato una propria produzione filmica.
La poveretta, morta nel 1902 sotto i colpi del pugnale del seduttore a cui non aveva ceduto, veniva santificata nel 1950 da Pio XII con queste parole: “Dio è meraviglioso nei suoi santi...Egli ha dato alle giovani del nostro mondo crudele e degradato un modello e una protettrice, la piccola vergine Maria che ha santificato l’inizio del secolo col suo sangue innocente”.
Maria Goretti era continuamente portata ad esempio - come papa Pacelli voleva - e la visita alla sua casa era considerata una tappa importante per la formazione di una ragazza perbene.
Erano gli anni dell’avanzata delle sinistre e della partecipazione delle donne alla politica, “una deriva di degradazione” a cui la Chiesa cercava di contrapporre come deterrente il modello virginale mariano di cui la povera Maria Goretti rappresentava un fulgido esempio.
Pio IX l’Immacolata Concezione, Pio XII l’Assunzione in cielo della sempre Vergine
Del resto, circa un secolo prima, quando il processo risorgimentale italiano stava ponendo irreversibilmente in crisi la teocrazia pontificia, un altro papa oggi santo, Pio IX, non aveva utilizzato anch’egli ad efficace fortilizio il mito della purezza mariana, stabilendo nel 1854 il dogma dell’Immacolata Concezione della Madonna?
Pertanto, rientra perfettamente nella logica ecclesiale che Pio XII, nello stesso anno della santificazione di Maria Goretti, si sia preoccupato anche di definire il dogma dell’Assunzione della Madre di Cristo in cielo: “Era necessario che il corpo di colei, che anche nel parto aveva mantenuto la verginità, rimanesse incorrotto anche dopo la morte”. (Munifecentissimus Deus, definizione del dogma dell’Assunzione in anima e corpo alla gloria dei cieli di Maria, Vergine Madre di Dio)
Così la Madonna, che aveva avuto la patente del Concepimento Virginale, di essere rimasta sempre Vergine, di essere stata essa stessa generata senza contaminazione sessuale (Immacolata Concezione), proprio per la garanzia di castità sua e familiare, aveva assicurato anche il dogmatico lasciapassare d’incorruzione corporea per il cielo.
Maria Mantello
Intervista a Stefano Rodotà
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 19 novembre 2015)
Nel codice la parola non compare mai, segno di una insofferenza forse reciproca, di una incompatibilità che in Italia è più forte che altrove. Al conflitto permanente tra diritto e amore dedica bellissime pagine Stefano Rodotà, un giurista da sempre attento al tumultuoso rapporto tra l’irregolarità e l’imprevedibilità della vita e l’astrazione formale della regola giuridica (Diritto d’amore, Laterza). Inutile aggiungere da che parte stia Rodotà. Ed è superfluo anticipare che in questa storia protagonisti non sono solo il diritto e i sentimenti ma anche la politica. Con alcune vittime - un tempo le donne, oggi gli omosessuali - che guidano il cambiamento.
Professor Rodotà, diritto e amore sono incompatibili?
«Ancora una volta mi aiuta Montaigne, che definisce la vita un movimento volubile e multiforme. Il diritto è esattamente il contrario, parla di regolarità e uniformità, è insofferente alle sorprese della vita. Quando poi si entra nel terreno amoroso, la soggettività prorompe. E il diritto è decisamente a disagio»
Perché?
«I rapporti affettivi possono essere qualcosa di esplosivo nell’organizzazione sociale. E dunque il diritto s’è proposto come strumento di disciplinamento delle relazioni sentimentali che non lascia spazio all’amore. Basta ripercorrere due secoli di storia: nella tradizione occidentale il diritto per un lungo periodo ha sancito l’irrilevanza dell’amore. E di fatto ha sacrificato le donne, codificando una diseguaglianza»
In che modo?
«Il rapporto di coppia è stato riconosciuto in funzione di qualcosa che non ha nulla a che vedere con i sentimenti: la stabilità sociale, la procreazione, la prosecuzione della specie. Sulle logiche affettive hanno prevalso quelle patrimoniali. E se San Paolo nella sua prima lettera ai Corinzi predicava il possesso reciproco e paritario tra marito e moglie, da noi si è affermato il modello gerarchico maschilista che riduce il corpo delle donne a proprietà del marito»
Questo modello gerarchico è perdurato in Italia fino alla metà degli anni Settanta del Novecento. Un’anomalia italiana anche questa?
«No, sul piano storico non direi. Il modello famigliare della modernità occidentale - dalla fine del Settecento in avanti - è stato terribilmente gerarchico. Dopo l’unificazione noi assorbimmo il codice francese firmato da Napoleone, che sanciva la più cieca obbedienza della moglie al marito. Pare che Napoleone durante la campagna d’Egitto fosse rimasto colpito dal modo in cui il diritto islamico disciplinava il rapporto tra moglie e marito»
Da noi la storia successiva è stata condizionata dalla Chiesa cattolica. Ma anche la politica ha contribuito ad anestetizzare i sentimenti.
«Sì, il matrimonio ha mantenuto il suo impianto gerarchico anche grazie all’influenza della Chiesa. Quanto alla politica, per una fase non breve della storia, si è mossa in una logica di disciplinamento delle pulsioni, nell’incontro tra il rigorismo cattolico e quello socialcomunista»
Colpisce che anche i nostri padri costituenti - Calamandrei, Nitti, Orlando - si opponessero al principio dell’eguaglianza tra marito e moglie perché in conflitto con il codice civile.
«Incredibile. Nelle loro teste il modello matrimoniale consegnato alle regole giuridiche è un dato di realtà irriformabile. Non si rendevano conto che stavano cambiando le regole del gioco. E che la carta costituzionale stava sopra il codice civile»
Una rigidità che lei ritrova in una recente sentenza della Corte costituzionale, che dice no ai matrimoni gay in nome del codice civile.
«Sì, anche loro si piegano al codice che parla soltanto di matrimoni tra uomini e donne. Mi ha colpito il riferimento della Corte a una tradizione ultramillenaria del matrimonio: come se si trattasse di un dato naturale non soggetto ai mutamenti sociali e antropologici. Invece si tratta di una costruzione storica che è andata cambiando in Europa e in Italia. Ma l’Italia è l’unico paese che non vuole prenderne atto, nonostante abbia sottoscritto la carta dei diritti dell’Unione europea»
Una carta che nell’accesso al matrimonio cancella il riferimento alla diversità del sesso nella coppia.
«E infatti è stato proprio quell’articolo, l’articolo nove, bersaglio di una forte pressione da parte della Chiesa. Pressioni passate sotto silenzio, che però io sono in grado di testimoniare, visto che ero seduto al tavolo della convenzione. Aggiungo che il riferimento alla tradizione millenaria della famiglia, pronunciato dalla nostra Corte costituzionale, non compare in nessun’altra giurisprudenza»
Oggi facciamo fatica ad approvare perfino le unioni civili. Perché succede?
«Si tratta di un conflitto molto ideologizzato, favorito dallo sciagurato radicamento dei cosiddetti«valori non negoziabili" e«temi eticamente sensibili» Questi vengono sottratti al legislatore non perché il legislatore non se ne debba occupare ma perché il legislatore deve accettare il dato naturalistico e immodificabile»
Una barriera che non esisteva ai tempi delle battaglie sul divorzio e sull’aborto.
«E infatti non ci fu la stessa intolleranza. Pur nell’ostinata contrarietà, la Dc prendeva atto che erano intervenute novità sociali non più trascurabili»
Il disgelo era cominciato negli anni Sessanta, quando l’amore cessò di essere fuorilegge. Solo nel 1968 la Corte costituzionale cancellò il reato di adulterio per le donne. E nel 1975 arriva il nuovo diritto di famiglia, che mette fine al modello gerarchico.
«Sì, alle logiche proprietarie subentrano quelle affettive. E tuttavia anche in quella occasione il legislatore trattenne la sua mano di fronte alla parola amore. Si parla di fedeltà, collaborazione, ma non d’amore»
Ma si può mettere la parola amore in una legge?
«Qualcuno sostiene: più il diritto se ne tiene lontano, meno lo nomina, meglio è. Però bisogna domandarsi: il diritto non nomina l’amore perché lo rispetta fino in fondo o perché vuole subordinarlo ad altre esigenze come la stabilità sociale? Per un lungo periodo della storia italiana è stato così»
C’è il diritto d’amore delle coppie omosessuali, che devono poter accedere al matrimonio. Ma c’è anche il diritto d’amore dei figli, che devono poter essere amati da un padre e da una madre. Come si conciliano questi due diritti?
«Non c’è alcuna evidenza empirica che figli cresciuti in famiglie omosessuali mostrino ritardi sul piano del sviluppo della personalità e dell’affettività. E allora, domando, i figli dei genitori single?»
I genitori single - forse più di tutti gli altri - sanno che i figli hanno bisogno di un padre e di una madre, di una figura maschile e di una femminile. E anche la psichiatria formula dubbi sulle adozioni delle coppie gay.
«Lei pone una questione che però non si risolve con l’uso autoritario del diritto. Prima riconosciamo pari dignità a tutte le relazioni affettive e prima saremo in grado di costruire dei modelli culturali adatti a questa nuova situazione. Finché manteniamo il conflitto e l’esclusione, tutto questo diventa più difficile»
Lei dice: il matrimonio egualitario porta con sé la legittimità delle adozioni.
«Certo. Se una volta raggiunto questo risultato si vuole discutere, si potrà farlo senza ipoteche ideologiche. È una storia che non finisce. Come non si finisce mai di rispondere alla sollecitazione di Auden: la verità, vi prego, sull’amore»
Inside Out
Se Cartesio sbarca al cinema
di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica, 08.11.2015)
Sta circolando da qualche settimana in Italia il film Inside out, il cui titolo allude al tentativo della Pixar di “tirar fuori ciò che abbiamo dentro”. Cioè di mostrare visivamente i meccanismi mentali nelle loro componenti razionali ed emotive. I critici cinematografici, che evidentemente si intendono solo di cinema, l’hanno esaltato come un’esposizione quasi scientifica delle nuove frontiere neurofisiologiche, scomodando al proposito addirittura i nomi di Antonio Damasio e Oliver Sacks.
In realtà il film avrebbe fatto meglio a intitolarsi Outside in, perché non fa altro che “metter dentro ciò che siamo fuori”. Cioè ripete l’antico “errore di Cartesio”, che credeva che a guidare l’uomo fosse un homunculus dentro di lui, fatto a sua immagine e somiglianza in versione miniaturizzata. Il quale, come i protagonisti del film, sta seduto in un “teatro cartesiano” e osserva dal di dentro ciò che il suo principale a grandezza naturale percepisce dal di fuori.
Naturalmente, poiché un homunculus differisce da un homo solo nelle dimensioni, si può immaginare che nella sua testa ci sia un homunculissimus ancora più piccolo che lo osserva e lo dirige, e così via. L’ipotesi porta dunque a un regresso all’infinito, che non ha bisogno delle neuroscienze per essere confutato: basta la logica, in una delle innumerevoli variazioni del paradosso di Achille e la tartaruga.
PER LA CRITICA DEL CAPITALISMO E DELLA SUA TEOLOGIA "MAMMONICA" (Benedetto XVI, "Deus caritas est", 2006).
