Per l’ “amore conoscitivo” - In memoria di Kurt H. Wolff
SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
Note per un nuovo patto sociale
di Federico La Sala *
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Il cielo della preistoria (Marx) getta ancora le sue terribili ombre sul nostro presente e continua a devastare sempre piu la nostra mente e la nostra Terra. Si continua a credere che la civiltà dell’amore - come ha ammesso l’ultimo ‘hegelo-marxista’ nella sua recente circolare del 23.2.1994 - sia possibile, e non un’utopia (1), ma nessuno (non i filosofi, e meno che mai il Papa) osa far pulizia nel cielo delle nostre idee di violenza, di tramonto e di morte (Occide-re-nte). E tutti perseverano nel ritenere cosa sacra e giusta “per diritto naturale che la materia obbedisca alla forma, il corpo all’anima, l’appetito alla ragione, i bruti all’uomo, la moglie al marito, l’imperfetto al perfetto, il peggiore al migliore, per il bene dell’uno e l’altro dei due”(2).
Se è vero che un uomo più una donna ha prodotto per secoli e per millenni un uomo (3), non è un caso che la dinamica del rapporto tra il soggetto, l’umanità, e l’oggetto, la natura, sia stato concepito dialetticamente, e uni-totalitariamente - sia in senso idealistico sia materialistico - come un percorso bellico di superamento delle differenze e trionfo dell’Uomo. E il mondo in cui hanno vissuto e vivono l’uomo e la donna è stato sempre e solo interpretato come il mondo dell’Uomo e del Cittadino: si ricordi che in Italia solo l’altro ieri, 1946, è stato riconosciuto il diritto di voto alle donne.
Cogliere le cose alla radice non è facile. E la radice dell’uomo non è l’uomo stesso. Si ricordi quanto la completa conoscenza scientifica del fenomeno della procreazione sia recente nella scienza occidentale. E si ricordi che «dopo l’antica credenza nella sola responsabilità del maschio, la questione viene riveduta, diventa argomento di polemiche e resta a lungo incerta», e che, «fino al 1906, data in cui l’insegnamento adotta la tesi della fecondazione dell’ovulo con un solo spermatozoo e della collaborazione di entrambi i sessi alla riproduzione e la Facoltà di Parigi proclama questa verità ex cathedra, i medici si dividevano ancora in due partiti, quelli che credevano, come Claude Bernard, che solo la donna detenesse il principio della vita, proprio come i nostri avi delle società pre-patriarcali (teoria ovista), e quelli che ritenevano [...] che l’uomo emettesse con l’eiaculazione un minuscolo omuncolo perfettamente formato che il ventre della donna accoglieva, nutriva e sviluppava come l’humus fa crescere il seme»(4).
Si tratta di riprendere da capo, a partire dalle radici, l’interrogazione sia su che cosa significa pensare sia, e ancor di più, su che «cosa significa creare rapporti e legami», e su come trasformare i vecchi esistenti rapporti di produzione. Nel momento in cui, accanto all’uomo, la donna «è entrata nel campo e può essere amica o nemica»(5), se vogliamo ridurre e non raddoppiare il numero già infinito delle occasioni di guerre e di distruzione, altre sono le domande e altre sono le risposte di cui abbiamo bisogno:
"Prigionieri di una logica vecchia e con radici profonde secondo la quale v’è sempre chi vince e chi perde, si riuscirà ad uscire da questo gioco che consente, al massimo, di invertire le parti? Che senso ha rifiutare la propria oppressione dell’altro, per rivendicare il diritto ad opprimerlo nello stesso modo e con gli stessi strumenti ? Come strappare il potere dalle mani di chi lo detiene, senza esercitare lo stesso potere su chi viene reso impotente? Come superare i tempi delle rivendicazioni, del capovolgimento dei termini che lascia intatta la natura dell’oppressione la qualità del rapporto tra chi tiene il coltello dalla parte del manico e chi si trova con un coltello puntato?
È un problema che non riguarda soltanto il rapporto tra l’uomo e la donna, ma tra l’oppressore e l’oppresso, tra il forte e il debole, tra chi ha il potere e chi non lo possiede: sono quindi domande che coinvolgono l’intera struttura sociale e tutti i valori da essa prodotti, e non possono trovare risposte parziali. Ma nel rapporto tra l’uomo e la donna v’è qualcosa di piu complicato e insieme più semplice: la necessità naturale che reciprocamente li unisce e che la storia ha diviso. La sopraffazione dell’uno sull’altro poggia su questa reciproca necessità, che può essere garanzia di un cambiamento.
Riconoscere lo stesso peso alle esigenze, ai bisogni e ai desideri di entrambi - anche se la donna, tra l’altro, sarà madre se vuole - non dovrebbe essere un’operazione che esige il massacro"(6).
Si tratta di uscire «da interi millenni di labirinto» secondo un’espressione di Nietzsche: e per questo non servono più né l’astuzia della ragione né la volontà di potenza. Non v’è nessuno da uccidere o da aggiogare, e tutti e tutte da liberare - Teseo, Arianna e il Minotauro. Per una nuova terra, abbiamo bisogno di un nuovo cielo, non più platonico e non più cristiano-hegeliano. Ha ragione Ida Magli: L’Osservatore romano «mi contesta perché affermo che non è più tollerabile per la coscienza dell’uomo moderno teorizzare l’ amore di un dio che ha voluto la morte del figlio per salvarci? E perché affermo che non era questo il messaggio di Gesù? Ma è la storia dei duemila anni di Europa cristiana a dimostrare con le sue infinite guerre che si tratta di una religione di morte. Quello che stiamo vivendo in questi giorni lo dimostra meglio che qualsiasi laboratorio. È nel centro delle religioni del sacrificio - ebraismo, islamismo, cristianesimo - che si deve continuare ad uccidere per salvarsi: perché là dove esiste sacrificio deve esistere il sacrificatore [...].. Perché condanno Wojtyla? Perché rappresenta, nel mondo moderno, l’incarnazione del sacerdote-sacrificatore dell’Antico e del Nuovo Testamento, e, come tale, non può non individuare nelle donne le vittime per eccellenza. Strumenti sacrificali, al servizio della procreazione anche là dove vengono stuprate appositamente come in Bosnia, perché procreino figli ai nemici vincitori come sempre è avvenuto in tutte le guerre, da quelle di cui parla Omero fino ad oggi»(7).
Siamo ancora nella preistoria: come in cielo, cosi in terra. Ma nessuno sembra rendersene conto, e disponibile a «interrogarsi anche su ciò che sembra talmente ovvio, da non suscitare il minimo dubbio, anzi, da non apparire alla coscienza neanche come fatto su cui interrogarsi». Ha ragione Ida Magli: «Le donne sono esseri storici, sono persone. Chiedo a Wojtyla di prenderne atto. Soltanto questo».
Il re è nudo, letteralmente. Si tratta di non continuare a chiudere un occhio o, che è lo stesso e peggio, a chiudere gli occhi sull’incarnazione e sulla nascita -«questa origine, sperimentabile come quell’evento che noi siamo»(8) -e «non smettere mai di porsi domande»: sàpere aude!
Benché occasionali e velocissime, le riflessioni qui presentate questo tentano: fare luce sull’ombelico del sogno (Freud) della ragione (Hegel) del re (Platone). Per tutti e per tutte, ciò che è in giuoco è proprio l’aprire gli occhi (nel doppio senso di nascere e conoscere) su quel crocevia di relazioni chiasmatiche da cui emergiamo, che ci costituiscono e strutturano, e che ci legano alla stessa realtà in cui viviamo - in grande e pericolosa ignoranza.
Pur se con molti limiti, Feuerbach l’aveva capito quando affermava che la vera dialettica non è un monologo del pensatore solitario con se stesso, ma un dialogo tra l’io e il tu. «Due esseri umani occorrono per creare l’uomo, sia l’uomo spirituale sia quello fisico: la comunione dell’uomo con l’uomo è il primo principio e il primo criterio della verità e della validità universale»(9). Cosi Saussure: «Per trovare nell’insieme del linguaggio la sfera che corrisponde alla lingua, occorre collocarsi dinanzi all’atto individuale che permette di ricostruire il circuito della parole. Questo atto presuppone almeno due individui, il minimo esigibile perché il circuito sia completo. Siano dunque due persone che discorrono...»(10).
Uomo e donna, prima di tutto. All’origine della nostra stessa vita, come dell’intera società, non vi sono il silenzio e la morte: v’è l’amore. È l’amore che illumina le differenze e svela la comune identità: vere duo in carne una, sia nell’unione dei due (uomo e donna) sia nell’uno (figlio o figlia) prodotto dai due. Ogni uomo e ogni donna nascono da donna, ma ogni individuo (letteralmente, il duo da non dividere) - sia uomo sia donna - è generato dall’uomo e dalla donna: due esseri umani, diversi nella loro fisicità (differenza sessuale) e identici nella loro soggettività (attiva e recettiva insieme). Hic Rhodus, hic saltus! Con Kant, oltre Hegel e Freud.
Né idealismo, né materialismo, non la metafora dello specchio e neppure la dialettica. La logica del X (=Chi, nel senso unificato della lettera dell’alfabeto greco simbolizzante una relazione incrociata o, appunto, chiasmatica e del pronome relativo che rinvia alle persone che si incontrano e discorrono) precede e fonda la logica del che cosa (Socrate), non viceversa: continuare a ignorare chi siamo non porta se non a prolungare la strada di coloro che «non sanno quello che fanno» e a non vedere mai né la luce del Sole, né la Terra, né noi stessi e noi stesse - neonati e neonate, in un cielo puro e in un libero mare.
Il nuovo inizio è possibile. Ma, giammai come ora, esso dipende da noi - uomini e donne della Terra. Si tratta di decidersi, consapevolmente e responsabilmente, per relazioni amorose e non per relazioni furbesche e odiose. Non ci sono altre soluzioni: o distruggere il mondo e noi stessi e noi stesse o «cambiare l’anfiteatro da gladiatori dell’insieme delle nostre relazioni» (M. Serres).
Continuare a intendere la relazione-matrice (uomo e donna all’esterno, maschile e femminile all’interno dell’uno e dell’altra) come relazione di dipendenza «significa voler svuotare della sua realtà uno dei portatori della relazione, e con ciò la relazione stessa» (M. Buber), e scegliere ancora una volta di camminare sulla vecchia strada della guerra e della distruzione.
Contro ogni illusione di continuità di istituzioni e di divinità, un fatto resta determinante. Siamo giunti a un grado zero di civiltà. La secolarizzazione non è stata uno scherzo: non solo «Dio è morto» ma anche l’Uomo. Il lungo processo storico che in Europa e nel mondo, almeno dal XVIII secolo, ha innescato la contrapposizione delle diverse forme del contesto sociale all’individuo come un puro strumento per i suoi scopi privati, come una necessità esteriore, e, nel contempo, ha spinto l’individuo a un progressivo isolamento nella società, ha ormai toccato il fondo e ha portato a galla le determinazioni più semplici (Marx).
Ciò che è emerso non è l’ideologico individuo isolato, ma l’uomo isolato e la donna isolata, con la loro diversità (differenza sessuale) e la loro identità (bisessualità psichica), e lo stesso nesso che li costituisce e unifica isolato. Ed è con questo che oggi bisogna fare i conti - se vogliamo uscire dall’inferno in cui stiamo sprofondando sempre più, non con qualcos’altro.
Nessuna restaurazione ci può salvare. Quando la potenza unificatrice scompare dalla vita dell’uomo e della donna e gli opposti hanno perduto il loro vivo rapporto e la loro reciproca dipendenza acquistando la loro autonomia, non è della filosofia - come sosteneva Hegel - che si ha bisogno. Caso mai, essa serve solo a completare l’opera.
La sua coscienza infatti, pur se desiderosa di sapere, è cieca come la coscienza di Èdipo: non sa nulla del prima e del dopo; e la sua intelligenza è capace solo di consegnare alla vecchia Giustizia e a un destino di negazione e morte tutto ciò che incontra sulla strada del suo presente. Nel proprio lavoro e sul suo terreno, è anche una coscienza eroica, astuta e potente, ma al di là non va e non può andare: è paurosa e miope, come una nòttola o una talpa, e non sa far altro che tornare indietro e rimuovere la complessità delle condizioni del suo stesso essere e del suo stesso agire.
A veder bene, il dialogo socratico come la dialettica hegeliana non sono che potenti e sofisticate macchine da guerra di una coscienza (storicamente datata) volta ad aggiogare e confinare l’altro dentro di sé (il femminile) e fuori di se (la donna) e la stessa natura, in un cerchio o, meglio, una sfera - senza tempo e senza vita, oltre che senza luce.
Il desiderio-di-sapere di questa coscienza non ha più storia, né in terra né in cielo. Oggi, gli uomini e le donne non solo hanno appreso come nascono i bambini e le bambine sulla Terra, ma, portatisi e portatesi fuori - nell’oceano cosmico, hanno visto la sfera in cui abitano: la nostra Terra è illuminata dal Sole ed è piena di vita e di brillante colore. Al di là della disperazione e del nulla, oltre le colonne di Ercole-Parmenide, hanno trovato e provato - quanto nessuna coscienza nata e cresciuta tra le mura delle varie accademie ha mai neppure lontanamente sognato - il piacere, più profondo ancora della sofferenza (Nietzsche), e "Amore più forte della Morte".
Benché accecati, Marx, Nietzsche e Freud hanno scavato più di tutti - per aprire un varco: non è la coscienza dell ’uomo o della donna che determina il nesso sociale, ma è il nesso sociale che determina la coscienza dell’uno e dell’altra. Non vi sono riusciti ma ora il nesso dialettico è stato spezzato. Lo Stato etico come il partito etico è morto, e la strada a un nuovo patto sociale e a una nuova conoscenza è aperta.
Né egoismo, né altruismo ... né un’altra religione! Si tratta di aprire le porte e le finestre della coscienza alla legge scritta nel nostro stesso corpo e nella nostra stessa mente (non nella testa di qualche filosofo-papa) e di cominciare a mettersi in cammino. La critica non ha strappato i fiori immaginari dalla catena perche l’uomo e la donna continuino a trascinarla triste e spoglia, ma perche la gettino via e colgano il fiore vivo.
Uscire dal caos è possibile, e mettere al mondo una nuova polis non è un’utopia. Ormai né a Johannesburg, né a Gerusalemme, né a Gaza, e nemmeno a Roma, si ignora che la verità nasce da due e non da uno e che amare l’altro come se stesso, o sé come un altro (12), è un dire di sì all’eterno ritorno della vita, non della morte.
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TERRA!!! |
* Si riprende qui, con lo stesso titolo, il cap. 6 della Parte III del mio lavoro: Federico La Sala, Della Terra, il brillante colore, pref. di Fulvio Papi, Roma-Salerno, Edizioni Ripostes, 1996, pp. 141-148.
NOTE:
1. Giovanni Paolo II, Lettera alle famiglie, supplemento al n. 45 di “Avvenire» di mercoledì 23 febbraio 1994, pf. 15
2 . Ginés De Sepulveda, De la justa causa de la guerra contra los Indios. Roma 1550. A riguardo, cfr. E Dussel, La conquista dell’America e il mito della modernità nella disputa di Valladolid (1550), in .”lnvarianti”, n. 22, pp. 53-58, Roma, Antonio Pellicani editore, 1992.
3. Franca Ongaro Basaglia, Donna, in Enciclopedia, 5, Torino, Einaudi, 1978, p. 89.
4. F. D’Eaubonne, Le donne prima del patriarcato, Roma, Felina Editrice, 1981, p. 11.
5. Franca Ongaro Basaglia, op. cit., p. 103.
6. F. Ongaro Basaglia, op. cit., p. 101.
7. Ida Magli, Le donne, vittime del Cristianesimo, in «L’Unità" dell’ 8 marzo 1994.
8. A. Kolleritsch, Dell’Infanzia, Genova, Il Melangolo, 1993, p. 13.
9. L. Feuerbach, Principi della filosofia dell’avvenire, f. 41 e pf. 62, Torino, Einaudi, 1971.
10. F. De Saussure, Corso di Linguistica Generale, cap. III, pf. 2, Bari, Laterza, 1991. Su questo tema, inoltre, si cfr. E. Benveniste, La soggettività nel linguaggio, in: Problemi di Linguistica generale, Milano, Il Saggiatore, 1971, pp. 310-320.
11. Cantico dei Cantici: 8.6, trad. e cura di Giovanni Garbini, Brescia, Paideia, 1992.
12. P. RICOEUR, Sé come un altro, Milano, Jaca Book, 1993.
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* IL DIALOGO, Mercoledì, 11 maggio 2005
Sul tema generale, in rete e nel sito, cfr.:
«Una donna che chiedesse la parità nella Chiesa potrebbe essere paragonata a un nero che chiedesse la parità nel Ku Klux Klan»(Mary Daly, La Chiesa e il secondo sesso, prefazione alla 2ª edizione, 1975).
Federico La Sala
LE 21 DONNE DELLA COSTITUENTE |
MONDO (ATLANTE), VOLONTA’ (FILOSOFIA), E RAPPRESENTAZIONE (TEATRO): UNA #HAMLETICA TERAPEUTICA "TRAPPOLA DEL TOPO" ("THE MOUSETRAP"), PER SCHOPENHAUER (1788-1860), CHE PENSAVA CHE, "SOGNANDO, CHIUNQUE DIVENTA UNO SHAKESPEARE"!
NEI "Parerga e Paralipomena", Arthur Schopenhauer, sicuro del suo punto di vista, scrive: “La socievolezza appartiene alle inclinazioni più pericolose, persino distruttive, poiché ci mette in contatto con esseri la cui grande maggioranza è moralmente cattiva e intellettualmente ottusi o pervertiti”. Questa "superficiale" riflessione, porta a galla (a mio parere) tutta l’incomprensione, da parte di Schopenhauer e del suo "punto di vista", non solo del problema sociologico, ma anche del problema antropologico, sulla "socievolezza" in generale, e sul tema della #interpretazionedeisogni di "un #visionario" e della "#metafisica", già portata avanti da #Kant (a partire dal 1766), e, infine, sulla intera ricerca antropologico-politica e artistica portata avanti da #Shakespeare (all’epoca di #Elisabetta I d’Inghilterra, da non dimenticare).
ANTROPOLOGIA, #TEOLOGIA-POLITICA E #SOCIETA’: "COME NASCONO I BAMBINI" (S. Freud, Analisi terminabile e interminabile", 1937). Nei "Parerga e paralipomena", ancora, scrivendo che «Sognando, chiunque diventa uno Shakespeare», il grande filosofo mette in evidenza tutta la sua grande approssimazione nell’#analisi dei #sogni e, in particolare, delle opere in cui Shakespeare ha prodotto riflessioni importanti e su cui ancor oggi è bene riflettere (con Freud e oltre #Freud), come nell’#Amleto, sulla figura del "#corpomistico" del Re, sulla figura del #Macroantropo, come in "Antonio e Cleopatra", e, in generale, sulla #piramide androcentrica di tutti i teorici della #produzione della "società" della tradizione teologico-politica dell’#Occidente, compreso lo stesso Schopenhauer.
NOTA:
Natività della Vergine Maria.
Dalla nascita la nostra vita è un progetto di santità
di Matteo Liut (Avvenire, domenica 8 settembre 2024).
Celebrare la nascita di Maria significa fondamentalmente ricordarci che la nostra vita nasce da un progetto e la cui meta è solo la santità. Realizzare ciò per cui siamo venuti al mondo, e quindi testimoniare la radice della nostra esistenza, significa diventare santi. È questa verità fondamentale che la devozione popolare ha sempre colto nella storia di Maria, il cui cammino è un itinerario di santità, di un’umanità realizzata. Questa ricorrenza, nata in Oriente e introdotta in Occidente nel VII secolo da papa Sergio I, è come l’aurora che preannuncia l’arrivo della luce solare: non a caso, infatti, solo di Maria e di san Giovanni Battista - oltre che di Gesù - si ricorda la nascita. -In una sorta di “pedagogia liturgica” radicata nel comune sentire della fede popolare, la festa di oggi ci ricorda che la nostra vita ha un inizio che ci è stato dato in dono e una fine, l’abbraccio nell’amore infinito di Dio, che dobbiamo “conquistare” ogni giorno con le nostre scelte ma soprattutto con il nostro “sì” a Dio sull’esempio di Maria.
Anche per questo motivo la ricorrenza odierna viene presa come portale d’introduzione all’anno pastorale: in questo modo si ricorda che l’attività della Chiesa altro non è che frutto dell’impegno a portare Cristo nel mondo ogni giorno.
Altri santi. Santi Adriano e Natalia, sposi e martiri (IV sec.); san Federico Ozanam, laico (1813-1853). Letture. Romano. Is 35,4-7; Sal 145; Gc 2,1-5; Mc 7,31-37. Ambrosiano. Is 63,7-17; Sal 79 (80); Eb 3,1-6; Gv 5,37-47. Bizantino. Gal 6,11-18; Gv 3,13-17.
STORIA LETTERATURA E METATEATRO: #HAMLET #ETICA #MENTE, CON IL #BAMBINO "SULLE SPALLE DEI GIGANTI" (#PROFETI E #SIBILLE).
ANTROPOLOGIA STORIOGRAFIA E CRITICA DEL #SONNODOGMATICO (KANT) DELLA "STORICA" #COSMOTEANDRIA PLATONICO-PAOLINA "OCCIDENTALE"...
CRISTIANESIMO E CATTOLICESIMO NELL’EUROPA DEL #SEICENTO. Shakespeare, come #Dante Alighieri, ha (a mio parere) una visione della storia e della società che ha già i piedi nel #futuro, ben al di là della teologia-politica del #paolinismo cattolico e protestante (ateo e devoto), ben oltre l’orizzonte costantiniano di #Nicea (325-2025) e della #tragedia e della "biblica" #caduta. Sia Dante, sia #Michelangelo (v. foto allegata), sia Shakespeare (con #GiordanoBruno e ... Isaac Newton), sono con il bambino "sulle spalle dei giganti" (Robert K. #Merton), non con i pifferai-giganti sulle spalle dei bambini, di ieri e di oggi.
"BILDUNGSROMAN" E VIDEOGIOCHI: PERCHE’ "DANTE VS. RENZO TRAMAGLINO" STRAVINCE?!
UNA CARTINA DI TORNASOLE PER UNA QUESTIONE DI "ARCHEOLOGIA" LETTERARIA E FILOLOGIA DANTESCA E MANZONIANA.
IN UN BRILLANTE INTERVENTO, apparso su "Insula Europea", il 25 Luglio 2022, CON IL TITOLO «Salvare la “principessa” nei videogiochi: Dante vs. Renzo Tramaglino», l’autrice, Teresa Agovino così scrive:
CON DECISIONE E CHIAREZZA, L’AUTRICE HA FATTO LE DOMANDE GIUSTE, MA LA RISPOSTA NON RISOLVE E NON HA RISOLTO IL PROBLEMA: LA LINGUA CONTINUA A BATTERE DOVE IL DENTE DUOLE. CONTRARIAMENTE A QUANTO SI INSISTE A PENSARE DA 700 ANNI E PIU’, DANTE ALIGHIERI è GIA’ SPOSATO (SUA MOGLIE E’ GEMMA DONATI: nella "Commedia" la "persona" di "LUCIA"; e SUA MADRE, #BELLA, è la "persona" di "BEATRICE", la donna "beata", che va a sollecitare la "persona" di "Virgilio" a correre in aiuto del figlio); RENZO TRAMAGLINO, invece, e LUCIA MONDELLA sono "i promessi sposi", appunto.
SE QUESTA E’ LA "SITUAZIONE", QUI E ORA ("OGGI", E NON FRA MILLE ANNI), NON "SAREBBE, dunque, interessante - come scrive sempre l’autrice - aprire una prospettiva di condivisione tra il mondo accademico dei manzonisti e quello videoludico dei produttori/giocatori (come già ha in parte ben tentato di fare Toniolo) in favore di una nuova idea di gaming legata" (cit.) a una nuova prospettiva storiografica di lettura dell’una come dell’altra opera - e quella di "Dante" e quella di "Renzo Tramaglino"?!
STORIA E STORIOGRAFIA. E’ MAI POSSIBILE, che dopo più di 700 anni, si continui a pensare che Dante, nel mezzo del cammino della sua vita, perseveri nel suo sognare "Beatrice" come la sua "principessa"; e, ancora, che la figura della "Lucia" di Renzo non abbia alcun legame manzoniano con la "Lucia" di Dante?! Forse non è meglio svegliarsi dal sonno dogmatico filologico e cominciare a "mettere nuove carte in tavola" e fornire nuove coordinate storiografiche ai costruttori di videogiochi per far meglio "giocare" i ragazzi e le ragazze del tempestoso tempo presente sia nello spirito critico della "Divina Commedia" sia dei "Promessi Sposi"?! Così sia (per non arrossire)!
NOTA:
ANTROPOLOGIA FILOSOFIA, PSICOANALISI, E CIVILTA’ (KANT 2024): CRITICA DELLA COSMOTEANDRIA OCCIDENTALE.
RIATTIVARE IL "CIRCUITO DELLA PAROLE". Oltre il lacanismo (e il paolinismo), l’omaggio di Sigmund Freud a Marie Bonaparte:
"La grande domanda, alla quale nemmeno io ho saputo rispondere, è questa: che cosa vuole la donna?” (Freud 1933). *
PIANETATERRA: ALLA LUCE DEL "CANTICO DEI CANTICI" (è "l’amor che move il sole e le altre stelle"), DOPO MILLENNI DI COLONIZZAZIONE DEL " LOGOS" (DIVENTATO UN "#LOGO"), e, dopo aver gettato in pasto all’algoritmo la "lingua" ("#langue" ) del "Corso di linguistica generale" di Ferdinand de #Saussure, forse, è ora di ri-attivare antropologicamente il "circuito della #parole", e, al contempo, fare chiarezza sulle #ideologie falloforiche nelle loro tragiche pretese androcentriche e platonizzanti e passare alla "commedia" (#DanteAlighieri): almeno dai lavori di #Michelangelo Buonarroti, per riflettere teologicamente sul tema, le Sibille camminano insieme ai #Profeti nella Volta della #CappellaSistina e l’ amore di ogni "Maria" e ogni "Giuseppe" cerca di illuminare non solo il cammino di ogni loro bambino e di ogni loro bambina ("Gesù"), ma anche le loro stesse comunicazioni e le loro stesse relazioni tra di loro e con tutti gli esseri umani (e non solo).
Note:
CON DANTE ALIGHIERI, UN PASSO FUORI DALLA RAGNATELA "OLIMPICA" DELLA TRAGEDIA...
ANTROPOLOGIA, ARTE, COMUNICAZIONE, LINGUISTICA, PSICOANALISI, E FILOSOFIA. Quella di Louise Bourgeois è, a mio parere, una lezione di #antropologia culturale che manda in frantumi la piramide "androcentrica" del "Sapiente" (1509-1510) di #Bovillus (v. allegato), e, con essa, in "pensione" la "#ScuoladiAtene" di #Raffaello (1509-1511), grandi "manifesti" di "propaganda e fede" della tradizione teologico-politica occidentale (e non solo) e sollecita a riequilibrare il campo della #relazione antropologica e a rendere giustizia alla arte critica di ogni mitica "Aracne" (#Ovidio, "Metamorfosi").
DIVINA COMMEDIA. Dante Alighieri aveva capito: "In principio era il #Logos", non un #Logo, ed è "l’amor che move il Sole e le altre stelle" (Pd. XXXIII, 145).
NOTE:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO, E LA FILOSOFIA. UNA NOTA PER NON PERDERE DEFINITIVAMENTE LA BUSSOLA TRA I VARI CATTOLICISMI (ATEI E DEVOTI) E PER "ORIENTARSI NEL PENSIERO", SULLA #HAMLETICA #QUESTIONE ANTROPOLOGICA (#KANT, 1800).
IN VIAGGIO CON #ULISSE: "CONSIDERATE LA VOSTRA SEMENZA" (INF. XXVI, 118), "COME NASCONO I BAMBINI"?
L’ALLEANZA DI #FUOCO, L’AMORE, E LA "DIVINA COMMEDIA": UN SEGNAVIA PER USCIRE DALLA "PREISTORIA"! UNA NUOVA #ANTROPOLOGIA E UNA NUOVA TEOLOGIA-POLITICA: "#MARIA" E "#GIUSEPPE" UGUALI DAVANTI A "DIO" (#AGAPE, #CHARITAS).
RIPARTIRE DAL "#PRESEPE" (#FRANCESCO DI #ASSISI, 1223).
L’AMORE DI "#DUE SOLI" (#DANTEALIGHIERI) E IL
BAMBINO: "ECCE #HOMO" (#CRISTOLOGIA).
NOTE:
"SHAKESPEARE GLOBE", ELIOCENTRISMO, E "RIVOLUZIONE COPERNICANA" (KANT): FILOSOFIA (GIUSTIZIA - LOGOS), CRISTIANESIMO (AMORE - "AGAPE"), E CATTOLICESIMO (NICEA 325 -2025). Con (Parmenide ed Eraclito e) Aristotele, oltre: "In principio era il Logos" (Gv. I.1) - non un Logo.
PREMESSO CHE la #question #hamletica è storica e storiografica e che, per comprendere il lavoro di Shakespeare, forse, è opportuno pensare il rapporto tra "Shakespeare, Christianity, and Aristotele’s Poetics" all’interno di un contesto europeo segnato dalla Riforma Protestante, dalla Riforma Anglicana, e dell’attacco cattolico-spagnolo all’Inghilterra della Regina e Papessa, Elisabetta I, figlia di Enrico VIII, e dalla Rivoluzione astronomica e scientifica, aperta dall’opera di Copernico, e rilanciata alla grande da Tommaso Campanella e da Giordano Bruno, condannato come eretico e bruciato sul rogo (17 febbraio 1600).
CONSIDERANDO IL CONTRIBUTO (ASSOLUTAMENTE "MODERNO", COME HA SCRITTO UNA VOLTA LO STORICO DELLA FILOSOFIA GILSON) DEL COSIDDETTO #MEDIOEVO DELLA "PRIMA #RINASCITA" (GRAZIE A FRANCESCO D’ASSISI, GIOACCHINO DA FIORE, E DANTE ALIGHIERI) E IL RAPPORTO DI DANTE CON "IL #MAESTRO DI COLOR CHE SANNO" (Inf. IV, 131), c’è da dire e da pensare che tra Aristotele e Shakespeare (come con lo stesso Dante) c’è molta amicizia, nello spirito dell’antico e nuovo Logos (e non del #Logo di una azienda personale).
NEL PORRE AL CENTRO DELL’#AMLETO la questione antropologica (e cristologica), Shakespeare pone "aristotelicamente" un problema di #legalità e di #giustizia e di #verità: la #critica al "nuovo" Re e Padre, che è un impostore, un mentitore, e un assassino, e l’introduzione nell’opera teatrale moderna (lo stesso "Hamlet") di un’opera teatrale "aristotelica", "The Mousetrap" ("La trappola per topi"). La Rivoluzione inglese è già iniziata...
SCIOLTO QUESTO NODO E, DANDO A SHAKESPEARE CIO’ CHE DI SHAKESPEARE E DI ARISTOTELE CIO’ CHE E DI ARISTOTELE, e, ancora, chiarito che il principe "Amleto" è figlio del "Re Amleto" e della "Regina Gertrude", si può senz’altro condividere l’opinione che "[...] for Aristotle, tragedy is amoral: it’s like the process of legal discovery that occurs in a court of law." (Patrick Grey).
NOTA:
"LO #ZODIACO DELLA #VITA" E LA #FILOLOGIA DEL #RINASCIMENTO: NELL’ARTISTICO #SPAZIOTEMPO DI #MICHELANGELOBUONARROTI, UNA "RILETTURA" DELLE FIGURE DI "MARIA" E "GIUSEPPE" E DELLA LORO #RELAZIONE CON LE "#SIBILLE" E I "#PROFETI" DELLA "#SACRAFAMIGLIA".
DAL #LAOCOONTE (ROMA, 1506) AL #TONDODONI (FIRENZE, 1506-1508). NELLA "STORICA" LEZIONE ANTROPOLOGICA DELLA #CORNICE LIGNEA DEL #TONDODONI (E NELLA "NARRAZIONE" DELLA VOLTA DELLA CAPPELLA SISTINA), CON DUE PROFETI E #DUE SIBILLE, #MICHELANGELO "INDICA" LA PARADIGMATICA #NASCITA "ETERNA" DEL #FIGLIO DI "MARIA E GIUSEPPE" NEL TEMPO.
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NOTE:
USCIRE DALL’#INFERNO DELLA #RIPETIZIONE E DAL #LETARGO DI MILLENNI (Par. XXX, III, 94).
Storia, filosofia, filologia, #psicoanalisi: una nota su una "ignota" #svolta_antropologica in corso...
IL PROGRAMMA DI #DANTEALIGHIERI ALL’ORDINE DEL GIORNO (#25MARZO 2024: #Dantedì).
Riprendere il cammino di "#Ulisse" e portarsi oltre il "Convivio", il #Simposio, di #Platone e del suo "socratico" #amore (#Eros), avido e cupìdo, #figlio nato dalla astuta alleanza (#Metis) dell’#uomo-#Ingegno (gr. #Poros) e della #donna-#Povertà (gr. #Penia). La lezione di Platone appare essere la chiara codificazione di una fenomenologia dello spirito della #tragedia e la sua parola una versione della #Legge del #Figlio di Dio (#Zeus) , #Apollo: "«non è la madre la generatrice di quello che è chiamato suo figlio; ella è la nutrice del germe in lei inseminato. Il generatore è colui che la feconda...» (#Eschilo, #Eumenidi, 657 ss.): : un ’#cattolicesimo’ platonico.
STORIAELETTERATURA, #FILOLOGIA E #CRITICA: #DIVINACOMMEDIA. Gianfranco #Contini: «[...] L’impressione genuina del postero, incontrandosi in Dante, non è d’imbattersi in un tenace e ben conservato sopravvissuto, ma di raggiungere qualcuno arrivato prima di lui» (cfr. "Un’interpretazione di Dante", in Id., G. Contini, "Un’idea di Dante. Saggi danteschi", Torino, Einaudi, 2001, I ed. 1970, pp. 110-11).
ARTE, #ANTROPOLOGIA, #FILOLOGIA E #TEOLOGIA:
MICHELANGELO BUONARROTI, I PROFETI E LE SIBILLE.
LA "STORICA" #LEZIONE ANTROPOLOGICA DELLA #CORNICE LIGNEA DEL #TONDODONI (E DELLA #NARRAZIONE DELLA #VOLTA DELLA #CAPPELLASISTINA: DUE PROFETI E #DUE SIBILLE "INDICANO" LO #SPAZIOTEMPO DELLA #NASCITA DEL #FIGLIO DI #MARIAEGIUSEPPE. Come mai gli esperti della #GalleriadegliUffizi "insistono" a sostenere che nella "cornice del Tondo [...] sono raffigurate la testa di Cristo e quelle di #quattro profeti"?!
LA TRAGEDIA DEL CD. "PATRIARCATO", OVVERO IL "COMPROMESSO DORICO" DELLA RAGIONE OLIMPICA (ELEUSIS2023).
Una nota a margine della "metafisica concreta" dell’Occidente... *
DOTTA IGNORANZA (CUSANO,1440) CONTRO FILOLOGIA (LORENZO VALLA, 1440):#COME NASCONO I BAMBINI...
STORIA #STORIOGRAFIA E #ANTROPOLOGIA. MASSIMO #CACCIARI, a mio parere, sta ancora a difendere, il #compromesso "dorico" della #tragedia tebana di #Giocasta ed #Edipo (e della #caduta biblica): con tutta la stima nei suoi confronti personali, ma la logica della sua metafisica concreta resta tutta dentro l’orizzonte del #paolinismo e della #cosmoteandria atea e devota! (Nicea, 325-2025).
#DANTE2021 #BOVILLUS #COSMICOMICHE (#calvino100)
ARCHEOLOGIA, ANTROPOLOGIA, PSICOANALISI ("COSTRUZIONI NELL’ANALISI, 1937)", E FILOLOGIA.
«GRANDE E’ LA DIANA DEGLI EFESINI» (S. #FREUD, 1911): #EFESO, LA DEA MADRE, IL DIO FIGLIO, E L’INTERPRETAZIONE PAOLINA DEL MESSAGGIO EVANGELICO. Alcuni appunti:
«Grande è la Diana degli Efesini»
di Sigmund Freud (Opere, VI, 1911)*
L’antica città greca di Efeso, in Asia Minore (a questo proposito dobbiamo essere grati alla nostra archeologia austriaca per l’esplorazione delle sue rovine), era particolarmente celebrata nell’antichità per lo splendido tempio dedicato ad Artemide (Diana). Gli invasori ionici, forse nell’ottavo secolo avanti Cristo, conquistarono la città, che da lungo tempo era abitata da popoli di razza asiatica, e quivi trovarono il culto di un’antica dea-madre, il cui nome era probabilmente Oupis, la quale fu da loro identificata con Artemide, divinità della loro patria di origine. Gli scavi hanno dimostrato che, nel corso dei secoli, parecchi templi furono eretti nello stesso luogo in onore della dea.
Il quarto di questi templi è quello che fu distrutto dal fuoco appiccato dal folle Erostrato, nel 356, la notte stessa in cui nasceva Alessandro Magno. Il tempio fu ricostruito, più splendido che mai. La metropoli commerciale di Efeso, con il suo affollarsi di sacerdoti, maghi e pellegrini, con le sue botteghe, ove erano posti in vendita amuleti, ricordi ed ex-voto, potrebbe essere paragonata alla moderna Lourdes.
Attorno al 54 d.C. l’apostolo Paolo passò diversi anni ad Efeso. Quivi predicò, compì dei miracoli, trovando un largo seguito tra la popolazione. Perseguitato ed accusato dagli Ebrei, si staccò da questi, fondando una comunità cristiana indipendente. A cagione del diffondersi della sua dottrina, vi fu un calo del commercio degli orafi, che solevano fabbricare ricordi del luogo sacro (figurine di Artemide e modellini del tempio) per i fedeli e i pellegrini, che venivano da tutte le parti del mondo (Cfr. anche la poesia di Goethe.) Paolo era troppo rigido per tollerare che l’antica divinità sopravvivesse sotto diverso nome, per ribattezzarla come avevano fatto i conquistatori ionii con la dea Oupis, per cui i pii artigiani e artisti della città cominciarono a sentirsi preoccupati per la sorte della loro dea e anche per quella dei loro guadagni. Si ribellarono e, al grido senza fine ripetuto, di «Grande è la Diana degli Efesini», sciamarono lungo la via principale, detta «Arcadiana», fino al teatro, dove il loro capo, Demetrio, pronunciò un discorso infuocato, contro gli Ebrei e contro Paolo. Le autorità riuscirono con difficoltà a sedare il tumulto con l’assicurazione che la maestà della dea era intoccabile e fuori della portata di qualsiasi attacco ( Atti, XIX.)
La chiesa, fondata da Paolo a Efeso, non gli rimase fedele a lungo. Cadde sotto l’influenza di un uomo chiamato Giovanni, la cui personalità è stata un serio problema per i critici. Potrebbe trattarsi dell’autore dell’Apocalisse, che abbonda in invettive contro l’apostolo Paolo. La tradizione lo identifica con l’apostolo Giovanni, al quale si attribuisce il quarto vangelo. Secondo questo vangelo, quando Gesù era sulla croce gridò al discepolo favorito, accennando a Maria: «Ecco tua madre!», e da quel momento Giovanni prese Maria con sé.
Quindi, quando Giovanni andò a Efeso, Maria lo accompagnava. Di conseguenza, accanto alla chiesa dell’apostolo a Efeso, fu eretta la prima basilica in onore della dea-madre dei cristiani. La sua esistenza è attestata fin dal quarto secolo. E allora la città ebbe di nuovo la sua grande dea e, salvo il nome, scarsi furono i mutamenti. Anche gli orefici ripresero il loro lavoro, consistente nel fabbricare modelli del tempio e immagini della dea per i nuovi pellegrini. Però la funzione di Artemide, espressa dall’attributo Kourotrophos. [che alleva i figli] fu assunta da S. Artemidoro, che si prendeva cura delle donne in travaglio.
Poi venne la conquista della città da parte dell’Islam, e infine la rovina e l’abbandono, dovuti al fatto che il fiume, lungo il quale sorgeva, fu soffocato dalle sabbie. Ma nemmeno allora la grande dea di Efeso abbandonò le sue pretese. Ai nostri giorni essa è apparsa, come una santa vergine, ad una pia fanciulla tedesca, Katharina Emmerich, a Dùlmen. Essa le ha descritto il viaggio ad Efeso, l’arredamento della casa in cui era vissuta ed era morta, la forma del suo letto, e via dicendo. Sia la casa che il letto sono stati effettivamente ritrovati, esattamente quali la vergine li aveva descritti, e ora sono nuovamente meta di pellegrinaggi di fedeli.
*Fonte: "Opere di Sigmund Freud", Vol. VI, Bollati Boringhieri, Torino.
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IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS (NON IL LOGO). IL FILOLOGICO "COLPO DI STATO" DEL "FIGLIO DELL’UOMO", PAOLO DI TARSO:
a) QUESTIONE ANTROPOLOGICA E CRISTOLOGICA. Chi è il "Figlio dell’Uomo" (Gv. 12, 34: "Filius hominis", "υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου")?!
b) LEZIONE "ANDROLOGICA" DI PAOLO DI TARSO: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
c) "IL DISAGIO DELLA CIVILTÀ" ("Das Ungluck in der Kultur"): "[...] Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità cristiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori; i Romani, che non avevano fondato la loro collettività statale sull’amore, non conobbero l’intolleranza religiosa, benché per loro la religione fosse un affare di Stato e lo stato fosse imbevuto di religione [...]" (S. Freud, "Il disagio della civiltà", 1929).
L’#EUROPA (#GRANADA), #KOENIGSBERG / #KALININGRAD (E #ODESSA), LA "#DEMOCRAZIA" (COME "#STATO DI #MINORITÀ"), E IL PROBLEMA DELLA #TRASPARENZA TEOLOGICO-POLITICA. Alcuni appunti...
Un omaggio alla memoria di Dante Alighieri e William Shakespeare...
LA #TALPA E LA #CIVETTA: LA TRACCIA DI UNA FENOMENOLOGIA DELLO #SPIRITO DI "#DUE #IO" (DI #DUESOLI"). Già per #Shakespeare, ai suoi tempi (1600), Amleto e Ofelia (con il metodo della loro #follia) guardano ben oltre la linea dell’orizzonte teologico-politico di #Erasmo di Rotterdam e #TommasoMoro e lottano per portarsi fuori da un’Europa ormai avviatasi nella "marcia" del tramonto (#Nicea 325/2025).
LE PAROLE DELLA RIVOLUZIONE FRANCESE. Al centro e al fondo della questione posta da #CarloGalli, nel recente "Democrazia, ultimo atto?"(cfr. estratto: https://www.einaudi.it/.../democrazia-ultimo-atto-carlo.../ ), al di là dei suoi contributi e risultati specifici, vi sono "le idee moderne di libertà, di uguaglianza, di trasparenza, che sono esposte alla contingenza (...) e che meritano ancora una volta di essere il centro intorno a cui ruota la politica".
"DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (#FREUD, 1929). Sul tema, nel suo commento, Francesco Fistetti accoglie con riserva la proposta di variazione e scrive: "[...] Al terzo termine del trinomio #libertà / #eguaglianza / #fraternità Galli sostituisce quello di "trasparenza". Trasparenza nell’accezione già di Bobbio che non devono esserci zone oscure e opacità nell’esercizio del potere e nel governo delle istituzioni, ma il sale della critica e del dibattito razionale. Ma in questo modo, cancellando la fraternità, può cassare senza colpo ferire tutta la storia del socialismo e della lotta per il socialismo come organici alla storia della modernità democratica e dello stesso liberalismo (il liberalsocialismo di un Rosselli e tanti altri). Operata questa amputazione "genealogica’ (almeno per la Modernità) resta una pallida e spettrale idea di liberaldemocrazia. Peraltro, quest’ultima viene declinata come l’ideologia e la pratica di quello che l’autore chiama il "secondo Occidente", quello degli Usa e delle istituzioni dell’Onu: un nuovo Occidente "a guida americana", di cui dalla fine della Seconda Guerra Mondiale "fa parte l’Europa" e la cui "espressione è la Nato" [...]"(cfr. https://www.facebook.com/francesco.fistetti.5/posts/10211262489754567).
"LA SOCIETÀ TRASPARENTE" (GIANNI VATTIMO, 1989), A mio parere, sulla trasparenza, un nodo decisivo legato al problema proprio di una "#societàtrasparente" (#GianniVattimo, 1989) , il dibattito è in alto mare ed è ancora tutto da affrontare, al suo livello antropologico-politico fondamentale, dalla radice (#Marx)!
QUESTIONE ANTROPOLOGICA ("CRISTOLOGICA") E CULTURA CRITICA. La questione è "metafisica", ma, a quanto pare, nessuno si ricorda più di #Kant e del suo illumiNATO "sàpere".
#PACEPERPETUA, Se non si rende trasparente il nodo antropologico e teologico-politico, non è possibile (come è stato dimostrato storicamente, almeno fino ad oggi, fino alla "tappa" europea di Granada 1492/2023) alcuna fraternità (libertà e uguaglianza) e la "pace perpetua" (Kant) è definitivamente assicurata.
Nota:
#FILOSOFIA #STORIA E#METATEATRO: #METAFOROLOGIA.
"La #civetta e la #talpa. Sistema ed epoca in #Hegel" di #RemoBodei (1975, 2021): "[...] Quale il rapporto fra la civetta della filosofia, che interpreta coscientemente l’epoca, e la talpa dello spirito, che la trasforma inconsciamente con il suo cieco lavorio? A tali interrogativi Remo Bodei cerca una risposta in questo saggio ormai classico, che ha offerto una prospettiva originale della filosofia hegeliana." ( https://www.mulino.it/isbn/9788815291226 ).
FLS
QUESTIONE ANTROPOLOGICA E CRISTOLOGICA: LA TEOLOGIA DI DIO COME "UOMO SUPREMO" E L’OPERA "AVE MARY" (M. Murgia, 2011). *
La ricerca e la fede. Michela Murgia e quella sete di assoluto
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, venerdì 11 agosto 2023)
Era credente, e non ne aveva mai fatto mistero. Non le dispiaceva definirsi "teologa". La sua simpatia per papa Francesco non aveva niente di ideologico. Il ricordo di chi l’ha conosciuta da vicino
L’ultima volta che ci siamo visti, Michela Murgia aveva appena donato a papa Francesco una copia della rivista di cui era stata direttrice per un solo numero. In copertina c’era lei, elegantissima e sorridente come sempre appariva da quando, nel maggio scorso, aveva deciso di rendere pubblica la fase terminale della sua malattia. “Aspetta, ho bisogno di appoggiarmi un attimo”, aveva detto mentre cercava uno sgabello. Era affaticata ma orgogliosa: di quel giornale che era diventato un manifesto delle sue convinzioni (“La famiglia è di tutti”, annunciava il titolo principale) e del fatto di averlo potuto consegnare nelle mani del Papa che proprio lei, conosciuta come iconoclasta, aveva difeso dalle accuse piovutegli addosso all’indomani dell’elezione (a proposito di titoli, quel “Bergoglio e pregiudizio” scelto per sintetizzare le sue posizioni resta memorabile).
Michela Murgia era credente e non ne aveva mai fatto mistero. Fin dal suo libro di esordio, Il mondo deve sapere del 2006, non le dispiaceva definirsi teologa, una qualifica poi rivendicata in modo militante attraverso i suoi saggi, in particolare Ave Mary del 2011 e il controverso “catechismo femminista” God Save The Queer del 2022. Non erano mere provocazioni, anche se come tali si è cercato di farle passare. Tutto sommato, anche a Michela Murgia sarebbe convenuto metterla sul piano del paradosso intellettuale, dell’esagerazione argomentativa. Alla peggio, la si poteva buttare in politica, che in certi casi è il modo migliore per chiudere il discorso. Il punto è che la narratrice di Accabadora (il suo libro più celebre e compiuto, pervaso da un’incombenza del sacro per la quale è difficile trovare corrispettivi nella recente letteratura italiana) non si limitava a essere orgogliosa. Era anche una persona esigente, con gli altri e con sé stessa, con la propria scrittura e con le proprie convinzioni, sempre messe alla prova. Prendeva sul serio la fede e proprio per questo si aspettava molto dalla Chiesa.
La sua simpatia nei confronti di Francesco non aveva niente di ideologico. Era la condivisione intima e istintiva di una dottrina della misericordia dalla quale nessuno, per nessun motivo, può sentirsi escluso. Su questi, che erano i temi che più le stavano a cuore, sapeva essere polemica come sono a volte gli adolescenti, che alzano la voce e sbattono le porte solo per essere sicuri di essere amati nonostante tutto, senza condizioni. A volte esagerano, d’accordo, ma hanno dalla loro la certezza che un amore che ponga condizioni semplicemente non è amore.
Di tutto il resto si può discutere, ma a questo desiderio di assolutezza non si può né si deve aggiungere nulla. “Ho bisogno di appoggiarmi un attimo”, diceva Michela Murgia l’ultima volta che ci siamo visti. Ne abbiamo bisogno tutti, sempre, solo che spesso non abbiamo il coraggio di ammetterlo. Lei, invece, non ha voluto nascondere la sua fragilità finale. “Voglio andare avanti così, fino alla fine”, ripeteva. “Riesco a scrivere solo quando mi sento minacciata, quando il cuore mi impazzisce per la paura”, aveva confidato in un’altra occasione. Non so se fosse intenzionale, ma stava citando san Paolo, Seconda lettera ai Corinzi, “quando sono debole, è allora che sono forte”. È una bella definizione della fede. Senz’altro, è la definizione migliore per la fede di Michela Murgia, che sorrideva al Papa e si aspettava tanto - tutto - dalla Chiesa.
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LA TEOLOGIA DI DIO COME "UOMO SUPREMO" E L’OPERA "AVE MARY" (M. Murgia, 2011). Una citazione dalla recensione di Natalia Aspesi del saggio di Michela Murgia:
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA, FILOLOGIA ("ECCE HOMO"), E CRISTOLOGIA (OLTRE L’ORIZZONTE DELL’ANDROCENTRISMO).
"Non c’è riforma della Chiesa senza riforma della teologia". Una intervista degna di attenzione da L’Osservatore Romano (del 27 luglio 2023): al centro una rinnovata e forte attenzione al rapporto e alla relazione (di "Adamo ed Eva" e) di "Maria e Giuseppe":
QUESTIONE ANTROPOLOGICA: "[...] Il tema della relazione uomo-donna è paradigmatico. Per dirla un po’ provocatoriamente, penso che oggi più che una “questione femminile” ci troviamo ad affrontare una “questione maschile”! Mi riferisco alla perdita d’identità dell’uomo maschio, che non riesce ad adeguarsi all’emancipazione irreversibile - e benedetta! - del femminile. Il maschio era abituato a idealizzare - e imprigionare - la donna: nei ruoli della madre, della sorella, della sposa o... dell’amante, e in tutti i casi, troppo spesso, della serva. E lui gestiva questi ruoli. Ma non si relazionava con la donna come amica. La straordinaria bellezza della categoria dell’amicizia, meravigliosamente evocata nel #Canticodeicantici, non rientrava nello schema dei rapporti tra i sessi. Oggi la donna finalmente si rifiuta d’essere ingabbiata dentro questo schema riduttivo e persino distorto, approntato dai soli maschi. E l’uomo non sa più che pesci prendere. -Occorre ritrovare e implementare la dimensione originaria della reciprocità. Che è più e altro dalla complementarietà. È uno stato di crisi, quello attuale, che influisce sull’opacità e indeterminatezza dell’identità sessuale. Recuperare la freschezza e gioia della reciprocità da ambedue i sessi, dunque, per recuperare la pienezza della persona nel vivere affetti, libertà e solidarietà.
La nostra arretratezza nel leggere questo fenomeno viene erroneamente attribuita alla fissità anacronistica di una idealizzazione della “sacra famiglia”. Che in verità rappresenta piuttosto un modello che, liberato dalle incrostazioni devozionali che gli abbiamo ritagliato addosso, riluce come lo scrigno delle relazioni umane fondate sull’affettività, la libertà e solidarietà.
Non scordiamo che Gesù non solo assume la sua umanità da Maria ma la matura anche dalla relazione con Giuseppe. Queste considerazioni valgono non solo per la famiglia, ma anche per le comunità di vita religiosa: che non sono meno in crisi delle famiglie. La famiglia di Nazareth è modello per tutti, chi è sposato e chi vive la verginità, entrambi nella logica dell’avvento del Regno. L’evanescenza del ruolo paterno che registriamo è oggi spesso penetrata anche tra i chierici, che non sanno più essere padri, essendo figli e fratelli.
Uno dei meriti di Papa Francesco è quello di suggerire uno sguardo nuovo sulla presenza della figura di Giuseppe padre e di Maria madre nella nostra vita di discepoli. Ma c’è molto cammino da fare. [...]" ( cfr. "Non c’è riforma della Chiesa senza riforma della teologia". Riflessioni sul rinnovamento teologico. A colloquio con monsignor Piero Coda, segretario della Commissione teologica internazionale, di Andrea Monda e Roberto Cetera).
BIOETICA
Utero in affitto sia reato universale: il 19 giugno in aula la proposta di legge
di Marina Casini (AgenSir, 19 Giugno 2023)
Arriva in aula il 19 giugno la proposta di legge che definisce l’utero in affitto (maternità surrogata) reato universale e che prevede la perseguibilità del cittadino italiano che all’estero ricorre a questa pratica. Sebbene la legge 40 del 2004 sanzioni giustamente questa pratica, la proposta - in linea con quanto richiesto nella scorsa legislatura da settanta associazioni facenti capo al Network “Ditelo sui tetti” - si è resa tuttavia necessaria per disincentivare l’espatrio di chi vuole aggirare l’ostacolo salvo poi rimpatriare a cose fatte chiedendo di essere riconosciuto genitore del bambino così ottenuto.
Che l’affitto di utero sia una pratica che altera le relazioni riducendo a cose donne e bambini è matura acquisizione raggiunta da molti:
una pratica legata ad una distorsione organizzata e pianificata della maternità, della paternità, della filiazione, inserite in una logica produttivistica, in una catena di montaggio aperta allo scarto (aborto volontario previsto dal contratto) di bambini eventualmente non rispondenti alle aspettative di salute o di troppo in caso di gravidanze gemellari.
E’ una pratica di sfruttamento mercantile (dove chi trae maggior vantaggio economico sono le cliniche, gli intermediari, i consulenti legali), di pretesi diritti inesistenti che mutilano i veri diritti; una pratica che deturpa la dimensione del dono caricaturandola di dolciastro altruismo - “gestazione solidale”, “gestazione per altri”, “gestazione di sostegno”, “in quella torsione linguistica così cara a diversi attuali filoni di pensiero, mossi dalla ricerca di consensi pubblici, che ne amplifichino benevolmente la crudezza dei messaggi” (Paola Ricci Sindoni) - ,
e fa piacere che su un tema così antropologicamente forte si trovi sintonia anche con i più (apparentemente) lontani da una visione personalista ontologicamente fondata.
Vedremo come si svilupperà il dibattito parlamentare. La proposta è comunque supportata da autorevoli documenti giuridici. L’articolo 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, vieta di fare del corpo umano e delle sue parti una fonte di lucro, la maternità surrogata è condannata dal Parlamento Europeo (risoluzione del 17 dicembre 2015) perché “compromette la dignità della donna, dal momento che il suo corpo e le sue funzioni riproduttive sono usati come una merce”, e secondo la Corte costituzionale (sentenza n. 272/2017, confermata dalla n. 33/2021) “offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”. La Convenzione sui diritti del bambino (ratificata dall’Italia) in base al “principio del prevalente interesse del minore” riconosce per ogni bambino, nella misura del possibile, il diritto a conoscere i propri genitori, ad essere da loro allevato, a preservare la propria identità comprensiva delle relazioni familiari.
Va da sé che l’auspicio sia che la proposta diventi legge a tutti gli effetti e dunque parte dell’ordinamento giuridico italiano.
La speranza, tuttavia, è che non sia un punto di arrivo, ma una tappa nel cammino di riflessione, che va portato a tutti i livelli, sul senso del figlio, tale dal concepimento, della maternità e della paternità.
Non basta dire “no” all’utero in affitto ̶ comunque lo si voglia diversamente definire, maternità surrogata o gestazione per altri o altro ancora ̶ bisogna dire “sì” all’uguale e inerente dignità di ogni essere umano, quindi sin dal momento in cui ogni essere umano inizia ad esistere in quel “big bang” chiamato concepimento. Solo questo mette al riparo da abusi, discriminazioni, sfruttamenti e prepotenze di ogni tipo, e solo da qui possiamo gettare solide basi per un più alto livello di civiltà e costruire sempre più pienamente e autenticamente la fraternità e la pace.
“Maria, il Roseto di Roma e la Menorah”
Un commento dei teologi Scarafoni e Rizzo
PAOLO SCARAFONI E FILOMENA RIZZO*
Maggio è il mese per eccellenza dedicato alla Madonna. La regina dei fiori è la rosa, il fiore più bello. Per questo motivo è stato associato a Maria, che è chiamata nelle litanie lauretane «rosa mistica». La preghiera devozionale e contemplativa dedicata a lei è il «rosario», che allude alla ghirlanda di rose che nel medioevo si poneva sul capo delle statue della Vergine. La recita delle «ave Maria» è una ghirlanda mistica offerta alla Madonna.
In Italia l’amore per le rose è testimoniato da tanti roseti incantevoli dal Nord al Sud dello Stivale. Basta consultare i vari siti dedicati ai roseti da visitare nel mese di maggio, periodo della fioritura. Ci sono gli «itinerari delle rose». Tanti i luoghi bellissimi indicati, come i Giardini Botanici di Villa Taranto a Pallanza, la Reggia della Venaria Reale a Torino, il roseto di Villa Durazzo a Santa Margherita Ligure, il Giardino de Boboli in Toscana, il “Roseto Vacunae Rosae” a Rieti, “Le stanze in fiore di Canalicchio” a Catania. Il Roseto comunale di Roma, che ospita una collezione di rose botaniche antiche e moderne, circa 1200 specie provenienti da tutto il mondo, si distingue per la sua bellezza e per la sua storia particolare, che si può leggere anche sul sito del Comune di Roma.
«Unico al mondo per la sua spettacolare posizione, si adagia sulle pendici dell’Aventino, di fronte ai resti del Palatino, appena sopra il Circo Massimo. Fin dal III secolo a.c. il luogo in cui sorge il roseto era dedicato ai fiori. Tacito, negli Annales, parla di un tempio dedicato alla dea Flora, i cui festeggiamenti “floralia” si svolgevano in primavera nel Circo Massimo. Ricoperto di orti e vigne fino a tutto il XVI secolo, nel 1645 divenne l’Orto degli Ebrei con annesso il piccolo cimitero della Comunità. Dal 1934, anno del trasferimento del cimitero ebraico al Verano, l’area, destinata dal Piano Regolatore Generale di Roma a Parco, rimase incolta fino al 1950, quando divenne sede del nuovo roseto comunale. Come ringraziamento alla comunità ebraica che aveva permesso di ricreare il roseto in un luogo sacro, venne posta all’ingresso del giardino una stele in ricordo della precedente destinazione e i vialetti che dividono le aiuole, assunsero la forma della menorah, il candelabro a sette bracci, simbolo dell’Ebraismo».
In questi giorni abbiamo passeggiato per il roseto. Abbiamo supposto che alcuni padri del Concilio Vaticano II nei momenti di pausa e di discernimento avranno anche loro camminato tra i sentieri di rose che tracciano i bracci della menorah, e avranno dato via libera alla loro immaginazione riflettendo sul documento che stavano preparando per il dialogo con gli ebrei e che sarebbe diventato la dichiarazione Nostra aetate.
L’immaginazione è il luogo dove entrano in gioco la libertà divina e la libertà umana. Per la relazione con Dio trova spazio in modo particolare in alcuni loci theologici: la liturgia, la Parola, il comportamento o vivere etico, la pietà popolare. Il giardino delle rose di Roma pur essendo un luogo laico è per molti una luce gentile della pietà popolare.
Sicuramente ai padri conciliari sarà venuta alla mente e al cuore Maria ebrea, che porta in sé la Sapienza divina. «Scrutando il mistero della Chiesa, il sacro Concilio ricorda il vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato con la stirpe di Abramo... “agli uomini di quella stirpe appartengono l’adozione a figli e la gloria e i patti di alleanza e la legge e il culto e le promesse, ai quali appartengono i Padri e dai quali è nato Cristo secondo la carne” (Rm 9,4-5), figlio di Maria vergine. Essendo perciò tanto grande il patrimonio spirituale comune a cristiani e ad ebrei, questo sacro Concilio vuole promuovere e raccomandare tra loro la mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto con gli studi biblici e teologici e con un fraterno dialogo».
Già i Padri della Chiesa avevano attribuito a Maria le proprietà della Sapienza divina riassunte nel simbolo del fiore della rosa: «pianta di rose in Gerico» (Sir 24, 14); «pianta di rose su un torrente» (Sir 39, 13); «fiore di rose nella stagione di primavera» (Sir 50, 8).
Il legame di Maria con il popolo d’Israele indica l’unità della salvezza. Il «nesso dei misteri» è colto nella persona di Maria, la figlia di Sion, la madre di Gesù Cristo.
Non è raro scorgere chi come noi va a recitare il rosario, in maniera discreta, in quel luogo incantevole. Immaginare per immaginare, ci piacerebbe assistere ad un concerto mattutino nel roseto di Roma, per il giubileo del 2025, che celebri l’aurora della fraternità. È un luogo laico che si presta all’immaginazione che muove i cuori.
* Teologi
FONTE: LA STAMPA, 13 MAGGIO 2023
#QUESTIONEANTROPOLOGICA (#FILOLOGIA E #CRISTOLOGIA ): SHAKESPEARE E NIETZSCHE.
La grande eroica ricerca di #Nietzsche è stata quella di rispondere alla domanda già di #Shakespeare , alla #question di Amleto, e portare il discorso oltre #Wittenberg (la #RiformaProtestante ), e chiarirsi e chiarire le idee relative all’ #essere degli esseri umani, figli e figlie del "#Re dei Re", di "Dio", e di andare oltre la tragica #logica del "sapere di non sapere" platonica, del #mentitore, e dell’ #adulterio e dell’#incesto ("Così parlò #Zarathustra ", parte IV). Egli, a mio parere, ha aperto la strada e dato indicazioni per sciogliere il nodo e non nella direzione del #supeuomo cosmoteandrico (cfr. Federico La Sala , "La #menteaccogliente. Tracce per una #svolta_antropologica ", Roma 1991).
#ANTROPOLOGIA O #ANDROLOGIA? #Gesù, chi era? Quello del "parto maschio del tempo" di san #Paolo e #Costantino (e #Bacone ), o quello del tempo di san #Francesco ("Cantico delle #Creature " o "Cantico di Frate #Sole ") e #DanteAlighieri ("l’amor che muove il sole e le altre stelle") e di ogni #essereumano nato di donna e di uomo nel pianeta Terra?
L’AZIONE PASTORALE DELLA CHIESA CATTOLICA E IL NATALE DEL 2022: IL CATTOLICESIMO-ROMANO DI COSTANTINO (NICEA 325 d. C) ESISTERA’ ANCORA NEL 2025 d. C.?! *
La pietà popolare: il pellegrinaggio cristiano
di Michele La Rocca (Insula Europea, 15 Dicembre 2022
La Chiesa rivolge la sua attenzione alla pietà popolare in vasti settori della sua azione pastorale, perché come in passato era stata efficace per arginare gli effetti negativi del movimento protestante, così ora si dimostra valida per contrastare le suggestioni corrosive del razionalismo. La fissa in rapporto con la Liturgia. Si tratta di due espressioni legittime del culto cristiano, che non sono da opporre, né da equiparare, ma da armonizzare. Liturgia e Pietà Popolare sono ordinate alla ricerca di un rapporto armonico in cui la seconda è oggettivamente subordinata e finalizzata alla prima. Un rapporto che va guardato alla luce delle direttive impartite dalla Costituzione Sacrosanctum Concilium: «I pii esercizi del popolo cristiano siano ordinati in modo da essere in armonia con la sacra Liturgia, da essa traggano in qualche modo ispirazione, e ad essa, data la sua natura di gran lunga superiore, conducano il popolo cristiano» (Cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. sulla sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, 13).
Da una parte la pietà popolare è uno spazio adeguato per celebrare in modo libero e spontaneo la «Vita» e le sue molteplici espressioni, insomma uno spazio reale e semplice per la vita di preghiera: attraverso i credenti esercizi, infatti, il fedele dialoga veramente con il Signore, con «discorsi» che egli comprende pienamente e che sente propri; parlando direttamente all’uomo, ne coinvolge il cuore, lo spirito, il corpo. La ritualità attraverso cui si esprime è recepita e accolta dal fedele, perché vi è corrispondenza tra il suo mondo culturale e il linguaggio rituale. Dall’altra la Liturgia invece, pur centrata sul «Mistero di Cristo» e anamnetica per sua natura, proibisce la spontaneità e risulta ripetitiva e formalistica; non riesce a coinvolgere il fedele nella totalità del suo essere, nella sua corporeità e nel suo spirito. Al contrario, ponendo sulle sue labbra parole non sue e spesso estranee al suo mondo culturale, più che un mezzo si rivela un impedimento per la vita di preghiera. La sua stessa ritualità è invece incompresa, perché i suoi moduli espressivi provengono da un mondo culturale che il fedele sente diverso e lontano.
È importante ricordare cosa suggerisce l’ultimo Concilio ecumenico: «ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza, e nessun’altra azione della Chiesa ne uguaglia l’efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado» (Cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. sulla sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, 7).
Un altro aspetto significativo della Pietà Popolare è il pellegrinaggio, simbolo della condizione di ogni essere umano in quanto homo viator: «Il pellegrinaggio è icona del cammino che ogni persona compie nella sua esistenza. La vita è un pellegrinaggio e l’essere umano è un viator, un pellegrino che percorre una strada fino alla meta agognata» (Francesco, Misericordiae Vultus, 11 aprile, 2015, 14).
La vita dell’uomo nella Bibbia viene presentata come il grande Pellegrino che va alla ricerca dell’uomo e della creazione, fino ad assumere poi in Gesù Cristo la stessa carne della creatura, con cui farà ritorno al Padre. Si parla di un linguaggio semplice e naturale perché i credenti, come tutti gli altri uomini, esprimono il loro sentimento religioso e curano la dimensione della trascendenza. Esso ha un chiaro significato antropologico, descrive e definisce l’essere umano con un’identità definita, in quanto racconta la vita di Cristo e dei cristiani in viaggio verso la casa del Padre, equipaggiati del senso della vita in quanto si sentono amati da Dio.
In passato, raggiungere alcune mete comportava una vita totale: perché partire significava molte volte il non ritorno a causa dei mezzi non potenti, di malattie inguaribili; e questo trasformava il pellegrinaggio in un vero e proprio viaggio verso l’eterno.
L’immagine dell’uomo, che il pellegrinaggio propone, è un ideale rimedio alla rottura antropologica del postmoderno, che spesso descrive l’uomo come un individuo lacerato, senza patria, senza riferimenti e senza prospettiva (Cfr. Z. Bauman, Da pellegrino a turista, in “Rassegna Italiana di Sociologia” 36 (1995/1) 3-26, qui 13-21); una umanità aperta, labile ma senza progettualità. Invece il pellegrinaggio esprime la totalità della vita cristiana e l’autentica immagine dell’uomo, che sa dove lo conduce la strada della vita. L’essere pellegrino e il tema del viaggio appartengono non solo alla Bibbia ma al grande tema dell’umanità, dai filosofi ai poeti, agli scrittori; sono uno dei miti letterari più presenti da Omero con Ulisse, all’inquieto cuore di Agostino.
Come indica la Bolla di indizione del Giubileo, il pellegrinaggio «è esercizio di ascesi operosa, di pentimento per le umane debolezze, di costante vigilanza sulla propria fragilità, di preparazione interiore alla riforma del cuore» (Cfr. L. Pozzoli, L’apostolo e il personaggio-uomo: due nomadi su strade diverse, in AA. VV., Fede e cultura dagli Atti degli Apostoli, EDB, Bologna 1988, 27-55).
Il pellegrinaggio è un evento assai complesso, che abbraccia diversi momenti successivi: «la partenza del pellegrinaggio sarà opportunamente caratterizzata da un momento di preghiera, compiuto nella chiesa parrocchiale oppure in un’altra più adatta, consistente nella celebrazione dell’Eucaristia o di una parte della Liturgia delle Ore o in una peculiare benedizione dei pellegrini. L’ultimo tratto del cammino sarà animato da più intensa preghiera; è consigliabile che quell’ultimo tratto, quando il santuario è già in vista, sia percorso a piedi, processionalmente, pregando, cantando, sostando presso le edicole che eventualmente sorgono lungo il tragitto.
L’accoglienza dei pellegrini potrà dar luogo a una sorta di “liturgia della soglia”, che ponga l’incontro tra i pellegrini e i custodi del santuario su un piano squisitamente di fede; ove sia possibile, questi ultimi muoveranno incontro ai pellegrini, per compiere con loro l’ultimo tratto del cammino.
La permanenza nel santuario dovrà ovviamente costituire il momento più intenso del pellegrinaggio e sarà caratterizzata dall’impegno di conversione, opportunamente ratificato dal sacramento della riconciliazione; da peculiari espressioni di preghiera quali il ringraziamento, la supplica o la richiesta di intercessione, in rapporto alle caratteristiche del santuario e agli scopi del pellegrinaggio; dalla celebrazione dell’Eucaristia, culmine del pellegrinaggio stesso. La conclusione del pellegrinaggio sarà caratterizzata convenientemente da un momento di preghiera, nello stesso santuario o nella chiesa da cui esso è partito; i fedeli ringrazieranno Dio del dono del pellegrinaggio e chiederanno al Signore l’aiuto necessario per vivere con più generoso impegno, una volta tornati nelle loro case, la vocazione cristiana» (Cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. sulla sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, 287).
Il momento finale del pellegrinaggio è il «commiato»: essa rivela una forte alleanza tra i presbiteri al servizio del santuario e i pellegrini che incaricano i sacerdoti a continuare la loro lode nel luogo più santo. Non deve mai terminare il contatto con Dio, questo dialogo tra Dio e il popolo. Il pellegrinaggio non è un camminare erratico, senza una meta ben precisa. Il pellegrinare verso chiese, santuari, memorie della nostra fede, luoghi della nostra miseria e della misericordia di Dio ci porta a riconsiderare il ministero della Parola e della nostra fede. Inoltre entrare nel santuario in cui Cristo ha già fatto il suo ingresso fa riscoprire all’uomo la paternità e la maternità di Dio.
Al ritorno, il pellegrinaggio ricalca la discesa da Gerusalemme a Gerico e invita tutti di farsi prossimo dei pellegrini di ogni genere, sostando con loro, mettendo a disposizione anche i propri beni, con amore e affetto. Le differenze non devono dividere ma integrare nel piano di Dio e portare all’unione di tutti gli uomini in un solo corpo che è Cristo stesso. Le diversità sono doni di cui si serve lo Spirito per costruire la casa del Padre. Quando Dio rivolge gli occhi verso il suo popolo: «i cristiani scoprono paternità di Dio; l’illusione mitica che li faceva ricondurre alla terra della patria e credere di essere stati creati in diverse caste è distrutta; essi sanno che sono tutti di una stessa famiglia, e perciò veramente fratelli. La fede demitologizza il mondo, smaschera l’errore razzistico, i dogmi sociali, frutti di menzogna, allontanando gli uomini per condurli alla verità che rende liberi. La fede posseduta in comune, crea nello stesso tempo la comprensione tra gli uomini, continua il miracolo della Pentecoste, trionfa sulla confusione babilonica delle lingue, non, del resto per l’unità esteriore del linguaggio ma per l’unità dello spirito che essa stabilisce» (J. Ratzinger, Fraternitè, in Dictionnaire de Spiritualitè, V, 1159).
Il primo pellegrinaggio di ogni uomo dimora nel rinnovamento del cuore: convertirsi è farsi pellegrini verso sé stessi per ricomprendere la propria vita e la propria identità; è volgersi al proprio cuore «là dove lo aspetta quel Dio che scruta i cuori (Cfr. 1 Sam 16,7; Ger 17,10), là dove sotto lo sguardo di Dio egli decide del suo destino» (Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. past. Gaudium et spes, 1965 dic. 7: cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, in AAS, 58 (1966), 14).
Infatti, «non è tanto il mutamento da un luogo all’altro che ci rende più vicini a Dio, ma una dimora ben preparata, dove Dio possa abitare. A nulla, infatti, servirebbe visitare i Luoghi Santi, fosse pure il Golgota, se non si è in grazia di Dio» (S. Gregorio di Nissa, Epist. 81). La conversione è l’invito all’amore e alla fedeltà a colui che resta fedele sempre anche se noi non lo siamo quasi mai e questa è la certezza che Dio non si è stancato di noi.
«Ravvediti» (Cfr. Ap 2,5): un ritornello continuo dello Spirito che è quasi una dichiarazione di amore da parte del Signore nei riguardi di ogni singolo uomo. La prima parola che il Vangelo annuncia è «conversione» perché compito proprio del ministero apostolico è la predicazione nel nome di Gesù della conversione e del perdono dei peccati a tutte le genti (Cfr. Lc 24,47). Anche noi oggi siamo chiamati ad accettare colui che viene e fa «nuove tutte le cose» (Cfr. Ap 2,5), attraverso un confronto e un «dialogo» aperto e coraggioso con Gesù; l’unico che può permettere la conversione: questo passaggio a un essere nuovo, ma non in qualche aspetto o verso l’interiorità, ma il completo rinnovamento. La meta cristiana del pellegrinaggio «non è più un luogo, una città, un tempio, bensì la persona stessa del Maestro e Signore che il pellegrino deve seguire, portando la propria croce, entrando per la propria parte nel mistero della sua Pasqua» (Commissione Ecclesiale per la pastorale del tempo libero, turismo e sport della Cei, “Venite saliamo sul monte del Signore”, il pellegrinaggio alle soglie del III millennio, nota pastorale, 8).
L’essere cristiani possiamo considerarlo come un invito a superare sé stessi, al cercare di essere sempre gli uni per gli altri, ma soprattutto comporta il seguire il Signore, il mistero della sua Croce che è completamente dedita agli altri e lontana «dall’egoismo dell’io» (J. Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo, Quiriniana, Brescia, 1996, 203).
«Chi vuol venga dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Cfr. Mt 16,24.) Questo è anche il senso del Crocifisso, delle sue braccia spalancate che testimoniano il gesto della preghiera; un senso di abbraccio, di fraternità, di amore, di servizio tra uomini e glorificazione a Dio. Sotto questo profilo il pellegrinaggio è un annuncio di fede e i pellegrini sembrano diventare «araldi itineranti di Cristo»; perché «pellegrinare» rappresenta, in qualche modo, quella di Gesù e dei suoi discepoli, che percorrono le strade della Palestina annunciando il Vangelo di salvezza.
* NOTA
#ANTROPOLOGIA, #LINGUISTICA, #FILOLOGIA E MESSAGGIO EVANGELICO: IN #PRINCIPIO ERA IL #VERBO.
CHI HA VISTO L’ A O ... RISTO? Un omaggio a Salvo Micciché e a Carlo Pulsoni e una nota a margine di un articolo sulla #pietà popolare, sul #pellegrinaggio, apparso su Insula Europea...
#MARIAEGIUSEPPE, #GESÙ, E IL #PRESEPE. MA CHE NATALE è questo #Natale2022, con "La pietà popolare: il pellegrinaggio cristiano" ... e la vita e l’#idea platonica di un "#Gesù" segnato da tragico #androcentrismo e costruito ad uso e strumento della casta sacerdotale? #STORIA E #MEMORIA. "È significativo che l’espressione di Tertulliano: «Il cristiano è un altro Cristo», sia diventata: «Il prete è un altro Cristo»" (Albert Rouet, arcivescovo di #Poitiers, 2010).
#APOCALISSE (1,8). Non è il caso e il tempo di riflettere un po’ di più sull’ AO...risto ("Io sono l’Alfa e l’Omega"), sulla delfica #conoscenza di sé, e su #comenasconoibambini? Ricordare che fra pochi giorni inizia il nuovo anno e che #Eleusi, città greca legata alla memoria dei #MisteriElesusini, sarà una delle capitali europea della cultura: #Eleusis2023.
#BUONNATALE E #BUON2023, #BUONANNO
ANTROPOLOGIA, FILOLOGIA, E RI-NASCITA: MISTERI ELEUSINI (OMAGGIO A ELEUSI, CAPITALE EUROPEA DELLA CULTURA 2023: #ELEUSIS2023). IL FILO DI M-ARIANNA...
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KORE (Kàroly Kerényi) *
“Come un uomo potrebbe sapere che cosa sia una donna? La vita della donna è totalmente differente da quella degli uomini. Dio ha fatto così. L’uomo è sempre lo stesso sin dalla sua circoncisione fino alla sua vecchiaia. Egli è il medesimo prima del suo primo incontro con una donna e dopo. Il giorno in cui una donna conosce per la prima volta l’amore, spezza la sua vita in due. Quel giorno, essa diventa un’altra. L’uomo, dopo il suo primo amore, rimane quello che era prima. La donna, dopo il giorno del suo primo amore, è un’altra. E così rimane per tutta la vita. L’uomo passa la notte insieme con una donna e passa via. La sua vita e il suo corpo restano sempre gli stessi. La donna concepisce. Quale madre, essa è un’altra che la donna senza figli. Essa, innanzi tutto, porta per nove mesi nel proprio corpo le conseguenze di quella notte. Nella sua vita cresce qualcosa che non ne scomparirà più. Essa, infatti, è madre. Essa è e rimane madre anche se suo figlio, anche se tutti i suoi figli muoiono. Perché essa ha portato il bambino sotto il cuore. Dopo però, quando il bambino è già nato, lo porta entro il cuore. E dal cuore egli non uscirà più. Nemmeno quando sarà morto. Tutto questo l’uomo non lo conosce; egli non ne sa niente.
“Egli ignora la differenza che passa fra il tempo prima dell’amore e quello dopo l’amore, fra quello prima della maternità e quello dopo la maternità. Egli non può sapere niente. Soltanto una donna può sapere questo e parlare di questo. È perciò che noi non permettiamo nemmeno che i nostri mariti intervengano con le loro parole nelle nostre faccende. La donna può fare una sola cosa. Essa può stare attenta a sé. Essa può comportarsi decentemente. Essa deve essere sempre come è la sua natura. Essa deve sempre essere fanciulla o essere madre. Prima di ogni amore essa è fanciulla, dopo ogni amore essa è madre. Da questo puoi vedere se essa è una buona donna".
"Queste parole di una nobile donna abissina, riportate dal Frobenius in uno dei suoi più bei libri, Der Kopf als Schicksal , siano messe qui a titolo di motto, per preparare e confermare ciò che verrà esposto nello studio su Kore. Esse siano qui anche in ricordo di quel grande uomo, la cui opera di vita stimola lo studioso delle civiltà e delle mitologie a proseguirla e lo spinge a prendere posizione di fonte ad essa”.
* Cfr. CARL GUSTAV JUNG, KÁROLY KERÉNYI, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Bollati Boringhieri editore.
ORA E SEMPRE RESISTENZA:
"L’#AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO" (Shakespeare, "Sonetto 116").
Per approfondire (e meglio comprendere) il senso del dire presente nel "Cimitero di Praga" di Umberto Eco ("Ci vuole sempre qualcuno da odiare per sentirsi giustificati nella propria miseria. L’odio è la vera passione primordiale. È l’amore che è una situazione anomala. Per questo Cristo è stato ucciso: parlava contro natura."), forse, è opportuno riaprire il "Processo" di Kafka e, ricollocandosi "Nel Duomo" di Praga (e anche di #Milano), riprendere la lettura.... ricordandosi del "calavrese abate Giovacchino /di spirito profetico dotato» (Dante Alighieri, Paradiso, Canto XII, vv. 139-141).
Federico La Sala
#SIMONEWEIL(1909-1943): #ARTE #CONOSCENZA E #MESSAGGIOEVANGELICO.
Una riflessione dai #Quaderni...
"Un #pittore non disegna il posto in cui si trova. Ma osservando il suo #quadro, io conosco la sua posizione rispetto alle cose disegnate. ... Secondo la concezione della vita umana espressa negli atti e nelle parole di un uomo, io so (...) se egli guarda questa vita da un punto situato quaggiù o dall’alto del cielo. ... Il #Vangelo contiene una #concezione della #vitaumana, non una #teologia. Se di notte all’aperto, accendo una torcia elettrica, non è guardando la #lampadina che ne giudico la potenza, ma guardando la quantità di oggetti illuminati. ... Il #valore di una #forma di #vitareligiosa, o più in generale spirituale, lo si valuta in base all’illuminazione proiettata sulle cose di quaggiù. Le #cosecarnali sono il #criterio delle #cosespirituali. [...]
Solo le cose spirituali hanno valore, ma le cose carnali sono le uniche ad avere un’esistenza constatabile. Quindi il valore delle prime è constatabile solo come illuminazione proiettata sulle seconde." (#SimoneWeil, "Quaderni" [1942], Q IV 185, Adelphi, Milano 1993).
Federico La Sala(30giugmo2022).
Usa, la Corte Suprema sancisce la fine del diritto all’aborto: annullata la sentenza Roe v. Wade *
In America la sentenza che tutelava il diritto delle donne a interrompere una gravidanza non esiste più. Con una decisione che rovescia un diritto fondamentale radicato negli Stati Uniti da 50 anni, la Corte Suprema ha annullato la storica sentenza Roe v. Wade, con cui nel 1973 la stessa Corte aveva riconosciuto il diritto della texana Norma McCorvey di interrompere la gravidanza garanetendo a tutte le donne di poter abortire liberamente.
La decisione è stata presa da una Corte divisa, con 6 voti a favore dei giudici conservatori e 3 contrari, i giudici liberal Sonia Sotomayor, Elena Kagan e Stephen Breyer che hanno diffuso un comunicato per dissociarsi: "Tristemente, molte donne hanno perso oggi una tutela costituzionale fondamentale. Noi dissentiamo". Tutti e tre i giudici nominati dall’ex presidente Donald Trump, che ha perso nel voto popolare sia nelle elezioni del 2016 che in quelle del 2020, durante il suo mandato hanno votato per l’abolizione della sentenza. E infatti Trump è il primo a esultare: "È la volontà di Dio. La decisione vuol dire seguire la Costituzione e restituire i diritti", ha detto l’ex presidente americano.
Quello della Corte Suprema è stato un "tragico errore" e la sentenza emessa è il risultato di un’ "ideologia estrema", ha dichiarato il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, nel discorso tenuto alla nazione nel pomeriggio di venerdì. La Corte suprema, ha detto il presidente, "ci ha riportato indietro di 150 anni, ora è a rischio la salute delle donne" e ha chiamato gli americani a una battaglia politica contro la sentenza: "Permettetemi di essere molto chiaro e inequivocabile - ha detto - l’unico modo in cui possiamo garantire il diritto di scelta di una donna (sull’aborto) è che il Congresso ripristini questi diritto con una legge federale. Non c’è nessuna azione esecutiva del presidente che possa farlo. Ma al momento al Congresso mancano i voti per farlo ora, dunque gli elettori alle elezioni di novembre devono far sentire la loro voce".
La decisione è stata presa nel caso "Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization", in cui i giudici hanno confermato la legge del Mississippi che proibisce l’interruzione di gravidanza dopo 15 settimane. A fare ricorso era stata l’unica clinica rimasta nello Stato a offrire l’aborto. Una bozza trapelata nelle scorse settimane (redatta dal giudice Samuel Alito, risalente a febbraio e confermata poi come autentica dalla corte) aveva indicato che la maggioranza dei ’saggì erano favorevoli a ribaltare la Roe v Wade, suscitando vaste polemiche e proteste negli Usa. Alito che scrive nel dispositivo "La Roe vs Wade è stata sbagliata fin dall’inizio in modo eclatante. Il suo ragionamento - aggiunge - è stato eccezionalmente debole, e la decisione ha avuto conseguenze dannose".
Ora quindi i singoli Stati saranno liberi di applicare le loro leggi in materia. Si torna agli anni precedenti alla sentenza, quando l’aborto negli Usa era disciplinato da ciascuno Stato. In oltre la metà l’aborto era considerato reato, quindi non poteva essere praticato in nessun caso. In oltre 10 Stati era legale solo se costituiva pericolo per la donna, in caso di stupro, incesto o malformazioni fetali.
Già prima della diffusione, poco dopo le 10 ora locale, della decisione ufficiale centinaia di persone, in maggioranza donne, si sono riunite per protestare di fronte all’edificio che ospita il massimo organismo giuridico americano. E le principali organizzazioni pro choice hanno diffuso un comunicato in cui denunciano "ogni tattica e minaccia di gruppi che usano la distruzione e le violenza come mezzo, non parlano per noi, i nostri sostenitori, le nostre comunità e il nostro movimento", si legge nella dichiarazione di Planned Parenthood, Naral Pro-Choice America e Liberate Abortion Campaign. "Siamo impegnati a proteggere ed espandere l’accesso all’aborto e alla libertà riproduttiva attraverso un attivismo pacifico e non violento", concludono. Diversa la reazione dei repubblicani. Il leader del gruppo alla Camera, Kevin McCarthy, plude alla decisione "che salva vite umane".
"Oggi la Corte suprema non solo ha annullato quasi 50 anni di precedenti, ha relegato la decisione più intensamente personale che qualcuno possa prendere ai capricci di politici e ideologi, attaccando le libertà essenziali di milioni di persone". Così Barack Obama in un tweet, sua prima reazione alla sentenza. La moglie l’ex presidente degli Stati Uniti. "Ho il cuore spezzato per gli americani che hanno perso il diritto fondamentale di assumere decisioni informate" in merito al loro corpo. Lo afferma Michelle Obama parlando di una "decisione orribile" da parte della Corte Suprema sull’aborto. "Avrà delle conseguenze devastanti", aggiunge. Durissima anche Hillary Clinton che bolla la decisione della Corte Suprema sull’aborto come un’"infamia", un "passo indietro per i diritti delle donne e i diritti umani".
Il presidente americano Joe Biden ha dato mandato al segretario alla salute di garantire l’accesso delle donne alla pillola abortiva e ad altri farmaci per "l’assistenza riproduttiva" approvati dalla Food and Drug Administration. Lo annuncia la Casa Bianca in una nota.
* Fonte: la Repubblica, 24 GIUGNO 2022 (ripresa parziale).
IL REGNO DELLE DONNE
Ventitré uditrici per una Chiesa “maestra in umanità”
di Marinella Perroni (Il Regno, 09/12/2017)
Dal punto di vista della storia delle donne si può dire che il concilio Vaticano II ha avuto un “prima” e un “dopo”. Lo spartiacque lo hanno segnato, durante la congregazione generale LIII, le parole con le quali l’arcivescovo di Bruxelles, il card. Leo-Joseph Suenens, esprimeva il votum di invitare al Concilio, oltre a uditori maschi, anche l’altra parte dell’umanità.
Quando l’arcivescovo Pietro Fiordelli, prendendo la parola in assemblea disse: «Venerabiles patres, dilecti fratres et sorores», risultò chiaro che qualcosa ormai era cambiato. Era la III sessione del Concilio e, sia pure marginalmente, la breccia era stata aperta: nella tribuna Sant’Andrea, oltre ad altri uditori maschi, era presente anche un manipolo di ventitré sorores, dieci religiose e tredici laiche, rigorosamente tenute alla stretta osservanza dell’interdizione paolina alle donne di Corinto affinché tacessero durante le assemblee liturgiche.
Mute, almeno in assemblea, ma per la prima volta realmente presenti nel momento più alto dell’esercizio della comunione e, quindi, dell’autorità ecclesiale.
La sproporzione numerica, dato che all’inizio della III sessione erano ancora soltanto 15 a fronte di più di 2500 vescovi, rende bene l’idea di una Chiesa che, alle migliori intenzioni di definirsi secondo quella che è stata felicemente chiamata un’“ecclesiologia di comunione”, opponeva il dato di fatto di una plurisecolare esclusione delle donne da ogni forma di esercizio di autorità.
Era del resto molto diffusa tra i padri conciliari l’incapacità di intercettare almeno alcuni dei segnali che, da tempo ormai, attestavano che dal movimento delle donne aveva preso le mosse una rivoluzione profonda che avrebbe contribuito, lentamente ma inesorabilmente, a mettere in crisi i molti modi in cui l’ideologia patriarcale aveva stabilito assetti sociali fortemente asimmetrici e, sempre, a spese delle donne.
Alcuni dei vescovi presenti al Concilio avevano fatto direttamente esperienza della dedizione, ma anche delle competenze con cui tante credenti si mettevano a servizio delle loro Chiese. E per questo avevano appoggiato con forza la richiesta di Suenens. La maggioranza oscillava invece tra una malcelata indifferenza e un’aperta ostilità. Tutti, d’altra parte, erano figli di una teologia di genere tanto incline all’esaltazione del femminile quanto saldamente ferma nell’esclusione delle donne.
Non poteva certo essere quello sparuto gruppetto costretto al silenzio a ribaltare una situazione che gettava le sue radici in un passato molto lontano e che continuava a produrre i suoi frutti di emarginazione ancora a quasi due millenni di distanza. Come Paolo VI aveva osservato, la loro presenza aveva un carattere unicamente simbolico. Più ancora delle parole, però, i simboli depositano nella storia la forza della loro virtualità. Non nascono infatti mai dal nulla e, più di quanto si creda, alimentano germi di novità.
Quel “simbolo”, del resto, era radicato nelle diverse Chiese nazionali e continentali in cui quasi tutte quelle ventitré donne rivestivano ruoli importanti, alcune nelle loro congregazioni religiose, altre in diverse associazioni laicali. Come d’uso, non c’era di loro alcuna traccia nelle narrazioni ufficiali e, forse, neppure nella consapevolezza di molti vescovi dell’epoca, che continuavano a pensare che la Chiesa fosse nella realtà quello che era stato stabilito dovesse essere per principio, cioè animata e guidata unicamente da uomini. La realtà non era questa già allora né, tanto meno, lo è oggi. Quel “simbolo” diceva chiaramente che il mondo era cambiato e imponeva anche alla Chiesa di cambiare.
Le parole con cui Margarita Moyano, la più giovane delle uditrici al Concilio, suggellava quell’esperienza straordinaria prendono oggi, a più di cinquant’anni di distanza, il sapore di una profezia: «A Roma le donne vanno sempre alla fine. È importante, però, che alla fine vadano». Anche per restare solo al nostro paese, infatti, dal 1965 a oggi la presenza delle donne nelle Facoltà Teologiche italiane e perfino nelle Pontificie Facoltà romane è stata un fenomeno crescente e, soprattutto, significativo. Nonostante resistenze e ritardi, una corrente sotterranea contribuisce a precisare i lineamenti della Chiesa uscita dal Vaticano II.
In un tempo come il nostro, in cui si fa un gran parlare di riforme, qualcuno sostiene che la Chiesa cattolica non può riformarsi altro che grazie a eventi del tutto straordinari come quello che ha visto come protagonista Lutero e, in questa ottica, anche il Vaticano II non sarebbe che un episodio del tutto insignificante. A cinquecento anni dall’inizio della guerra dei trent’anni, forse sarebbe il caso riflettere un po’ a fondo sull’importanza che le riforme ecclesiali non cadano preda di prìncipi e imperatori e la Chiesa semper reformanda sia l’unica protagonista del proprio cammino di riforme. Mai, però, al di fuori del mondo e della sua storia.
La Chiesa ha saputo riformare se stessa tutte le volte che è stata in grado di intercettare le grandi mutazioni storiche e di interpretarle alla luce della fede nella rivelazione di Dio. Il femminismo ha fatto da vettore a una di queste grandi mutazioni perché è una vera e propria rivoluzione, strutturale, profonda, che cambia il panorama dell’umano. Una rivoluzione che avanza ormai da più di un secolo senza portare con sé né guerre né fame né lutti.
Fa sorridere che le femministe siano state accusate di violenza solo perché, per cambiare uno status quo oppressivo, hanno levato le loro voci e non hanno mai sparato né con fucili né con cannoni! Saprà la Chiesa, che Paolo VI definì “maestra in umanità”, accettare la rivoluzione femminista che la invita a prendere piena consapevolezza della verità dell’umano?
Le nuove linee guida. Matrimonio, la svolta di Francesco
Nascono gli «Itinerari catecumenali per la vita matrimoniale". Non soltanto nuovi percorsi per la preparazione dei fidanzati ma un progetto più complesso. Ribadito il valore della castità
di Luciano Moia (Avvenire, mercoledì 15 giugno 2022)
Sono le sfide urgenti e drammatiche che la Chiesa intende affrontare in quest’anno dedicato ad Amoris laetitia - e in vista dell’Incontro mondiale delle famiglie che si apre la prossima settimana a Roma e in tutte le diocesi del mondo - perché in gioco c’è «la realizzazione e la felicità di tanti fedeli laici nel mondo».
Nasce con questo obiettivo il documento “Itinerari catecumenali per la vita matrimoniale”, un testo che dà seguito a un’indicazione ripetutamente espressa da papa Francesco nel suo magistero, ossia «la necessità di un “nuovo catecumenato” che includa tutte le tappe del cammino sacramentale: i tempi della preparazione al matrimonio, della sua celebrazione e degli anni successivi», soprattutto quando gli sposi potrebbero attraversare crisi e momenti di scoraggiamento.
Non si tratta di un nuovo percorso di preparazione al matrimonio, ma di un progetto più articolato e più complesso - ed è questa la grande novità - perché punta ad abbracciare la cosiddetta "preparazione remota" che comprende cioè percorsi educativi all’amore, all’affettività e alla sessualità rivolti ai bambini, agli adolescenti e ai giovani, configurati in modo delicato e ragionevole in base alle diverse età; la preparazione "prossima", cioè quella pensata nell’imminenza delle nozze; e l’accompagnamento nei primi anni di matrimonio, senza trascurare i momenti di crisi e anche la scelta di chi decide di separarsi o di divorziare. Anche se per queste coppie è in preparazione un documento specifico perché, come spiega papa Francesco nell’introduzione, «la Chiesa, infatti, vuole essere vicina a queste coppie e percorrere anche con loro la via caritatis, così che non si sentano abbandonate e possano trovare nelle comunità luoghi accessibili e fraterni di accoglienza, di aiuto al discernimento e di partecipazione».
Perché è sempre più difficile raccontare ai giovani la bellezza e la verità della vita matrimoniale? Il documento parla di «mentalità edonista che distorce la bellezza e la profondità della sessualità umana», ma anche di «autoreferenzialità che rende difficile l’assunzione degli impegni della vita matrimoniale». E infine di «limitata comprensione del dono del sacramento nuziale, del significato dell’amore sponsale e del suo essere un’autentica vocazione, ossia una risposta alla chiamata di Dio all’uomo e alla donna che decidono di sposarsi».
Ecco perché si rende necessario «un serio ripensamento del modo in cui nella Chiesa si accompagna la crescita umana e spirituale delle persone». Per riuscirci il nuovo testo suggerisce creatività pastorale e flessibilità nei confronti della situazione concreta delle diverse coppie. Ma anche una formazione accurata per chi è chiamato ad accompagnare i giovani. Non solo parroci e sacerdoti, ma su un piano di pari dignità, anche coppie sposate con consolidata esperienza matrimoniale e perfino «separati, rimasti fedeli al sacramento, che possano offrire la loro testimonianza ed esperienza vocazionale in maniera sempre costruttiva». Perché, come papa Francesco, ha più volte ribadito, «non si tratta tanto di trasmettere nozioni o far acquisire competenze, quanto piuttosto di guidare, aiutare ed essere vicini alle coppie in un cammino da percorrere insieme».
Per farlo non servono né toni moralistici né discorsi complessi, soprattutto per quelle sempre più numerose «coppie di fidanzati che vivono situazioni di convivenza complesse, nelle quali fanno fatica a comprendere la portata sacramentale della scelta che stanno per compiere e la “conversione” che tale scelta comporta, sebbene “intravedano” il mistero più grande del sacramento rispetto alla mera convivenza». Sono proprio queste le coppie per le quali occorre mettere a punto un approccio nuovo, perché le loro domande «non possono piu essere eluse dalla Chiesa, né appiattite all’interno di percorsi tracciati per coloro che provengono da un cammino minimale di fede; piuttosto richiedono forme di accompagnamento personalizzate, o in piccoli gruppi, orientate ad una maturazione personale e di coppia verso il matrimonio cristiano». E anche questa è una sfida tutt’altro che agevole.
Il documento riserva grande attenzione al tema della castità prematrimoniale «come autentica “alleata dell’amore”, non come sua negazione» e sollecita le comunità a dedicare sforzi mirati e intelligenti alle coppie in crisi, spiegando che «un ministero dedicato a coloro la cui relazione matrimoniale si è infranta appare particolarmente urgente».
Stop al cognome del padre ai figli: cosa cambia in Italia
La Consulta ha stabilito che le norme che regolano l’attribuzione del cognome in Italia sono illegittime e in contrasto con la Costituzione *
In Italia cambiano le leggi che riguardano l’attribuzione del cognome al figlio, con una storica sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittime le norme che regolano questo processo nell’ordinamento del nostro Paese. Nello specifico la Consulta si è pronunciata sulla legge che non consente di attribuire a un figlio il solo cognome della madre e su quella che, in mancanza di un accordo tra i genitori, impone il solo nome del padre, anziché quello di entrambi i genitori.
Perché la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittime le norme sul cognome
La sentenza è arrivata dopo una lunga battaglia legale intrapresa da una giovane coppia lucana per i nomi dei tre figli. I primi due erano stati registrati col cognome della madre e il terzo era stato registrato automaticamente con il cognome del padre perché nato dopo il matrimonio dei genitori.
La famiglia avrebbe voluto registrare con il cognome della madre anche il terzo figlio, per rendere uguali tutti i fratelli, ma gli uffici comunali si erano opposti. I magistrati in primo grado avevano dato ragione al Comune, ma la Corte d’Appello di Potenza ha dichiarato “rilevante e non manifestamente infondata” la questione di legittimità costituzionale delle norme in materia, sollevata dai legali della coppia.
I due avvocati, Domenico Pittella e Giampaolo Brienza, hanno espresso, nei confronti della decisione della Consulta “grande soddisfazione”. Il primo ha raccontato che “la coppia che ha intrapreso questo complesso e faticoso iter giudiziario mi ha chiamato poco fa. I due coniugi sono commossi e consapevoli di avere scritto una pagina storica, loro ci hanno sempre creduto”
Come funziona l’attribuzione del cognome in Italia e come è cambiata negli anni
In Italia, come è noto, il cognome viene assegnato al momento della dichiarazione di nascita per l’iscrizione del nuovo nato nel registro dell’anagrafe. Per prassi avviene in questo modo.
Non esiste una legge specifica in maniera, ma una serie di disposizioni regolatrici di fattispecie diverse, come chiarito dalla Corte Costituzionale nel 2006. Nel 2014 la Corte di Strasburgo aveva condannato l’Italia per la violazione della Convenzione europea dei Diritti dell’uomo, e nel periodo successivo si era discusso ampiamente nel nostro Paese su come cambiare la legge.
L’Europa ha infatti sottolineato che l’impossibilità di dare il cognome della madre al figlio e l’attribuzione automatica di quello del padre discrimina le donne. Era stata formulata anche una proposta di legge per il doppio cognome ai figli, fermata alla Camera dei Deputati, come vi avevamo raccontato qui.
La Consulta si era espressa contro lo status quo nel 2016 dichiarando l’illegittimità costituzionale della norma che prevede l’automatica attribuzione del cognome paterno al figlio legittimo, in presenza di una diversa volontà dei genitori. Dopo quella sentenza è diventato possibile trasmettere anche il cognome della madre, ma solo posponendolo a quello paterno, come già visto.
Secondo quali articoli della Costituzione le norme sul cognome sono illegittime
La nuova sentenza non è ancora stata depositata, ma l’Ufficio comunicazione e stampa della Corte Costituzionale ha fatto sapere che le norme censurate sono state dichiarate illegittime per contrasto con l’articolo 2, l’articolo 3 e l’articolo 117, primo comma, della Costituzione. Quest’ultimo in relazione all’articolo 8 e all’articolo 14 della Convenzione europea dei Diritti dell’uomo.
Cosa cambia adesso in Italia per l’attribuzione del cognome ai figli: le nuove regole
La Consulta ritiene discriminatoria e lesiva dell’identità del figlio la regola che attribuisce automaticamente il cognome del padre al figlio. Per il principio di eguaglianza e per l’interesse del bambino, i giudici della Corte Costituzionale hanno stabilito che entrambi i genitori devono poter condividere la scelta sul suo cognome, in quanto elemento fondamentale dell’identità personale.
Dunque la nuova regola permette al figlio di assumere il cognome di entrambi i genitori nell’ordine concordato dai genitori, salvo che questi decidano di attribuirgli soltanto il cognome di uno dei due. Senza un accordo della coppia, spetterà al giudice intervenire, in conformità con quanto dispone l’ordinamento giuridico.
La Corte Costituzionale ha dunque dichiarato illegittime tutte le norme che prevedono l’attribuzione automatica del cognome del padre al bambino, sia per i figli nati fuori dal matrimonio sia per i figli nati nel matrimonio e per i figli adottivi. La sentenza sarà depositata nelle prossime settimane, e spetterà a quel punto al legislatore formulare nuove norme per adattare il sistema a quanto deciso dai giudici.
* Fonte: Qui Finanza, 27 aprile 2022 (ripresa parziale).
L’Europa, la guerra, la pace, e il disagio della civiltà...
UNA QUESTIONE DI LUNGA DURATA: INIZIO DELLA FINE DEL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO (LORENZO vALLA, 1440), "LA DOTTA IGNORANZA" (NICCOLO’ CUSANO, 1440) E "LA PACE DELLA FEDE" (NICCOLO’ CUSANO, "De Pace Fidei",1454)...
GIORNI FA (IL 24 MARZO 2022) E’ STATO DATO CONTO DELLA SCOPERTA DI UNA EPIGRAFE DELLA VISITA, AVVENUTA NEL 1452 A SERMONETA (LATINA), DELL’IMPERATORE DEL SACRO ROMANO IMPERO, FEDERICO III D’ASBURGO (PADRE DI MASSIMILIANO I). DA RICORDARE CHE L’ANNO SUCCESSIVO, NEL 1453, CI FU L’ASSEDIO, LA CADUTA, E LA CONQUISTA DI COSTANTINOPOLI E, NEL 1492, IN SPAGNA, NON CI FU SOLO L’AVVIO DELL’AVVENTUROSA "SCOPERTA DELL’ AMERICA", MA ANCHE E SOPRATTUTTO LA FINE DELLA GUERRA DI GRANADA E DELLA RECONQUISTA...
BRUXELLES, 1477: “[...] Il Molinet paragona l’imperatore Federico [III d’Asburgo] che manda suo figlio Massimiliano a sposare Maria di Borgogna, con Dio Padre che manda suo figlio in terra, e non risparmia termini religiosi per descrivere il viaggio dello sposo. Quando più tardi Federico e Massimiliano entrarono a Bruxelles col giovane Filippo il Bello, i Brussellesi, narra Molinet, avrebbero detto colle lagrime agli occhi: «Veez-ci figure de la Trinité, le Père, le Fil et Sanct Spirit». Il Molinet stesso offre una corona di fiori a Maria di Borgogna, come alla degna immagine della Madonna, «a parte la verginità».
«Non che io voglia deificare i principi», dice questo arcicortigiano. Può darsi che si tratti effettivamente di vuote frasi più che di venerazione realmente sentita, ma esse attestano ugualmente come l’uso quotidiano di termini sacri finisse per svalutarli. Del resto non sarebbe giusto rimproverare un poetastro di corte, quando un [Jean de] Gerson stesso attribuisce ai principeschi ascoltatori delle sue prediche speciali angeli custodi più elevati in grado di quelli degli altri mortali” (Johan Huizinga, “L’autunno del Medio Evo”, Sansoni Editore, Firenze 1978).
IL RINASCIMENTO, COME FINE DELL’AUTUNNO DEL MEDIO EVO
Mettendo insieme, con l’aiuto di Raffaello e Michelangelo, gli elementi dell’idea di famiglia di Agnolo Doni e Maddalena Strozzi, il Rinascimento mostra essere un "canto del cigno" dell"autunno del Medio Evo (Johan Huizinga). Il 1517, con le 95 Tesi di Lutero, non è lontano...
Questo, il problema: nonostante la grandezza della concezione teologica ed artistica della sacra famiglia che sta alla base della stessa costruzione della Cappella Sistina (1475/1481) prima e della operazione di Michelangelo dopo (1508-1512), ciò che viene detto e comunicato anche con il riferimento nei disegni dietro i ritratti di Raffaello (Agnolo Doni e Maddalena Strozzi: 1504-1508) è una dottrina fondata sulla dotta ignoranza (Niccolo Cusano, 1440), fiammingamente ispirata, di come nascono i bambini (Diluvio, Deucalione e Pirra): il problema dell’incarnazione e della nascita del Messia è ancora letta dal cardinale Cusano come da teologi e teologhe di oggi secondo la lezione dell’antropologia tebana, del codice della tragedia greca (Socrate, Platone, e Aristotele)!
Che dire? Che fare? Per il Sorgere della Terra, una linea di fuga messianica è proprio nella cornice del Tondo Doni. Dare a Giuseppe ciò che è di Giuseppe e a Maria ciò che è di Maria. La storia non è fatta da quattro profeti, ma due sibille e due profeti...
Federico La Sala
Donne protagoniste della loro storia di fede
A colloquio con la storica e teologa Adriana Valerio in occasione dell’8 marzo
di Sabina Baral (Chiesa Evangelica Valdese, Torre Pellice, 4 Marzo 2022)
Il cristianesimo e le donne, un rapporto difficile? A ridosso dell’8 marzo, giornata internazionale della donna, ne abbiamo parlato con Adriana Valerio, storica e teologa, già docente di storia del cristianesimo e delle chiese all’Università “Federico II” di Napoli.
Una ricerca ventennale, la sua, volta a ricostruire la presenza delle donne nella storia cristiana.
C’è urgenza di femminismo nella chiesa e se sì di quale femminismo?
Se per femminismo si intende la consapevolezza da parte delle donne della propria dignità e la richiesta di superare le condizioni di discriminazione, dobbiamo dire che è un’esigenza antica che si pone con continuità nella storia della Chiesa. Non volendo risalire alle posizioni espresse nel Rinascimento dalle donne impegnate in progetti di riforma evangelica (tanto cattolica quanto riformata), è dall’Ottocento che si levano dalle Chiese voci di denuncia e richieste di considerare diversamente i ruoli femminili all’interno delle comunità. Molti sono gli esempi a riguardo: dalle partecipanti all’anticoncilio del 1969 che, in polemica con il Concilio Vaticano I, chiedevano il superamento del clericalismo che opprimeva le donne, alle protagoniste del movimento modernista che auspicavano la riforma liturgica e una diversa interpretazione della Bibbia; dalle uditrici presenti al Vaticano II, che auspicavano una nuova visione antropologica, alle teologhe che propongono oggi la revisione delle discipline teologiche rilette in una chiave di genere.
Oggi le religioni sono tutte in difficoltà storica: un limite o un’opportunità per le donne?
Nelle crisi ci sono sempre opportunità e possibilità di sviluppo. La crisi che sta attraversando la chiesa cattolica con il calo delle vocazioni spinge, per esempio, a riflettere sul ruolo dei laici e sulla necessità di riconoscere il lavoro che le donne già svolgono, soprattutto in terra di missione, dove laiche e religiose hanno importanti mansioni pastorali. Le crisi, però, accentuano anche le paure e tanti nella gerarchia ecclesiastica, davanti al nuovo, hanno paura dei cambiamenti e temono di perdere sicurezze.
Veniamo al binomio donna e teologia. È giusto parlarne al singolare?
No, perché non è mai esistita un’unica elaborazione teologica, nemmeno tra gli uomini. Le donne pongono nuovi interrogativi e fanno emergere la necessità di portare alla luce esperienze femminili dimenticate, mettendo in discussione la costruzione androcentrica delle discipline teologiche e delle strutture ecclesiastiche scarsamente inclusive. Le teologhe si esprimono con modalità diverse anche in sintonia con i diversi contesti culturali nei quali vivono.
Ne è una prova il progetto internazionale, interconfessionale e interculturale «La Bibbia e le donne» che da 15 anni, in 4 lingue, pubblica volumi che studiano la Bibbia e la sua storia di ricezione, relativamente alle questioni di genere. All’interno di questi libri emergono scuole di pensiero che usano differenziati metodi di approccio. Troviamo così espresse la teologia narrativa accanto alla storico-critica, i queer studies accanto al femminismo post-coloniale espresso dai movimenti di liberazione del cosiddetto terzo mondo, in un mosaico variopinto di esperienze e proposte.
Nel suo libro «Le ribelli di Dio», lei ricorda le importanti personalità femminili presenti nella Scrittura, dimostrando il ruolo fondamentale svolto dalle matriarche dell’ebraismo, dalle profetesse e dalle testimoni cristiane. Chi sono oggi le “ribelli di Dio”?
Le forme di dissenso all’interno della Chiesa cattolica si giocano perlopiù intorno alla questione dei ministeri e, nei confronti delle donne, permane la strategia del silenzio, non dando risonanza alle posizioni della teologia femminista, che mette in discussione l’impostazione patriarcale e androcentrica dell’interpretazione biblica, della teologia e della tradizione, e soffocando qualunque istanza di partecipazione ecclesiale che apra all’ordine sacro.
Oggi, nonostante si cerchi di coprire con il silenzio casi scomodi, molte cattoliche in varie parti del mondo si preparano all’ordine sacro illegale o esercitano già il ministero presbiterale in comunità disposte ad accoglierle.
In Francia si è costituito il gruppo Toutes apôtres per aprire il ministero alle donne e la teologa francese Anne Soupa si è candidata alla guida come Vescova della sede vacante della Diocesi di Lione. Queste donne non accettano più di essere oggetto di riflessioni o di decisioni da parte del magistero, unico garante di verità e di ortodossia, ma, in opposizione, affermano di essere soggetti della propria vita di fede, di voler cambiare i canoni interpretativi aprendo le dottrine codificate a nuove prospettive. Verità ed errore, ortodossia ed eresia, in questa riscrittura teologica acquisiscono una diversa luce e il mio ultimo libro Eretiche (Il Mulino 2022) lo mette in evidenza.
L’elezione di Roberta Metsola è un segnale
Potrà non complicare il voto sui diritti riproduttivi, ma legittima le posizioni antiabortiste in Europa
di Giulia Blasi (La svolta, 19 gennaio 2022)
Per parlare dell’elezione di Roberta Metsola a Presidente del Parlamento Europeo non voglio partire da facili dicotomie buono/cattivo. Di Metsola si sta parlando molto perché oltre a essere una donna (con nome e cognome, non la solita Una Donna che per settimane sembrava dovesse diventare Presidente della Repubblica e adesso, come da copione, è sparita dal radar) è anche la più giovane presidente nella storia del Parlamento Europeo, e solo la terza a rompere la lunga teoria di volti maschili incorniciati nei corridoi dei palazzi di Bruxelles.
La morte improvvisa di David Sassoli ha solo accelerato un processo che era già in corso da tempo per la ricerca di una figura all’interno delle fila del centrodestra, e Metsola - già presidente a interim e figura che gode di una grande stima fra i colleghi - è stata eletta anche con i voti del gruppo S&D, il gruppo dei socialisti e democratici guidato da Iratxe García Pérez, politica spagnola apertamente femminista. L’elezione di Metsola con i voti dell’S&D è stata frutto di un negoziato, come sempre succede in questi casi: in cambio del loro sostegno, i socialisti hanno chiesto e ottenuto una serie di nomine a cariche importanti.
Tutto regolare, quindi, dal punto di vista della democrazia parlamentare e del suo funzionamento. Il motivo per cui l’elezione di Roberta Metsola sta facendo discutere è un altro: la neopresidente maltese è nota da tempo per le sue posizioni antiabortiste, espresse anche nel corso del suo mandato come europarlamentare, e Malta è l’unico paese dell’Unione europea ad avere reso la procedura abortiva del tutto illegale (l’ultimo intervento sul tema risale al 2005), senza eccezioni. Cosa che - come sempre accade lì dove l’accesso all’aborto è limitato o vietato - spinge le donne ad andare all’estero per poter interrompere una gravidanza. Quelle che non possono farlo cercano di procurarsi un aborto con altri metodi, non sempre sicuri. Il blocco dei voli in ingresso a marzo 2020 ha anche lasciato le donne maltesi sprovviste di contraccettivi, considerati “non essenziali” dal governo.
Non è certo l’elezione di Metsola a ricordarci che opporsi all’autodeterminazione delle donne non è ancora considerato un difetto invalidante per una figura politica di spicco: nel 2013 il rapporto Estrela, che fra le altre cose chiedeva il riconoscimento dell’accesso all’aborto come diritto umano, fu bocciato dal Parlamento Ue anche a causa dell’astensione di alcuni politici di centrosinistra, fra cui spiccano i nomi di Silvia Costa e Patrizia Toia, ma anche del compianto Sassoli. Anche l’ex presidente Antonio Tajani non ha mai fatto mistero delle sue posizioni antiabortiste. Se Metsola viene giudicata con maggiore severità non è perché ha difeso il diritto del governo maltese di ostacolare il diritto delle cittadine di decidere dei loro corpi, e nemmeno perché da una donna ci si aspetta che quel diritto sia disposta a difenderlo anche contro le sue personali convinzioni. Dal canto suo, la nuova presidente ha emanato vaghe rassicurazioni sulla sua intenzione di rispettare la volontà del Parlamento e la missione dell’Europa di proteggere i diritti di tutti, dichiarazioni che la storia ci insegna essere soggette ad ampia interpretazione.
Il problema è più simbolico che pratico, ma sappiamo benissimo quanto i simboli siano determinanti nel definire questioni politicamente delicate come quella dell’aborto. L’ennesima donna bianca, bionda, rassicurante e conservatrice nella stanza dei bottoni ci mostra che la faccia del potere cambia, ma di poco, e non in un modo che possa minacciare l’ordine costituito. Metsola, come tante prima di lei, si presta a fare da scudo con la sua femminilità a un’osservazione ricorrente di chi si batte per i diritti riproduttivi, vale a dire che la sottorappresentazione delle donne in politica rende più difficile il processo di restituire centralità all’esperienza femminile, in tutte le sue varianti. Metsola è una donna: la sua parola sull’aborto conta, perché viene da una persona con un utero, una persona che l’esperienza di vivere in un corpo femminile la fa ogni giorno, e se la sua parola è contro l’aborto, quella parola verrà assunta come finale da chi ritiene che interrompere una gravidanza sia una scelta aberrante, un crimine a cui opporsi con ogni mezzo, e non una decisione che spetta solo a chi quella gravidanza la ospita.
L’elezione di Roberta Metsola potrà non complicare o sbilanciare il voto sulle questioni legate ai diritti riproduttivi, ma è un segnale. Conferisce legittimità all’azione di quei governi che in Europa lavorano per sopprimere le libertà individuali, inclusa quella di scegliere se portare avanti una gravidanza. Perché l’aborto è, e sarà sempre, solo una questione di controllo dei corpi: la vita non c’entra, la natalità non c’entra, c’entra solo la volontà di sottrarre alle donne e alle persone che possono generare la libertà di disporre di sé.
QUESTIONE ANTROPOLOGICA. EPIFANIA 2022. Non basta mettere al mondo un figlio per dire di esserne anche padri o madri....
PAPA FRANCESCO
UDIENZA GENERALE
Aula Paolo VI
Mercoledì, 5 gennaio 2022
Catechesi su San Giuseppe: 6. San Giuseppe, il padre putativo di Gesù *
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Oggi mediteremo su San Giuseppe come padre di Gesù. Gli Evangelisti Matteo e Luca lo presentano come padre putativo di Gesù e non come padre biologico. Matteo lo precisa, evitando la formula “generò”, usata nella genealogia per tutti gli antenati di Gesù; ma lo definisce «sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù detto il Cristo» (1,16). Mentre Luca lo afferma dicendo che era padre di Gesù «come si riteneva» (3,23), cioè appariva come padre.
Per comprendere la paternità putativa o legale di Giuseppe, occorre tener presente che anticamente in Oriente era molto frequente, più di quanto non sia ai nostri giorni, l’istituto dell’adozione. Si pensi al caso comune presso Israele del “levirato” così formulato nel Deuteronomio: «Quando uno dei fratelli morirà senza lasciare figli, la moglie del defunto non si sposerà con uno di fuori, con un estraneo. Suo cognato si unirà a lei e se la prenderà in moglie, compiendo così verso di lei il dovere di cognato. Il primogenito che ella metterà al mondo, andrà sotto il nome del fratello morto, perché il nome di questi non si estingua in Israele» (25,5-6). In altre parole, il genitore di questo figlio è il cognato, ma il padre legale resta il defunto, che attribuisce al neonato tutti i diritti ereditari. Lo scopo di questa legge era duplice: assicurare la discendenza al defunto e la conservazione del patrimonio.
Come padre ufficiale di Gesù, Giuseppe esercita il diritto di imporre il nome al figlio, riconoscendolo giuridicamente. Giuridicamente è il padre, ma non generativamente, non l’ha generato.
Anticamente il nome era il compendio dell’identità di una persona. Cambiare il nome significava cambiare sé stessi, come nel caso di Abramo, il cui nome Dio cambia in “Abraham”, che significa “padre di molti”, «perché - dice il Libro della Genesi - sarà padre di una moltitudine di nazioni» (17,5). Così per Giacobbe, che viene chiamato “Israele”, che significa “colui che lotta con Dio”, perché ha lottato con Dio per obbligarlo a dargli la benedizione (cfr Gen 32,29; 35,10).
Ma soprattutto dare il nome a qualcuno o a qualcosa significava affermare la propria autorità su ciò che veniva denominato, come fece Adamo quando conferì un nome a tutti gli animali (cfr Gen 2,19-20).
Giuseppe sa già che per il figlio di Maria c’è un nome preparato da Dio - il nome a Gesù lo dà il vero padre di Gesù, Dio - il nome “Gesù”, che significa “Il Signore salva”, come gli spiega l’Angelo: «Egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,21). Questo particolare aspetto della figura di Giuseppe ci permette oggi di fare una riflessione sulla paternità e sulla maternità. E questo credo che sia molto importante: pensare alla paternità, oggi. Perché noi viviamo un’epoca di notoria orfanezza. È curioso: la nostra civiltà è un po’ orfana, e si sente, questa orfanezza. Ci aiuti la figura di San Giuseppe a capire come si risolve il senso di orfanezza che oggi ci fa tanto male.
Non basta mettere al mondo un figlio per dire di esserne anche padri o madri. «Padri non si nasce, lo si diventa. E non lo si diventa solo perché si mette al mondo un figlio, ma perché ci si prende responsabilmente cura di lui. Tutte le volte che qualcuno si assume la responsabilità della vita di un altro, in un certo senso esercita la paternità nei suoi confronti» (Lett. ap. Patris corde). Penso in modo particolare a tutti coloro che si aprono ad accogliere la vita attraverso la via dell’adozione, che è un atteggiamento così generoso e bello. Giuseppe ci mostra che questo tipo di legame non è secondario, non è un ripiego. Questo tipo di scelta è tra le forme più alte di amore e di paternità e maternità. Quanti bambini nel mondo aspettano che qualcuno si prenda cura di loro! E quanti coniugi desiderano essere padri e madri ma non riescono per motivi biologici; o, pur avendo già dei figli, vogliono condividere l’affetto familiare con chi ne è rimasto privo. Non bisogna avere paura di scegliere la via dell’adozione, di assumere il “rischio” dell’accoglienza. E oggi, anche, con l’orfanezza, c’è un certo egoismo.
L’altro giorno, parlavo sull’inverno demografico che c’è oggi: la gente non vuole avere figli, o soltanto uno e niente di più. E tante coppie non hanno figli perché non vogliono o ne hanno soltanto uno perché non ne vogliono altri, ma hanno due cani, due gatti ... Eh sì, cani e gatti occupano il posto dei figli. Sì, fa ridere, capisco, ma è la realtà. E questo rinnegare la paternità e la maternità ci sminuisce, ci toglie umanità. E così la civiltà diviene più vecchia e senza umanità, perché si perde la ricchezza della paternità e della maternità. E soffre la Patria, che non ha figli e - come diceva uno un po’ umoristicamente - “e adesso chi pagherà le tasse per la mia pensione, che non ci sono figli? Chi si farà carico di me?”: rideva, ma è la verità.
Io chiedo a San Giuseppe la grazia di svegliare le coscienze e pensare a questo: ad avere figli. La paternità e la maternità sono la pienezza della vita di una persona. Pensate a questo. È vero, c’è la paternità spirituale per chi si consacra a Dio e la maternità spirituale; ma chi vive nel mondo e si sposa, deve pensare ad avere figli, a dare la vita, perché saranno loro che gli chiuderanno gli occhi, che penseranno al suo futuro. E anche, se non potete avere figli, pensate all’adozione. È un rischio, sì: avere un figlio sempre è un rischio, sia naturale sia d’adozione. Ma più rischioso è non averne. Più rischioso è negare la paternità, negare la maternità, sia la reale sia la spirituale. Un uomo e una donna che volontariamente non sviluppano il senso della paternità e della maternità, mancano qualcosa di principale, di importante. Pensate a questo, per favore.
Auspico che le istituzioni siano sempre pronte ad aiutare in questo senso dell’adozione, vigilando con serietà ma anche semplificando l’iter necessario perché possa realizzarsi il sogno di tanti piccoli che hanno bisogno di una famiglia, e di tanti sposi che desiderano donarsi nell’amore. Tempo fa ho sentito la testimonianza di una persona, un dottore - importante il suo mestiere - non aveva figli e con la moglie hanno deciso di adottarne uno. E quando è arrivato il momento, ne hanno offerto loro uno e hanno detto: “Ma, non sappiamo come andrà la salute di questo. Forse può avere qualche malattia”. E lui disse - lo aveva visto - disse: “Se lei mi avesse domandato questo prima di entrare, forse avrei detto di no. Ma l’ho visto: me lo porto”. Questa è la voglia di essere padre, di essere madre anche nell’adozione. Non abbiate paura di questo.
Prego perché nessuno si senta privo di un legame di amore paterno. E coloro che sono ammalati di orfanezza vadano avanti senza questo sentimento così brutto. Possa San Giuseppe esercitare la sua protezione e il suo aiuto sugli orfani; e interceda per le coppie che desiderano avere un figlio. Per questo preghiamo insieme:
San Giuseppe,
tu che hai amato Gesù con amore di padre,
sii vicino a tanti bambini che non hanno famiglia
e desiderano un papà e una mamma.
Sostieni i coniugi che non riescono ad avere figli,
aiutali a scoprire, attraverso questa sofferenza, un progetto più grande.
Fa’ che a nessuno manchi una casa, un legame,
una persona che si prenda cura di lui o di lei;
e guarisci l’egoismo di chi si chiude alla vita,
perché spalanchi il cuore all’amore.
Saluti [...]
* Fonte: Vatican.va, 05.01.2022 (ripresa parziale).
NOTA:
ANTROPOLOGIA ED #EPIFANIA. "A un uomo e a una donna che non sviluppano il senso della paternità e della maternità manca qualcosa di fondamentale". Che cosa? "#Eccehomo. Come si diventa ciò che si è" (#Nietzsche): sapere #come nascono i bambini.
ARCHEOLOGIA, FILOSOFIA, LOGICA PSICOANALISI E COSTITUZIONE: "IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS" (non il Logo di una fattoria).
DIO E LE LETTERE DELL’ALFABETO. Questa storiella dello Zohar "nasconde" una grande lezione di logica e matematica, antropologia e teologia (e, a mio parere, offre la chiave per meglio capire il senso stesso del riferimento di Baruch Spinoza al detto Homo Homini Deus Est e il messaggio dell’ impresa di Dante Alighieri).
Quando si comincia a contare, da dove bisogna cominciare, per iniziare bene ed essere gà a metà dell’opera?! Chi è che conta e da dove inizia. Perché (come qui, nella storiella dello Zohar) dalla Bet?
Premesso che le lettere dell’alfabeto ebraico sono anche numeri e, quindi, hanno un valore numerico, è opportuno ricordare che alef vale zero (= 0) e che bet vale uno (= 1); e, quando si comincia a contare, si comincia a contare da uno (= 1), appunto, da bet.
Per non perdere la #bussola e, ancor di più, per non lasciarsi sopraffare dalla narcisismica terremotante tentazione di truccare le carte e il conto, però, occorre tenere ben presente che al "Dio" che conta, in un altro testo decisivo della tradizione biblica (Apocalisse di Giovanni), è attribuita la seguente importantissima frase: "Io sono l’alfa e l’omega" (greco koinè: "ἐγὼ τὸ Α καὶ τὸ Ω"). La precisazione è decisiva...
Amore è più forte di Morte (Ct., 8.6). A ben riflettere sull’apocalittica frase, si apre la porta di una chiara #comprensione sul Chi (= X) lega e sa legare "il principio e la fine" (Apocalisse 21:6, 22:13) e, al contempo, sul buon messaggio stesso della "Divina Commedia": "l’amor che move il sole e le altre stelle" (Par. XXXIII, 145).
L’alfa (il principio) e l’omega (la fine), e la bet ("la prima lettera dell’alfabeto), la lettera che indica ""il verso giusto del cammino"!
Bet, la lettera di Benedizione ....
LA PIETRA FONDAMENTALE E LA PIETRA ANGOLARE: "ECCE HOMO". Ogni Uno (=1), Ognuno (ogni Eva e ogni Adamo, ogni Maria e ogni Giuseppe), Ogni Essere umano (Everyman, così Dante Alighieri per Ezra Pound), è antropologicamente e linguistica-mente la lettera dell’alfabeto, la Bet, la lettera di Benedizione e Bereshìt, la Parola che sta "Nel Principio": "Nel Principio era il Logos". L’amor che move il sole e le altre stelle....
Scenari.
Il Dio della fragilità: il Vangelo e le sfide della Chiesa
Il monaco belga Arnold, in Perù dal 1974 e tra i fondatori della teologia andina, rilancia il tema della kenosis, l’abbassamento divino. Piaghe come la pedofilia impongono nuove prospettive
di Roberto Righetto (Avvenire, venerdì 31 dicembre 2021)
La questione dell’indicibiità di Dio è esposta in questo modo da Simone Weil nel saggio L’ombra e la grazia: «Dio può essere presente nella creazione solo nella forma dell’assenza. Il male indica che bisogna collocare Dio a una distanza infinita». E ancora: «Dio non vuole essere temuto attraverso una visibilità ingombrante e soffocante, ma vuole essere cercato, perché ama dissimularsi dentro le pieghe della realtà, in attesa che qualcuno avverta il battito lieve della sua presenza».
Per la filosofa francese nell’atto della creazione Dio si ritira per lasciare spazio all’uomo e al cosmo. È questo il senso del riposo del settimo giorno, commenta il monaco belga Simon Pierre Arnold, che ricorda che secondo la Lettera agli Ebrei questo riposo continua ancora per consentire «una totale riconciliazione nella libertà». Anche l’esistenza del male diviene una prova di questa autolimitazione divina. Discorso alto e difficile, che il filosofo Luigi Pareyson definiva “temerario” e che è stato più volte affrontato da scrittori e pensatori, da Wiesel a Buber, dalla Hillesum a Bonhoeffer, il quale nella debolezza di Dio vede il segno della sua presenza accanto all’umanità ferita, e che ora viene applicato da Arnold, che vive in Perù dal 1974 ed è ritenuto uno dei fondatori della teologia andina, alla condizione della Chiesa oggi.
Un’analisi coraggiosa e a tutto campo che si rivela proficua in vista del Sinodo, contenuta nel saggio Dio è nudo. Inno alla divina fragilità di Simon Pierre Arnold, ora pubblicato da Queriniana (pagine 236, euro 26,00). Si può considerare una sorta di invito a compiere una discesa agli inferi per la fede cristiana, in conseguenza della crisi dovuta alla pandemia - in cui il cattolicesimo è stato spesso incapace di accompagnare la sofferenza delle persone colpite dal Covid e di dire a tutti parole significative sul vivere e sul morire - e alla piaga della pedofilia. Ciò è possibile solo abbandonando l’immagine di un Dio “mago dell’ordine” del cosmo ed assumendo quella di un Dio fragile, quella che san Paolo nella Lettera ai Filippesi chiama kenosis, simbolizzata dalla morte in croce di Gesù: «Qui, Dio non solo si spoglia, ma lo si spoglia, lo si umilia, lo si ridicolizza, lo si sfida a essere Dio secondo le categorie della teologia di Satana. Questo divino Servo sofferente, vulnerabile, re deriso da un’umanità insensata, muore d’amore nella nudità, trafitto da parte a parte. Ma in questa contemplazione del Dio nudo del Vangelo non bisogna dimenticare la Resurrezione. San Giovanni, in particolare, ci descrive in dettaglio la scena della tomba vuota con le bende per terra e il sudario accuratamente piegato. Gesù risorto è un Dio per sempre ferito d’umanità».
Questo abbassamento di Dio quale emerge dal Vangelo, sin dalla nascita di Gesù in una mangiatoia, ha un rilievo anche storico e scientifico. Sulla scia di Teilhard de Chardin, Arnold vede l’Incarnazione come «un mistero avvolgente» che rimane in atto nel cuore della storia e penetra tutta la realtà creata. E non confligge certo con la teoria dell’evoluzione, semmai conferisce un senso del tutto nuovo alla selezione delle specie, che non può essere vista come «un incontro di boxe il cui obiettivo sarebbe l’eliminazione sistematica del diverso e del debole. Dal punto di vista della fede, la selezione non ha come obiettivi, contrariamente alle crudeli evidenze, l’esclusione e il trionfo dell’individuo sul gruppo. Essa è, al contrario, la dinamica della reciproca emulazione verso più vita in comune, verso la cultura e la spiritualità».
Ma torniamo al cattolicesimo, che Arnold sferza per uscire dalla catalessi: «All’interno delle nostre Chiese - egli dice -, come schizofrenici, ci stiamo sgretolando in lotte interne di retroguardia tra conservatori e progressisti, mentre le vere urgenze sono innegabilmente altrove». Vista dal suo Perù, dove ha fondato in riva al lago Titicaca il monastero della Risurrezione, la Chiesa appare «troppo patriarcale e clericale, ossessionata da una visione puritana e dicotomica del mondo». Una requisitoria alquanto severa ma la situazione ecclesiale che stiamo vivendo «è drammatica, peggio dell’epoca che generò Lutero».
Come rispondere a questa crisi? Tornando semplicemente al Vangelo, siglando una nuova configurazione plurale ed egualitaria delle nostre relazioni, seguendo l’esempio di Gesù che rinunciò a tutti i suoi privilegi e invitò gli apostoli a non rivendicare posti d’onore e a concepire la gerarchia non come posizione di potere ma come servizio, sul modello della lavanda dei piedi. E inaugurò una nuova stagione nei rapporti fra uomo e donna.
«Aggrappandoci alle nostre scale - insiste l’autore - e ai nostri privilegi, chiudiamo la breccia attraverso la quale potrebbe penetrare lo Spirito. Il luogo del servizio, dove Gesù si è messo e dove vuole vederci, non ammette tuttavia alcuna eccezione. Non si tratta di un’ideologia astratta e facoltativa, ma piuttosto di un’anti-gerarchia vincolante per tutti e per tutte». Ma «tra le macerie di una Chiesa peccatrice», ci sono anche segni positivi, dal rispetto per i diritti umani al risveglio delle donne, dalla crescita della sensibilità collettiva per l’ecologia alla denuncia degli abusi sugli innocenti.
Tutte battaglie che dopo la Laudato si’ e la Fratelli tutti la Chiesa in qualche modo fa proprie. Ma l’urgenza vera di una Chiesa che torna al Vangelo è quella di tornare a proclamare all’uomo contemporaneo la proposta della fede. Che significa condivisione delle pene e delle gioie di tutti gli uomini ma non una rinuncia all’annuncio della resurrezione. Si chiede Arnold: «Nel nostro mondo sofisticato, da dove potrebbe sorgere ancora lo stupore? Come immaginare una Chiesa che si ritrae, come il suo Signore, che si rende sempre più invisibile per lasciare tutto lo spazio al Vangelo?»
È dal monachesimo e dalla sua scuola del dialogo nel silenzio, esemplificata dai detti dei Padri del deserto («crateri nascosti di senso nuovo e forte che ci salverebbero dalla logorrea onnipresente dell’abbrutimento mediatico: chi saprà osare nuovi detti per un nuovo deserto?»), che può venire una spinta positiva, ma non per cercare oasi perfette isolate dal mondo. Il modello proposto è quello della comunità trappista di Thibirine, capace di una presenza silenziosa ma efficace in una terra non cristiana, una presenza che contempla anche la possibilità del martirio.
Non a caso uno degli ultimi paragrafi del libro si intitola Ripensare la Chiesa in categoria di visitazione: «È giunto il momento di scambiare l’imposizione universale con l’osmosi e la commensalità che ricreano sinfonicamente il mondo, come nell’incontro tra Maria ed Elisabetta».
Roma. C’è Giuditta fra Caravaggio, Artemisia e gli altri
Una mostra affianca al capolavoro di Palazzo Barberini circa trenta opere sul tema dell’eroina biblica. Il confronto, come al solito, è con la figlia di Orazio Gentileschi
di Maurizio Cecchetti (Avvenire, giovedì 30 dicembre 2021)
Quando c’è di mezzo Caravaggio, è bene cercare sempre nel quadro un riflesso della sua vita interiore, della sua psicologia. Per un artista dal carattere rissoso e mosso da un forte sentimento competitivo, che a quanto riporta Gaspare Celio - pittore e trattatista seicentesco di cui qualche anno fa venne scoperta una copia del suo compendio alle Vite del Vasari - forse era fuggito da Milano ancora giovane per evitare processi per un omicidio non ben precisato, e che altri ne commetterà a Roma e altrove, si può pensare che mentre dipingeva il quadro Giuditta decapita Oloferne si ricordasse di ciò che aveva provato assistendo ad alcune esecuzioni capitali, riflettendo su se stesso («e se prima o poi dovesse capitare anche a me?). Nelle azioni drammatiche che dipingeva, spesso lui è dentro il quadro: nel Davide con la testa di Golia, è suo il volto del gigante. Nel Martirio di san Matteo, lui è ai margini della scena e si gira a guardare l’assassinio dell’evangelista; nella Cattura di Cristo è sulla destra che alza la testa per vedere sopra la fila dei soldati venuti per arrestare Gesù... Che cosa vede? Se l’immagine ha un senso, vede Giuda che sta per baciare il suo profeta disarmato mentre lo consegna alla giustizia romana: il quadro è un saggio di antropologia sul tradimento degli “amici”...
A voler stare ai fatti, non ci fu nessuna sfida fra Artemisia e Caravaggio. Tanto più che quando lui morì, nel 1610, ormai lontano da Roma da qualche anno, Artemisia aveva circa diciassette anni e aveva appreso gli strumenti della pittura attraverso il padre, nella cui bottega transitavano artisti di valore e notabili della Roma reduce, dopo il 1600, da uno dei giubilei più fastosi e più orientati al trionfalismo della Chiesa che stava da decenni contrastando l’avanzata protestante.
Se di sfida si può parlare riguardo ad Artemisia, l’unica degna di approfondimenti è quella con la pittura del padre Orazio. Ma di questo parlerò fra poco, perché è un altro il tema della mostra romana ordinata a Palazzo Barberini fino al 27 marzo da Maria Cristina Terzaghi, storica dell’arte con un nutrito carnet di saggi sul Caravaggio (anche lei fu tra i primi a rinvenire la mano del pittore nell’Ecce homo spuntato come un fungo dalla sera alla mattina a Madrid in un’asta, poi ritirato e finito nel caveau del Prado che lo sta facendo pulire per capire se è veramente di Caravaggio).
Il tema della mostra infatti è quello dell’episodio biblico di Giuditta e Oloferne, la cui interpretazione prima di Caravaggio non ebbe mai la stessa capacità di raffigurare un evento efferato e sacro come se stesse accadendo sotto i nostri occhi.
La mostra è accompagnata da un catalogo (Officina libraria) con le opere esposte e le schede per ogni dipinto, precedute da alcuni saggi storici che seguono percorsi iconografici, letterari, sociali, fino agli sviluppi psicoanalitici su “Donne e violenza nell’arte occidentale”. Ovviamente, la curatrice ha redatto un saggio ampio e ponderoso sulla storia del dipinto caravaggesco, a partire dal primo proprietario, il banchiere Ottavio Costa, che possedeva altre due opere del pittore, ma della Giuditta fu particolarmente “geloso” (forse, come pensa la Terzaghi, non voleva che qualcuno convincesse Caravaggio a farne un’altra versione, in realtà io credo che le ragioni fossero legate alla natura e qualità stessa del quadro: inaudita potenza visiva e conturbante bellezza sacra). Quando la tela venne scoperta dal restauratore romano Pico Cellini nel 1951, la retrospettiva del Caravaggio a Milano era stata già inaugurata. Longhi, strabiliato dalla bellezza dell’opera, fece prorogare la mostra di due mesi perché il quadro potesse venire esposto. Ci fu anche il tentativo di venderlo all’estero, ma la pronta notifica vincolò il quadro, che venne acquistato dallo Stato vent’anni dopo, nel 1971, per 250 milioni di lire. Non mi dilungo sugli accostamenti, già fatti nei decenni scorsi, con un fatto di cronaca che fece scalpore, la decapitazione di Beatrice Cenci nel 1599 per aver ucciso il padre che la maltrattava e la segregava. Secondo Gianni Papi, in realtà, l’opera sarebbe successiva, anche a quelle della Cappella Contarelli (ciclo di san Matteo). Un documento che attesta un pagamento del banchiere Costa datato 1602 per un quadro imprecisato, rafforzerebbe il dubbio sulla cronologia. -Segnalo i riferimenti che Terzaghi fa con alcune opere che potrebbero aver ispirato Caravaggio nel momento in cui escogitava l’opera (in particolare una incisione del 1540 di Giovan Battista Scultori derivata da una Giuditta decapita Oloferne di Giulio Romano, che potrebbe far pensare alle peregrinazioni del Merisi in quegli anni “vacanti” tra Milano e Roma, che lo portarono quasi certamente fino a Venezia); e tralascio gli spunti per l’identificazione della modella che prestò la sua bellezza a Giuditta (Longhi l’aveva definita una «Fornarina del naturalismo»), con ogni probabilità Fillide Melandroni, cortigiana senese a Roma fin da adolescente.
Con Artemisia si entra, invece, in un campo minato, perché la “premiata ditta Gentileschi”, «padre e figlia», in realtà è ancora coperta da ombre e da dissidi familiari da chiarire. Da tempo è in atto una ricerca che aspira a distinguere con chiarezza le opere che sono di Orazio e quelle di Artemisia. Non è facile, almeno tra quelle che precedono l’esodo della pittrice da Roma. Resta però, a mio parere, un elemento dirimente che possono negare soltanto quelli che si richiamano ancora al mito femminista di Artemisia - il libro di Anna Banti diede la stura a questa interpretazione da superare -: Orazio è un pittore più bravo di sua figlia. Ed è sulle qualità pittoriche che bisogna trovare un maggior accordo fra gli studiosi.
Il caso da manuale riguarda le due versioni della Giuditta decapita Oloferne attribuite ad Artemisia: quella di Capodimonte, esposta ora a Roma, e quella degli Uffizi: quasi identica l’impostazione, ma in realtà diversa nello spazio, perché quella di Firenze è più ampia e mostra le gambe di Oloferne, ma soprattutto il sangue che sprizza ovunque con una violenza che nel quadro di Capodimonte, seppur più ravvicinato, è attenuata. Quel sangue che imbratta, come uno stigma psicologico, fa pensare a una mano femminile. Nel quadro di Napoli l’eroina indossa un abito azzurro-blu, mentre a Firenze è del tipico giallo che ricorre spesso nella pittura di Artemisia. Orazio dipinge con maggior eleganza e raffinatezza, con una luce che esalta la bellezza “sartoriale” dei tessuti e congela i toni in una visione quasi metafisica (per esempio il bianco dei lenzuoli), come si vede anche nella tela Giuditta e la fantesca con la testa di Oloferne di Hartford.
Vi fu sempre un certo traffico di opere dallo studio di Orazio, dove anche la giovane Artemisia lavorava, e i documenti, che anche la Terzaghi ricorda, oggi insinuano il dubbio che il quadro di Capodimonte possa essere, come sostenevo fin dalla mostra del 1991 che rilanciò il mito di Artemisia, non suo ma di Orazio. Questo, francamente, rende un po’ superficiale il giudizio di Keith Christiansen secondo cui Orazio non badava troppo alla paternità dei suoi dipinti. Se fosse per amore verso la figlia non so, può anche darsi, ma il problema potrebbe invece essere che Artemisia aveva il “complesso di Elettra”, come direbbero gli psicoanalisti, cioè invidiava l’intesa fra Orazio e la sua pittura, vedendola come sostituta della madre. Ci sarebbe ben altro da aggiungere riguardo ai quadri esposti, fra cui figurano, tra i più straordinari, quelli del Valentin, di Cristofano Allori, di Cagnacci, di Manfredi, di Lavinia Fontana, di Pierfrancesco Foschi e del Tintoretto.
Mi limito a due appunti finali sull’impostazione della mostra: aver poco approfondito la diversa interpretazione del tema da parte di mani femminili, rispetto alla predominanza di quelle maschili. Questo è il classico tema su cui si possono indagare due psicologie, se non opposte, complementari.
La seconda riguarda il fatto biblico, rispetto al quale si offre una lettura poco puntuale per lo più vedendo la fortuna del tema in funzione antiprotestante. In sostanza, mi chiedo perché fra saggi storici molto curati, compreso quello del Giano bifronte Filippo Maria Ferro, grande studioso d’arte e psicoanalista, non abbia trovato posto il contributo di un teologo-biblista.
Chi vuole può compensare la carenza appoggiandosi all’ultimo numero di “La Civiltà Cattolica” (4114) dove i gesuiti Saverio Corradino e Giancarlo Pani offrono una propedeutica al tema, ovvero La teologia della storia nel Libro di Giuditta, che il testamento ebraico non ha accolto fra i canonici, ma che i due autori definiscono «a suo modo un midrash sull’intera storia della salvezza».
Udienza. La nuova preghiera del Papa a San Giuseppe per il 2022: proteggi chi fugge
A conclusione dell’ultima udienza generale del 2021, Francesco dona ai fedeli una nuova preghiera allo sposo di Maria, al quale affida i perseguitati di oggi
di Redazione Internet (Avvenire, mercoledì 29 dicembre 2021)
Al termine dell’ultima udienza del 2021, in Aula Paolo VI, papa Francesco dona ai fedeli di tutto il mondo una nuova preghiera a San Giuseppe, uomo giusto e coraggioso, come è stato descritto nella catechesi in cui ha rievocato la fuga dell Sacra Famiglia in Egitto per sfuggire alla persecuzione di Erode, per domandarne la protezione per la vita dei migranti, degli abbandonati e dei perseguitati del nostro tempo.
Ecco il testo:
“San Giuseppe, tu che hai sperimentato la sofferenza di chi deve fuggire tu che sei stato costretto a fuggire per salvare la vita alle persone più care, proteggi tutti coloro che fuggono a causa della guerra, dell’odio, della fame. Sostienili nelle loro difficoltà, rafforzali nella speranza e fa’ che incontrino accoglienza e solidarietà. Guida i loro passi e apri i cuori di coloro che possono aiutarli. Amen.”
Un testo breve in cui si condensano le parole della Patris Corde, la lettera con cui il Papa ha aperto, l’8 dicembre 2020, l’Anno dedicato a San Giuseppe, concluso, sempre l’8 dicembre scorso, durante la visita alla Comunità Cenacolo.
Con la preghiera di oggi, papa Francesco chiede che quella allo sposo di Maria non rimanga solo un’orazione personale ma che tutti i fedeli si rivolgano a lui in questo 2022 e mettano nelle sue mani speranze e difficoltà di “coloro che sono vittime di circostanze avverse e si sentono per questo scoraggiati e abbandonati”.
Da qui l’intenzione di preghiera rivolta ai pellegrini polacchi ma valida per tutti i fedeli del mondo, in vista del nuovo anno:
“Per l’intercessione di Maria Santissima Madre di Dio e di San Giuseppe suo sposo preghiamo che l’anno prossimo sia felice per noi e per tutti gli uomini, che cessi la pandemia e possiamo godere della pace nei nostri cuori, nelle nostre famiglie, nelle società e nel mondo”.
LETTERATURA E FILOSOFIA...
DANTE 2021: "IL BUON DIO STA NEL DETTAGLIO" (diceva Aby Warburg)!
ANTROPOLOGIA E "MISTICA". All’epoca di Miguel de Cervantes (1547-1616), «Dio cammina anche tra le pentole» (Fondazioni V,8): la cavalleria è finita e comincia l’avventura di una nuova fenomenologia dello spirito (già oltre la logica del Padrone e del Servo di Hegel), quella di Teresa d’Avila (1515-1582): sulle ali di Michelangelo (1475-1564) , ella sollecita a ripensare l’incarnazione e la sacra famiglia e comincia a indicare, con sibille e profeti, un cammino antropologico inedito - al di là della tragedia!
La storia non la fanno i soliti "quattro profeti" (si cfr. la scheda sul "Tondo Doni" della Galleria degli Uffizi e si osservino bene le figure nella cornice del quadro).
Federico La Sala
#MESSAGGIOEVANGELICO
E
#MAGISTERO ANTROPOLOGICO
A #FUTURAMEMORIA.
Per una #Cristologia
non andrologica,
lezione di #TeresadAvila,
Tendenze.
Riscrivere la preistoria al femminile? Sì, ma volerlo non basta
Secondo la storica Patou-Mathis la lettura standard della società paleolitica rispecchia quella dell’Europa del XIX secolo che la scoprì: una ricerca ancora tutta da costruire
di Edoardo Castagna (Avvenire, giovedì 16 dicembre 2021)
Come negli studi post-coloniali, anche in quelli che potremmo definire post-maschilisti la pars destruens sembra essere ancora molto più convincente della construens. È senz’altro condivisibile la ricerca di un approccio che in ogni ambito - dalla storia alla sociologia, dall’arte alla filosofia e perfino alla scienza - cerchi di superare pre-giudizi e pre-comprensioni derivanti di un’impostazione “maschiocentrica” (neologismo brutto ma non privo di efficacia), così come lo è, nell’ambito appunto del postcoloniale, l’ambizione di deoccidentalizzare il pensiero. È il grande filone che viene definito, in senso esteso, degli studi subalterni, e che da tempo si sta muovendo in varie direzioni in tutti i campi del sapere.
Inclusa l’archeologia, come ben esemplifica l’ultimo lavoro della storica francese Marylène Patou-Mathis: in La preistoria è donna. Una storia dell’invisibilità delle donne, recentemente pubblicato da Giunti nella collana “i fondamenti” (pagine 290, euro 20,00), la specialista del comportamento dei neandertaliani parte da un assunto difficilmente contestabile: «La preistoria è una scienza giovane, che fa la sua comparsa soltanto a metà dell’Ottocento. È probabile che i ruoli attribuiti ai due sessi nei primi testi di questa nuova disciplina abbiano a che vedere più con la realtà dell’epoca che con quella del tempo delle caverne». Per lungo tempo in effetti è stata data per acquisita una bipartizione dei ruoli, con l’uomo dedito alla caccia e alla guerra e la donna alla cura della famiglia, che proiettava sul Paleolitico esattamente la differenziazione sociale dell’Ottocento occidentale, a sua volta erede di una lunga storia del pensiero. Si tratta di una distorsione prospettica che trova esatti correlativi anche in altre scienze umane; per esempio, sempre nell’Ottocento, era prassi comune interpretare la gerarchia del potere (politico ed economico) allora vigente come un riflesso di un’asimmetrica gerarchia “naturale” dei popoli - naturalmente con i bianchi europei in posizione dominante.