CON MARX, OLTRE:
Il circolo degli uomini
di Lea Melandri (Comune-info, 26 ottobre 2015)
Nel libro L’ultimo paradosso (Einaudi 1986), presentato come “un quaderno di appunti, note, osservazioni, pensieri sui problemi fondamentali dell’esistenza”, Alberto Asor Rosa scrive:
“Uomini. Sediamo da secoli in gruppo intorno ad una tavola - non importa se rotonda o quadrata - impartendo il comando cui la nostra funzione ci abilita, distribuendo il potere che il nostro ruolo ci assegna. Anche fra amici indossiamo corazza: i momenti più intimi della nostra conversazione passano tra celate accuratamente abbassate. Le nostre mani sono chele in riposo. Gli orgogliosi sanno fare tutto questo con dignità e fierezza, i vili lo ostentano codardamente per incutere timore: ma gli uni e gli altri stanno diritti solamente perché c’è una corazza a sostenere il filo della schiena o una spada a cui appoggiare il fianco stanco. Il nostro volto, il nostro corpo sono pur là, dietro quelle biancheggianti, livide spoglie. Ma non oseremmo pensare di rinunciare al nostro circolo e alle sue leggi neanche se ci fosse promessa in cambio una libertà sconfinata, una gioia senza pari. Sediamo, intenti a noi stessi, alla nostra forma, al nostro decoro, al nostro eroismo, alla nostra dignità: al nostro essere-per-sé, custodito da un simulacro d’acciaio e da una maschera di ferro. Intorno a noi ci sono soltanto o subalterni o buffoni: e tra essi mettiamo le donne, alle quali per giunta presumiamo di piacere e di dar piacere ostentando le virtù cavalleresche, ossia tutto ciò che più ci allontana da loro. A forza di tenere il corpo in armatura, ne risultiamo un poco rattrappiti, le giunture scricchiolano e nel muovere ci procurano dolore. Talvolta ci sorge il sospetto che il nostro sacrificio, offerto a divinità tanto astratte quanto crudeli come quelle che compongono la religione dell’ascetismo guerriero, sia scontato ed inutile, e persino oggi un poco patetico: ed aspiriamo ad uscire da qualche crepa della vecchia armatura, a scivolare furtivi sotto quel tavolo, per guadagnare la porta della riunione a uscire a respirare aria pura.
Ma appena fissiamo lo sguardo nello sguardo dei nostri compagni, attraverso la fessura della celata... e vi scorgiamo la nostra stessa disperazione, la nostra prigionia, il nostro dolore, il nostro stesso smisurato orgoglio, il nostro disprezzo per tutti gli estranei alla cerchia - non appena sguardo con sguardo di nuovo s’incatena, subito il desiderio di libertà, l’ansia di gioia ci abbandonano -, e scopriamo che non potremo mai lasciarli... L’unico passo in avanti nella cultura degli uomini da due millenni a questa parte è stato la soppressione del re: ma questa soppressione non ha cancellato il circolo, se mai lo ha rafforzato, liberandolo della maglia più debole. Sono secoli che gli esseri umani maschili vivono così; e con questo modo di vita affonderanno”.
Se le donne hanno dovuto faticosamente, tra mille inganni e ostacoli, “prendere coscienza” di un’oppressione, peraltro evidente, e sopportare che questa lucidità si rivelasse estremamente fragile, pronta a scomparire dopo ogni piccola conquista, gli uomini, ragionando su una rappresentazione del mondo prodotta dalla storia dei loro simili hanno evidentemente una via di accesso più facile alla messa a nudo del sessismo, delle logiche d’amore e di violenza che lo sostengono, nonostante i progressi della civiltà. Perché allora quella difesa estrema, sempre meno convinta eppure ostinata, della neutralità, che si esprime non solo nel cancellare dalle analisi politiche il rapporto tra i sessi, ma anche in quella copertura che è la sua distorta collocazione tra le questioni sociali: emarginazione, cittadinanza incompleta, sfruttamento economico, beni comuni, ecc.?
Le donne sembra che stentino a “sapere” quanto è profonda l’espropriazione che hanno subito, quanto siano ancora lontane dalla percezione di sé come individualità intere, corpo e pensiero, quanto siano propense ad accontentarsi di una emancipazione che le porta sulla scena del mondo con le stesse attribuzioni per cui ne sono state allontanate: corpo, sessualità, maternità. Anche sulla violenza che subiscono quotidianamente, e che risulta essere ancora la causa prima della loro morte, cala spesso l’invisibilità, frutto di paure, intimidazioni, così come di desideri e fantasie amorose mal riposte.
Per quanto riguarda gli uomini, viene invece il sospetto che “sappiano” e che sia proprio l’evidenza del privilegio toccato loro storicamente e diventato “destino”, copione di comportamenti obbligati, a dover essere in qualche modo aggirata, perché colpevolizzante e quindi innominabile.
La comunità storica maschile ha visto cadere imperi, muraglie, confini, odi che sembravano irriducibili, eppure esita a far cadere le fragili pareti che separano la sua civiltà dalla porta di casa, l’immagine della sua “virilità” pubblica dalla posizione di figlio,fratello, padre, marito, amante.
Ma tutto ciò che scorre innominato sotto la storia rischia di diventare col tempo la galassia che la conduce a sua insaputa, che la ricopre via via di macerie e la tiene con lo sguardo rivolto all’indietro, cosicché la speranza finisce per confondersi con la nostalgia, e il corpo femminile, su cui ancora si pretende di esercitare un possesso indiscusso, diventa, immaginariamente, la terra feconda, incontaminata, di rinascite a venire.
Per la prima volta gli scout britannici hanno un capo donna
di Silvia Guzzetti (Avvenire, 13 ottobre 2015)
Per la prima volta nei loro 108 anni di storia gli scout britannici avranno una donna come leader. Ann Limb, 62 anni, ex funzionaria statale e insegnante, ha dichiarato che sarà sua missione emancipare il movimento britannico incoraggiando più ragazze a indossare l’uniforme verde e il fazzolettone.
Rimangono, invece, rigorosamente soltanto femminili le “Girl Guides” ovvero le guide. In Gran Bretagna l’associazione che Baden Powell avviò, proprio qui, nel 1908, è ancora divisa lungo linee di genere come all’inizio del secolo con le "Brownies", le bambine tra i 7 e i 10 anni, che frequentano centri diversi dai "Cubs", i lupetti. Le femmine sono state sì ammesse, nelle sezioni maschili, a partire dagli anni settanta, ma sono rarissime.
Diversi gli scout italiani che sono misti da tempo
In Italia, invece, come in altri paesi europei, nel 1974 l’Agesci ha cominciato a educare insieme maschi e femmine, con un sistema misto, affiancando ai lupetti le coccinelle già a otto anni.
Insomma la patria del femminismo ha mantenuto separato lungo linee di genere lo scautismo, come aveva voluto il suo fondatore, decidendo, soltanto negli ultimi anni, di aprire alle femmine la propria sezione maschile.
E’ solo dal 1991, infatti, che le undicenni britanniche possono diventare scout, e del mezzo milione di bambini che fanno parte di questo movimento, in Gran Bretagna, soltanto un quinto sono femmine.
Basta con gli scout figli bene delle classi medie
Figlia di un macellaio e cresciuta in una delle zone più malfamate di Manchester, Moss Side, la nuova capa scout pensa che aumentare il numero di ragazze sia la via del futuro. Né ama l’idea degli scout come hobby delle classi medie.
“L’immagine degli scout come giovani bianchi, provenienti dalle classi medie, non incoraggia le femmine a far parte del movimento”, ha dichiarato Ann Limb, “Vogliamo aumentare il numero di ragazze e giovani donne perché lo scoutismo deve riflettere la società nella quale viviamo. Sarebbe bellissimo se raggiungessimo il milione di membri”.
“Diventare una “Brownie” ha voluto dire moltissimo per me”, ha detto ancora la nuova capa scout, “Ha aumentato la mia autostima e la fiducia in me stessa. Non era come andare a scuola. Non importava se fallivi perché avevi un’altra possibilità”.
Mancano i volontari, scoppiano le liste di attesa
Il problema più grosso dello scoutismo britannico, in questo momento, è la mancanza di volontari mentre scoppiano le liste di attesa di bambini e ragazzi desiderosi di fare la promessa.
Secondo Ann Limb i genitori più giovani, con meno di 55 anni, sono troppo occupati per dare una mano nei gruppi frequentati dai figli mentre toccherebbe a chi ha più di 55 anni, i “baby boomers”, rimboccarsi le maniche e darsi da fare. “Anche le aziende dovrebbero cambiare”, ha detto Limb, “Per dare più spazio al volontariato”.
38285 CITTÀ DEL VATICANO-ADISTA. Per quanto possa sembrare paradossale, le donne sono le grandi assenti dal Sinodo dei vescovi per la famiglia in corso in Vaticano. E la necessità di una loro presenza e di un rilancio del loro ruolo, nella Chiesa in primo luogo, è stata espressa ed avvertita acutamente non solo all’esterno dell’evento sinodale, ma anche durante gli interventi.
Scalpore ha suscitato, infatti, la proposta avanzata dal vescovo canadese di Gatineau (Québec), già presidente della Conferenza episcopale, mons. Paul-André Durocher, che non solo nel corso della prima conferenza stampa del Sinodo aveva mostrato di volersi dissociare dall’analisi conservatrice e chiusa dell’ungherese card. Péter Erdö, ma nel suo intervento, nel corso della I Congregazione generale, ha ipotizzato per le donne l’accesso al diaconato e all’omelia. E ancora: sottolineando l’attuale situazione di violenza domestica di cui le donne sono vittime, ha auspicato una parola forte del Sinodo sul tema.
«Le statistiche più recenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità - ha detto - rivelano questo fatto sconvolgente: ancora oggi, circa un terzo delle donne nel mondo sono vittime di violenze coniugali». A partire da questi dati, ha proseguito, è necessario che «questo Sinodo affermi chiaramente che un’interpretazione corretta delle Scritture non permette mai di giustificare il dominio dell’uomo sulla donna. In particolare, questo Sinodo dovrebbe affermare che i passaggi in cui San Paolo parla della sottomissione della donna al marito non possono giustificare il dominio dell’uomo sulla donna, e ancor meno la violenza nei suoi riguardi».
Ma bisogna andare più lontano, ha affermato il vescovo canadese. Per manifestare la pari dignità di donne e uomini nella Chiesa, Durocher propone al Sinodo tre «piste di azione»: in primo luogo, «che questo Sinodo consideri la possibilità di consentire a uomini e donne sposati, ben formati e accompagnati, di prendere la parola alle omelie della Messa, al fine di testimoniare il legame fra la Parola proclamata e la loro vita di sposi e di genitori»; poi, «che al fine di riconoscere l’uguale capacità delle donne di assumere posizioni decisionali nella Chiesa, questo Sinodo raccomandi di nominare delle donne ai posti che possano occupare nella Curia romana e nelle nostre Curie diocesane». Infine, «riguardo al diaconato permanente, che questo Sinodo raccomandi l’avvio di un processo che possa eventualmente aprire alle donne l’accesso a questo ordine che, come dice la tradizione, non è orientato al sacerdozio, ma al ministero».
Un approccio analogo è quello di mons. Claude Rault, vescovo di Laghouat-Ghardaia (Algeria, Paese rappresentato al Sinodo da mons. Jean-Paul Vesco, vescovo di Orano), il quale, intervistato da Il Regno (9/10) sui temi sinodali in occasione del tour di presentazione del suo ultimo libro, ha sottolineato che «fintantoché la donna nella Chiesa non avrà accesso ai luoghi nei quali si prendono le decisioni, la Chiesa sarà solo a metà».
Le proposte di Durocher hanno incontrato il consenso della Women Ordination Conference (Woc), che da anni si batte per il sacerdozio femminile. «Applaudiamo l’arcivescovo per aver avanzato la proposta [del diaconato] ad un organismo votante composto di soli uomini e per aver sottolineato il legame tra la “degradazione” delle donne nella Chiesa e nella società e la violenza contro le donne nel mondo », è il commento della Woc. Il “dominio” sulle donne «non è mai accettabile e finché le donne non saranno trattate come pari la nostra Chiesa perpetuerà una disuguaglianza contraria al Vangelo».
L’inclusione delle donne nel diaconato, prosegue la Woc, non è nulla di nuovo ed è «un atto più che dovuto da tempo»: rappresenterebbe un ritorno della Chiesa «alle sue antiche radici, quando vi erano diaconi uomini e donne. E se in alcune parti della Chiesa orientale il diaconato femminile è vivo anche oggi, sappiamo che in Occidente fu soppresso solo sulla base dei pregiudizi contro le donne».
Tra le mura vaticane, invece, una certa freddezza: «Donne diacono? È da vedere, perché c’è di mezzo la sacramentalità», ha detto a RepTv, il canale video de La Repubblica (8/10), l’arcivescovo di Ancona-Osimo card. Edoardo Menichelli. «Per il resto, la collocazione nella vita della Chiesa è invece più che auspicabile, ma è già cominciata. Se si pensa che in una Congregazione della Santa Sede il Sottosegretario, cioè la terza autorità, è una donna, credo che questa sia già una buona risposta».
Dove sono le donne?
Sull’assenza delle donne all’interno del Sinodo e nella Chiesa cattolica si è pronunciato anche p. Tony Flannery, redentorista irlandese, tra i fondatori dell’Association of Catholic Priests. In un appello pubblicato sul suo blog (5/10) ha infatti invitato ad aprire una discussione sulla questione del sacerdozio femminile, chiedendo ai sacerdoti che condividono questa idea di farsi avanti (scrivendogli all’indirizzo flannerytony@gmail.com).
E anche dai valdesi arriva qualche critica. «Il Sinodo che si occuperà dei temi della famiglia vede un soggetto del tutto assente: le donne», ha scritto la teologa valdese Letizia Tomassone in un editoriale pubblicato su Nev. «Solo 13 presenze, di cui tre religiose nominate e non elette, e tutte senza possibilità di voto». «È necessario che le diversità siano ascoltate e non messe a tacere o demonizzate e che costituiscano la base e la linfa del magistero cattolico».
Un’assenza che riguarda anche la rappresentanza delle Chiese non cattoliche al Sinodo, come evidenziato dal pastore metodista Tim Macquiban (Nev, 8/10): «È una spiacevole ed evidente realtà che tutti i votanti siano uomini e riflette il triste sbilanciamento di genere della leadership delle Chiese in generale, sia cattoliche che non cattoliche». L’anno scorso al Sinodo straordinario, rileva Macquiban, c’era almeno una donna tra i rappresentanti non cattolici.
Di estrema attualità, dunque, la recentissima pubblicazione del libro che raccoglie 40 interventi scritti da altrettante teologhe di ogni provenienza geografica - dal titolo Catholic Women Speak: Bringing Our Gifts to the Table (v. Adista Notizie n. 33/15) - che costituisce il primo frutto di un progetto che ha visto confrontarsi centinaia di donne cattoliche da ogni parte del mondo grazie a un forum online (www.catholicwomenspeak. com).
(ludovica eugenio)
* ADISTA Notizie, 17 ottobre 2015 - n. 35
Suor Chittister scrive al papa
Caro Francesco, i poveri sono anche le donne
di SUOR JOAN CHITTISTER ("Adista-Segni Nuovi", 10.10. 2015 • N. 34 )
Caro papa Francesco, la tua visita negli Stati Uniti è importante per noi tutti. Ti abbiamo visto fare del papato un modello di ascolto pastorale. Hai richiamato con forza l’immagine di Gesù che camminava tra la folla ascoltandola, amandola e guarendola.
Il tuo impegno contro la povertà e per la misericordia, per la vita dei poveri e per la sofferenza spirituale di molti - per quanto sicuri si possano sentire materialmente - ci dà una nuova speranza nell’integrità e nella santità della Chiesa stessa.
Una Chiesa che guarda più al peccato che alla sofferenza di coloro che portano i fardelli del mondo è una Chiesa fragile. Nel volto di Gesù che frequentava i più vulnerabili, i più emarginati della società, giudicando sempre e solo chi giudica, la tua coerenza è una lezione di vita per i moralisti e per chi ha fatto della religione una professione.
È con questa consapevolezza che solleviamo due questioni.
La prima riguarda la miseria su cui richiami incessantemente la nostra attenzione. Tu ci impedisci di dimenticare la disumanità delle periferie ovunque nel mondo, i senzatetto, gli sfruttati, i malpagati, gli schiavi, i migranti, i vulnerabili e coloro che sono invisibili ai potenti di oggi. Tu rendi visibile al mondo ciò che abbiamo dimenticato. Ci chiami a fare di più, a fare qualcosa, a dare lavoro, cibo, casa, educazione, voce e visibilità che conferiscono dignità e pieno sviluppo.
Ma c’è anche una seconda questione nascosta sotto la prima cui anche tu dovresti prestare rinnovata e seria attenzione. La verità è che le donne sono le più povere tra i poveri.
Gli uomini hanno lavori retribuiti; di poche donne nel mondo si può dire lo stesso. Gli uomini hanno chiari diritti civili, giuridici e religiosi nell’ambito matrimoniale; per poche donne al mondo vale lo stesso. Gli uomini danno per scontata l’educazione; poche donne nel mondo possono farlo. Gli uomini possono raggiungere posizioni di potere e autorità fuori casa; poche donne al mondo possono sperarlo. Gli uomini hanno diritto di proprietà; la maggior parte delle donne si vedono negate queste cose dalla legge, dal costume, dalle tradizioni religiose. Le donne sono regolarmente trattate come oggetti, picchiate, violentate e ridotte in schiavitù semplicemente per il fatto di essere donne.
E, forse peggio di tutto, vengono ignorate - respinte - dalle loro Chiese, compresa la nostra, come esseri umani in pienezza, come autentiche discepole.
È impossibile, Santo Padre, fare sul serio qualcosa per i poveri e allo stesso tempo fare poco o niente per le donne.
Ti prego di fare per le donne del mondo e della Chiesa ciò che Gesù fece per Maria che lo generò, per le donne di Gerusalemme che resero possibile il suo ministero, per Maria di Betania e Marta cui insegnò teologia, per la samaritana che fu la prima a riconoscere Gesù come Messia, per Maria di Magdala chiamata l’Apostola degli Apostoli, e per le diaconesse e le leader delle chiese domestiche della Chiesa primitiva.
Fino ad allora, Santo Padre, niente potrà davvero cambiare per i loro figli affamati e nelle loro disumane condizioni di vita.
Siamo felici che tu sia qui a parlare di queste cose. Confidiamo in te per cambiarle, partendo dalla Chiesa stessa.
PAROLA DI DIO: AMORE ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS")?! Tutto ciò che si riceve dipende da chi lo riceve:
Marco 10, 2-16: Contro l’indissolubilità o a favore della donna?
[di don Aldo Antonelli] *
Ciò che è determinante nella comprensione di un qualsiasi testo o parola o fatto, non è la vista o l’udito ma il “punto di vista”, la “sitz im leben” dell’osservatore.
“Quiquid reciptur ad modum recipientis recipitur” era il detto che il mio professore di filosofia usava ripeterci, a noi alunni, per farci capire l’importanza del “punto di vista”.
Tutto ciò che si riceve dipende da chi lo riceve!
Questa premessa per significare l’utilizzo strumentale che si è fatto di questo passo del Vangelo (Marco 10, 2-16), sempre utilizzato a difesa di quella che è diventata una vera e propria ossessione nell’abito della chiesa: l’indissolubilità del Matrimonio!
E se provassimo a contestualizzare questo “dibattito” tra Gesù e i farisei?
In una società là dove le donne erano totalmente sottomesse all’uomo e ai suoi capricci?
Per meglio comprendere l’ambiente “pesante” per le donne del tempo, mi permetto di proporvi la lettura di questo passo di Molière, anche se vissuto ben sedici secoli dopo...(La scuola delle mogli):
«Solo dovere del vostro sesso è la sottomissione:
Chi porta la barba è l’onnipotente padrone.
Sebbene siamo due metà della società,
Tra queste due metà non esiste parità:
L’una è la metà suprema, e l’altra la subalterna;
L’una è sottomessa in tutto all’altra che governa;
E l’obbedienza che il soldato, addestrato al dovere,
Porta al suo capo che guidar lo deve,
Il servo al padrone, il figlio al padre,
E l’ultimo dei conversi al suo superiore,
E’ ancora nulla rispetto alla docilità,
E all’obbedienza, e all’umiltà,
E al profondo rispetto che la donna deve avere
Nei confronti del marito, sua guida, suo signore e padrone.
Quando egli la guarda con occhio severo
Il suo dovere è di abbassare subito gli occhi,
E di non osare mai guardarlo in faccia
Finché di uno sguardo benevolo egli non vorrà farle grazia».
In commento a questo brano José Antonio Pagola scrive:
«La cosa che più faceva soffrire le donne nella Galilea degli anni Trenta del secolo era la loro totale sottomissione all’uomo nella famiglia patriarcale. I loro mariti potevano perfino ripudiarle in qualsiasi momento, abbandonandole alla loro sorte. Secondo la tradizione giudaica, questo diritto si basava nientemeno che sulla legge di Dio.
I maestri discutevano sui motivi che potevano giustificare la decisione del marito. Secondo i seguaci di Shammai, si poteva ripudiare la moglie solo in caso di adulterio; secondo Hillel, bastava che la donna facesse qualcosa di “sgradevole” agli occhi del marito. Mentre gli uomini dotti discutevano, le donne non potevano levare la loro voce per difendere i loro diritti.
A un certo punto, la questione venne a Gesù: “Può un marito ripudiare la propria moglie?”. La sua risposta sconcertò tutti. Le donne non ci potevano credere. Secondo Gesù, se il ripudio è nella legge, lo è per la “durezza di cuore” degli uomini e per la loro mentalità maschilista, ma il progetto iniziale di Dio non fu quello di un matrimonio “patriarcale”, dominato dall’uomo.
Dio creò l’uomo e la donna perché fossero “una sola carne”. I due sono chiamati a condividere il loro amore, la loro intimità e la loro vita intera, con uguale dignità e in comunione totale. Di qui il grido di Gesù: con il suo atteggiamento maschilista, “l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto”»! (La via aperta da Gesù. Vol.2 - Borla).
Non aggiungo altro.
Le nostre ossessioni giuridiche sull’indissolubilità ci hanno imbottigliato dentro quella che Franco Ferrarotti chiamava la “cultura del paralume”.
Prigionieri delle nostre diatribe, siamo diventati incapaci di ricerca e di ascolto.
Buona domenica.