In campo archeologico, il nocciolo dell’argomentazione della Patou-Mathis è che non abbiamo alcuno strumento per attribuire specificamente a uomini o a donne le attività preistoriche di cui siamo a conoscenza grazie ai reperti, dalla caccia alle pitture rupestri. È la convincente pars destruens, appunto: tuttavia, nella pars construens, la ricerca di tracce che possano consentire un pieno ribaltamento di prospettiva appaiono rade e sparse, comunque ancora insufficienti. Se è interessante rimarcare come in alcune pitture rupestri raffiguranti mani in negativo, quelle riconducibili a donne siano almeno quante quelle maschili, oppure rilevare come su alcune ossa femminili compaiano segni di traumi che possono far pensare all’uso di armi, nella maggior parte dei casi i reperti non consentono attribuzioni né a un genere né all’altro. Né convince il ricorso a testimonianze molto più tarde, come quelle celte o scite del V secolo a.C., tentato dalla storica. La Patou-Mathis sembra essere consapevole dei rischi di ideologizzazione che il suo discorso deve affrontare, criticando apertamente alcuni eccessi anche della sua disciplina negli anni del femminismo nascente. Tuttavia, liquida forse un po’ troppo sbrigativamente concetti chiave dell’archeologia del secondo Novecento, come quello della Dea Madre sostenuto con argomentazioni assai forti e convincenti da Marija Gimbutas, come «un’ipotesi tra le altre».
Tuttavia una revisione della nostra comprensione del passato, e del differente ruolo che possono avere avuto le donne nel suo divenire, è più che opportuno, necessario. La ricerca non ha mai un punto di arrivo definitivo, è un pendolo in continua oscillazione. La ricerca di un punto di sintesi o di equilibrio, che rimane sempre provvisorio e parziale, è continua: fino a quando una nuova oscillazione del pendolo non costringa a rimettere tutto in discussione. E questo è il carattere infinito della ricerca.
#DIVINACOMMEDIA (#DANTE2021)!
IL CARDINALE #CUSANO CERCA DI PENSARE L’#INCARNAZIONE MA FA UN PASSO AVANTI E #TRE INDIETRO, VERSO LA #DIALETTTICA COSMOTEANDRICA DELL’#ASSOLUTO DI #HEGEL *
Le tre eresie di Cusano
di Maurizio Morini (Ritiri Filosofici, 21 Novembre 2021)
«Quando entra nel campo del potere-che-è, ossia nel campo dove il potere è in atto, l’intelletto va a caccia di un cibo estremamente nutriente». Con questa promessa, Cusano inizia la descrizione del secondo campo nel quale cercare la sapienza. La linea argomentativa è quella per cui ciò che non può essere, non è: quod esse potest non est. Ne discende una scoperta che Cusano definisce non di poco conto: e cioè che il non essere non è una creatura. In termini parmenidei si direbbe che il nulla non è pensabile e che la domanda “perché l’essere e non il nulla” non ha nemmeno senso perché il nulla non può mai essere. Di fatto, come dirà in altre opere, esiste solo ciò che può essere in quanto ciò che è impossibile non si realizza. Come conseguenza, noi vediamo l’attualità assoluta in virtù della quale le cose che sono in atto sono ciò che esse sono: hinc actualitatem conspicimus. Tutte queste affermazioni implicano uno scontro con le posizioni della tradizione filosofica aristotelico-tomistica.
Nel Possest la coincidenza di possibilità e necessità
Aristotele aveva stabilito il principio secondo cui l’atto è anteriore alla potenza. La potenza infatti, in quanto principio del divenire, non è sufficiente a realizzare il divenire in quanto è necessario che ci sia una causa che trasformi la potenza in atto. Ma questa causa, che Aristotele definisce come causa efficiente, deve necessariamente essere già in atto.
Cusano non accoglie lo schema aristotelico dell’anteriorità dell’atto sulla potenza in quanto né l’attualità né la possibilità possono avere una precedenza: se l’attualità precedesse la possibilità, allora essa non sarebbe più attualità (che attualità sarebbe infatti quella che si risolvesse in una non attualità?); se la possibilità precedesse l’attualità si avrebbe invece un regresso all’infinito (perché ogni attualità richiederebbe sempre una possibilità che la porta all’atto e via di seguito).
La conseguenza di questo ragionamento è quella di ammettere la coincidenza di possibilità e necessità. Tale coincidenza ha bisogno di un nome e Cusano inventa il neologismo possest, termine che nasce dalla composizione di due termini, posse-est, traducibile con l’espressione il poter essere che è. Con questo termine egli indica la coincidenza, nell’assoluto, del poter essere con l’essere in atto. Tutte le cose, nella realtà indicata da questo termine, sono complicate, perché tutto ciò che esiste, per esistere, deve poter esistere, e dunque deve esistere in quello che è il potere allo stato puro. Ma in questo potere assoluto, che è un potere che è, nel quale l’essere coincide con il potere e la possibilità con l’attualità, devono essere incluse (cioè complicate nel linguaggio cusaniano) tutte le cose. Nel termine possest il Cardinale conia un termine che esprime la congiunzione della potenza di divenire e della potenza divenuta. Poter essere è dunque poter essere in atto, per cui siccome questo poter essere è considerato in atto, si dice che questo poter essere è un posse. Si tratta di una conclusione talmente forte che, prima di proseguire, Cusano la nasconde dietro tre affermazioni che, con l’apparenza di essere devote, contengono altrettante eresie le quali, ad altri pensatori, in altri tempi e in altri modi, sono costate la libertà e la vita.
Un Dio glorioso che non compie miracoli
Quello che noi consideriamo come Dio nella nostra tradizione, afferma Cusano, non è altro che la coincidenza dell’atto puro e della potenza pura. Nonostante egli chiami questa coincidenza Dio glorioso, l’affermazione si risolve in una vera e propria eresia rispetto al pensiero ortodosso, perché la potenza pura era da sempre stata considerata il prodotto dell’atto: ad esempio, come applicazione di questo schema, la prima cosa che Dio produce è la materia la quale, nella tradizione scolastica, non ha niente a che vedere con Dio, il quale era considerato piuttosto come una sostanza costituita da un’essenza diversa da quella che possiede la sostanza materia. Cusano cancella un simile quadro teorico perché quello che era un effetto, la materia, lo inserisce nella causa, che egli chiama Dio, considerata simultaneamente come un soggetto di contrari.
Il risultato di questo ragionamento produce una seconda eresia consistente nel rifiuto del concetto di eminenza. Con questo termine la tradizione aveva designato un modo di esistenza in cui, ciò che si dà attualmente nel mondo, è presente in modo diverso nell’idea di Dio. Questo significa che la creatura è contenuta nella mente del creatore in modo qualitativamente diverso rispetto a quello della creatura: in Dio (ad esempio) anche il mio gatto esiste, ma non esiste così come esiste in sé o come esiste nella mia mente: esiste in un modo diverso (diversità intesa come perfezione) in quanto la sua vera natura non è attingibile dalla nostra conoscenza.
Come conseguenza di questo approccio teorico della Scolastica, la potenza di Dio poteva essere concepita contemporaneamente in due modi: potenza assoluta e potenza ordinata. In quanto Dio è Dio, la potenza di Dio è assoluta; se invece si considera la potenza di Dio espressa nel mondo, la potenza ordinata, questa potenza non è assoluta, perché si ritiene che il mondo non sia tutto ciò che Dio poteva creare e che esso sia una tra le creature di Dio. Nel caso del gatto, esso esiste ed è stato creato; ma il gatto non solo non poteva non essere stato creato ma esistono nella mente di Dio tutta una serie di gatti che, trattenuti nella sua mente, non sono stati creati. Si ritiene cioè che non tutto ciò che è nell’intelletto di Dio è stato da lui creato: la sua volontà infatti avrebbe fatto da filtro rispetto all’infinità delle idee che sono in Dio, idee che solo in parte si sono tradotte nel mondo.
Anche in questo caso Cusano liquida la tradizione perché il concetto di Dio coincide con la possibilità attuata in cui non vi è più alcun residuo di possibilità da esplicare. Se la creazione deriva dalla natura di Dio (e non dalla volontà), se questa natura è infinita, anche l’effetto è infinito, e quindi dobbiamo dire che nel mondo c’è la piena e totale espressione della potenza di Dio. Dire ciò significa anche abolire il principio dei miracoli, ovvero che Dio non può, a partire dalla sua volontà, porre in essere qualcosa che prima era nella sua mente.
La materia è parte di Dio
La coincidenza di possibilità e necessità provoca un mutamento anche nel concetto di materia e ciò dà luogo alla terza eresia, sicuramente quella più scandalosa. Nella Dotta ignoranza, Cusano aveva già spiegato che il concetto della possibilità coincideva con quello della materia. Il problema è che la tradizione aristotelica era giunta a quel concetto nella modalità del non sapere, pensandola come possibilità eretta come principio assoluto e che coesisteva con lo stesso Dio (il quale era pensato in termini puramente spirituali). I platonici chiamarono la possibilità assoluta mancanza, in quanto essa manca di ogni forma. Gli aristotelici la definivano “quasi niente”, perché la materia aveva soltanto in minimo grado le qualità della sostanza. Di conseguenza, essi sostenevano che le forme sono presenti nella materia solo allo stato di possibilità. concludendo poi con la tesi che nella possibilità è presente la totalità delle cose. Cusano stabilisce invece che è impossibile che vi sia una possibilità assoluta, non congiunta cioè con l’atto, perché altrimenti bisognerebbe ammettere conseguenze assurde, come riconoscere un’infinità che parte dalla mancanza: cosa del tutto contraria a Dio perché semmai, in lui, l’infinità non può che partire da un’abbondanza.
Nasce il modello della causalità immanente
Come osserva un interlocutore del cardinale, si deve dire che Dio è in tutte le cose in modo tale da non poter essere altro quello che è. Questa, dice Cusano, è una dottrina da sostenere nel modo più fermo perché la coincidenza nell’assoluto di potenza ed atto consente di spiegare altrimenti la sua dottrina della complicatio. Dio infatti è tutte le cose in modo tale da non essere una di esse più di quanto non sia un’altra. Dio è sole ma non secondo il modo di essere del sole, il quale non è tutto ciò che può essere. Se questa prospettiva si può definire panteistica, non si deve dimenticare il modo esatto in cui essa si qualifica. Nel potere-che-è sono complicate tutte le cose e nessun grado di conoscenza riesce a coglierlo. Ma, soprattutto, «il potere, considerato in senso assoluto, è ogni potere. Pertanto se io vedessi che ogni potere è in atto non resterebbe più nulla. Se infatti restasse qualcosa, si tratterebbe pur sempre di qualcosa che potrebbe essere, per cui non resterebbe se prima non fosse già stata compresa nel potere». La conseguenza di questo discorso è che qualcosa, per essere qualcosa, deve avere la potenza di essere ciò che è e quindi, se non c’è il poter essere, non esiste nulla. Così come non si porta un’onda fuori del mare, è necessario che tutte le cose che sono, siano esistite da sempre nell’eternità: ciò che è stato creato è sempre esistito nel poter essere. Tutte le cose che sono e che si muovono, sono e si muovono nel possest.
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Come funziona il cervello di una mamma
di Pamela Boldrin *
A.A.A. cercasi candidata con le seguenti abilità: flessibilità cognitiva, buona memoria di lavoro, controllo dell’attenzione, multitasking, focalizzazione dei bisogni, organizzazione delle cure, capacità di interpretare le richieste del linguaggio pre-verbale e conseguente formulazione di risposte coerenti ai bisogni. Per tale posizione il compenso sarà corrisposto sotto forma di gratificazione profusa e spontanea derivante dall’esercizio delle suddette abilità nel rapporto con il beneficiario.
Quanto appena elencato potrebbe sembrare un profilo curriculare per una posizione molto pretenziosa, ma è soltanto un sommario elenco delle abilità che si svilupperanno nella donna che sta per diventare mamma. Queste abilità sono tutte fondamentali alla realizzazione di un attaccamento ottimale tra madre e prole, ma il fatto straordinario è che queste capacità non si ottengono iscrivendosi ad alcun corso per gestanti! Infatti la scienza sta sempre più dimostrando che le abilità essenziali all’accudimento del bebè “sbocciano” nella neo-mamma grazie a una rivoluzione all’interno del suo cervello. Questo laborioso mutamento si scatenerebbe sin dall’instaurarsi della gravidanza, sviluppando il cosiddetto “maternal brain”. In dettaglio: che cosa avviene e cosa ne sappiamo?
La prima osservazione dei cambiamenti del cervello femminile durante la gestazione risale addirittura al 1909, quando Erdheim e Stumme constatarono l’ingrossamento dell’ipofisi, una ghiandola situata alla base del cranio, durante alcune autopsie in donne decedute in stato di gravidanza. Questo fu il primo passo di un settore d’indagine che sta ora avendo un grande sviluppo grazie alle recenti innovazioni tecnologiche. Molto di ciò che sappiamo lo dobbiamo agli studi su animali, ma, grazie alla messa a punto di strumenti di ricerca non invasivi, come la risonanza magnetica cerebrale, è ora divenuto sempre più possibile studiare alcune trasformazioni anche nelle donne, e farlo in vivo.
Ci si potrebbe chiedere perché sia così importante in natura l’attaccamento, perché coinvolga tante risorse in termini di consumi energetici da parte del cervello. La ragione è semplice: lo è perché è indispensabile per la sopravvivenza. Tutti gli animali nascono vulnerabili e dipendono inevitabilmente dalle cure della madre. Gli umani più di tutti: si pensi che ogni umano impiega circa un anno per imparare a camminare, a differenza degli animali che lo fanno appena nati. Ecco perché, da un punto di vista evoluzionistico, tutti i mutamenti del cervello che hanno come risultato la cura e l’attaccamento alla prole, risultano decisivi per la sopravvivenza dei figli, e sono dunque vincenti.
Che cosa avviene, dunque, durante il periodo gestazionale? Già da molto si è ad esempio a conoscenza delle fluttuazioni periodiche dei flussi ormonali, in particolare di ossitocina, prolattina e ormoni steroidei, tra i quali i glucocorticoidi. Questi ultimi, incluso il famoso cortisolo (detto anche “ormone dello stress”), intervengono nelle risposte di reazione agli eventi stressanti. La donna gravida è meno vulnerabile allo stress, ed è logico pensare che lo sia proprio per evitare che questi ormoni, alzandosi di livello, raggiungano il feto e lo danneggino.
Se, da un lato è utile che il livello di cortisolo sia contenuto, dall’altro, l’ossitocina è invece prodotta in maggior quantità proprio in gravidanza, in quanto è coinvolta nei meccanismi che facilitano i comportamenti materni. Non solo per questo, però. L’ossitocina si libera in dosi massimali durante il parto naturale (non nel parto cesareo) poiché ha la funzione di indurre le contrazioni uterine, ed è proprio per questo che viene talvolta somministrato anche nelle donne in travaglio. Ciò che è meno noto è il suo ruolo più complesso nel processo di mutamento di alcune aree cerebrali che porta al maternal brain (Russel et al., 1998).
Uno dei bersagli dell’ossitocina è ad esempio il bulbo olfattivo, un’area cerebrale che permette di sentire e interpretare gli odori. Le neomamme, grazie al coinvolgimento di quest’area, percepiscono con più enfasi l’odore del neonato e dimostrano di apprezzarlo rispetto alle donne non madri (come dimostrato da Fleming et al., 1997). La produzione di ossitocina, terminato il parto, viene nuovamente stimolata dal contatto madre-neonato e dall’allattamento al seno, favorendo ancora una volta il processo di attaccamento. È proprio per questo motivo che negli ultimi anni i reparti di maternità sempre più incoraggiano il cosiddetto rooming-in, cioè la convivenza stretta tra mamma e neonato sin dalla degenza ospedaliera.
Altra protagonista molto attiva è la prolattina: che non solo stimola la produzione del latte, ma che è attiva anche nel “cantiere di costruzione” del maternal brain (Mann e Bridges, 2001). Dopo il parto, nonostante la stanchezza, le mamme sperimentano il bisogno di tenere in braccio quanto più possibile il loro figlio e sembrano particolarmente gratificate da ciò. Tale atteggiamento, che fa parte delle misure proattive all’attaccamento, e che ha un’importante componente culturale tra gli umani, è innanzitutto naturale. È infatti dovuto all’attivazione di un circuito cerebrale di gratificazione atto a ricompensare la madre con sensazioni di benessere provenienti dalla sua interazione con il neonato. E se il rapporto con il neonato viene a mancare? Nei ratti si è visto che lo stabilizzarsi di atteggiamenti materni non avviene qualora, dopo il parto, venga a mancare la relazione con la prole (Numan, 2006). Non vi è ancora un’evidenza simile negli umani, e sarebbe interessante poterne disporre nella discussione del maternal brain umano.
Abbiamo invece evidenza che nelle madri umane, nei giorni successivi al parto, si può sviluppare un altro fenomeno, tutt’altro che sporadico: e cioè un tono dell’umore depresso, chiamato anche “maternity blues”. Alcuni studi dimostrano che questo cambiamento del tono dell’umore può essere innescato dal drammatico calo post-partum degli ormoni steroidei, che si sa essere coinvolti nella regolazione dell’umore. Nella maggior parte dei casi la depressione dell’umore si risolve spontaneamente ma può talvolta essere più grave e di maggior durata (depressione post-partum).
Chiaramente, capire i meccanismi alla base di questi eventi e riconoscere precocemente le situazioni critiche è di fondamentale importanza per la salute della donna e per quella del bambino, poiché la qualità dell’umore condiziona la qualità dell’attaccamento.
Le ricerche sulle modificazioni cerebrali del maternal brain sono ancora in uno stadio di sviluppo tuttora incompleto, ma, come si è detto, qualcosa di più preciso sui cambiamenti riguardanti il cervello delle donne ci arriva ora dall’impiego della risonanza magnetica cerebrale. Questa tecnica ci consente di ottenere immagini delle strutture cerebrali, che, in grossolana semplificazione, si dividono in sostanza grigia e sostanza bianca. La sostanza grigia è composta dai corpi dei neuroni, mentre la bianca dai prolungamenti che fuoriescono dal corpo cellulare. Qualche anno fa Oatridge et al. (2001) avevano evidenziato modifiche strutturali riguardanti la sostanza grigia nelle gravide.
Uno degli studi più recenti sul tema (Hoekzema et al., 2016) ha confermato un rimodellamento, in particolare in alcune aree, della sostanza grigia, in donne studiate sia prima di iniziare la gravidanza, sia dopo il parto. Le immagini hanno rivelato che le aree di sostanza grigia che si modificano nella gravida sono perlopiù le stesse coinvolte, come noto da precedenti studi, nella cognizione sociale e nella teoria della mente (brevemente, la capacità di capire gli stati mentali altrui e prevederli).
Questo lavoro, però, ha apportato un dato nuovo e molto importante: questi cambiamenti permangono anche a distanza di due anni ed è dunque verosimile che siano permanenti. In sostanza, le mamme acquisiscono, probabilmente per sempre, un cervello specializzato nelle abilità di accudimento. Inoltre, si è visto che quanto più evidenti sono le modifiche strutturali in tali aree cerebrali, tanto più è migliore la qualità dell’attaccamento madre-figlio. Hoekzema ed i suoi collaboratori affermano di averlo dimostrato dopo aver sottoposto le mamme alla visione d’immagini dei propri figli e di bambini estranei. Hanno osservato che le aree metabolicamente più attive alla vista del proprio figlio (e non del bambino sconosciuto) erano proprio le stesse nelle quali si era osservato il cambiamento strutturale della sostanza grigia. Questo sosterrebbe l’evidenza della correlazione tra manifestazioni di attaccamento e plasticità delle suddette aree.
In sintesi, dagli studi su animali si è appreso che le variazioni ormonali producono modificazioni strutturali nel cervello atte a infondere nelle madri animali un interesse esclusivo per la propria prole, con massima attenzione per la protezione e la nutrizione. Nelle mamme umane avvengono dei meccanismi simili, tuttavia, poiché il cervello umano beneficia di specializzazioni uniche in natura, tra le quali il linguaggio e la teoria della mente, i risultati sono ancora più sorprendenti.
Le mamme umane si esprimono quotidianamente con il linguaggio verbale complesso degli adulti, ma in nove mesi di metamorfosi acquisiscono anche la capacità di empatizzare con i neonati e di cogliere il loro linguaggio non verbale, in particolare il pianto, che è il principale mezzo di comunicazione del neonato. La sovrapponibilità delle aree del maternal brain con quelle della teoria della mente ci suggerisce l’affinità tra queste capacità e ci insegna come l’attitudine di capire i bisogni del neonato rappresenti un perfezionamento della più generica abilità di comprensione dello stato mentale dell’altro. Si dice comunemente che le mamme sanno perché i loro bambini piangono e, in effetti, lo sanno proprio perché il vero corso di puericultura si realizza spontaneamente dentro di essi nei nove mesi di gestazione.
Molte domande sono ancora senza risposta sul fenomeno della maternità, ad esempio: cosa avviene di simile o di diverso nel cervello della mamma che attende il secondo o terzo figlio? Le stesse modifiche si ri-attualizzano giacché sono individuo-dipendenti, oppure, dato che l’atteggiamento materno è già stato promosso con il primo figlio, l’organismo evita un successivo investimento di risorse?
Molto interessante sarebbe comprendere come la cultura influenzi la maternità: infatti, nell’animale i cambiamenti cerebrali non sono mai promossi dalla volontà né sostenuti da una pianificazione, ma sono puramente istintivi. Gli umani, invece, si preparano per anni prima di costruire una famiglia e nella progettazione rientrano moltissime variabili. Come possono, ad esempio, l’attesa, il desiderio o le qualità del vissuto influire sulla gestazione? Il corpo della mamma non è separato dalla creatura nel suo grembo, anzi, vi è un’intensa comunicazione bidirezionale ed è ragionevole pensare che anche il mondo psichico della madre possa influenzare il feto. Come già si è dimostrato in caso di eventi catastrofici, a causa dei quali lo stress notevole vissuto dalla donna in gravidanza può avere conseguenze sul neonato (a tal proposito è d’interesse particolare il lavoro di Annie Murphy Paul).
Biologia e psicologia ci informano che il momento generativo è un periodo di coinvolgimento globale in cui un intero corpo si adatta, fa spazio e muta in funzione della nuova presenza che si sta formando al suo interno. I dati scientifici e le conclusioni sul maternal brain avrebbero bisogno di raggiungere maggiormente il dibattito pubblico date le loro implicazioni, ad esempio, sul piano bioetico. Si pensi alla pratica della surrogazione di maternità, presente in vari paesi, più comunemente definita in Italia (dove non è legale) come “utero in affitto”, definizione che rivela come sia ancora poco compreso che il cambiamento strutturale in gravidanza vada concepito su un piano più globale, che ha profonde implicazioni anche sul piano cognitivo.
Diventare madre significa cambiare la propria capacità di percepire e accogliere “l’altro”. L’esperienza della gestazione è così compenetrante tra i due esseri viventi separati e uniti allo stesso tempo da una placenta, da lasciare tracce indelebili. Ma vi sono altri fenomeni degni di nota, a questo riguardo. Uno è il cosiddetto “microchimerismo fetale”, in altre parole lo scambio tra madre e feto di cellule che migrano e s’insediano vicendevolmente nell’organismo dell’altro. Questo fenomeno è tanto misterioso quanto affascinante, in quanto sembra che le cellule del figlio si distribuiscano in vari distretti del corpo della madre, procurando ipotetici effetti (Kamper-Jorgensen et al., 2014). Si pensa, ad esempio, che da un lato possano innescare processi autoimmuni nelle madri, dall’altro, invece, che possano costituire un’utile riserva in alcune situazioni di necessità. Il dato clamoroso è che il microchimerismo fetale potrebbe, in alcuni casi, aumentare le possibilità di sopravvivenza della donna. Possibilità che sarebbe rinforzata anche da un altro fenomeno, legato alla lunghezza dei telomeri, sequenze di nucleotidi che proteggono il DNA dalle aggressioni. I telomeri sarebbero dei marker dell’invecchiamento, infatti, quanto più si accorciano tanto più si avvicina la fine dell’organismo.
Uno studio (Barha et al., 2016) di lungo periodo compiuto su un gruppo di donne ha rivelato che le più prolifiche possedevano i telomeri più lunghi ed erano anche le più longeve. Questo risultato è in antitesi con quanto visto nel mondo animale, dove la prolificità è inversamente proporzionale alla sopravvivenza. Questi sono dati che attendono conferme, in quanto, illuminerebbero con nuove interessanti riflessioni l’esperienza della maternità.
Di certo, le peculiari abilità cognitive umane sono una risorsa che avvantaggia le donne rispetto al restante mondo animale e, su questo versante, ancora molta strada rimane da fare. Una miglior comprensione del maternal brain è sicuramente importante. Per quanto si è appreso finora, il diventare mamma è una missione così rilevante da potenziare in modo unico la capacità di accudimento. Se poi possa far anche vivere più a lungo...
Bibliografia:
Erdheim, J. e Stumme E., “Über die Schwangerschaftsveränderung der Hypophyse”. Ziegler’s. Beitr. Pathol. Anat. 45, 1-17 (1909);
Schulte, H. M., Weisner, D. & Allolio, B., “The corticotrophin releasing hormone test in late pregnancy: lack of adrenocorticotrophin and cortisol response”. Clin. Endocrinol. 33, 99-106 (1990);
Hartikainen-Sorri, A. L., Kirkinen, P., Sorri, M., Antonen, H. & Tuimala, R. “No effect of experimental noise exposure on human pregnancy”. Obstet. Gynecol. 77, 611-615 (1991).
Russell, J. A. e Leng, G. “Sex, parturition and motherhood without oxytocin?” J. Endocrinol. 157, 342-359 (1998).
Mann, P. E. e Bridges, R. S., “Lactogenic hormone regulation of maternal behavior”. Prog. Brain Res. 133, 251-262 (2001).
Torner, L., et al., “Increased hypothalamic expression of prolactin in lactation: involvement in behavioural and neuroendocrine stress responses”. Eur. J. Neurosci. 15, 1381-1389 (2002).
Byrnes, E. M. e Bridges, R. S., “Endogenous opioid facilitation of maternal memory in rats”. Behav. Neurosci. 114, 797-804 (2000).
Numan, M., “Hypothalamic neural circuits regulating maternal responsiveness toward infants”. Behav. Cogn. Neurosci. Rev. 5, 163-190 (2006).
Brunton, P.J. e Russell, J.A. “The expectant brain: adapting for motherhood”. Nat. Rev. Neurosci. 9, 11-25 (2008).
Fleming, A. C., Steiner M, Corter C., “Cortisol, hedonics, and maternal responsiveness in human mothers”. Horm Behav; 32: 85-98 (1997).
Oatridge, A. et al. “Change in brain size during and after pregnancy: study in healthy women and women with preeclampsia”. AJNR Am. J. Neuroradiol. 23, 19-26 (2002)
Murphy Paul, A. Origing: How the Nine Months Before Birth Shape the Rest of Our Lives. Free Press, (2010).
Kamper-Jørgensen, M. et al. “Male microchimerism and survival among women”. Int J Epidemiol 43 (1): 168-173 (2013).
Barha, C.K. et al. “Number of Children and Telomere Length in Women: A Prospective, Longitudinal Evaluation”. PLoS One 11, (2016).
Articolo in collaborazione con Scienza in rete
* Fonte: "iit -Istituto Italiano di Tecnologia", 10/05/2019 (ripresa parziale).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"UNA VOCE” FUORI DAL CORO. Come ha scritto Franca Ongaro Basaglia ("Una voce. Riflessioni sulla donna", il Saggiatore, 1982), continuiamo a fare "un’operazione matematica ritenuta abitualmente sbagliata: un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" e a leggere per lo più e sempre il vecchio "romanzo familiare", quello di Edipo!
ANTROPOLOGIA, MATEMATICA, E PSICHIATRIA. Pur avendo Freud dato già dal 1907 ("Lettera al dottor M. Furst") chiare indicazioni per lavorare congiuntamente a una nuova #educazionecivica e a una nuova #educazionesessuale, per una "sane society" (Erich Fromm, 1955), l’Italia (come l’Europa e l’intero Pianeta) naviga ancora in un oceano illuminato da una diffusa cosmoteandria!
Federico La Sala
UNA QUESTIONE FILOLOGICA E ANTROPOLOGICA, EPOCALE:
"L’ #Amore non verrà mai meno": un breve video di @Mode_Valdese con una riflessione e un invito a seguirci - con le opportune restrizioni - nelle attività relative al #sinodovaldese e metodista tra il 22 e il 25 agosto, da Torre Pellice (TO).
"L’ #Amore non verrà mai meno" (1 Cor. 13, 8). Domanda, ma quello antropologico-evangelico o quello andrologico-paolino ("di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo (gr. ἀνήρ ἀνδρός «uomo»), e capo di Cristo è Dio": 1 Cor. 11, 1-3).)?! Non è bene precisarlo? Grazie.
ANTROPOLOGIA E TEOLOGIA. IL PROBLEMA DEL "DE DOMO DAVID" E DEL "COME NASCONO I BAMBINI", OGGI... *
DE DOMO DAVID. Gesù "Venne a Nàzaret, dove era cresciuto (..) Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?»
La fedeltà e il riscatto /16.
E il respiro divenne bambino
di Luigino Bruni *
«Così Boaz prese in moglie Rut. Egli si unì a lei e il Signore le accordò di concepire: ella partorì un figlio. E le donne dicevano a Noemi: "Benedetto il Signore, il quale oggi non ti ha fatto mancare uno che esercitasse il diritto di riscatto. Il suo nome sarà ricordato in Israele! Egli sarà il tuo consolatore e il sostegno della tua vecchiaia, perché lo ha partorito tua nuora, che ti ama e che vale per te più di sette figli"» (Rut 4,13-15). Tornano in scena le donne di Betlemme, come coro in una tragedia greca. Il libro di Rut è molte cose, tutte belle, ma bellissime sono le donne. Prima di iniziarne il commento sapevo che Rut era un libro al femminile; non pensavo però lo fosse così intensamente. Una grande sorpresa, ma anche un modo per onorare le donne che in questo tempo di pandemia hanno sorretto, con la loro cura, il mondo. Le donne donano, ancora una volta, parole meravigliose a Noemi, e a noi. L’ambiente della benedizione è ancora la reciprocità: Rut mette al mondo un bambino, le donne dicono che quel bambino riscatterà Noemi, amata da Rut, che per lei vale come molti figli. Una danza d’amore stupenda, una circolazione di hesed, di agape e di philia. Reciprocità diretta e indiretta, autentica protagonista del libro.
In un libro tutto centrato attorno alla grande figura-istituzione del goèl, il riscattatore-redentore, alla fine scopriamo che il goèl non è solo Boaz: l’altro goèl è il bambino. Quel bambino riscatterà le due donne, e sarà il loro consolatore, il loro hiphil, colui che, letteralmente, "fa tornare il respiro", colui che "ridona il fiato", il rianimatore.
È molto bella questa definizione del bambino di Rut come goèl e come rianimatore. Ogni giorno assistiamo nelle nostre famiglie all’arrivo di bambini che nascendo ridanno fiato a una madre, a un padre, a una nonna. Coppie stanche, famiglie sfiatate, ricominciano a respirare col bambino che nasce. Ogni bambino non porta con sé soltanto il fagotto di provvidenza, porta anche ossigeno per ricominciare a respirare, o per respirare tutti meglio. I bambini allungano la vita non solo perché fanno affacciare la nostra esistenza al di là di essa, ma perché estendono il nostro respirare, ci danno una gioia e una voglia di vivere che non avremo senza quel dono. I bambini forzano il nostro destino e ci donano giorni di vita extra, che decidiamo di vivere solo per poter rivedere un figlio o una nipote ancora domani. Ci insegnano a contare i nostri giorni con un’altra sapienza del cuore.
Il bambino di Rut è il riscattare di Noemi, è il suo secondo goèl. Boaz, il primo goèl, poteva riscattare solo il terreno e garantire una sussistenza materiale a Rut e a sua suocera; ma il libro ci ha continuamente detto che il vero riscatto di Rut e Noemi era un figlio. Questo riscatto non può essere garantito con atti giuridici e neanche con il matrimonio.
È solo e soltanto dono. Perché ogni bambino è dono, e non c’è dono più puro e grande di un figlio. Ogni figlio è qualcosa di più di un fatto naturale e necessario. Siccome nella natura esiste anche la sterilità, per l’arrivo di un figlio la natura non basta. E anche se la nostra cultura ha perso il senso religioso della generatività, un bambino che arriva è la gioia più grande perché porta iscritta in sé questa dimensione essenziale di libertà e di dono. Se un giorno il senso religioso dovesse scomparire dalla faccia della terra, potrà sempre rinascere insieme a un bambino.
«Noemi prese il bambino, se lo pose nel seno e gli fece da nutrice. Le vicine gli cercavano un nome e dicevano: "È nato un figlio a Noemi!"» (4,16-17). Il padre, Boaz esce di scena subito dopo aver svolto il suo compito - il midrash Leqah lo fa morire il giorno dopo le nozze ("Le leggende degli ebrei", vol. VI). -Il nome e lo svezzamento del bambino diventano una faccenda interamente femminile, anche perché lo sono davvero. Il monopolio femminile dei primi anni di vita dei bambini e delle bambine è stata una delle leggi auree non scritte delle civiltà. Fino alla generazione dei miei genitori gli uomini erano ospiti temporanei e provvisori dell’educazione primaria dei loro bambini. Si affacciavano ogni tanto sull’uscio, poi si ritraevano subito per mancanza di tatto e di competenze. In quel mondo i bambini erano i tesori delle donne (mamme, nonne, zie, sorelle), tesori fugaci e passeggeri, spesso le uniche gioie in vite difficili e ingiuste.
È nato un figlio a Noemi: il figlio era nato a Rut, ma ieri più di oggi ogni figlio che nasce a una figlia è anche figlio della madre di lei. Pochi amori sono più grandi di quello di una nonna per un/a nipote, impossibile da comparare a quello dei genitori, e se fossimo capaci di calcolarlo non lo scopriremmo minore, solo diverso. Ce ne accorgiamo, per contrasto drammatico, quando entra in campo la sofferenza per un nipote: quella dei nonni è una sofferenza aumentata, quella per il nipote moltiplicata per quella dei suoi genitori, un prodotto che sfiora l’infinito.
Inoltre, come unica volta nella Bibbia, il figlio viene attribuito a una donna e non a un uomo (per esempio: «A Set nacque un figlio, che chiamò Enos»: Gn 4,26). E Noemi non è più l’amara e la vuota, Dio l’ha riempita con un bambino. Lei diventa nutrice del bambino che a sua volta le darà respiro nella sua vecchiaia: ancora una faccenda di reciprocità. Le donne scelgono addirittura il nome per il bambino, anche qui unico caso nella Bibbia, perché non sono le vicine di casa né le donne del paese a scegliere il nome di un bambino. Qui invece le donne danno il nome al figlio di Rut-Noemi, forse per dirci qualcosa che le altre donne della Bibbia ci avrebbero detto se avessero potuto prendere più spesso la parola: un figlio non è un bene privato, è bene comune, è figlio di tutte, ed è l’intero villaggio a crescerlo. Nel presepe ci sono anche tutte queste donne di Betlemme, anche se non potevano saperlo.
«E lo chiamarono Obed. Egli fu il padre di Iesse, padre di Davide» (4,17). Ecco il nome che mancava al nostro mosaico, Davide, il nome più amato di tutti i nomi, che echeggia nell’aria fin dall’inizio della storia. E grazie a questo nome, che da solo racchiude tutta la Bibbia, capiamo un senso profondo del libro di Rut. La storia di Noemi, Rut e Boaz è il ponte che lega le storie della preistoria alla storia di Israele, Abramo e patriarchi con la monarchia, Davide con la tribù di Giuda e Gerusalemme. Quando Davide fa la sua comparsa nella storia di Israele (nel primo libro di Samuele), non viene menzionata la sua genealogia, arriva a Betlemme dal nulla. Il libro di Rut completa il filo d’oro della salvezza, spiega la trama della provvidenza. E così il libro di Rut riscatta la triste storia di Giuda, quell’incesto con Tamar, da cui nacque Peres, l’avo di Boaz, il nonno di Davide: «Questa è la discendenza di Peres: Peres generò Chesron, Chesron generò Ram, Ram generò Amminadàb, Amminadàb generò Nacson, Nacson generò Salmon, Salmon generò Boaz, Booz generò Obed, Obed generò Iesse e Iesse generò Davide» (4,18-22).
Tutto questo per dirci qualcosa di importante sulla logica della Bibbia, e della vita. Il tempo nella Bibbia si muove nelle due direzioni dell’asse. Per capire il senso pieno di un evento bisogna andare avanti e indietro nel tempo. Ciò che lo spiega non è solo quanto è accaduto prima, perché essenziale è anche quanto è accaduto dopo. Il matrimonio tra Boaz e Rut non illumina soltanto la persona e la storia di Davide (che verrà dopo), spiega anche la storia di Giuda e Tamar (avvenuta prima). Dà senso ai dolori e alle gioie che l’hanno preceduto e seguito.
Gesù di Nazareth non spiega solo il senso della storia di Giuda, Tamar, Rut e Davide, ma Giuda, Rut e Davide spiegano Gesù: ci fanno capire che nella sua carne e nel suo messaggio c’erano anche l’incesto di Giuda e l’omicidio di Davide, insieme alla grazia e alla fedeltà di Rut. E quindi che l’umanità di Cristo è vera anche perché raccoglie i peccati e le virtù disseminate lungo la sua genealogia. Ma se è così, allora nel suo corpo risorto ci sono anche Giuda, Davide, Rut, Noemi e tutte le donne di Betlemme, riscattati da un altro goèl.
Quando i primi cristiani fecero la coraggiosa e felicissima scelta di tenere legato l’Antico al Nuovo Testamento, allungarono, nei due sensi, l’asse dei goèl della storia della salvezza, la serie dei riscattatori e dei riscattati, moltiplicarono il dono del respiro dei bambini. Ma se guardiamo il mondo con occhi di Bibbia, ci accorgiamo che ogni volta che un bambino viene generato, con la sua storia spiegherà la storia dei suoi avi e illuminerà quella dei suoi discendenti. Quante volte la laurea di una nipote e la fedeltà di una nonna si spiegano e illuminano a vicenda? E qualche volta per capire veramente un grande dolore o una grande gioia bisogna aspettare i mille anni e oltre che separano i campi di orzo di Boaz dalla grotta di Maria. Nella lingua con cui sono scritte le frasi decisive della nostra vita il verbo è posto alla fine.
* Avvenire, sabato 17 luglio 2021 (ripresa parziale)
*Sul tema, nel sito, si cfr.:
COME NASCONO I BAMBINI: EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!!
FLS
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE. «Restituite a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio».. *
Sulla questione del ddl Zan.
Laici perché cristiani non privilegi ma libertà
di Giuseppe Lorizio (Avvenire, venerdì 25 giugno 2021)
Perché ribadire l’ovvio in situazioni critiche? Forse per il fatto che lo dimentichiamo, come tralasciamo il buon senso e il radicamento nelle istituzioni. Il premier ieri non ha detto nulla di nuovo, ma, come dice Qoelet, non è mai superfluo rammentare che «non c’è nulla di nuovo sotto il sole!» (1, 9). In tal senso ribadisco quanto già espresso in diversi interventi. Una sana laicità è la nostra bussola. E la laicità l’Occidente la deve al messaggio evangelico: «Restituite a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» (Mc 12,17). Un loghion pronunciato da Gesù stesso, che mi piace interpretare nel senso di restituire a Cesare quel che è suo per dare a Dio ciò che gli appartiene, cioè tutto. Si tratta di «restituire» e qui entra in gioco la categoria giuridica del «risentimento », questione centrale nella ’Filosofia del diritto’ del beato Antonio Rosmini, il cui soggetto è la persona, «diritto sussistente».
E qui trova ampio spazio la legittimità di voler vedere riconosciuti i propri diritti da parte di minoranze per lungo tempo oppresse ed emarginate, spesso violentate. Poiché da cittadino italiano ritengo che sia la ’persona’ il principio architettonico della nostra Costituzione, non posso non scorgere in essa e nelle istituzioni che ha generato gli anticorpi più idonei per allontanare ogni possibile lesione dei diritti fondamentali. Nel nostro caso si tratta della libertà di pensiero e di educazione, il cui soggetto fondamentale non è lo Stato, ma la famiglia, al cui servizio vanno poste le istituzioni statali. E anche qui è in gioco qualcosa di decisivo. Gli anticorpi della nostra democrazia nei confronti di possibili devianze li avevo già messi in campo nella lettera al direttore di ’Avvenire’, pubblicata mercoledì 23 giugno: il Parlamento prima e poi, eventualmente, la Corte costituzionale verificheranno e si pronunzieranno circa la costituzionalità, come garanzia di libertà, della legge ancora in progetto sull’omotransfobia e per questo l’impegno dei laici è fondamentale. Né in questo processo si può cedere al ricatto della fretta, che non è mai buona consigliera e fa sì che la gatta generi dei gattini ciechi. Il campanello di allarme suonato dalla Chiesa cattolica, per mezzo del Vaticano, all’interlocutore italiano, se lo si legge senza paraocchi ideologici, significa una sola cosa: «Cesare non è Dio», e ne siamo felici... quindi si evocano l’umano e la persona come soggetto fondamentale del diritto.
Una riflessione che ha bisogno di tempo, di spazi e di libertà interiore, piuttosto che di strategici giochi elettoralistici. Nel suo discorso al Senato, ieri il premier ha ribadito la laicità dello Stato, ovviamente non confessionale, ma è tale proprio perché non è istituzione divina. Egli ha anche orientato verso il rispetto degli accordi internazionali, fra cui il Concordato. Illuminante ed estremamente lucido, a tal proposito, l’intervento del cardinale segretario di Stato vaticano Pietro Parolin: «Ho apprezzato il richiamo fatto dal presidente del Consiglio al rispetto dei princìpi costituzionali e agli impegni internazionali. In questo ambito vige un principio fondamentale, quello per cui pacta sunt servanda. È su questo sfondo che con la Nota Verbale ci siamo limitati a richiamare il testo delle disposizioni principali dell’Accordo con lo Stato italiano, che potrebbero essere intaccate. Lo abbiamo fatto in un rapporto di leale collaborazione e oserei dire di amicizia che ha caratterizzato e caratterizza le nostre relazioni. Faccio anche notare che fino ad ora il tema concordatario non era stato considerato in modo esplicito nel dibattito sulla legge. La Nota Verbale ha voluto richiamare l’attenzione su questo punto, che non può essere dimenticato».
Né può sfuggire il fatto che Draghi, al pari di Parolin, abbia posto l’accento su una «laicità» che non significa ’neutralità’ o ’indifferenza’ nei confronti dell’esperienza religiosa e credente. E abbia insistito sull’attenzione alla plura-lità, attraverso cui tale vissuto si esprime in un Paese come il nostro, che è per tradizione ospitale e inclusivo di differenti culture e appartenenze, fra le quali, oltre quella tradizionalmente cattolica, si rendono sempre più consistenti quella islamica e quella del cristianesimo orientale. Anche in questo sta la nostra mediterraneità. E di tutto questo lo «Stato laico», di cui ha parlato il premier, non potrà non tener conto. Infatti, richiamando la sentenza della Corte costituzionale 203/1989, ha ribadito, come se ne fossimo ignoranti, o peggio lo fossero i parlamentari presenti, che laicità non significa «indifferenza dello Stato dinnanzi alle religioni, ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale».
Il Governo sta giustamente alla finestra, mentre il Parlamento (ora il Senato) sta valutando e ci auguriamo che sia illuminato anche dalla profezia ecclesiale cattolica, nel frattempo noi pensiamo all’uomo, al suo ruolo nel cosmo e nella storia e al suo destino ultimo, che non può non interpellare anche il presente. In questo senso, come ancora il beato Rosmini insegna, la Chiesa non chiede privilegi, ma «libertà» e le sue piaghe provengono dall’aver in altre situazioni troppo ceduto a compromessi dettati da scelte di potere, che non possono appartenere a chi vuole seguire Gesù di Nazareth.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"ERODE" E LE GERARCHIE CATTOLICO-ROMANE CONTRO CRISTO E "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi". Il lavoro di Emilio Gentile, recensito da Riccardo Chiaberge
PER L’ITALIA, "DUE SOLI". Per una nuova laicità, un nuovo cristianesimo!!! Come MARIA: "FIGLIA DEL TUO FIGLIO", così GIUSEPPE: "FIGLIO DEL TUO FIGLIO"!!! Dante non "cantò i mosaici" dei "faraoni", ma soprattutto la Legge del "Dio" di Mosè di Elia e di Gesù, del "Dio" dei nostri "Padri" e delle nostre "Madri". L’Amore che muove il Sole e le altre stelle ... e la fine del cattolicesimo costantiniano!!!
Federico La Sala
Intervista - "Letture" *
“Bibbia e Corano, un confronto” di Piero Stefani
Prof. Piero Stefani, Lei è autore del libro Bibbia e Corano, un confronto edito da Carocci: quanto sono simili i due testi sacri?
Comincio da una precisazione rilevante: i testi sacri sono in realtà tre. Occorre infatti distinguere tra Bibbia ebraica e Bibbia cristiana. Uno stereotipo ancora abbastanza diffuso parla di Bibbia e Vangelo. In realtà, esistono la Bibbia ebraica, e la Bibbia cristiana formata da Antico e Nuovo Testamento. I libri dell’Antico Testamento, salvo alcuni casi particolari, coincidono con quelli della Bibbia ebraica; tuttavia in questo caso si è trattato non di aggiungere alcuni libri a quelli precedenti bensì di creare un insieme da leggere e interpretare in maniera diversa.
La somiglianza più profonda è che Bibbia e Corano sono sacri soltanto a motivo dell’esistenza di tre comunità che li considerano tali, in quanto li ricevono, li leggono nella liturgia, li commentano e li trasmettono. Tutte e tre le comunità religiose condividono la convinzione che, nel corso della storia, Dio abbia fatto giungere agli esseri umani parole destinate in seguito ad assumere una forma scritta. Ciò è avvenuto grazie a specifici mediatori che hanno trascritto nella “lingua degli uomini” la volontà di Dio. Per ricorrere alla classificazione consueta, ebraismo, cristianesimo e islam sono «religioni rivelate». Tra esse ci sono molte e non lievi differenze, ma tutte emergono a partire da questo terreno comune. Le si può paragonare a un bosco in cui ci sono alberi molto differenti tra loro, anzi a volte uno di essi fa ombra a un altro, tutti però condividono lo stesso suolo.
Quali sono i più significativi punti comuni tra Bibbia e Corano?
Il primo, irrinunciabile punto in comune è che Dio è definito creatore. Ciò significa che la realtà nel suo insieme ha avuto inizio a causa di un atto libero di Dio. Per tutte e tre non si tratta di dimostrare l’esistenza di Dio a partire da quanto sperimentiamo in noi e attorno a noi; quanto affermato dalle tre religioni è che in noi e attorno a noi ci sono segni dell’opera creatrice di Dio. Per così dire, il Cantico delle creature di Francesco di Assisi esprime un convincimento comune a ebrei, cristiani e musulmani. Per tutte e tre le tradizioni religiose, specie di età moderna, nasce poi il problema di sapere come confrontarsi con la visione del cosmo e della natura proposta dalla ricerca scientifica. Qui le strategie sono in parte diverse.
Altro punto accomunante è che Dio abbia comunicato agli esseri umani delle leggi (per limitarci a un solo esempio, si pensi ai “Dieci comandamenti”) volte a regolare sia i rapporti interni alle singole comunità religiose sia quelli con le altre persone e società. In questo caso ci si deve confrontare con il problema di quale rapporto esista tra queste leggi credute di origine divina e i tempi storici in cui sono sorte. Nasce poi anche l’interrogativo di quale sia la relazione tra le leggi di natura divina e quelle, fondate su altri principi, che regolano la società civile. La questione è accomunante, le risposte sono invece molteplici e spesso non concordi. Sono tali non soltanto tra ebraismo, cristianesimo ed islam, ma anche tra i vari gruppi o membri interni alle singole comunità religiose.
Le tre grandi religioni monoteiste fondano sulla rivelazione divina la propria dottrina, tanto da meritare l’appellativo di ‘popolo del libro’: come definiscono, i due testi sacri, la comunità dei credenti?
Come accennato in precedenza è vero che tutte e tre le comunità hanno testi sacri, tutt’altro che certo è invece che le si possa chiamare concordemente «popolo del libro». Per limitarmi a un solo esempio, per il cristianesimo la fonte prima della rivelazione è Gesù stesso, di cui i Vangeli sono memoria e testimonianza. Si può affermare che tanto l’ebraismo quanto il cristianesimo definiscono i loro rispettivi testi sacri in modo gerarchizzato.
La Bibbia ebraica è costituita da tre parti: Torah (Legge, con parola derivata dal greco, detta Pentateuco), Neviim (Profeti) e Ketuvim (Scritti). Il ruolo decisivo è svolto della prima parte; nell’armadio sacro presente in ogni sinagoga è contenuta, non a caso, solo una copia manoscritta della Torah, l’unica che fonda i precetti osservati dagli ebrei.
Per il cristianesimo il vertice è invece costituito dai quattro Vangeli canonici (nella liturgia cattolica proclamati solo da un sacerdote o da un diacono e ascoltati stando in piedi). Essi sono incentrati sulla vita pubblica, morte e resurrezione di Gesù. I Vangeli sono colti come una specie di chiave interpretativa per leggere in modo unitario un libro, la Bibbia, composto da un vasto insieme di testi molto vari per origine e provenienza, sorti in un arco di tempo di parecchi secoli.
Il Corano ha avuto invece un processo redazionale molto più breve misurabile in qualche decennio. La sua scansione interna è tra sure (capitoli) “fatte scendere” (cioè rivelate) a Mecca e quelle, cosiddette medinesi, risalenti a un periodo successivo all’egira (622 d.C.). I contenuti del Corano si suddividono in annunci, narrazioni e leggi; queste ultime, che incidono maggiormente sulla vita della comunità, risalgono al periodo finale della vita di Muhammad, quando il Profeta esercitava già una forma di governo.
L’espressione «comunità dei credenti» calza bene per cristiani e musulmani in quanto l’appartenenza alla Chiesa e all’ Umma (comunità musulmana) presuppone la fede, meno agli ebrei che costituiscono un popolo vero e proprio, non a caso si è ebrei innanzitutto per nascita (secondo una discendenza matrilineare).
Come descrivono Bibbia e Corano l’origine del male?
Vi è una dimensione accomunante che individua l’origine del male nella trasgressione. Come ben compreso da Paolo nella Lettera ai Romani, perché ci sia una trasgressione bisogna che prima ci sia una legge o un comando. Occorre quindi trovare miti fondativi che si muovano in questa direzione; il più noto è quello della proibizione di mangiare l’albero della conoscenza del bene e del male. Non è difficile comprendere il suo valore simbolico incentrato propria sulla connessione tra divieto e violazione. Al pari di prospettive presenti nell’apocalittica tanto giudaica quanto cristiana, il Corano pensa a una violazione antecedente a quella compiuta dalle creature umane. Ecco allora irrompere il peccato angelico, nell’islam connesso alla figura di Iblis, angelo superbo e disobbediente. D’altra parte conviene riflettere sul fatto che una trasgressione c’è eppure non ci dovrebbe essere; in questo senso si vede chiaramente la sua connessione con il male, altra realtà che c’è ma non dovrebbe esserci. Individuare la radice del male nella trasgressione porta con sé però altri problemi: chi spinge a trasgredire? Ecco allora che si “personalizza” il peccato, presentandolo come una forza che induce a compiere atti brutali. Sia per la Bibbia sia per il Corano la storia di Caino rappresenta il simbolo più conosciuto di tutto ciò: quando uccise il fratello, il primo fra i nati da donna non aveva ricevuto il comando di non uccidere.
Aumentare a dismisura la forza del peccato o della tentazione come causa del male rischia però di fa scivolare la visione di insieme verso una forma troppo prossima al dualismo, vale a dire di prospettare l’esistenza di un Dio del male; ecco allora che in alcuni passi sia biblici sia coranici si legge che Dio crea il male (Isaia 45,7). Affermazione che non va assolutizzata ma neppure del tutto accantonata. La presenza del male rappresenta per tutti uno scoglio complesso.
In che modo Bibbia e Corano affrontano il tema della resurrezione dei morti?
Il tema è presentato in maniera per così dire defilata nella Bibbia ebraica, infatti lo si trova con chiarezza solo nel tardo e apocalittico libro di Daniele (che nella Bibbia ebraica non è annoverato neppure tra i libri profetici). La resurrezione dei morti svolge invece un ruolo centrale nel Nuovo Testamento; il motivo è evidente: il kerygma - cioè l’annuncio originario e fondamentale della fede - ha il proprio centro nella «buona novella» di Gesù Cristo morto e risorto. -
Come stabilito in modo definitivo da Paolo, per la fede cristiana vi è un legame inscindibile tra la risurrezione di Gesù Cristo e quella dei salvati. Anche per questo motivo nel cristianesimo, per quanto sia stato affermato più volte e venga attestato anche da alcuni passi neotestamentari, suscita sempre sconcerto la prospettiva secondo la quale ci sono dei risorti destinati alla dannazione eterna.
Nel Corano la resurrezione dei morti è affermata in maniera forte e inequivocabile. Per trovarne il fondamento basta rifarsi alla perenne attività del Dio creatore: Allah, che ha plasmato l’uomo dalla polvere, è ben capace di dare nuova vita a ossa disseccate. La resurrezione è però intrinsecamente legata al giudizio in virtù del quale si è o beati o dannati; una prospettiva tanto presente nell’islam da essere anticipata da una specie di interrogatorio che avviene dentro le tombe.
Piero Stefani, di formazione filosofica, insegna “Bibbia e cultura” presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale di Milano e “Diritto ebraico” all’Istituto internazionale di Diritto Canonico e Diritto comparato delle religioni dell’Università della Svizzera Italiana. È segretario generale di Biblia, associazione laica di cultura biblica. Tra le sue numerose pubblicazioni si segnalano Il grande racconto della Bibbia, il Mulino 2017 e per Carocci I volti della misericordia (2015).
* Fonte: Letture.org
Nota:
Al vertice del "cristianesimo" (cattolicesimo costantiniano), in realtà, non ci sono - come sostiene Piero Stefani - i "quattro Vangeli canonici (nella liturgia cattolica proclamati solo da un sacerdote o da un diacono e ascoltati stando in piedi)", ma - fondamentalmente - ma le lettere (e l’interpretazione "andrologica" della figura di Cristo) di Paolo di Tarso:
"Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
ripartendo dal #saperedinonsapere,
Niccolò Cusano
ricade nella #antropologia zoppa e cieca di #Aristotele
e propone nella #Docta Ignorantia (III, 5) del 1440
la visione (#teoria) del trittico di Merode (1427)
San Giuseppe e la trappola per topi
Il Trittico dell’Annunciazione di Robert Campin è una miniera di simboli mariani. Ma la cosa più curiosa è la bottega di San Giuseppe tutto intento a fabbricare una trappola per topi.
Doveva essere devotissimo di san Giuseppe il committente che sta all’origine della Pala di Robert Campin detta comunemente Pala di Mérode, dal nome della famiglia che la ospitava. Lo si vede, con la moglie, nel pannello di destra della pala. Non abbiamo la certezza circa l’identità dei due coniugi. Il Metropolitan Museum, dove risiede l’opera, identifica il committente con un ricco uomo d’affari del tempo, certo Jan Engelbrecht. Per altri era un mercante di stoffe di Colonia, prossimo alle nozze, Peter Inghelbrecht o Engelbrecht. Quel che rimane certo è il cognome: Engelbrecht che significa: breccia dell’Angelo.
Da qui si comprende il tema del pannello centrale: la rappresentazione dell’Annunciazione nel momento in cui, l’angelo, vero protagonista della scena, irrompe nella stanza di Maria.
La casa di Maria è una casa di pietra, sontuosa e solare, a dispetto della bottega di san Giuseppe, piuttosto piccola, raffigurata nel terzo pannello. Il contrasto è voluto e serve anche per mitigare la novità dell’ambientazione scelta per la Vergine annunciata. Se si confronta quest’opera con altre dello stesso periodo si nota come si fosse soliti rappresentare gli eventi dell’Infanzia del Salvatore, specie l’Annunciazione, dentro Chiese o Cattedrali, quasi a sottolineare la sacralità degli eventi. Qui Campin, per primo, registra invece l’assoluta normalità della casa di Maria.
San Giuseppe invece è presentato come un modesto artigiano, abile e capace, che lavora nel contesto di una città rispettabile. E ne vediamo chiaramente uno scorcio dalla finestra aperta. Anch’egli, del resto come si evince dal turbante, è uomo di tutto rispetto. Tra le altre opere di Robert Campin troviamo il ritratto di un anonimo signore facoltoso (e lo capiamo dall’abito foderato di pelliccia) che porta il medesimo turbante indossato da san Giuseppe. Solo il colore si differenzia: mentre nell’uomo ritratto, il copricapo è rosso, colore peraltro che designava l’alto rango, in San Giuseppe è blu, segno distintivo della diversa qualità del rango di San Giuseppe. Egli era nobile nello spirito e la sua dignità è da collocarsi appunto entro il mistero del piano divino. Insomma San Giuseppe è uomo voluto dal Cielo.
Nel XV secolo, molto prima quindi della proclamazione di san Giuseppe quale patrono della Chiesa universale (1621), ci fu un movimento popolare (analogo a quello legato al culto dell’Immacolata) che desiderava propagare il culto di San Giuseppe, collocando il Santo al pari degli Apostoli. Gli anni di punta di tale devozione furono proprio quelli in cui venne realizzata questa pala (tra il 1420 e il 1430).
Promotori di questo movimento giuseppino furono il Card Peter d’Ailly (1350-1425) vescovo di Cambrai e il suo pupillo John Gerson (1363-1429) che, nel concilio di Colonia (1416), proposero appunto di elevare San Giuseppe al livello degli apostoli.
Robert Campin ci permette di entrate nella bottega del Santo raccontandoci nei mini particolari il suo lavoro.
Il desco appare così inclinato, nella sua prospettiva, da dare l’impressione di volersi rovesciare. Siamo così costretti a guardare gli strumenti da lavoro di san Giuseppe: tenaglie, martello, chiodi. Sono chiari riferimenti alla croce, supplizio sopra il quale morirà quel Figlio che sta per essergli dato. Come si narra, appunto nel pannello centrale dell’Annunciazione della Vergine.
Sul desco di Giuseppe, però, c’è un oggetto, che pur riconoscendolo, fatichiamo a comprenderne il senso. Si tratta di una trappola per topi. A ben vedere ve ne sono due: una in via di costruzione e una seconda, in funzione, sul davanzale della finestra. Il senso di un simbolo tanto bizzarro lo spiega Sant’Agostino in uno dei suoi discorsi (256): «Il diavolo ha esultato quando Cristo è morto, ma per la morte di Cristo, il diavolo è stato vinto, come se avesse ingoiato l’esca nella trappola per topi. La croce del Signore era una trappola per il diavolo, l’esca con cui è stato catturato era la morte del Signore». Ecco, dunque, l’ignaro Giuseppe fabbricare quell’elemento che sarà per l’uomo simbolo di liberazione: «dov’è o morte la tua vittoria?». Ripete instancabilmente l’Apostolo: Cristo ci ha liberato. Anche Lorenzo Lotto, in una delle sue natività, colloca la propria firma sopra una trappola per topi.
Il topo, del resto, per la sua facilità riproduttiva e la rapidità del suo agire, è da sempre simbolo di lussuria e di disonestà. Fra il ricchissimo bestiario di Jeronimus Bosch, il topo compare sovente, proprio a significare l’ingannevole audacia del male. Mentre l’uomo si lascia ingannare dal tentatore, Cristo gioca il male sul suo stesso terreno. Il diavolo, infatti, ingannato dall’umanità del corpo di Cristo, addenta la preda, ma il veleno della vita, nascosto nella divinità di Cristo, lo ucciderà.
A questo significato attribuito alla trappola, in riferimento a Cristo e alla sua passione, concorrono altri elementi del pannello. Ai piedi di San Giuseppe c’è una sega, strumento che - secondo la predicazione del tempo - san Pietro usò per tagliare l’orecchio a Malco, nel giardino degli ulivi; mentre, più a lato, vediamo una scure piantata solidamente in un ceppo. «La scure è alle radici», proclama il Battista all’inizio della sua predicazione: di fronte alle malizie del male, cui l’uomo presta il fianco, c’è un giudizio inappellabile che si compie, quello della verità. Ora, con la venuta di Cristo e con la sua passione (come si vede nel pannello centrale dove Cristo raggiunge il grembo della Vergine imbracciando una piccola croce), si compie il tempo definitivo del giudizio sulla storia.
Non possiamo fare a meno di notare però che san Giuseppe è intento a tutt’altro lavoro che apparentemente poco ha a che fare con la trappola in fabbricazione collocata sul desco. San Giuseppe sta forando una tavola di legno con fori a intervalli regolari. Vediamo l’oggetto perfettamente compiuto nella casa di Maria, proprio dietro le sue spalle, Si tratta di un parafuoco. Il soggetto iconografico della Madonna del Fuoco o del parafuoco, è abbastanza frequente in quel secolo, lo stesso Campin ne realizza alcune, e vuole indicare la verginità della Vergine. Sia per il riferimento al roveto ardente che arde senza consumarsi, sia per il riferimento al fuoco della passione che rimase estranea alla Vergine e quindi anche al coniuge, san Giuseppe.
Allora comprendiamo il simbolo: san Giuseppe fu custode non solo del Redentore ma anche della castità di Maria. Il diavolo sapeva, per il versetto di Isaia 7,14, che Cristo sarebbe nato da una Vergine, ma mai si sarebbe immaginato che questa Vergine avrebbe contratto matrimonio. Sposando San Giuseppe e rimanendo illibata con lui nel matrimonio, il diavolo fu confuso e non comprese la natura divina del Cristo. Perciò, non solo Cristo fu trappola per il demonio, ma anche lo stesso San Giuseppe. La sua santità confuse le aberrate prospettive del Maligno, il quale è incapace di comprendere come le straordinarie vie di Dio possano intrecciarsi con l’ordinarietà della vita. Sì, una vita straordinariamente ordinaria quella di questo anziano Giuseppe che lavora placido accanto alla casa della sua futura sposa! Egli sa che il suo ruolo è quello di custode e si prepara, fabbricando quegli oggetti che più profondamente lo possono portare a identificarsi con il piano divino e ad aderirvi con tutta l’obbedienza del cuore.
* Fonte: Monache dell’Adorazione Eucaristica (Adoratrici.it, 15.03.2020 - ripresa parziale, senza immagini).
#ACHEGIOCOGIOCHIAMO?! #TRACCE PER UNA #SVOLTA_ANTROPOLOGICA.
#EUROPA #SPAGNA #DUE ANNI DOPO LA MORTE DI #CARLOV nel 1560, in #Italia, a #Roma si pubblica il testo di #Anatomia di #GiovanniValverde: si riconosce il ruolo attivo della donna nella #concezione del problema #comenasconoibambini
La sollecitazione di #Michelangelo (1512), #GiovanniValverde (1560), #LuigiCancrini (2005) e #MarioDraghi (2021) a finirla con "il farisaico rispetto della #legge"
#VITAEFILOSOFIA. #COMENASCONOIBAMBINI (#ENZOPACI). Fermare il #giogo, #uscire dall’orizzonte della #tragedia e imparare a #contare
FLS
LA “DIVINA COMMEDIA” E IL CUORE DEL “PADRE NOSTRO”, “L’AMORE CHE MUOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE”...
PLAUDENDO ALL’ECCEZIONALE LAVORO DELLA REDAZIONE DELLA FONDAZIONE “TERRA D’OTRANTO”, ANCHE ALLA LUCE DI QUESTO ULTIMO CONTRIBUTO, CREDO CHE OGGI (19 MARZO 2021), ALL’INTERNO DI UN ORIZZONTE STORICO SEGNATO DA UNA PANDEMIA PLANETARIA, SIA OPPORTUNO RIFLETTERE SUL FATTO CHE QUESTO ANNO (2021) è l’anno dedicato all’Anniversario della morte (1321) di Dante Alighieri e che a Lui è stata dedicato come giorno di memoria il 25 marzo, giorno di memoria liturgica anche dell’Annunciazione (vale a dire del concepimento del Bambino).
Accogliendo la sollecitazione di questa importante connessione, forse, è meglio ripensare a “come nascono i bambini” (antropologicamente, filosoficamente e teologicamente), alla figura dell’uomo Gesù, all’”Ecce Homo”(«Ecco l’uomo», gr. «idou ho anthropos») di Ponzio Pilato, e, ancora, alla lezione di Dante.
A mio parere, la sua lezione non è solo “poetico-letteraria”, ma è anche teologica e politica: la sua “Monarchia” con l’indicazione relativa ai “due soli” ha, infatti, il suo fondamento teologico e antropologico nell’amore (charitas) del “Cantico dei cantici” (cioè, di Salomone - non di Costantino: rileggere il c. XIV del “Paradiso”) e pone le condizioni per rileggere l’intera figura di san Giuseppe! Egli non è affatto un falegname che prepara la croce per inchiodarci su il bambino che gli è stato affidato, ma lo sposo di Maria, discendente della casa di Davide (“de domo David”: -https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/10/de-domo-david-39-autori-per-i-400-anni-della-confraternita-di-san-giuseppe-di-nardo/#comment-257181) che, come Salomone, ha saputo decidere e portare in salvo la madre vera e il bambino vero! O no?!
L’iniziativa.
Il 19 marzo al via l’Anno della famiglia. «Uniti da San Giuseppe»
Sedici congregazioni religiose danno vita a un Comitato per iniziative comuni. Primo appuntamento un triduo online in preparazione alla festa del 19 marzo
di Enrico Lenzi (Avvenire, domenica 14 marzo 2021)
Sedici congregazioni tra maschili e femminili, diverse per storia, carisma, luogo di nascita e diffusione, ma unite dal riconoscere in san Giuseppe il proprio patrono o il santo ispiratore dell’azione della famiglia religiosa. È uno dei frutti del lavoro che già da qualche anno tre di queste famiglie religiose (i Giuseppini del Murialdo, gli Oblati di san Giuseppe e la Federazione italiana suore di san Giuseppe) stanno compiendo per diffondere non tanto la devozione, quanto la conoscenza dell’opera e del ruolo del Custode del Redentore.
Complice anche l’Anno di san Giuseppe indetto lo scorso 8 dicembre da papa Francesco, il nucleo iniziale di questa collaborazione ha deciso di invitare anche le altre famiglie religiose che pongono san Giuseppe all’interno del proprio carisma. Nasce così il Comitato San Giuseppe, che «in questo anno ha deciso di dare vita a un calendario di incontri e iniziative - spiega uno dei coordinatori, padre Luigi Testa, Oblato di san Giuseppe, congregazione nata ad Asti nel 1878 grazie a san Giuseppe Marello -, alla luce della Lettera apostolica «Patris corde» che papa Francesco ha diffuso proprio l’8 dicembre 2020 a 150 anni dalla proclamazione di san Giuseppe a patrono della Chiesa universale ».
E proprio da quel documento papale sono tratte le riflessioni che caratterizzeranno il triduo in preparazione alla memoria liturgica di san Giuseppe (19 marzo), che si svolgerà online sul canale YouTube denominato «Comitato San Giuseppe» il 16, 17 e 18 marzo prossimi alle 15.
A quell’ora, infatti, sarà possibile seguire le riflessioni che tre religiosi e tre religiose, alternandosi, faranno prendendo ciascuno un aspetto della Patris corde.
Si inizia il 16 marzo con un collegamento dalla Basilica di san Giuseppe al Trionfale a Roma in cui si rifletterà sull’aspetto del «padre nella tenerezza» e in quello «nell’obbedienza».
Il giorno successivo, dal Santuario San Giuseppe a San Giuseppe Vesuviano (Napoli) si rifletterà sul Custode del Redentore come «padre nell’accoglienza » e «padre del coraggio creativo».
Infine il 18, dal Santuario San Giuseppe ad Asti, si affronterà la figura come «padre lavoratore » e «padre nell’ombra».
Ma il triduo «è l’appuntamento più ravvicinato del programma che stiamo elaborando insieme - spiega padre Testa -. Il 29 aprile abbiamo una iniziativa che coinvolgerà le scuole superiori. Si intitola “Nel laboratorio di Giuseppe. I giovani e il lavoro tra paura e speranza”, a cui è legato anche un concorso («Domani è un’altra impresa») che assegnerà alcune borse di studio». L’evento sarà in streaming e avrà come sede principale il Collegio Artigianelli di Torino dei Giuseppini del Murialdo e vi saranno collegamenti con Roma e Lucera.
Già fissato anche l’evento che si lega alla conclusione dell’Anno di San Giuseppe: sarà a Roma dal 6 all’8 dicembre. «Stiamo studiando programma, relatori e modalità di realizzazione - aggiunge padre Testa -, ma intendiamo viverlo non come momento finale di un percorso, bensì come occasione per rilanciare l’attività di conoscenza e di studio anche teologico sulla figura di san Giuseppe». Insomma «ci domanderemo come continuare il percorso anche dopo il 2021».
Pari opportunità.
Perché oggi anche la scienza ha bisogno di avere più donne
A livello globale riesce ad affermarsi nel mondo della ricerca non più del 30% di esponenti del genere femminile, e solo poche di esse raggiungono posizioni apicali
di Vittorio A. Sironi (Avvenire, sabato 13 febbraio 2021)
«Vogliamo incoraggiare una nuova generazione di donne scienziate per affrontare le principali sfide del nostro tempo, facendo leva sulla loro creatività e favorendo l’innovazione che le donne possono portare nella scienza». Lo ha ricordato la direttrice generale dell’Unesco Audrey Azoulay per la celebrazione della “Giornata internazionale delle donne nella scienza” (11 febbraio).
Una ricorrenza annuale istituita dall’Onu a partite dal 2015 per promuovere e sensibilizzare l’uguaglianza di genere a favore dell’accesso paritario delle donne nella scienza. “Il mondo ha bisogno della scienza e la scienza ha bisogno delle donne” è il titolo-programma del manifesto delle Nazioni Unite, ben consapevoli che per trasformare e migliorare il mondo è necessaria una solida formazione scientifica, che deve essere accessibile in uguale misura agli uomini e alle donne, superando quelle differenze (e diffidenze) di genere che per troppo tempo hanno limitato alle donne l’accesso alla scienza.
Per secoli la loro presenza nella vita pubblica - tranne poche eccezioni - è stata modesta. Solo a partire dagli inizi del Novecento il crescente ruolo dell’istruzione femminile ha permesso alle donne, sia pure in modo non facile e con fatica, di iniziare ad affermarsi in ambito scientifico. È pur vero che la storia ricorda emblematiche figure femminili del passato che hanno saputo fornire importanti contributi alla scienza.
Nell’XI secolo Trotula de’ Ruggiero è stata la prima donna medico d’Europa, prima e unica magistra della celebre Scuola medica di Salerno ad avere coltivato nella storia una “medicina per le donne”. In tempi a noi più vicini altre due figure hanno segnato nel profondo, con i loro studi, la comprensione del mondo dell’infanzia. Maria Montessori (1870-1952), una delle prime donne a laurearsi in medicina in Italia, ha elaborato un originale metodo pedagogico per l’insegnamento infantile, operando anche attivamente per contrastare l’analfabetismo mondiale. Anna Freud (1895-1982), figlia del padre della psicanalisi Sigmund, ha dedicato la sua vita allo studio e alla comprensione dei meccanismi psichici delle prime età della vita.
Per la matematica giganteggia nel XVIII secolo la figura di Maria Gaetana Agnesi (1718-1799), mentre tra fine Ottocento e inizio Novecento domina la personalità di Marie Curie (1867-1934), vincitrice di due premi Nobel: nel 1903 per la fisica e nel 1911 per la chimica. Ancora però eccezioni in un mondo dominato dalla cultura e dal potere maschili. In questi ultimi decenni molte più donne hanno saputo affermarsi in ambito accademico e scientifico, anche se la loro presenza resta tuttora minoritaria.
L’ultimo rapporto “Women in science” dell’Unesco dello scorso anno evidenzia come nel mondo della scienza riesca ad affermarsi a livello globale non più del 30 per cento delle donne e che solo poche di esse riescono a raggiungere posizioni apicali. Eppure “primedonne della scienza” che hanno rivoluzionato conoscenze consolidate non sono mancate.
Emblematico in tal senso il ruolo svolto in ambito medico da due italiane. Rita Levi Montalcini (1909-2012), neurologa e premio Nobel per la medicina nel 1986 per aver scoperto il Nerve Growth Factor (fattore di crescita nervoso), con la sua tenacia scientifica ha rivoluzionato, dopo due secoli di consolidate nozioni neuroanatomiche, le conoscenze sul funzionamento del sistema nervoso centrale, ribaltando la convinzione che, a differenza di altri organi, esso fosse una struttura statica nella vita adulta e dimostrando invece uno dei principi fondamentali delle moderne neuroscienze: la plasticità neuronale, cioè la caratteristica dinamicità intrinseca del sistema nervoso che dura per tutta la vita di un individuo.
Ilaria Capua, veterinaria e virologa, attuale direttrice dell’One Health Centre of Excellence dell’Università della Florida, ha cambiato il modo di fare ricerca quando nel 2006 ha sconvolto il mondo accademico con la sua scelta di rendere di pubblico dominio la sequenza genica del virus dell’influenza aviaria. Una decisione che ha avuto notevole risonanza internazionale e ha contribuito alla diffusione dell’open access ai contributi scientifici (prima gelosamente custoditi come preziosi segreti nell’ambito dei santuari accademici della ricerca), iniziando così a promuovere una campagna internazionale a favore del libero accesso ai dati sulle sequenze genetiche dei virus patogeni, in modo da favorire e velocizzare la ricerca di mezzi e metodi per contrastarne la diffusione. Se oggi non ci fosse questa libera condivisione globale delle informazioni scientifiche inaugurata dalla scienziata italiana, certamente non si sarebbe potuto arrivare in tempi così rapidi alla realizzazione dei vaccini per sconfiggere la pandemia di Covid-19.