Aldo [Antonelli]
* Via mail
Le femministe di regime contro Corbyn di Carlo Formenti *
Che l’elezione di Jeremy Corbyn a segretario del Labour avrebbe provocato la rabbiosa reazione dell’establishment blairiano era scontato. Meno scontata l’intensità della campagna di denigrazione partita subito dopo l’elezione. Vecchio, conservatore, nostalgico, votato alla sconfitta elettorale e palesemente inadatto a governare: queste le accuse più ricorrenti.
Peccato che i sondaggi rivelino come a sostenere il vecchio nostalgico siano, in maggioranza, giovani cittadini inglesi infuriati per la sistematica svendita dei loro interessi da parte di un Labour convertito al credo liberista. Quanto all’impossibilità di vincere le elezioni e governare, la sensazione è che, a ispirare tale profezia, sia il terrore che possa essere smentita, come è avvenuto in Grecia (anche se i diktat europei hanno subito rimesso le cose a posto) e come potrebbe succedere fra poco in Spagna.
Su un punto i laburisti di regime però hanno ragione: Corbyn non è un segretario adatto per un partito che da tempo non era più espressione degli interessi delle classi lavoratrici, radicato nelle fabbriche, negli uffici e nei territori, ma un partito di centro che, assieme ai socialdemocratici tedeschi, ai socialisti francesi e spagnoli e ai democratici italiani, ha celebrato i funerali della socialdemocrazia. Ma se Corbyn vincerà la sua scommessa non sarà perché avrà resuscitato la socialdemocrazia, bensì perché avrà dato vita a una nuova forza politica antiliberista, della quale si intravedono tracce anche negli altri “populismi di sinistra” che turbano i sogni degli oligarchi europei.
Al coro di media mainstream, economisti, politologi, esponenti di partiti di destra, centro e sinistra (ad eccezione delle sinistre radicali) si sono aggiunte le voci delle “femministe di regime”. Non mutuo questa definizione da maschietti nostalgici del bel tempo andato, ma da intellettuali femministe come Silvia Federici, Nancy Fraser, Cristina Morini e Anna Simone - per citarne solo alcune - critiche di quel femminismo mainstream che - concentrandosi sui diritti individuali, sull’emancipazione e sui temi del riconoscimento e dell’identità di genere - ha rimosso la lotta per i diritti sociali e per l’uguaglianza politica ed economica. Una svolta che consente al neoliberismo di integrare il discorso femminista sul terreno di una “modernizzazione” culturale giocata a suon di chiacchiere politically correct e quote rosa (non c’è leader di destra che, maschilista fino a pochi anni fa, manchi oggi di esaltare i diritti delle donne). Così i giornali hanno attaccato Corbyn: prima perché non sembrava intenzionato a inserire un congruo numero di donne nel governo ombra, poi perché ne aveva messe più della metà ma in ruoli “secondari”.
Ancorché speciosa, la polemica è interessante perché mette in luce alcuni effetti della svolta appena accennata. Prendiamo, per esempio, l’articolo di Maria Laura Rodotà sul Corriere di martedì 15 settembre. Dopo avere ironizzato sui maschi di sinistra - i quali sarebbero più intolleranti nei confronti del politicamente corretto “perché a loro è stato vietato troppo a lungo di fare i cretini” - l’autrice fa le pulci, oltre che a Corbyn, a Tsipras e al candidato alla nomination democratica Bernie Sanders (tutti colpevoli di circondarsi soprattutto di uomini).
In particolare, ricorda che i sostenitori di Sanders sono soprattutto uomini bianchi di tutte le età (in realtà c’è una consistente quota di giovani di ambio i sessi) mentre le donne (anche le liberal) preferiscono la Clinton perché convinte che il solo fatto di mandare una donna alla Casa Bianca cambierebbe il mondo (anche se le illusioni alimentate dall’elezione del nero Obama insegnano che il potere ignora razza e genere). Poco importa che la Clinton sia notoriamente sponsorizzata da Wall Street, il che rende risibile la sua pretesa di ergersi a paladina della lotta contro la disuguaglianza.
Conta più il genere o il programma? La Rodotà sembra indecisa: da un lato, ammette che il programma di Corbyn “è uno dei più femministi che ci siano”, ma dall’altro sottolinea che “viene proposto da una leadership di cinque uomini”. Meglio la oligarca Clinton del socialista Sanders solo perché è donna? Se qualcuna/o (oddio come sono politicamente corretto!) mi dicesse: meglio la senatrice Warren, perché è donna e schierata su posizioni vicine a quelle di Sanders, potrebbe convincermi ma io, da irriducibile “vecchietto”, continuo a pensare che sia meglio giudicare un leader in base al suo programma e alla coerenza tra il dire e il fare e non alla sua età, razza, genere o gusti sessuali.
Francesco, pericoloso «femminista»
Vaticano. Bergoglio, un uomo del nostro tempo
di Bia Sarasini (il manifesto, 18.09.2015)
Ieri per definirsi papa Francesco ha usato una parola proibita e quasi temuta, in ambito ecclesiale: «Perdonatemi se sono un po’ femminista». Parlava a braccio a un’udienza ai giovani consacrati, e voleva ringraziare «la testimonianza delle donne consacrate». Due giorni fa invece, nel concludere una settimana dedicata alla famiglia, ha demolito un mito tenace, Eva e il suo serpente che corrompono Adamo, l’uomo: «Esistono molti luoghi comuni, alcuni anche offensivi, sulla donna tentatrice» ha detto nell’omelia.
In passato aveva già parlato della «brutta figura che ha fatto Adamo, quando Dio gli ha detto: ’Ma perché hai mangiato il frutto dell’albero?’ E lui: ’La donna me l’ha dato’». Ma c’è un orientamento, una direzione, o meglio un’intenzione in tutte le parole che dall’inizio del suo pontificato papa Bergoglio ha dedicato alle donne?
In verità non è facile orientarsi, e questo è sorprendente, in un pontefice che mostra una straordinaria chiarezza di predicazione, di pastorale e di politica.
Nell’omelia di due giorni fa la riflessione in realtà non era colloquiale, come altre sue battute. «Invece c’è spazio per una teologia della donna che sia all’altezza di questa generazione di Dio». Un passaggio significativo, anche se non si può dimenticare che da anni tante teologhe lavorano in questa direzione, con risultati di altissima qualità.
Come importante è stata una considerazione di qualche tempo fa, quando ha detto che nulla può giustificare la disparità di retribuzione tra uomo e donna. «Perché si dà per scontato che le donne debbano guadagnare di meno degli uomini? Si tratta di maschilismo», ha commentato senza tanti di giri di parole, applaudito dalla folla di San Pietro.
Non c’è materiale sufficiente per delineare una “dottrina” del papa sulle donne, forse, ma abbastanza per accorgersi di un cambiamento profondo, che più che sui principi, si muove sui comportamenti, sul senso comune, sulla pratica quotidiana.
Certo, bisogna essere cattolici, praticanti o perlomeno formati in quel contesto, per “sentire” quanto queste parole siano forti, incongrue, fuori da qualunque tradizione precedente. Papa Francesco non è magniloquente, non proclama l’elogio del «genio femminile» come fece Woityla, ma ha deciso che con il Giubileo si «perdoni» il peccato di aborto. Anche questa decisione ha fatto molto discutere. A molte - e anche molti laici - è sembrata un’ insopportabile offesa, la riaffermazione di un principio. È comprensibile, ma è evidente che si tratta del contrario. Si tratta della derubricazione della colpa assoluta, demonizzata, e imperdonabile che ha agitato non solo lo stretto ambito del mondo cattolico in questi ultimi anni. Si potrebbe dire che a poco a poco, discorso dopo discorso, omelia dopo omelia, vengono ridotti - decostruiti per essere precisa - tutti gli elementi che fanno della donna un essere speciale e pericoloso. In una visione non solo cattolica, non solo teologica, e non solo mitica, su un terreno in cui ha senso richiamarsi alle radici cristiane dell’Europa e del mondo occidentale, perché è questa visione che ancora ne nutre l’immaginario.
Anche nella relazione con le donne papa Francesco ha portato la forza di una linguaggio quotidiano, semplice, diretto. È un uomo del nostro tempo e risulta evidente, da quello che dice e che fa, che conosce la vita, il mondo. Conosce gli uomini e le donne. È sufficiente a sciogliere la diffidenza, se non l’ostilità delle donne nei suoi confronti? Anzi, meglio sarebbe dire la delusione, impossibile comprendere il giudizio durissimo da lui espresso sulle «teorie del gender», che ha definito «espressione di una frustrazione», una forma di «colonizzazione ideologica».
Il 4 ottobre comincia il Sinodo ordinario, quello che dovrà operare le scelte pastorali sulla famiglia. Divorziati, omosessuali sono i principali temi sul tappeto. Nulla che riguardi le donne, neppure la contraccezione è stata discussa, l’anno scorso.
Papa Francesco è un uomo coraggioso. Abbiamo ammirato tutti la forza con cui propone alla sua Chiesa una pratica che corrisponda agli insegnamenti del Vangelo. L’accoglienza, mettere a disposizione ciò che si possiede, il rispetto delle leggi. Appena eletto, disse « mi chiamano comunista». Viene da pensare che dichiararsi «un po’ femminista» in un’istituzione che da due millenni è fatta da soli uomini, sia perfino più pericoloso.
Pianeta Terra, 2015. Sull’uscita dallo stato di minorità, oggi......
(federico la sala)
Papa Francesco: "Donna tentatrice è luogo comune"
Bergoglio: "Famiglie combattano la subordinazione dell’etica alla logica del profitto" *
CITTA’ DEL VATICANO - "Esistono molti luoghi comuni, alcuni anche offensivi, sulla donna tentatrice", "invece c’è spazio per una teologia della donna che sia all’altezza di questa generazione di Dio". Lo ha detto il Papa, dopo aver affermato che "la donna, ogni donna, porta una segreta e speciale benedizione per la difesa della sua creatura dal maligno, come la donna dell’Apocalisse che corre a difendere il figlio dal drago e lo protegge".
"Il mondo creato è affidato all’uomo e alla donna: quello che accade tra loro dà l’impronta a tutto", ha detto Bergoglio concludendo un ciclo di catechesi sulla famiglia. "Cristo è nato da una donna ha aggiunto il Papa di fronte a oltre 25mila fedeli in Piazza San Pietro - "e questa è la creazione di Dio sulle nostre piaghe, sui nostri peccati, ci ama come siamo e vuole portarci avanti con questo progetto, e la donna è la più forte nel portare avanti questo progetto".
"La famiglia ci salva da tanti attacchi, distruzioni e colonizzazioni, come quella del denaro o quelle ideologiche che minacciano il mondo", ha detto Francesco, "la famiglia - ha affermato - è la base per difendersi" e contrastare quanti "dispongono di mezzi ingenti e di un appoggio mediatico enorme".
Secondo Bergoglio, "l’attuale passaggio di civiltà appare segnato dagli effetti a lungo termine di una società amministrata dalla tecnocrazia economica" e dunque il nemico da combattere è "la subordinazione dell’etica alla logica del profitto". "In questo scenario - ha scandito - una nuova alleanza dell’uomo e della donna deve ritornare ad orientare la politica, l’economia e la convivenza civile! Essa decide l’abitabilità della terra, la trasmissione del sentimento della vita, i legami della memoria e della speranza". "La famiglia ci salva dalla colonizzazione del denaro", ha poi aggiunto.