Nella fisica delle particelle e in quella dello spazio, altre due donne hanno saputo dimostrare l’importanza e l’autorevolezza femminile in questi ambiti: Fabiola Gianotti, dal 2106 direttrice generale del Centro Europeo Ricerche Nucleari (Cern) di Ginevra, di recente riconfermata sino al 2025 (è la prima volta nella storia di questo ente che un direttore generale è selezionato per un secondo mandato), e Samantha Cristoforetti, ingegnere e astronauta, che con le missioni spaziali del 2014 e del 2015 ha stabilito il record europeo e il primo record femminile di permanenza nello spazio in un singolo volo (199 giorni).
Anche nell’ambito dello studio della natura nell’ultimo secolo le donne hanno svolto un ruolo di primo piano nella conoscenza dell’uomo e dei suoi stretti parenti animali. La zoologa statunitense Dian Fossey (1932-1985) - la “signora dei gorilla”, come è passata alla storia - ha contribuito in modo determinante a far conoscere le abitudini comportamentali dei gorilla di montagna del Parco nazionale dei vulcani in Ruanda, aprendo le porte a una nuova disciplina: l’etologia dei primati. Un filone di ricerca ripreso e ampliato dall’antropologa Jane Goodall con lo studio degli scimpanzé nel Parco Gombe in Tanzania, che ha portato alla comprensione del comportamento sociale di questi animali, dei loro processi di pensiero e della loro cultura. Un percorso metodologicamente non dissimile da quello pionieristico intrapreso molti anni prima da un’altra antropologa statunitense, Margaret Mead (1901-1978), applicato però alla specie umana, per illustrarne la complessità e le potenzialità individuali, mettendo in discussione i modelli culturali della sessualità alla base di ogni struttura sociale. Modelli che sono continuamente usati per costruire categorie stereotipate e per riprodurre all’infinito gerarchie di potere e ineguaglianza di diritti tra uomini e donne.
Oggi le neuroscienze forniscono un ulteriore contributo alla rivoluzione antropologica operata dalla Mead per il superamento delle discriminazioni uomo/donna. Il sesso è determinato dal fatto che un individuo è biologicamente maschio o femmina, mentre il genere è il risultato di un costrutto sociale o culturale. Altre differenze, come quelle cognitive, sono legate a una diversa organizzazione dell’encefalo nei due sessi, che però non indica la presenza di un talento più marcato negli uomini rispetto alle donne, ma semplicemente è espressione di possibili diverse modalità di funzionamento cerebrale. Nessun neurosessismo, dunque, ma una parità intellettuale tra generi che può e deve trasformarsi in positiva integrazione cognitiva. “Il futuro è delle donne” è uno slogan, ma racchiude una grande verità: pari capacità, pari diritti e pari opportunità tra uomini e donne costituiranno sempre più un vantaggio a favore di tutta l’umanità.
«Ambizioncella muliebre»: sul titolo sacerdotale mariano
di Daniele Menozzi, Storico (Il Regno, Re-blog, 2 Febbraio 2021)
La proclamazione del dogma dell’Immacolata concezione nel 1854 è stata interpretata come un «evento strutturante» nella storia del cattolicesimo contemporaneo. Ha in effetti avuto diverse conseguenze di rilievo. A esse si può ascrivere anche l’avvio della discussione, non ancora conclusa all’interno della Chiesa, sul sacerdozio femminile. Claude Langlois - il noto studioso della femminilizzazione del cattolicesimo ottocentesco, che per primo ha colto il nesso tra la valorizzazione della figura di Maria derivante dalla dichiarazione del suo concepimento senza peccato e la manifestazione del desiderio femminile per il sacerdozio - ha poi mostrato come l’aspirazione al ministero, chiaramente formulata da Teresa di Lisieux nel 1896, fosse condivisa anche da altre personalità del panorama religioso di fine Ottocento. Tra queste indicava Marie Deluil-Martiny, nata nel 1841 a Marsiglia da una famiglia aristocratica, fondatrice nel 1872 della congregazione delle Figlie del Sacro Cuore a Berchem presso Anversa, uccisa nel 1884 da un anarchico che era stato suo giardiniere e beatificata nel 1989 da Giovanni Paolo II.
Avvio della discussione sul sacerdozio femminile
L’attenzione della suora francese al tema è ora analizzata da Liviana Gazzetta, autrice di diverse opere sulla storia del movimento cattolico femminile. Il volume Virgo et sacerdos. Idee di sacerdozio femminile tra Ottocento e Novecento (Edizioni di storia e letteratura, Roma 2020), pur non potendo contare sull’insieme degli scritti di Deluil-Martiny, ancora inaccessibili per il processo di canonizzazione, si è potuto valere, oltre che di quanto già pubblicato, della serie documentaria «Devotiones variae» depositata presso l’Archivio della Congregazione per la dottrina della fede (Virgo et sacerdos. Idee di sacerdozio femminile tra Ottocento e Novecento, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2020). L’opera si presenta, più che sotto forma di una ricostruzione organica, come una serie di affondi successivi che sviluppano e approfondiscono alcune ipotesi di lavoro. Nonostante l’apparente frammentarietà e qualche ripetizione, il libro non solo risulta di straordinario interesse per una questione, il sacerdozio femminile, di bruciante attualità ecclesiale, ma anche del tutto persuasivo nei suoi, per quanto provvisori, esiti conoscitivi.
Il titolo di Virgo sacerdos.
Filo conduttore della ricostruzione è la declinazione tra Ottocento e Novecento del richiamo a Maria col titolo di Virgo sacerdos. Il sintagma, di origine patristica, trova nel Medioevo una duratura sistemazione dottrinale sulla base della pregiudiziale premessa dell’impedimentum sexus per l’accesso al sacerdozio. L’appellativo comporta l’attribuzione alla Vergine non del carattere sacerdotale, che appartiene esclusivamente a chi ha ricevuto l’ordine e detiene quindi il potere di sacrificio; bensì dello spirito sacerdotale. Maria possiede, in grado eminente rispetto a ogni creatura, questo attributo che condivide peraltro con tutti i battezzati in quanto comporta soltanto la capacità di rendersi vittime, ostie immolate per la salvezza del mondo.
In questa chiave la locuzione entra nella liturgia fin dal XVIII secolo, ma nella seconda metà dell’Ottocento diverse opere di ecclesiastici attivi nel prorompente movimento mariano inseriscono la distinzione in una più ampia interpretazione teologica della figura della Vergine. Gli episodi centrali della sua vita - generazione di Cristo, purificazione al Tempio, presenza sotto la croce - sono letti come una compartecipazione all’offerta al Padre della vittima divina che la portano ad assumere, sia pure in grado diverso, i titoli stessi del Figlio: mediatrice, corredentrice e sacerdote. Questa letteratura alimenta la spiritualità di Deluil-Martiny e del gruppo riunito attorno a lei, in particolare di Elise Le Vassor de Sorval, che, succedendole nella direzione della congregazione, la sviluppa con notevolissime capacità organizzative e politiche.
Maria con la dalmatica
Si tratta di una ricezione creativa che si fonda sulla comune adesione all’egemone cultura intransigente. Ne è infatti punto di partenza la prospettiva di riconquista cristiana di una società moderna che si è sottratta alla direzione ecclesiastica. Di fronte alla costatazione dell’inadeguatezza del clero nella lotta in corso per la restaurazione della cristianità, si definisce un carisma specifico dell’istituto religioso: l’offerta vittimale in riparazione degli errori e dell’insufficienza dei sacerdoti. Il riferimento alla Virgo sacerdos ne è la sintesi spirituale, simbolica e devozionale. Lo mostrano i testi delle preghiere in uso nella congregazione; le immagini devozionali in cui Maria, in piedi sul globo, indossa sopra la tunica la dalmatica mentre schiaccia la testa del serpente (all’epoca generalmente identificato con la rivoluzione anticristiana); l’abito delle suore che ripropone la pianeta dei preti.
Aspirazione a un ministero sacerdotale
Nel discorso pubblico delle appartenenti alla congregazione la generale interpretazione della figura di Maria come paradigma esemplare per stabilire il ruolo femminile nella Chiesa si applica anche alla funzione sacerdotale attribuita alla Vergine. Per questa via esse esprimono l’esigenza di un protagonismo ecclesiale della donna che ne affermi la parità senza metterne in questione la diversità. Ma i loro documenti privati lasciano chiaramente trasparire qualcosa di più: l’aspirazione all’esercizio di un ministero sacerdotale che le donne saprebbero svolgere in modo più degno e più adeguato ai bisogni dei tempi. Pur senza una specifica denuncia, il Sant’Uffizio - che aveva preso in esame una prima volta tra il 1838 e il 1842 il tema della Virgo sacerdos, senza assumere in merito alcuna decisione - avverte nelle pratiche dell’istituto un pericolo per l’ortodossia.
Da Roma concessioni poi revocate
Inizialmente Roma era stata larga di concessioni. Dopo il riconoscimento di Leone XIII, nel 1906 la congregazione aveva ottenuto da Pio X di inserire una menzione alla Vierge prêtre nelle preghiere della congregazione, ben presto arricchite di indulgenze. Poi nel 1910 il pontefice aveva concesso che nelle litanie mariane le religiose aggiungessero l’invocazione Virgo sacerdos, ora pro nobis. Provvedimenti assai significativi, perché in quegli stessi anni papa Sarto taglia corto sulle istanze di emancipazione femminile presenti nella comunità ecclesiale, escludendo le donne dal canto sacro e imponendo che non prendano la parola nelle assemblee del movimento cattolico. Ma il Sant’Uffizio, nel 1913 - ma renderà pubblica la decisione tre anni dopo - revoca tutte le precedenti concessioni e vieta l’uso dell’immagine devozionale che aveva avuto anche una traduzione pittorica in un’opera di Silverio Copperoni.
Le preoccupazioni del consultore
Opportunamente Gazzetta pubblica in appendice al libro il parere del consultore, il domenicano Giovanni Lottini, che spiega le motivazioni della decisione. Pur dicendosi sicuro che le religiose non abbiano la pretesa di proclamarsi sacerdotesse, afferma che, qualora non siano per tempo fermate, «mosse da una certa ambizioncella muliebre, queste donne giungeranno a darsi detto titolo ed a chiedere e forse con le loro femminee arti a strappare anche qualche approvazione». Il riconoscimento dell’abilità di chi governa la congregazione nel promuoverne il carisma sul piano istituzionale si traduce nell’individuazione delle misure per bloccarne le iniziative. Il domenicano sostiene quindi che, per quanto storicamente fondato e dottrinalmente irreprensibile, il riferimento alla Virgo sacerdos deve essere interdetto dalle pratiche religiose. Sottolinea in particolare che negli istituti femminili l’infima cultura teologica delle donne - evidentemente ritenute incapaci di distinguere tra ordine e spirito sacerdotale - potrebbe facilmente indurre a costruire su questa devozione pretese al ministero. Suggerisce perciò che la venerazione a Maria venga promossa sotto il titolo di madre, anziché sotto il titolo di sacerdote.
Una rimozione definitiva
Nel 1927 il segretario del Sant’Uffizio, cardinal Merry del Val, in risposta a una domanda apparsa su La Palestra del clero, conferma in una pubblica lettera che attorno al titolo sacerdotale mariano occorre mantenere completo silenzio. Poco dopo una revisione della costituzione delle Figlie del Sacro Cuore ne formalizza la rimozione dalla vita interna dell’istituto. In realtà collegamenti con il tema della Virgo sacerdos riemergono in comunità religiose - in primo luogo i Figli del Cuore sacerdotale di Gesù, oggi noti come padri Venturini dal nome del fondatore - e in pii sodalizi, come le Figlie della Regina degli angeli fondata da Elena da Persico. In effetti la loro spiritualità si alimenta alle stesse fonti dell’istituto franco-belga. In questi casi il richiamo all’imitazione di Maria consente di superare la visione di un mero ruolo oblativo delle donne nella Chiesa, ma non si traduce, almeno a livello delle testimonianze a oggi accessibili, in manifestazioni di aspirazioni ad un ruolo ministeriale.
Gli interventi dei papi nel post-concilio
Nel post-concilio, al momento in cui affiora nuovamente e con più forza, sulla spinta del rinnovamento ecclesiale, la questione del sacerdozio femminile, gli interventi del papato - come mostrano l’esortazione apostolica Marialis cultus emanata da Paolo VI nel 1974 e la lettera apostolica Mulieris dignitatem pubblicata da Giovanni Paolo II nel 1988 - lo hanno nuovamente collegato al ruolo idealtipico di Maria per la definizione della posizione ecclesiale della donna. Il riferimento mariano è stato però utilizzato per ribadire l’impedimentum sexus al sacerdozio femminile. La vicenda della congregazione delle Figlie del Sacro Cuore, oggi restituita alla memoria ecclesiale dalla ricerca storica, per quanto ancora bisognosa di approfondimenti, fornisce un prezioso aiuto per contestualizzare, e quindi relativizzare, questi interventi papali.
Per superare i blocchi alla discussione
Non solo perché essi appaiono ancorati a una mariologia riduttiva rispetto a una tradizione più ricca e articolata, che era stata rimossa dalla vita ecclesiale all’inizio del Novecento in seguito agli evidenti condizionamenti storici che caratterizzavano la visione dei rapporti di genere dei membri del Sant’Uffizio. Soprattutto perché i documenti papali rivelano i limiti di una decisione determinata da un clima ecclesiale in cui si riteneva necessario ribadire la natura teandrica della Chiesa in contrapposizione alla rivendicazione del diritto delle donne ad accedere al ministero. Il contesto ha fatto dimenticare che l’aspirazione al sacerdozio femminile non si era storicamente espressa in termini giuridici e rivendicativi; ma, fondata sull’adeguamento alle necessità dei tempi del tradizionale richiamo al carattere mariotipico della presenza femminile nella Chiesa, si era sviluppata su un terreno vocazionale, spirituale e cultuale. Ricollocare su questa piano la discussione, può aiutarne a superarne i blocchi.
#ANTROPOLOGIA #FILOSOFIA #ARTE. IL #CANTICODEICANTICI E LE #DUEALI DELLA CELESTE #MUSICA.
#Caravaggio: #MariaeGiuseppe con il loro #figlio in un momento di "#Riposo durante la #fugainEgitto"
MESSAGGIO EVANGELICO E LA "NUOVA ALLEANZA" DI "MARIA E GIUSEPPE". EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA.... *
Per la studiosa occorre «ritrovare una struttura consonante a quanto presenta Paolo, cioè la Chiesa come corpo, dove l’istituzione si fonda su doni particolari assegnati agli uni e agli altri»
di Lorenzo Fazzini (Avvenire, mercoledì 27 gennaio 2021)
Anne-Marie Pelletier non è solo una sagace esegeta e una brillante docente universitaria. Già Premio Ratzinger per la teologia, l’intellettuale francese diventa anche una paladina delle donne, dentro e fuori la Chiesa, quando affronta il tema dell’odierna condizione femminile.
«Un club di uomini anziani, vestiti in modo strano, che dicono alla gente come si deve comportarsi a letto». Con questa sarcastica definizione Timothy Radcliffe illustra come, a suo dire, la gente vede la Chiesa. Perché non viene invece riconosciuto il grande apporto delle donne alla vita della Chiesa?
Le parole di Radcliffe sono impietose ma esprimono bene la realtà. La visibilità della Chiesa cattolica resta incontestabilmente quella della sua gerarchia, esclusivamente composta da uomini. E questa visione non è un effetto ottico.
È sufficiente aprire la porta di una chiesa durante una celebrazione per constatare che il presbiterio è uno spazio che appartiene agli uomini, in via maggioritaria se non esclusiva. Inoltre, l’autorità viene collegata al sacerdozio ministeriale. E per molti questo tipo di sacerdozio resta la chiave di volta del corpo ecclesiale. Anzi, passa l’idea che ne costituisca l’espressione suprema.
Da qui le reiterate denunce di clericalismo da parte di papa Francesco.
Cosa va perso in questa visione maschio-centrica?
Il dramma è che la verità della Chiesa viene nascosta. Infatti, la Chiesa non è innanzitutto la sua gerarchia, ma prima di tutto un corpo, che questa gerarchia ha la funzione di servire. Questo corpo è composto da uomini e donne che, nei loro diversi stati di vita, si riconoscono convocati dalla parola di Cristo. Questo popolo di battezzati dona carne e presenza al Vangelo nel mondo, spesso silenziosamente ma in modo autentico. E bisogna ammettere che le donne, in questo corpo, hanno un posto eminente, anzi dominante perché, in molti luoghi e circostanze, sono loro il volto e la mano della Chiesa per i nostri contemporanei. Io perdo un po’ la pazienza quando sento ripetere che ’bisogna fare spazio alle donne’ quando, invece, la prima cosa da fare è riconoscere il posto che esse occupano nelle parrocchie, nella catechesi, nelle missioni. Senza di loro, la Chiesa sarebbe già sparita.
Altrove lei ha sottolineato come l’attenzione della Chiesa con Francesco verso le donne non sia una questione nuova: da 50 anni i Papi prestano un’attenzione crescente al mondo femminile con diversi documenti. Allora è la Chiesa che ha fallito, rispetto all’uguaglianza uomo-donna, se ancora oggi viene percepita come maschile?
Si tratta di un dato impressionante. Dagli anni Sessanta il magistero ha prestato alle donne un’attenzione inedita. Non si era mai visto un elogio tale della donna da parte delle autorità della Chiesa. Eppure, nella Chiesa cattolica, le donne - in gran numero - hanno continuato a sentirsi emarginate, vedendosi assegnate a posti secondari, trattate con accondiscendenza, talvolta disprezzate da un mondo clericale che si arroga ogni decisione. Al punto da far sorgere l’opinione che molte poche cose sarebbero potute cambiare. Il problema di fondo non è semplicemente parlare delle donne, né parlare alle donne, ma lasciarle esistere, farle parlare a nome proprio nella Chiesa, far sì che siano esse a giudicare i problemi della vita e le questioni della fede, di cui hanno esperienza tanto quanto gli uomini.
In un suo testo su ’Vita e Pensiero’ lei scrive: «Il futuro dell’istituzione ecclesiale è intrinsecamente legato, nel cattolicesimo, a una riflessione polifonica ovvero alla condivisione della ricerca della verità, sempre più grande di quanto siamo capaci di cogliere». Può essere una riforma solo ’intellettuale’ sufficiente per far progredire il posto delle donne nella Chiesa? Oppure serve anche una riforma strutturale?
Per me è chiaro che una vera riforma della Chiesa deve incarnarsi nelle strutture della sua vita e nell’organigramma della sua governance. In questo senso non bastano tante belle parole. Il punto focale è che noi, uomini e donne, ci troviamo insieme nella responsabilità verso il Vangelo e nella missione della Chiesa. Rispetto al motu proprio recente, esso ritorna su un testo del 1972 che apriva il lettorato e il servizio di accolitato ai laici, a condizione che fossero uomini: in questo caso il magistero permette di metter fine ad un’aberrazione che squalifica la Chiesa. Resta il fatto che sarebbe troppo poco cercare solo di ridistribuire i poteri in una struttura immutata. Sono convinta che siamo in un momento cruciale in cui l’istituzione ecclesiale deve reinventarsi. Si deve tornare all’ecclesiologia. Non si significa fossilizzarsi su un’attività astrattamente intellettuale. Anzi, qui c’è la leva per un vero cambiamento di fondo. In questo senso mi piace comprendere la messa in guardia di papa Francesco di non attenersi alle semplici ’funzioni’. Per questo, mi trovo a disagio quando si pensa che l’accesso al sacerdozio femminile costituirebbe la soluzione della questione. Piuttosto vi constato un modo per ricondurre e confermare l’intero ordine ecclesiale al primato del sacerdozio ministeriale. Invece, penso che si debba uscire da questo schema per ritrovare una struttura consonante a quanto Paolo presenta, cioè la Chiesa come corpo, dove l’istituzione si fonda su doni particolari assegnati agli uni e agli altri per il servizio di tutti. E così la Chiesa si ridisegna come una comunità di battezzati, dove il sacerdozio battesimale, condiviso da tutti, ritorna ad essere il più importante.
Nel suo libro Una comunione di uomini e donne lei ha parlato di un «machismo diventato il marchio di fabbrica della Russia putiniana e dell’America trumpiana». Perché l’avversione all’emancipazione femminile è così forte nel sovranismo?
Le donne oggi si ritrovano ad essere sotto la minaccia di regimi autoritari che proliferano e che hanno un’aria di dejà vu, i cui leader sono esclusivamente uomini. La Russia vive sotto il comando di un dirigente che esalta la virilità brutale, che mostra mediaticamente i suoi muscoli e che porta avanti una repressione impietosa delle opposizioni: la guerra in Cecenia ne é un sinistro esempio. Non è un caso che una delle maggiori oppositrici di questa ideologia sia una donna, il premio Nobel Svetlana Aleksievic, che ha scritto un libro intitolato La guerra non ha volto di donna. -Quanto al populismo di Donald Trump o Jair Bolsonaro e altri, sappiamo bene come questi uomini disprezzino le donne, sia nei loro discorsi che nella loro vita privata. Non dimentichiamo che le più grandi manifestazioni nella storia degli Usa sono state quelle delle donne che denunciavano il machismo insolente di Donald Trump nel 2016.
I movimenti per l’emancipazione delle donne sono un segno dei tempi. Come far sì che diventino positivi per l’intera società e non restino relegati ad essere - per quanto giuste - solo proteste?
É indubbio che i femminismi, per natura, sono movimenti protestatari e militanti. Come stupirsi che, per denunciare le violenze che pesano di esse e gli asservimenti cui sono costrette, le donne scendano in piazza e brandiscano lo stendardo della rivolta? Ma l’obiettivo dovrebbe essere quello di uscire dalla guerra tra sessi, per arrivare ad un’auspicabile stima reciproca, fino a un’alleanza felice per la pienezza degli uni e delle altre. Non è certo quello che intendono quante oggi riesumano i testi di Valérie Solanas, l’intellettuale americana che sognava l’eliminazione del maschio dall’umanità. Un atteggiamento oltranzista, questo, che non opera per il bene delle donne ostaggio della miseria, delle povertà e del machismo che prospera su questo terreno.
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SUL TEMA, NEL SITO E IN RETE, SI CFR.:
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907 - con una nota introduttiva
FLS
“DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE, MARIA, E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE... *
Lo sposalizio di Maria e Giuseppe
Un amore semplice
di Antonio Tarallo *
Si erge con magnifico splendore la pala del Raffaello, insigne maestro del Rinascimento: «Sposalizio della Vergine», olio su tavola firmato Raphael Vrbinas, datato mdiiii . Colpisce la maestria dei colori. Colpisce l’equilibrio perfetto delle forme. La scena del matrimonio di Maria e Giuseppe è posta in primo piano. Dietro di loro, al centro, un sacerdote. Tiene le mani di entrambi, custode delle nozze. Alla sinistra di Maria, le donne. A destra di Giuseppe, un gruppo di uomini. Nell’iconografia tradizionale, usualmente, proprio uno di questi uomini è colto nell’atto di spezzare un bastone. È un ramo secco destinato a non fiorire, a non portare frutto. Solo quello di Giuseppe, invece, fiorisce. Ma da dove proviene questa tradizione?
Secondo i vangeli apocrifi, Maria era cresciuta nel Tempio di Gerusalemme - conservando, quindi, la castità - e, quando giunta in età di matrimonio (secondo la tradizione ebraica) la troviamo promessa sposa di Giuseppe. Il Protovangelo di Giacomo ( ii secolo) ci fornisce alcune informazioni a riguardo. Giuseppe è discendente dalla famiglia di David e originario di Betlemme. Prima del matrimonio con Maria, si sposò con una donna con la quale ebbe sei figli. Rimase però, poi, vedovo. Ed è in questo contesto che si introduce la famosa tradizione del bastone fiorito di Giuseppe. Come? Andando ad approfondire il tema - grazie al lavoro che sta compiendo, da tempo, la Pontificia Accademia mariana internationale sul recupero di una vera ed autentica “storia di Maria”, su un sempre maggiore approfondimento della sua figura, scrostando le sovrastrutture che il tempo ha costruito sopra la Vergine - riusciamo a comprendere meglio questo “arcano” che si dipana tra tradizione e iconografia. Basterebbe pensare a tutte le immagini che raffigurano Giuseppe che tiene in mano un bastone fiorito. È, allora, assai interessante andare a scovare le parole che il vangelo apocrifo riserva a questo episodio: «Indossato il manto dai dodici sonagli, il sommo sacerdote entrò nel santo dei santi e pregò a riguardo di Maria. Ed ecco che gli apparve un angelo del Signore, dicendogli: “Zaccaria, Zaccaria! Esci e raduna tutti i vedovi del popolo. Ognuno porti un bastone: sarà la moglie di colui che il Signore designerà per mezzo di un segno”. Uscirono i banditori per tutta la regione della Giudea, echeggiò la tromba del Signore e tutti corsero. Gettata l’ascia, Giuseppe uscì per raggiungerli. Riunitisi, andarono dal sommo sacerdote, portando i bastoni. Presi i bastoni di tutti, entrò nel tempio a pregare. Finita la preghiera, prese i bastoni, uscì e li restituì loro; ma in essi non v’era alcun segno. Giuseppe prese l’ultimo bastone: ed ecco che una colomba uscì dal suo bastone e volò sul capo di Giuseppe. Il sacerdote disse allora a Giuseppe: “Tu sei stato eletto a ricevere in custodia la vergine del Signore”». Fin qui, ciò che una errata tradizione ci dice. Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza su questo evento che ha segnato il piano di salvezza di Dio per l’umanità intera.
Il mese di Adar era il mese dei matrimoni. Un proverbio diceva: «Quando arriva Adar, Israele si riempie di gioia!». Troviamo una Maria quindicenne, allora. È una fanciulla che si avvicina all’età in cui le ragazze d’Israele erano solite contrarre matrimonio. Molto probabile che i genitori fossero già morti. Maria era, allora, nella casa di qualche parente della sua famiglia. Il capo di quella famiglia, come rappresentante del padre di Myriam, deve occuparsi del suo futuro. Viene concordato il matrimonio di Maria con Giuseppe. Sono poche le notizie che i Vangeli ci offrono sul “promesso sposo” di Maria. Del loro incontro, nulla sappiamo. È molto probabile che si conoscessero già prima del matrimonio. Il villaggio è piccolo: Nazaret, questo piccolo paese della Galilea.
Giuseppe era della stirpe reale di Davide e, in virtù del suo matrimonio con Maria, conferirà al figlio della Vergine - Figlio di Dio - il titolo legale di figlio di Davide. È l’adempimento delle profezie. Maria sa soltanto che il Signore l’ha voluta sposa di Giuseppe, un “uomo giusto”. Come immaginare, allora, il loro matrimonio? La tradizione giudaica antica ci viene in aiuto. Sappiamo bene che tutta la comunità del villaggio partecipava a questa gioia. Gran sfarzo di abiti. Frasi dell’Antico Testamento che riecheggiavano nella cerimonia: il Talmud, il libro principe di tutto. Gli anziani della città coprivano il loro capo con veli bianchi in segno di superiorità: sono gli anziani, gli uomini più rispettati della comunità. I bambini, in quel giorno così particolare, ricevevano dolci di miele e noci. E lo sposo faceva un regalo alla sposa, un regalo significativo.
«Il ragazzo e Maria si capivano senza parole, non c’era mai tra i due il minimo urto: sembrava che entrassero l’uno nell’altra, che costituissero un’unica persona, tanto era stretta la loro unione», così lo scrittore Pasquale Festa Campanile ci presenta i due coniugi nel suo romanzo Per amore, solo per amore (1983). E a noi, piace trovare in quella parola, «amore», l’infinito Amore di Dio per l’umanità, espresso proprio in un matrimonio, in una unione sponsale tra un giovane e una giovane. Così, semplicemente. Perché Dio è semplice nel suo Amore.
* Fonte: L’Osservatore Romano, 23 gennaio 2021
* Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Il Trittico di Mérode è un dipinto di Robert Campin, olio su tavola (129x64,50 cm) conservato nel Metropolitan Museum di New York, nella sezione The Cloisters, e databile al 1427. - Il trittico, formato tipico della produzione di Campin, poteva essere chiuso, ed era probabilmente destinato alla devozione privata. La scena centrale mostra l’Annunciazione, mentre gli scomparti laterali mostrano i due committenti inginocchiati e San Giuseppe al lavoro
“DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE...
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FLS
Papa: nuovi ruoli alle donne, apre a Lettorato e Accolitato
’Ma la Chiesa non può conferire loro l’ordinazione sacerdotale’
di Redazione ANSA *
CITTA DEL VATICANO. Papa Francesco ha stabilito con un Motu proprio che i ministeri del Lettorato e dell’Accolitato siano d’ora in poi aperti anche alle donne, in forma stabile e istituzionalizzata con un apposito mandato. Le donne che leggono la Parola di Dio durante le celebrazioni liturgiche o che svolgono un servizio all’altare in realtà già ci sono con una prassi autorizzata dai vescovi.
Fino ad oggi però tutto ciò avveniva senza un mandato istituzionale vero e proprio.
Aprire ufficialmente le porte alle donne nel Lettorato e nell’Accolitato non significa che potranno diventare sacerdoti. E’ quanto precisa lo stesso Papa facendo proprie le parole di Giovanni Paolo II: "Rispetto ai ministeri ordinati la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale".
* ANSA 11 gennaio 2021 - 19:06 (ripresa parziale).
ARCHEOLOGIA FILOSOFICA E MEMORIA ANTROPOLOGICA.
USCIRE DALL’ORIZZZONTE DELLA BIBLICA "CADUTA" ...
DANTE - 2021 E LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI": RISALIRE LA CORRENTE E RITROVARE I PROPRI "GENITORI". Al di là di Caino, la nuova Eva - Maria e Giuseppe, il nuovo Adamo , e Gesù è figlio dell’ amore [charitas] che move il Sole e le altre stelle (Pd. XXXIII, v. 145).
Federico La Sala
PROFETI, SIBILLE, E MESSAGGIO EVANGELICO:
ANTONIO ROSMINI E LA "CHARITAS". Un invito a ...
Rileggere il testo della "BREVE DISSERTAZIONE DI ANTONIO ROSMINI SULLE SIBILLE" (Patricia Salomoni, "Rosmini Studies", 6, 2019). Che Rosmini abbia iniziato il suo percorso riflettendo sulle figure delle Sibille, è da considerarsi un fatto degno della massima attenzione - e, ovviamente, di ulteriore approfondimento!
La riflessione su tale tema, probabilmente, lo ha reso più vigile nel suo cammino e nella sua fedeltà alla lettera e allo spirito della "Charitas". Il "Kant italiano", infatti, iniziando il suo percorso con la tesi di laurea sulle Sibille (1822), non solo non ha perso il suo legame con la Grazia (Charis) e con le Grazie (Charites), ma - coerentemente - ha saputo custodire anche l’«h» della Charitas! E ha cercato di tenere ferma la sua distanza dalla logica economica - sempre più dilagante - della "carità" del "mercato" ("caritas") e, al contempo, dalla politica di sostegno alla diffusione della "eu-carestia" - a tutti i livelli. Ma, alla fine, non è riuscito a coniugare - come voleva, in spirito di verità e carità - - il rapporto tra filosofia (sapienza pagana) e rivelazione (sapienza ebraica).
Già all’inizio del suo percorso, benché partito con buona volontà e - kantianamente ("Sapere aude!") - con gran coraggio, infatti, egli s’inchina all’autorità di sant’Agostino ("De Civitate Dei", XVIII, 47) e - pur rendendosi conto con lo stesso Agostino che "qualsiasi predizione su Cristo poteva essere dichiarata falsa dagli empi e soggiacere al medesimo discredito, sia che si trattasse degli oracoli delle Sibille o delle profezie degli Ebrei" - conclude con un "non è gradito a Lui stesso che, nelle dispute, noi dedichiamo troppe energie più a quelli che a queste" e attribuisce la palma della credibilità solo a "queste .. certissime, luminosissime, custodite dal popolo ebraico a noi assai ostile, e protette da ogni corruzione con incomparabile ed encomiabile cura nel corso di molti secoli" (P. Salomoni, cit, p. 227).
A partire da "queste" premesse (promesse già non mantenute!), ovviamente, accolta solo la parola dei "profeti" non si può che rinarrare e riscrivere la vecchia "storia dell’Amore" di Adamo ed Eva:
E così, contravvenendo frettolosamente alle regole morali del suo stesso "metodo filosofico", il suo desiderio di lasciarsi guidare "in tutti i suoi passi dall’amore della verità", come dalla carità ("charitas") piena di grazia (charis), resta confinato nell’orizzonte della caduta e della minorità - e la presenza delle Sibille insieme ai Profeti nella Volta della Cappella Sistina è ancora un grosso problema!
Federico La Sala
The Economy of Francesco.
«Generare» non solo produrre: l’economia del prendersi cura
Da Assisi la rivoluzione di un nuovo modello di sviluppo che pensi alle generazioni future. Le proposte di Magatti, Becchetti e Consuelo Corradi
di Cinzia Arena (Avvenire, venerdì 20 novembre 2020)
Uscire dal binomio produzione e consumo per realizzare un nuovo paradigma di economia circolare che metta al centro la persona, accompagni le nuove generazioni e tuteli l’ambiente. Una rivoluzione silenziosa partita da Assisi - sede reale e simbolica dell’evento voluto da papa Francesco che ha come protagonisti duemila giovani imprenditori ed economisti - che parla alle nostre coscienze in un momento storico così complesso e pieno di incertezze. «Generatività, beni relazionali ed economia civile» è il titolo del dibattito che ha aperto la seconda giornata di «The economy of Francesco».
Sabato ci sarà il video-messaggio del Pontefice e un arrivederci all’anno prossimo, in autunno, quando si spera si potrà proseguire in presenza il cammino intrapreso in questi tre giorni di dibattiti in streaming. Un concetto quello della "generatività", che i relatori, Mauro Magatti, ordinario di Sociologia all’università Cattolica, Consuelo Corradi, professore di Sociologia alla Lumsa e Leonardo Becchetti, ordinario di economia politica all’università Tor Vergata hanno cercato di rendere concreto. Un processo di relazioni che coinvolge tutta la comunità: dai cittadini, agli imprenditori alle istituzioni.
«Sino ad oggi il circuito della produzione e del consumo hanno regolato il nostro modello economico - ha detto Magatti - . Ma un’economia basata sulla quantità produce diseguaglianze ed è entropica con l’ambiente. Occorre fare un passo più in là come dice Pascal "conoscere le ragioni del cuore che la ragione non conosce". Produrre e consumare sono alla base della civiltà umana. Il problema nasce quando produzione e consumo pretendono di diventare assolute e di dare senso alle nostre vite, da qui nasce l’ossessione del controllo».
Al contrario il "generare" è un movimento antropologico basato sul prendersi cura. «È la condizione essenziale per capire chi siamo, è la circolazione della vita e della libertà attraverso e al di dà di quello che facciamo noi». Per questo Magatti ipotizza la necessità di una transizione su quattro fronti: formativa, organizzativa, comunitaria e ambientale. «L’idea di un’economia generativa riapre il futuro che ci sembra chiuso, ci permette di mettere al mondo, prendersi cura, accompagnare e lasciare andare».
Nel suo intervento Consuelo Corradi ha declinato il tema al femminile. Partendo dalla domanda sul come raggiungere la parità di genere, Corradi ha ipotizzato due risposte. La prima, passa per il concetto del "non ancora": in Italia ad esempio «non c’è ancora ancora un presidente Repubblica o un premier donna». Ma è la seconda risposta secondo Corradi ad essere la più interessante anche se presenta delle insidie. E consiste nel mettere al centro la diversità e il ruolo fondamentale delle donne alla generatività, concetto che travalica quello di maternità. «Le donne hanno una familiarità con le difficoltà. Hanno affinità con il dolore e la fatica: non a caso sono madri, infermiere, insegnanti. Hanno il piacere del prendersi cura degli altri, nelle famiglie così come nelle aziende e negli istituti di ricerca».
Tutti elementi che contrastano con l’individualismo estremo. «Se l’unica aspettativa delle donne diventa essere pari agli uomini, autonome efficienti e determinate, finiremo per dimenticare tale bio-diversità e questa sarà una grave perdita» ha concluso la professoressa.Becchetti ha parlato delle necessità di nuovi indicatori per le politiche economiche, un nuovo paradigma che «introduca i concetti di dono e fiducia al posto della massimizzazione del profitto». Dire basta alla logica del Pil basata sulla produzione di beni. «La politica economica deve passare da un modello a due mani, vale a dire mercato e istituzioni, ad un modello a quattro mani che includa anche cittadinanza attiva e impresa responsabile come previsto dal goal 12 dell’Agenda 2030». In questa direzione si può andare solo con un impegno collettivo, trasformando le nostre scelte di tutti i giorni, facendo acquisti ragionati, premiando le imprese sostenibili da punto di vista ambientale e soprattutto umano. «Il messaggio finale è non dobbiamo pensare che il mondo si cambi solo d’alto, lo cambiano le nostre scelte costruite dal basso: votiamo ogni volta che scegliamo un prodotto».
Jill Biden, il cambio della first ladyship sulle orme di Eleanor
First Ladies. Nel primo anno da first lady Eleanor Roosevelt guadagnava quanto il presidente, spendendo i suoi soldi per cause sociali e l’emancipazione delle donne.
di Rossella Rossini (il manifesto, 13.11.2020)
Complice oltre un secolo di storia di emancipazione delle donne, di cui il suffragio universale, nel 1920 in tutti gli Stati dell’Unione, segnò una tappa importante, la svolta produsse un cambio di rotta nella first ladyship degli Stati uniti e continua a rappresentare un lascito prezioso. La scelta di Jill Biden di non rinunciare alla sua professione di insegnante di lingua e letteratura inglese colloca la nuova prima cittadina sulla strada dell’indipendenza aperta da Eleanor Roosevelt nei dodici anni trascorsi alla Casa Bianca (1933-1945), ma già imboccata come first lady dello Stato di New York, di cui Franklin Delano Roosevelt fu governatore.
Eleanor Roosevelt aveva nutrito dubbi sulla candidatura del marito e aveva accolto con perplessità la vittoria alla convenzione democratica, nel timore che ciò potesse comportare la rinuncia alla sua vita pubblica e alle sue molteplici attività. Invece, avrebbe saputo arricchire il nuovo ruolo di inedite funzioni, cementando l’unione con Franklin come «coppia politica» e divenendo negli anni una first lady a tutto tondo, che condivideva e sosteneva gli obiettivi del consorte e intanto faceva passi da gigante lungo il cammino dell’autonomia.
Leader riconosciuta nel mondo dell’associazionismo, si batteva per la pace, l’eguaglianza e la democrazia; per l’internazionalismo; per i diritti delle donne, degli afroamericani e delle fasce più emarginate della popolazione, destreggiandosi con la stessa maestria sulla scena pubblica e politica degli Stati Uniti e tra i suoi numerosi interessi e mestieri.
Di essi fecero parte l’insegnamento di storia, letteratura e affari pubblici alla Todhunter School di New York, una scuola privata per ragazze di cui era anche comproprietaria e co-direttrice; l’intenso lavoro giornalistico per testate e stazioni radiofoniche, anche commerciali, che portavano la sua voce e il suo pensiero fino negli angoli più remoti del paese; l’attività di imprenditrice, con la fondazione e gestione assieme a due amiche femministe delle Val-Kill Industries, di cui facevano parte una fabbrica di mobili, una fornace per metalli e una tessitura, che insegnavano un mestiere e davano lavoro a giovani non più in grado di mantenersi nei campi impoveriti dalla depressione.
Alla fine del primo anno da first lady della nazione Eleanor guadagnava quanto il presidente, spendendo tutti i suoi introiti per cause sociali e, forse, vedendo la sua lotta per consolidare la propria indipendenza anche economica connessa alla più ampia battaglia per i diritti e l’emancipazione combattuta per tutte le donne.
L’indipendenza non fu solo economica. Dopo l’elezione di Franklin alla guida della nazione, furono quasi 40.000 i chilometri percorsi da Eleanor nei primi mesi del primo dei quattro mandati del marito per diffondere i valori e le politiche del New Deal, avere un resoconto di prima mano dello stato in cui versava il paese sconvolto dalla Grande Depressione e riferirne al presidente, contribuendo attivamente all’adozione delle politiche di relief.
Ma se apparentemente si prestava a svolgere il ruolo di supporting wife, come aveva già fatto in qualità di first lady dello Stato di New York, nel corso di quelle visite e di quei viaggi maturava non solo la Eleanor «occhi e orecchie» del presidente, limitato nei suoi spostamenti dalla poliomielite che lo aveva colpito nel 1921, ma l’attivista e riformatrice, colei che, già conosciuta e riconosciuta come leader politica autonoma e fortemente radicata in quella che oggi si definisce la società civile, rappresentava l’ala più progressista della nuova era, attenta e sensibile alle questioni di giustizia economica e sociale, ai diritti delle donne e dei giovani, delle minoranze e dei lavoratori e impegnata a battersi contro razzismo e discriminazioni.
All’interno della partnership politica con il marito, Eleanor cercò sempre di portare avanti i progetti che le stavano più a cuore: la battaglia per l’adesione degli Stati Uniti alla Corte internazionale di giustizia; l’estensione alle donne dei programmi volti ad aumentare l’occupazione nei lavori pubblici; il progetto di riqualificazione abitativa per le famiglie povere dei minatori della Virginia occidentale; le politiche a favore degli afroamericani; programmi per i giovani, con la creazione della National Youth Administration, a lei dovuta e di cui andava fiera; una legge federale contro i linciaggi.
Oltre 200 disegni sono stati respinti al Congresso per 120 anni dal blocco dei suprematisti bianchi del Sud eletti al Senato, fino al Justice for Victims of Lynching Act of 2019 che rende il linciaggio crimine federale, discusso e approvato all’unanimità il 14 febbraio 2019.
A presentarlo come prima firmataria la senatrice democratica Kamala Harris. Dovrebbero mancare pochi passi perché diventi definitivamente legge ed entri nel codice penale.
I diritti delle donne
Quel corpo è nostro
di Ilaria Romeo (Collettiva, 08.11.2020)
L’8 novembre 1975 la Cassazione dichiara valido il numero di firme raccolte per il referendum abrogativo delle norme che vietano l’aborto. Il voto si terrà l’anno successivo tra polemiche e dibattiti spesso animati da una chiara misoginia come lo scontro tra Italo Calvino che difendeva la libertà femminile e Claudio Magris e Pier Paolo Pasolini, antiabortisti
Per stimolare ed affrettare il Parlamento all’approvazione di una legge sulla interruzione volontaria della gravidanza, nel 1975 il Partito Radicale e il Mld prendono l’iniziativa di raccogliere le firme per un Referendum abrogativo delle norme del Codice penale che vietano l’aborto.
L’8 novembre 1975 la Cassazione dichiara valido il numero di firme per il referendum (se non subentrerà una nuova legge le votazioni dovranno tenersi tra il 15 aprile e il 15 giugno 1976). Scriveva Pier Paolo Pasolini sul Corriere della Sera il 19 gennaio di quell’anno:
Un mese dopo anche lo scrittore Claudio Magris interverrà sulle pagine del Corriere esprimendo una posizione fortemente antiabortista e a tratti misogina che arrivava a irridere le misure igieniche in un articolo intitolato Gli sbagliati (nel 1981, imperterrito, Magris, in occasione del referendum sull’aborto, scriverà un altro articolo per il Corriere, schierandosi con gli avversari dell’aborto, come aveva già fatto. In questo caso però la testata aspetterà a pubblicare il pezzo all’indomani del referendum).
A Pasolini - e a Claudio Magris - risponde, a caldo, Italo Calvino:
Non dimentichiamo che fino a non tantissimi anni fa in Italia le donne non potevano votare, non potevano abortire né divorziare, potevano essere licenziate in caso di matrimonio, non potevano - da sposate - usare il proprio cognome, e se venivano uccise non era poi così grave, almeno non se si erano macchiate della colpa di aver leso l’onore maschile. Non dimentichiamo “che sarà sufficiente una crisi politica, economica o religiosa perché i diritti delle donne siano rimessi in discussione”. Non dimentichiamo e soprattutto rEsistiamo, ieri, oggi, sempre.
TEOLOGIA E ANTROPOLOGIA: GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA! O NO?!
Il punto.
Coppie omosessuali, sì alla tutela civile ma niente confusione col matrimonio
Tante reazioni alle parole del Papa nel docufilm “Francesco”. Parla Fernández arcivescovo argentino: Sin da quando era cardinale arcivescovo di Buenos Aires, Bergoglio ha distinto i due piani
di Lucia Capuzzi (Avvenire, venerdì 23 ottobre 2020)
«Ciò che dobbiamo fare è una legge sulla convivenza civile, hanno diritto a una forma di tutela legale. L’ho già sostenuto». Al di là delle forzature mediatiche, l’opinione di Jorge Mario Bergoglio sulle coppie omosessuali non è cambiata negli ultimi dieci anni.
La frase riportata nel documentario di Evgeny Afineevsky ricalca quanto già espresso nel 2010 quando, come arcivescovo di Buenos Aires, si trovò ad affrontare l’infuocato dibattito sulle nozze gay, legge fortemente voluta dal governo dell’allora presidenta Cristina Fernández de Kirchner. A ricordarlo non sono solo accreditate fonti giornalistiche di quell’epoca, tra cui il biografo ufficiale Sergio Rubín.
Ieri, in un messaggio su Facebook, monsignor Victor Manuel Fernández, arcivescovo di La Plata, teologo e profondo conoscitore del pensiero bergogliano, ricostruisce la vicenda, sottolineando come per papa Francesco, prima e dopo l’elezione al soglio pontificio, si devono distinguere due piani.
Da una parte c’è il «matrimonio», termine con un significato preciso, applicabile solo a un’unione stabile tra una donna e un uomo, aperta alla vita. «Questa unione è unica, perché implica la differenza tra l’uomo e la donna, uniti da un rapporto di reciprocità e arricchiti da questa differenza, naturalmente capace di generare vita», spiega monsignor Fernández. Qualunque altra unione simile richiede, dunque, una denominazione differente.
Unioni o convivenza civile, appunto. «Jorge Mario Bergoglio ha sempre riconosciuto, pur senza necessità di definirli matrimonio, l’esistenza di legami molto stretti fra persone dello stesso sesso, che vanno al di là del mero piano sessuale, ma sono alleanze intense e stabili. Le persone si conoscono a fondo, condividono lo stesso tetto per molto tempo, si prendono cura e si sacrificano l’uno per l’altro», afferma l’arcivescovo di La Plata. In caso di malattia grave o morte, uno dei due può desiderare i suoi beni all’altro o che sia quest’ultimo ad essere consultato invece di un familiare. «Tutto ciò può essere contemplato da una legge» sulle «unioni civili o normativa di convivenza civile, non matrimonio».
A tal proposito, monsignor Fernández conferma quanto già riportato dai media dieci anni fa. Ovvero che, durante il dibattito sul cosiddetto matrimonio igualitario in Argentina, il cardinal Bergoglio sostenne tale posizione durante un incontro ad hoc con l’episcopato: la maggioranza, però, si oppose. La questione era già emersa subito il conclave del 2013. Da allora, il successore di Pietro ha sempre mostrato sensibilità e attenzione pastorale nei confronti delle persone omosessuali. Certo, nel docu-film di Afineevsky, Francesco torna espressamente sulla questione delle unioni civili e ripropone, da Papa, quanto già affermato dieci anni fa. Nemmeno questo, però, è un inedito assoluto.
Nel libro che raccoglie le conversazioni con il sociologo Dominique Wolton, pubblicato in Francia nel 2017 e in Italia l’anno successivo, c’è già un accenno al riguardo. «Matrimonio è un termine che ha una storia. Da sempre, nella storia dell’umanità e non solo della Chiesa, viene celebrato tra un uomo e una donna», afferma Francesco in Dio è un poeta, edito nel nostro Paese da Rizzoli. E aggiunge: «È una cosa che non si può cambiare. È la natura delle cose, è così. Chiamiamole unioni civili. Non scherziamo con la verità» .
Il documentario Francesco, insignito ieri, nei giardini vaticani, del premio Kinéo, non contiene, dunque, verità sconvolgenti.
Del resto non era questo l’obiettivo dell’autore, ebreo non praticante di origini russe. Attraverso la raccolta di testimonianze e immagini, il regista cerca di narrare le ferite del mondo: le guerre, l’esodo infinito a cui sono costrette migliaia di persone, i muri vecchi e nuovi, fisici e mentali che separano gli uni dagli altri. Il racconto segue il Papa nei suoi viaggi, da Lampedusa a Manila, da Ciudad Juárez a Santiago.
Il racconto su Francesco, spiega Afineevsky, però, piano piano, si è trasformato in un film «sull’umanità che commette errori, fatta di peccatori...». La chiave è contenuta in una frase di Oscar Wilde cara al Papa e riportata nel filmato: «Ogni santo ha un passato e ogni peccatore ha un futuro».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
A FREUD (Freiberg, 6 maggio 1856 - Londra, 23 settembre 1939), GLORIA ETERNA !!! IN DIFESA DELLA PSICOANALISI.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA : VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
Federico La Sala
Oltre la pillola.
Con le donne contro la clandestinità
di Giancarla Cordignani (Avvenire, martedì 1 settembre 2020)
Gentile direttore,
«Le nuove linee guida, basate sull’evidenza scientifica, prevedono l’interruzione volontaria di gravidanza con metodo farmacologico in day hospital e fino alla nona settimana. È un passo avanti importante nel pieno rispetto della 194 che è e resta una legge di civiltà del nostro Paese». Ineccepibile: il ministro della Salute consente un aggiornamento della 194, imprevedibile solo da chi ha fatto conto di non capire che, se un farmaco è in grado di prevenire il concepimento, il tipo di procedimento farmacologico era in grado di arrivare a dosaggi tipo ’pillola del giorno dopo’ e pillola abortiva.
E siccome l’aborto chirurgico - tralasciando i risvolti psicologici che non possono mai essere dimenticati - significa pur sempre un intervento sanitario importante che rende ancor più traumatica la decisione della donna, sembra il minimo che le sia risparmiato un aggravio di sofferenza. D’altra parte le proteste dopo l’approvazione del testo ministeriale danno alle donne l’impressione di una volontà punitiva dei ’patriarchi’. Quindi, per una persona come me, credente e laica, che quando si rese conto del numero sterminato di aborti nel nostro Paese, in clandestinità, con interventi disperati e mortali, prese posizione favorevole a una regolamentazione per legge di una pratica disumana che vedeva colpevolizzata la donna, lasciata sola anche davanti al codice penale che voleva tale reato condannabile perché «contro l’integrità e la sanità della stirpe» (senza contare che lo stupro era reato non contro la persona, ma contro la morale ed era estinguibile con il ’matrimonio riparatore’), non ci sono obiezioni di merito. Tuttavia. Tuttavia, una pillola abortiva non è un analgesico o un integratore.
Non si può assumere un paio di volte all’anno. E mi sembra che, visto che non siamo ancora riusciti a conciliare la libertà e l’egoismo tra i due ’generi’, bisognerà porre in questione, laicamente, la relazione uomo-donna. L’art.1 della 194 dice che lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. Le parlamentari che votarono una legge difficile davano senso preciso a parole sostanzialmente inapplicate, ma poi non proseguì la discussione sulla cultura della legge. L’opposizione cattolica si curò solo di negarle legittimazione, nonostante la necessità di intervenire responsabilmente in una materia a cui nessuna donna ha mai dato valore positivo. Anche i più permissivi si fermano al ’sarebbe meglio non dovervi ricorrere’. Per giunta non è mai stata approvata l’educazione sessuale nelle scuole, anche se sappiamo che ormai i bambini di nove anni se la formano sui siti porno di internet: si suppone che, se una ragazzina di quindici anni è ’nei guai’, la famiglia la porti in un ambulatorio privato e non risulti nel conteggio della diminuzione degli aborti, praticati da sempre dalle coniugate, spesso anche recidive.
Quindi la pillola abortiva toglie dai problemi anche quanti vanno a pregare davanti alle cliniche ginecologiche. Ma a me, da cittadina, restano da chiarire i termini riferiti alla procreazione «cosciente e responsabile » e alla maternità libera e responsabile di cui parla la legge.
Supponendo che tutti sappiano come nascono i bambini, sia per il matrimonio, sia per la convivenza, sia per rapporti occasionali, chiedo: come vanno le relazioni tra la donna e l’uomo? Motivazioni biologiche, sentimentali, avventurose a parte, sono relazioni ’vere’, in cui la gente si parla, dice le proprie esigenze, i propri desideri, compresa la disponibilità o meno di restare incinta? Perché chi straparla solo di bambini dovrebbe sapere che il bambino deve essere ’voluto’. Si può indulgere su qualcuno che arriva ’per caso’, ma quando una donna ritiene di ’dover’ abortire quel rapporto era davvero ’libero e responsabile’, la donna, la moglie era consenziente? Perché la donna ha diritto a decidere anche ’prima’, non solamente ’dopo’. Ma prima, oltre a parlare di sé e del loro entusiasmo, qual è stata la ’qualità’ del loro incontro intimo?
Stando alla gestualità di uomini che picchiano e ammazzano le donne e al linguaggio sessista nei confronti di esseri umani femmine, stando al fatto che cantanti, sindache o parlamentari si attirano volgarità da cura psicanalitica urgente non appena aprono bocca, a letto non ci deve essere grande spreco di preliminari e galanterie. Lo dico dalla parte delle donne che, non so se ancora, ma certo ai tempi di discussione della 194 raccontavano dei loro disagi e delle paure di ’restarci’ che non permettevano grande condivisione.
Ma lo dico soprattutto per la pochezza maschile, che si contenta, a sentire le favole da bar, di potenza e numeri. Ma la qualità? Va bene che anche a tavola spesso non siete un gran che, ma vedete che l’avanzamento della civiltà dal tempo delle ghiande si è evoluta: il pranzo e la cena sono riti, si invitano gli amici e, anche se la nostra non è la tavola di Versailles, usiamo tovaglie con i pizzi, porcellane e cristallerie anche quando in realtà sono piatti di coccio e vetri colorati, imbandiamo il meglio e dalla cucina escono vivande curate che finiscono in piatti accompagnati da posate e tovaglioli, magari di carta.
Le donne tengono ai ricami anche nei letti, ’poi’ magari anche loro non sono questa gran finezza, ma la maggioranza ai preliminari ci tiene, fa parte del rito del piacere; voi uomini troppo spesso vi contentate delle pulsioni, i cattolici - poi - pensano al buon Dio e credono di sapere che cosa vuole anche lì, tutti o quasi in genere non percepiscono differenze tra l’erotismo e la pornografia.
Se ci fosse anche una semplice buona educazione non si verificherebbero ancora così tanti aborti. Perché la donna che non vuole un figlio vorrebbe essere rispettata se dice ’no’ a un uomo che la vuole ’prendere’. Perché un uomo deve anche domandarsi perché mai si sia sposato e non far prevalere il suo egoismo.
Se una donna resta incinta senza averlo voluto una qualche violenza ci sarà stata: anche solo di ignoranza della contraccezione. E da adesso in poi la Ru486 diventerà più ’facile’. Ma non è che d’ora in avanti si risparmiano le prevenzioni e, poi, la donna si mangia la sua pillola e l’uomo non ha più preoccupazione... Perché prendere un farmaco pesante tocca a lei: lui perde pure gli scrupoli morali, roba di lei, non me ne preoccupo. Perché potrebbe passare anche a lei una ’leggerezza’ per un problema sociale che tornerebbe a diventare clandestino. Come donne, come società, davvero ci sta bene?
Giornalista, scrittrice direttrice di Server Donne già parlamentare della Repubblica italiana
Gioacchino e Anna.
Volti di una storia umana abitata dall’amore eterno
di Matteo Liut (Avvenire, domenica 26 luglio 2020)
Il giorno in cui la Chiesa ricorda i nonni di Gesù, i genitori di Maria, è anche l’occasione per ricordare che ogni essere umano “è” una storia, è il frutto di un cammino, l’emergere di un senso condiviso, partecipato da chi l’ha preceduto e offerto a chi verrà. I santi Gioacchino e Anna, la cui storia è narrata nei Vangeli apocrifi, rappresentano l’intimità custodita nella vicenda del Dio che si fa uomo: Gesù ha una famiglia, segnata dalle stesse difficoltà delle altre famiglie, ma capace di aprirsi all’eterno.
Allo stesso tempo i due nonni santi sono il volto della maestosità del Vangelo: nel Risorto si riconciliano le generazioni e si realizza il Regno dell’amore che riguarda l’universo intero. La devozione per Gioacchino e Anna - celebrati nello stesso giorno dal 1584 - si è diffusa prima in Oriente; in Occidente ègiunta alla fine del primo millennio.
Altri santi. Sant’Austindo, vescovo (XI sec.); San Giorgio Preca, sacerdote (1880-1962). Letture. 1Re 3,5.7-12; Sal 118; Rm 8,28-30; Mt 13,44-52.
Ambrosiano. 1Sam 3,1-20; Sal 62 (63); Ef 3,1-12; Mt 4,18-22.
Piano d’estinzione.
Interventi urgenti o la famiglia muore
Nel rapporto Cisf 2020 un quadro allarmante sul futuro incerto di un Paese senza genitori e senza figli
di Luciano Moia (Avvenire, mercoledì 15 luglio 2020)
Nel ’Rapporto sulla popolazione’ pubblicato nel 1980, si ipotizzavano alcune tendenze - rischio denatalità, scarsa propensione dei giovani al matrimonio, limitata considerazione sociale della famiglia - considerati oggi da tutti gli studiosi come elementi che concorrono in modo dirompente al declino italiano. Sono passati quarant’anni. Quei segnali di pericolo si sono aggravati da apparire quasi irreversibili, ma la politica, oggi come allora, appare indifferente.
Lo racconta il Rapporto Cisf 2020 - La famiglia nella società postfamiliare - che traccia un quadro a tinte fosche sul futuro dell’istituzione familiare e quindi su tutti noi. Possibile evitare che la famiglia in liquefazione trascini nel baratro l’intera società? Sì, ma sarebbe necessario rifondare il welfare, avviare un nuovo sistema fiscale con l’introduzione del fattore famiglia, proporre norme stringenti per la conciliazione famiglia- lavoro. E tanto altro ancora.
Ma servirebbero interventi di ampio respiro, con un impegno coerente su base almeno decennale. L’instabilità endemica dei nostri governi non sembra purtroppo assicurare tempi e interventi così strutturali e così coraggiosi. Che fare allora? Non stancarsi di riflettere su quanto la disgregazione della famiglia e la crisi demografia finiscano per pesare sulla società, determinando fenomeni difficilmente governabili. Al di là delle incertezze pesantissime sul futuro del sistema pensionistico, sanitario, assistenziale, esistono fenomeni come l’aumento dei femminicidi, delle violenze intrafamiliari, degli abusi sui minori che sono dirette conseguenza della progressiva disgregazione familiare. Sono tra le questioni emerse ieri nel corso della presentazione del nuovo Rapporto.
«Abbiamo sempre cercato di valorizzare il positivo - ha detto il direttore del Cisf, Francesco Belletti - ma non possiamo negare che, come spiega il nostro studio, le famiglie sono sempre più piccole (il 60% ha una o due componenti). E tra vent’anni avremo almeno uno o due milioni in meno di coppie con figli. E già oggi il 36% dei giovani non vuole sposarsi, il 40% non vuole avere figli».
Non solo problemi sorprendenti. Il primo rapporto Cisf, datato 1989, già segnalava tendenze allarmanti. Trent’anni dopo quelle previsioni sono realtà. E il Covid, come ha fatto notare il sociologo Pierpaolo Donati, curatore del rapporto, ha accelerato processi già gravissimi, legati alla crescita incontrollata delle nuove tecnologie in ambito mediatico e biologico.
«La famiglia come l’ambiente si sta surriscaldando - ha osservato l’esperto che ha coniato il neologismo family warmimg - perché la cultura emergente accentua la perdita della funzione sociale della famiglia, cioè del valore prodotto dalla famiglia per la società. Se la famiglia viene fatta coincidere con il puro privato il genoma familiare (dono, reciprocità, sessualità coniugale, generatività) evapora».
Declino inevitabile? «Siamo di fronte a un trend strutturale. Dobbiamo avere la capacità di modificare alla radice queste tendenze», ha auspicato Donati. «La famiglia dev’essere messa in condizione di fare il proprio mestiere. La terapia la conosciamo bene e altri Paesi - ha osservato il presidente dell’Istat Giancarlo Blangiardo - che quando si fa qualcosa, i risultati poi arrivano».
Eppure qualche segnale positivo c’è, ha fatto notare il presidente del Cnel, Tiziano Treu: «Vent’anni fa la conciliazione famiglia-lavoro era tema pressoché sconosciuto a livello aziendale. Oggi sono esigenze diffuse». Ma la strada, inutile nasconderselo, è tutta in salita.
Uscire dal letargo "teologico" e "filologico" e dalla notte «in cui tutte le vacche sono nere»! La mistica dell’Amore (Deus charitas est), o quella di "Mammasantissima" e di "Mammona" ("Deus caritas est")?! *
Spiritualità.
Mistica cristiana: le nozze di eros e caritas
I Meridiani pubblicano il primo di tre volumi dedicati alla mistica cristiana. L’incontro con Dio supera ogni limite, fisico e linguistico, e si configura come esperienza sensibile di un amore totale
di Rosita Copioli (Avvenire, mercoledì 1 luglio 2020)
La Mistica Cristiana (Mondadori, I Meridiani, pagine. LXXXVIII+1624, euro 70,00), è il primo dei tre volumi di una vastissima opera - estesa dalle origini ai nostri giorni - ideata dieci anni fa e curata da Francesco Zambon, su ’impulso’ di Pietro Citati. Questo libro, curato da Zambon con Marco Rizzi, Sabino Chialà, Boghos Levon Zekiyan, comprende la mistica tardogreca e bizantina, siriaca, armena, latina e italiana medievale; il secondo volume presenterà la mistica tedesca e fiamminga, francese, italiana moderna; il terzo la mistica iberica (spagnola, portoghese e catalana), inglese e americana, russa, svedese. Nessun progetto ha avuto la medesima ampiezza, né pari cura filologica e critica: nemmeno i Mistici occidentali curati da Elémire Zolla; e altre pregevoli sillogi sono parziali.
Le radici sono ebraiche - nel Cantico dei Cantici, il testo più ardente e complesso dell’amore umano e divino - e greche: nel Fedro e nel Simposio di Platone, dove la ricerca della conoscenza diviene quella del bene e del bello, l’intelletto sale verso il divino: la mente si unisce allo slancio erotico, la mania che porta all’estasi: invasa da una luce alla quale tenderà tutta la tradizione occidentale fino al Rinascimento, e oltre: da Plotino, per il quale la contemplazione è superiore all’azione poiché permette la visione del vero, a Proclo; da Apuleio a Tasso, i poeti barocchi, i romantici, Yeats, Ungaretti, Luzi, Milosz.
La potenza della vista interiore è previsione e profezia. Lo afferma già Esiodo, e poi Saffo e Platone, seguiti da sant’Agostino e Dante: il poeta sprofonda nella memoria bevendo l’acqua di vita di Oceano, e lascia che il soffio del dio spiri dentro di lui, investendolo del suo nume sconvolgente. «Entra nel petto mio, e spira tue / sì come quando Marsia traesti / de la vagina de le membra sue». È il solo modo per riceverne il barlume, per glorificarlo: «O divina virtù, se mi ti presti / tanto che l’ombra del beato regno / segnata nel mio capo io manifesti».
Il mistico ricapitola ogni passaggio del Verbo incarnato e dello Spirito Santo che permette - osano i più temerari - di diventare Dio, trascinando con sé l’intera creazione. La trasfigurazione, la passione, la morte sulla croce di Gesù, il suo corpo martoriato sono lo strumento-specchio per rivivere Gesù in anima-spirito-corpo, oltrepassando i ’sensi spirituali’. Francesco nutre nelle viscere il sole - Cristo. Dalle mani e dai piedi spuntano chiodi di carne, sul costato si apre la ferita di Cristo.
Angela da Foligno aderisce al Crocifisso con i sensi dell’eros totale: «Tu sei me e io sono te». La mente di Iacopone da Todi, «En Cristo trasformata, è quasi Cristo, /cun Deo conionta tutta sta devina». Chi osa tanto, non teme la sintassi, scardina ogni figura e senso. Se fa miracoli, sfida la gravità e si innalza dal suolo, come Doucelina di Digne, altri aboliscono gli intermediari con Dio nel linguaggio, come Caterina Fieschi: «Il mio Mi è Dio, io non conosco altro Mi che esso Dio mio».
I mistici non hanno paura di niente, né del pudore, né di “ardiri” che il volgo deride: come i patriarchi della Bibbia, variano la metafora del latte della sapienza, con una passione tenerissima. Nel II secolo in Siria, un’Ode di Salomone, e Clemente Alessandrino suggono i seni del Padre e le dolci mammelle di sposa di Gesù; nel X secolo Gregorio di Narek, autore di inni inarrivabili al Cristo glorioso, invoca «comunione che distilla latte»: siamo in Armenia, dove la teologia del sacerdozio di tutti i fedeli - i corpi sono templi e altari - renderà possibile il sacrificio dell’intero popolo: il “Martirio armeno”. Misakh Metzarents (1886-1908) ne è l’ultimo fiore: «Nella notte discende ancora il ruscello di luce, / una goccia di latte della tua santità divenuta un mare; / e vedi, o Madre di Dio, ecco sto diventando bambino».
Come diceva san Tommaso d’Aquino, la mistica è la Cognitio Dei experimentalis, che Jean Gerson esplica: «Theologia mistica est cognitio experimentalis habita de Deo per amoris unitivi complexum». Ma è la più abissale delle imprese gnoseologiche e amorose. Per la “teognosia” dell’ombra, che deriva da Plotino e si distanzia da seguaci di Gesù come Giovanni e Paolo, e Agostino, mai giungeremo a conoscere Dio. La sua trascendenza rispetto a ciò che è, e all’essere stesso, è superessentialis: Dio non può essere conosciuto, descritto, visto, nemmeno dagli angeli e dai santi. Di Dio non si può parlare né in forma positiva, né in forma negativa. Ma la forma negativa si avvicina di più al suo mistero. Lo si contempla tra luce e tenebra.
Scrive Zambon: «Anche nella vita beata, al termine del reditus di tutta la creazione nel seno del Verbo, Dio sarà conoscibile solo attraverso delle mediazioni, delle teofanie (in greco, “manifestazioni, immagini di Dio”)». La teofania segue i gradi della contemplazione, della deificazione (theosis), e coincide con l’unione mistica. Ricorre alle immagini, al loro fantasma, alla fantasia: l’“alta fantasia” di Dante. La docta ignorantia fa apparire Chi è superiore alla Luce come tenebra, caligine, nube: nella “notte oscura” di Giovanni della Croce.
Una rivoluzione accade in pieno XII secolo: Guglielmo di Saint-Thierry, Bernardo di Clairvaux, Aelredo di Rievaulx, Ivo, e Riccardo di San Vittore (di cui Zambon ha curato sapientemente i Trattati d’amore cristiani del XII secolo per Valla Mondadori) mostrano a quale fuoco di trasformazione può accendersi l’intelletto d’amore che guida fino a Dio, intrecciando eros platonico e caritas paolina. Come in Ildegarda di Bingen, il grande impeto d’amore dà le ali. Culminano la poesia della fin’amor dei trovatori, le storie di Tristano e Isotta, il romanzo cortese.
Con Beatrice davanti alla candida rosa dei beati, Bernardo invita Dante a fissare Dio, nel movimento rapidissimo che imprime al creato e a noi: la metamorfosi dell’anima in Dio, l’excessus mentis, avviene per opera divina in un solo istante: «ma già volgeva il mio disio e ’l velle, / sì come rota ch’igualmente è mossa, / l’amor che move il sole e l’altre stelle». Riccardo di San Vittore è il più ardito. Amore terreno e carità hanno la stessa fonte, ma la carità non è mite. Ha la stessa struttura, manifestazioni e gradi della passione violenta. I Quattro gradi della violenta carità gridano in Iacopone da Todi: «Amor de caritate, perché m’ài ssì feruto? / Lo cor tutt’ho partuto, et arde per amore».
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus !!! O, meglio, che progetto!!!
Federico La Sala
AMARE NEL MARE DELLA VITA. Riprendere la navigazione ...
Una nota *
SE è VERO CHE “La ricerca del grande amore si fa ormai soltanto on line” (Laura Vasselli, "InLibertà", 29 giugno 2020), e, al contempo, che “La truffa esiste anche in danno della vita sentimentale” (L. V., "InLibertà", 10 giugno 2020), in una società “liquida” - dove non c’è più né un Giardino per Adamo ed Eva né una Itaca per Ulisse e Penelope - il problema su cui fare chiarezza e “chiudere l’argomento” è : “se è vero che nella vita è necessario amare innanzitutto sé stessi, come si fa a lasciare posto all’amore per qualcun altro ?”.
CONOSCER-SI: IN PRINCIPIO ERA LA “PAROLA” (IL “LOGOS”). RICORDATO CHE “Per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima : così profondo è il suo lògos" (Eraclito, fr. 45), E, insieme, RIGUARDATA LA FOTO (vedi sopra: accanto al titolo, sul dito “indice” di “due persone” l’immagine di “due ancore”), RIPARTIRE PROPRIO DA QUI : DAll’ancoraggio di “due navi”, di “DUE PERSONE CHE DISCORRONO” (Ferdinand De Saussure). Mi sembra proprio una (bella riflessione e una) buona indicazione!
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN: NARCISO E LA MORTE DELL’ITALIA. Il "rimorso di incoscienza" di Marshall McLuhan -
LA CONCESSIONE PIU’ GRANDE. Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre.
FLS
ANCORA NON ABBIAMO TROVATO "LA GIUSTA DISTANZA" NEMMENO CON NOI STESSI... *
ABITARE LE PAROLE / Distanza.
Vedersi l’un l’altro stagliati nel cielo
DI NUNZIO GALANTINO (Il Sole-24 Ore, Domenica, 28.06.2020)
Distanza. Parola - non la sola, in verità! - che perde un po’ della sua evidenza semantica quando la si trova unita ad attributi particolari. Come capita, per esempio, nelle locuzioni: “distanza sociale”, “fisica”, “interpersonale”. Per coglierne la ricchezza, bisogna anzitutto evitare l’ambiguità - a volte, vera e propria confusione - ereditata dalle locuzioni inglesi social distancing (distanziamento sociale) e social distance (distanza sociale). In sociologia e in psicologia, sono espressioni che descrivono il livello di interazione o di rifiuto tra individui appartenenti a gruppi sociali, economici e culturali diversi. Non è corretto, quindi, ricorrervi per indicare la distanza di sicurezza interpersonale o la distanza necessaria per evitare contagi tra più persone.
Un’intensa considerazione di Rainer Maria Rilke ci aiuta a guardare con occhio diverso la distanza. «Una volta che si è accettato di capire che anche tra gli esseri umani più vicini continuano ad esistere infinite distanze, può crescere un meraviglioso affiatamento, se questi riescono ad amare la distanza che li separa, che rende possibile ad ognuno di vedersi reciprocamente, per intero, stagliati nel cielo».
Qui la parola distanza ha tutt’altro significato rispetto a quello che gli dà F. Nietzsche, quando parla di pathos della distanza. Questa espressione - nel filosofo tedesco e in parte anche nella ripresa di Italo Calvino - indica l’atteggiamento dell’aristocratico che, da una presunta posizione di superiorità, “tiene a distanza” e guarda da lontano quanti non gli sono pari.
Invece, “la distanza che rende possibile ad ognuno di vedersi reciprocamente, per intero, stagliati nel cielo”, è la “distanza giusta”. Quella che permette di stabilire e coltivare relazioni sane ed equilibrate, grazie alla modulazione e alla misurazione, non esclusivamente fisica, di vicinanza-lontananza, come nel «dilemma dei porcospini», evocato da A. Schopenhauer.
I porcospini, per ripararsi dal gran freddo, provano a farlo stringendosi l’un l’altro; ma, a causa dei loro aculei, sono costretti ad allontanarsi e a cercare comunque la distanza giusta, per riscaldarsi senza farsi male a vicenda. È, sostiene il filosofo tedesco, la stessa fatica che sono chiamati a far gli uomini. Anche loro hanno bisogno di stabilire tra loro una distanza giusta. Quella che fa passare messaggi e comunicare disposizioni interiori ed emozioni. Una distanza che può persistere, nonostante gesti di grande vicinanza fisica. Chi infatti può davvero decifrare i sentimenti e le autentiche intenzioni che accompagnano le relazioni intime, anche le più belle?
Lo ha capito bene René Magritte. Con stile surreale, il pittore belga, nelle due versioni (1928) di The Lovers, mostra di non avere dubbi: nonostante i gesti di grande tenerezza, i due amanti non possono guardarsi negli occhi, non possono penetrare la loro intimità. Ad impedirglielo è l’inevitabile distanza, non fisica, esistente tra loro, rappresentata dal telo che ne avvolge il volto.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
NUOVO REALISMO E "GAIA SCIENZA": LA LEZIONE DI DANTE (E NIETZSCHE), OGGI. CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO.
FLS
L’anima e la cetra /8.
L’irrinunciabile custodia
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 16 maggio 2020)
Molte povertà sono anche povertà della parola. Una indigenza che impedisce di chiamare per nome il dolore proprio e quello degli altri. Questa povertà narrativa qualche volta precede le povertà materiali e morali, altre volte le segue, sempre le accompagna. I "cafoni" e gli oppressi di ogni tempo sono stati cafoni e oppressi anche e soprattutto per le parole che non sapevano dire e per quelle che dicevano i potenti e che loro non riuscivano e non riescono a capire. Ecco perché ogni povertà che vuole risorgere deve imparare e reimparare a parlare, finché, almeno un povero inizierà a dare un nome ai demoni della propria indigenza. Sta anche qui l’invito bellissimo che ci rivolgevano i nostri nonni: "Luigino studia"; sapevano bene che conoscere le parole dei signori era il primo passo di una liberazione.
La Bibbia, maestra e custode della parola, ne conosce le sue molte nature, ne ha visto il paradiso, ne ha intravisto l’inferno. L’ha vista, in principio, mentre creava il mondo; l’ha rivista diventare bambino, e si è stupita e commossa. Inseguendola tra la genesi e l’eskaton ha imparato la grammatica ambivalente delle parole umane. L’ha vista, bugiarda, sulla bocca di Giacobbe, poi su quella di Davide, il re più amato ma capace di uccidere con una parola menzognera, e infine su quella, bellissima, di Maria. E poi l’ha accompagnata in silenzio fino al monte dove la parola divenne grido. Ha imparato, tra molte difficoltà e fallimenti, a riconoscerla buona sulla bocca dei profeti veri e cattiva su quella dei falsi profeti. Ha capito che la parola è il contatto tra Dio e l’uomo, è il luogo dove l’umano e il divino parlano bocca-a-bocca e l’uno diventa sempre più simile all’altro. Siamo "immagine" di Elohim in molte cose, ma soprattutto lo siamo quando diamo ordine al mondo dicendolo con le parole, quando risuscitiamo noi stessi e gli altri con una parola finalmente diversa, quando feriamo e uccidiamo gli altri e noi stessi con una parola sbagliata.
Eravamo già immagine di Dio nelle grotte e nelle tende mobili del neolitico, ma lo siamo diventati di più per i miliardi di parole buone e belle che abbiamo imparato a ripeterci gli uni gli altri, ogni giorno. Solo gli dèi e gli uomini sanno parlare. Esiste, poi, un rapporto intimo ed essenziale tra la parola e la verità, che forse solo la Bibbia (e qualche poeta immenso) ci può spiegare. La verità è l’anima della parola. Come l’anima non appare in superficie, non si fa vedere, per molti non esiste. Quando la parola perde contatto con la verità perde la sua anima - o la vende al diavolo.
La parola è la protagonista del Salmo 12, un salmo sulla parola e quindi sulla profezia: «Salvami, Signore! Sparita è la lealtà; è scomparsa la sincerità tra i figli dell’uomo. Altro non fanno che mentirsi l’un l’altro, labbra adulatrici parlano con cuore doppio» (12,2-3).
Lealtà, sincerità, menzogna: questioni di parole. La sensazione certa del salmista è che la lealtà sia scomparsa dalla terra - o almeno dalla sua vita. È questa una tappa che arriva puntuale nella vita dell’uomo di fede, in particolare nei profeti. Perché i profeti, vivendo dentro del rapporto con la parola ricevuta e ridonata, sono particolarmente sensibili alla verità delle parole proprie e degli altri. Sono parola fatta carne, sempre in bilico tra il nulla e l’infinito, testimoni della forza-debole di un soffio effimero eppure capace di vincere la morte. Sono sentinelle in grado di vedere, nella notte, l’anima delle parole. Chi prega assomiglia molto al profeta: entrambi vivono della verità della parola, entrambi sono mendicanti dell’eco di parole sussurrate o gridate, entrambi non sono padroni né delle parole né, tantomeno, del ritorno dell’eco. E così sono radicalmente vulnerabili dalla manipolazione della parola, dalla menzogna. Qualche volta si convincono di essere circondati solo da menzogna. E non è raro che tra le lealtà e sincerità sparite dalla terra il profeta inserisca anche le proprie. Perché non fa parte del repertorio del profeta onesto sentirsi l’unico giusto superstite al mondo: la prima non-sincerità che avverte è la propria. Non è facile uscire da queste trappole di depressione spirituale, ma non è impossibile.
Il salmista vede e canta un aspetto cruciale della menzogna: "mentirsi l’un l’altro". Quando la menzogna prende possesso di una comunità - alcuni tipi di menzogna assumono la forma del virus - diventa reciproca. L’opposto del comandamento nuovo ("amatevi gli uni gli altri") non è solo il conflitto: è anche la menzogna reciproca. Perché come l’amore "non perdona" l’amato generando reciprocità, neanche la menzogna, spesso, perdona chi ne è toccato. Si diffonde, si moltiplica, cerca i propri simili, produce una sua perversa compagnia dove ciascuno si nutre delle menzogne degli altri e delle proprie - poche cose sono capaci di nutrirci più delle nostre bugie, che a forza di raccontarle finiamo per credere vere: perdiamo peso morale giorno dopo giorno e non ce ne accorgiamo. Una tipica forma di menzogna stigmatizzata dal salmo è l’adulazione: le "labbra adulatrici". La conosce anche il libro dei Proverbi: «Chi adula un amico, tende una rete ai suoi passi» (Pr 29,5). Tra le molte forme di adulazione, quella dell’amico è infatti particolarmente pericolosa e subdola.
Questa adulazione non è quella del falso amico (c’è anche quella). Diversamente dal falso-amico ruffiano, l’amico adulatore non ci loda in cerca di propri interessi, ma per una strana forma di pietà per noi. Sa di dire una parola non vera, ma la dice ugualmente per farci piacere. L’adulazione è molto frequente nelle richieste di stima: non abbiamo ragioni vere per stimare sinceramente un’opera o un’azione di un amico, ma decidiamo di soddisfare la sua richiesta donandogli una stima falsa. Preferiamo l’assonanza emotiva alla verità della parola. E così tendiamo "una rete ai suoi passi". Perché invece di scavare dentro quel rapporto e cercare una ragione vera di stima sincera, ci accontentiamo di una moneta falsa che spacciamo per buona. I rapporti iniziano a regredire, la parola perde verità, quell’amicizia perde la sua anima. E, come dice il Salmo, il cuore si sdoppia: un cuore sincero che tace e un cuore non-sincero che loda. Si sdoppia il cuore, si ammala l’amicizia, e col tempo il cuore bugiardo contamina e guasta quello buono. Chi trova un amico trova un tesoro; chi ne trova uno non adulatore ne trova due.
Ma la grammatica della parola contenuta nel Salmo non finisce qui: «Quanti dicono: "La lingua è la nostra forza, le nostre labbra sono con noi: chi sarà il nostro padrone?"» (12,5). La lingua è la nostra forza: eccoci dentro un’altra dimensione essenziale della parola. È quella legata direttamente al potere, a chi, sentendosi padrone delle parole e della loro anima crede di non avere nessun padrone oltre se stesso. Chi sa parlare e usare le parole domina e opprime chi non sa parlare o parla male - lo vediamo ogni giorno.
Il divieto di pronunciare il nome di Dio invano, racchiuso nel decalogo (Es 20,7), è anche dispositivo di protezione contro i tentativi di conoscere tutte le parole e quindi comandare su tutto e tutti. È la tentazione della magia, ma anche di chi vuole diventare padrone di tutte le parole. La lotta idolatrica della Bibbia si traduce anche nel rendere una parola inaccessibile e impronunciabile; perché se una parola non può essere comandata con la parola allora i suoi padroni saranno sempre padroni parziali anche quando si sentono padroni assoluti. Il nome nella Bibbia dice sempre mistero.
Qui il salmo denuncia allora la tentazione, sempre forte e a tratti invincibile, di chi usa le parole per costruire un suo culto, una sua religione. Se "parola" è uno dei nomi di Dio, allora il potere sulle parole è sempre potere religioso. Sta qui anche la radice dell’antico e sempre attuale progetto di Babele, dove la costruzione di un linguaggio unico e totale diventa lo strumento per l’edificazione di un impero assoluto, senza "nessun padrone".
Ogni impero, incluso il nostro, inizia pretendendo di dare un nome a quell’unica parola impronunciabile, e così si trasforma in una nuova religione-idolatria più piccola e meno libera di quella che voleva superare occupandone tutti i nomi. Le religioni dove i padroni conoscono tutte le parole, dove non ne resta neanche una nascosta nel mistero della nube, diventano imperi che volendo pronunciare tutti i nomi non riescono a dirne bene nessuno.
È l’uomo religioso il primo ad essere tentato dal voler mangiare il frutto dell’albero della conoscenza di tutti i nomi della terra e del cielo. L’Adam può e deve dare il nome agli animali ma non può dare il nome a Dio. Questo è l’unico nome può essere solo rivelato e poi velato di nuovo dallo stesso rivelatore, perché nella custodia del nome di Dio c’è anche la custodia dei nostri singoli nomi. «Per l’oppressione dei miseri e il gemito dei poveri, ecco, mi alzerò - dice il Signore -, metterò in salvo il mio testimone"» (12,6). Il salmista prega che il Signore venga il soccorso del suo testimone. Il profeta è il testimone del povero oppresso dal potere delle parole.
Chi, per vocazione, ha una competenza sulla parola, chi ne conosce l’anima, la può - la deve - usare per testimoniare a favore di chi non conosce abbastanza parole per salvarsi.
Si comprende così il valore civile della profezia: i profeti sono coloro che prestano parole a chi deve difendersi dai padroni di tutte le parole. Scrittori, poeti, giornalisti, politici, sindacalisti, artisti, avvocati partecipano alla stessa funzione profetica di Isaia e Amos se sono testimoni degli oppressi dalla parola nei tribunali della storia. Il povero è colui che non conosce abbastanza parole per poter chiamare tutti gli spiriti della sua vita, e non conoscendo il loro nome non riesce a scacciarli. I profeti, e i loro amici, chiamano per nome i demoni che minacciano i poveri, e poi li mandano via. E così la parola, ogni giorno, ridiventa carne e ripete a Lazzaro: "Vieni fuori".
L’anima e la cetra/7.
Non è bene che Dio sia solo
di Luigino Bruni (Avvenire, domenica 10 maggio 2020)
Alcune persone ricordano per tutta la vita il giorno in cui hanno visto per la prima volta il cielo stellato. Lo avevano "visto" altre volte, ma in una benedetta notte è successo qualcosa di speciale e lo hanno visto veramente. Hanno fatto l’esperienza metafisica dell’immensità e, simultaneamente, hanno avvertito tutta la propria piccolezza e fragilità. Si sono, ci siamo, visti infinitamente piccoli. E lì, sotto il firmamento, sono fiorite domande diverse, quelle che quando arrivano segnano una tappa nuova e decisiva della vita: dove sono e cosa sono i miei affari? e i miei problemi? cosa è la mia vita? cosa i miei amori, i miei dolori? E poi è arrivata la domanda più difficile: e io, che sono? È il giorno tremendo e bellissimo; per alcuni segna l’inizio della domanda religiosa, per altri la fine della prima fede e l’inizio dell’ateismo - per poi scoprire, ma solo alla fine, che le due esperienze erano simili, che magari c’era molto mistero nella risposta atea e molta illusione in quella religiosa, ma lì non potevamo saperlo. Non tutti fanno questa esperienza, ma se la desideriamo possiamo provare a uscire di casa in queste notti fatte più calme e nitide dai mesi sabbatici, cercare le stelle, fare silenzio, attendere le domande - che, mi hanno detto, qualche volta arrivano.
Per qualcuno, poi, c’è stato un altro giorno decisivo. Quando quell’infinitamente piccolo ha fatto l’esperienza che quell’«Amor che move il sole e l’altre stelle» si interessava di lui, di lei, lo cercava, gli parlava, la incontrava. Giorno altrettanto decisivo, perché non basta l’esperienza vera del giorno delle stelle perché inizi la vita religiosa. Ci sono molte persone che sentono veramente vibrare lo spirito di Dio nella natura, odono la sua voce risuonare nelle notti stellate e in molti altri luoghi, ma non si sono mai sentite chiamare per nome da quella stessa voce. Come ci sono altri che hanno fatto un autentico incontro personale con la voce dentro, ma che poi non l’hanno mai sentita vivere nell’universo intero, che non si sono mai commossi riconoscendola nell’immensità del cosmo. È l’incontro tra questi due giorni che segna l’inizio della vita spirituale matura, quando l’immensità che ci svela la nostra infinita piccolezza diventa un tu più intimo del nostro nome.
L’autore del Salmo 8 ha fatto, credo, l’esperienza di entrambi questi giorni. Ha riconosciuto la presenza di YHWH nel firmamento infinitamente grande e si è sentito infinitamente piccolo; e poi ha intuito che la voce che gli parlava tra le galassie era la stessa voce che gli parlava nel cuore: «Come splende, YHWH, il tuo nome su tutta la terra: la bellezza tua voglio cantare, essa riempie i cieli immensi... Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissato, io mi chiedo davanti al creato: e l’uomo che cos’è? perché di lui ti ricordi? Che cosa è mai questo figlio d’uomo perché tu ne abbia una tale cura?» (8, 2-5). Versi meravigliosi. Dovremmo avere il cuore e le stigmate di Francesco per cantarli.
Assistiamo in presa diretta a una esperienza dell’assoluto. Quell’antico poeta ha avvertito l’immensità e la piccolezza, non si è sentito schiacciato, e ha iniziato un nuovo canto. Il canto dell’umiltà (humilitas) vera, perché l’humus ci dice chi siamo veramente solo se riusciamo per un attimo a guardarlo da distanza siderale; l’adamah (terra) svela l’Adam solo se vista dall’alto. È questa la gioia per la verità finalmente rivelatasi, per una nuova ignoranza che non umilia. L’umiltà è l’opposto dell’umiliazione. E si sperimenta una nuova infanzia, una sconfinata giovinezza: «Da fanciullo e lattante balbetto» (8,3).
Al centro del salmo una domanda: cosa è il figlio d’uomo (Ben Adam: espressione cara ai profeti e ai vangeli), di fronte a tanta immensità?! Splendida è la risposta: nonostante la sua insignificanza in rapporto alle stelle e la sua piccolezza nel tempo e nello spazio, tu ti prendi cura dell’uomo, tu ti ricordi di lui. Come a dire: se tu tenessi conto, o Dio, di quello che l’Adam è oggettivamente in rapporto all’universo sterminato, non dovresti occupartene; e invece ti prendi cura di lui, di lei. E quindi la domanda necessaria: ma questa voce che mi parla dentro è proprio la stessa che ha parlato tra le galassie? La risposta del primo giorno può essere soltanto un sì, altrimenti il cammino non incomincia! Col passare del tempo la risposta diventa: forse. Poi arrivano i lunghi anni quando la risposta è: no. Infine ritorna il sì, ma - se e quando ritorna - è un sì detto con un’altra profondità e un’altra umiltà. E qui nasce una nuova meraviglia, trabocca la gratitudine, riaffiora la preghiera degli ultimi tempi.
Sta in questa tensione tra le stelle e il cuore, abitati entrambi dalla stessa presenza, la dignità dell’Adam, dei suoi figli e delle sue figlie, la sua gloria e il suo onore. Ci si perde nelle varie ideologie quando si perde uno di questi due poli. Dobbiamo leggere il Salmo 8 in parallelo con i primi capitoli della Genesi: «E Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò» (Gn 1,27). Il versetto della Bibbia che, forse, amo di più. L’Adam è posto da Elohim al centro del giardino della creazione perché ne fosse custode e responsabile. Il Salmo ce lo ridice: «Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi» (Salmo 8,7). L’Adam diventa il primo interlocutore di Dio, perché con la sua reciprocità potesse accompagnare anche la solitudine di Dio - «non è bene che l’uomo sia solo» (Gn 2,18) va letto insieme all’altra frase non scritta nella Bibbia ma altrettanto presente: non è bene che Dio sia solo.
Non mi stupirebbe se l’autore di quell’antico salmo mentre cantava avesse sottomano questi versi della Genesi. Forse stava meditando e contemplando "cosa è l’uomo" quando, ad un certo punto, non ha più retto l’emozione e ha composto uno dei versi più belli sull’uomo mai scritti da tutta la letteratura religiosa e laica. Dopo averlo visto sub specie aeternitatis, dopo essere andato con l’anima sulla luna e averlo perso di vista tanta era la sua piccolezza, tornato a quelle parole della Genesi ha rivisto un altro uomo. E ha pronunciato questo capolavoro, che va letto dopo qualche attimo di silenzio: -«Eppure l’hai fatto poco meno di Elohim, di gloria e di onore lo hai coronato» (8,6). Eppure: a volte la Bibbia sa racchiudere in una umile congiunzione tutta la sua profezia. Siamo effimeri, siamo come l’erba ... eppure... «Una voce dice: "Grida", e io rispondo: "Che cosa dovrò gridare?". Ogni uomo è come l’erba. Secca l’erba, il fiore appassisce ... Veramente il popolo è come l’erba» (Isaia 40,6-7).
Veramente ... eppure. Siamo stati pensati, cercati e amati tra un veramente e un eppure. Veramente effimeri come l’erba, veramente infinitamente piccoli, veramente infedeli e peccatori; eppure poco meno di Dio, eppure sua immagine e somiglianza, eppure amati, curati e attesi come figli.
Questa è l’immensa antropologia biblica. La letteratura antica conosceva la metafora dell’immagine di Dio applicata all’uomo. Ma era usata per il re, per il faraone. La Bibbia la usa per ciascuno di noi, per ogni uomo e per ogni donna, per te, per me. È l’Adam, ogni Adam, l’immagine e somiglianza di Elohim; e quindi lo siamo anche noi, tutti noi. È questa la magna carta di ogni dichiarazione dei diritti dell’uomo e della donna, dei bambini, delle bambine, della dignità del creato. Il Salmo 8 è un inno a Dio e insieme un inno all’uomo. Esalta la persona dicendoci chi è quel Dio di cui egli è immagine, ed esalta Dio dicendoci chi sono l’uomo e la donna che lo riflettono. Perché se l’uno è immagine dell’altro, più l’Adam diventa bello più dice la bellezza del suo Creatore, e più lasciamo libero Dio di diventare migliore di noi, più abbelliamo noi stessi. Non capiamo l’antropologia biblica se usciamo dalla reciprocità intrinseca al simbolo dell’immagine.
Ma la bellezza e la forza di questo canto esplodono se immaginiamo il salmista cantare quel versetto 6 mentre leggeva anche i capitoli tre e quattro della Genesi: quelli della disobbedienza, della seduzione vincente del serpente, e poi Caino e il sangue di Abele, di cui il salmista sentiva ancora l’odore. È troppo semplice cantare la gloria e l’onore dell’uomo fermandosi al capitolo due. La sfida decisiva è riuscire a continuare il canto mentre i capitoli scorrono e si entra nelle pagine buie e buissime del no, quelle della rottura dell’armonia uomo-donna-creato-Dio, nelle pagine della cacciata da quel giardino meraviglioso, quelle della notte oscura del primo fratricidio della terra. E giunti lì, non smettere il canto. E poi continuarlo con l’urlo tremendo di Lamek l’uccisore di fanciulli, con la ribellione di Babele, con i peccati dei patriarchi, con le bugie e gli inganni di Giacobbe, con l’omicidio dei beniaminiti, fino all’omicidio di Davide, alle infedeltà di Salomone e di quasi tutti i re d’Israele. E non smettere mai di cantare: «Veramente ... Eppure lo hai fatto poco meno di un Dio».
Tutta la forza dell’antropologia biblica si sprigiona quando riusciamo a vincere il dolore e la vergogna e ripetiamo "veramente ... eppure" non solo di fronte al firmamento ma anche nelle carceri, nelle meschinità, nelle violenze, nei bassifondi di Calcutta, nelle via crucis che portano al Golgota. Non c’è condizione umana che non sia racchiusa tra quel veramente e quell’eppure, nessuno resta fuori. La Bibbia non ha avuto paura di narrarci i peccati e le bassezze dei suoi uomini perché credeva veramente all’immagine di Elohim. E ogni volta che nascondiamo nelle nostre storie le pagine più buie abbiamo smesso di credere che siamo immagine.
Caino ha cancellato la sua fraternità e i suoi figli continuano a cancellarla uccidendo ogni giorno Abele. Ma non ha potuto cancellare l’immagine - e se il "segno di Caino" fosse proprio l’immagine di Elohim? «O Dio, Signore nostro, come splende il tuo nome su tutta la terra!» (8,10).
L’ORAZIONE SULLA DIGNITA’ DELL’UOMO - A UNA DIMENSIONE.
Da Giovanni Pico della Mirandola* a Herbert Marcuse** e ... ***
CARO ARMANDO, PER IMPARARE "a vivere meglio senza lasciarci condizionare dalla paura della morte, cioè dalla religione, qualunque essa sia", CREDO CHE SIA NECESSARIO riconsiderare il problema di "come nascono i bambini" (a tutti i livelli) ! Hai ragione : "Non possiamo permetterci, con le Sibille, Maria Vergine, Cristo come dio, Maometto ed altre favolette l’illusione di un altro Messia"! Ci siamo addormentati nella tradizione cattolico-costantiniana e illuministica acritica (contro Kant), e abbiamo finito per "concepire" noi stessi e noi stesse secondo la bio-logia e l’andro-logia “unidimensionale” dell’omuncolo !
L’«ECCE HOMO» di Ponzio Pilato, al contrario!, ci dice proprio questo - la fine delle "favolette" e di ogni "illusione di un altro Messia". Il discorso è di diritto e di fatto, romanamente universale, vale a dire, antropologico (non limitato all’« omuncolo » di qualche "uomo supremo" o “superuomo” !) :
SE SIAMO ANCORA CAPACI DI LEGGERE, COSA VA SIGNIFICANDO NEL TEMPO LA LEZIONE DI PONZIO PILATO ?! Non è una lezione critica contro i "sovranisti" laici e religiosi di ieri e di oggi ?!
Che vogliamo fare ? Continuare a riportare noi stessi e noi stesse davanti a Pilato e ripetere da scemi e da sceme la stessa scena, riascoltare il suo "Ecce Homo" e non capire una "H" (acca) ?!
* Discorso sulla dignità dell’uomo.
P.S. - RICORDANDO ... GLI ARCADI DI TERRA D’OTRANTO, VIRGILIO, E IL “VECCHIO DI CORICO”. A SOLLECITAZIONE E CONFORTO DELL’IMPRESA.
***
Federico La Sala ("Fondazione Terra d’Otranto", 01/03/2020).
Pasqua. Aramaico, ebraico, greco, latino... in che lingua Gesù parlò con Pilato?
Oltre l’aramaico, conosceva anche l’ebraico e il greco? E in che lingua avvenne il processo davanti a Pilato? Le ipotesi degli studiosi e l’importanza degli idiomi per l’evangelizzazione
di Mimmo Muolo (Avvenire, martedì 7 aprile 2020).
In che lingua parlava Gesù? E i protagonisti dei grandi eventi che portarono alla sua morte in croce? La questione, da tempo al centro del dibattito tra gli studiosi, può essere assunta proprio nei giorni della Settimana Santa, come filo rosso per comprendere alcune dinamiche fondamentali dell’annuncio della Buona Novella dall’inizio fino a noi.
Le quattro lingue della Palestina
Va detto innanzitutto che al tempo in cui si svolsero gli eventi descritti nei Vangeli quattro erano le lingue parlate in Palestina. Quella ufficiale (ma anche la meno diffusa: usata solo da un ristretto numero di funzionari pubblico) era il latino. Quella religiosa era l’ebraico, parlata nelle sinagoghe, dove si leggevano i testi della Torah, e dai farisei che erano gli ebrei più osservanti. Quella della vita quotidiana era invece l’aramaico, che il popolo aveva adottato dopo il ritorno dall’esilio babilonese (VI sec. a.C.). E infine il greco della koiné, che era un po’ come l’inglese di oggi, parlata ovunque. Ebraico e aramaico erano lingue semitiche, imparentate tra loro come ad esempio l’italiano e il napoletano, dato che l’aramaico (nell’VIII secolo a.C. lingua delle comunicazioni internazionali nella Mesopotamia) era diventata una sorta di dialetto.
Gesù parlava solo l’aramaico?
Tra queste quattro lingue è ormai certo che quella usata da Gesù per la predicazione e per i colloqui con i discepoli fosse l’aramaico. Come ricorda Rinaldo Fabris, nel suo “Gesù il Nazareno” (Cittadella Editrice), sono almeno una ventina i passi dei Vangeli canonici (scritti in greco) in cui vengono citate parole o espressioni aramaiche. Per limitarci a quelle che riguardano la Settimana Santa: “Abba” (Padre), usato da Gesù nel Getsemani; “Eloi Eloi lemà sabachtani” (Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato) cioè le ultime parole di Cristo sulla croce secondo Marco e Matteo; il toponomastico Golgotha (“Luogo del cranio”) per indicare l’altura della crocifissione; e infine l’appellativo “rabbunì” (maestro mio) con cui Maria di Madgala chiama Gesù dopo la risurrezione. E a proposito di vittoria sulla morte, possiamo citare ancora il “talità qum”, (ragazza alzati) con cui Cristo riporta in vita la figlia di Giairo.
Del resto è naturale: cresciuto ed educato in una modesta famiglia della Galilea che abitava a Nazareth, villaggio di poche centinaia di abitanti, Egli certamente aveva come lingua materna l’aramaico occidentale che si parlava nella sua terra. Tra l’altro connotato da accento diverso da quello in uso a Gerusalemme, come attesta il “riconoscimento” di Pietro, nella notte dell’arresto di Gesù (Mt 26,73) proprio a motivo di come parlava.
L’aramaico, scelta di incarnazione
Questo fatto ci dice già una cosa importante. La concretezza dell’incarnazione vale per tutti gli aspetti della vita. Gesù si esprime in un idioma che tutti possono comprendere e poco importa se non è la lingua dei dotti. Anzi proprio questa vicinanza ai “piccoli”, al punto da parlare in “dialetto”, conferma se mai ce ne fosse bisogno la sua “rivoluzione” delle periferie, come direbbe papa Francesco. Il quale, parlando ai genitori dei bambini che stava battezzando nella Cappella Sistina il 7 gennaio 2018, raccomandò: “La trasmissione della fede soltanto può farsi in dialetto, la lingua intima delle coppie. Nel dialetto della famiglia, nel dialetto di papà e mamma, di nonno e nonna”. E non è un caso che un grande santo e teologo come Tommaso d’Aquino abbia predicato il quaresimale del 1273 in dialetto napoletano.
Le ipotesi sull’ebraico e il greco
Ciò che resta ancora incerto è se Gesù sapesse parlare nelle altre lingue. Almeno l’ebraico e il greco. Quanto all’ebraico, bisogna registrare un simpatico siparietto durante la visita di papa Francesco in Medio Oriente nel 2014. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, durante un incontro ufficiale, disse al Pontefice: «Gesù ha vissuto qui, parlava ebraico». «Aramaico», lo corresse Francesco. Al che Netanyahu, immediatamente, precisò: «Parlava aramaico ma conosceva l’ebraico, perché leggeva le Scritture». Al di là dei cordiali sorrisi che chiusero l’episodio, viene da chiedersi: è proprio così?
Secondo Fabris, “sulla base delle scarne informazioni del Vangeli non si è in grado di dare una risposta categorica alla domanda se Gesù sapesse leggere e scrivere”. E anche l’episodio riferito da san Luca, in cui nella sinagoga di Nazareth Egli prende e legge il rotolo del profeta Isaia, “non può essere addotto come prova che egli è in grado di leggere il testo ebraico della Bibbia”. Probabilmente infatti, argomenta lo studioso, quel racconto è il frutto di una rielaborazione dell’evangelista al quale interessa dire che Gesù è il Messia.
Tuttavia questo punto non è pacifico fra gli esegeti. Stefano Tarocchi, biblista e preside emerito della Facoltà Teologica dell’Italia centrale, nota infatti che “diversi altri racconti dei Vangeli favoriscono la teoria secondo cui Gesù era in grado di servirsi anche dell’ebraico quando la situazione lo richiedeva”. Soprattutto le conversazioni e discussioni con capi religiosi ebrei. “Questi dialoghi di solito avvenivano in ebraico anche tra chi aveva come prima lingua l’aramaico. Per essere credibile come interlocutore, con molta probabilità Gesù usava l’ebraico quando era impegnato in discorsi teologici con i farisei, gli scribi e gli altri capi ebrei”.
Quanto al greco, alcuni esegeti hanno ipotizzato che Gesù potesse conoscerlo, dato che vicino a Nazaret c’erano Sepphoris, capitale della tetrarchia di Erode Antipa, e Tiberiade, centro commerciale di una certa importanza, dove i mercanti greci arrivavano facilmente. Ma Fabris esclude un’ipotesi del genere, così come la possibilità che egli abbia conversato o insegnato in greco.
In che lingua parlarono Pilato e Gesù durante il processo?
Più possibilista è invece Tarocchi, citando la conversazione con il centurione romano di Matteo 8,5-13. “Anche Pilato nel processo - afferma - avrebbe usato il greco, non il latino, come ha invece immaginato Mel Gibson in The Passion. Non è nemmeno ipotizzabile che un governatore romano abbia potuto conoscere ed usare l’aramaico”. Tuttavia il dialogo potrebbe essersi svolto con l’intermediazione di un interprete (anche se nei Vangeli non se ne fa menzione), perché quello a Gesù non era certamente l’unico processo che Pilato fece nella sua carriera e la registrazione di un particolare così scontato può essere stata considerata superflua.
L’importanza del greco per l’evangelizzazione
Il greco però sicuramente entra in scena - e pesantemente - dopo la risurrezione. Soprattutto grazie alle lettere di Paolo, che sono i documenti più antichi del Nuovo Testamento, tutto scritto nell’”inglese” dell’epoca.
A questo punto il cambio di priorità, e dunque di paradigma anche linguistico, appare evidente. Alla logica dell’incarnazione si affianca quella dell’universalità del messaggio evangelico, che essendo destinato a tutti gli uomini, ha bisogno di un veicolo comunicativo il più possibile conosciuto. Il greco, appunto, che diviene così la lingua della “fase due” dell’evangelizzazione, dopo il primo annuncio del Nazareno. A quel punto l’idioma originale parlato da da Gesù diventa secondario, quasi ininfluente.
"Siamo Parti, Medi, Elamìti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène, stranieri di Roma, Ebrei e prosèliti, Cretesi e Arabi e li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio", esclameranno i presenti alla predicazione degli Apostoli, il giorno di Pentecoste. La voce di Cristo raggiunge ognuno nel suo linguaggio, secondo la doppia regola dell’incarnazione e dell’universalizzazione del messaggio della salvezza. E non è un caso che la Bibbia sia oggi il libro tradotto nel maggior numero di lingue al mondo.
Il pARTicolare.
Raffaello e la Madonna del Divino Amore
di Federica Maria Marrella [2018]*
Ci fu un saggio. Una volta.
Un saggio scritto che lessi con una voracità a me inconsueta, poiché la lentezza in realtà mi caratterizza, generalmente.
Eppure, quel saggio raccontava una storia bellissima. La storia di un dipinto simbolo e ritmo di perfezione.
Tondo in cui il tutto ha bisogno del singolo elemento, di ogni singolo particolare.
Verrà esposto a Torino nella Pinacoteca Agnelli, dal 17 marzo al 28 giugno, un dipinto di Raffaello Sanzio generalmente custodito a Napoli, nel museo di Capodimonte. L’opera è La Madonna del Divino Amore, realizzata nel periodo romano dell’artista, precisamente nel 1516 - 1518. Anni in cui la volta della cappella Sistina di Michelangelo Buonarroti era stata già compiuta. Anni in cui lo stile stesso di Raffaello si modifica, si espande nelle forme, nei tondi e negli angoli, come quella punta di ginocchio che tiene seduto il bambin Gesù.
Ma osserviamo l’opera.
Raffaello ritrae Maria, la madre Anna, Gesù e San Giovannino. Questo è il gruppo centrale, sapientemente ritratto e scolpito, poiché i corpi paion scolpiti, disegnati di sguardi, presentimenti, dettagli e silenziosi discorsi.
Maria e Anna, i capi leggermente appoggiati, sembrano sostenersi nell’osservare il miracolo di fronte a loro. Un sostegno muto e abbondante di sentimento. Lo stesso dialogo silenzioso e di sguardi realizzato nel cartone di Leonardo (Il Cartone di Sant’Anna, Louvre, Parigi). Quel cartone famoso, creato anche esso molti anni prima, nel 1499-1500, cartone in cui sant’Anna guarda, però, la figlia. E la figlia guarda il Cristo. E san Giovannino guarda anche egli il Cristo. E anche qui i corpi sono possenti. Entrambi gli artisti erano rimasti colpiti e, forse consciamente, forse inconsciamente ispirati dai corpi del Buonarroti. Quei corpi di scultura che si realizzano anche in pittura, nel disegno, nello studio della forma umana.
Le Conversazioni sono sempre materia molto complessa. Eppure la massa scultorea del cartone di Leonardo, i sentimenti umani concretizzati anche con la matita in uno sfumato misterioso, il movimento creato nella roccia umana, quel peso presente e concreto, tipico dell’umanesimo leonardesco che vedeva nell’uomo e nel suo corpo il più grande mistero di ogni tempo, ecco tutto questo in Raffaello sparisce. Questa possanza fisica, che si nota osservando ogni soggetto singolarmente, nel dialogo degli sguardi prende leggerezza, eleganza. Quella perfezione di cui parla Ernst H. Gombrich raccontando La madonna della seggiola (1514), altra opera di Raffaello. Quella perfezione e leggerezza che ha bisogno del tutto per esistere.
Eppure, il tutto nel dipinto di Raffaello, non si ferma al primo piano, al dialogo silenzioso ma serrato tra madre e figlia e tra i piccoli protagonisti. Il dialogo di fronte al mistero, pretende anche la solitudine del silenzio. Il distacco. La paura. Il disagio. madonna-del-divino-amore-dopo-il-restauro-img_5938
Queste parole sembrano così lontane dalla creazione di Raffaello Sanzio, il pittore che diede vita alla perfezione della natura, alla leggerezza, al tratto perfetto. All’armonia. Il pittore che, secondo le parole di Pietro Bembo, diede vita alla natura stessa. Raffaello invece, in questo dipinto, ritrae il dolore, la perplessità, la paura del mistero e dell’incomprensibile. Ritrae la pretesa e la ricerca di solitudine.
Eccolo, il pARTicolare.
Sullo sfondo, Giuseppe. San Giuseppe, perché ha già l’aureola. È già santo, anche nel suo tormento. Con le braccia conserte, ci sembra di vederlo che cammina avanti e indietro, su quel corridoio nascosto dalla luce perfetta che inonda il soggetto in primo piano. San Giuseppe, con la sua aureola, le sue braccia conserte, la sua mano tesa ad accartocciarsi il mantello, la sua testa confusa e i suoi pensieri legittimi, cammina, avanti e indietro. Crea un solco, su quel pavimento grigio.
Lo potremmo togliere, San Giuseppe, come ha giocato Gombrich sul dipinto de La Madonna con la seggiola. Il grande storico dell’arte aveva provato con la mano a coprire un elemento del dipinto e si è accorto che tutto il resto crollava.
La perfezione geometrica e l’armonia aveva bisogno del tutto.
E anche qui, senza san Giuseppe, questa conversazione crollerebbe.
Perché di fronte al miracolo, è concessa, anzi non solo concessa, è richiesta la paura. È da vivere il dubbio. Il dubbio che solca i pavimenti.
Che si stringe nel petto.
E che ci rende santi.
E quella distanza diventa unione nei colori. Il manto di Maria, azzurro, si unisce a quel cielo terso, in cui spicca il volto barbuto di San Giuseppe. Ogni elemento si unisce. Nel dialogo silenzioso, e dove non è possibile, nella Natura.
Federica Maria Marrella
* ArtSpeciallyDay, sabato 8 dicembre 2018 (ripresa parziale - senza immagini).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
AUGUSTO, LA SIBILLA TIBURTINA, E LA "MADONNA DI FOLIGNO" DI RAFFAELLO.
FLS
Le note spirituali della Civiltà Cattolica
“L’amore delle donne accompagna la passione di Gesù”.
di p. Giancarlo Pani S.I., vicedirettore de "La Civiltà Cattolica" *
Il Vangelo di Matteo presenta il racconto della passione di Gesù incorniciato tra due episodi che hanno come protagoniste alcune donne. La prima è una donna di Betania, che unge il capo di Gesù con un prezioso olio di nardo (Mt 26,6-13), le altre sono Maria di Magdala e le donne sul Calvario quando Gesù muore (27,55s) e, dopo il sabato, si recano al sepolcro alla prima luce dell’alba (28,1). Sono figure che illuminano il mistero.
Mancavano due giorni alla Pasqua. «Mentre Gesù si trovava a Betània, in casa di Simone il lebbroso, gli si avvicinò una donna che aveva un vaso di alabastro, pieno di profumo molto prezioso, e glielo versò sul capo mentre egli stava a tavola» (Mt 26,6s). È un momento di convivialità con la presenza del Signore.
Ad un certo punto compare una donna: chi sia, non si sa, non ha nome e non dice nemmeno una parola. Compie solo un gesto. Nella sala si spande la fragranza del profumo che suscita sdegno e proteste. Perché questo spreco? Si poteva venderlo per molto denaro e darlo ai poveri!
La donna tace, e Gesù afferma: «Perché infastidite questa donna? Ha compiuto un’azione buona verso di me. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me. Versando questo profumo sul mio corpo, lei lo ha fatto in vista della mia sepoltura» (vv.10-13). La donna - rivela Gesù - ha preparato il suo corpo per la morte.
Quello che gli apostoli non riescono a comprendere e che Gesù aveva detto più volte, lo ha compreso una donna: i capi dei sacerdoti e gli scribi volevano ucciderlo. In ogni caso, lei è l’unica ad aver capito che la vita di Gesù ha un esito preciso, la morte, e la morte viene perché Gesù ha donato la vita, perché si è fatto tutto a tutti. La donna lo ha veduto, lo ha ascoltato, custodisce le sue parole nel cuore, lo ha amato; e ora vuole essergli vicino con gratitudine. Risponde con amore all’amore di Gesù. Quel profumo è il suo dono, è tutto quello che ha, è tutta la sua vita. Perciò glielo versa fino in fondo, fino all’eccesso, che è la misura dell’amore che si dona senza misura.
La donna ha fatto un’azione buona, dice Gesù; in greco, alla lettera, «un’opera bella». È la bellezza di chi ama e che non bada a nulla per la persona amata. Lei ha compreso che la morte a cui Gesù va incontro è il frutto di un’intera vita donata ai fratelli. E lei, nella sua piccolezza, nella sua povertà, ha voluto esprimerlo con il suo gesto di amore. E Gesù lo accoglie, perché sa accogliere l’amore che gli diamo, che sia poco o tanto. Per lui non conta quello che si dona, ma il cuore con cui lo si dona.
Qui è una donna che dona e la donna sa bene che cosa comporta dare al mondo una vita; lei sa che dando la vita rischia di perdere la propria. Ma è il dono di un amore totale, che non teme il dolore, la sofferenza, la morte. È la profezia di quanto Gesù sta per vivere fino alla croce. La fragranza di quel profumo accompagnerà il Signore nella passione, nella morte, nella resurrezione. È un annuncio di vita e di gioia: è il profumo di Dio, il profumo del Vangelo. «Dovunque sarà annunciato questo Vangelo, nel mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche ciò che lei ha fatto» (v. 13).
***
Sul Calvario, quando Gesù muore, ci sono le donne che lo accompagnano. Sono lì, nel dolore e nel pianto per il Signore che le ha amate e che loro hanno amato. Una presenza e un amore che sono un segno anche per noi. Quando la vita spesa per gli altri ci porta al calvario e alla croce, spesso la luce della risurrezione è talmente lontana da perdere ogni forza confortatrice. La sofferenza può essere così amara e così totalizzante da spingerci in una situazione di disperata solitudine, di fallimento senza rimedio: la forza del Vangelo per il quale abbiamo tentato di vivere ci si vanifica in mano.
Ai piedi della croce - nel Vangelo di Matteo - i discepoli non ci sono. Ai loro occhi Gesù che muore è il segno della fine di tutto, di una speranza delusa, di un drammatico fallimento. Singolare è allora la figura delle donne sotto la croce. Non è pensabile che ai loro occhi potessero esserci prospettive diverse. Anche per loro Gesù muore, anche per loro il domani è nelle tenebre. Ma c’è un amore più forte che, nel buio, le tiene ai piedi della croce: ed è a questo amore semplice ma pieno, piccolo ma autentico, che per primo si rivela la resurrezione di Gesù.
L’amore delle donne è una strada anche per noi: tante volte ci troviamo nel buio, nello sradicamento totale, nell’assurdo, nel silenzio di Dio. Ma come le donne sono rimaste ai piedi di Gesù che muore, così la nostra preghiera insistente e il nostro silenzio fedele di fronte a un Dio che sembra non rispondere, ha in sé il germe di una speranza: anche a noi, come alle donne, si manifesterà la gloria del Signore che risorge.
* La Civiltà Cattolica,·Domenica 5 aprile 2020]
Sul tema, nel sito, si cfr.:
UOMINI E DONNE, PROFETI E SIBILLE, OGGI : STORIA DELLE IDEE E DELLE IMMAGINI.
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI : LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
FLS
Coronavirus.
La Chiesa: il 19 marzo alle 21 preghiamo tutti insieme per l’Italia
Famiglie, fedeli, comunità religiosa sono invitati a recitare in casa il Rosario, uniti alla stessa ora nella festa di San Giuseppe. Al via anche un sito web con le indicazioni di diocesi e parrocchie
di Francesco Ognibene (Avvenire, giovedì 12 marzo 2020)
La preghiera sarà condivisa in diretta su Tv2000. La Cei ricorda anche il testo della celebre invocazione di Leone XIII, per la preghiera personale:
Consapevole delle necessità di accompagnamento spirituale di tanta gente “in questo tempo di prova e di difficoltà per tutti”, la “Chiesa che è in Italia” accompagna l’invito per il 19 marzo con uno strumento digitale di facile consultazione con il quale “vuole dare segni di speranza e di costruzione del futuro. A partire dal presente”.
È dunque da oggi on line https://chiciseparera.chiesacattolica.it, “ambiente digitale che raccoglie e rilancia le buone prassi messe in atto dalle nostre diocesi - fa sapere l’Ufficio nazionale per le Comunicazioni sociali in una nota -, offre contributi di riflessione e approfondimento, condivide notizie e materiale pastorale”.
Si tratta di “un’iniziativa, promossa dalla Segreteria Generale della Cei, per testimoniare ancora e sempre l’impegno della Chiesa che vive in Italia nel continuare a tessere i fili delle nostre comunità. La convinzione che ci guida è che le criticità, lo smarrimento, la paura non possano spezzare il filo della fede, ma annodarlo ancora di più in speranza e carità”.
Con Chiciseparera.chiesacattolica.it la Chiesa italiana mette a disposizione “un punto di riferimento per riscoprire un senso di appartenenza più profondo. Il nome stesso “Chi ci separerà?” (Rm 8,35) indica un percorso impegnativo: la certezza che, pur circondati da una minaccia, niente potrà mai separarci da quell’Amore che ci unisce, perché figli e fratelli, e ci rende comunità. In questo senso bisogna osare, mettersi in cammino e non fermarsi”. “Il sito appena pubblicato - conclude la
Cei - intende guardare oltre il tempo presente. E quell’oltre non può che essere anche la qualità di una comunicazione pensata e che faccia pensare. È l’orizzonte a cui tendere”.
L’ECCE HOMO, L’8 MARZO AL TEMPO DEL “CORONA VIRUS”, E LA MEMORIA DI CHRISTINE DE PIZAN ...
ALLA LUCE DEL CHIARIMENTO DEL SIGNIFICATO DELLE PAROLE DI PONZIO PILATO: “ECCE HOMO”(cfr. sopra : https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/02/26/dialetti-salentini-piticinu/#comment-269838), si comprende meglio anche il significato delle parole di Christine de Pizan, l’autrice della “Città delle dame” : «Or fus jee vrais homs, n’est pa fable,/De nefs mener entremettable » (« Allora diventai un vero uomo, non è una favola,/capace di condurre le navi» - cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Christine_de_Pizan), che dicono ovviamente non della “metamorfosi” in “vir” - uomo, ma della “metanoia” in “homo” - essere umano (su questo, in particolare, si cfr. Michele Feo, “HOMO - Metanoia non Metamorfosi”, “dalla parte del torto”, Parma, autunno 2019, numero 86, pp. 12-13).
***
ASTREA ! “IAM REDIT ET VIRGO” ...
CARO ARMANDO... RICORDANDO DI NUOVO E ANCORA IL TUO PREGEVOLISSIMO LAVORO SU- GLI ARCADI DI TERRA D’OTRANTO, VIRGILIO, E IL “VECCHIO DI CORICO”. A SOLLECITAZIONE E CONFORTO DELL’IMPRESA (si cfr. https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/08/gli-arcadi-di-terra-dotranto-premessa-1-x/#comment-238474), E LA TUA CONNESSIONE TRA LA “PIZANA” CAPACE DI “CONDURRE LE NAVI” CON LA FIERA E NOBILE Carola Rackete, A SUO E TUO OMAGGIO, riprendo qui una breve scheda su:
Buon 8 marzo 2020 - e buon lavoro...
L’ORAZIONE SULLA DIGNITA’ DELL’UOMO - A UNA DIMENSIONE.
Da Giovanni Pico della Mirandola* a Herbert Marcuse** e ...
CARO ARMANDO, PER IMPARARE "a vivere meglio senza lasciarci condizionare dalla paura della morte, cioè dalla religione, qualunque essa sia", CREDO CHE SIA NECESSARIO riconsiderare il problema di "come nascono i bambini" (a tutti i livelli)! Hai ragione: "Non possiamo permetterci, con le Sibille, Maria Vergine, Cristo come dio, Maometto ed altre favolette l’illusione di un altro Messia"! Ci siamo addormentati nella tradizione cattolico-costantiniana e illuministica acritica (contro Kant), e abbiamo finito per "concepire" noi stessi e noi stesse secondo la bio-logia e l’andro-logia “unidimensionale” dell’omuncolo!
L’«ECCE HOMO» di Ponzio Pilato, al contrario!, ci dice proprio questo - la fine delle "favolette" e di ogni "illusione di un altro Messia". Il discorso è di diritto e di fatto, romanamente universale, vale a dire, antropologico (non limitato all’«omuncolo» di qualche "uomo supremo" o “superuomo”!):
SE SIAMO ANCORA CAPACI DI LEGGERE, COSA VA SIGNIFICANDO NEL TEMPO LA LEZIONE DI PONZIO PILATO?! Non è una lezione critica contro i "sovranisti" laici e religiosi di ieri e di oggi?!
Che vogliamo fare? Continuare a riportare noi stessi e noi stesse davanti a Pilato e ripetere da scemi e da sceme la stessa scena, riascoltare il suo "Ecce Homo" e non capire una "H" (acca)?!
P.S. - RICORDANDO ... GLI ARCADI DI TERRA D’OTRANTO, VIRGILIO, E IL “VECCHIO DI CORICO”. A SOLLECITAZIONE E CONFORTO DELL’IMPRESA.
COME NASCONO I BAMBINI? E COME ‘NASCONO’ I GENITORI?! ... *
Cantico dei Cantici.
Il corpo delle donne (intimità della Bibbia)
di Luigino Bruni (Avvenire, martedì 11 febbraio 2020)
Sono tra coloro che sono rimasti delusi dalla performance di Roberto Benigni al Festival di Sanremo dedicata al biblico Cantico dei Cantici. Forse perché avevo aspettative alte, grazie al ricordo, vivissimo, delle sue meravigliose letture di Dante, della Costituzione italiana, dei Dieci comandamenti; forse perché Benigni ci ha donato film molto amati per la loro poesia e forza etica.
Ma, forse, in questa delusione c’è anche qualcosa di più. Il corpo delle donne, insieme a quello dei bambini, è il primo bene che una civiltà deve tutelare e proteggere con tutte le sue forze. Quando un uomo, un maschio, parla del corpo della donna, prima deve togliersi i calzari dai piedi perché sta entrando in un territorio sacro, una terra fatta sacra da molto amore e da moltissimo dolore. Da sempre il corpo della donna, prima di essere icona dell’amore, è stato immagine di potere, di violenza, di abusi e di soprusi, di corpo ferito e di eros comprato dai maschi.
Non si può parlare del corpo delle donne senza avere ben in mente i molti millenni di storia umana in cui le donne hanno vissuto il proprio corpo come luogo da custodire e da preservare dall’uso cattivo dei maschi, un uso sbagliato che ancora troppo spesso è presente e non solo storia.
Ho guardato Benigni insieme a mia mamma e mia sorella. Due donne moderne, laiche, riconciliate con la vita e con i corpi loro, dei figli e dei mariti. Non hanno detto una parola durante lo spettacolo, ma l’aria di casa si è riempita di un pudore mescolato con l’imbarazzo e il disagio.
Accanto a loro, io ho avuto forte l’impressione di vedere sullo schermo una donna denudata in pubblico da Benigni, senza che lei avesse dato il suo consenso, denudata ai soli fini dello show. Ho visto quella giovane donna medio-orientale, vissuta due millenni e mezzo fa, e in lei ho rivisto le bellissime ragazze delle Mezzaluna fertile (il Cantico mette insieme antichi poemi nuziali babilonesi e cananei).
Una ragazza ’bruna’ in un mondo di maschi, in una cultura patriarcale che vedeva poco e male le donne, nascoste sotto la tenda, a occuparsi per tutta la vita di bambini e anziani. Quando nella Bibbia si incrocia una donna non è mai un incontro banale. Quelle donne hanno in genere lottato e sofferto molto per entrare in quel racconto, hanno dovuto farsi spazio in una cultura che non glielo dava spontaneamente.
Donne che vivevano poco e male, quasi tutte analfabete, e non di rado morivano per gravidanze non sempre volute e desiderate. Quale eros conosceva quella ragazza del Cantico? Non certamente quello delle fantasie di noi maschi del XXI secolo, né quello che ci ha raccontato Benigni.
Il Cantico è testo profetico, perché dice ai maschi e alle donne del suo tempo quale fosse il disegno di Dio sulla donna e sull’amore. Non era la descrizione dell’eros che quegli antichi scrittori vedevano attorno a loro, ma l’eros di un mondo futuro sempre desiderato e mai raggiunto.
Non dobbiamo infatti dimenticare che il Cantico è un intreccio di presenza e di assenza dell’amato. È anche un canto all’amore non trovato, che fugge, che non si trova:
«Lungo la notte, ho cercato l’amore dell’anima mia; l’ho cercato, ma non l’ho trovato. Mi alzerò e farò il giro della città per le strade e per le piazze; voglio cercare l’amore dell’anima mia. L’ho cercato, ma non l’ho trovato. Mi hanno incontrata le guardie che fanno la ronda in città: ’Avete visto l’amore dell’anima mia?’» (Cantico 3,1-3).
Senza questa dimensione di mancanza, di assenza, di limite, non si comprende l’eros che diventa solo gioco o sterile ricerca di piacere. L’eros è insieme pienezza e indigenza, ferita e benedizione. Ferita per tutti, uomini e donne, ma diversamente e di più per le donne (ferita, cioè vulnus).
Non credo che il Cantico sia stato scritto da una donna, e non lo credo per molte ragioni. Ma soprattutto non lo credo perché una donna non avrebbe parlato del proprio corpo e di quello del suo uomo con quelle parole. Le donne hanno altre parole per parlare dell’amore, dell’eros, della philia e dell’agape. Perché dell’eros le donne amano parlare solo due alla volta, nell’intimità di un rapporto d’amore, dove le parole non dette e quelle sussurrate sono importanti almeno quanto il corpo donato, e quando mancano queste poche parole diverse il corpo parla poco e male.
L’unico numero buono dell’eros è il due. E quando dell’eros si parla troppo e si parla in pubblico l’eros diventa altro, ed è bene usare altre parole molto meno nobili. La Bibbia ha da sempre letto quell’antico canto nuziale in modo sapienziale, allegorico e profetico, non per negare l’eros ma per salvarlo, perché l’unico modo per salvare l’eros è custodirlo nella sua intimità e nel suo nascondimento. E quando il Cantico viene letto senza ideologie e manipolazioni, non si fa una esperienza erotica, ma si fa una esperienza spirituale, mistica e soprattutto poetica:
«Àlzati, amica mia, mia bella, e vieni, presto! Perché, ecco, l’inverno è passato, è cessata la pioggia, se n’è andata; i fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è tornato e la voce della tortora ancora si fa sentire nella nostra campagna. Il fico sta maturando i primi frutti e le viti in fiore spandono profumo. Àlzati, amica mia, mia bella, e vieni, presto!» (2,10-13).
La poesia è stata infatti la grande assente dalla lettura di Benigni, una poesia mangiata dalla bramosia, molto infantile, di stupire gli spettatori con quell’eros ’nascosto’ dai preti e rabbini finalmente scoperto e liberato. Tutti i giorni i media usano i corpi delle donne per fare spettacolo, per vendere, per fare audience. E ogni giorno di più. La Bibbia non lo ha mai fatto. Parla poco di eros e di sesso, perché ne rispetta il mistero e l’intimità. La Bibbia va portata in tv, va portata ovunque, perché parla solo e sempre di vita. Ma se proviamo a manipolarla si chiude e non ci fa accedere al suo mistero e alla sua bellezza. Come, nonostante le probabili buone intenzioni, è accaduto l’altra sera sul palco di Sanremo.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO: "AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE" (Cantico dei cantici: 8.6). Un omaggio a William Shakespeare e a Giovanni Garbini.
COME NASCONO I BAMBINI? E COME ‘NASCONO’ I GENITORI?! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
«Canzonissima della Bibbia».
Il sorprendente dono del Cantico dei Cantici a Sanremo
di Rosanna Virgili (Avvenire, sabato 8 febbraio 2020)
Che gioia il Cantico dei Cantici a Sanremo! Grazie a Roberto Benigni che ha sorpreso e stupito il Festival con quel libretto della Bibbia che la tradizione ebraica e cristiana ha conservato come la canzone più bella, la ’canzonissima’ secondo una suggestione di Gianluigi Prato. Tre sono i trascendentali: verum, bonum e pulchrum. Importante è il bello. L’arte, nelle sue forme più nobili - quali la musica, la pittura, la poesia - è capace di far emergere il divino che si annida nella Parola, più di ogni altro linguaggio.
E allora l’idea di far conoscere e gustare il Cantico è stata davvero stupenda, appropriata, preziosa per un pubblico tanto vasto e popolare come quello del Sanremo in mondovisione (e non può inficiarla neppure la forzata ’licenza interpretativa’ che ha tradotto, tradendolo, l’amore tra amato e amata in altri amori che sono lontani e fuori dal limpido orizzonte biblico).
Del resto i duetti del Cantico, intervallati dalle voci del coro, assomigliano ai testi delle canzoni in gara e anch’essi nascono in un ambiente popolare; quadretti di vita rurale che hanno il sapore delle sere d’estate o del primo autunno quando, dopo la mietitura o la vendemmia, a notte, si faceva festa e gli occhi e le braccia dei ragazzi e delle ragazze si incrociavano, si intrecciavano, si inebriavano al sogno dei baci. Nel Cantico - scrive Guido Ceronetti - non c’è il nome di Dio, perché tutto è puro, quindi tutto è sacro! La forza dell’amore sveglia la primavera sui passi dell’amante che - inverosimilmente - è una donna. È lei a uscire per prima verso chi ancora non ha mai visto, ma è solcato nel suo desiderio profondo, nelle sue cavità vitali. Trasgressiva, testarda è la ’sorella’ del Cantico, si sottrae all’autorità dei fratelli, non cura la sua vigna ma corre verso le ’tende dei pastori’, esce nei deserti, batte la campagna, sfida le guardie alle mura della città, ’malata d’amore’! Una vera anomalia per un mondo in cui le donne non potevano scegliere i loro uomini ma venivano date in spose a scopo di procurare ai mariti una discendenza. Non avevano diritto sul proprio corpo, ma la donna del Cantico lo rapisce e ne fa guida e grammatica del viaggio dell’Amore. C’è un esodo dal sé, un’effrazione del self, per osare gli ignoti sentieri, le rischiose curve, gli anfratti del volto dell’Altro.
L’Amore è un’avventura senza garanzie, una strada senza ritorno, ’forte più della morte’. Irreversibile, fonte di creature nuove, diverse, bagnate di futuro. Amore che azzera i possessivi: ’io sono sua, mentre lui è mio’: l’estasi di un’unione che non risponde alla tentazione di divorare l’altro, rendendolo un cadavere.
Ma è pienezza di ’te’: del consegnarmi a te. Bocca d’infinito, sorso d’eternità, graffio di Vita! Nel testo originario le sue consonanti asciutte, nette, impossibili a essere fraintese. I sensi sono sentinelle e finestre del corpo, teso fuori di sé. ’Una voce, il mio amato’: il primo senso è casto come l’udito. ’Come sei bella, amica mia, come sei bella, le tue labbra una striscia di porpora’. Gli occhi di lui scoprono l’incanto della pelle di lei ’color del miele’, traduce magnificamente Luca Mazzinghi. Il tuo profumo è la quintessenzadi ogni aroma delle piante più squisite d’Oriente; ’c’è latte e miele sotto la tua lingua’; l’olfatto e il gusto si alleano nell’estasi d’Amore dove il tuo nardo è ben più forte di ogni vino drogato. Restituiscono al corpo la sua anima. Un minuto solo dura il tatto ma procura un vero svenimento; com’era per i Greci così nel Cantico, l’Amore è lelymmenos ’scioglitore di membra’. Per fare ’dei due un corpo solo’ direbbe l’Apostolo Paolo.
L’Amore è attesa, fatica, sudore di brama e di timore; esso regala attimi di estasi e anni di deserto, però quegli attimi valgono bene gli anni! L’Amore è corpo nudo, vuoto, puro, come il Santo dei Santi. Per questo il Cantico è il libro dei mistici, Paese sospeso. Dio come in un passaggio, la meghillà di Pasqua. Nel corpo che si perde è il profumo di Dio. Per questo è un gran peccato che la Chiesa abbia impedito per secoli l’accesso a questo piccolo libro, grandissimo tesoro, fonte di salute e salvezza per il corpo e per l’anima. Teniamo sveglio il cuore ora che ’il tempo del canto è tornato’.
CAPIRE IL COMPORTAMENTO UMANO.
di Antonio Rainone *
Carità o empatia?
Esiste una tematica nella filosofia del linguaggio e nell’epistemologia di W. V. Quine che può apparire per molti versi atipica o sorprendente a chi abbia del celebre filosofo statunitense un’immagine limitata alle sue concezioni fisicalistiche e comportamentistiche, per non dire “scientistiche”, non di rado considerate le più caratteristiche della sua produzione filosofica. Si tratta della tematica dell’empatia, cioè della capacità di avanzare spiegazioni o interpretazioni del comportamento (linguistico e non) di altri soggetti “mettendosi nei loro panni” o “simulandone” la situazione cognitiva o, ancora, assumendone immaginativamente il ruolo.
L’empatia - anche indipendentemente da Quine - ha peraltro suscitato una particolare attenzione nella filosofia della mente degli ultimi trent’anni, dove ha dato vita a un ampio dibattito sul cosiddetto mindreading, incontrandosi inoltre con la teoria neuroscientifica dei cosiddetti neuroni specchio 1. I più recenti lavori sulla filosofia del linguaggio di Quine dedicano una particolare attenzione a tale tematica 2, anche perché Quine, pur accennandovi in Word and Object (1960), ne ha proposto una esplicita teorizzazione solo nella sua produzione più tarda.
A partire dagli anni Settanta, ma più esplicitamente negli anni Novanta, Quine ha considerato il metodo dell’empatia come il metodo fondamentale di traduzione nel celebre Gedankenexperiment della traduzione radicale (ovvero la traduzione di una lingua completamente sconosciuta), ma anche come una capacità naturale ai fini dell’acquisizione del linguaggio e dell’attribuzione di stati mentali intenzionali (ossia percezioni, credenze, desideri ecc.) ad altri. In effetti, l’empatia ha acquisito un rilievo così crescente in Quine che nei suoi due ultimi lavori sistematici, Pursuit of Truth (1992) e From Stimulus to Science (1995), essa appare come un nucleo centrale della sua filosofia del linguaggio e della mente.
È stato del resto lo stesso Quine a sottolineare la rilevanza dell’empatia nella sua filosofia del linguaggio, “retrodatandone”, per così dire, la teorizzazione agli anni Cinquanta. Così Quine si esprime in uno dei suoi ultimi interventi sulla questione:
Il brano qui citato da Quine, ripreso dall’importante The Problem of Meaning in Linguistics (1951b, p. 63) - una notevole anticipazione della problematica della traduzione radicale - non è privo di una certa ambiguità, prestandosi a una duplice lettura. È forse vero che in Word and Object alcune affermazioni di Quine potrebbero essere interpretate come la proposta di un metodo empatico, sostenuto comunque in modo non del tutto esplicito (cfr. Rainone, 1995), ma possono essere avanzati dei dubbi circa la difesa di tale metodo nel saggio del 1951. Se da un lato il concetto di proiezione sembra proporre il metodo dell’empatia nell’attività di traduzione di una lingua completamente sconosciuta da parte di un etnolinguista, dall’altro sembra in effetti riferirsi non tanto al metodo empatico, quanto, piuttosto, a quello che, grazie allo stesso Quine, e in seguito a Donald Davidson (cfr. Davidson, 1984), sarebbe diventato noto come «principio di carità» (principle of charity). Il linguista - asseriva infatti Quine - proietta sé stesso con la sua Weltanschauung nei panni del nativo che usa una lingua sconosciuta, presupponendo (o ipotizzando) così che il suo informatore si conformi ai suoi principi logici e abbia le sue stesse credenze (ritenute vere) riguardo alla realtà (sono questi, grosso modo, i principali tenet del principio di carità, che presuppone una comune natura razionale tra interprete/ traduttore e interpretato/parlante).
In Word and Object Quine avrebbe esplicitamente utilizzato - e teorizzato - il principio di carità riguardo alla traduzione dei connettivi logici e degli enunciati “ovvi”. L’esempio più pertinente, in merito, è rappresentato dal «caso estremo» di qualche nativo che accetti come veri enunciati traducibili nella forma “p e non-p” (per esempio, “piove e non piove”), una forma enunciativa che, violando il principio di non contraddizione, deporrebbe per Quine non a favore dell’irrazionalità dei parlanti - come riteneva Lévy-Bruhl con la sua teoria della «mentalità prelogica» - ma contro la correttezza della traduzione (Quine, 1960, p. 58).
Il medesimo argomento varrebbe inoltre per la traduzione di enunciati ovvi: una risposta negativa da parte del nativo alla domanda (nella lingua nativa) “sta piovendo?” fatta sotto la pioggia costituirebbe una prova di cattiva traduzione nella lingua nativa, non del fatto che il nativo non condivida con il traduttore la credenza in qualcosa di così evidente. In generale, nota Quine in un famoso passo di Word and Object, «quanto più assurde o esotiche sono le credenze attribuite a una persona tanto più sospetti abbiamo il diritto di essere nei confronti delle traduzioni; il mito dei popoli prelogici segna solo il caso estremo» (ivi, p. 68).
Difficilmente, pertanto, la «proiezione» del linguista nei «sandali» del nativo di cui Quine parlava nel saggio del 1951 potrebbe apparire come una forma di metodo empatico, dal momento che essa “imporrebbe” al nativo uno «schema concettuale» (quello del linguista) che, per quanto il linguista può saperne, potrebbe essergli del tutto estraneo. Questo è, in fondo, il problema sottostante a tutto il celebre secondo capitolo di Word and Object 3. Non vi sarebbe alcuna garanzia, infatti, secondo Quine, che i nativi condividano lo stesso schema concettuale (la stessa Weltanschauung) del linguista. Ma il linguista non può, d’altro canto, che fare affidamento sul proprio linguaggio (o schema concettuale), data la scarsa evidenza empirica di cui dispone nel tradurre la lingua sconosciuta. Basarsi sul proprio schema concettuale, proiettandolo sul «linguaggio della giungla», è una necessità pratica, che - asseriva Quine in Word and Object - investirebbe soprattutto l’elaborazione delle «ipotesi analitiche», ovvero le ipotetiche correlazioni tra le emissioni verbali olofrastiche dei nativi e le loro possibili traduzioni mediante cui il linguista deve stabilire quali frammenti di enunciati andranno considerati termini (singolari e generali), quali congiunzioni, quali articoli, quali desinenze per il plurale e quali pronomi, sulla cui base individuare un insieme plausibile di credenze ontologiche ed epistemiche. La scelta delle ipotesi analitiche, infatti, non è altro che un modo di «catapultarsi nel linguaggio della giungla utilizzando i propri modelli linguistici » (ivi, p. 70).
Per ricordare il celebre esempio di Quine, la traduzione del proferimento di “gavagai” con “coniglio” (invece che con alternative bizzarre quali “stadi di coniglio” o “sta conigliando”, per quanto ammissibili sulla base dell’evidenza osservativa) equipara l’emissione verbale nativa a un termine generale del linguaggio del linguista, ma nulla esclude che i nativi possano essere privi di un termine referenziale generale per designare i conigli, anche se il linguista ritiene ciò “caritatevolmente” improbabile.
Utilizzare i modelli del proprio linguaggio per tradurre un linguaggio alieno non equivale quindi ad applicare un metodo empatico di comprensione, trattandosi al massimo di un’ulteriore e più ampia applicazione del principio di carità. L’empatia sembra in realtà qualcosa di diverso dalla carità: a differenza di quest’ultima, l’empatia non presuppone necessariamente una condivisione di significati e stati cognitivi (credenze). Forse l’assunzione di un’analogia di stati cognitivi tra interprete e interpretato - il «ritrovamento dell’io nel tu», secondo la celebre formula di Wilhelm Dilthey (1927, trad. it. p. 293) - può apparire inevitabile ed efficace riguardo alle risposte verbali fenomenologiche direttamente connesse a stimolazioni elementari provenienti da eventi osservativi intersoggettivi del mondo esterno (la pioggia, il colore rosso, il caldo e il freddo ecc.): ci si aspetta infatti che i nativi, che presentano una conformazione neurofisiologica e neuropsicologica analoga alla nostra, non abbiano percezioni di tipo diverso dalle nostre, rispondendo linguisticamente a tali percezioni in modo analogo a come risponderemmo noi; in tal caso l’empatia sembrerebbe indistinguibile dalla carità interpretativa, in quanto fondata sull’assunzione dell’esistenza di meccanismi percettivi comuni ai soggetti coinvolti. Ma difficilmente tale analogia potrebbe essere presupposta allorché si tratti di tradurre il linguaggio o spiegare il comportamento di soggetti appartenenti a una cultura del tutto estranea a quella dell’interprete. In questo caso l’interprete dovrà in qualche modo “entrare”, per così dire, nella “mente” dei soggetti da interpretare per comprendere il loro peculiare punto di vista, le loro credenze sulla realtà e i significati delle loro parole.
In definitiva, la differenza tra carità ed empatia può essere intesa come la differenza tra imporre il proprio punto di vista all’altro e assumere il punto di vista dell’altro. La differenza è particolarmente rilevante nei casi di interpretazione di soggetti appartenenti a “mondi” radicalmente diversi da quello dell’interprete. Se così non fosse, difficilmente gli etnoantropologi avrebbero potuto attribuire credenze animistiche o culti religiosi atipici (come i celebri cargo cults) alle popolazioni studiate (in entrambi i casi si dovrebbe trattare, secondo un’interpretazione caritatevole, di errori di traduzione o interpretazione).
Non dovrebbe costituire motivo di sorpresa, allora, che David K. Lewis, in un saggio dedicato alla problematica davidsoniana dell’«interpretazione radicale», avesse dato una definizione del principio di carità che ingloba, per così dire, anche il procedimento empatico: un soggetto di interpretazione, asseriva Lewis, «dovrebbe credere ciò che crediamo noi, o forse ciò che avremmo creduto noi al suo posto; e dovrebbe desiderare ciò che desideriamo noi, o forse ciò che avremmo desiderato noi al suo posto» (Lewis, 1974, p. 336; corsivi aggiunti). In pratica, secondo questa definizione del principio di carità, si tratterebbe di assumere empaticamente il punto di vista dei soggetti interpretati, tenendo conto delle loro credenze (eventualmente false o strane) e della loro cultura di appartenenza, attribuendo a essi non le credenze e i desideri dell’interprete, ma le credenze e i desideri che l’interprete avrebbe se fosse “nei loro panni”. Si può aggiungere, a tale proposito, che l’empatia rappresenta una sorta di “correttivo” del principio di carità, tenendo conto del punto di vista dell’altro.
Ma forse c’è ancora qualcosa da dire: mentre la carità impone dei vincoli normativi sulla razionalità dei soggetti da interpretare - vincoli a priori basati sui principi logici e sulle norme di razionalità epistemica e pratica dell’interprete, ritenuti universali 4 -, l’empatia sembrerebbe invece un metodo descrittivo ed empirico, essendo subordinata all’acquisizione di un’ampia gamma di informazioni relative alle credenze, alla cultura e alle esperienze passate dei soggetti da interpretare (inutile aggiungere che non c’è accordo su quest’ultimo punto).
4. Si può ricordare, riguardo a questa presunta universalità, che Robert Nozick ha contestato il principio di carità in quanto assunzione di tipo «imperialistico», conferendo tale principio «un peso indebito alla posizione che accade di occupare a noi, alle nostre credenze e alle nostre preferenze» (Nozick, 1993, p. 153). Giustamente, Nozick fa notare che difficilmente questa sarebbe l’assunzione di un antropologo relativamente alle cosiddette società “primitive” (ivi, p. 154).
* Cfr. Antonio Rainone, "Capire il comportamento umano. Azione, razionalità, empatia", Carocci editore, Roma, 2019, pp. 55-59, ripresa parziale.
NOTA:
USCIRE DALL’INFERNO EPISTEMOLOGICO. Amore (Charitas) o Mammona (Caritas)?! Il «principio di carità» ("caritas"!), un assunzione di tipo «imperialistico» (Robert Nozick, "La natura della razionalità", 1995). Una storia di lunga durata...:
VICO E MARX CONTRO LA PRASSI (ATEA E DEVOTA) DELLA CARITÀ POMPOSA. Alcune note su un testo del Muratori
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
CREATIVITÀ E IMMAGINAZIONE COSMOTEANDRICA (cosmologia, teologia, e antropo-logia!). QUALE DIO: AMORE ("CHARITAS") O "MAMMONA"? QUALE MADRE: "MARIA-EVA" O "MARIA-MARIA"?!....*
SANTA MESSA NELLA SOLENNITÀ DI MARIA SS.MA MADRE DI DIO
LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
CAPPELLA PAPALE
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Basilica Vaticana
Mercoledì, 1° gennaio 2020
«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana!
Nel primo giorno dell’anno celebriamo queste nozze tra Dio e l’uomo, inaugurate nel grembo di una donna. In Dio ci sarà per sempre la nostra umanità e per sempre Maria sarà la Madre di Dio. È donna e madre, questo è l’essenziale. Da lei, donna, è sorta la salvezza e dunque non c’è salvezza senza la donna. Lì Dio si è unito a noi e, se vogliamo unirci a Lui, si passa per la stessa strada: per Maria, donna e madre. Perciò iniziamo l’anno nel segno della Madonna, donna che ha tessuto l’umanità di Dio. Se vogliamo tessere di umanità le trame dei nostri giorni, dobbiamo ripartire dalla donna.
Nato da donna. La rinascita dell’umanità è cominciata dalla donna. Le donne sono fonti di vita. Eppure sono continuamente offese, picchiate, violentate, indotte a prostituirsi e a sopprimere la vita che portano in grembo. Ogni violenza inferta alla donna è una profanazione di Dio, nato da donna. Dal corpo di una donna è arrivata la salvezza per l’umanità: da come trattiamo il corpo della donna comprendiamo il nostro livello di umanità. Quante volte il corpo della donna viene sacrificato sugli altari profani della pubblicità, del guadagno, della pornografia, sfruttato come superficie da usare. Va liberato dal consumismo, va rispettato e onorato; è la carne più nobile del mondo, ha concepito e dato alla luce l’Amore che ci ha salvati! Oggi pure la maternità viene umiliata, perché l’unica crescita che interessa è quella economica. Ci sono madri, che rischiano viaggi impervi per cercare disperatamente di dare al frutto del grembo un futuro migliore e vengono giudicate numeri in esubero da persone che hanno la pancia piena, ma di cose, e il cuore vuoto di amore.
Nato da donna. Secondo il racconto della Bibbia, la donna giunge al culmine della creazione, come il riassunto dell’intero creato. Ella, infatti, racchiude in sé il fine del creato stesso: la generazione e la custodia della vita, la comunione con tutto, il prendersi cura di tutto. È quello che fa la Madonna nel Vangelo oggi. «Maria - dice il testo - custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (v. 19). Custodiva tutto: la gioia per la nascita di Gesù e la tristezza per l’ospitalità negata a Betlemme; l’amore di Giuseppe e lo stupore dei pastori; le promesse e le incertezze per il futuro. Tutto prendeva a cuore e nel suo cuore tutto metteva a posto, anche le avversità. Perché nel suo cuore sistemava ogni cosa con amore e affidava tutto a Dio.
Nel Vangelo questa azione di Maria ritorna una seconda volta: al termine della vita nascosta di Gesù si dice infatti che «sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore» (v. 51). Questa ripetizione ci fa capire che custodire nel cuore non è un bel gesto che la Madonna faceva ogni tanto, ma la sua abitudine. È proprio della donna prendere a cuore la vita. La donna mostra che il senso del vivere non è continuare a produrre cose, ma prendere a cuore le cose che ci sono. Solo chi guarda col cuore vede bene, perché sa “vedere dentro”: la persona al di là dei suoi sbagli, il fratello oltre le sue fragilità, la speranza nelle difficoltà; vede Dio in tutto.
Mentre cominciamo il nuovo anno chiediamoci: “So guardare col cuore? So guardare col cuore le persone? Mi sta a cuore la gente con cui vivo, o le distruggo con le chiacchiere? E soprattutto, ho al centro del cuore il Signore? O altri valori, altri interessi, la mia promozione, le ricchezze, il potere?”. Solo se la vita ci sta a cuore sapremo prendercene cura e superare l’indifferenza che ci avvolge. Chiediamo questa grazia: di vivere l’anno col desiderio di prendere a cuore gli altri, di prenderci cura degli altri. E se vogliamo un mondo migliore, che sia casa di pace e non cortile di guerra, ci stia a cuore la dignità di ogni donna. Dalla donna è nato il Principe della pace. La donna è donatrice e mediatrice di pace e va pienamente associata ai processi decisionali. Perché quando le donne possono trasmettere i loro doni, il mondo si ritrova più unito e più in pace. Perciò, una conquista per la donna è una conquista per l’umanità intera.