"Di questa alleanza - ha continuato - la comunità coniugale-famigliare dell’uomo e della donna è la grammatica generativa, il ’nodo d’oro’, potremmo dire. La fede la attinge dalla sapienza della creazione di Dio: che ha affidato alla famiglia non la cura di un’intimità fine a sè stessa, bensì l’emozionante progetto di rendere domestico il mondo".
L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA LA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
Scaraffia: Cade uno stereotipo secolare
Bergoglio demolisce i luoghi comuni
«La donna tentatrice? È offensivo»
di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 17.09.2015)
Francesco l’aveva buttata lì durante un’udienza prima dell’estate, una battuta mentre parlava del «puro scandalo della disparità» tra uomo e donna e metteva in guardia dalla «falsità» di chi dice che il matrimonio è in crisi a causa dell’emancipazione femminile: «È una forma di maschilismo, che sempre vuole dominare la donna. Facciamo la brutta figura che ha fatto Adamo, quando Dio gli ha detto: “Ma perché hai mangiato il frutto dell’albero? E lui: “La donna me l’ha dato”. E la colpa è della donna, povera donna, dobbiamo difendere le donne!».
Detto, fatto. La battuta di qualche mese fa è diventata ieri una riflessione teologica che il Papa ha proposto in piazza San Pietro nell’ultima delle catechesi dedicate alla famiglia. Adamo, Eva, la mela. E quella frase nel terzo capitolo della Genesi, cita Francesco, le parole che Dio rivolge «al serpente ingannatore, incantatore», versetto 15: « Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe ». Francesco scandisce: «Pensate quale profondità si apre qui! Esistono molti luoghi comuni, a volte persino offensivi, sulla donna tentatrice che ispira al male. Invece c’è spazio per una teologia della donna che sia all’altezza di questa benedizione di Dio per lei e per la generazione!».
Lucetta Scaraffia, coordinatrice dell’inserto Donne Chiesa mondo dell’ Osservatore Romano, notava ieri che «lo stereotipo» secolare della donna tentatrice «ha avuto molta fortuna nella Chiesa». E Francesco, ieri, lo ha demolito. I «luoghi comuni offensivi» dicono l’opposto della verità. Perché con le parole rivolte al serpente, ha spiegato il Papa, «Dio segna la donna con una barriera protettiva contro il male, alla quale essa può ricorrere - se vuole - per ogni generazione». Lo stesso Cristo, ricorda, è nato da una donna. E il racconto della Genesi «vuol dire che la donna porta una segreta e speciale benedizione, per la difesa della sua creatura dal Maligno: come la Donna dell’Apocalisse, che corre a nascondere il figlio dal Drago. E Dio la protegge».
Anche da qui deve partire quella riflessione che Francesco invocò dall’inizio del pontificato, nel 2013: «Il ruolo della donna nella Chiesa non è soltanto la maternità, la mamma di famiglia, ma è più forte: è proprio l’icona della Vergine, quella che aiuta a crescere la Chiesa. La Madonna è più importante degli Apostoli! E la Chiesa è femminile... Credo che noi non abbiamo fatto ancora una profonda teologia della donna, nella Chiesa». Capire questo, oltre i «luoghi comuni» e le disparità, è fondamentale per quella «nuova alleanza tra uomo e donna» che Francesco ritiene «non solo necessaria ma anche strategica» nel nostro tempo: per «l’emancipazione dei popoli dalla colonizzazione del denaro». Il Papa anticipa temi del prossimo viaggio a Cuba e negli Usa, che si concluderà con l’incontro delle famiglie a Philadelphia. Temi che saranno anche al centro del Sinodo di ottobre.
Tutto si tiene. Francesco spiega che «l’attuale passaggio di civiltà appare segnato dagli effetti a lungo termine di una società amministrata dalla tecnocrazia economica». E «la subordinazione dell’etica alla logica del profitto dispone di mezzi ingenti e di appoggio mediatico enorme». Qui sta il ruolo decisivo della famiglia: «La nuova alleanza tra uomo e donna deve ritornare ad orientare la politica, l’economia e la convivenza civile!».
Perché Dio «ha affidato alla famiglia non la cura di un’intimità fine a se stessa, bensì l’emozionante progetto di rendere “domestico” il mondo», esclama: «La famiglia è alla base di questa cultura mondiale che ci salva da tanti attacchi, distruzioni, colonizzazioni, come quella del denaro o delle ideologie che minacciano il mondo. La famiglia è la base per difendersi!».
Proprio ieri, il Consiglio di nove cardinali («C9») voluto dal Papa ha definito la nascita di una nuova Congregazione che si occuperà di fedeli laici, famiglia e vita e assorbirà le competenze di due pontifici consigli: un «ministero» ad hoc che non è solo una semplificazione della Curia e dice tutta l’importanza che la questione ha per il Papa. Nel «C9», tra l’altro, si è discusso anche delle procedure per la nomina dei vescovi del mondo: il Papa - forse non convinto da alcune candidature - ha deciso che le procedure per raccogliere informazioni e sondare «qualità e requisiti dei candidati» dovranno essere aggiornate.
Che cosa vuol dire essere casti oggi
È l’arte di non trattare mai l’altro come un oggetto, altrimenti lo si “consuma”
L’amore tra due persone è un lungo cammino e deve vincere ogni giorno
di Enzo Bianchi (la Repubblica, 01.07.2015) *
«A VOI giovani dico: siate casti ... fate lo sforzo di vivere l’amore castamente!». Queste parole di papa Francesco ai giovani pronunciate domenica scorsa hanno suscitato reazioni di ogni tipo ma tutte rivelative del dato che “castità” è una parola sovente incompresa, anzi misconosciuta e derisa, soprattutto perché è confusa con l’astinenza o la continenza sessuale o con il celibato. L’etimologia ci suggerisce che è casto (castus) colui che rifiuta l’incesto (in-castus). L’incesto avviene ogni volta che non si vive la distanza e non si rispetta l’alterità, che non è solo differenza. Non è casto chi cerca la fusione, l’attaccamento, il possesso: segno di tale ricerca è l’aggressività che, in questi casi, facilmente si accende e si manifesta.
Sono sempre più convinto che la sessualità sta nello spazio del dono, perché richiede di dare e di ricevere e si colloca sempre nella relazione tra due soggetti. La sessualità non si riduce alla genitalità e la capacità di dono e di accoglienza è più ampia di quella esercitata nella genitalità: investe, infatti, l’intera persona e le sue relazioni. Per questo la sessualità è cosa buona e bella, ma il suo uso può essere intelligente o stupido, amante o violento, legato all’amore o alla pulsione. La sessualità ci spinge alla relazione con l’altro, ma dipende da noi cercare, in questa relazione, l’incontro o il possesso, la sinfonia o la prepotenza, lo scambio o il narcisismo.
Potremmo dire che la castità è l’arte di non trattare mai l’altro come un oggetto, perché in questo caso lo si “consuma” e lo si distrugge. Arte difficile e faticosa, che richiede tempo: non si nasce casti ma al contrario - va detto con chiarezza - si nasce incestuosi, e l’esercizio di separazione e di distinzione ci conduce verso una soggettività vera e autonoma. La castità conferisce alle relazioni umane una trasparenza che permette alle persone di riconoscersi nel rispetto del loro essere più intimo.
Si pensi all’incontro sessuale dei corpi nella loro nudità e all’intimità che ne deriva. Quando i corpi nella nudità si incontrano e si intrecciano, si accende una conoscenza reciproca che non è comparabile a quella che possono avere l’uno dell’altro anche gli amici più intimi. Condividere il corpo e il respiro crea un’unione che è “conoscenza unica”, è - oserei dire, citando Giovanni Paolo II - “liturgia dei corpi”, è conoscenza penetrativa, di una profondità unica. Quando si tocca un corpo, non si tocca qualcosa, ma una persona, che non è un oggetto di piacere, che non può essere consumata, ma che è possibilità di comunione autentica. Senza questa comunione non è possibile la castità, ma solo l’obbedienza alla pulsione, all’estro, al possesso. Scriveva Rainer Maria Rilke: «Non c’è nulla di più arduo che amarsi: è un lavoro, un lavoro a giornata... L’amore è difficile e non è alla portata di tutti».
L’atto sessuale, compiuto nei tempi e nei modi che gli amanti sanno discernere come belli, buoni e “giusti”, è conoscenza, e non si deve avere paura di affermare che proprio il piacere sommo dell’atto sessuale incendia tale conoscenza. Ma non è facile distinguere questo piacere sommo dell’incontro dei corpi, dei cuori, delle intelligenze, dalla pulsione. Sì, la pulsione da sola, con la sua prepotenza, può creare l’inferno, eppure essa ci abita, e, se non ci fosse, non saremmo naturalmente capaci di darci e di accoglierci.
La pulsione da sola può addirittura portare a un’unione dei corpi che conosce solo l’attimo fuggente e a un’eccitazione dei sensi che conosce la senescenza precoce dei sensi stessi. Non è anche per questo che sovente le storie d’amore, anche sigillate pubblicamente, conoscono la fine e dunque il fallimento dell’amore? L’amore tra due persone è un lungo cammino che solo una forza più grande di loro - che il credente riconosce come la misericordia di Dio - può far leggere come cammino possibile senza interruzioni: da parte degli amanti c’è sempre un venir meno, un non essere adeguati all’altro, un’incapacità a essere sinfonici. L’amore deve vincere sempre, ogni giorno, su tutte le forze che gli sono contrarie perché obbediscono solo alla pulsione, la quale non vuole il bene dell’altro, anche se ci fa dire che all’altro si vuole bene.
Quando, di fronte all’altro soggetto, non si sa stare con rispetto, come davanti a un mistero, a una trascendenza; quando non si è capaci di inchinarsi di fronte all’altro e di farlo per amore; quando non si percepisce il segreto dell’altro, che sfugge alla nostra presa, allora non si è capaci di castità. Ecco la difficoltà della castità, quasi impossibile, invivibile si potrebbe dire; anche Gesù, del resto, ha messo in guardia i suoi discepoli: «Chiunque guarda una donna per bramarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore» (Mt 5,28). Guardare una donna per bramarla è vederla non in quanto donna, ma come oggetto, dunque non percepire in lei “la persona altra”; significa passare accanto a una possibile relazione autentica, per percorrere altre vie che non portano alla comunione.
Ma proprio mettendoci di fronte a questa esigenza, comprendiamo le nostre fragilità, le nostre incapacità, e misuriamo la dominante animale che è in noi e che non sempre siamo capaci di sottomettere e di ordinare. Proprio per questo - io credo - Gesù ha annunciato il mistero della sessualità e l’ha legato in modo escatologico al regno di Dio veniente. La castità è un lungo tragitto, e si sarà casti veramente solo se si accetterà di morire, se si sarà capaci di fare della morte un atto, un atto di scioglimento di legami.
Troppo spesso si assimila il celibato alla castità, dimenticando che il celibato è una situazione che si vive, mentre la castità è a un altro livello: non è una situazione, ma una dinamica che non raggiunge mai pienamente il suo obiettivo. Noi umani siamo così deboli, conosciamo così poco le nostre profondità, non abbiamo presa sul nostro intimo più nascosto e siamo abitati da pulsioni e desideri non sempre distinguibili.
Proprio per questo, oso dire che chi fa professione di celibato può promettere davanti a Dio ed esprimere con i voti questa situazione, mentre la castità non dovrebbe essere una promessa, perché a essa il soggetto può tendere, ma mai viverla senza incrinature né contraddizioni. Il celibato cristiano richiede di cercare la castità ma non si identifica con essa. Del celibato si può forse dire che è “grandezza”, ma si deve dire che è anche “miseria”, quella miseria che ognuno conosce nelle sue contraddizioni alla castità. Ecco perché credo sia bene che papa Francesco abbia ricordato ai giovani le esigenze della castità, tensione interiore preziosa in ogni scelta di vita legata all’amore e impossibile da raggiungere senza un cammino di umanizzazione.
* L’autore è priore della comunità monastica di Bose
IL CRISTIANESIMO NON E’ UN CATTOLICISMO!!! In Vaticano c’è ancora la Sfinge, "Edipo" e la peste .....
UNA NOTA PER aiutare Luca Diotallevi "a capire meglio l’affermazione, certo molto dura, del cardinal Parolin (Segretario di Stato vaticano) che ha definito l’esito del referendum irlandese sul matrimonio tra persone dello stesso sesso «una sconfitta per l’umanità»".
Matrimonio gay
L’errore di unificare le varietà dell’amore
La stessa costituzione italiana insegna che i diritti si tutelano riconoscendo le differenze, non negandole
di Luca Diotallevi (Corriere della Sera, 01.06.2015)
Che il matrimonio sia per lo Stato un «contratto» e solo per la Chiesa qualcosa d’altro è uno dei punti fermi della laicità. La questione, però, si può guardare anche da un altro punto di vista. La laicità non se ne abbia a male.
Per la Chiesa l’amore coniugale di un uomo e di una donna è un sacramento, ma diverso dagli altri sei. Infatti, la Chiesa non insegna che Gesù ha istituito («inventato») il matrimonio. Insegna invece che lo ha trovato ed elevato; che ha cioè riconosciuto, dentro il matrimonio, la qualità di base del sacramento. San Paolo e san Tommaso scrivono pagine straordinarie sul valore santificante dell’amore coniugale in sé. La Chiesa, insomma, non ha istituito, ma ha semplicemente riconosciuto la dignità dell’amore fedele - e non solo «contrattuale» - tra un uomo e una donna. Accetta che questo amore contenga, e che manifesti in una dimensione pubblica, una Grazia che non è stata Lei, la Chiesa, a metterci.
Non diversamente avviene per la politica. Lutero, quando volle dare al principe un potere senza limiti, contribuendo così alla nascita dello Stato moderno, affidò allo Stato una completa competenza anche sul matrimonio. Così si compì - come ha scritto John Witte - la nascita del matrimonio come «contratto». Del resto, lo Stato «assoluto» non tollerava nessuna istituzione autonoma: né quella del matrimonio, né quelle dell’università o dei mercati.
Una volta ridotto a «contratto», il matrimonio è una forma che gli individui - dopo aver accettato la «privatizzazione» della particolarità del loro amore imposta dallo Stato - riempiono di ciò che vogliono. La Chiesa che si fa regime o la politica che si fa Stato non tollerano troppa libertà per l’amore coniugale, né per l’amore in generale, a partire dall’amicizia. (De Tocqueville, venendo dall’Europa statalista, scopriva in un’America diversa la pratica dell’«amicizia civile»).
A questo punto, però, è possibile un’osservazione: molto secolare e poco laica. Questa osservazione può aiutare a capire meglio l’affermazione, certo molto dura, del cardinal Parolin (Segretario di Stato vaticano) che ha definito l’esito del referendum irlandese sul matrimonio tra persone dello stesso sesso «una sconfitta per l’umanità».
Nessun amore è mai una sconfitta. Mai, infatti, i diritti di una persona dipendono da come ama e da chi ama. La sconfitta sta, invece, nella perdita della coscienza della pluralità delle forme di amore (coniugale, amicale, genitoriale, ecc...). La sconfitta è il non saper più riconoscere, anche sul piano legale, la varietà degli amori e le loro differenze. Ciò si verifica inevitabilmente quando ad amori diversi si impone l’unica generica forma del contratto.
In realtà, non è affatto necessario contrattualizzare tutte le relazioni sociali per difendere anche al loro interno i diritti delle persone, soprattutto di quelle più deboli. Ad esempio, non dobbiamo pensare come un contratto il rapporto tra un genitore e un figlio per difendere i diritti dell’uno dagli abusi dell’altro.
Se, per un attimo, abbandoniamo il punto di vista laico, ci accorgiamo che ci sono tante forme di amore, ciascuna diversa dall’altra. Ci accorgiamo che, per difendere i diritti delle persone, non serve annullare la differenza tra le varie forme di amore. Semmai, ciò che serve è riconoscere queste differenze, come la Costituzione italiana prescrive e insegna.
Forse unioni civili che siano mere fotocopie dell’istituto del matrimonio tolgono più di ciò che danno. La Costituzione italiana insegna infatti a concepire la Repubblica come un insieme di tanti tipi di relazioni diverse, ciascuna con un proprio profilo istituzionale. Insegna che i diritti si tutelano meglio riconoscendo e responsabilizzando le differenze, non negandole. Questa è la via secolare, diversa dalla via laica.
La Francia sfida il sessismo
“Diritti umani non dell’uomo”
La campagna di un gruppo femminista per cambiare nome alla Dichiarazione del 1789
di Anais Ginori (la Repubblica, 22.05.2015)
PARIGI DOVREBBE essere un testo universale e invece esclude metà dell’umanità. Nella famosa Dichiarazione dei Diritti d’Uomo e del Cittadino scritta del 1789 le donne non compaiono. E’ lo specchio fedele di una società che, nonostante la rivoluzione in corso, non accordava ancora i diritti civili al genere femminile. All’epoca la scrittrice Olympe de Gouges aveva anche pubblicato, in polemica, una Dichiarazione dei Diritti della Donna e della Cittadina: il testo è finito nel cestino e lei sulla ghigliottina.
Nel frattempo sono passati più di due secoli e la Dichiarazione che ha ispirato numerose carte costituzionali ed è considerato un fondamento delle democrazie moderne viene ancora citata in Francia con la formula originale, come se i diritti fossero solo riservati agli uomini. Un dettaglio simbolico che ora gruppi della società civile chiedono di correggere in nome della parità.
Un nuovo appello lanciato a François Hollande propone di eliminare l’espressione “ droits de l’homme” considerata sessista e discriminatoria, a vantaggio di un più politicamente corretto “ droits humains ”, diritti umani, la stessa usata in italiano e in tante altre lingue. Per l’occasione, i firmatari della proposta hanno anche lanciato una petizione on-line destinata al governo.
Tra le richieste, quella di abbandonare «immediatamente» la terminologia ufficiale non solo nei manuali scolastici, ma anche in tutti i testi delle istituzioni repubblicane che includono il termine “ droits de l’homme”. Secondo Noé le Blanc, del collettivo “ Droits humains” che promuove la petizione, la Francia è sempre più isolata in questa visione discriminante. Nei paesi anglosassoni la Dichiarazione del 1789 è già stata tradotta come “ human rights” anziché “ rights of man”, ma anche altri paesi hanno adottato “diritti umani” (Italia), “ derechos umanos” (Spagna) “ menschenrechte ” (Germania).
Nella patria dei “Diritti dell’Uomo”, pardon dei “diritti umani”, si fa invece fatica a cambiare. «E’ una definizione che rende invisibili le donne, i loro interessi e le loro lotte» spiega le Blanc. Secondo i promotori dell’appello a Hollande bisogna al più presto mettere quel testo fondativo della democrazia al passo con i tempi. La Francia ha ostinatamente mantenuto la dicitura iniziale per rispetto alla Storia. Alcuni storici sostengono che cambiare sarebbe un anacronismo e che i diritti sono “dell’Uomo”, con la maiuscola, con un riferimento dunque universale. Ma è anche vero che si tratta di una sfumatura invisibile nei discorsi pubblici e che stenta a essere colta dalle nuove generazioni.
L’aggiornamento è sempre stato rimandato. Anche nel 1948, quando bisognava tradurre la dichiarazione dell’Onu sugli “ human rights ”, si è scelto comunque di usare “ droits de l’homme”. Ancora oggi esiste una commissione parlamentare che si occupa dei “diritti dell’uomo”. La deputata Catherine Coutelle ha proposto il 30 marzo un emendamento per sostituire finalmente il termine, proposta respinta dall’Assemblée Nationale, anche in nome di una presunta “incostituzionalità” della modifica.
La battaglia si collega al movimento che chiede di usare il genere femminile per le alte cariche dello Stato, un’altra trasformazione linguistica che si fa fatica ad accettare. «Abbandonare l’espressione ‘diritti dell’uomo’ permetterebbe di cancellare una logica discriminatoria nella lingua francese» spiega Coutelle. Ora la parola passa al Presidente che la settimana prossima farà entrare nel Panthéon due donne e due uomini: Germaine Tillion, Geneviève De Gaulle-Anthonioz, Pierre Brossolette et Jean Zay. Sono simboli della Resistenza durante l’Occupazione, ma sono stati scelti in nome della parità.
Finora nel mausoleo repubblicano c’erano soltanto due donne, Marie Curie e Sophie Berthelot. Sulla facciata del Panthéon è scritto a lettere cubitali “ Aux grands hommes la patrie reconnaissante ”. Ristabilire una parità a posteriori su una Storia fatta essenzialmente di “grandi uomini” sembra davvero un’impresa difficile.
Diritti umani o diritti dell’uomo?
Sono due concetti che hanno pregi diversi. L’uno, oggi più in uso, rimanda all’universalità. L’altro a un concreto progetto etico-politico
di Vincenzo Ferrone (Il Sole-24 Ore, Domenica, 17.04.2016)
Disciplina temibile e pericolosa definiva Flaubert la storia nel suo Sciocchezzaio. E non aveva tutti i torti se guardiamo agli interrogativi e alle reazioni che la nuova storiografia internazionale sui diritti umani sta generando nel dibattito pubblico, come pure nel mondo accademico in un settore di ricerca da sempre rigidamente strutturato in percorsi obbligati e rassicuranti certezze, nonché appannaggio esclusivo di filosofi, giuristi, antropologi, sociologi e scienziati della politica.
Gli storici sono infatti arrivati assai tardi a occuparsi di diritti: lo sottolineava con tono di rimprovero già nel 2004 l’American Historical Review. Solo nel 1997, infatti, la potente società degli storici americani aveva deciso di dedicare la propria annuale convention all’argomento degli Human Rights - significativo, in una nazione che in fondo è nata rivendicando la propria indipendenza sulla base dei diritti inalienabili dell’individuo. Con il crollo delle utopie comuniste il tema del resto era divenuto ineludibile.
In quanto formidabile formula politica emancipatoria e liberatrice il linguaggio dei diritti stava proprio in quegli anni prendendo la forma di un’ultima utopia, Last Utopia, come recita il titolo di un importante saggio del 2010 dello storico di Harvard Samuel Moyn. Un linguaggio che dominava sempre più incontrastato l’agenda politica, alimentando ovunque forme di lotta contro le dittature e i residui del colonialismo, e costituiva l’ultima fonte di legittimità per qualsiasi azione di forza internazionale, per quanto controversa e discutibile potesse essere.
Le prime importanti ricerche sui diritti fondamentali si devono a specialisti della storia contemporanea, in Italia come altrove. La ricostruzione delle alterne vicende dei cosiddetti “diritti umani” nel corso del Novecento è stata affrontata con attenzione a non produrre rischi di confusioni linguistiche e anacronismi.