Nato da donna. Gesù, appena nato, si è specchiato negli occhi di una donna, nel volto di sua madre. Da lei ha ricevuto le prime carezze, con lei ha scambiato i primi sorrisi. Con lei ha inaugurato la rivoluzione della tenerezza. La Chiesa, guardando Gesù bambino, è chiamata a continuarla. Anch’ella, infatti, come Maria, è donna e madre, la Chiesa è donna e madre, e nella Madonna ritrova i suoi tratti distintivi. Vede lei, immacolata, e si sente chiamata a dire “no” al peccato e alla mondanità. Vede lei, feconda, e si sente chiamata ad annunciare il Signore, a generarlo nelle vite. Vede lei, madre, e si sente chiamata ad accogliere ogni uomo come un figlio.
Avvicinandosi a Maria la Chiesa si ritrova, ritrova il suo centro, ritrova la sua unità. Il nemico della natura umana, il diavolo, cerca invece di dividerla, mettendo in primo piano le differenze, le ideologie, i pensieri di parte e i partiti. Ma non capiamo la Chiesa se la guardiamo a partire dalle strutture, a partire dai programmi e dalle tendenze, dalle ideologie, dalle funzionalità: coglieremo qualcosa, ma non il cuore della Chiesa. Perché la Chiesa ha un cuore di madre. E noi figli invochiamo oggi la Madre di Dio, che ci riunisce come popolo credente. O Madre, genera in noi la speranza, porta a noi l’unità. Donna della salvezza, ti affidiamo quest’anno, custodiscilo nel tuo cuore. Ti acclamiamo: Santa Madre di Dio. Tutti insieme, per tre volte, acclamiamo la Signora, in piedi, la Madonna Santa Madre di Dio: [con l’assemblea] Santa Madre di Dio, Santa Madre di Dio, Santa Madre di Dio!
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETÀ. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!!
Federico La Sala
ECUMENISMO E PROBLEMA DELL "UNO" ... *
Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe.
Contemplando con fede la casa di Nazareth ogni credente può scorgervi un modello
di Matteo Liut (Avvenire, domenica 29 dicembre 2019)
La vita nasce da una relazione che si apre all’infinito, perché ogni essere umano che viene al mondo è segno dell’amore sconfinato di Dio. La famiglia è scrigno prezioso che ha la responsabilità di dare forma a questa continua promessa di futuro.
Oggi il rito romano pone la festa della Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, icona universale di un’intimità domestica portatrice di un messaggio rivoluzionario: Dio abita in mezzo a noi. Contemplando la casa di Nazareth ogni credente non può non scorgervi un’ispirazione e un modello: i piccoli gesti di cura e attenzione vissuti tra quelle mura testimoniano lo stile dell’agire di Dio nella storia. Ecco perché per i cristiani farsi compagni di strada degli ultimi significa prima di tutto essere luce di speranza e di amore per le persone più vicine: tutti abbiamo bisogno di aprirci continuamente alla vita attraverso relazioni d’amore.
Altri santi. San Davide, re (X sec. a.C.); san Tommaso Becket, martire (1118-1170).
Letture. Sir 3,3-7.14-17; Sal 127; Col 3,12-21; Mt 2,13-15.19-23.
Ambrosiano. Pr 8,22-31; Sal 2; Col 1,13b.15-20; Gv 1,1-14.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
FLS
La rivista.
«Rompere il muro della diseguaglianza tra donna e uomo nella Chiesa»
Il numero di dicembre di "Donna Chiesa Mondo", supplemento dell’Osservatore Romano, dedicato al rapporto di papa Francesco con il mondo femminile
di Gianni Cardinale (Avvenire, sabato 28 dicembre 2019)
“Le donne e Francesco”. È questo il titolo dell’ultimo numero di “Donna Chiesa Mondo”, il supplemento mensile dell’Osservatore Romano coordinato da Rita Pinci interamente dedicato all’universo rosa. Il fascicolo, in uscita oggi in allegato al quotidiano diretto da Andrea Monda, ospita interventi di donne - laiche e consacrate - che “dicono ciò che pensano di papa Francesco in rapporto alla questione femminile nella Chiesa”. E lo dicono in piena libertà. Numerosi i contributi, dal contenuto a volte pungente.
Stefania Falasca di Avvenire sottolinea che “al di là della formazione personale, la sollecitudine con la quale papa Francesco, fin dalla sua elezione, si è dedicato alla questione delle donne, del loro ruolo e accesso alle responsabilità ecclesiali, evidenzia l’urgenza di affrontare una realtà che riguarda la visione della Chiesa stessa e investe la sua natura gerarchica e comunionale”. È tale visione infatti “che spinge il Papa a percepire il monocolore maschile come un difetto, uno squilibrio, una minorazione della Chiesa considerato che senza le donne essa risulta deficitaria nell’annuncio e nella testimonianza e che dunque compromette la sua missione”.
Alla luce del recente Sinodo sull’Amazzonia la teologa Serena Noceti da parte sua ricorda che “nel quadro della visione del ministero ordinato consegnata dal concilio Vaticano II, la teologia sistematica è interpellata oggi per valutare la possibilità di ordinare donne diacono”. Così “sessanta anni dopo il votum di mons. de Uriarte Bengoa, ancora una volta dall’Amazzonia, la richiesta di donne diacono - come voce profetica? - raggiunge la chiesa intera e sollecita la teologia a ‘pensare in novità’”.
Mentre la “filosofa femminista” Luisa Muraro lamenta che anche la volontà di cambiamento di papa Francesco sarebbe però "un’eccezione" al livello "alto" della Chiesa dove prevale ancora "la preoccupazione di andare d’accordo con una tradizione che ha, fatalmente, l’impronta del tra-uomini di potere".
Tra i temi affrontati nel fascicolo anche lo spinoso problema della violenza contro le suore, sessuale e sotto forma di abuso di potere, da parte degli stessi uomini della Chiesa. "Il pontefice ha rotto il silenzio sulla violenza - sottolinea suor Jolanta Kafka, la nuova presidente della Uisg, Unione Internazionale Superiore Generali, che riunisce 1900 congregazioni per oltre 450.000 consacrate - e questo ci dà la possibilità di parlare, di essere, anche come Uisg, un luogo di ascolto e di aiuto non solo nei confronti della violenza sessuale, ma di ogni abuso di potere".
Da segnalare poi un appello al Papa a firma di Marinella Perroni, teologa e biblista al Pontificio Ateneo Sant’Anselmo: "Date l’esempio al mondo, anche quello che si ritiene ’civilizzato’ e che invece fa ancora tanta fatica ad accettare che, tra uomo e donna, non c’è uno che è soggetto (anche di parola) e l’altra che è oggetto (anche di parola), ma che, ormai, la soggettualità non può che essere condivisa. E ognuno parli di sé. Abbiamo gran bisogno di ascoltare uomini che parlano di maschilità. Anche nella Chiesa".
Il supplemento si chiude con una paginetta dal titolo forte: “Rompere il muro della diseguaglianza”. In essa tre fondatrici dell’Associazione Donne in Vaticano - Romilda Ferrauto, Adriana Masotti, Gudrun Sailer - sostengono che "anche in Vaticano le donne sono a volte viste, da uomini, ma anche da altre donne, come persone di minor valore intellettuale e professionale, sempre disponibili al servizio, sempre docili ai comandi superiori". Di qui l’urgenza appunto di "rompere il muro della diseguaglianza fra donne e uomini nella Chiesa".
Sulla scia dell’insegnamento di Papa Francesco, per cui “l’alleanza dell’uomo e della donna è chiamata a prendere nelle sue mani la regia dell’intera società”. Con un invito “alla responsabilità per il mondo... e anche nella Chiesa”.
USCIRE DALLA CAVERNA E DALL’INFERNO EPISTEMOLOGICO, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE COSMO-TE-ANDRICA PLATONICA. Materiali sul tema... *
Veder le stelle con gli occhi di Dante
Fisici, cosmologi, poeti, scrittori, teologi e mistici sono da sempre affascinati dalla “scienza stellare” dantesca: lo ricorda l’inglesista Tracy Daugherty in un nuovo saggio
di Gianni Vacchelli (Avvenire, mercoledì 18 dicembre 2019)
Dante ci sorprende sempre e ci spiazza, anche quando crediamo di averlo incasellato, almeno su un aspetto. Così potremmo pensare che la sua astronomia sia realmente irricevibile e superata. Ad esempio per il grande poeta Thomas Eliot, anche acuto dantista, come tutti sappiamo, «non è essenziale che la quasi inintelligibile astronomia di Dante sia capita ». Eppure non è così. E se forse l’accademia riserva in genere una rispettosa ma un po’ distaccata attenzione alla “scienza stellare” dantesca, fisici, cosmologi, oltre che poeti, scrittori, teologi e mistici ne sono da sempre affascinati. Soprattutto oggi gli uomini di scienza. Ce lo ricorda anche l’americano Tracy Daugherty, professore emerito di Inglese all’Oregon State University, nonché romanziere, nel suo recente e interessante saggio Dante and the Early Astronomer [Dante e la Prima Astronoma] ( Yale University Press).
In verità il libro di Daugherty, come si evince anche dal sottotitolo “Scienza, avventura e una donna vittoriana che aprì i cieli”, è sì dedicato a Dante ma insieme all’astronoma Mary Acworth Evershed (conosciuta pure come M.A. Orr, col cognome da nubile, prima di sposare John Evershed, importante astronomo lui stesso).
Mary è una donna inglese, nata nel 1867. Amava la poesia e il cielo stellato, e un viaggio in Italia all’età di 20 anni, a Firenze e a Ravenna, fu fondativo per la sua ricerca: decise così di studiare attentamente tutti i riferimenti astronomici nella Commedia di Dante, che arriverà a leggere in italiano. E nel 1913 Mary, con il cognome di Orr, pubblicò il suo importante studio Dante and the Early Astronomers, troppo presto dimenticato e che sarebbe utile riscoprire e tradurre in italiano. Nonostante il modello tolemaico di Dante fosse totalmente superato, Mary ammirò «la fedeltà dantesca agli insegnamenti dell’astronomia come l’aveva imparata dai suoi maestri», «la fantastica precisione dentro una struttura chiara» nel descrivere i fenomeni celesti. Per lei «il Poeta possedeva l’istinto e le attitudini di un ricercatore scientifico: una mente irrequieta, un abito di attenta osservazione».
Studiosa dei crateri lunari e delle macchie del sole, che «Dante aveva riconosciuto tre secoli prima che venissero scientificamente rilevate», Mary rimase affascinata anche da come Galileo, che stava aprendo all’umanità una nuova immagine di universo, rimanesse fedele alla retorica, all’immaginazione, ai ritmi danteschi. Le sue descrizioni del sole nelle Lettere sulle macchie solari echeggiavano le discussioni astronomiche di Beatrice in Paradiso II, sulle macchie lunari. Per la Evershed «Galileo considerò sempre Dante un pari, e la sua maestria artistica un modello... per lui la Commedia non era un cimitero di teorie astronomiche scartate, ma un prologo poetico a future scoperte». Allo stesso modo anche lei «seguì le tracce dell’universo di Dante, afferrò l’uso da parte di Galileo dell’arte di Dante per far avanzare le sue nozioni scientifiche e partecipò alla rivoluzione mentale che espanse l’esistenza e la conoscenza nel modo in cui Einstein - e Dante - predissero che sarebbe accaduto».
E in effetti il libro di Daugherty accenna in più parti ad una seconda e in qualche modo diversa linea di ricezione delle idee astronomiche del Poeta. Se la Evershed, con Galileo prima di lei, ha ammirato la coerenza e l’accuratezza “scientifica” del dettato dantesco, pur nel paradigma tolemaico non più accettabile, oggi molti «scrittori come il matematico Mark A. Peterson, lo storico della scienza Edward Grant e lo storico William Egginton hanno sostenuto in modo persuasivo che le concezioni medievali di Dante sulla forma dell’universo sembrano agli astronomi contemporanei sorprendentemente preveggenti». Dante insomma avrebbe «inventato un nuovo spazio topologico, la 3-sfera, o ipersfera», come scrive il citato Peterson in una sua analisi del 1979. In qualunque caso, una cosa è certa: la rappresentazione grafica del cosmo dantesco, ancora largamente accettata e quasi onnipresente su tutte le antologie scolastiche, con la terra al centro, i nove cieli intorno e l’Empireo sopra tutti, per lo più rappresentato come una sorta di “buffo cappellino” all’intero universo dantesco, è inaccettabile, testo di Dante alla mano.
Basta rileggere due complessi ma splendidi passi paradisiaci. In Paradiso XXVII, 106ss., Dante spiega la natura del Primo Mobile, la prima e più esterna delle sfere cosmiche ruotanti attorno alla Terra in base al modello geocentrico dell’universo, da cui trarrebbero origine il moto e il tempo. E scrive: «Luce e amor d’un cerchio lui comprende, / sì come questo li altri; e quel precinto / colui che ’l cinge solamente intende» (Pd XVVII, 112-114). Qui il Poeta sembrerebbe descrivere l’Empireo come un’ultima realtà capace di cingere il Primo Mobile e tutti gli altri cieli a seguire. Eppure nel canto successivo, Paradiso XXVIII, 16ss., avviene qualcosa di straordinario: Dante vede al centro dell’universo non la terra bensì un punto luminosissimo, il cui splendore non può essere sostenuto da occhi umani: «un punto vidi che raggiava lume / acuto sì, che ’l viso ch’elli affoca / chiuder conviensi per lo forte acume» (Pd XXVIII, 16-18). Il mistero divino è adesso centro dell’universo, «da quel punto / depende il cielo e tutta la natura» (vv.41-42), ed è come se il Poeta scorgesse «un altro universo», rovesciato e fatto, ugualmente, di nove cerchi concentrici, sede delle gerarchie angeliche ruotanti intorno a Dio.
È a partire da questi passi danteschi che il fisico rumeno Roman Patapievici, nel suo prezioso e oggi introvabile libretto Gli occhi di Beatrice ( Bruno Mondadori 2006), scrive: «L’immagine allo specchio è simile a quella reale, solo che è invertita. Il mondo invisibile diventa allora un calco rovesciato del mondo visibile: l’Empireo è Dio-centrico mentre la Terra è diavolo-centrica... l’invisibile obbedisce a norme opposte rispetto al visibile. Per spiegare queste simmetrie non resta che concepire l’universo visibile (con al centro la Terra) e l’Empireo (con al centro Dio) come due sfere che hanno in comune la superficie, cioè il “Primo Mobile”: il che equivale appunto a una ipersfera, oggetto della geometria di Riemann adottato da Einstein per descrivere l’universo nella relatività generale ». Su questa intuizione tornano recentemente anche due fisici italiani, Marco Bersanelli, nel suo Il grande spettacolo del cielo (Sperling & Kupfer 2016) e Carlo Rovelli in Ci sono luoghi al mondo dove più che le regole è importante la gentilezza ( Corriere della Sera 2018), che loda la «straordinaria intelligenza, anche matematico-scientifica» di Dante.
Questa ipotesi in verità ha una storia lunga e viene fatta risalire al matematico svizzero Andreas Speiser, che ne scrisse nel 1925, ripreso appunto poi da Mark Peterson, dall’astrofisico svizzero Bruno Binggeli e infine da Patapievici. Per altro già nel 1922 Pavel Florenskji in un breve e densissimo scritto, Gli immaginari in geometria, aveva sostenuto, a partire dalla “piroetta” effettuata dal Dante-personaggio in If XXXIV al centro della terra, che la concezione dello spazio della Commedia è abbordabile solo con il sostegno teorico della relatività einsteiniana e della geometria non-euclidea. Per concludere sorprendentemente: «Squarciando il tempo, dunque, la Divina Commedia finisce inaspettatamente per trovarsi non indietro, ma avanti rispetto alla scienza nostra contemporanea ».
Eppure forse il punto è un altro, anche se le riletture della fisica e della matematica contemporanee sono importanti, e certo da approfondire in uno studio esaustivo. Perché Dante ragiona da un mythos diverso dal nostro e le sue “preveggenze” gli vengono da una visione mistica dell’esistente. Ecco allora che il mistero divino sarà insieme imprendibile sfera e centro concentrico della realtà, contenente e contenuto, trascendente e immanente, come recitava un folgorante aforisma del medievale Libro dei XXIV filosofi: «Dio è una sfera infinita, il cui centro è ovunque e la circonferenza in nessun luogo».
La fisica contemporanea vi intravede un’iper-sfera. Sia. Per Dante la posta in gioco però è forse ancora più complessa: non solo ravvisare in tutto ciò il mistero divino, ma comprendere come la trinità Dio(Mistero)-Uomo-Cosmo sia in una relazione costitutiva e rappresenti tutta la realtà: non Dio, l’Uomo o il Cosmo da soli.
Potremmo ricordarci allora l’intuizione cosmoteandrica (cosmo-dio-mondo) del filosofo e teologo indocatalano Raimon Panikkar, che parlava anche di teofisica, «non tanto come “fisica di Dio”, ma come “del Dio della Fisica”, del Dio creatore del mondo, dove il mondo non è sentito in quanto autonomo, indipendente e diviso da Dio, ma costitutivamente connesso a Lui». L’ardore di Dante è stato quello di provare a tenere insieme queste dimensioni della realtà - misteriosa, umana e materiale - con tutti i saperi che aveva a disposizione, anche fallaci, limitati, scientificamente. È questo che ci attende oggi: mantenere viva e prolungare la tensione dantesca, aggiornandola all’altezza dei tempi. E le potenti preveggenze del Poeta sembrano guidarci, perché «poca favilla gran fiamma seconda».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’INCARNAZIONE AL DI LA’ DELL’ IMMAGINAZIONE "TE-ANDRICA" DEL CATTOLICESIMO-COSTANTINIANO: DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. Ipotesi di rilettura della "Divina Commedia".
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
FLS
Marta Cartabia, il cuore di Salomone e la riserva della Repubblica
Preoccupazione umana nell’esercizio della funzione di giudice, rapporto molto stretto con il presidente Mattarella, profonda conoscenza del diritto internazionale e comparato. Tre figli, e in cuffia i Metallica. Profilo della prima presidente della Consulta
di Maria Antonietta Calabrò (HUFFPOST, 11/12/2019)
Precisa, puntuale, acuta. L’opinione pubblica ha conosciuto il suo nome e il suo volto incorniciato dal caschetto, quest’estate, a fine agosto quando - apertasi la crisi di governo gialloverde - il suo nome è stato fatto come possibile nuovo presidente del Consiglio. Ma dopo qualche giorno di rumors, Marta Cartabia, vicepresidente della Corte dal 2014 ha smentito l’ipotesi. “L’incarico alla Corte costituzionale, che mi è stato affidato otto anni fa e che si concluderà nel settembre 2020, richiede grande impegno e responsabilità e intendo portarlo a compimento per il valore che la Costituzione gli attribuisce per la vita del Paese e soprattutto per quella di ogni singola persona”, dichiarò allora.
Com’è noto, l’impegno di giudice di palazzo della Consulta dura nove anni, e lei, babyboomer , nata nel 1963, ordinario di diritto costituzionale a Milano Bicocca (relatore della sua tesi di laurea un altro presidente della Corte Valerio Onida), è stata nominata, lei cattolica, all’Alta Corte dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nel settembre 2011.
Il nome di Cartabia come possibile premier non era uscito a caso, ma come quello di una personalità che avrebbe potuto garantire la discontinuità chiesta dal Pd per una possibile alleanza con il M5s.
Già nel 2018 aveva pensato alla giurista il Presidente Sergio Mattarella per guidare un governo neutrale per traghettare il Paese verso nuove elezioni.
Già da queste poche note emerge il primo tratto decisivo del nuovo presidente della Corte Costituzionale (che ha scritto un libro a quattro mani con Luciano Violante, “Giustizia e Mito”): una levatura altissima, al di sopra delle parti, centrata sui valori della Costituzione.
Ma la riga finale del suo comunicato di agosto, il riferimento ai valore che la “Costituzione attribuisce per la vita del Paese, e soprattutto per quella di ogni singola persona”, è indice di una sua preoccupazione umana costante nell’esercizio della sua funzione di giudice.
Il giudice non come asettica “bocca della legge”, ma il giudice “con il cuore di Salomone”, inteso come il mitico re biblico dell’Antico Testamento, esempio estremo di saggezza che per “scoprire” la vera madre di un neonato conteso tra due donne, ordinò di tagliare in due il bambino, sicuro, come poi avvenne, che la vera madre sarebbe stata quella che avrebbe lasciato suo figlio all’altra donna, affinché vivesse.
Tanto che Marta Cartabia ha curato un volume proprio dedicato a “La legge di Salomone. Ragione e diritto nei discorsi di Benedetto XVI” insieme ad Andrea Simoncini dell’Università di Firenze.
Un altro tratto distintivo della Cartabia è il rapporto molto stretto con il Presidente della Repubblica, Mattarella, nonostante siano quasi “opposti”. Lui, uomo, più anziano, siciliano, “cattolico democratico”.
Lei, la più giovane Presidente della Consulta, donna, lombarda, cattolica, vicina fin dall’Università, a CL.
Quella tra Cartabia e Mattarella è cementata dal fatto che, dopo la morte della moglie e prima dell’elezione al Quirinale, Mattarella ha vissuto nella foresteria della Corte Costituzionale, dove alloggiano il presidente e i vicepresidenti, tra cui la Cartabia appunto, quando sono a Roma, a due passi a piedi dal Palazzo della Consulta.
Per tre anni Cartabia è stata la sua vicina di pianerottolo in poco più di sessanta metri quadri. Due stanze (una camera da letto e una seconda camera adibita a studio), bagno, salotto con angolo cottura. Mobili di noce scuro, pareti sempre pulite e fresche di tinteggiatura, ma l’arredamento non ha niente di più che non sia l’essenziale. Quasi fosse studente fuori sede.
Il terzo tratto della Cartabia che vale la pena sottolineare è la conoscenza del diritto internazionale e comparato (tra l’altro è stata allieva di Joseph Weiler, eminente giurista ebreo, titolare della cattedra Jean Monnet della New York Law School), molto importante in questo periodo di transizione globale.
Già nel 2006 ha curato un volume (Rubettino) che ha pubblicato in Italia alcuni saggi di Mary Ann Glendon, docente di Harvard (che è stata professore anche dell’attuale Segretario di Stato americano, Mike Pompeo), “Tradizioni in subbuglio”, saggi comparsi su riviste giuridiche americane: riflessioni storiche e teoriche sulle condizioni per lo sviluppo della democrazia, sul ruolo dei giudici nei sistemi di civil law e di common law; sulle tematiche generali dei diritti umani alla libertà di religione e al diritto di famiglia.
Marta Cartabia ha 3 figli e ama la montagna (ad agosto, mentre di lei si parlava come possibile prima donna premier lei era impegnata nella scalata della vetta del Gran Paradiso), il trekking e la musica rock, e corre con nelle cuffie la musica dei Beatles e dei Metallica.
Ha sempre conciliato le responsabilità cui è stata chiamata, con la sua famiglia: “Penso che questo duplice aspetto della mia vita mi aiuti a mantenere un pizzico di equilibrio”, ha dichiarato di recente.
Tutte queste caratteristiche che fanno della Cartabia, il giudice gentile con il cuore del Re Salomone, a 56 anni, una vera e propria riserva della Repubblica.
BENEDETTO XVI/ Per fare politica occorre il “cuore” di Salomone
Ieri, presso la Biblioteca del Quirinale, è stato presentato il volume “La legge di Salomone. Ragione e diritto nei discorsi di Benedetto XVI”.
Ne parla ANDREA SIMONCINI *
L’idea di questo libro nasce da una constatazione: oggi la Chiesa è accusata spesso di entrare “a gamba tesa” nei dibattiti politici ovvero nelle discussioni di tipo giuridico; da più parti si ritiene che le gerarchie cattoliche pretendano di dettare ex cathedra i contenuti del dibattito democratico, distorcendo, così, tale dibattito. Un’accusa del genere è fondata? Questa obiezione nasce dalla vera posizione della Chiesa sulle questioni politiche e giuridiche? Davvero il Papa e la Chiesa intendono entrare in questi dibattiti “dettando” ai politici ed alle istituzioni cosa dovrebbero dire o fare?
Cosí è nato il progetto che Marta Cartabia ed io abbiamo curato, quello cioè di raccogliere assieme e ripubblicare cinque grandi discorsi pubblici che il Papa emerito Benedetto XVI ha tenuto dinanzi ad istituzioni civili, politiche o accademiche (Regensburg, Westminster, Collège des Bernardins, Nazioni Unite e Bundestag); chiedendo poi ad un gruppo di autorevoli esperti nel campo delle scienze giuridiche e politiche, espressivi delle più diverse sensibilità religiose, geografiche, culturali, accademiche e istituzionali, di proporne un commento.
Il risultato è andato al di là delle più ottimistiche previsioni. I nomi che hanno accettato di partecipare sono davvero tra gli studiosi più autorevoli e chi vorrà acquistare il libro potrà scorrerne l’elenco completo.
Cattolici, ebrei, protestanti, musulmani, agnostici, tutti hanno accettato di paragonarsi con questo pensiero. Alcuni hanno posto domande o sollevato interrogativi, altri hanno sottolineato la fecondità della posizione della Chiesa soprattutto dinanzi alle sfide che vive la società umana contemporanea. Tutti, comunque, hanno accettato questo dialogo con il Papa emerito come un interlocutore all’altezza delle sfide e dei valori in gioco, rifiutando così la riduzione caricaturale cui molto spesso viene sottoposta la posizione del magistero cattolico.
Ma il punto più interessante è che questo dialogo sta proseguendo oltre le pagine del libro.
La giornata di ieri lo dimostra: un panel d’eccezione ha accettato di proseguire la discussione lanciata dal volume, riprendendo le tesi di fondo del pontefice emerito e sviluppandone ulteriormente le potenzialità. Il dibattito è stato ricchissimo di contributi interessanti; un punto tra gli altri è emerso sinteticamente: le idee riguardanti il pensiero politico-giuridico della dottrina cattolica molto spesso sono stereotipi.
Per dimostrare questa conclusione proviamo un esperimento mentale: se oggi invitassimo un campione casuale di uomini politici o di responsabili di istituzioni pubbliche a stilare una lista dei temi toccati dal Papa emerito in questi suoi discorsi pubblici, prima di leggerli, è molto probabile che nell’elenco troveremmo: difesa della vita, eutanasia, contraccezione, divorzio, fecondazione assistita e così via. Rimarremmo, perciò, molto sorpresi nel non trovare nessuno di questi argomenti nei testi. Attenzione! Non che al Papa o alla Chiesa non interessino quei temi, anzi! Ma in questi discorsi, in cui il tema è il fondamento dell’ordine giuridico, il punto di attacco è molto più profondo e radicale. La preoccupazione non è dire alla politica cosa deve fare, ma − più alla radice − riconoscere da cosa nasce la politica.
«Nella storia, gli ordinamenti giuridici sono stati quasi sempre motivati in modo religioso: sulla base di un riferimento alla Divinità si decide ciò che tra gli uomini è giusto. Contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato, maiun ordinamento giuridico derivante da una rivelazione. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto - ha rimandato all’armonia tra ragione oggettiva e soggettiva, un’armonia che però presuppone l’essere ambedue le sfere fondate nella Ragione creatrice di Dio».
In questo passaggio del discorso pronunciato al Bundestag di Berlino è racchiuso il cuore del pensiero di Benedetto XVI: non la rivelazione, ma «la ragione e la natura nella loro correlazione» costituiscono «la fonte giuridica valida per tutti».
Dunque, il problema non è dire ai governanti cosa debbono fare, ma come far sì che essi usino correttamente la propria ragione nelle scelte che debbono fare.
In questo senso è davvero sorprendente l’unitarietà della traiettoria che lega il Papa emerito a Papa Francesco. Questa battaglia per un’idea non ridotta di ragione e di verità che costituisce il più grande contributo civile e laico della Chiesa.
Come ha detto Papa Francesco nella lettera inviata ad Eugenio Scalfari, “Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione! Tant’è vero che anche ciascuno di noi la accoglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc. Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita. Non ha detto forse Gesù stesso: «Io sono la via, la verità, la vita»? In altri termini, la verità essendo in definitiva tutt’uno con l’amore, richiede l’umiltà e l’apertura per essere cercata, accolta ed espressa”.
La verità, quindi, chiede umiltà e apertura e qui non possiamo non riconoscere la eco di quel “cuore docile, che sappia rendere giustizia al suo popolo e sappia distinguere il bene dal male” che chiede Salomone a Dio e che il papa emerito ha additato a modello per i politici di qualsiasi credo.
* Fonte: Il Sussidiario.net, 31.01.2014
LETTERA APOSTOLICA
Admirabile signum
DEL SANTO PADRE
FRANCESCO
SUL SIGNIFICATO E IL VALORE DEL PRESEPE *
1. Il mirabile segno del presepe, così caro al popolo cristiano, suscita sempre stupore e meraviglia. Rappresentare l’evento della nascita di Gesù equivale ad annunciare il mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio con semplicità e gioia. Il presepe, infatti, è come un Vangelo vivo, che trabocca dalle pagine della Sacra Scrittura. Mentre contempliamo la scena del Natale, siamo invitati a metterci spiritualmente in cammino, attratti dall’umiltà di Colui che si è fatto uomo per incontrare ogni uomo. E scopriamo che Egli ci ama a tal punto da unirsi a noi, perché anche noi possiamo unirci a Lui.
Con questa Lettera vorrei sostenere la bella tradizione delle nostre famiglie, che nei giorni precedenti il Natale preparano il presepe. Come pure la consuetudine di allestirlo nei luoghi di lavoro, nelle scuole, negli ospedali, nelle carceri, nelle piazze... È davvero un esercizio di fantasia creativa, che impiega i materiali più disparati per dare vita a piccoli capolavori di bellezza. Si impara da bambini: quando papà e mamma, insieme ai nonni, trasmettono questa gioiosa abitudine, che racchiude in sé una ricca spiritualità popolare. Mi auguro che questa pratica non venga mai meno; anzi, spero che, là dove fosse caduta in disuso, possa essere riscoperta e rivitalizzata.
2. L’origine del presepe trova riscontro anzitutto in alcuni dettagli evangelici della nascita di Gesù a Betlemme. L’Evangelista Luca dice semplicemente che Maria «diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio» (2,7). Gesù viene deposto in una mangiatoia, che in latino si dice praesepium, da cui presepe.
Entrando in questo mondo, il Figlio di Dio trova posto dove gli animali vanno a mangiare. Il fieno diventa il primo giaciglio per Colui che si rivelerà come «il pane disceso dal cielo» (Gv 6,41). Una simbologia che già Sant’Agostino, insieme ad altri Padri, aveva colto quando scriveva: «Adagiato in una mangiatoia, divenne nostro cibo» (Serm. 189,4). In realtà, il presepe contiene diversi misteri della vita di Gesù e li fa sentire vicini alla nostra vita quotidiana.
Ma veniamo subito all’origine del presepe come noi lo intendiamo. Ci rechiamo con la mente a Greccio, nella Valle Reatina, dove San Francesco si fermò venendo probabilmente da Roma, dove il 29 novembre 1223 aveva ricevuto dal Papa Onorio III la conferma della sua Regola. Dopo il suo viaggio in Terra Santa, quelle grotte gli ricordavano in modo particolare il paesaggio di Betlemme. Ed è possibile che il Poverello fosse rimasto colpito, a Roma, nella Basilica di Santa Maria Maggiore, dai mosaici con la rappresentazione della nascita di Gesù, proprio accanto al luogo dove si conservavano, secondo un’antica tradizione, le tavole della mangiatoia.
Le Fonti Francescane raccontano nei particolari cosa avvenne a Greccio. Quindici giorni prima di Natale, Francesco chiamò un uomo del posto, di nome Giovanni, e lo pregò di aiutarlo nell’attuare un desiderio: «Vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello».[1] Appena l’ebbe ascoltato, il fedele amico andò subito ad approntare sul luogo designato tutto il necessario, secondo il desiderio del Santo. Il 25 dicembre giunsero a Greccio molti frati da varie parti e arrivarono anche uomini e donne dai casolari della zona, portando fiori e fiaccole per illuminare quella santa notte. Arrivato Francesco, trovò la greppia con il fieno, il bue e l’asinello. -La gente accorsa manifestò una gioia indicibile, mai assaporata prima, davanti alla scena del Natale. Poi il sacerdote, sulla mangiatoia, celebrò solennemente l’Eucaristia, mostrando il legame tra l’Incarnazione del Figlio di Dio e l’Eucaristia. In quella circostanza, a Greccio, non c’erano statuine: il presepe fu realizzato e vissuto da quanti erano presenti.[2]
È così che nasce la nostra tradizione: tutti attorno alla grotta e ricolmi di gioia, senza più alcuna distanza tra l’evento che si compie e quanti diventano partecipi del mistero.
Il primo biografo di San Francesco, Tommaso da Celano, ricorda che quella notte, alla scena semplice e toccante s’aggiunse anche il dono di una visione meravigliosa: uno dei presenti vide giacere nella mangiatoia Gesù Bambino stesso. Da quel presepe del Natale 1223, «ciascuno se ne tornò a casa sua pieno di ineffabile gioia».[3]
3. San Francesco, con la semplicità di quel segno, realizzò una grande opera di evangelizzazione. Il suo insegnamento è penetrato nel cuore dei cristiani e permane fino ai nostri giorni come una genuina forma per riproporre la bellezza della nostra fede con semplicità. D’altronde, il luogo stesso dove si realizzò il primo presepe esprime e suscita questi sentimenti. Greccio diventa un rifugio per l’anima che si nasconde sulla roccia per lasciarsi avvolgere nel silenzio.
Perché il presepe suscita tanto stupore e ci commuove? Anzitutto perché manifesta la tenerezza di Dio. Lui, il Creatore dell’universo, si abbassa alla nostra piccolezza. Il dono della vita, già misterioso ogni volta per noi, ci affascina ancora di più vedendo che Colui che è nato da Maria è la fonte e il sostegno di ogni vita. In Gesù, il Padre ci ha dato un fratello che viene a cercarci quando siamo disorientati e perdiamo la direzione; un amico fedele che ci sta sempre vicino; ci ha dato il suo Figlio che ci perdona e ci risolleva dal peccato.
Comporre il presepe nelle nostre case ci aiuta a rivivere la storia che si è vissuta a Betlemme. Naturalmente, i Vangeli rimangono sempre la fonte che permette di conoscere e meditare quell’Avvenimento; tuttavia, la sua rappresentazione nel presepe aiuta ad immaginare le scene, stimola gli affetti, invita a sentirsi coinvolti nella storia della salvezza, contemporanei dell’evento che è vivo e attuale nei più diversi contesti storici e culturali.
In modo particolare, fin dall’origine francescana il presepe è un invito a “sentire”, a “toccare” la povertà che il Figlio di Dio ha scelto per sé nella sua Incarnazione. E così, implicitamente, è un appello a seguirlo sulla via dell’umiltà, della povertà, della spogliazione, che dalla mangiatoia di Betlemme conduce alla Croce. È un appello a incontrarlo e servirlo con misericordia nei fratelli e nelle sorelle più bisognosi (cfr Mt 25,31-46).
4. Mi piace ora passare in rassegna i vari segni del presepe per cogliere il senso che portano in sé. In primo luogo, rappresentiamo il contesto del cielo stellato nel buio e nel silenzio della notte. Non è solo per fedeltà ai racconti evangelici che lo facciamo così, ma anche per il significato che possiede. Pensiamo a quante volte la notte circonda la nostra vita. -Ebbene, anche in quei momenti, Dio non ci lascia soli, ma si fa presente per rispondere alle domande decisive che riguardano il senso della nostra esistenza: chi sono io? Da dove vengo? Perché sono nato in questo tempo? Perché amo? Perché soffro? Perché morirò? Per dare una risposta a questi interrogativi Dio si è fatto uomo. La sua vicinanza porta luce dove c’è il buio e rischiara quanti attraversano le tenebre della sofferenza (cfr Lc 1,79).
Una parola meritano anche i paesaggi che fanno parte del presepe e che spesso rappresentano le rovine di case e palazzi antichi, che in alcuni casi sostituiscono la grotta di Betlemme e diventano l’abitazione della Santa Famiglia. Queste rovine sembra che si ispirino alla Legenda Aurea del domenicano Jacopo da Varazze (secolo XIII), dove si legge di una credenza pagana secondo cui il tempio della Pace a Roma sarebbe crollato quando una Vergine avesse partorito. Quelle rovine sono soprattutto il segno visibile dell’umanità decaduta, di tutto ciò che va in rovina, che è corrotto e intristito. Questo scenario dice che Gesù è la novità in mezzo a un mondo vecchio, ed è venuto a guarire e ricostruire, a riportare la nostra vita e il mondo al loro splendore originario.
5. Quanta emozione dovrebbe accompagnarci mentre collochiamo nel presepe le montagne, i ruscelli, le pecore e i pastori! In questo modo ricordiamo, come avevano preannunciato i profeti, che tutto il creato partecipa alla festa della venuta del Messia. Gli angeli e la stella cometa sono il segno che noi pure siamo chiamati a metterci in cammino per raggiungere la grotta e adorare il Signore.
«Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere» (Lc 2,15): così dicono i pastori dopo l’annuncio fatto dagli angeli. È un insegnamento molto bello che ci proviene nella semplicità della descrizione. -A differenza di tanta gente intenta a fare mille altre cose, i pastori diventano i primi testimoni dell’essenziale, cioè della salvezza che viene donata. Sono i più umili e i più poveri che sanno accogliere l’avvenimento dell’Incarnazione. A Dio che ci viene incontro nel Bambino Gesù, i pastori rispondono mettendosi in cammino verso di Lui, per un incontro di amore e di grato stupore. È proprio questo incontro tra Dio e i suoi figli, grazie a Gesù, a dar vita alla nostra religione, a costituire la sua singolare bellezza, che traspare in modo particolare nel presepe.
6. Nei nostri presepi siamo soliti mettere tante statuine simboliche. Anzitutto, quelle di mendicanti e di gente che non conosce altra abbondanza se non quella del cuore. Anche loro stanno vicine a Gesù Bambino a pieno titolo, senza che nessuno possa sfrattarle o allontanarle da una culla talmente improvvisata che i poveri attorno ad essa non stonano affatto. I poveri, anzi, sono i privilegiati di questo mistero e, spesso, coloro che maggiormente riescono a riconoscere la presenza di Dio in mezzo a noi.
I poveri e i semplici nel presepe ricordano che Dio si fa uomo per quelli che più sentono il bisogno del suo amore e chiedono la sua vicinanza. Gesù, «mite e umile di cuore» (Mt 11,29), è nato povero, ha condotto una vita semplice per insegnarci a cogliere l’essenziale e vivere di esso. Dal presepe emerge chiaro il messaggio che non possiamo lasciarci illudere dalla ricchezza e da tante proposte effimere di felicità. Il palazzo di Erode è sullo sfondo, chiuso, sordo all’annuncio di gioia. -Nascendo nel presepe, Dio stesso inizia l’unica vera rivoluzione che dà speranza e dignità ai diseredati, agli emarginati: la rivoluzione dell’amore, la rivoluzione della tenerezza. Dal presepe, Gesù proclama, con mite potenza, l’appello alla condivisione con gli ultimi quale strada verso un mondo più umano e fraterno, dove nessuno sia escluso ed emarginato.
Spesso i bambini - ma anche gli adulti! - amano aggiungere al presepe altre statuine che sembrano non avere alcuna relazione con i racconti evangelici. Eppure, questa immaginazione intende esprimere che in questo nuovo mondo inaugurato da Gesù c’è spazio per tutto ciò che è umano e per ogni creatura. Dal pastore al fabbro, dal fornaio ai musicisti, dalle donne che portano le brocche d’acqua ai bambini che giocano...: tutto ciò rappresenta la santità quotidiana, la gioia di fare in modo straordinario le cose di tutti i giorni, quando Gesù condivide con noi la sua vita divina.
7. Poco alla volta il presepe ci conduce alla grotta, dove troviamo le statuine di Maria e di Giuseppe. Maria è una mamma che contempla il suo bambino e lo mostra a quanti vengono a visitarlo. La sua statuetta fa pensare al grande mistero che ha coinvolto questa ragazza quando Dio ha bussato alla porta del suo cuore immacolato. All’annuncio dell’angelo che le chiedeva di diventare la madre di Dio, Maria rispose con obbedienza piena e totale. Le sue parole: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1,38), sono per tutti noi la testimonianza di come abbandonarsi nella fede alla volontà di Dio. Con quel “sì” Maria diventava madre del Figlio di Dio senza perdere, anzi consacrando grazie a Lui la sua verginità. Vediamo in lei la Madre di Dio che non tiene il suo Figlio solo per sé, ma a tutti chiede di obbedire alla sua parola e metterla in pratica (cfr Gv 2,5).
Accanto a Maria, in atteggiamento di proteggere il Bambino e la sua mamma, c’è San Giuseppe. In genere è raffigurato con il bastone in mano, e a volte anche mentre regge una lampada. San Giuseppe svolge un ruolo molto importante nella vita di Gesù e di Maria. Lui è il custode che non si stanca mai di proteggere la sua famiglia. Quando Dio lo avvertirà della minaccia di Erode, non esiterà a mettersi in viaggio ed emigrare in Egitto (cfr Mt 2,13-15). E una volta passato il pericolo, riporterà la famiglia a Nazareth, dove sarà il primo educatore di Gesù fanciullo e adolescente. Giuseppe portava nel cuore il grande mistero che avvolgeva Gesù e Maria sua sposa, e da uomo giusto si è sempre affidato alla volontà di Dio e l’ha messa in pratica.
8. Il cuore del presepe comincia a palpitare quando, a Natale, vi deponiamo la statuina di Gesù Bambino. Dio si presenta così, in un bambino, per farsi accogliere tra le nostre braccia. Nella debolezza e nella fragilità nasconde la sua potenza che tutto crea e trasforma. Sembra impossibile, eppure è così: in Gesù Dio è stato bambino e in questa condizione ha voluto rivelare la grandezza del suo amore, che si manifesta in un sorriso e nel tendere le sue mani verso chiunque.
La nascita di un bambino suscita gioia e stupore, perché pone dinanzi al grande mistero della vita. Vedendo brillare gli occhi dei giovani sposi davanti al loro figlio appena nato, comprendiamo i sentimenti di Maria e Giuseppe che guardando il bambino Gesù percepivano la presenza di Dio nella loro vita.
«La vita infatti si manifestò» (1 Gv 1,2): così l’apostolo Giovanni riassume il mistero dell’Incarnazione. Il presepe ci fa vedere, ci fa toccare questo evento unico e straordinario che ha cambiato il corso della storia, e a partire dal quale anche si ordina la numerazione degli anni, prima e dopo la nascita di Cristo.
Il modo di agire di Dio quasi tramortisce, perché sembra impossibile che Egli rinunci alla sua gloria per farsi uomo come noi. -Che sorpresa vedere Dio che assume i nostri stessi comportamenti: dorme, prende il latte dalla mamma, piange e gioca come tutti i bambini! Come sempre, Dio sconcerta, è imprevedibile, continuamente fuori dai nostri schemi. Dunque il presepe, mentre ci mostra Dio così come è entrato nel mondo, ci provoca a pensare alla nostra vita inserita in quella di Dio; invita a diventare suoi discepoli se si vuole raggiungere il senso ultimo della vita.
9. Quando si avvicina la festa dell’Epifania, si collocano nel presepe le tre statuine dei Re Magi. Osservando la stella, quei saggi e ricchi signori dell’Oriente si erano messi in cammino verso Betlemme per conoscere Gesù, e offrirgli in dono oro, incenso e mirra. Anche questi regali hanno un significato allegorico: l’oro onora la regalità di Gesù; l’incenso la sua divinità; la mirra la sua santa umanità che conoscerà la morte e la sepoltura.
Guardando questa scena nel presepe siamo chiamati a riflettere sulla responsabilità che ogni cristiano ha di essere evangelizzatore. Ognuno di noi si fa portatore della Bella Notizia presso quanti incontra, testimoniando la gioia di aver incontrato Gesù e il suo amore con concrete azioni di misericordia.
I Magi insegnano che si può partire da molto lontano per raggiungere Cristo. Sono uomini ricchi, stranieri sapienti, assetati d’infinito, che partono per un lungo e pericoloso viaggio che li porta fino a Betlemme (cfr Mt 2,1-12). Davanti al Re Bambino li pervade una gioia grande. Non si lasciano scandalizzare dalla povertà dell’ambiente; non esitano a mettersi in ginocchio e ad adorarlo. Davanti a Lui comprendono che Dio, come regola con sovrana sapienza il corso degli astri, così guida il corso della storia, abbassando i potenti ed esaltando gli umili. E certamente, tornati nel loro Paese, avranno raccontato questo incontro sorprendente con il Messia, inaugurando il viaggio del Vangelo tra le genti.
10. Davanti al presepe, la mente va volentieri a quando si era bambini e con impazienza si aspettava il tempo per iniziare a costruirlo. Questi ricordi ci inducono a prendere sempre nuovamente coscienza del grande dono che ci è stato fatto trasmettendoci la fede; e al tempo stesso ci fanno sentire il dovere e la gioia di partecipare ai figli e ai nipoti la stessa esperienza. Non è importante come si allestisce il presepe, può essere sempre uguale o modificarsi ogni anno; ciò che conta, è che esso parli alla nostra vita. Dovunque e in qualsiasi forma, il presepe racconta l’amore di Dio, il Dio che si è fatto bambino per dirci quanto è vicino ad ogni essere umano, in qualunque condizione si trovi.
Cari fratelli e sorelle, il presepe fa parte del dolce ed esigente processo di trasmissione della fede. A partire dall’infanzia e poi in ogni età della vita, ci educa a contemplare Gesù, a sentire l’amore di Dio per noi, a sentire e credere che Dio è con noi e noi siamo con Lui, tutti figli e fratelli grazie a quel Bambino Figlio di Dio e della Vergine Maria. E a sentire che in questo sta la felicità. Alla scuola di San Francesco, apriamo il cuore a questa grazia semplice, lasciamo che dallo stupore nasca una preghiera umile: il nostro “grazie” a Dio che ha voluto condividere con noi tutto per non lasciarci mai soli.
Dato a Greccio, nel Santuario del Presepe, 1° dicembre 2019, settimo del pontificato.
FRANCESCO
* Fonte: Lettera apostolica. Papa Francesco a Greccio: ecco il vero significato del presepe di Mimmo Muolo, Avvenire, 30.11.2019 (ripresa parziale).
“DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE.
Un commento a De Domo David. 39 autori per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò
PROVANDO E RIPROVANDO. LA STELLA E IL NARDO... Ricordando quanto sia determinante e fondamentale, oggi, ripensare sul piano antropologico (andrologico e ginecologico) e teologico la figura della “sacra famiglia” e di san Giuseppe (si cfr. i commenti a "Ggimentu, gimmientu e ggimintare" di A. Polito, Fondazione Terra d’Otranto, 06.07.2018), e “come nascono i bambini”, non posso non PLAUDIRE alla realizzazione del “convegno e del libro per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò”, con tutti i suoi molteplici contributi!!!
SUL TEMA DELLA «GIUSEPPOLOGIA», MI SIA LECITO, si cfr.: GESU’ “CRISTO”, GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE (“CHARITAS”) DI GIUSEPPE E DI MARIA!!!
Federico La Sala
"GIUSEPPE": "DE DOMO DAVID". Un convegno e un libro ... *
De Domo David e l’edizione di Nardò, dalla Congregazione degli Oblati di San Giuseppe
di padre Alberto Santiago (Fondazione "Terra d’Otranto", 12/11/2019)
Buona serata a voi tutti: saluto cordialmente mons. Filograna, vescovo di Nardò, il Rettore della Confraternita di San Giuseppe Patriarca monsignor Santantonio, le Autorità presenti, il Priore della Confraternita Mino De Benedittis, i sodali e tutti i convenuti.
Porto il saluto della Congregazione degli Oblati di San Giuseppe fondata da san Giuseppe Marello nel 1870, e di tutto l’ambito giuseppino, che si compone anche della Congregazione di S.Giuseppe fondata da s.Leonardo Murialdo, e vari Istituti femminili, tutti informati ed entusiasti dell’iniziativa che si celebra nella diocesi di Nardò-Gallipoli.
Vengo inoltre come portavoce del Centro Studi del “Movimento Giuseppino” di Roma, che promuove l’interazione tra i devoti di san Giuseppe, per favorire e valorizzare la conoscenza della sua missione nel piano dell’Incarnazione, e animare la vita ecclesiale con la pratica delle virtù evangeliche tipiche di san Giuseppe.
Il sito del «Movimento Giuseppino» si propone di raccogliere e presentare con organicità di contenuti costantemente aggiornati, le informazioni riguardanti san Giuseppe in ogni suo aspetto, provenienti dai vari Centri nazionali e internazionali di studi. Il sito è aperto a ogni forma di confronto e collaborazione da parte di quanti volessero segnalare integrazioni, inesattezze e lacune, ma soprattutto ampliare l’orizzonte delle conoscenze. Sarà senz’altro disponibile a segnalare questa iniziativa di oggi nelle prossime settimane.
Vi trasmetto un fervido augurio poi da parte di p. Tarcisio Stramare, teologo e biblista, la cui opera di approfondimento negli studi teologici su san Giuseppe, e sui relativi documenti pontifici, ha diffuso la conoscenza e la devozione al Custode del Redentore. E’il titolo scelto da papa Giovanni Paolo II per riassumere il ruolo di san Giuseppe nel mistero dell’incarnazione, e risale però a un’antica concezione teologica che può aver ispirato lo scultore dell’angelo sull’altare maggiore di questa chiesa di Nardò: un angelo, appunto, “custode”, come una presenza che protegge dal male e da ogni pericolo. Quale miglior correlazione con la figura di san Giuseppe che porta in salvo il Figlio dalle insidie di Erode? La statua collocata nella parte più alta di questo bellissimo altare rispecchia l’atteggiamento di Giuseppe nei confronti di Gesù, chiamato ad assicurare la sua sopravvivenza e la sua crescita.
La giornata di oggi è punto di arrivo di un progetto, ideato per celebrare i quattrocento anni di vita della Confraternita di San Giuseppe Patriarca a Nardò, di ricerca e di approfondimento sul patrimonio artistico della chiesa, e sulle forme di devozione al santo.
Promosso con il patrocinio della Diocesi di Nardò-Gallipoli, della Fondazione Terra d’Otranto e della Confraternita, il libro che accompagna questo convegno richiama l’attenzione per il suo titolo, lungo come negli incunaboli di una volta: De domo David. La Confraternita di San Giuseppe Patriarca e la sua chiesa a Nardò. Studi e ricerche a quattro secoli dalla fondazione (1619-2019).
Ma sono soprattutto le prime parole a destare la curiosità del lettore: perché De domo David?
Questa espressione ricorre nella liturgia, e si legge nel vangelo di Luca ai versetti 26-27 del primo capitolo: “... missus est angelus Gabriel ... ad virginem desponsatam viro, cui nomen erat Ioseph de domo David ...” Possiamo ricordare anche la novena di Natale: “Ecce veniet Deus, et homo de domo David sedere in throno ...”.
Certamente da questi antecedenti deriva il motto della Confraternita di San Giuseppe Patriarca: De domo David, e quindi il titolo del libro, che si legge anche sulla convessa facciata della chiesa.
L’obiettivo di un libro ampiamente illustrato, come questo, è appunto che il lettore possa in qualche misura entrare in relazione con le opere, in modo che ogni immagine sia come uno specchio capace di coinvolgere lo spettatore. E che l’arte diventi una esperienza del mondo che modifica radicalmente chi la fa, ampliando la comprensione che il soggetto ha di sé e della realtà che lo circonda.
Concepito come libro di pregio, fuori commercio e con una tiratura di poche centinaia di copie, il volume curato da Marcello Gaballo e Stefania Colafranceschi è risultato un lavoro di altissima qualità sia per la strutturazione dei materiali, sia per la quantità di illustrazioni (quasi 800) in eccellente risoluzione.
Grazie alla collaborazione spontanea di studiosi in varie città d’Italia e delle diocesi del Salento, si è potuto realizzare un percorso ricco e qualificato, sorprendente per varietà di contributi; vi sono articoli di taglio dottrinale, storico e artistico, e molti contributi da Confraternite, Oratori, Associazioni legate a san Giuseppe. L’elaborato che ne è conseguito si rivela dunque molto rappresentativo.
Non potevamo immaginare questo lungo cammino attraverso il tempo - poiché gli articoli spaziano tra IV e XIX secolo -, come pure le conoscenze emerse sul patrimonio artistico di questa chiesa e i suoi significati.
Ringrazio tutti i collaboratori che hanno messo a frutto le loro competenze e lo spirito di ricerca, dando un apporto importante sul piano culturale nelle sue varie forme, ma anche considerevole per la conoscenza della figura di s. Giuseppe, solo apparentemente secondaria e silenziosa.
Esprimo l’apprezzamento inoltre per la disponibilità della Biblioteca Casanatense di Roma e il Museo Pitrè di Palermo, che hanno fornito materiale di particolare interesse; la Congregazione della Misericordia Maggiore di Bergamo per le riproduzioni degli arazzi cinquecenteschi, la Pinacoteca di Brera, la Galleria Nazionale di Parma e tutti i numerosi prestatori delle immagini pubblicate.
Principalmente ringrazio la Confraternita, all’origine di questo ambizioso progetto, e la Fondazione Terra d’Otranto che l’ha sostenuto e realizzato.
Rivolgo i saluti più cordiali agli autori qui presenti: Giovanni Boraccesi -che ha preso in esame gli argenti pugliesi raffiguranti san Giuseppe-, Marino Caringella -che illustra esempi di iconografie giuseppine-, Stefano Cortese -che documenta le antiche pitture parietali nel Salento-, Giuseppe Fai -che tratta la devozione del santo nella sua città di Parabita-, Antonio Faita -che presenta le opere statuarie dei celebri Verzella-, Antonio Solmona -che pone in evidenza alcune iconografie presenti a Galatone- e Stefano Tanisi -che esamina i dipinti nelle diocesi di Otranto e Ugento-, unitamente agli altri collaboratori.
Altri autori, come da programma, esporranno personalmente i propri contributi.
Il lavoro compiuto in questa ricorrenza, che ha fatto scoprire a tutta l’Italia la storia e l’arte di questa chiesa e di questa confraternita, di questa diocesi e della Puglia, è importante per ideare e costruire nuovi traguardi; è augurabile che parte di questo libro sia condiviso nel futuro Simposio internazionale di studi su san Giuseppe, che si terrà tra due anni in Guatemala. E’ una mèta possibile, sulla base delle svariate testimonianze acquisite, e dell’esperienza maturata in itinere.
Le stesse intenzioni mi vengono riferite per una ulteriore presentazione di questo libro a Roma, nella prestigiosa sede dell’antichissima e prestigiosa Biblioteca Casanatense, che come vedrete ha contribuito a realizzarlo mettendo a disposizione centinaia di incisioni e miniature dei secoli XV - XVIII, omaggiando questa chiesa e questa Diocesi.
E centinaia sono anche le rare riproduzioni di canivet di Lo Cicero e santini di Damato, alcuni tra i più importanti collezionisti italiani, che hanno messo a disposizione per la prima volta tante preziosità, accrescendo il prestigio del lavoro editoriale che questa sera presentiamo.
Con questo auspicio invito a far tesoro delle oltre seicento pagine del volume, tutte a colori e in pregevole edizione, e a proiettarsi nel futuro prossimo, in unità di intenti con il mondo giuseppino, che ancora una volta ringrazia per la particolare attenzione che questo lembo d’Italia ha voluto dedicare al santo di cui porta il nome.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
FESTA DI SAN GIUSEPPE E DEL PAPA’ - NON DEL PAPA!!! BASTA CON LA "MALA EDUCACION" E CON LA "MALA FEDE"!!! RESTITUIRE A GIUSEPPE L’ANELLO DEL "PESCATORE" E GIUSEPPE A MARIA E ALLA SUA FAMIGLIA - UMANA E DIVINA!!! LA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE INVESTE L’ AVVENIRE DELL’INTERA UMANITA’, NON QUELLO DEI VESCOVI DELLA CHIESA "CATTOLICA"
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
Federico La Sala
MIO NONNO ERA UN RE
di Michele Feo *
Il filosofo Emanuele Severino parla spesso in interviste e ricordi autobiografici del fratello Giuseppe morto in guerra, dicendo che fu studente alla Scuola Normale Superiore di Pisa e lì ascoltò le lezioni di Giovanni Gentile; lo ripete con dovizia di particolari novellistici nel «Corriere della sera» del 31 dicembre 2018.
Ma il nome di Giuseppe è assente in tutti gli elenchi a stampa degli allievi della scuola pisana, da quello curato nell’immediato dopoguerra dal filologo e segretario della Scuola Alessandro Perosa all’ultimo del 1999. Poiché l’esempio del fratello sembra essere stato determinante per la scelta di vita di Emanuele, par di capire che la collocazione formativa di Giuseppe a Pisa, all’ombra di Gentile, debba riverberare su Emanuele un po’ di quella gloria.
Sempre, anche il figlio della lavandaia e del tavernaro, quando ha asceso la scala sociale, si crea antenati nobili; le povere ma belle donzellette alla fine della favola si scoprono figlie di regine e il tribuno popolare Cola di Rienzo rivelò di essere il risultato di una bassa avventura dell’imperatore nei quartieri bassi di Roma.
Corollario: o i repertori pisani devono essere emendati o il filosofo si è distratto e anche lui si è lasciato catturare dal mito delle origini favolose.
Michele Feo
NOTA:
"DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE". Una storia di lunga durata
MIO NONNO ERA IL IL PAPÀ DI ADAMO ED EVA...
“Se vogliamo andare avanti non è a Parmenide che dobbiamo pensare. Ma, se si vuole, a Talete. Egli sapeva che l’azzurro circondava la Terra. Che vuol dire questo? E’ presto detto (e poi chiudo). La chiave ce la fornisce l’altra recente polemica innescata da Paolo Rossi, e, in particolare, la risposta di [Emanuele] Severino alla provocazione dello stesso Rossi. La questione è quella della nascita. Chiariamo.
Con la sua costanza e con la sua testardaggine, Rossi - lo storico-segugio (Severino parla di cagnolini) - è riuscito a mettere alle strette il Leone, e, l’ha fatto uscire dalla foresta pietrificata o, che è lo stesso, dal campo (Essere=Verità) di Parmenide. Perseguitato per «vent’anni», Severino non ce l’ha fatta più e ha ceduto. E, costretto a scoprire le sue carte, ha dovuto ammetterlo: non è nato ad Elea (Parmenide) e nemmeno a «Como» (Heidegger). «Io sono nato - ha dichiarato Severino - a Brescia. Me lo ha detto mia madre e mio padre: è scritto sui documenti». Il giogo del Destino della Necessità è stato spezzato: HIC SUNT LEONES - a Brescia!. Era ora: Emanuele è solo un poco Severino, ma è con noi - come noi, semplici mortali.
Fuor di metafora: questo è il problema: La croce dei filosofi, per eccellenza. Ce n’è voluto per riportare a galla dalle profondità del mare dell’essere (altro che pantano o pozzanghera, entro cui era stato buttato da Parmenide e dai suoi edipici figli - i platonici di tutti i tempi) Talete: qual è il principio di tutte le cose? Questi sono i problemi: così nasce la filosofia [...] (cfr. Federico La Sala, "Per una nuova cultura all’altezza del Pianeta Azzurro", «La Critica Sociologica», n. 93, 1990, pp. 111-115; in: “Della Terra, il brillante colore”, Pref. di Fulvio Papi, Edizioni Nuove Scritture, Milano 2013, pp. 98-99, senza note).
Federico La Sala
IL MITO DELLE ORIGINI FAVOLOSE E IL PECCATO ORIGINALE... *
Arte e sacro. Che cosa c’era sul leggio di Maria?
Nelle raffigurazioni dell’Annunciazione il libro su cui legge Maria compare tardi, dal IX secolo. Il filologo Michele Feo va a caccia delle tante ipotesi sul contenuto del volume
di Rosita Copioli (Avvenire, sabato 19 ottobre 2019)
La storia della Madonna è un meraviglioso romanzo per immagini. Più misteriosa tra tutte l’Annunciazione perché è il mistero stesso di Maria. Ma anche la più rivoluzionaria nella storia dell’umanità, perché fonda il mondo dopo Adamo: il mondo da Gesù Cristo, origine del nostro tempo. E poi perché racchiude tutto il turbamento, anzi lo sconvolgimento, e insieme la concentrata tenerezza della Vergine prima che concepisca e nel suo stesso istante: l’anticipazione dell’aurora, prima che irrompa il giorno in lei, in ognuno di noi.
Le scarne parole di Luca e Matteo non sono prive di immagini potenti, anzi assolute: per Alberto Magno l’ombra non è l’oscurità - che non viene dalla somma luce - ma l’immagine specchiata dell’onnipotenza; tuttavia solo i Vangeli apocrifi ci mostrano le scene, gli oggetti, i simboli, che i pittori prediligono. In essi Maria è alla fonte, al pozzo con la brocca, poi in casa, intenta a filare scarlatto e porpora (colori della regalità) accanto a un vaso dove fiorisce il giglio di Gesù; più tardi ha con sé un libro aperto e talora lo legge.
Sono queste le raffigurazioni che si susseguono dovunque nei secoli, in molteplici varianti. Soprattutto impone infinite riflessioni la presenza del libro, che compare tardi, dal IX secolo, su un cofanetto d’avorio francese dall’aria regale. Perché quella ragazza umile e il libro, che fu strumento di distinzione, non solo per la sapienza, ma nelle classi sociali? E significava soprattutto autorevolezza, garanzia di verità? E cosa era scritto nel libro di Maria, oltre alle parole dei profeti, dei salmi, dei Vangeli, del Magnificat?
Si può rispondere che Maria stessa è un libro, contiene il passato e soprattutto il futuro: un libro profetico al massimo grado. Ma c’è quella commistione di realtà e di sentimenti, che colpisce nel profondo, e non si accontenta di spiegazioni teologiche. In Maria il mistero teologico è reale e carnale, attraversa la vita quotidiana, gli affetti delle madri nelle famiglie, tutte le forme reali e immaginarie, che le madri quotidiane e le divinità femminili hanno mostrato in ogni tempo e spazio.
Michele Feo, filologo e acutissimo investigatore dei testi, ne è stato così commosso e catturato, da inventariarne le immagini per uno studio colto e appassionato (Cosa leggeva la Madonna; Polistampa, pagine 304, euro 20,00). Ma non dobbiamo pensare che l’indagine di Feo si limiti a un excursus erudito che riguarda soltanto l’abbinamento con il libro. Si estende a ogni riflessione che tocca Maria, con una condivisione totale e sottile della femminilità e dei suoi valori più profondi.
Mentre segue nei secoli e nelle contestualizzazioni delle opere le Annunciazioni, decifrando e commentando le iscrizioni e le composizioni, Feo non dimentica mai l’origine. Chi è veramente Maria? Cosa accade nel momento in cui riceve l’annuncio traumatico dell’angelo che ha sconvolto lei fino a noi stessi? Perché l’Annunciazione non è un evento che si conclude, ma un progetto che ci riguarda inesorabilmente? Come sono diventati lontani nei secoli i sensi originari? Come tutto è diventato infinitamente indecifrabile, sebbene continuino a colpirci quegli atti e quei gesti e quelle mani della ragazza non ancora madre, che talora si specchiano nelle mani dell’angelo, o - come nella Vergine Annunciata palermitana di Antonello da Messina - emergono in assoluta eloquenza fuori dal quadro?
La ricchezza di questo libro sta anche nella presentazione di testi preziosi che accompagnano la figura dell’Annunciazione; non solo quelli sacri, o Dante, o Petrarca (di cui Feo è massimo studioso), che nel cammino dell’amore che nobilita attraverso la donna, compie la «rivoluzionaria e decisiva collocazione della Vergine a chiusura dei Rerum vulgarium fragmenta». Feo ci traduce molti testi straordinari: ora popolari, ora dei più sofisticati umanisti che intrecciano la Vergine con le divinità greco-latine, ora di mistici ottocenteschi, ora di teologi moderni. Il valore del libro sta anche nel sapiente dialogo che Feo intrattiene tra culture diverse.
Vorrei aggiungere una testimonianza, che ha origine da due antiche tradizioni romagnole. Esse hanno riscontri nei calendari popolari e nel Tempio malatestiano di Rimini, dove compaiono le due porte che le anime passano: nel segno del Capricorno abbandonano la carne attraverso la porta degli dèi e dell’immortalità; nel segno del Cancro si incarnano. Nell’Annunciazione (e incarnazione) del 25 marzo, nell’equinozio di primavera, Maria è seduta, intenta a filare il lino “marzuolo”. In questa immagine, che riprende il protovangelo di Giacomo, Maria è l’umile donna antica, attenta alla rocca, al fuso, al telaio. Ma rievoca anche archetipi: Elena che in Omero tesse una tappezzeria di porpora con le lotte di Greci e Troiani in cui lei è al centro; Cloto che fila lo stame della vita.
La vigilia di Natale, a Ravenna, in una filastrocca che inizia con l’invocazione «Levati, levati mio sole / con il raggio del Signore», tre angeli donano a Maria tre forcine o tre falci d’oro: lei le porge al Signore, e Lui con queste mette in moto la ruota del cosmo: è la nascita di Gesù e del tempo: il compimento dell’Annunciazione avviene nel solstizio d’inverno, sotto il segno del Capricorno. In sintonia con tradizioni immemoriali, raccolte da quelle platoniche, Maria tra primavera ed estate incarna, mentre nel cuore dell’inverno, con il “sole invitto” libera dalla carne, verso l’eternità.
*
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
Michele Feo, Mio nonno era un re , "Il grande vetro".
Come MARIA: "FIGLIA DEL TUO FIGLIO", così GIUSEPPE: "FIGLIO DEL TUO FIGLIO"!!! Dante non "cantò i mosaici" dei "faraoni".
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Sulla divinità di Gesù. il Vaticano corregge Scalfari
Nota della Sala Stampa vaticana: dal fondatore di Repubblica libera e personale interpretazione. La precisazione dopo le sconcertanti e irreali frasi attribuite al Papa sulla divinità di Gesù Cristo
di Riccardo Maccioni (Avvenire, mercoledì 9 ottobre 2019)
Qualcuno stamattina leggendo “La Repubblica” avrà fatto un balzo sulla sedia. Nel suo commento al Sinodo intitolato “Francesco e lo spirito dell’Amazzonia” il fondatore del quotidiano Eugenio Scalfari attribuisce infatti al Papa riflessioni e opinioni quanto meno sconcertanti.
In particolare Scalfari scrive: «Chi ha avuto, come a me è capitato più volte, la fortuna d’incontrarlo e di parlargli con la massima confidenza culturale, sa che papa Francesco concepisce il Cristo come Gesù di Nazareth, uomo, non Dio incarnato. Una volta incarnato, Gesù cessa di essere un Dio e diventa fino alla sua morte sulla croce un uomo».
E a conferma di quanto appena detto, il giornalista e filosofo, passa in rassegna, modificandola anche un po’, la Passione di Gesù, soffermandosi in particolare sul grido di Cristo in croce, tratto dal Vangelo di Marco che riprende il Salmo 22: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Un’invocazione che Scalfari riassume in “Signore mi hai abbandonato”. «Quando mi è capitato di discutere queste frasi - aggiunge Scalfari - papa Francesco mi disse: “Sono la prova provata che Gesù di Nazareth una volta diventato uomo, sia pure un uomo di eccezionali virtù, non era affatto un Dio”». Davvero, quella di Scalfari, un’interpretazione troppo libera e palesemente irreale, al punto da meritarsi una “correzione”.
Arrivata con una nota del direttore della Sala Stampa della Santa Sede, Matteo Bruni: «Come già affermato in altre occasioni, le parole che il dottor Eugenio Scalfari attribuisce tra virgolette al Santo Padre durante i colloqui con lui avuti non possono essere considerate come un resoconto fedele di quanto effettivamente detto, ma rappresentano piuttosto una personale e libera interpretazione di ciò che ha ascoltato, come appare del tutto evidente da quanto scritto oggi in merito alla divinità di Gesù Cristo».
Del resto per capire che le espressioni attribuite al Pontefice non potevano essere reali sarebbe bastato recuperare le parole del Papa, ripetute in più occasioni. Poteva essere sufficiente anche solo riprendere pochi passaggi dell’udienza generale del 18 dicembre 2013: «Dio ha voluto condividere la nostra condizione umana al punto da farsi una cosa sola con noi nella persona di Gesù, che è vero uomo e vero Dio. Ma c’è qualcosa di ancora più sorprendente. La presenza di Dio in mezzo all’umanità non si è attuata in un mondo ideale, idilliaco, ma in questo mondo reale, segnato da tante cose buone e cattive, segnato da divisioni, malvagità, povertà, prepotenze e guerre. Egli ha scelto di abitare la nostra storia così com’è, con tutto il peso dei suoi limiti e dei suoi drammi. Così facendo ha dimostrato in modo insuperabile la sua inclinazione misericordiosa e ricolma di amore verso le creature umane».
Concetti ribaditi a Caserta il 28 luglio 2014: «L’Apostolo Giovanni è chiaro: “Colui che dice che il Verbo non è venuto nella carne, non è da Dio! È dal diavolo”. Non è nostro, è nemico! Perché c’era la prima eresia - diciamo la parola fra di noi - ed è stata questa, che l’Apostolo condanna: che il Verbo non sia venuto nella carne. No! L’incarnazione del Verbo è alla base: è Gesù Cristo! Dio e uomo, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, vero Dio e vero uomo».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA!!! NON IL FIGLIO DEL "DIO" ("CARITAS") DELLA CHIESA AF-FARAONICA E COSTANTINIANA !!!
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Un governo per difendere la Costituzione
M5S-Lega. Il dovere delle forze democratiche è quello di dar vita a un governo che ripari i guasti prodotti proprio da chi quelle politiche velenose contro la vita e la dignità delle persone ha praticato e intende riproporre con più forza ove vincesse le elezioni
di Luigi Ferrajoli (il manifesto, 25.08.2019)
C’è una ragione di fondo che impone alla sinistra la formazione di un governo giallo-rosso: la necessità, prima di porre termine alla legislatura, di disintossicare la società italiana dai veleni in essa immessi da oltre un anno di politiche ferocemente disumane contro i migranti. La Lega di Salvini intende «capitalizzare il consenso» ottenuto a tali politiche pretendendo nuove elezioni e chiedendo al popolo «pieni poteri».
L’idea elementare della democrazia sottostante a questa pretesa - poco importa se per analfabetismo istituzionale o per programmatico disprezzo delle regole - è la concezione anticostituzionale dell’assenza di limiti alla volontà popolare incarnata dalla maggioranza e, di fatto, dal suo capo: dunque, l’esatto contrario di quanto voluto dalla Costituzione, cioè la negazione del sistema di vincoli, di controlli e contrappesi da essa istituito a garanzia dei diritti fondamentali delle persone e contro il pericolo di poteri assoluti e selvaggi.
Non dimentichiamo quanto scrisse Hans Kelsen contro questa tentazione del governo degli uomini, e di fatto di un capo, in alternativa al governo delle leggi: «la democrazia», egli scrisse, «è un regime senza capi», essendo l’idea del capo al tempo stesso non rappresentativa della complessità sociale e del pluralismo politico, e anti-costituzionale perché in contrasto con la soggezione alla legge e alla Costituzione di qualunque titolare di pubblici poteri.
Di fronte a queste pretese, il dovere delle forze democratiche - di tutte quelle che si riconoscono non già nell’idea dell’onnipotenza delle maggioranze ma in quella dei limiti e dei vincoli ad esse imposte dalla Costituzione - è quello di dar vita a un governo che ripari i guasti prodotti proprio da chi quelle politiche velenose contro la vita e la dignità delle persone ha praticato e intende riproporre con più forza ove vincesse le elezioni.
Dunque un governo di disintossicazione dall’immoralità di massa generata dalla paura, dal rancore e dall’accanimento - esibito, ostentato - contro i più deboli e indifesi.
Non un governo istituzionale o di transizione, che si presterebbe all’accusa di essere un governo delle poltrone, ma al contrario un governo di esplicita e dichiarata difesa della Costituzione che ristabilisca i fondamenti elementari della nostra democrazia costituzionale: la pari dignità delle persone, senza differenze di etnia o di nazionalità o di religione, il diritto alla vita, il rispetto delle regole del diritto internazionale, prima tra tutte il dovere di salvare le vite umane in mare, il valore dei diritti umani e della solidarietà, il rifiuto della logica del nemico, come sempre identificato con i diversi e i dissenzienti e immancabilmente accompagnato dal fastidio per la libera stampa e per i controlli della magistratura sull’esercizio illegale dei poteri.
Su questa base non ha nessun senso condizionare il governo di svolta a un no a un Conte-bis o alla riduzione del numero dei parlamentari.
L’alternativa possibile è un governo Salvini, preceduta dalla riduzione dei parlamentari ad opera di una rinnovata alleanza giallo-verde, e poi chissà quante altre e ben più gravi riforme in tema di giustizia, di diritti e di assetto costituzionale.
Una probabile maggioranza verde-nera eleggerebbe il proprio capo dello Stato e magari promuoverebbe la riforma della nostra repubblica parlamentare in una repubblica presidenziale. Di fronte a questi pericoli non c’è spazio per calcoli o interessi di partito.
PER LA CRITICA DELLA FACOLTÀ DI GIUDIZIO E DELLA CREATIVITÀ DELL’ "UOMO SUPREMO"... *
Ferrarotti nella società irretita dalla tecnica
Reminisco, ergo sum: il pensiero "involontario"
di Simone D’Alessandro (Doppioero, 25 giugno 2019)
Secondo Ferrarotti, decano della sociologia italiana, gli uomini oltrepassano la prevedibilità perché hanno memoria. Paradossalmente è la consapevolezza dei ricorsi storici che ci rende affatto stufi di ciò che è razionalmente prevedibile. A renderci sfuggenti è proprio ciò che siamo stati. Più precisamente: ciò che ricordiamo di essere stati.
L’assioma di Cartesio si rovescia: da Cogito ergo sum a Reminisco ergo sum.
In Il pensiero involontario nella società irretita, pubblicato quest’anno da Armando editore, egli affronta la memoria che costituisce l’essenza della nostra sopravvivenza sulla terra, tema che ricorre in altre sue opere precedenti. Il ricordo è, oggi, intaccato dalla comunicazione elettronica che lo rende superfluo.