L’uso dell’espressione “diritti umani” (Human Rights) in alternativa al lemma sette-ottocentesco “diritti dell’uomo” (Rights of Man) ha infatti una sua precisa valenza semantica: a tal proposito, infatti, è ormai noto che solo dalla fine degli anni Settanta del Novecento il riferimento agli Human Rights ha iniziato a dominare incontrastato il linguaggio pubblico, la cui storia contemporanea non presentava dunque alcun problema. Poi sono arrivate le ricerche degli storici dell’età moderna, e con esse i primi guai.
Prima del XX secolo, infatti, la pietra di paragone concettuale era un’altra: erano i “diritti dell’uomo” consacrati nella Declaration of Independence dei coloni americani del 1776 e poi nella Déclaration des droits de l’homme dell’89, e come tale quell’espressione non poteva in alcun modo essere elusa. Farne la storia delle origini significava indagare la trasformazione degli sparsi riferimenti ai diritti soggettivi e naturali della canonistica e della trattatistica giuridica del medioevo e della prima modernità nel linguaggio morale, politico e costituzionale dei diritti dell’uomo elaborato dall’Illuminismo.
Nel contesto culturale dei Lumi, infatti, il riferimento alla parola uomo aveva un chiaro significato universalistico, cosmopolita e soprattutto polisemico: quello all’essere umano, a prescindere dal genere, come si evince facilmente dall’Encyclopédie e dalla nascita delle cosiddette ’scienze dell’uomo’ tenute a battesimo dai philosophes.
Non a caso solo durante la Rivoluzione francese, grazie soprattutto all’opera di Condorcet e di Olympe de Gouges, si pose la questione dell’estensione dei diritti politici alla donna con la necessità di precisare anche sul piano lessicale il riferimento al genere.
Agli illuministi spetta il merito di aver definito dapprima sul piano morale e storico l’esistenza dei diritti fondamentali dell’individuo e di avere poi affrontato il tema cruciale di come garantirne l’esercizio politico attraverso la democrazia e la loro costituzionalizzazione.
Da questo punto di vista, al di là degli innegabili punti di contatto, l’odierno linguaggio dei diritti umani sembra avere alle spalle una storia diversa. Nell’interpretazione dominante della storiografia americana gli Human Rights sono presentati con un tratto di forte discontinuità rispetto al progetto culturale e politico dei Rights of Man illuministici, per apparire un’invenzione assai recente, senza vere radici nella storia del Vecchio Continente e tutta plasmata Oltreatlantico.
Di questi Human Rights novecenteschi si sottolinea infatti il carattere universalistico, destrutturante, post-moderno, antipolitico, tutto contenuto nell’ambito morale, in opposizione al vecchio progetto illuministico che mirava invece a trasformare concretamente i diritti naturali in diritti di cittadinanza attraverso lo Stato e la nazione - i due velenosi ingredienti della modernità politica occidentale che, in questa prospettiva, risultano colpevoli di flagelli quali il colonialismo, il razzismo, i totalitarismi, l’Olocausto.
Rispetto all’uso dei settecenteschi “diritti dell’uomo” emergono innegabilmente, del resto, molti vantaggi. Gli Human Rights, anzitutto, superano agevolmente il vaglio inflessibile del politically correct - ricordo la recente richiesta di mutare nome alla Déclarations des droits de l’homme del 1789, accusata di sessismo, inoltrata al presidente Hollande da un gruppo di intellettuali femministe.
Con la sua genericità la nuova retorica dei diritti umani supera le distinzioni di genere e orientamento sessuale, si attaglia ai difensori dei diritti dell’individuo eredi dell’Illuminismo e soddisfa i partigiani delle comunità e dei diritti delle nazioni (al costo, va detto, di perpetuare una rovinosa confusione tutta ottocentesca che continua a creare tragedie nella soluzione dei conflitti internazionali). Fare la storia dell’origine intellettuale dei diritti umani così genericamente concepiti apre poi praterie sterminate agli storici più ingegnosi, fantasiosi o semplicemente attenti al mercato: in fondo, perché non arruolare Buddha e Gesù in solerti attivisti di Human Rights Watch?
Ma ciò che preoccupa di più è la mancata consapevolezza di quei politici, diplomatici e giuristi che a Bruxelles considerano ormai equivalenti, e dunque intercambiabili, nei loro documenti e nelle loro sentenze le espressioni “diritti dell’uomo” e “diritti umani”. Qualcuno dovrebbe forse segnalare loro che se esistono i diritti umani non vanno però dimenticati i diritti della storia - che non così facilmente si presta ad anacronismi e acrobazie lessicali - se si vuole davvero capire il nostro presente e agire con cognizione piena della posta in gioco.
Breve catalogo dei luoghi comuni sulla nostra libertà
di Chimamanda Ngozi Adichie (la Repubblica, 10.05.2015) *
OKOLOMA era uno dei miei più cari amici d’infanzia. Abitava nella mia stessa strada e si prendeva cura di me come un fratello maggiore. Se mi piaceva un ragazzo, gli chiedevo che ne pensava. Okoloma era spiritoso e intelligente e portava stivali da cowboy a punta. È morto nel dicembre del 2005 in un incidente aereo nel sud della Nigeria. Faccio ancora fatica a esprimere a parole cosa ho provato allora. Okoloma era uno con cui potevo discutere, ridere, parlare davvero. Era anche la prima persona ad avermi dato della femminista. Avrò avuto quattordici anni.
Eravamo a casa sua e discutevamo riempiendoci la bocca di idee traballanti ricavate dalle nostre letture. Non ricordo di cosa stessimo discutendo. Ma ricordo che, mentre snocciolavo i miei argomenti, Okoloma mi guardò e disse: «Sei proprio una femminista». Non era un complimento. Lo intuii dal tono, lo stesso con cui uno direbbe: «Quindi difendi il terrorismo ». Non sapevo l’esatto significato della parola “femminista”. E non volevo che Okoloma sapesse che non lo sapevo. Così ripresi la discussione facendo finta di niente, ripromettendomi di cercare la parola sul vocabolario non appena fossi tornata a casa.
Nel 2003 ho scritto un romanzo intitolato L’ibisco viola. Parla di un uomo che, tra le altre cose, picchia la moglie, e che non fa una bella fine. Mentre promuovevo il libro in Nigeria, un giornalista - un signore gentile e benintenzionato - mi ha voluto dare un consiglio (come forse saprete, i nigeriani sono sempre pronti a dare consigli non richiesti). Mi ha detto che secondo molte persone il mio era un romanzo femminista, e il suo consiglio - parlava scuotendo la testa con aria triste - era di non definirmi mai femminista, perché le femministe sono donne che non trovano marito e, dunque, infelici. Così ho deciso di definirmi una Femminista Felice.
Poi una professoressa universitaria nigeriana mi ha detto che il femminismo non faceva parte della nostra cultura, che il femminismo non era africano e che mi definivo femminista solo perché ero stata influenzata dai libri occidentali (cosa che mi ha fatto sorridere, perché molte delle mie prime letture sono state decisamente poco femministe: credo di aver letto ogni volume della serie di romanzi rosa Mills & Boon pubblicato prima che compissi sedici anni. E, ogni volta che provo a leggere i cosiddetti “classici del femminismo”, mi annoio e faccio fatica a finirli). A ogni modo, dato che il femminismo non era africano, ho deciso di definirmi una Femminista Felice Africana. Poi un caro amico mi ha detto che definirmi femminista voleva dire che odiavo gli uomini. Così ho deciso di definirmi una Femminista Felice Africana Che Non Odia Gli Uomini. A un certo punto ero diventata una Femminista Felice Africana Che Non Odia Gli Uomini e Che Ama Mettere il Rossetto e i Tacchi Alti Per Sé e Non Per Gli Uomini.
Naturalmente in questo c’era parecchia ironia, ma la vicenda dimostra che la parola «femminista» si porta dietro un bagaglio negativo notevole: odi gli uomini, odi i reggiseni, odi la cultura africana, pensi che le donne dovrebbero sempre essere ai posti di comando, non ti trucchi, non ti depili, sei perennemente arrabbiata, non hai senso dell’umorismo, non usi il deodorante.
Ora ecco un episodio della mia infanzia. Quando ero alle elementari a Nsukka, una città universitaria nel sudest della Nigeria, all’inizio dell’anno la mia insegnante ci fece fare un compito dicendo che la persona con il voto più alto sarebbe diventata capoclasse. Diventare capoclasse era una cosa importante. Il capoclasse scriveva ogni giorno i nomi degli alunni chiassosi, di per sé un esercizio di potere già abbastanza inebriante, e in più la maestra ti dava una bacchetta da tenere in mano mentre pattugliavi l’aula. Naturalmente non avevi il diritto di usarla. Ma ai miei occhi di bambina di nove anni era comunque una prospettiva eccitante. Volevo assolutamente diventare capoclasse. E presi il voto più alto. Poi, con mia grande sorpresa, la maestra disse che il capoclasse doveva essere un maschio. Si era dimenticata di precisarlo. Lo aveva dato per scontato. Il voto più alto dopo il mio lo aveva preso un bambino. E il nuovo capoclasse sarebbe stato lui. La cosa interessante è che il bambino in questione era un’anima mite e per nulla attratta dall’idea di pattugliare la classe con una bacchetta in mano. Mentre io non sognavo altro. Ma io ero una femmina e lui un maschio, e così fu lui a diventare capoclasse. Non ho mai dimenticato quell’episodio. Se facciamo di continuo una cosa, diventa normale. Se vediamo di continuo una cosa, diventa normale. Se solo i maschi diventano capoclasse, a un certo punto finiamo per pensare, anche se inconsciamente, che il capoclasse debba per forza essere un maschio.
Traduzione Francesca Spinelli (Testo tratto da Dovremmo essere tutti femministi , Einaudi)
Del genere e della specie. Francesco e Nanni
di GIUSEPPE PANISSIDI *
I recenti interventi di Papa Francesco e l’ultimo film di Nanni Moretti aiutano a ripensare la questione della differenza di genere, intrecciandola alla dimensione dell’ordine simbolico e dell’ordine sociale entro cui questa differenza si inscrive. L’importanza della partecipazione diretta delle donne ai grandi movimenti progressivi dell’umanità. *
[...] Sull’Avanti! del marzo del 1917, in una recensione a una rappresentazione di “Casa di bambola” di Ibsen, Gramsci si interroga e ci interroga sulle ragioni dell’apparente insensibilità degli spettatori - uomini e donne - di fronte al dramma di Nora Elmer, la quale “abbandona la casa, il marito, i figli, per cercare se stessa”. E non esita a ricondurre un comportamento siffatto alla morale borghese più retrograda, incapace di comprendere che “la famiglia non è più un istituto economico, ma è specialmente un mondo morale in atto, che si completa per l’intima fusione di due anime che trovano l’una nell’altra ciò che manca a ciascuna individualmente; per il quale la donna è una creatura umana a sé, che ha una coscienza a sé, che ha dei bisogni interiori suoi, che ha una personalità umana tutta sua e una dignità di essere indipendente”.
Lucida ed acuta in Gramsci la consapevolezza della necessità storica e politica della formazione di una nuova personalità femminile, una questione di alto spessore morale e civile. “Finché la donna, scrive nelle “Note su Machiavelli”, non avrà raggiunto non solo una reale indipendenza di fronte all’uomo, ma anche un nuovo modo di concepire se stessa e la sua parte nei rapporti sessuali, la questione sessuale rimarrà ricca di caratteri morbosi e occorrerà esser cauti in ogni innovazione legislativa”.
Quella fase di storia e di cultura non permetteva a Gramsci di allargare il suo campo di riflessione a una visione più avanzata delle specifiche questioni agitate dai movimenti femministi e dalle loro rivendicazioni dell’emancipazione, in un quadro di completa auto-affermazione. Precondizione irrinunciabile a una nuova e più autentica dimensione di genere, abitata - questo il lontano auspicio di F. Engels, nell’aurora del socialismo moderno - da “una generazione di uomini i quali, durante la loro vita, non si saranno mai trovati nella circostanza di comperarsi la concessione di una donna con il denaro o mediante altra forza sociale, e una generazione di donne che non si saranno mai trovate nella circostanza né di concedersi a un uomo per qualsiasi motivo che non sia vero amore, né di rifiutare di concedersi all’uomo che amano” [...]
Il Santo Padre fa appello alla "uguale retribuzione" tra uomo e donna: "Perché si dà per scontato che debbano essere pagate di meno?". Il cristianesimo "non può essere maschilista": "Il Vangelo ha sconfitto la cultura del ripudio abituale, quando un marito poteva imporre il divorzio anche con i motivi più pretestuosi" *
CITTA’ DEL VATICANO - "La disparità di retribuzione tra uomo e donna è uno scandalo. Serve uguale retribuzione per uguale lavoro". Così Papa Francesco durante l’udienza generale del mercoledì in piazza San Pietro. Papa Francesco: "Donne che guadagnano meno degli uomini è puro scandalo"
"Perché per le donne è scontato che devono guadagnare di meno degli uomini? No, lo stesso diritto! La disparità è un puro scandalo". Per il Papa, "nello stesso tempo, riconoscere come ricchezza sempre valida la maternità delle donne e la paternità degli uomini, a beneficio soprattutto dei bambini. Ugualmente, la virtù dell’ospitalità delle famiglie cristiane riveste oggi un’importanza cruciale, specialmente nelle situazioni di povertà, di degrado, di violenza familiare".
Papa Francesco ha denunciato ancora una volta i danni che compie il maschilismo nella nostra società, partendo dal luogo comune per il quale la crisi della famiglia tradizionale e la diminuzione dei matrimoni, è colpa dell’emancipazione femminile. "Questa - ha scandito il Pontefice - è anche un ingiuria, ed è una forma di maschilismo: l’uomo che sempre vuol dominare". "Così - ha affermato - facciamo la brutta figura di Adamo, che per giustificarsi di aver mangiato la mela ha risposto al Signore: ’Lei me l’ha data’".
Secondo Bergoglio, e il cristianesimo non può essere maschilista: "Il Vangelo - infatti - ha sconfitto la cultura del ripudio abituale, quando un marito poteva imporre il divorzio anche con i motivi più pretestuosi e umilianti". "Dobbiamo difendere le donne!", ha commentato Francesco mentre la folla applaudiva.
Davanti a oltre 20mila persone in piazza San Pietro, Bergoglio, a partire dal racconto delle nozze di Cana, - dove Gesù secondo il Vangelo trasformò l’acqua in vino durante una festa di nozze in cui il vino non era sufficiente - ha parlato della bellezza del matrimonio cristiano, annunciando che ne parlerà anche nella prossima udienza generale. In questo periodo, come noto, papa Francesco svolge delle catechesi sulla famiglia, in preparazione al sinodo del prossimo autunno, e spesso svolge ogni "capitolo" in due "puntate".
"Dai tempi delle nozze di Cana - ha osservato - tante cose sono cambiate ma quel segno di Cristo contiene un messaggio sempre valido: oggi sembra non facile parlare del matrimonio come di una festa che si rinnova nel tempo, nelle diverse stagioni". "E’ un fatto - ha detto ancora - che le persone che si sposano sono sempre di meno, questo è un fatto, i giovani non vogliono sposarsi, in molti paesi aumenta invece il numero delle separazioni mentre diminuisce il numero dei figli".
"La difficoltà a restare insieme sia come coppia che come famiglia - ha commentato il Pontefice - porta a rompere i legami con sempre maggiore frequenza e rapidità, e i figli sono i primi a portarne le conseguenze", "le vittime, le vittime più importanti, le vittime che soffrono di più in una separazione sono i figli, e se sperimenti fin da piccolo che il matrimonio è un legame a tempo determinato, inconsciamente per te sarà così, e infatti molti giovani sono portati a rinunciare al progetto stesso di un legame stabile e di una famiglia duratura. Dobbiamo riflettere - ha invitato papa Francesco - sul perché tanti giovani non si sentono di sposarsi, c’è questa cultura del provvisorio, tutto è provvisorio, niente è definitivo, è una delle preoccupazione di oggi, perché non si sposano? perché preferiscono una convivenza e tante volte anche una convivenza a responsabilità limitata, e tanti, anche battezzati, hanno poca fiducia nel matrimonio e nella famiglia? E’ importante - ha rimarcato il Papa - capire perché non hanno fiducia nella famiglia".
QUAL E’ IL "SESSO" DI DIO? E GESU’ DI CHI E’ FIGLIO?!
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Papa: "Teoria gender espressione di frustrazione che cancella differenze"
Bergoglio, nel corso dell’udienza del mercoledì, dedicata oggi al tema della complementarietà tra uomo e donna, mette in guardia: "Rischiamo un passo indietro, la rimozione della differenza infatti è il problema non la soluzione". Francia insiste su ambasciatore gay *
CITTA’ DEL VATICANO - "Mi chiedo se la cosiddetta teoria del gender non sia anche espressione di una frustrazione e di una rassegnazione che mira a cancellare la differenza perché non sa più confrontarsi con essa". Lo ha detto oggi il Papa, nel corso dell’udienza del mercoledì oggi dedicata al tema della complementarietà tra uomo e donna, come preparazione al Sinodo sulla famiglia del prossimo ottobre. Ma così - ha aggiunto - "rischiamo un passo indietro, la rimozione della differenza infatti è il problema non la soluzione", "per risolvere i loro problemi di relazione l’uomo e la donna devono invece parlarsi di più, ascoltarsi di più, trattarsi con rispetto e cooperare con amicizia".
E ha insistito: "Come tutti sappiamo, la differenza sessuale è presente in tante forme di vita, nella lunga scala dei viventi...La differenza tra uomo e donna non è per la contrapposizione, o la subordinazione, ma per la comunione e la generazione, sempre ad immagine e somiglianza di dio. L’esperienza ce lo insegna: per conoscersi bene e crescere armonicamente l’essere umano ha bisogno della reciprocità tra uomo e donna. Quando ciò non avviene, se ne vedono le conseguenze. Siamo fatti per ascoltarci e aiutarci a vicenda. Possiamo dire che senza l’arricchimento reciproco in questa relazione - nel pensiero e nell’azione, negli affetti e nel lavoro, anche nella fede - i due non possono nemmeno capire fino in fondo che cosa significa essere uomo e donna. La cultura moderna e contemporanea ha aperto nuovi spazi, nuove libertà e nuove profondità per l’arricchimento della comprensione di questa differenza. Ma ha introdotto anche molti dubbi e molto scetticismo". Per questo, Papa Francesco esorta gli intellettuali a non trattare il legame matrimoniale e familiare come se fosse un tema "diventato secondario per l’impegno a favore di una società più libera e più giusta".
Intanto non si placa la tensione tra Eliseo e Vaticano sulla vicenda dell’ambasciatore Laurent Stefanin, non ancora accreditato presso la Santa sede, probabilmente a causa del suo orientamento omosessuale. La Francia non ha intenzione di indietreggiare: "La Francia ha fatto la scelta di avere un ambasciatore presso il Vaticano e la scelta è caduta su Laurent Stefanini. Questa resta la posizione della Francia", ha detto Stéphane Le Foll, portavoce del governo.
Non è la prima volta che Francesco muove una critica del genere: già il mese scorso, in occasione della sua visita a Napoli, incontrando una coppia sposata da 31 anni, aveva definito la teoria del gender "quello sbaglio della mente umana che fa tanta confusione".
Sulle parole del Pontefice era tornato anche l cardinale Angelo Bagnasco, presidente dei vescovi italiani, nella prolusione al Consiglio permanente della Cei a fine marzo: "Il gender - aveva detto il presidente della Cei - si nasconde dietro a valori veri come parità, equità, autonomia, lotta al bullismo e alla violenza, promozione, non discriminazione ma, in realtà, pone la scure alla radice stessa dell’umano per edificare un transumano in cui l’uomo appare come un nomade privo di meta e a corto di identità".
* la Repubblica, 15 aprile 2015 (ripresa parziale).
8 marzo
Celebrare così un genere significa chiudere una gabbia
di Barbara Spinelli (il Fatto, 07.03.2015)
È LA PRIMA VOLTA che scrivo sulla festa delle donne, e probabilmente l’ultima. Non mi piacciono le feste “di genere”, come non mi piacerebbero giorni dedicati a una razza. Penso che ogni essere umano abbia più radici, più essenze e propensioni: naturali o non naturali. Non mi piace essere definita, e appena qualcuno lo fa cerco di dirgli che in quella definizione non mi riconosco, se non parzialmente. Ogni definizione la considero una gabbia, anche se distinguere è necessario sempre . Ogni festa in onore di tale definizione ha il potere, temibile, di confermare ed esaltare la gabbia, dunque una sorta di surrettizia intoccabilità e separatezza.
Non mi piacerebbe neppure una festa dell’essere umano, e non ho mai capito l’usanza di alzarsi un piedi, quando nella liturgia cristiana si ricorda la Creazione e si evoca il giorno in cui Dio creò l’uomo. Mi sembra un giorno infausto: bisognerebbe sprofondare, piuttosto che di ergersi trionfalmente.
Infine: m’infastidisce l’abitudine, apparsa in Germania negli anni 70 e oggi diffusa in Italia, di storpiare la scrittura con il ricorso al maschile-femminile: compagni(e), amici/amiche, cari/care. Aspetto con timore il momento in cui scriveremo, perché imposto dall’etichetta femminista: Dio/Dea.
Avrete capito che guardo al femminismo con un certo distacco prudenziale. Come Doris Lessing, sono convinta che il femminismo ha fatto molte nobili battaglie (e ancora molte avrà da farne), ma ha causato non pochi danni, e durevoli, nel rapporto fra uomini e donne.
MA QUALE "PUGNO"?! Basta con la connivenza all’ordine simbolico della Madre - all’alleanza naturalistica e costantiniana della Madre con il Figlio e del Figlio con la Madre!!!
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano
CRISI POLITICA E SACRA FAMIGLIA!!! NON SOLO LA TEOLOGIA (E LA FILOSOFIA), MA NEMMENO LA SOCIOLOGIA SA DISTINGUERE TRA FAMIGLIA DEMOCRATICA E FAMIGLIA DI "MAMMASANTISSIMA" E DI "MAMMONA"...
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETA’. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DEL FIGLIO CON LA MADRE, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". Dalla democrazia della "volontà generale" alla democrazia della "volontà di genere". L’importanza della lezione dei "PROMESSI SPOSI", oggi.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA-POLITICA EUROPEA