Più che un saggio canonico è un pamphlet che analizza come la modernità dimentica, per citare il classico di Paul Connerton, in quanto funzionalmente portata verso questa fatalità.
La mancanza di memoria rende, infatti, l’umano sostituibile o impiegabile per altro.
Il suo agire meccanico e routinario viene preferito a quello imprevedibile dell’homo sapiens che coniuga la regola con l’emozione, direbbe de Masi.
Tanto vale sostituirlo con un’entità strumentale ben più efficiente, ma questo già accadeva con L’homme machine di de la Mettrie: utopia e distopia al tempo stesso.
Ferrarotti condanna la “ripetizione” come morte dell’invenzione radicale, perché la produzione si annulla nella cieca “riproduzione” e nell’incrementale “miglioramento” fine a se stesso.
Quando nulla cambia, quando tutto si dispiega in un eterno presente, l’unica cosa da fare è automatizzare l’esistente.
La memoria diventa, allora, strumento di resistenza verso tale deriva.
Essa non è semplicemente utile, né banalmente peculiare del nostro essere umani, detentori di un’identità personale da coltivare.
La memoria è molto di più, perché ci distoglie dalla retorica delle soluzioni facili che, proprio per questo, si rivelano sempre autoritarie giammai autorevoli.
La nostra società di Informatissimi idioti, altro fortunato titolo ferrarottiano di alcuni anni fa, viene algoritmicamente plagiata da un potere panoptico che riduce anche l’esercizio democratico in mero tecnicismo. Potere e autorità sono termini spesso utilizzati in modo intercambiabile, ma in questa facile analogia si nasconde una fallacia epistemologica.
Mentre il potere schiaccia, l’autorità permette la crescita.
La contrapposizione tra potere autoritario e proattività autorevole è un altro tema che assilla un intellettuale che è stato tra i primi frequentatori di Olivetti, addetto alla Presidenza per le Questioni Sociali nel 1949 e, successivamente, deputato per il Movimento di Comunità.
Ferrarotti appartiene a quella tradizione solida di intellettuali organici, resilienti e consapevoli del destino declinante dell’occidente.
In un momento in cui la filosofia e la sociologia vengono eliminate nelle università del Brasile, uno scienziato sociale rivendica il primato del pensiero umanistico, oggi costretto al suicidio dalle regole del profitto.
Applicazione disciplinata delle procedure o vocazione che metabolizza le tecniche rendendole apparentemente spontanee? Trasformazione di ciò che sei attraverso empowerment o attitudine che prevede miglioramento di ciò che già sei?
Questo è il dilemma nella società di oggi che deve scegliere se governare o essere governata dalla tecnica che elimina tutto ciò che ritiene disfunzionale.
Per maestri del pensiero quali Heidegger e Severino il destino sembrerebbe esser tracciato, ma in Ferrarotti vi è un imprevedibile vitalismo che disattiva ogni forma di disperazione.
Contestualmente alla pubblicazione del suo libro, la Luiss University Press dà alle stampe l’ultima fatica del filosofo francese Éric Sadin: Critica della ragione artificiale, nella quale si evidenzia il ruolo delle nuove tecnologie intelligenti che erodono le facoltà di giudizio e azione soggettiva. Forse non è un caso! Sadin, recuperando in senso letterale il ruolo politico della filosofia, svela il retro pensiero antiumanistico dei discorsi che sostengono l’indiscriminato sviluppo tecnologico.
Siamo giunti all’avveramento della profezia di Luhmann che negli ultimi suoi lavori annunciava l’avvento di una società senza persone?
Ferrarotti non cade nel tranello dei radicalismi. Evita di sposare la causa degli “apocalittici”, ma trova ingenuo l’atteggiamento ottimista degli “integrati”.
Ci ricorda che il vero pensiero non cede alle tentazioni della soluzione finale, piuttosto ci prepara a vivere quotidianamente con il problema: «l’atto filosofico più importante che oggi si possa compiere, è dato dal buon uso della crisi e dall’accettazione, pacata, del disagio. Non si tratta di contemplare rassegnati. Non è in gioco la Gelassenheit heideggeriana e neppure il “surrender”, la resa di Kurt H. Wolf. Si tratta di un’attesa vigile». Per questo bisogna contrastare la procedura, il modello come soluzione finale: il modello è un deja vù!
C’è sempre uno scienziato che crede di aver inventato un modello totalmente innovativo (ingenuità) che possiede qualcosa che altri modelli non hanno (propaganda) e che permette, una volta implementato, di risolvere tutti i problemi (utopia).
Un modello è una variabile dipendente da altre variabili: il contesto, i pregiudizi dell’epoca, le persone che trovi lungo il cammino, il ruolo effettivo che ricopri, la casualità.
L’allenamento mentale dell’uomo in grado di guidare il cambiamento, dovrebbe basarsi sulla capacità critica di falsificare tutti i modelli.
I modelli sono riduzionistici rispetto alle dinamiche del reale. Non si può governare la complessità rinunciando alla complessità. Di questo la sociologia critica è perfettamente consapevole.
Un modello che diventa procedura genera mostri, ostacolando il salto di qualità.
Più di cento anni fa, Max Weber lanciava un monito sulle conseguenze del processo di razionalizzazione della società occidentale, rinchiusa in una gabbia d’acciaio.
Quel monito è rimasto inascoltato!
Il XXI secolo ha spalancato le porte alla Dittatura del calcolo, come ci ricorda il matematico Zellini nella sua ultima pubblicazione del 2018.
Aumentano i libri sulla gestione automatica, cibernetica o per emulazione-memorizzazione di modelli. Eppure i livelli di criticità e di conflittualità - politica, organizzativa, economica, sociale, ambientale - sono aumentati rispetto al cosiddetto trentennio glorioso del secolo scorso.
Anche negli anni precedenti ai due conflitti mondiali, si erano imposti paradigmi di stampo positivistico finalizzati a modellizzare la realtà per ottimizzarne la funzionalità.
Risultato: le procedure generano mostri! Il positivismo ha creato sistemi autoritari.
Il modello migliora ciò che già sei, ma non cambia la natura di ciò che sei.
Allora vale la pena riscoprirsi imprevedibili e non farsi irretire dalla macchina.
L’uomo prende decisioni anche in assenza di informazioni. La macchina no!
Il 15 gennaio 2009, il pilota di linea Chesley Burnett “Sully” Sullenberger fa ammarare il volo US Airways 1549 sul fiume Hudson. Con la sua manovra, resa necessaria dall’impatto del velivolo con uno stormo di uccelli che manda in panne entrambi i motori, salva la vita a 155 persone.
Ciò nonostante l’aviazione lo sottopone a una commissione di inchiesta, perché ritiene che il pilota abbia agito in maniera pericolosa e avventata. La tesi sostenuta dagli ispettori era che avrebbe potuto fare ritorno presso l’aeroporto e atterrare con molti meno rischi. Solo dopo 15 mesi di indagini e decine di simulazioni, il NTSB convalida senza riserve la decisione di Sully.
Inizialmente una serie di test aveva sconfessato la scelta del pilota, ma si trattava di simulazioni che non tenevano conto dei 20 secondi che erano stati necessari a Sully per valutare la situazione dopo lo spegnimento dei motori. Includendo questo lasso di tempo nei test, la decisione del pilota si è dimostrata la più corretta.
Questa divagazione su una storia di vita era necessaria, perché consonante con il modo di osservare e interpretare la realtà di Ferrarotti.
L’analisi qualitativa della micro sociologia, fatta di esperienze singole e di “ricerche di comunità”, dalle quali emergono conoscenze non rilevabili con i dati statistici, fanno parte di quella tradizione della filosofia sociale e della sociologia qualitativa che non può essere cancellata, ma deve necessariamente coniugarsi con le metodologie di carattere quantitativo, accettando il problema dell’irriducibilità dei fenomeni sociali al mero dato misurabile.
Ferrarotti non dimentica la lezione ottocentesca, ancora attuale, di dover tenere assieme spiegazione (erklären) e comprensione (verstehen) , mantenendo una rotta scientifica alimentata da una tensione critica verso fenomeni che corrodono la coesione sociale.
Egli appartiene alla schiera di quei pensatori che vogliono incidere sulla realtà senza cadere in tentazioni ideologiche, preservando l’onesta dello scienziato sociale.
A lui si addice la frase che egli stesso cita in un’altra delle sue opere pubblicate quest’anno: Potere e autorità.
Nell’ultima pagina di questo lavoro, cita l’ultima opera di Charles Wright Mills, The Marxists, dove in esergo compare una frase che ogni sociologo dovrebbe far propria:
«I have tried to be objective, I do not claimed to be detached». Ho cercato di essere obiettivo. Non pretendo di essere distaccato.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
Federico La Sala
IL PRIMOGENITO TRA MOLTI FRATELLI E LA COSTITUZIONE DOGMATICA DELL’IMPERO SU CUI NON TRAMONTA MAI IL SOLE...*
1. La gioia della verità (Veritatis gaudium) esprime il desiderio struggente che rende inquieto il cuore di ogni uomo fin quando non incontra, non abita e non condivide con tutti la Luce di Dio[1]. La verità, infatti, non è un’idea astratta, ma è Gesù, il Verbo di Dio in cui è la Vita che è la Luce degli uomini (cfr. Gv 1,4), il Figlio di Dio che è insieme il Figlio dell’uomo. Egli soltanto, «rivelando il mistero del Padre e del suo amore, rivela l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione»[2].
Nell’incontro con Lui, il Vivente (cfr Ap 1,18) e il Primogenito tra molti fratelli (cfr Rm 8,29), il cuore dell’uomo sperimenta già sin d’ora, nel chiaroscuro della storia, la luce e la festa senza più tramonto dell’unione con Dio e dell’unità coi fratelli e le sorelle nella casa comune del creato di cui godrà senza fine nella piena comunione con Dio. Nella preghiera di Gesù al Padre: «perché tutti siano uno, come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi» (Gv 17,21) è racchiuso il segreto della gioia che Gesù ci vuole comunicare in pienezza (cfr 15,11) da parte del Padre col dono dello Spirito Santo: Spirito di verità e di amore, di libertà, di giustizia e di unità. [:::] "(Costituzione Apostolica «Veritatis gaudium» di Papa Francesco circa le Università e le Facoltà ecclesiastiche, 29.01.2018. Proemio)
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Mediterraneo contesto del pensiero di pace.
Il Papa a Napoli, per la teologia che serve
di Stefania Falasca (Avvenire, giovedì 20 giugno 2019)
«La teologia dopo “Veritatis gaudium” nel contesto del Mediterraneo» è il titolo del convegno internazionale promosso dalla Pontificia Facoltà teologica dell’Italia meridionale-Sezione San Luigi di Napoli. L’incontro che si è aperto giovedì verrà concluso venerdì mattina alle 12 da un intervento di papa Francesco. Al suo arrivo ad attenderlo, il Papa troverà, tra gli altri, il cardinale Crescenzio Sepe, arcivescovo di Napoli e Gran cancelliere della Facoltà; il decano della Facoltà padre Pino Di Luccio e gli altri responsabili, il vescovo di Nola, Francesco Marino in rappresentanza dei presuli della Campania, e il gesuita Joaquin Barrero Diaz, assistente regionale per l’Europa del Sud. A Napoli sarà presente anche il presidente della Cei, cardinale Gualtiero Bassetti.
A Napoli, per la teologia che serve: quella del contesto. Che è quella che parte "dal basso" e non si stacca dalla vita concreta con tutte le sue contraddizioni, le sue tensioni e indaga i segni dei tempi per cogliere l’attualità della Parola di Dio, appunto, nel contesto in cui viviamo. Per capire e studiare i problemi che investono l’umanità e insieme proporre risoluzioni. E in questo caso, a Napoli, il contesto è il Mediterraneo, culla di dialogo e scambi e battaglie e oggi soprattutto teatro di conflitti. È per questa teologia che venerdì, nella partenopea collina di Posillipo, papa Francesco busserà alla porta della Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale - che ha dato corpo a un convegno di due giorni sulla nuova frontiera del Mare Nostrum a partire dalla Veritatis gaudium - per una riflessione conclusiva.
Il tema della sua relazione, "La teologia dopo Veritatis gaudium nel contesto del Mediterraneo" sarà così una messa a punto di una prospettiva e una spinta d’eccezione a un percorso indicato.
Il Papa ha voluto scegliere il luogo di questo contesto proprio per rilanciare e dare forma e contenuto pratici alla riforma teologica che quasi un anno e mezzo fa ha promulgato con la pubblicazione della costituzione apostolica destinata alle università e facoltà teologiche ecclesiastiche.
Nel proemio della Veritats gaudium, queste, infatti, non sono solo chiamate a offrire percorsi di formazione qualificata dei presbiteri, delle persone di vita consacrata e dei laici impegnati, ma «costituiscono una sorta di provvidenziale laboratorio culturale in cui la Chiesa fa esercizio dell’interpretazione performativa della realtà che scaturisce dall’evento di Gesù Cristo e che si nutre dei doni della sapienza e della scienza di cui lo Spirito Santo arricchisce in varie forme tutto il Popolo di Dio: dal sensus fidei fidelium al magistero dei pastori, dal carisma dei profeti a quello dei dottori e dei teologi».
Un «provvidenziale laboratorio culturale», insomma, nella visione del Papa, che porta a concepire anche le facoltà teologiche come le definiva Ivan Illich, academic inn, nel senso di una convergenza di studium e convivium. Un luogo privilegiato di servizio dove, l’intreccio fruttuoso delle conversazioni, può diventare l’autentico tessuto vitale e scientifico se anche il centro visibile e spaziale dell’università viene aperto nella consapevolezza che il modo migliore per dialogare non è solo quello di parlare e discutere, «ma quello di fare qualcosa insieme».
«È giunto ora il momento - ha scritto ancora Francesco nel proemio - in cui questo ricco patrimonio di approfondimenti e di indirizzi, verificato e arricchito per così dire "sul campo" dal perseverante impegno di mediazione culturale e sociale del Vangelo messo in atto dal popolo di Dio nei diversi ambiti continentali e in dialogo con le diverse culture, confluisca nell’imprimere agli studi ecclesiastici quel rinnovamento sapiente e coraggioso che è richiesto dalla trasformazione missionaria di una Chiesa "in uscita"».
Per il Papa il rinnovamento della teologia non può che passare dall’ascolto e dall’osservazione attenta di tutte quelle esperienze che il popolo di Dio già sta facendo e in cui sta avvenendo una sintesi tra le diverse culture delle persone e proprio nell’ascolto di queste esperienze, in cui il Vangelo tocca davvero il vissuto umano, si troveranno i criteri, le prospettive, gli impulsi che ci aiuteranno a rinnovare la teologia.
«Far precedere la partecipazione al convegno con una visita tra i terremotati di Camerino forse indica proprio questo», sintetizza il decano gesuita Pino Di Luccio, docente di teologia biblica. Quella della sua Facoltà, è una teologia "in contesto" nella direzione della riforma delineata da papa Bergoglio nella Veritatis gaudium che si distingue per l’attitudine al dialogo con le culture, per l’orientamento inter e trans-disciplinare, per le competenze nelle varie discipline del sapere, e per l’apertura e la conoscenza delle altre religioni.
La sezione San Luigi della Facoltà dal 2016 promuove iniziative all’insegna della convivenza, dell’interculturalità e del dialogo con i musulmani e gli ebrei, anch’essi tra i relatori del convegno cominciato giovedì.
A tema c’è anche il documento di Abu Dhabi. L’insieme di Paesi, attraversati dal Mediterraneo e uniti dal dialogo di due uomini che si incontrano, è simbolo e inizio di un nuovo periodo interreligioso per una via di fratellanza nel Mediterraneo. -Del resto nel documento che febbraio il grande imam di al-Azhar Ahmad al-Tayyeb ha firmato assieme a papa Francesco si chiede che questo diventi oggetto di ricerca e di riflessione in tutte le scuole, nelle università e negli istituti di educazione e di formazione, «al fine di contribuire a creare nuove generazioni che portino il bene e la pace e difendano ovunque il diritto degli oppressi e degli ultimi». E certamente non mancherà, in questo contesto, di essere menzionato dal Papa.
VERSO IL "PARADISO TERRESTRE" (DANTE, 2021):
DALLA TRINITA’ DI ADAMO ED EVA ALLA TRINITA’ DI GIUSEPPE E MARIA. Al di là della Trintà edipica....*
Trinità, il mistero che abita dentro noi
di Ermes Ronchi (Avvenire, giovedì 13 giugno 2019)
Memoria emozionante della Trinità, dove il racconto di Dio diventa racconto dell’uomo. Dio non è in se stesso solitudine: esistere è coesistere, per Dio prima, e poi anche per l’essere umano. Vivere è convivere, nei cieli prima, e poi sulla terra. I dogmi allora fioriscono in un concentrato d’indicazioni vitali, di sapienza del vivere. Quando Gesù ha raccontato il mistero di Dio, ha scelto nomi di casa, di famiglia: abbà, padre... figlio, nomi che abbracciano, che si abbracciano. Spirito, ruhà, è un termine che avvolge e lega insieme ogni cosa come libero respiro di Dio, e mi assicura che ogni vita prende a respirare bene, allarga le sue ali, vive quando si sa accolta, presa in carico, abbracciata da altre vite. Abbà, Figlio e Spirito ci consegnano il segreto per ritornare pienamente umani: in principio a tutto c’è un legame, ed è un legame d’amore.
Allora capisco che il grande progetto della Genesi: «facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza», significa «facciamolo a immagine della Trinità», a immagine di un legame d’amore, a somiglianza della comunione. La Trinità non è una dottrina esterna, è al di qua, è dentro, non al di là di me. Allora spirituale e reale coincidono, verità ed esistenza corrispondono. E questo mi regala un senso di armoniosa pace, di radice santa che unifica e fa respirare tutto ciò che vive.
In principio c’è la relazione (G. Bachelard). «Quando verrà lo Spirito di verità, vi guiderà... parlerà... dirà... prenderà... annunzierà». Gesù impiega tutti verbi al futuro, a indicare l’energia di una strada che si apre, orizzonti inesplorati, un trascinamento in avanti della storia. Vi guiderà alla verità tutta intera: la verità è in-finita, «interminati spazi» (Leopardi), l’interezza della vita. E allora su questo sterminato esercito umano di incompiuti, di fragili, di incompresi, di innamorati delusi, di licenziati all’improvviso, di migranti in fuga, di sognatori che siamo noi, di questa immensa carovana, incamminata verso la vita, fa parte Uno che ci guida e che conosce la strada. Conosce anche le ferite interiori, che esistono in tutti e per sempre, e insegna a costruirci sopra anziché a nasconderle, perché possono marcire o fiorire, seppellire la persona o spingerla in avanti.
La verità tutta intera di cui parla Gesù non consiste in concetti più precisi, ma in una sapienza del vivere custodita nell’umanità di Gesù, volto del Padre, respiro dello Spirito: una sapienza sulla nascita e sulla morte, sulla vita e sugli affetti, su me e sugli altri, sul dolore e sulla infinita pazienza di ricominciare, che ci viene consegnata come un presente, inciso di fessure, di feritoie di futuro.
(Letture: Proverbi 8,22-31; Salmo 8; Romani 5,1-5; Giovanni 16,12-15)
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI. In memoria di Kurt H. Wolff.
"NUOVA ALLEANZA"?!: A CONDIZIONE CHE ACCANTO A "MARIA" CI SIA "GIUSEPPE"!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
ADAMO ED EVA, IL "FAMILISMO AMORALE", E L’USCITA DA INTERI MILLENNI DI LABIRINTO... *
Etica pubblica.
Salvatore Natoli e la politica per la città nuova
Nel nuovo libro il filosofo riflette sull’attesa del Regno e su come l’agone sociale renda possibile la sua costruzione con la cura del bene comune
di Roberto Righetto (Avvenire, venerdì 24 maggio 2019)
Aveva ragione Baudelaire, quando in uno dei suoi pensieri colse appieno l’essenza della Modernità: «Teoria della vera civiltà. Non consiste nel gas o nel vapore o nei tavolini parlanti, consiste nella dimenticanza del peccato originale». E se non esiste più questa coscienza della colpa, insita nell’uomo sin dall’inizio, sparisce completamente anche l’idea di salvezza, di redenzione. È questo uno dei presupposti del nuovo libro di Salvatore Natoli, Il fine della politica. Dalla teologia del regno al governo della contingenza (Bollati Boringhieri, pagine 130, euro 15) che sarà presentato lunedì prossimo al teatro Franco Parenti di Milano dall’autore con Davide Assael.
Il filosofo noto per i suoi saggi sul dolore e sulla felicità, nonché per le sue numerose interlocuzioni, da non credente, col mondo dei credenti (memorabili alcuni suoi confronti con personalità come il cardinal Martini, il biblista Sergio Quinzio o il monaco Enzo Bianchi), in questo volume si interroga sul destino della politica, ma in realtà la sua esplorazione riguarda tutto il percorso dell’umanità. A partire dall’idea di éschaton o éschata, “le cose future”, sorta nell’ambito del giudaismo ma riadattata dal cristianesimo e il cui influsso ha segnato in maniera decisiva tutta la storia dell’Occidente, dal Medioevo alla Modernità.
In realtà già Omero ne parla e se ne serve per definire «ciò che sta fuori», cioè «il più lontano, l’estremo». Nella Bibbia invece per i profeti designa la fine dei giorni e così nei Vangeli e in Paolo, ove emerge un concetto di tempo come promessa e compimento. I primi cristiani com’è noto attendevano un ritorno se non immediato assai ravvicinato di Gesù e si aspettavano che si compisse la promessa della salvezza e la cancellazione del male dalla faccia della terra. Commenta Natoli: «Il cristianesimo, nella sua essenza, non in altro consiste se non nell’annuncio del regno di Dio. Esso è già venuto con la venuta di Cristo nel mondo, tuttavia non si è ancora manifestato nella sua pienezza, (...) tant’è che il regno è ancora da invocare, anzi è la prima cosa da chiedere: venga il tuo regno».
L’éschaton è allora l’aver fede che nel futuro si adempirà quanto è stato promesso: di qui la felice formula “già e non ancora” che viene applicata alla Chiesa, che vive in sé la dimensione della salvezza ma ne attende la piena realizzazione. Col passare dei decenni e dei secoli, il tempo dell’attesa si è dilatato dato che la storia prosegue il suo corso, ed è esattamente questo il tempo della po-litica: inevitabile, da Paolo in poi, il tentativo di definire il rapporto fra la Chiesa e il potere, assieme alle prime formulazioni di una teologia della storia.
Natoli dedica diverse pagine alla questione del katéchon, quella potenza che trattiene il dilagare del male, ma al contempo impedisce il manifestarsi pieno del progetto di Dio sull’umanità. Già nell’antichità essa fu identificata da alcuni teologi con l’impero romano (c’è chi vide in Nerone l’Anticristo), ma perlopiù esso rimase, e rimane, un’entità misteriosa e indefinibile. Sta di fatto che i cristiani si trovarono sempre più immersi nel loro tempo e costretti a fare i conti con le potenze mondane.
Fu sant’Agostino a elaborare la prima vera e propria teologia della storia nel De civitate Dei. Il vescovo di Ippona vedeva il potere politico come una realtà che ha il compito preminente di contenimento del male, mentre Tommaso d’Aquino nei secoli successivi gli assegnerà una funzione positiva: il perseguimento del bene comune. In un saggio uscito in America nel 1949 e in Italia edito dal Saggiatore, Significato e fine della storia, il pensatore tedesco Karl Löwith scriveva: «L’impossibilità di elaborare un sistema progressivo della storia profana sulla base della fede ha la contropartita nell’impossibilità di tracciare un piano significativo della storia mediante la ragione. Ciò è confermato dal senso comune: infatti chi oserebbe pronunciare un giudizio definitivo sullo scopo e sul senso degli eventi contemporanei?».
Non molto diversamente sembra pensarla Natoli che però, pur prendendo atto del processo di secolarizzazione e della trasformazione dell’éschaton cristiano nell’utopia razionalistica e illuministica, continua a pensare che pure le società contemporanee abbiano una riserva di futuro, anche se ormai solo terreno. La legge del progresso, grazie alla quale si trasferiva all’operatività umana - alla scienza e alla tecnica in primis - la possibilità di progettare il futuro, già ai tempi di Voltaire si scontrava tuttavia con l’inesorabilità del destino: è noto lo sconcerto dei philosophes dinanzi alla tragedia del terremoto di Lisbona. E se è vero che la dimenticanza dell’éschaton è stata resa possibile in primo luogo per colpa della Chiesa, divenuta nei secoli passati sempre più «una grande macchina organizzativa che ha modellato la vita delle persone» perdendo di vista la dimensione spirituale, è altrettanto vero che l’utopia del cambiamento dell’uomo e della società ha generato mostri come i totalitarismi. Lo sguardo di Natoli si fa più disincantato: «Sono in tanti - scrive - a sostenere che il tempo della politica è, ormai, finito; e certamente lo è, se la politica la si pensa ancora in termini novecenteschi. Il Novecento, in particolare la prima metà, non è stato solo un tempo politico ma un tempo dell’iperpolitica».
Ciò nonostante, egli indica ancora una possibilità: «Se non c’è più alcuna “fine” da attendere, è necessario attendere alle cose del mondo, prendersele in carico». Compito della politica è allora la giustizia, la pace è moderare i conflitti, provvedere al benessere. Se essa ha perduto il senso dell’éschaton, mantiene un telos, vale a dire un fine. E questo può costituire un terreno di azione comune per credenti e non credenti che vogliano ancora impegnarsi nell’azione politica. Così Natoli può concludere: «È in forza della comune umanità, della pietas che lega tra loro uomini e popoli, che la specie mortale può salvarsi. Ora, cosa più della politica deve provvedere a ciò che è comune? Liberaci dal male è un’invocazione che si rivolge a Dio e per chi crede lo è ancora. Ma cos’altro è la realizzazione del regno, se non questo?».
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETÀ. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA.
DANTE, IL LETARGO DI SECOLI, E LA CRISI DELL’EUROPA - SULLA STRADA DI GOETHE O DI ENZO PACI (“NICODEMO O DELLA NASCITA”, 1944)?!
Federico La Sala
Sé come un altro ovvero “resa e cattura”: la prospettiva di Kurt Wolff
di Roberto Cipriani *
Premessa
Quando Francesca Sacchetti (2012) ha investigato i “percorsi della soggettività tra fenomenologia ed ermeneutica” ha individuato un filone preciso di pensiero che da Husserl (1922, 1929, 1963) conduce a Schütz (1932) e poi a Paul Ricoeur (2002). Ma altrettanto si può dire per quanto riguarda il percorso da Husserl (1922, 1929, 1956, 1963, 1973) a Kurt Wolff (1972a, 1976, 1984, 1984a) come punto di arrivo e di consonanza con Ricoeur stesso, vista la comune matrice fenomenologica e la conoscenza che il sociologo della Brandeis University ha delle opere di Ricoeur (1967, 1970), come si evince dal suo saggio sul rapporto fra “resa e cattura” e fenomenologia (Wolff 1984).
Surrender and Catch: Experience and Inquiry Today (Wolff (1976) è un testo che denota una chiara influenza dovuta all’insegnamento di Karl Mannheim, maestro di Kurt Wolff negli anni Trenta. L’origine della formula “resa e cattura” ha evidenti radici classiche greche nell’idea di ἐποχή, che riguarda l’attesa, la sospensione, una sorta di scetticismo metodologico, ma poi anche nell’espressione latina assensionis retentio (rinvio della decisione). “Surrender and catch” è pure una sorta di “sociologia comprendente” che risale alla nota verstehende Soziologie di matrice tedesca, distinguendo fra “surrender” (resa generica) e “surrender to” (resa a qualcuno o qualcosa). Detto altrimenti non si tratta solo di una teoria ma anche di una metodologia.
La valenza qualitativa della resa e della cattura
Kurt Wolff ha dedicato ben quattro pubblicazioni alla sua inestricabile connessione fra “resa e cattura”. Il primo libro è del 1972 ed ha come titolo Surrender and Catch: A Palimpsest Story (Wolff 1972). Il secondo (Wolff 1976) è pubblicato come volume di una serie di filosofia della scienza. Il terzo (Wolff 1978) è una riedizione in brossura del precedente. Il quarto (Wolff 1995) è una ripresa del tema di “resa e cattura” a suggello di 23 anni di rielaborazioni dal 1972 al 1995, che hanno visto l’autore impegnato su più fronti disciplinari.
Soprattutto gli articoli pubblicati su riviste insistono specificamente sulla tematica della resa declinata sotto diverse angolature: fenomenologica (Wolff 1972a, 1984), filosofica (Wolff 1979), conoscitiva (Wolff 1982, 1982a, 1983) ed ermeneutica (Wolff 1984a). Appare difficile individuare un possibile ambito al quale Kurt Wolff non abbia tentato di applicare il suo strumento teorico, rappresentato principalmente dalla disponibilità alla resa, all’avere fiducia nell’altro e nella sua alterità sostanziale (Wolff 1994). Ne consegue che il taglio principale della sua epistemologia e metodologia di fondo rimane appunto la rinunzia ad esprimere posizioni in prima persona, da ricercatore, fatta eccezione ovviamente per la scelta operativa iniziale, che in maniera precipua appare un’opzione dichiaratamente qualitativa (Corradi 1987). Il che è ampiamente documentato anche nei Kurt Wolff Papers, Robert D. Farber University Archives della Brandeis University di Waltham (Massachusetts), che contengono un box intitolato Surrender as a Response to Our Crisis, datato 1962 (Wolff 1962), ed un altro denominato Surrender and Catch, Hermeneutics, Phenomenology, Critical Theory, senza indicazione di data.
A ben considerare, tutta l’esistenza stessa di Kurt Wolff si muove lungo le coordinate della resa da una parte e della cattura dell’altra (Stehr 1981) e dunque la sua sociologia esistenziale è anche un volere la resa prima e la cattura poi ma proprio per sfuggire specularmente, a posizioni rovesciate dunque, al rischio della resa incondizionata al nemico ideologico e politico ed altresì della cattura, cioè della privazione di ogni libertà di pensiero ed azione. Tutto ciò si tramuta per Wolff in una scelta epistemologica e metodologica insieme che riflette da presso il suo stesso itinerario biografico: un continuo arrendersi ad ogni possibile forma di sapere per poi impossessarsene, fosse una lingua straniera, la storia, la filosofia, la poesia e non ultima la sociologia e di conseguenza il pensiero di Mannheim - di cui fu studente attento ed assiduo (Wolff 1991, 57-79) -, Simmel e Durkheim.
La definizione di resa
Wolff è uno studioso poliedrico e quindi anche le sue concettualizzazioni risentono di tale caratteristica. Inoltre il modello della resa è qualcosa che si sperimenta esistenzialmente in vari campi: dalla natura all’indagine empirica, dall’arte alla riflessione teoretica, dalla politica alla poesia, dalla filosofia alla storia ed alla sociologia.
Da un punto di vista strettamente metodologico i dati vanno accettati per quelli che sono, quasi un fatto naturale, scontato, cui affidarsi senza remore. In pari tempo occorre rinunciare a formulare ipotesi previe ed aspettative di qualunque genere. Anzi l’unica aspettativa ha da essere quella dell’attesa degli sviluppi in corso. L’alterità non si coglie a prima vista. Non si può pretendere di capire, “catturare” l’altro appena al primo incontro esplorativo. Altrimenti prevalgono le esperienze dello studioso rispetto a quelle dell’intervistato, il quale a sua volta si lascia catturare solo assai lentamente, comunque parzialmente, anzi molto parzialmente. Pertanto non è lecito e non conviene fare supposizioni sulla natura, sul profilo degli altri.
La cattura arriva ben dopo, allorquando si è instaurato un dialogo che permette la conoscenza e l’esperienza comune fra intervistatore ed intervistato, in una nuova prospettiva reciproca che appare come un nuovo inizio, un nuovo modo di essere nel mondo. Wolff, per completezza di discorso, arriva pure a dire che la cattura non è necessariamente un concetto, perché può essere ben altro: da un’opzione ad un’opera d’arte, da un cambiamento di atteggiamento ad un chiarimento, come pure un avvicinamento alla resa.
La relazione fra resa e cattura è quanto mai complessa, perché ha un andamento senza fine, senza limite alcuno. Invero, come riconosce lo stesso Wolff (1994a, 371), lo spunto iniziale proviene da una distinzione mannheimiana fra interpretazione ideologica ed interpretazione sociologica (Mannheim 1926), poi divenuta rispettivamente, in chiave wolffiana, interpretazione intrinseca, che cioè usa i termini propri di quanto deve essere interpretato senza fare alcun ricorso a risorse esterne, ed interpretazione estrinseca che si serve dell’ausilio di tutto il contesto storico-sociale.
Successivamente, nello sviluppo del pensiero di Wolff, sono diventati cinque gli aspetti della resa. Il primo concerne la massima sospensione della socializzazione ricevuta, facendo tutto il possibile per potere capire qualcuno o qualcosa, un po’ come avviene per uno studente che si cala al massimo nella disciplina che studia, trascurando gran parte di quanto già sa.
Il secondo aspetto riguarda il fatto che la comprensione anche di un’esperienza unica non può esaurire tutta l’esperienza, che dunque è ancora da acquisire.
Il terzo ambito attiene alla duplice verità: scientifica ed esistenziale. Quest’ultima è la verità della resa, che è in linea con l’esame rigoroso delle più importanti esperienze.
In relazione con la verità esistenziale c’è l’estasi come quarta componente della resa, al di fuori della vita di ogni giorno e con uno spirito che non è molto diverso da quello poetico, nel suo lasciarsi condurre oltre la realtà.
La quinta caratteristica della resa è infine il rispetto per il mistero, nella dialettica fra interminabilità dell’analisi e riconoscimento indefettibile del misterioso. Ne deriva una labilizzazione, cioè un indebolimento o persino una scomparsa di norme, principi, orientamenti o tradizioni, ormai labili appunto. Da qui la necessità di un nuovo inizio della ricerca di ciò in cui credere, dopo aver messo da parte il precedente patrimonio culturale. Ma non ci si può affidare ad un’indagine senza fine senza accettare al contempo l’idea di un’inesauribilità del mistero. E dunque la cattura non pone termine al processo conoscitivo ma anzi presuppone che essa conduca ad un’altra resa e così via. Insomma resa e cattura sono indissolubilmente congiunte fra loro.
Sullo sfondo di questo itinerario è operante il pensiero di Mannheim, emergente anche nell’idea del Sich-Haben, cioè del possedere se stessi, che si realizza nell’azione della resa, la quale si coniuga altresì con il perdere se stessi (è in fondo anche il sé come un altro di Ricoeur). Pertanto il possedersi ed il perdersi fanno parte di un unico e medesimo processo. In tal modo grazie all’esperienza fatta si possono stabilire norme.
Ha ben visto Arlene Goldbard (arlenegoldbard.com/2008/12/13/surrene-and-catch/) nel definire la proposta di Wolff un nuovo paradigma, opera di uno studioso che pratica quel che predica. A suo parere la resa è arte, innovazione, che mira alla comprensione ed all’integrazione. Ma soprattutto si tratta di un “amore cognitivo, che fa vedere, non rende ciechi”, secondo l’espressione di Wolff stesso, che a sua volta individua cinque elementi: 1) il coinvolgimento totale, per cui chi ama si sente tutt’uno con chi è destinatario/destinataria del suo amore, in una situazione del tutto simile a quella della resa, che comporta uno stato di tensione o comunque di concentrazione; 2) il superamento di quanto si è appreso in precedenza; 3) la pertinenza di ogni aspetto che giunga all’attenzione del ricercatore, per cui l’amante si interessa ad ogni cosa che riguardi il suo amato o la sua amante; 4) l’identificazione, per cui chi ama si perde nel suo amore ma per ritrovare se stesso; 5) il rischio di dover subire qualche effetto dannoso, in quanto chi procede alla resa desidera il cambiamento, non senza conseguenze a livello relazionale, intersoggettivo, nonché di stima, per cui insieme con la resa si devono affrontare anche offese di vario tipo.
Il ricorso alla resa è stressante e va controcorrente rispetto alle tradizioni ed alle convenzioni, gestite da chi detiene il potere di controllo su di esse. La resa è secondo Wolff (1977) l’esercizio più radicale della ragione umana. La ribellione è al servizio dell’amore per una società più umana. In fondo l’amore per la conoscenza è la prosecuzione della plurimillenaria azione della filosofia nel corso della storia.
Sé come un altro ovvero “resa e cattura”: la prospettiva di Kurt Wolff di Roberto Cipriani *
Una metodologia per l’analisi qualitativa
L’esperienza della resa e della cattura è totalizzante anche nel senso di abbracciare più dimensioni, da quella filosofica a quella psicologica, da quella fenomenologica a quella esistenziale, dalla critica radicale all’esistenzialismo e non da ultimo alla metodologia essenzialmente qualitativa.
I materiali di riflessione offerti da Wolff sono molteplici e non tutti riproponibili nel campo dell’analisi sociologica, ma servono a fornire un’aura, un’atmosfera, un atteggiamento di fondo che diventa asse portante, chiave di volta dell’approccio conoscitivo. Nondimeno è possibile rintracciare spunti significativi, suggerimenti operativi, che poi possono rifluire nell’attività di ricerca come veri e propri strumenti d’indagine. Così per esempio la modalità di scrivere riflessioni sui materiali di ricerca non può non rappresentare un prodromo, un’anticipazione di quella che sarà poi una caratteristica dell’analisi qualitativa: scrivere memos sui dati della ricerca in maniera tale da farli diventare ulteriori oggetti di ricerca, veri e propri dati da considerare a pieno titolo come suscettibili di approfondimento. Anche la diaristica, com’è noto, rientra giustamente fra gli elementi abituali sottoponibili ad indagine ed anzi ne costituisce un riferimento spesso imprescindibile e piuttosto fertile di risultati, come mostra fra l’altro, in Italia, il successo dell’iniziativa di una raccolta archivistica appunto di diari, ad opera di Saverio Tutino prima e di Duccio Demetrio (1996) ora ad Anghiari, con la Libera Università dell’Autobiografia, ed a Pieve Santo Stefano, con la Fondazione Archivio Diaristico.
Anche lo studio delle lettere, della documentazione personale, rientra nel filone classico della sociologia qualitativa, a partire dal classico e fondativo lavoro di Thomas e Znaniecki (1918-1920) sul contadino polacco in Europa ed in America. Ma forse il rinvio più emblematico e ricco di convergenze va fatto alla linea metodologica ed allo stile di ricerca contenuti nella Grounded Theory di Glaser e Strauss (1967), in cui la resa nei confronti del dato è altrettanto assoluta come in Wolff.
A dire il vero il taglio degli scritti del Nostro è largamente filosofico, ma anche sociologico in modo non convenzionale. Anzi, in questa scelta di fondo, è da mettere in evidenza lo spirito con cui l’autore affronta la problematica della conoscenza dell’alterità intersoggettiva: egli si serve di una esposizione letteraria, retorica quasi, per addurre prove convincenti sulla praticabilità e sull’affidabilità della sua opzione primigenia: sospendere i giudizi previi, rinunciare alle basi ed ai principi culturali di riferimento, ma con l’obiettivo di riuscire meglio a capire l’altro ed il mondo sociale circostante.
Se anche Wolff non fornisse alcuna indicazione di metodo - il che evidentemente non è - tuttavia il suo messaggio è chiaro: occorre fare tabula rasa dell’abituale modo di procedere (e dei criteri che l’orientano), al fine di rendersi disponibili all’accoglienza di qualunque indicazione provenga dal terreno di ricerca, dalle persone e dalle cose, dalla natura e dall’ambiente, dalle relazioni sociali e dai fenomeni sociali. Peraltro anche la forma scelta da Wolff per entrare in comunicazione con i suoi lettori, come già con i suoi allievi, è tipicamente evocativa più che esplicativa, allusiva più che esplicita, esistenziale più che accademica, colloquiale più che regolativa, aperta più che dogmatica.
Se Peter Berger e Thomas Luckmann (1966) con il loro lavoro sulla costruzione sociale della realtà hanno analizzato in modo sistematico l’influenza dei processi di socializzazione, Kurt Wolff (1976) ne ha stigmatizzato il peso impediente rispetto ad una conoscenza adeguata della realtà sociale. Gli uni e l’altro apportano contributi ormai divenuti classici, ma senza che la considerazione prestata ai primi pregiudichi l’attenzione da rivolgere al secondo. Invero entrambe le prospettive risultano strategiche per ogni impostazione relativa ad una sociologia di tipo qualitativo. Tuttavia è necessario dosare sapientemente i riferimenti alle due correnti di pensiero al fine di trovare un giusto equilibrio tra formule parimenti valide ed accettabili. Ove ve ne fosse bisogno, basterebbe richiamare la circostanza, non secondaria, del rifarsi di tutti e tre al pensiero magistrale di Alfred Schütz (1962-1966, 1996), con la sua fenomenologia di base, segnatamente in riferimento al rapporto con quel che si presenta o meglio si dà come “appresentazione” (Appräsentation) allo studioso-ricercatore (Schütz 1932).
Per un verso Berger e Luckmann segnalano la tendenza a “pensare come il solito” e per un altro verso Wolff proprio a ciò vorrebbe che si rinunziasse, onde permettere una più ampia comprensione dell’alterità, specialmente attraverso l’esperienza della discussione in comune, non a caso tipica di un’altra opzione metodologica di matrice qualitativa, secondo l’approccio ermeneutico di Oevermann (1979). Insomma tutto torna, il circolo virtuoso di una certa tradizione sociologica mitteleuropea si riaffaccia di continuo ed offre risorse essenziali per l’analisi sociologica basata sulla dimensione qualitativa.
Si può dire che quando Wolff pensa ad un’altra persona mette in atto la sua resa alla cattura, in quanto egli parte dal presupposto che la comprensione si raggiunge in misura adeguata solo e se si prescinde almeno inizialmente (e per un po’ di tempo ancora e fino ad un certo punto) dal proprio quadro di riferimento. Però una volta raggiunta la meta della comprensione mediante la cattura questa è da ritenere solo un’ulteriore tappa lungo un percorso mai esaurito e mai esauribile, in quanto rimane sempre sullo sfondo l’imperscrutabilità del mistero.
Questo procedimento di resa è accompagnato da presso da una sorta di “amore cognitivo” che aiuta a superare le difficoltà iniziali della resa e permette di raggiungere la presa, la conoscenza, la comprensione, grazie a dei risultati che sono cognitivi ed esistenziali allo stesso tempo. In altre parole la resa è anche una conversione (che consente peraltro l’estasi), come pure una ribellione verso il passato e la tradizione, per guardare piuttosto al futuro, in chiave creativa ed acquisitiva di ulteriori saperi. Si potrebbe pure dire che si tratta di un’ingenuità necessaria e foriera di esiti imprevedibili. Il “perdersi” nella resa prelude alla salvezza nel momento della cattura, anche se poi è solo una tappa lungo un tragitto ancora lungo.
La resa ha un carattere quasi artistico e religioso, in vista di una procedura cognitiva fatta di amore ed attenzione all’altro. A poco a poco in modo maieutico si fanno venire fuori dall’esperienza i concetti utili per la comprensione (non si può non vedere in questo un processo che appartiene anche ad altre soluzioni metodologiche: la Grounded Theory di Glaser e Strauss come l’ermeneutica oggettiva di Oevermann). L’alternativa è costituita da risultati solo approssimativi e probabili, mentre la “pretesa” di Wolff è di raggiungere ciò che è ineluttabilmente vero, o almeno - a giudizio di altri studiosi - più affidabile di quanto verificabile attraverso la strumentazione classica dell’approccio solo statistico-quantitativo. Sullo sfondo, come obiettivo finale, c’è il desiderio di mutare lo status quo. Dunque la resa non è uno stare fermi ma un altro modo di agire.
Inoltre la distinzione fra offerta ed accettazione della situazione data è solo fittizia, in quanto essa è strumentale per capire la realtà sociale. In effetti la stessa distinzione operata è frutto di quanto avvenuto, del che ci si accorge in un momento posteriore rispetto all’evento in questione.
Il significato della cattura
Alcune anticipazioni sulla dialettica fra resa e presa (o cattura) si trovano sparse in pubblicazioni antecedenti il 1976. Specificamente è il volume dal titolo Trying Sociology (Wolff 1974b, 44-45) che prelude a quello che sarà il libro successivo (Wolff 1976) completamente dedicato al tema della resa e della cattura, quale sviluppo di una particolare concezione della sociologia mannheimiana della conoscenza.
Il termine speculare, rispetto a quello di resa, è cattura (Wolff 1976, 20). Innanzitutto è bene precisare che meglio sarebbe stato da parte di Wolff risalire all’origine latina precisa del termine “concetto”, il quale ha come base il verbo all’infinito cum capere, che letteralmente significa “prendere con”, “prendere insieme”, che esprime compiutamente il pensiero wolffiano in quanto allude direttamente ad una presa congiunta, insieme con l’interlocuzione, l’incontro, l’intervista; ma il cogliere è anche un raccogliere insieme, che può sottendere e sottintendere una messa insieme dei risultati ottenuti con l’opzione iniziale costituita dalla resa, vera e propria finestra sul mondo altro, sull’altrui punto di vista, sui diversi pensieri in atto nella realtà sociale. Il con-prendere è una specie di sintonia creata fra l’io ed il tu, fra due soggetti generalizzati messi l’uno dinanzi all’altro e rispondenti con le loro reazioni, percezioni, attitudini, repliche, deduzioni.
La novità delle concezioni, appunto del cum capere continuo messo in moto dalla relazione interpersonale, giustifica ampiamente la decisione iniziale (ed un po’ iniziatica) della resa, dell’affidamento, dell’accoglienza gratuita, senza ricatti né economici, né affettivi o di altra natura. L’esito finale difficilmente non è seguito da un apprezzamento positivo del percorso seguito, nonostante la sua imprevedibilità di fondo e l’assenza di eventuali esperienze previe rassicuranti. Le previsioni non rientrano in questa prospettiva epistemologica e metodologica insieme, altrimenti molto risulterebbe tanto scontato quanto inconcludente, perché non farebbe altro che confermare il già noto, rendendolo ancora più refrattario ad ogni discorso di cambiamento, di trasformazione, di miglioramento dell’esistente.
Conclusione
In fondo la stessa proposta wolffiana mira all’innovazione, alla rivolta di stampo camusiano, al superamento dello status quo. Il sottosopra che è provocato dall’inversione fra resa e cattura prelude ad una trasformazione della società stessa e comunque indica un’alternativa almeno metodologica rispetto ai canoni abituali della ricerca sociologica. Si tratta pure di un cambiamento di mentalità, che comporta l’abbandono delle concezioni pregresse. La coppia resa-cattura funge quasi da vento liberatore e purificatore, che fa cadere pregiudizi inveterati ed apre nuovi orizzonti, anche per quel che riguarda, ad esempio, le relazioni fra ebrei e musulmani. Il ricorso alla soluzione pacifica della resa e cattura potrebbe costituire, fra l’altro, un suggerimento di tipo politico. Così, in definitiva, la resa e la cattura wolffiane portano assai lontano, ben oltre il contesto fenomenologico di origine, comune anche a Paul Ricoeur.
* Cfr. Roberto Cipriani, “Sé come un altro ovvero ‘resa e cattura’: la prospettiva di Kurt Wolff”, in Busacchi, Costanzo (a cura), Paul Ricoeur et ‘les proches’. Vivere e raccontare il Novecento., Effatà Editrice, Cantalupa (Torino), 2016, pp. 269-82 (ripresa parziale - senza bibliografia).
NEL REGNO DI EDIPO: "L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE", L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO. Come nascono i bambini e le bambine... *
Appello di una femminista alle donne cristiane che sono contro il Congresso mondiale delle famiglie
di Luisa Muraro (Libreria delle donne, 29 Marzo 2019)
Care amiche, vorrei sottoscrivere il vostro Appello contro il Congresso delle famiglie a Verona. Sono d’accordo con quello che dite, in primo luogo che la famiglia non è un’entità naturale ma un’istituzione culturale, che quasi sempre mostra una forte impronta patriarcale.
A me e a voi, suppongo, è chiaro che prima della famiglia, comunque intesa, c’è la diade formata da una donna e dalla creatura che lei ha concepito e portato al mondo. È un rapporto molto speciale, che precede i dualismi tipici della cultura maschile: la donna che accetta di entrare nella relazione materna, alla sua creatura dà la vita e insegna a parlare, le due cose insieme. Ed è un “insieme” che si tende, come un ponte insostituibile, sopra l’abisso della schizofrenia umana.
Vorrei ma non posso sottoscrivere il vostro Appello perché, nella difesa delle nuove forme familiari, non c’è una critica di quelle che si costituiscono da coppie che, sfortunatamente o naturalmente sterili, invece di adottare, si fanno fare la creatura a pagamento.
Da donne cristiane, mi aspettavo una calorosa difesa dell’adozione e un’energica richiesta della sua estensione a persone e coppie finora escluse dalla legge. Ma, ancor più, essendo voi donne, mi aspettavo una difesa della relazione materna libera e responsabile così come oggi è diventata possibile. Invece, parlate solo di genitorialità, usate cioè una parola tipica del linguaggio neutro-maschile. E a voi che parlate del corpo femminile come luogo di spiritualità incarnata, chiedo: che famiglia è mai quella che nasce con il programma esplicito, messo nero su bianco, di cancellare la relazione materna che si sviluppa con la gestazione in un intimo scambio biologico e affettivo?
Voi, a differenza di tanti cattolici, leggete la Bibbia e sapete che la cosiddetta gravidanza per altri, ossia la donna che partorisce senza diventare madre, corrisponde pari pari ad antiche usanze del patriarcato, usanze che sembravano superate. Le ultime pagine del Contratto sessuale di Carole Pateman, parlano proprio di questo sostanziale arretramento. Detto alla buona, ci sono “nuove” famiglie che di nuovo hanno solo la tecnologia.
A proposito: che cosa pensano di tutto questo gli uomini vicini a voi, i vostri compagni di fede e d’impegno politico? Perché non compaiono nel vostro Appello? Mi è venuto un sospetto, di ritrovarmi davanti a quel noto comportamento maschile che è di nascondersi dietro a una o più donne quando si vuol far passare pubblicamente qualcosa che è contro le donne. Devo portare degli esempi? Ma, se questo non fosse vero, scusatemi.
(www.libreriadelledonne.it, 28 marzo 2019)
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
Cultura e civiltà. L’ordine simbolico della madre.....
NEL REGNO DI EDIPO. L’ordine simbolico di "mammasantissima"
"L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE": L’ALLEANZA CATTOLICO-"EDIPICA" DEL FIGLIO CON LA MADRE!!!
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Federico La Sala
DOPO “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETTERATURA: ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA ....
Tre note... *
A) - EUROPA, STRASBURGO 1770: CON “MARIA ANTONIETTA” IN VIAGGIO PER VERSAILLES.
Nel 1770 a Strasburgo, nei pressi del confine del Sacro Romano Impero con la Francia, Goethe “guarda un arazzo che narra le storie di Giasone, di Medea e di Creusa”, preparato “per le feste in onore dell’arrivo della sposa” di Luigi XVI di Borbone, Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena che si stava trasferendo a Versailles, e così commenta: «dunque un esempio del più infelice matrimonio»!
Goethe mostra di avere una conoscenza superficiale della leggenda di Giasone, e della sua nave Argo, e del come e del perché sia arrivata proprio lì, sulle sponde del Reno, in quell’ambiente e per quella occasione, e, colpito, ne resta segnato per moltissimi anni: “era «estremamente» indignato dalla scelta e glien’è restato - commenta Curtius - il ricordo se dopo quarant’anni lo ritiene ancora degno di esser raccontato (Dichtung und Warheit, II, 9)”.
Nel 1950, Ernst R. Curtius, che ha già pubblicato nel 1947 “Letteratura europea e Medio Evo latino”, in un saggio intitolato “La nave degli argonauti” (cfr. Id.,“Letteratura della letteratura”, Saggi critici a cura di Lea Ritter Santini, Bologna 1984, pp. 301-325), quasi a conclusione, dopo aver ricordato che per Dante “il viaggio di Giasone è la più stupefacente impresa di tutti i tempi” e premesso che “il pensiero storico di Dante ha bisogno di prospettive millenarie - come quello di Goethe,” così prosegue e commenta: “A guardarlo oggi, Goethe si avvicina sempre più a Dante, e non solo nel tempo. Come Dante, anche egli rappresentò ancora una volta il Thesaurus della tradizione europea. Anche in lui troviamo il mito degli Argonauti”.
Curtius cosa sta cercando di dire - e di fare con le parole, con queste parole? Cambiata di segno, la sua affermazione appare essere una forma di sollecitazione subliminale volta ad avvicinare sempre più Goethe a Dante, sino a portarci a pensare: «dunque un esempio del più felice “matrimonio”»! Ma qualcosa resiste, sia nella memoria di Goethe sia di Curtius e fa emergere un non-detto del messaggio. Un’ipotesi: forse, e per caso, sono le stesse parole “sussurrate” al cuore e alla mente di Maria Antonietta dalla madre, l’Imperatrice Maria Teresa d’Austria, al momento del suo trasferimento a Parigi: «Rimanete una buona tedesca!», «Rimanete un buon tedesco!»?!
Incredibilmente Curtius - pur sapendo che “Giasone, nel XVIII canto dell’Inferno, compare fra i seduttori e Virgilio glielo presenta con ammirazione”, che “la nobile e bella figura giovanile di Giasone era già piaciuta ad Ovidio” e, ancora, che “Dante va oltre” lo stesso Ovidio e gli attribuisce “i tratti dell’eroe ideale” riservati “ai suoi prediletti” - fa sua la maschera di Goethe (“Der Bautigam” è il titolo di una sua poesia del 1829), divenuto egli stesso un Argonauta (“Linceo è l’Antifaust, Linceo è Goethe, l’argonauta trasformato”) e, nel tentativo di avvicinarsi “sempre più a Dante”, ricorda più il Thesaurus (il “Tresor” e il “Tesoretto”) della tradizione di Brunetto Latini, che quello della “Divina Commedia”, della nuova Argo, la nave del viaggio terrestre e celeste di Dante - più il Vitello (“T-aurus”) d’oro della tradizione egiziana, che il Vello d’oro dell’Ariete di Giasone e del Vello d’oro dell’Agnello di Dante. Che cagliostrosità!
Dopo i “venticinque secoli a la ‘mpresa” di Giasone (Dante, Par., XXXIII, 95), Curtius - ipnotizzato dalla magia di Goethe, che “scherzando” si autodefiniva “un Argonauta”, prende la sua maschera tratta fuori “dall’esatta descrizione storica dei mitologi”, e fa suo “il suo testamento. In ogni età c‘è una Argo, come aveva predetto Virgilio: «Ci saranno ancora un altro Tifi e un’altra Argo a trasportare eroi eletti»”.
Ma per quale destinazione?! Ancora e sempre per Versailles?!
Non è meglio uscire dal “letargo”, svegliarsi dal “sonno dogmatico”, e uscire “a rivedere le stelle”?!
B) - L’EUROPA, DOPO “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETTERATURA.
A commento dei “tratti dell’eroe ideale”, attribuiti da Dante a Giasone, in nota, Curtius] così scrive: “Una anticipazione del romanticismo burgundo che circonda Giasone. Filippo il Buono di Borgogna sposò nel 1430 Isabella del Portogallo. In questa occasione - o forse quale omaggio alla popolazione di allora, stupenda nel navigare - fondò l’ordine del Toson d’Oro. I suoi protettori erano Giasone e Gedeone. Anche nella loro storia un vello miracoloso aveva avuto la sua parte (Libro dei Giudici, IV, 36-40). Un auto sacramentale di Calderón si intitola La Piel de Gedeon (1650), stampato nella edizione di Pando y Mier (1717), vol. III; in tedesco in F. Lorinser: Calderóns geistliche Festpiele, vol IX. Sul romanticismo di Giasone: v. Georges Doutrepont, La Littérature Française à la Cour des Ducs de Bourgogne, 1909, pp. 147-176” (cfr. Ernst R. Curtius, Letteratura della letteratura..., op. cit., pp. 317-318).
Benché nella “Letteratura europea” (1947) abbia citato il lavoro dello storico olandese Johan Huizinga (morto nel 1945), in particolare l’opera “L’autunno del Medio Evo” (del 1919), una straordinaria lettura del “secolo della Borgogna”, ove si racconta diffusamente di “ordini e voti cavallereschi”, della nascita dell’ordine del Toson d’oro, ecc - ora, qui, nel saggio “La nave degli Argonauti” (1950), Curtius non ne fa alcun cenno; e, addirittura, delle opere di Calderón cita solo “La Piel de Gedeon” (ma non “El divino Jasón”, “El divino Orfeo”, “El Laberinto del Mundo”, ecc.)!
Cosa è successo?! La “maschera” di Goethe, forse, gli ha giocato giocato un brutto scherzo e lo ha costretto a rimettersi nei panni di Faust? Incredibilmente, già in “Letteratura europea e Medio Evo Latino”, dato per valido il calcolo dei “venticinque secoli” di Dante dall’impresa di Giasone (Par., XXXIII, 95), tre anni prima (1947), egli aveva già scritto: “La letteratura europea abbraccia il medesimo periodo di tempo della cultura europea, comprende cioè circa ventisei secoli (calcolati da Omero a Goethe” (p. 20).
Che dire? Davvero “Goethe si avvicina sempre più a Dante”?! Boh?! Bah!
C) - CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. A che gioco giochiamo?!
Nel 1929, in un breve saggio dedicato a "Hugo Hofmannsthal. In memoriam" (op. cit., pp. 165-176), Curtius scrive: "La regalità era la figurazione più interiore nel rapporto tra Hofmannsthal e il mondo. La funzione di poeta non era per lui che una delle forme in cui essa si manifestava [...] tutte le opere di Hofmannsthal tendono verso la forma ideale di un theatrum mundi, un poema cosmico allegorico-simbolico che eleva il caso dell’esistenza all’ordine delle grandi leggi, che nel temporale, fanno apparire l’eterno. L’allegoria non è qui indebolita ricchezza di vita e la maschera non è apparenza, al contrario, soltanto quando riusciamo a vedere la deformazione, la maschera della nostra esistenza, ne comprendiamo il senso e la verità più profonda".
E poco oltre, condividendo il programma e lo spirito della sua “rivoluzione conservatrice”, così prosegue : "La nostra poesia ha molto sentimento del mondo (Weltgefuhl), ma poco mondo: ha molte visioni del mondo (Weltanschauungen), ma mediocre ne è la sua conoscenza. In Goethe esisteva la possibilità di unire i due aspetti e ristabilire le giuste proporzioni. Ha dovuto condurre il suo Faust alla corte dell’imperatore: era anzi ancora legato all’impero e colorate feste d’incoronazione avevano illuminato la sua infanzia. Non ha sentito più battere il cuore dell’impero [...] L’orizzonte universale del vecchio impero asburgico era stato dato in eredità a Hofmannsthal. Vienna e Madrid non ne facevano meno parte [...]". E, così chiude: “Hofmannsthal ha raccolto nel suo tesoro reale, i beni più preziosi del linguaggio e dell’anima dei paesi latini: noi lo conserviamo come la sua eredità, come «munus Austriacum»”.
Nel 1932 fa il passo “decisivo”: pubblica “Deutscher Geist in Gefahr “ (“Lo spirito tedesco in pericolo”), un libro (una raccolta di articoli di quegli anni), e nella postfazione, confidando nella “metafisica dello spirito”, chiude con il richiamo al “Veni creator spiritus” - “l’inno del franco-renano Rabano Mauro” (“Mille anni più tardi un altro franco-renano, Goethe, ha tradotto questo “splendido canto religioso” e lo ha definito un “appello al genio”) - e con l’auspicio che “sotto questo segno la fede nella Germania e la fede nello spirito possono trovarsi legate e confermate” (cfr. Ernst R. Curtius, “Lo spirito tedesco in pericolo”, in Annamaria Bercini, “Il discorso politico culturale del «Deutscher Geist in Gefahr» di Ernst Robert Curtius”, Bologna 2015)
Le illusioni di Curtius di diventare una guida spirituale della “rivoluzione conservatrice” sono infondate e vengono spazzate via in un baleno: “Il 24 marzo del 1933, subito dopo l’ascesa al Reichstag di Hitler, sul Beiblatt del «Völkischer Beobachter», il giornale ufficiale del partito nazista sin dal 1920, comparve un durissimo articolo di Hermann Sauter (che di lì a qualche anno diverrà direttore della Stadtbibliothek di Monaco), Deutscher Geist in Gefahr? , che era in effetti una stroncatura senza appello del libro di Curtius. L’assenso di Curtius alla missione tedesca è, come si può vedere, in realtà una negazione del nuovo, potente volere tedesco. Ma questo è il nostro credo: che il vero spirito tedesco otterrà nuovamente onore, e sarà capace di avere valenza mondiale, quando sarà ripulito dal peso accumulato nella cosiddetta libertà spirituale del decennio passato. Sauter concludeva con quello che appare un vero avvertimento da mafioso. Curtius può avere ancora un ruolo importante nella nuova Germania, ma a patto di non tentare più di fare il Kulturpolitiker, perché non capisce nulla dei fondamenti autentici - cioè biologici - della cultura tedesca.” (cfr. Carlo Donà, “Lo spirito tedesco e la crisi della mezza età: «Deutscher Geist in Gefahr» (1932)” ).
Dopo la catastrofe della Germania del “Terzo Reich”, Curtius ancora non capisce: continua il suo “sogno” calderonico e la “vacanza” nel suo “illuminato” (contro e) pre-illuministico “stato di minorità” (I. Kant, 1784). E nel 1947, come se niente fosse successo, alla fine del primo capitolo di “Letteratura europea Medio Evo latino”, intitolato “Letteratura europea”, con un “occhiolino” a Benedetto Croce (e alla memoria di Hegel), riprende il lavoro per il “nuovo ordine culturale”, già proposto nel “Deutscher Geist in Gefahr” del 1932, e ricomincia: “Della letteratura europea l’eroe fondatore (heros ktistes) è Omero, l’ultimo autore universale è Goethe. Ciò che questi rappresenta per la Germania lo ha riassunto Hofmannsthal [...] La letteratura del secolo XIX e dell’inizio del XX non è stata ancora scandagliata, in essa non è stato ancora distinto ciò che è vivo e ciò che è morto. Ciò potrà dare materia per molte dissertazioni, la parola decisiva sarà però pronunciata non dalla storia della letteratura, ma dalla critica letteraria. Per questo compito noi, in Germania, abbiamo Friedrich Schlegel - e seguaci” (op. cit., p. 24)!
Purtroppo, per Curtius, che è vissuto e cresciuto all’interno di coordinate storico-culturali da Sacro Impero (romano, spagnolo, e germanico), e nelle cui orecchie risuona ancora l’ordine dato a Maria Antonietta dalla Madre-Imperatrice (“Rimanete un buon tedesco!”), “la vita è sogno” e non c’e alcuna possibilità di riconsiderare critica-mente né il lavoro di Ernst H. Kantorowicz (anch’egli vicino al “cerchio” di Stefan George) sulla figura dell’Imperatore Federico II (1927/1931), né tantomeno “l’autunno del Medio Evo”, il “declino del simbolismo” e la lezione su Dante di Johan Huizinga ("L’autunno del Medio Evo" [1919, 1921, 1928]): “[...] per indicare il rapporto fra l’autorità spirituale e quella temporale il Medioevo si serviva costantemente di due similitudini simboliche [...] La forza del simbolo è tale da intralciare l’indagine sullo sviluppo storico dei due poteri. Dante, avendo riconosciuto la necessità e il valore decisivo di tale indagine, si vede costretto, nel suo Monarchia, a spezzare prima la forza del simbolo, contestando la sua applicabilità, ed aprendosi così la strada alla ricerca storica".
La totale incomprensione del “relazionismo” proposto da Karl Mannheim in “Ideologia e Utopia” (1929), esaminato e rigettato nel capitolo quarto dello “Spirito tedesco in pericolo”, impedisce a Curtius di aprire gli occhi su stesso e sul mondo, di uscire dal relativismo-assolutismo dogmatico in cui naviga, e di smetterla di sognare il “sogno dei visionari” (sul tema, mi sia lecito, cfr.: “Heidegger, Kant, e la miseria della filosofia - oggi”).
“Sogno o son desto?”: a che gioco si continua a giocare? Non è meglio cambiare gioco!? Per l’Europa - e per l’intero Pianeta? Boh? e bah!?
*
Federico La Sala
Storia.
Il sogno di Napoleone: l’archivio dell’impero
Bonaparte aveva capito che, controllando la memoria dei popoli, li si teneva in pugno e si poteva scrivere la storia come prova della legittimità del proprio potere
di Edoardo Castagna (Avvenire, giovedì 11 aprile 2019)
Del saccheggio napoleonico di opere d’arte, con i lunghi strascichi relativi alle restituzioni o alle mancate restituzioni, molto si è scritto. Assai meno del saccheggio di uomini, della “carne da cannone” razziata come e più di quadri e statue in ogni angolo d’Europa, per finire seppellita tra le colline boeme o nelle steppe di Russia. Tutti iscritti all’anagrafe della storia come “francesi” sebbene in gran parte francesi non fossero affatto, come lo stesso Napoleone si premurò poi di rimarcare. Ma le appartenenze nazionali, così come le tradizioni storiche e le memorie collettive, si costruiscono. Ed è per questo che tra i tanti saccheggi napoleonici uno, perseguito con particolare tenacia, si concentrò sugli archivi delle varie capitali via via occupate e inglobate nell’Impero.
Vicenda meno nota di altre, ben ricostruita da Maria Pia Donato nel suo L’archivio del mondo. Quando Napoleone confiscò la storia (Laterza, pagine 170, euro 19,00). La sua versione dell’eterno sogno della biblioteca universale si declinò utilitaristicamente verso la condensazione sotto un unico controllo di quella che avrebbe dovuto essere la fonte primaria sia per la scrittura della storia nei secoli a venire, sia per la costruzione di una tradizione e di un’identità comune a tutta l’Europa posta sotto lo scettro di Napoleone, in ideale rimando all’unità medievale dei “due soli” a cui esplicitamente tale operazione si ispirò. Furono infatti la conquista, nel 1809, degli archivi del Sacro Romano Impero e del Papato a mettere in moto la macchina accentratrice dell’archivio dell’Impero.
Come in tante altre occasioni, la storia seguiva la propria strada indipendentemente dalla volontà degli uomini, tanto che l’idea di centralizzare gli archivi europei, sottolinea la Donato, seguì e non precedette l’inizio della sua realizzazione: il suo Napoleone è perfettamente tolstojano, in balìa di quegli stessi eventi epocali che si illude di governare. Stando al trattato con l’Austria nel 1809, avrebbero dovuto passare sotto controllo francese soltanto gli atti relativi ai territori ceduti agli occupanti: i quali invece, con militaresca ruvidità, prelevarono in blocco le carte conservate a Vienna, quali che fossero e di ogni epoca. Furono riempite oltre 2.500 casse, caricate sui carri e spedite a Parigi.
Simile fu la brutalità con la quale si procedette al- l’acquisizione degli archivi di Roma, il cui sequestro in realtà fu, almeno inizialmente, funzionale alla volontà di Napoleone di mettere sotto pressione il Papa: tanto che nel 1813, quando l’imperatore credette di averla spuntata su Pio VII, ordinò la restituzione delle carte. Per rimangiarsela, naturalmente, quando mutò nuovamente idea sul conto del Pontefice. Nel frattempo però, e anche in contraddizione con i tatticismi politici del momento, maturava in lui e nei suoi collaboratori «l’idea di creare un sito centrale della memoria per l’impero, anzi una grandiosa raccolta delle testimonianze scritte della civiltà», nota la Donato; via via furono acquisiti gli archivi olandesi, spagnoli, piemontesi, belgi, della galassia di staterelli tedeschi.
A sovrintendere al tutto fu l’archivista capo Pierre-Claude-François Daunou: ex prete, ex illuminista, ex fervente repubblicano, infine comodamente adagiato nell’ordine bonapartista (al quale peraltro sarebbe sopravvissuto). Nella sua opera trasfuse, al pari di quella contemporanea e simmetrica dei curatori del Louvre, del Jardin des plantes o della Biblioteca nazionale di Parigi, l’ideale e l’ambizione enciclopedici degli Idéologues illuministi. «Fu elaborata sul campo - nota la Donato - la dottrina che Édouard Pommier ha chiamato “la teoria del rimpatrio”, ossia l’idea che solo nella Francia rigenerata le opere delle scienze e delle arti avrebbero potuto sprigionare il loro potenziale di conoscenza ed emancipazione».
Daunou aveva ben servito Napoleone compilando un Saggio storico sul potere temporale dei papi tutto teso a mostrare le malefatte plurisecolari del Papato e le buone ragioni di un imperatore nel volerlo ridurre alla sua mercé; il Saggio venne ripetutamente riveduto e ampliato proprio grazie alle nuove fonti archivistiche divenute disponibili. Ma Daunou non era un mero cortigiano, anzi: nella sua opera di gran maestro dell’archivio napoleonico diede indubbie prove di capacità organizzative, di intelligenza pratica (fu l’inventore di quelle “schede”, uniformi per formato e ordine delle informazioni, divenute poi di uso universale fino all’avvento della digitalizzazione) e anche di un po’ di visionarietà.
Non ci fu il tempo di costruire l’immenso palazzo che avrebbe dovuto ospitare i Grandi Archivi, ma quello per affermarne la centralità storica sì: non solo, prosegue la Donato, «furono l’invenzione simbolica di un impero in cerca di radici», ma offrivano anche l’occasione di coltivare la storia pragmatica che era stata degli Idéologues. L’archivio serviva (anche) a scrivere la storia», e per questo esserne i controllori significava essere i controllori della memoria dei popoli. Nelle carte degli archivi si trovano i mattoni fondamentali per erigere quei monumenti umani collettivi che sono le identità naziona-li: una lezione, questa, che gli Stati- nazione che sarebbero sorti dopo il tramonto dell’età napoleonica, e che rientrarono in possesso dei rispettivi archivi, avrebbero ben messo a frutto.
8 marzo, verso la prima passeggiata spaziale di sole donne
Protagoniste due astronaute e una donna controllore di volo
di Redazione ANSA *
La giornata della donna quest’anno ha un sapore particolare sulla Stazione spaziale internazionale (Iss) perché fervono i preparativi per la prima passeggiata spaziale della storia completamente al femminile: programmata per venerdì 29 marzo, avrà come protagoniste due astronaute della Nasa, Anne McClain e Christina Koch, che usciranno dalla Stazione spaziale per circa sette ore supportate da Terra da Kristen Facciol, controllore di volo donna dell’agenzia spaziale canadese Csa, pronta a seguire le operazioni dal Johnson Space Center della Nasa a Houston. Lo ha rivelato lei stessa con un tweet.
"Ho appena scoperto che sarò alla console per dare supporto alla prima passeggiata spaziale tutta al femminile con @AstroAnnimal e @Astro_Christina e non posso trattenere la mia eccitazione!!!!", ha scritto ai suoi follower.
La prima attività extraveicolare (Eva) di sole donne cadrà a quasi 35 anni di distanza dalla prima passeggiata spaziale al femminile: fu compiuta il 25 luglio 1984 dalla russa Svetlana Savitskaya, uscita dalla stazione spaziale sovietica Salyut 7 per tre ore e 35 minuti. Da allora diverse donne hanno camminato nello spazio, compresa l’astronauta dei record Peggy Wilson, che nella sua lunga carriera ha condotto ben dieci Eva.
Entrambe le sue ’eredi’, McClain e Koch, arrivano dalla classe di candidati astronauti selezionata dalla Nasa nel 2013 e composta per metà proprio da donne. McClain è già a bordo della Iss da dicembre per la spedizione 58, mentre la collega Koch arriverà il 14 marzo.
SULLE TRACCE DI EUROPA. ARACNE, PENELOPE, E "UN FALSO MITO"... *
Pàllade, la dèa del Tritone, aveva seguito con attenzione il racconto. Elogiò il canto delle dee d’Aònia, e trovò giusta la loro ira. Ma poi, tra sé: “Lodare va bene, ma anche io voglio essere lodata, nemmeno io permetterò che si disprezzi la mia divinità impunemente!” E decise di rovinare Aracne della Meònia, la quale - le era giunta voce - non intendeva considerarsi inferiore a lei nell’arte di lavorare la lana. Costei, non per ceto o lignaggio era famosa, ma perché era un’artista. Suo padre, Idomone di Colofonie, tingeva la lana spugnosa con porpora di Focèa; la madre era morta, ma anch’essa era una popolana, della stessa condizione del marito. Malgrado ciò, Aracne con la sua attività si era fatta n gran nome per le città della Lidia, benché, nata appunto da umile famiglia, abitasse nell’umile Ipèpe.
Per vedere i suoi meravigliosi lavori, spesso le ninfe del Timolo lasciarono i loro vigneti, le ninfe del Pactòlo lasciarono le loro acque. E non soltanto meritava vedere i tessuti finiti, ma anche assistere a quando li faceva, poiché era un vero spettacolo. Sia che agglomerasse la lana greggia nelle prime matasse, sia che lavorasse di dita e sfilacciasse uno dopo l’altro con lungo gesto i fiocchi simili a nuvolette, sia che con l’agile pollice facesse girare il liscio fuso, sia che ricamasse, si capiva che la sua maestria veniva da Pàllade. Ma Aracne sosteneva di no, e invece di essere fiera di una così grande maestra, diceva impermalita: “Che gareggi con me! Se mi vince potrà fare di me quello che vorrà”.
Pàllade si traveste da vecchia, si mette sulle tempie una finta capigliatura bianca e prende anche un bastone che sorregga le membra piene di acciacchi. Poi comincia a parlare così: “Non tutto è male nell’età avanzata. Più si invecchia più cresce l’esperienza. Dài retta a me: ambisci pure ad essere la più grande tessitrice, tra i mortali; ma non voler competere con la dèa,e chiedile con voce supplichevole di perdonarti per quello che hai detto, o temeraria; chiediglielo, e non ti rifiuterà il perdono”.
Aracne le lancia una torva occhiata, lascia andare i fili già cominciati e a stento trattenendosi dal percuoterla, con una faccia che tradisce l’ira, così dice di rimando a Pàllade che ancora non si è palesata: “O scimunita, smidollata dalla lunga vecchiaia, vivere troppo eccome se rovina! Queste cose valle a dire a tua nuora, valle a dire a tua figlia, se ne hai una! Io mi so regolare benissimo da me, e perché tu non ti creda di aver combinato qualcosa con i tuoi ammonimenti, sappi che io la penso come prima. Perché non viene qui? Perché non accetta la sfida?”
Allora la dèa: “È venuta!”, dice, e si spoglia della figura di vecchia e si rivela - Pàllade. Le ninfe e le donne della Lidia si prostrano dinnanzi alla divinità; soltanto la vergine non si spaventa. Tuttavia trasalisce, e un improvviso rossore le dipinge suo malgrado il viso e poi ridilegua, come l’aria s’imporpora al primo comparire dell’aurora e dopo breve tempo s’imbianca, quando sorge il sole. Insiste sulla via che ha preso, e per insensata bramosia di gloria corre verso la propria rovina.
E infatti la figlia di Giove non rifiuta, e non l’ammonisce più, e nemmeno rinvia più la gara. Subito si sistemano una da una parte, l’altra dall’altra, e con gracile filo tendono ciascuna un ordito. L’ordito in alto è legato al subbio, il pettine di canna tiene distinti i fili, la spola appuntita inserisce la trama, con l’aiuto delle dita, e i denti intagliati nel pettine, dando un colpo, comprimono la trama passata tra un filo e l’altro.
Lavorano tutte e due di lena, e liberate le spalle dalla veste muovono le braccia esperte, con tanto impegno che non sentono fatica. Mettono nel tessuto porpora che ha conosciuto la caldaia a Tiro, e sfumature delicate, distinguibili appena: così, quando la pioggia rifrange i raggi solari, l’arcobaleno suole tingere con grande curva, per lungo tratto, il cielo, e benché risplenda di mille diversi colori, pure il passaggio dall’uno all’altro sfugge all’occhio di chi guarda, tanto quelli contigui si assomigliano, sebbene gli estremi differiscano. Anche intridono i fili di duttile oro, e sulla tela si sviluppa un’antica storia.
Pàllade effigia il colle di Marte nella città della di Cècrope [ATENE] e l’antica contesa sul nome da dare alla contrada. Sei dèi più sei, e Giove nel mezzo, siedono con aria grave e maestosa su scanni eccelsi: ciascuno ha come impressa in volto la propria identità; l’aspetto di Giove è quello di un re. Poi disegna il dio del mare, mentre colpisce col lungo tridente il macigno di roccia e da questo squarciato fa balzare un cavallo indomito, perché la città gli venga aggiudicata. A sé stessa assegna uno scudo, un’asta dalla punta acuminata, un elmo e l’egida per proteggere il capo e il petto; e rappresenta la terra che percossa dalla sua lancia genera l’argentea pianta dell’ulivo con le sue bacche; e gli dei che guardano stupefatti; infine la propria vittoria. Ma perché la rivale capisca da qualche esempio cosa dovrà aspettarsi per così folle ardire, aggiunge ai quattro angoli quattro altre sfide, vivaci nei colori, ma nitide nei tratti minuti. In un angolo si vedono Ròdope di Tracia ed Emo, ora gelidi monti, un tempo esseri mortali, che avevano usurpato il nome degli dei maggiori. Dall’altra parte la sorte pietosa della madre dei Pigmei: avendola vinta in una gara, Giunone impose che diventasse una gru e s’azzuffasse col suo popolo. Poi effigia Antigone, che una volta osò competere con la consorte del grande Giove e che dalla regale Giunone fu mutata in uccello: né Ilio né il padre Laomedonte poterono impedire che, spuntatele le penne, come candida cicogna applaudisse sé stessa battendo il becco. Nell’angolo che rimane Cìnira, perdute le figlie, abbraccia i gradini di un tempio, già carne della sua carne, e, accasciato sulla pietra, si staglia in lacrime.
Contorna i bordi con rami d’olivo, segno di pace, e con la pianta che le è sacra conclude l’opera sua.
Aracne invece disegna Europa ingannata dalla falsa forma di toro: diresti che è vero il toro, vero il mare; la si vede che alle spalle guarda la terra e invoca le compagne, e come, per paura d’essere lambita dai flutti che l’assalgono, ritragga timorosa le sue gambe. E raffigura Asterie che ghermita da un’aquila si dibatte, raffigura Leda che sotto le ali di un cigno giace supina; e vi aggiunge Giove che sotto le spoglie di un satiro ingravida di due gemelli l’avvenente figlia di Nicteo; che per averti, Alcmena di Tirinto, si muta in Anfitrione; che trasformato in oro inganna Dànae, in fuoco la figlia di Asopo, in pastore Mnemosine, in serpe screziato la figlia di Cerere. Effigia anche te, Nettuno, mentre in aspetto di torvo giovenco penetri la vergine figlia di Eolo, mentre come Enìpeo generi gli Aloìdi, e inganni come ariete la figlia di Bisalte; te, che la mitissima madre delle messi dalla bionda chioma conobbe destriero, che la madre con serpi per capelli del cavallo alato conobbe uccello e Melanto delfino. Ognuno di questi personaggi è reso a perfezione e così l’ambiente. E c’è pure Febo in veste di contadino, e le volte che assunse penne di sparviero o pelle di leone, e che in panni di pastore ingannò Isse, figlia di Macareo. C’è come Libero sedusse Erìgone trasformandosi in uva, come Saturno in cavallo generò il biforme Chirone.
Tutto intorno alla tela corre un fine bordo, con fiori intreccisti a rami d’edera flessuosi.
Neppure Pàllade, neppure la Gelosia poteva trovar qualcosa da criticare in quell’opera. Ma la bionda dèa guerriera ci rimase malissimo e fece a brandelli la tela che illustrava a colori le colpe degli dèi, e trovandosi in mano la spola di legno del Citoro, tre e quattro volte colpì con quella sulla fronte Aracne, figlia di Idmone. La poveretta non lo tollerò, e corse impavida a infilare il collo in un cappio.
Vedendola pendere, Pàllade ne ebbe compassione e la sorresse, dicendo così: “Vivi pure, ma penzola, malvagia, e perché tu non stia tranquilla per il futuro, la stessa pena sia comminata alla tua stirpe e a tutti i tuoi discendenti!” Detto questo, prima di andarsene la spruzzò di erbe infernali, e subito al contatto del terribile filtro i capelli scivolarono via, e con essi il naso e gli orecchi; e la testa diventa piccolissima, e tutto il corpo d’altronde s’impicciolisce. Ai fianchi rimangono attaccate esili dita che fanno da zampe. Tutto il resto è pancia: ma da questa, Aracne riemette del filo e torna a rifare - ragno - le tele come una volta.
RIANDANDO CON LA MEMORIA alla “poesia” della RAGAZZA e del RAGNO, della “TARANTATA”, di Pellegrino Scardino di San Cesario, e, RICORDANDO CHE il mito di ARACNE raccontato da OVIDIO (Metamorfosi, VI, 1-145) "narra della sfida tra Athena ed Aracne sull’arte della tessitura. E’ proprio Aracne a lanciare la sfida, e ne pagherà le tragiche conseguenze: non solo ha osato sfidare la dea, ma la rabbia che suscita in Athena è nel fatto che le sue tele si mostrano addirittura superiori a quelle della dea stessa. L’ira che la fanciulla provocherà in Athena sarà tale da costringerla al tentativo di suicidarsi: non poteva reggere difatti il peso della rabbia divina. Ma la dea fermerà il tentativo di suicidio di Aracne e la trasformerà in ragno" e, ANCORA, che sul tema - come ha ricordato lo stesso Gianfranco Mele (ARACNE, LE TARANTATE, E UN FALSO MITO - il prof. Armando Polito ha offerto brillanti contributi di approfondimenti iconografici, credo sia opportuno invitare ancora e di nuovo a una lettura attenta dell’intera narrazione ovidiana, per cercare possibili ragioni del "falso mito".
CONTRARIAMENTE a quanto si è pensato e si continua a pensare, c’è un filo doppio che lega Athena e Aracne - una identità speculare (uguale e opposta) che emerge chiara dal confronto della loro situazione "familiare" e e della loro “ideologia” emergente dalle "immagini" dei loro arazzi: quello di Athena che celebra la fondazione di Atene, sé stessa, e la punizione di chi osa sfidare soprattutto la sposa di Zeus, e, quello di Aracne che celebra le "avventure" di Zeus (e di altri déi) con donne mortali, a partire dal famoso "ratto di Europa" ...
ENTRAMBE, rimaste senza madre (quella di Aracne è morta, quella di Athena l’ha "ingoiata" Zeus) ed entrambe al "servizio" dei loro "Padri", SONO tutte e due collegate nelle varianti del mito a Penelope, come da scena di una xilografia del XVI sec.: Pallade e Penelope con le ancelle e Aracne indignata a tessere la tela - in attesa di un... Ulisse/Zeus, partito per le sue avventure “europee”. O, dato che ormai l’Europa è sulla via del tramonto, anche questa "variante" è da ritenersi "un falso mito"? O, in altro modo, che Athena, Aracne, Penelope, e la stessa Arianna tentano di offrire ancora la chiave per saper riconoscere un falso mito e riprendere il cammino? O no?
Federico La Sala
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Doomsday Clock.... Fine della Storia o della "Preistoria"?
TROIA, L’OCCIDENTE, E IL PIANETA TERRA. PER LA PACE PERPETUA.
L’immaginario del cattolicesimo imperiale.... *
Olimpiade, la mamma feroce che fece di Alessandro Magno un re
Una biografia ricostruisce intrighi, delitti e ambizioni della sovrana epirota. Mentre il figlio conquistava il mondo lei elargiva consigli su come trattare i sudditi
di Giorgio Ieranò (La Stampa TuttoLibri 09.02.2019)
Forse non è vero che dietro a ogni grande uomo c’è sempre una grande donna. Ma dietro a molti grandi condottieri c’è spesso una madre ingombrante. Gengis Khan, stando alla Storia segreta dei mongoli, aveva paura solo della mamma, l’intrepida Hoelun. Maria Letizia Bonaparte vegliò severa sul figlio Napoleone per tutta la sua vita.
Ad Alessandro Magno toccò invece in sorte Olimpiade, donna inquietante e strana. Secondo gli antichi, praticava oscuri culti misterici, durante i quali maneggiava serpenti che poi si portava persino nel letto. Era devota ai riti dionisiaci, che celebrava con torme di femmine invasate, tra le quali si distingueva, scrive Plutarco, per essere «la più selvaggia». Si diceva che persino il marito, il re di Macedonia Filippo II, persona non facilmente impressionabile, ne fosse terrorizzato. Ma Olimpiade fu soprattutto una donna di potere.
Senza di lei, forse, Alessandro non sarebbe mai divenuto re: fu la madre, con il delitto e l’intrigo, a spianargli la via verso il trono.
Certi ritratti a tinte fosche di Olimpiade nascono forse proprio dal fatto, scandaloso per gli autori antichi, maschi e maschilisti, che una donna fosse riuscita a imporsi come protagonista politica (qualcosa di simile accadrà poi con un’altra spregiudicata regina, Cleopatra).
Ne è convinto Lorenzo Braccesi, storico del mondo antico, che dedica ora alla mamma di Alessandro Magno una biografia documentata e avvincente. Olimpiade ne emerge con tutte le sue ambiguità. Una donna che, da un lato, scrive Braccesi, appariva avvolta in «una nebbia misterica dove il mito poteva sovrapporsi alla vita e alla realtà». Ma, d’altro lato, era una sovrana accorta e astuta. Del resto, era nata figlia di re: suo padre, Neottolemo I, era signore dell’Epiro, un piccolo regno la cui dinastia vantava però una discendenza da Achille. Aveva poi sposato un altro re, Filippo di Macedonia. I due si sarebbero conosciuti proprio durante una cerimonia misterica, un rituale d’iniziazione alle oscure divinità dell’isola di Samotracia. E il loro figlio, Alessandro, era destinato a diventare il più grande di tutti i re, fondatore di un impero universale che andava dalle rive del Nilo a quelle dell’Indo.
Olimpiade è immersa negli eventi che, nella seconda metà del IV secolo, cambiano la storia del mondo. Dapprima accanto al marito Filippo, che, con la battaglia di Cheronea (338 a. C.), schiaccia la libertà di Atene e diviene padrone della Grecia. Poi seguendo da lontano i trionfi di Alessandro. Mentre il figlio avanza impetuoso nei territori dell’impero persiano, guidando le sue falangi attraverso i deserti e le montagne dell’Asia, la madre intrattiene con lui una corrispondenza di cui Braccesi ricompone le tracce partendo dai testi degli storici antichi. Olimpiade dispensa saggi consigli su come comportarsi con i sudditi. E il figlio le racconta con orgoglio i suoi successi. Si accinge anche, con festosa sollecitudine, a comunicarle di avere scoperto, nella remota India, le sorgenti del Nilo, salvo poi fare ammenda del clamoroso errore.
Il ruolo di regina madre Olimpiade aveva dovuto conquistarselo. I re di Macedonia erano poligami. Filippo, nel 337 a. C., aveva sposato una nobile macedone, di nome Cleopatra. Plutarco riferisce che Olimpiade, «donna collerica e gelosa», s’infuriò per queste nuove nozze. C’era il rischio che Cleopatra partorisse un erede di puro sangue macedone, che avrebbe messo fuori gioco Alessandro, il figlio della principessa epirota.
Nel 336 a. C., mentre entrava nel teatro di Ege (oggi Verghina), l’antica capitale del regno macedone, Filippo venne ucciso da un sicario di nome Pausania. Fu Olimpiade ad armare la mano del regicida? Lo storico Giustino racconta che la regina andò a deporre una corona di fiori sul capo di Pausania, giustiziato e appeso a una croce. Non erano solo calunnie: Braccesi riesamina tutte le testimonianze e conclude che, quasi certamente, Olimpiade fu la mandante dell’omicidio del marito. Comunque sia, grazie all’assassinio di Filippo, Alessandro ottenne subito il trono. E Olimpiade, per evitare rischi futuri, costrinse la rivale Cleopatra a impiccarsi dopo averne ucciso la figlia bambina.
La regina avrebbe pagato il prezzo dei suoi intrighi. Dopo la morte di Alessandro a Babilonia, nel 323 a. C., i suoi generali iniziarono a combattere per spartirsi l’impero. Olimpiade, a questo punto, era sempre più solo una presenza ingombrante. Tentò di salvare la dinastia ma fu uccisa nel 316 a. C. Di lei resterà la leggenda cupa e misteriosa. Solo Giovanni Pascoli, nel suo poemetto Alexandros, la immaginerà diversa. Una madre assorta nella malinconia, che, ascoltando lo stormire della quercia profetica del tempio di Zeus a Dodona, nel natio Epiro, crede di sentire la voce del figlio lontano. Una madre «in un sogno smarrita», mentre «il vento passa e passano le stelle».
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’immaginario del cattolicesimo romano.
GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA!!! NON IL FIGLIO DEL "DIO" ("CARITAS") DELLA CHIESA AF-FARAONICA E COSTANTINIANA !!!
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".... *
Una ribellione diversa
di Lea Melandri *
Sabato 12 gennaio si terrà a Milano, nella Casa della donne, l’assemblea di “Non una di meno” in preparazione dello “sciopero delle donne dell’8 marzo“.
Una giornata di sciopero delle donne ha un evidente significato forte per diversi motivi.
Sovverte un ordine che, dato come “naturale”, ha permesso di protrarre per secoli il dominio di un sesso sull’altro, la consegna delle donne al ruolo di madri, mogli, figlie, sorelle “di”, custodi della famiglia e della continuità della specie; la cura e il lavoro domestico possono finalmente essere visti per quello che sono sempre stati: “un grande aggregato dell’economia” (per dirla con Antonella Picchio), il sostegno materiale, psicologico, affettivo all’impegno “civile” dell’uomo.
“Per secoli - come scrive Virginia Woolf - le donne sono state gli specchi magici in cui si rifletteva la figura dell’uomo raddoppiata. Senza questa facoltà, la terra probabilmente sarebbe ancora palude e giungla”. Questi specchi sono stati “indispensabili ad ogni azione violenta ed eroica”.
Favorisce la presa di coscienza che “vivere per l’altro e attraverso l’altro” è stata la conseguenza dell’espropriazione di esistenza propria che le donne hanno subito, asservimento dei loro corpi e dei loro pensieri, cancellazione del loro tempo, confuso con l’immobilità delle leggi naturali.
Afferma visibilmente, con migliaia di presenze nelle strade e nelle piazze, che le “porte di casa”, le solitudini “private”, si aprono solo attraverso la costruzione di una socialità inedita tra donne, fatta di amicizia, amore, azione, intelligenza di sé e del mondo sottratta a modelli imposti e interiorizzati;
Lo sciopero delle donne, inoltre, porta allo scoperto la cultura e le pratiche politiche che fanno del femminismo la “rivoluzione più lunga”, ma anche la più “radicale” nello svelamento del sessismo - eterosessismo, superiorità maschile, ecc.- come fondamento di tutte le forme di dominio, servitù, violenza, disuguaglianza, che la storia ha conosciuto finora.
Denunciare, infine, la violenza maschile contro le donne in tutte le sue forme manifeste o invisibili, non deve impedirci di fare dell’8 marzo 2019 una giornata di lotta “creativa”.
Per tutte queste ragioni, mi sembra importante che ci poniamo alcune domande.
Su che posto riusciamo a dare nel nostro agire politico alla soggettività - l’esperienza, il vissuto delle singole donne (ragioni, ma anche sentimenti, sogni, pregiudizi, ecc.) - senza la quale è difficile avviare processi di identificazione necessari all’allargamento della rete e della sua azione.
Su come riprendere, in quella giornata, alcuni punti essenziali del Piano contro la violenza, in modo particolare per quanto riguarda la violenza in ambito domestico e il rapporto della cultura femminista con la scuola.
Su come evitare la sorte toccata ad altri movimenti, quando hanno creato un linguaggio e modalità di militanza chiusi e comprensibili a poche attivisti, finendo per diventare “fortezze nel deserto”.
Su come mantenere e approfondire i collegamenti internazionali senza perdere la specificità della situazione italiana.
* Insegnante, giornalista, scrittrice e saggista, riferimento per il movimento delle donne italiano. Tra i suoi libri: L’infamia originaria; Come nasce il sogno d’amore; Le passioni del corpo. La vicenda dei sessi tra origine e storia; La perdita; Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà. Altri suoi articoli sono leggibili qui.
* Comune Info, 10 gennaio 2019 (riproduzione parziale - senza immagini).
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO ---- UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
EDUCARE AL GENERE UMANO. La "storia" della Luna e del Sole...
Maschi/femmine. La parità (non) si insegna a scuola
di Paola Zanca (Il Fatto, 25.11.2018)
La storia della Luna e del Sole è in un sussidiario di quarta elementare. Un mito della tradizione orale africana che diversi editori hanno inserito nei libri di testo della scuola pubblica italiana. Il racconto spiega come mai la Luna e il Sole, marito e moglie, non stiano mai insieme in cielo: hanno litigato perché lei non gli ha fatto trovare la cena pronta. Una “infame pigraccia” che si è perfino permessa di mangiare la polenta che il marito si era poi cucinato da sé. Il lieto fine: il Sole lancia il tagliere con la cena bollente in faccia alla Luna che “dolorante e vergognosa corse a nascondersi”.
La “dimensione di genere”,spiega bene Cristina Gamberi in Educare al genere (Carocci), influisce sulle nostre vite “da quando nasciamo fino alla terza età, e specie nell’adolescenza, quando si gettano le basi del divenire uomini e donne”.
Secondo il rapporto Eurydice, tutti i Paesi europei hanno messo in atto politiche di educazione di genere in ambito didattico: tutti tranne Estonia, Ungheria, Polonia, Slovacchia. E Italia. “Nella società italiana - notano le associazioni delle Donne in Rete contro la violenza - gli stereotipi e pregiudizi di genere, i ruoli tradizionali assegnati a uomo e donna, sono riprodotti sin dai primi testi scolastici”.
E se “l’educazione è sessista”, per parafrasare il titolo della ricerca di Irene Biemmi sugli stereotipi di genere nei libri delle elementari, c’è poco da stupirsi se, per la metà degli intervistati da Ipsos per conto del dipartimento Pari Opportunità, le donne non dovrebbero lavorare a tempo pieno se hanno figli piccoli, sono le principali responsabili della cura della famiglia e si sono avvalse del proprio aspetto fisico per la loro realizzazione professionale.
È l’humus in cui nasce e prolifera la mentalità che è alla base della violenza. Ecco perché - spiega Biemmi, ricercatrice all’università di Firenze - è “scorretto associare l’educazione di genere alle misure di contrasto alla violenza” perché, piuttosto, l’educazione è lo strumento attraverso cui “costruire dinamiche relazionali sane e paritetiche tra maschi e femmine”. Quelle, quindi, in cui la violenza - né esercitata né subìta - ha diritto di cittadinanza.
Uscire dalla “logica emergenziale” è il passo fondamentale. E solo dalla scuola si può provare a farlo: con la formazione obbligatoria degli insegnanti e con un intervento sui libri di testo che escano dai “binari rosa/azzurro” - spiega Biemmi -. “La femmina buona e mansueta, il maschio brillante anche se vivace”.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PER L’ITALIA, "DUE SOLI". Come MARIA: "FIGLIA DEL TUO FIGLIO", così GIUSEPPE: "FIGLIO DEL TUO FIGLIO"!!! Dante non "cantò i mosaici" dei "faraoni"...
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907 - con una nota introduttiva di Federico La Sala Studio europeo nelle scuole, ma il Ministro "censura" la domanda sui metodi contraccettivi (la Repubblica/Salute, 14.02.2008, p. 19).
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
Federico La Sala
Natività della Vergine Maria.
Dio si “costruisce una casa” in mezzo agli uomini
di Matteo Liut (Avvenire, sabato 8 settembre 2018)
Siamo creature chiamate a generare Dio nel mondo, una “missione” vissuta fin dall’inizio della propria esistenza da Maria, che è stata un ponte tra il Creatore e le creature. La festa di oggi, che celebra la natività della Vergine Maria, è legata indissolubilmente a quella del Natale: nella lettura dei Padri, infatti, con la nascita di Maria Dio si “costruisce una casa” in mezzo agli uomini, una dimora che poi lui stesso abiterà nell’Incarnazione.
La ricorrenza odierna è nata in Oriente ed è stata introdotta anche in Occidente da papa Sergio I nel VII secolo. Oggi questa festa è un invito a curare la nostra vita e la nostra interiorità perché è qui che s’incontra Dio. Una lezione “mistica” che i cristiani non devono mai dimenticare se non vogliono ridurre la fede a semplici “buone pratiche”.
Altri santi. Santi Adriano e Natalia, sposi e martiri (IV sec.); san Federico Ozanam, laico (1813-1853).
Letture. Mi 5,1-4; Sal 12; Mt 1,1-16.18-23.
Ambrosiano. Ct 6,9d-10; Sir 24,18-20; Sal 86; Rm 8, 3-11; Mt 1,1-16 oppure Mt 1,18-23 / Gv 20,1-8.
PER LA CRITICA DELLA FACOLTÀ DI GIUDIZIO E DELLA CREATIVITÀ DELL’ "UOMO SUPREMO" ... *
L’effetto Matilda raccontato da Ben Barres, scienziato transgender
Un’attivista per i diritti delle donne vissuta alla fine dell’Ottocento, una storica della scienza e un importante neurobiologo. Il filo rosso che collega queste tre persone si chiama effetto Matilda.
di Simone Petralia (OggiScienza, 16 agosto 2018)
IPAZIA - Matilda Joslyn Gage è stata una femminista e una libera pensatrice statunitense. Nel corso della sua vita ha lottato per il suffragio femminile, per i diritti dei nativi americani e per l’abolizione della schiavitù. “Woman as inventor”, un suo breve saggio del 1870, è al tempo stesso un elogio dell’inventiva femminile e una denuncia lucida e argomentata delle discriminazioni e delle disparità di trattamento a causa delle quali il talento delle donne è spesso calpestato o non riconosciuto.
L’effetto Matilda: cos’è
La comunità scientifica, si sa, non è esente da pregiudizi. A parità di abilità e conoscenze, per esempio, uno scienziato famoso godrà di maggior credito rispetto a un ricercatore poco noto. Nel 1968, il sociologo Robert K. Merton ha definito questa forma di discriminazione “effetto san Matteo”, dal verso attribuito all’evangelista: “a chiunque ha, sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha” (Mt 13, 12). Prendendo spunto dal lavoro di Merton e dal saggio di Matilda Joslyn Gage, nel 1993 la storica della scienza Margaret W. Rossiter ha sviluppato il concetto di “effetto Matilda”.
L’effetto Matilda indica la tendenza a sottovalutare o a sminuire i risultati scientifici conseguiti dalle donne. È stato dimostrato che le ricerche condotte da scienziate suscitano in media meno interesse e vengono citate con minor frequenza rispetto a lavori analoghi realizzati da uomini; quando l’importanza di una scoperta compiuta da una donna è innegabile, invece, questa viene spesso attribuita a un collega maschio. L’effetto Matilda ha segnato la carriera di molte grandi scienziate - da Nettie Stevens a Rosalind Franklin, da Cecilia Payne Gaposchkin a Wu Jianxiong - le quali spesso si sono viste negare un premio Nobel che sarebbe spettato loro di diritto; ma a subirne gli effetti sono state e sono tuttora anche migliaia di ricercatrici sconosciute che vedono il loro lavoro ignorato o svilito a causa di questo pregiudizio.
Il punto di vista di Ben Barres
“Ho vissuto nei panni di una donna e in quelli di un uomo. Questo mi ha dato la possibilità di riflettere sulle barriere che le donne devono affrontare”. Sono parole di Ben Barres, neurobiologo americano. Morto prematuramente nel dicembre del 2017, Barres è ricordato soprattutto per le sue importanti ricerche sul modo in cui le cellule gliali contribuiscono alla formazione e allo sviluppo dei neuroni. È stato uno scienziato di successo, ma - da uomo transgender - anche un alfiere della causa LGBTQ+, sempre in prima linea per il raggiungimento della parità dei diritti di tutte le minoranze.
Barres ha effettuato la transizione dal genere femminile a quello maschile nel 1997, quando aveva 42 anni e lavorava già da tempo alla Stanford University. Nel corso della sua vita ha avuto quindi la possibilità di toccare con mano le piccole e grandi differenze nel modo in cui solitamente ci si relaziona a un altro essere umano, a seconda che lo si percepisca come un uomo o come una donna. Soprattutto ha vissuto sulla sua pelle, per anni, ciò che per la maggior parte degli uomini è pura teoria: l’effetto Matilda.
Nel corso di una conferenza tenutasi nel gennaio del 2005, Lawrence Summers - importante economista, all’epoca presidente della Harvard University - aveva sostenuto che la scarsa presenza femminile in certi ambiti scientifici, come la matematica o l’ingegneria, è da imputare a una caratteristica innata delle donne, la mancanza di una attitudine intrinseca alla scienza. Poco tempo dopo anche lo psicologo cognitivo Steven Pinker e il biologo Peter Lawrence avevano formulato ipotesi analoghe. Quella del determinismo sessuale è un’idea che, in forme e con sfumature differenti, viene riproposta periodicamente. Alcuni scienziati e intellettuali - tra cui il nostro Piergiorgio Odifreddi - sostengono ancora oggi che la difficoltà che le donne hanno a emergere in certe discipline, come la matematica, sia dovuta al fatto che non sono biologicamente portate per l’astrazione.
Nel luglio del 2006, a distanza di alcuni mesi dalle esternazioni Summers e degli altri studiosi, esce su Nature un lungo articolo in cui Barres espone il suo punto di vista sulla questione. La domanda a cui cerca di rispondere è evidente sin dal titolo: “Does gender matter?”, il genere condiziona davvero le performance in ambito scientifico? La risposta è molto chiara: sì. Il genere conta, dice Barres, non tanto perché le donne abbiano caratteristiche innate che le rendono meno capaci degli uomini, quanto piuttosto per l’assunzione sociale che le donne siano per natura meno capaci. In altre parole, a condizionare i risultati scientifici femminili è proprio l’effetto Matilda.
Barres ha la possibilità di replicare alle affermazioni di Summers e degli altri sostenitori dell’innatismo biologico non da un punto di vista puramente teorico, ma rifacendosi alle sue esperienze personali. Avendo vissuto la prima parte della sua vita da donna, ha toccato con mano il sessismo strisciante e ha poi potuto paragonarlo al trattamento successivo riservatogli in quanto uomo. Quando studiava al MIT, racconta, era stata l’unica persona della sua classe - composta soprattutto da ragazzi - a risolvere un complesso problema matematico; il professore, non si sa se per gioco o sul serio, le aveva detto che a risolverlo doveva essere stato il suo fidanzato. Durante il dottorato ad Harvard aveva fatto domanda per un posto all’università; i candidati erano solo due: lei, che all’attivo aveva sei importanti pubblicazioni, e un uomo che aveva pubblicato un solo paper. Venne scelto il candidato maschile. Poco dopo la transizione, un membro della facoltà che aveva assistito a un seminario di Barres non sapendo che fosse transgender, aveva detto che le sue ricerche erano con ogni evidenza superiori a quelle della sorella. Aveva letto le pubblicazioni precedenti di Barres, firmate col nome femminile, senza capire che si trattava della stessa persona; il solo fatto che a scriverle fosse stata una donna era bastato a modificare, in peggio, la sua percezione sulla qualità complessiva del lavoro.
Nel suo articolo, oltre a raccontare episodi legati alla sua storia personale, Barres dimostra la pervasività dell’effetto Matilda ricorrendo anche ai dati. Numerose statistiche, infatti, dimostrano come il pregiudizio di genere sia un potente bias, una vera e propria distorsione cognitiva che condiziona il modo in cui si giudicano le persone. Questo avviene in tutti gli ambiti, anche in un contesto apparentemente evoluto e razionale come quello scientifico. Le donne che fanno domanda di finanziamento per le loro ricerche, per esempio, devono essere 2.5 volte più produttive degli uomini per essere considerate egualmente competenti.
Altri studi sulle minoranze
Altri studi dimostrano come il pregiudizio riguardi, oltre che le donne, anche tutte le persone appartenenti a minoranze di qualche tipo, sia etniche che legate all’orientamento sessuale o all’identità di genere. Sembra che l’unico modo per tenersi al riparo da questo bias sia essere maschi, bianchi, cisgender - cioè non transgender - e ovviamente eterosessuali. “La gente che non sa che sono transgender”, scrive Barres nel suo articolo, “mi tratta con molto più rispetto. Posso persino completare un’intera frase senza essere interrotto da un uomo”. Le persone riconosciute come transgender, invece, devono affrontare pregiudizi analoghi a quelli delle donne, soprattutto coloro che affrontano un percorso di transizione contrario rispetto a quello di Barres, ovvero dal genere maschile a quello femminile; passaggio percepito da molti, in maniera più o meno inconscia, come una sorta di “declassamento sociale”.
Tornando all’effetto Matilda, Barres nota come siano in pochi ad ammettere che si tratti di un problema reale del mondo scientifico. Non solo quasi tutti gli uomini sono inconsapevoli dei loro privilegi, ma anche molte donne sembrano essere riluttanti a riconoscere il peso reale della discriminazione di genere. Questo per varie ragioni, tra cui un fenomeno noto come “rifiuto dello svantaggio personale”, per cui le donne confrontano i loro risultati solo con quelli ottenuti da altre donne, escludendo gli uomini e inserendosi implicitamente in una categoria a parte.
Sono molte le cose che si potrebbero fare per contrastare l’effetto Matilda. In primo luogo, sostiene Barres, evitare di far sentire le ragazze - a scuola, in famiglia e in qualsivoglia contesto - non all’altezza dei loro coetanei maschi o non adatte a intraprendere una carriera scientifica; a lanciare segnali di questo tipo sono, in maniera il più delle volte inconsapevole, gli stessi genitori o gli insegnanti. Occorre poi che la comunità scientifica lavori per migliorare l’equità nei processi di selezione e per dare sempre più posizioni di leadership alle donne e a persone appartenenti a minoranze. “La diversità fornisce un punto di vista più ampio, più sensibilità e maggior rispetto per le diverse prospettive, valori inestimabili in qualsiasi ambito”. Serve, infine, riconoscere che il problema esiste. Non voltarsi dall’altra parte, ma parlare, esporsi, raccontare quello che si è subito e non vergognarsi - mai - di essere chi si è. Seguire, insomma, l’esempio di Ben Barres.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
FILOSOFIA, E TEOLOGIA POLITICA DELLA’ "ANDRO-POLOGIA" ATEA E DEVOTA....
LA RISATA DI KANT: SCHOPENHAUER (COME RATZINGER) A SCUOLA DEL VISIONARIO SWEDENBORG.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
AUTOSTRADE PER IL CIELO: CARTE TRUCCATE E "PONTE PERICOLANTE". L’*AMORE* Di MARIA E GIUSEPPE E LA "PREGHIERA UFFICIALE PER L’INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE 2018" :
PREGHIERA UFFICIALE PER L’INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE 2018 *
Dio, nostro Padre,
Siamo fratelli e sorelle in Gesù, tuo Figlio,
Una famiglia unita dallo Spirito del tuo amore.
Benedici ognuno di noi con la gioia dell’amore.
Rendici pazienti e gentili,
Amorevoli e generosi,
Accoglienti con i bisognosi.
Aiutaci a vivere il tuo perdono e la tua pace.
Proteggi tutte le nostre famiglie con il tuo amore,
Specialmente coloro che ti affidiamo ora con la nostra preghiera:
[facciamo un momento di silenzio per pregare per i membri della famiglia e altre
persone che ci stanno a cuore, ricordandoli per nome].
Aumenta la nostra fede,
Rendi forte la nostra speranza,
Conservaci nel tuo amore,
Aiutaci ad essere sempre grati del dono della vita che condividiamo.
Ti chiediamo questo nel nome di Cristo, nostro Signore,
Amen
Maria, madre e guida nostra, prega per noi.
San Giuseppe, padre e protettore nostro, prega per noi.
Santi Gioacchino e Anna, pregate per noi.
San Luigi e Zelia Martin, pregate per noi.
*Fonte: https://www.worldmeeting2018.ie/WMOF/media/downloads/prayerA4-IT.pdf
* L’Incontro mondiale. «Famiglia, sfida globale». Ecco il senso dell’incontro di Dublino. L’arcivescovo Martin, primate della Chiesa d’Irlanda: Amoris Laetitia, messaggio di misericordia nella complessità. Uno spazio dedicato anche al soloroso tema degli abusi (di Luciano Moia, Avvenire, venerdì 17 agosto 2018: https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/famiglia-sfida-globale-ecco-il-senso-di-dublino).
SUL TEMA, IN RETE, SI CFR.:
GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA!!! NON IL FIGLIO DEL "DIO" ("CARITAS") DELLA CHIESA AF-FARAONICA E COSTANTINIANA !!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
Federico La Sala (18.08.2018)
ANTROPOLOGIA E ANTROPOLOGIA RELIGIOSA.
LA POTENZA DEL DE-SIDER-IO. NOI SIAMO I FIGLI E LE FIGLIE DEL SOLE, I FIGLI E LE FIGLIE DELLE STELLE. ... *
ANTICHI RITORNI
Stelle cadenti? ’Lacrime’ sì... ma non del genere che credete
Perché agli astri è connesso il ’desiderium’. A ben guardare la tradizione cristiana ha soppiantato una credenza pagana, molto più antica ma meno ‘romantica’.
di Alba Subrizio *
Mi perdoneranno i nostri lettori se ho deciso di riproporvi un articolo del nostro blog di qualche anno fa, ma la data (il 12 agosto) ’obbliga’ a parlarne. Sono queste, infatti, le sere in cui siamo tutti con il naso all’insù per vedere di cogliere qualche stella cadente; innamorati, scaramantici, speranzosi o scettici che siano semplicemente desiderosi di osservare il fenomeno astrale, tutti sperano di carpire almeno una delle scie luminose che attraversano la volta celeste in queste calde notti estive.
Non è un caso che alla ‘caduta’ di una stella sia connesso l’esprimere un desiderio, se è vero - come è vero - che il concetto di ‘desiderio’, in quanto brama di qualcosa, è intrinsecamente ed etimologicamente connesso agli astri, dal momento che la parola latina “desiderium” deriva dalla preposizione de (indicante movimento dall’alto verso il basso) + sidus, sideris (ossia “stella”, “astro”), ossia il desiderio è propriamente “ciò che viene dalle stelle”.
Si è soliti pertanto, nella cultura odierna, confessare i propri sogni alla volta celeste, sperando che questi presto o tardi possano avverarsi. Si tratta del fenomeno delle Perseidi, lo sciame meteoritico, così chiamato perché gravitante nella costellazione di Perseo, che ogni anno, orbitando intorno al sole dal 10 al 20 agosto (con picco il 12), è visibile dalla Terra. Nella cultura cristiana e popolare tale ‘sciame’ è noto anche come lacrime di San Lorenzo, dal nome del santo martirizzato sulla graticola, che si festeggia in tale data.
A ben guardare però la tradizione cristiana ha soppiantato una credenza pagana, molto più antica ma meno ‘romantica’. Ebbene, è da premettere che il mese di Augustus, dedicato appunto all’imperatore Ottaviano Augusto, è uno dei mesi dove si celebravano la maggior parte delle feste legate al mondo agricolo, alla coltivazione dei campi, alle fertilità dunque; feste che spesso erano accompagnate da processioni durante le quali aveva luogo la cosiddetta “fescennina iocatio”, ovvero la ‘facezia fescennina’. I fescennini erano, difatti, dei versi mordaci a sapore volgare ed erotico che alludevano al “fascinum”, termine che nella lingua latina aveva una certa ambivalenza, poiché significava sia “malocchio” (da cui il nostro ‘fascinatura’) sia “membro virile”; non è un caso che ad essere portato in processione era l’enorme fallo del dio Priapo.
Orbene, i nostri antenati romani associavano il fenomeno astrale del passaggio delle Perseidi a ben altro genere di ‘lacrime’, o per meglio dire ‘gocce’: quelle dovute alla eiaculazione del seme del dio della fertilità. E voi, ce l’avete un desiderio irrealizzabile? Provate magari a pregare Priapo e a sperare di vederne il seme.
Alba Subrizio
Biografia: «E quel giorno che ha potere solo sul mio corpo e su null’altro, ponga pure fine, quando vorrà, alla mia vita. Con la miglior parte di me volerò eterno al di sopra degli astri e il mio nome non si potrà cancellare, fin dove arriva il potere di Roma sui popoli soggiogati, là gli uomini mi leggeranno, e per tutti i secoli vivrò della mia fama...». Così Publio Ovidio Nasone conclude il suo capolavoro “Le Metamorfosi”; sulla scia del grande Sulmonese. E, allora, eccomi qui a raccontarvi di miti, eziologie e pratiche del mondo antico... che fanno bene anche oggi.
* Il Mattino di Foggia, 12/08/2018
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
PAPA FRANCESCO
MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA
DOMUS SANCTAE MARTHAE
Lunedì, 21 maggio 2018
(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLVIII, n.114, 22/05/2018)
A Santa Marta, il 21 maggio, Papa Francesco ha celebrato per la prima volta la messa nella memoria della beata Vergine Maria madre della Chiesa: da quest’anno infatti la ricorrenza nel calendario romano generale si celebra il lunedì dopo Pentecoste, come disposto dal Pontefice con il decreto Ecclesia mater della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti (11 febbraio 2018), proprio per «favorire la crescita del senso materno della Chiesa nei pastori, nei religiosi e nei fedeli, come anche della genuina pietà mariana».
«Nel Vangeli ogni volta che si parla di Maria si parla della “madre di Gesù”» ha fatto subito notare Francesco nell’omelia, riferendosi al passo evangelico di Giovanni (19,25-34). E se «anche nell’Annunciazione non si dice la parola “madre”, il contesto è di maternità: la madre di Gesù» ha affermato il Papa, sottolineando che «questo atteggiamento di madre accompagna il suo operato durante tutta la vita di Gesù: è madre». Tanto che, ha proseguito, «alla fine Gesù la dà come madre ai suoi, nella persona di Giovanni: “Io me ne vado, ma questa è vostra madre”». Ecco, dunque, «la maternalità di Maria».
«Le parole della Madonna sono parole di madre» ha spiegato il Papa. E lo sono «tutte: dopo quelle, all’inizio, di disponibilità alla volontà di Dio e di lode a Dio nel Magnificat, tutte le parole della Madonna sono parole di madre». Lei è sempre «con il Figlio, anche negli atteggiamenti: accompagna il Figlio, segue il Figlio». E ancora «prima, a Nazareth, lo fa crescere, lo alleva, lo educa, ma poi lo segue: “La tua madre è lì”». Maria «è madre dall’inizio, dal momento in cui appare nei Vangeli, da quel momento dell’Annunciazione fino alla fine, lei è madre». Di lei «non si dice “la signora” o “la vedova di Giuseppe”» - e in realtà «potevano dirlo» - ma sempre Maria «è madre».
«I padri della Chiesa hanno capito bene questo - ha affermato il Pontefice - e hanno capito anche che la maternalità di Maria non finisce in lei; va oltre». Sempre i padri «dicono che Maria è madre, la Chiesa è madre e la tua anima è madre: c’è del femminile nella Chiesa, che è maternale». Perciò, ha spiegato Francesco, «la Chiesa è femminile perché è “chiesa”, “sposa”: è femminile ed è madre, dà alla luce». È, dunque «sposa e madre», ma «i padri vanno oltre e dicono: “Anche la tua anima è sposa di Cristo e madre”».
«In questo atteggiamento che viene da Maria che è madre della Chiesa - ha fatto presente il Papa - possiamo capire questa dimensione femminile della Chiesa: quando non c’è, la Chiesa perde la vera identità e diventa un’associazione di beneficienza o una squadra di calcio o qualsiasi cosa, ma non la Chiesa».
«La Chiesa è “donna” - ha rilanciato Francesco - e quando noi pensiamo al ruolo della donna nella Chiesa dobbiamo risalire fino a questa fonte: Maria, madre». E «la Chiesa è “donna” perché è madre, perché è capace di “partorire figli”: la sua anima è femminile perché è madre, è capace di partorire atteggiamenti di fecondità».
«La maternità di Maria è una cosa grande» ha insistito il Pontefice. Dio infatti «ha voluto nascere da donna per insegnarci questa strada». Di più, «Dio si è innamorato del suo popolo come uno sposo con la sposa: questo si dice nell’antico Testamento. Ed è «un mistero grande». Come conseguenza, ha proseguito Francesco, «noi possiamo pensare» che «se la Chiesa è madre, le donne dovranno avere funzioni nella Chiesa: sì, è vero, dovranno avere funzioni, tante funzioni che fanno, grazie a Dio sono di più le funzioni che le donne hanno nella Chiesa».
Ma «questo non è la cosa più significativa» ha messo in guardia il Papa, perché «l’importante è che la Chiesa sia donna, che abbia questo atteggiamento di sposa e di madre». Con la consapevolezza che «quando dimentichiamo questo, è una Chiesa maschile senza questa dimensione, e tristemente diventa una Chiesa di zitelli, che vivono in questo isolamento, incapaci di amore, incapaci di fecondità». Dunque, ha affermato il Pontefice, «senza la donna la Chiesa non va avanti, perché lei è donna, e questo atteggiamento di donna le viene da Maria, perché Gesù ha voluto così».
Francesco, a questo proposito, ha anche voluto indicare «il gesto, direi l’atteggiamento, che distingue maggiormente la Chiesa come donna, la virtù che la distingue di più come donna». E ha suggerito di riconoscerlo nel «gesto di Maria alla nascita di Gesù: “Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia”». Un’immagine in cui si riscontra «proprio la tenerezza di ogni mamma con suo figlio: curarlo con tenerezza, perché non si ferisca, perché stia ben coperto ». E «la tenerezza» perciò è anche «l’atteggiamento della Chiesa che si sente donna e si sente madre».
«San Paolo - l’abbiamo ascoltato ieri, anche nel breviario l’abbiamo pregato - ci ricorda le virtù dello Spirito e ci parla della mitezza, dell’umiltà, di queste virtù cosiddette “passive”» ha affermato il Papa, facendo notare che invece «sono le virtù forti, le virtù delle mamme». Ecco che, ha aggiunto, «una Chiesa che è madre va sulla strada della tenerezza; sa il linguaggio di tanta saggezza delle carezze, del silenzio, dello sguardo che sa di compassione, che sa di silenzio». E «anche un’anima, una persona che vive questa appartenenza alla Chiesa, sapendo che anche è madre deve andare sulla stessa strada: una persona mite, tenera, sorridente, piena di amore».
«Maria, madre; la Chiesa, madre; la nostra anima, madre» ha ripetuto Francesco, invitando a pensare «a questa ricchezza grande della Chiesa e nostra; e lasciamo che lo Spirito Santo ci fecondi, a noi e alla Chiesa, per diventare noi anche madri degli altri, con atteggiamenti di tenerezza, di mitezza, di umiltà. Sicuri che questa è la strada di Maria». E, in conclusione, il Papa ha fatto notare anche come sia «curioso il linguaggio di Maria nei Vangeli: quando parla al Figlio, è per dirgli delle cose di cui hanno bisogno gli altri; e quando parla agli altri, è per dire loro: “fate tutto quello che lui vi dirà”».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"TEBE": IN VATICANO NON C’E’ SOLO LA "SFINGE" - C’E’ LA "PESTE"!!! Caro Benedetto XVI ... DIFENDIAMO LA FAMIGLIA!? MA QUALE FAMIGLIA - QUELLA DI GESU’ (Maria - e Giuseppe!!!) O QUELLA DI EDIPO (Laio e Giocasta)?!
LA COMPETENZA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA DEL VATICANO E’ "PREISTORICA" E "MAMMONICA". Il "romanzo familiare" edipico della chiesa e della cultura cattolico-romana è finito
Federico La Sala
Quarant’anni di legge 194
di Paola Govoni (Il Mulino, 21 maggio 2018)
I dati del Guttmacher Institute indicano che, ovunque ci siano leggi che consentono l’interruzione volontaria della gravidanza (Ivg), questa è in calo, anche in Italia. Eppure, negli ultimi anni in molti di quei Paesi, inclusa l’Italia, si sono accese polemiche sull’aborto e le leggi che lo regolamentano.
Basta una rapida occhiata alla letteratura per vedere che a dimostrarsi preoccupati - ossessionati? - da questioni relative all’aborto sono più spesso uomini che donne. L’interesse nei confronti del tema sembra infatti nascere soprattutto da campagne denominate pro-life o “teoria gender”, i cui portavoce sono spesso uomini.
D’altra parte, anche in ambito storiografico, nonostante nell’ultimo secolo e mezzo la storia delle donne a opera di donne sia diventata via via più ricca, i testi importanti (o più citati) su questioni di donne e sessualità restano quelli degli uomini. Su qualsiasi tema gli uomini sono più citati delle donne, ma su questioni di sesso sono imbattibili, anche quando si tratta di allattamento, come già nel caso del botanico Linneo.
Si tratta di una tradizione colta antichissima che ha spesso condiviso con la società, anche la meno acculturata, l’equazione donna = sesso. Questo spiega come sia possibile che ancora oggi e ovunque nel mondo il sesso resti il principale strumento di controllo delle donne: una responsabilità che è sociale, che ci coinvolge tutti e tutte e che non possiamo delegare, come molti ancora fanno, alla scienza.
Come racconta in Una stanza tutta per sé, una mattina dell’autunno del 1928 Virginia Woolf si recò alla British Library per preparare alcune lezioni su creatività e indipendenza economica delle donne. Una scorsa al catalogo le bastò per rendersi conto che ogni anno veniva pubblicato a firma di uomini un numero impressionante di libri sul “sesso - e cioè le donne”. In dialogo con le ragazze del Newnhan e del Girton College per le quali stava preparando lezioni divenute memorabili, esclamò: “Vi rendete conto di essere, forse, l’animale più discusso dell’universo?”. -Woolf si accorse subito che a scrivere del tema non erano tanto biologi e medici, quanto gli autori più disparati, spesso senza alcuna qualificazione. Scelta una dozzina di quei volumi “in maniera assolutamente arbitraria”, ne cercò di analoghi di donne su uomini. Non ne trovò e il lavoro proseguì spedito.
Quel vuoto è un sollievo anche per le storiche che, come me, coltivano un certo orgoglio di categoria. Restando in ambiti di privilegio, sono diverse le umiliazioni che ci sono state inflitte, per esempio una secolare esclusione dalle università. Ma nonostante la nostra ignoranza, ci è risparmiato almeno l’imbarazzo di doverci occupare di autrici di libri su uomini e sesso analoghi a quelli incrociati da Woolf.
Bertrand Russell seppe ammettere con ironia il problema quando osservò che “Aristotele maintained that women have fewer teeth than men; although he was twice married, it never occurred to him to verify this statement by examining his wives’ mouths” (The Impact of Science on Society, 1952). Vero o meno che fosse il dettaglio dei denti, Aristotele, come molti altri filosofi naturali e scienziati, resta utile per indagare i pregiudizi in cui gli uomini più intelligenti e colti possono cadere quando si tratta di donne.
Sebbene la tentazione sia forte, le considerazioni rapide fatte fin qui non vogliono portare a conclusioni del tipo: quando uomini come quelli a capo dei movimenti pro-life parlano di aborto, conviene sorridere e occuparsi d’altro. L’aborto è una questione che, ancorché flaianamente seria, è drammatica. Penso tuttavia che sia salutare considerare con distacco chi (per ragioni che lascio alla psicoanalisi), oggi come nell’Ottocento, sente il bisogno di scrivere di aborto sostituendo dati verificati e approcci pragmatici a un problema sociale, con invettive moraleggianti contro le donne: antico strumento di battaglia ideologica (non politica) che dire scomposta è poco. Ho l’impressione che nei confronti di quelle prese di posizione convenga mantenere bassi i toni per evitare fenomeni cosiddetti di backslash, cioè un inasprirsi di atteggiamenti negativi nei confronti delle donne. In ambito accademico è per esempio probabile che certe derive costruzioniste degli anni Settanta e Ottanta, coltivate da élite prive di contatti con il mondo sociale reale, non abbiano giovato alle battaglie delle donne per la parità, ma semmai alimentato confusione tra i/le giovani (la vaghezza di certe argomentazioni può solo diventare gergo da ipse dixit) e insoddisfazione in chi è esclusa/o dai privilegi di cui godono quelle élite.
Il mio invito a mantenere bassi i toni non significa subire in silenzio. Tutt’altro. Bisogna parlare e molto di questi temi, soprattutto in ambito educativo, dal nido all’università. Per esempio, gli/le adolescenti dovrebbero conoscere i vantaggi sociali concreti che porta un’educazione alla piena parità di diritti e di doveri (già, ci sono anche quelli), per non dire dell’educazione sessuale che, come mostrano i dati del Guttmacher Institute, è cruciale perché cali il ricorso all’aborto. Un’educazione che in Italia è trascurata o osteggiata (per ragioni che pure lascio alla psicoanalisi). D’altra parte, l’ignoranza è la realtà con la quale il Paese si confronta (su questo punto, è noto, c’è solo l’imbarazzo della scelta, tra i dati Pisa, i bassi investimenti in educazione terziaria, il posizionamento problematico delle università nelle diverse classifiche internazionali e così via). E le ripercussioni sociali sono pesanti, si tratti di corruzione, di diritti dei carcerati o delle donne: nella classifica che misura i diritti di queste ultime, l’Italia è passata dal 72° posto nel 2006 all’82° su 144 Paesi nel 2017.
La storia delle donne è ricca di esempi che mostrano che posizioni o diritti conquistati restano comunque precari. In ambito scientifico, nel 1984 fu Margaret Rossiter, dati quantitativi alla mano, a parlare di backslash nei confronti delle scienziate americane dopo la Prima guerra mondiale. Oppure, si pensi al caso più clamoroso, quello della computer science, il sapere che ormai regge le società e le economie mondiali. Nella Silicon Valley le donne sono sottorappresentate, benché siano state pioniere nel mondo dell’informatica, nella ricerca come nell’imprenditoria. La storia non è progressiva e sui diritti bisogna vigilare.
L’aborto va prevenuto con l’educazione, impedirlo porta le povere a ricorrervi in clandestinità, le abbienti a ottenerlo in un Paese confinante. Ogni decisione che riguardi la vita e la morte dovrebbe a mio parere essere possibile in un contesto normativo il più possibile flessibile che tutela le libertà. Su morte e vita non abbiamo dati e/o argomentazioni sufficienti per stabilire con certezza quei confini che alcune/i pretendono per demandare la scelta: chi alla scienza, chi alla religione, chi alla giurisprudenza. In dialogo con quelle culture, la scelta su vita e morte può solo essere nostra, libera, responsabile e valutata caso per caso.
Rimettere in discussione la legge che consente l’Ivg è pericoloso per la libertà di tutte/i. Come la scienza, anche la storia ci offre dati utili su cui meditare: ogni volta che si è preteso di limitare le libertà di qualcuna/o, fossero avversari politici, scientifici o religiosi, donne, ebrei o sinti, prima o poi sono state limitate anche le libertà di chi aveva iniziato a gridare.
Diritto & mito
Edipo e l’equilibrio di poteri
di Mauro Campus (Il Sole-24 Ore, Domenica, 20.05.2018)
Interrogare i classici per meglio interpretare la contemporaneità è uno degli esercizi cui ogni società matura dovrebbe rivolgersi costantemente. Il nostro rapporto con le radici del pensiero moderno dovrebbe essere automatico perché esse riflettono le caratteristiche delle comunità che nei secoli si sono fondate guardandole. Per i popoli che si sono culturalmente legittimati sul repertorio mitografico fluito dalle esperienze che i classici riassumono e riordinano, tale esercizio è saldato a basilari caratteri identitari. Da questa consapevolezza nasce l’esigenza di due giuristi come Marta Cartabia e Luciano Violante di misurarsi con Edipo, Antigone e Creonte. Com’è intuibile, l’analisi proposta, pur accarezzando a tratti l’approccio filologico, non ha alcuna pretesa di spiegare nuovamente l’enorme messe di riferimenti all’ordine sociale che i miti sintetizzano, si propone piuttosto di indagare le intersezioni fra quei riferimenti e la percezione contemporanea della giustizia e di un efficiente ordine sociale. Si tratta di un ragionamento la cui curvatura riflette la vita professionale dei due autori, i quali hanno sperimentato e sperimentano i dilemmi che un alto ufficio istituzionale pone.
Per quanto Cartabia e Violante riconducano l’analisi al piano giuridico presentissimo in Edipo Re e Antigone, il montaggio del loro ragionamento finisce per incrociare - seppur per allusione - l’attualità politica che, vista da quella prospettiva, richiama le evidenti incrinature dell’equilibrio dei poteri che connotano lo stato di salute della democrazia e della rappresentanza. Si tratta di temi che, sebbene i due saggi (Edipo Re di Cartabia, Antigone di Violante) si tengano correttamente lontani dall’oggi, lo descrivono però con perfezione adamantina. Ma il tentativo di non cadere nell’esplicitazione dei richiami al presente è in realtà limitato dall’universalità dei personaggi e delle vicende affrontate nelle due conversazioni.
Il perimetro in cui si articola la riflessione parallela dei due autori è definito dal conflitto tra legge umana e legge divina, tra coscienza individuale e ragion di Stato. Questa è la quinta con cui i due testi stabiliscono una dialettica che guarda i modi attraverso i quali la società occidentale si è costruita, riconosciuta e, poi, è entrata in una crisi che pare a tratti irreversibile, specie quando ancora si confronta con la contrapposizione che dovrebbe immaginarsi superata: quella tra lex e ius. E se Antigone è da sempre un interlocutore privilegiato di chi ne ha osservato la dimensione giuridica, invece i riferimenti all’equilibrio dei poteri e ai dilemmi con i quali chi governa dovrebbe dialogare sono presentissimi in Edipo. Egli è un monarca posto dinanzi alla rovina della città che regge, Tebe, dopo l’assassinio del padre e l’incesto con la madre. È quel crimine che lo colloca al centro di un complesso gioco dei punti di vista, delle ottusità, degli arcani, delle riluttanze dei protagonisti. È il conflitto tra la legge degli avi e la nuova legge della città: un conflitto irrisolto nel V secolo a.C. che ricorda le linee di faglia che la crisi delle democrazie fa sperimentare agli evolutissimi regimi capitalisti contemporanei.
Con il tempo la tendenza a identificare ciò che è buono e giusto con ciò che è consentito dalla legge e ciò che è male con quello che la legge proibisce ha costruito l’identità dell’Occidente e ha alimentato la fiducia nelle virtù del sistema democratico. Un sistema che ha fatto superare la condizione di coro al popolo e lo ha reso cittadino e attore. Ed è da cittadini che ci sentiamo sollevati dalla responsabilità personale di decidere che cosa è buono e che cosa non lo è, ma è nell’esperienza della cittadinanza - pure così confortevolmente mediata - che torna centrale il dilemma tra ciò che è religione, ciò che è morale e quello che il diritto può regolare.
Il limes tra queste realtà appare ancora incerto e problematizzato dall’assenza di entità divine capaci di comporre conflitti apparentemente insanabili. Comporre quelle distinzioni ed equilibrarle è però necessario alla civiltà. Sono gli uomini che ora devono - attraverso la mediazione - conciliare tendenze potenzialmente conflittuali e quindi interpretare (o reinventare) lo spirito con cui Atena convinse le Eumenidi a partecipare alla vita della città. Fu quello il modo per interrompere i loro incantesimi e garantire l’edificazione di un futuro florido.
PENSARE L’«EDIPO COMPLETO» (S. FREUD). UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO... *
L’Occidente è colpevole. Ma l’Occidente è la salvezza
Psichiatra e antropologa marocchina, Rita El Khayat parla in questa intervista di colonialismo, migrazioni e Primavere Arabe. «In certi momenti storici è meglio un regime forte. Tra Assad e Isis scelgo Assad».
di Lorenzo Cremonesi (Corriere della Sera, La Lettura, 13.05.2018)
Non si tira indietro nell’accusare «il colonialismo e i danni gravissimi che ha causato ai Paesi arabi e nelle province del mondo islamico». Però è anche profondamente innamorata della cultura occidentale, della sua difesa per i diritti umani e delle donne in particolare. «La mia salvezza intellettuale e civile è cominciata quando giovanissima ho studiato la lingua francese», non si stanca di ripetere. E ai migranti che attraversano il Mediterraneo per approdare in Europa non lesina critiche. «Mi stupisce la caparbietà con cui restano attaccati ai valori e alle tradizioni dei loro Paesi d’origine. Proprio non li capisco!», esclama. «Hanno rischiato la vita per venire in Occidente. Ma se non vogliono cambiare ciò che hanno lasciato, allora perché non se ne rimangono a casa loro? Se credono che a Roma o a Parigi si possono uccidere le figlie che rifiutano di sposare i mariti scelti per loro dalle famiglie non hanno compreso davvero nulla di questo nuovo mondo, meglio che tornino da dove sono partiti».
Il coraggio intellettuale di Rita El Khayat sta anche nella sua aperta disponibilità ad affrontare la complessità delle contraddizioni di un pensiero libero come il suo. Nata nel 1944 a Rabat, marocchina legata alle tradizioni del Maghreb profondo, è scrittrice (ha pubblicato una quarantina di saggi, di cui 14 tradotti in italiano), ma anche psichiatra, antropologa, ha scelto di esercitare a Casablanca la professione di «antropo-psichiatra». Il prossimo 18 maggio parteciperà a Milano a un convegno promosso dall’Asla (Associazione studi legali associati) in un seminario dedicato a Donne e potere.
Partiamo dal tema che tratterà in Italia: non crede vi siano ben poche differenze tra donne e uomini di potere?
«Assolutamente sì. Non cambia niente. Le donne al comando si comportano esattamente come hanno sempre fatto gli uomini, con le stesse ingiustizie, le stesse prevaricazioni e nepotismi, lo stesso sistema di privilegi per chi obbedisce e di punizioni per chi si oppone. Semmai le donne sono ancora più dure, più spietate e più forti degli uomini, proprio per il fatto che hanno dovuto faticare molto di più per imporsi. Lo noto in Francia come in Marocco e nel resto del Maghreb. Ma sono in atto mutamenti epocali. Dove le donne sono diventate economicamente indipendenti avvengono importanti processi di adattamento reciproci tra i due sessi; necessiteranno decenni per trovare nuovi equilibri».
In Medio Oriente ci eravamo illusi che le Primavere Arabe portassero giustizia e libertà. Ma alle vecchie dittature laiche si sono contrapposti i radicalismi islamici oscurantisti e fanatici. Ci siamo trovati a dover scegliere tra la repressione di Bashar Assad e gli orrori di Isis. Lei cosa sceglierebbe?
«Nel 2011, all’inizio delle cosiddette Primavere arabe, stavo con le piazze della rivoluzione. Consideravo Assad uno spietato e sanguinario dittatore. Ma poi, quando ho visto cosa Isis faceva alle donne, lo scempio dei diritti umani, le ragazze yazide vendute in piazza come schiave sessuali, mi sono detta: “Mio Dio, meglio Bashar. Se vince Isis torneremo al Medio Evo”. Ho scritto un libro su questo mio ripensamento. Al caos preferisco un regime ordinato che garantisca la crescita economica e la scolarizzazione diffusa. In certi periodi storici un regime forte come quelli di Franco o Salazar può rivelarsi utile. Più tardi potranno arrivare le riforme in senso democratico ed emergere quelle che Karl Marx definiva le sovrastrutture volte a migliorare la qualità della vita umana».
Dunque, in Egitto, meglio Hosni Mubarak e il regime ancora più duro di Abdel Fattah al Sisi? Un Libia meglio Gheddafi, meglio la vecchia nomenklatura corrotta in Tunisia?
«Le Primavere arabe sono state un movimento di protesta elitario esaltato dalla stampa occidentale, che però non era una vera rivoluzione per il fatto che mancava di leader e di chiare ideologie. Le minoranze che manifestavano in piazza sapevano cosa volevano abbattere, ma non avevano alcuna idea su come e con cosa sostituirlo. Così sono arrivati i movimenti islamici ben organizzati. Alcune conseguenze sono stati i peggioramenti dei diritti civili, inclusi quelli delle donne. Però poi ogni Paese va visto e compreso nella sua storia particolare».
Per esempio?
«Molti anni fa visitai l’Iraq di Saddam Hussein. Era una dittatura, certo. Ma il livello delle scuole era buono, il Paese funzionava. Gheddafi però non lo pongo sullo stesso piano: era un pazzo, uno psicopatico, una personalità con gravissimi disturbi psichici. Aggiungo che il Maghreb è una realtà diversa dai Paesi arabi. In Marocco, dopo gli attentati terroristici di Casablanca nel 2003, abbiamo avuto riforme radicali, è stato cambiato il diritto di famiglia. -Nel 2012, dopo il caso di Amina Filali, la sedicenne suicida perché secondo le nostre vecchie leggi costretta a sposare il suo violentatore, abbiamo riformato ulteriormente i nostri codici. Ora sono vietati i matrimoni ai minorenni e le ragazze hanno diritto di scelta. Però resta il problema dell’ignoranza diffusa. Per i poveri che non vanno a scuola in realtà cambia ben poco. Se non conosci i tuoi diritti non sai neppure come difenderti. È una legge universale.
Noi oggi abbiamo una donna a capo del ministero della Famiglia che ha avuto il coraggio di affermare che le famiglie che hanno un reddito quotidiano pari a 1,80 euro non sono povere. Quando le è stato chiesto cosa farebbe se sua figlia fosse violentata lei ha risposto che la cosa è impossibile, lasciando intendere che le violenze sessuali accadono solo tra poveri. Può anche essere vero. Ma i poveri costituiscono la maggioranza della popolazione dall’India all’Afghanistan al Medio Oriente allargato».
Nel suo libro «Il complesso di Medea», dopo aver trattato delle ingiustizie subite dalle donne nelle società mediterranee dove imperano le tre religioni monoteiste, affronta anche un tema molto delicato: sovente sono le donne anziane a comportarsi nel modo più duro e intransigente nei confronti delle ragazze, specie se belle e vergini. Tra l’altro spesso nelle società tribali sono le anziane a effettuare l’infibulazione sulle bambine e sono prima di tutti le madri a costringere le figlie nei matrimoni combinati. Donne vecchie contro giovani?
«In Marocco diciamo che il paradiso è sotto i talloni delle madri. In un mio libro del 1986 ho analizzato il vecchio sistema patriarcale giungendo alla conclusione che senza un forte matriarcato non può esistere il patriarcato. Parliamo di un sistema sociale che privilegia il gruppo, la tribù, il nucleo familiare allargato. Il maschio anziano domina, ma alle sue fondamenta sta la madre, la donna che da giovane ha rispettato le regole, ha generato figli funzionali al gruppo e nella maturità assurge a pilastro fondamentale della casa perpetuando le leggi che stanno alla radice di quel modo di essere. In quel mondo gli anziani non saranno mai abbandonati. I vecchi sono come i totem freudiani, rappresentano il potere e la sua continuità. Si tratta di un sistema sociale chiuso, assolutamente diverso dall’individualismo liberale occidentale, dove le giovani donne devono stare in casa a generare e curare i bambini. I figli maschi sono formalmente più liberi delle sorelle, però la loro dipendenza dalla madre è molto più forte».
Ovvio che lei abbia sempre scelto l’individualismo occidentale al tribalismo orientale, vero?
«Sempre. Non ho mai avuto dubbi! La mia libertà di donna, di intellettuale, di individuo con diritti e doveri non poteva esprimersi in altro modo se non nei canoni culturali e sociali occidentali. Mia madre non ebbe la mia libertà, sognava di studiare francese, ma le fu vietato, fu una vittima. Io amo scrivere negli aeroporti, viaggiare, essere sola a pensare. Se avessi dovuto sacrificare le mie aspirazioni personali alle regole sociali tribali non sarei mai diventata ciò che sono».
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Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO".
Federico La Sala
Lettera aperta ai dirigenti della Rai TV
"Pago il canone e pretendo che i giornalisti della tivù pubblica sappiano come nascono i bambini".
di Luisa Muraro
Le sindache (e i sindaci) d’Italia, possono credere nella cicogna che porta i bambini, ma quelli che preparano i telegiornali, no, loro no. Pago il canone e pretendo che i giornalisti della tivù pubblica sappiano come nascono i bambini. Nel telegiornale delle ore19 di sabato 28 aprile, hanno dato la notizia di un bambino che ha due padri, anzi “due papà”, e come tale è stato regolarmente iscritto all’anagrafe di Roma. Non sembrava l’annuncio di un qualche miracolo della scienza medica. La signora che ha letto la notizia, se, come dobbiamo supporre, era incredula, l’ha nascosto molto bene. E così dovranno fare, suppongo, le segretarie, le maestre, i parenti, i nonni, i pediatri, e via via, fino a quando l’interessato, reso consapevole, smetterà di annunciare che lui ha due papà. Che commedia sia questa, se questo è tutto il progresso in cui possiamo sperare, io non so. Dico solo una cosa ai dirigenti della Rai tivù: c’è un sacco di posto per la finzione, per la fantapolitica, per la finta realtà, per la pubblicità e la propaganda; evitate, per favore, di usare lo spazio delle notizie per raccontare certe storie. Prima ho detto “pretendo”, ma ho sbagliato, scusate, nei vostri confronti non ho diritti, pago il canone e ho l’obbligo di pagarlo in ogni caso.
*www.libreriadelledonne.it, 29 aprile 2018
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
Federico La Sala
Il Vangelo dalla parte della Maddalena
Escono in un libro gli esercizi spirituali che il cardinale Carlo Maria Martini tenne in Israele tra la fine del 2006 e l’inizio del 2007. Sono dedicati alla figura della santa peccatrice
di Vito Mancuso (la Repubblica, 16.03.2018)
La simpatia del cardinal Martini per Maria Maddalena appare evidente dalla prima all’ultima parola degli esercizi spirituali da lui tenuti in Israele tra la fine del 2006 e l’inizio del 2007, come evidente è la sua simpatia per le consacrate dell’Ordo Virginum della diocesi di Milano per le quali aveva preparato gli esercizi e alle quali diceva: «Vi riconosco nella vostra bellezza interiore ed esteriore, perché quando l’anima rimane nella sua costante proposta di servizio a Dio, rimane bella e questa bellezza si diffonde».
Io penso sia proprio così, e penso che Martini sia stato a sua volta un esempio di questa misteriosa connessione tra etica ed estetica avvertita già dagli antichi greci con l’ideale della kalokagathía, perché il morbo di Parkinson contro cui già allora combatteva, e che l’avrebbe portato alla morte il 31 agosto 2012, non giunse mai a privarlo della sua originaria e nobile bellezza.
Cosa siano gli esercizi spirituali lo spiega lo stesso Martini dicendo che non sono un corso di aggiornamento, né una lettura spirituale della Bibbia, né un’occasione di preghiera; sono invece “un ministero dello Spirito Santo”, nel senso che “è lo Spirito Santo che parla al mio cuore per dirmi ciò che vuole da me adesso”.
Gli esercizi spirituali sono quindi un tempo di ascolto e di raccoglimento per capire la propria situazione qui e ora, e come tali prevedono «un silenzio assoluto a tavola e anche negli altri momenti», perché, avverte Martini, «soltanto una parola detta qua e là disturba tutti».
Maria Maddalena è «il segno dell’eccesso cristiano, il segno dell’andare al di là del limite, il segno del superamento»: nell’eccedere della sua vita travagliata ma sempre dominata dall’amore, si dà per Martini la chiave privilegiata per «essere introdotti nel cuore di Dio».
Il cuore di Dio. Mediante la storia della Maddalena, Martini giunge a parlare di Dio, e parlando di Dio giunge a illuminare la logica e il ritmo dell’essere, cogliendo nell’amore il suo segreto più profondo: «Dio è tutto dono, è tutto al di là del dovuto e questo è il segreto della vita».
Individuare “il cuore di Dio” significa quindi per Martini individuare “il segreto della vita”. In questa prospettiva egli illumina magistralmente il paradosso dell’esistenza segnalando la dinamica profonda secondo cui ci si compie superandosi, ci si arricchisce svuotandosi, si raggiunge l’equilibrio perdendolo.
È la pazzia evangelica. La quale però, in quanto verità dell’essere, è universale, e quindi è avvertita anche al di là del cristianesimo, per esempio già da Platone che coglieva la medesima logica di eccedenza scrivendo che «la mania che proviene da un dio è migliore dell’assennatezza che proviene dagli uomini» ( Fedro 244 d). Maniaca in senso platonico, la Maddalena è definita da Martini “amante estatica”, cioè letteralmente “fuori di sé” e in questo modo è indicata quale via privilegiata per accedere al cuore di Dio.
Per lui è infatti evidente che «non può comprendere Dio chi cerca solo ragioni logiche», mentre lo può comprendere «chi vive qualche gesto di uscita da sé, di dedizione al di fuori di sé, al di fuori del dovuto», perché Dio, simbolo concreto del mistero dell’essere, “è uscita da sé”, “dono di sé”.
In questa prospettiva la Maddalena, perfetta esemplificazione della logica evangelica, fa capire che “solo l’eccesso salva”. Per “eccesso” Martini intende “uno squilibrio dell’esistenza”. E proprio questo è il punto: che la vita si alimenta di tale squilibrio. Il nostro universo non viene forse da un eccesso, cioè dalla rottura di simmetria all’origine del Big Bang? E la vita non è a sua volta squilibrio, essendo la morte, come disse Erwin Schrödinger nelle lezioni al Trinity College di Dublino, “equilibrio termico”? E cosa sono l’innamoramento e le passioni di cui si nutre la nostra psiche, se non, a loro volta, squilibrio?
Afferma Martini: «Quando definisco me stesso, mi definisco di fronte al mistero di Dio e mi definisco come qualcuno che è destinato a trovarsi nel dono di sé... e tutto questo si dà perché Dio è dono di sé». Prosegue dicendo che molti non capiscono Dio perché non lo collegano a questa dinamica di uscita da sé, visto che «soltanto quando accettiamo di entrare in questa dinamica della perdita, del dare in perdita, possiamo metterci in sintonia con il mistero di Dio».
In questa prospettiva Martini giunge a parlare di Dio secondo una teologia della natura che avrebbe fatto felice il confratello gesuita Pierre Teilhard de Chardin, riferendosi a «quella forza che potremmo dire trascendente, perché è in tutta la natura fisica, morale, spirituale ed è la forza che tiene insieme il mondo... la forza che si può concepire come una lotta continua contro l’entropia e il raffreddamento».
Anche il voto di verginità delle consacrate alle quali rivolgeva i suoi esercizi appare a Martini un segno di quell’eccesso di amore che fa sì che nel mondo non vi sia solo la forza di gravità che tira verso il basso, ma anche «una forza che tira verso l’alto, verso la trasparenza, la complessità e anche verso una comprensione profonda di sé e degli altri fino ad arrivare a quella trasparenza che è la rivelazione di ciò che saremo». Ovvero, conclude Martini, “la vita eterna”.
La categoria dell’eccesso
Maria Maddalena secondo il cardinale Martini *
L’eccesso è per Martini la “categoria” che ci consente non solo di comprendere il mistero di Dio adombrato nella passione, morte e risurrezione di Gesù, ma ciò che esprime il senso profondo dell’essere cristiano, della maturità cristiana.
Ancora una volta è attraverso i personaggi di Giovanni che Martini costruisce questa sua visione, in particolare è Maria di Magdala a guidarci in questo ultimo tratto di cammino. «Maria di Magdala è una figura particolarmente importante nei Vangeli, è il prototipo della persona che accede alla fede nel Risorto. Se gli altri due episodi narrati da Giovanni rappresentano piuttosto una comunità che accoglie il mistero della Risurrezione, l’episodio che ha per protagonista la Maddalena è piuttosto dedicato al singolo credente o meglio al non credente che diventa credente».
Chi è Maria Maddalena? Tutti i vangeli la annoverano tra le donne che si recano al sepolcro. Forse, dice Martini, tale menzione indica «una qualche funzione di leadership», ma non abbiamo elementi sufficienti. Compare inoltre nei racconti della passione e nella vita pubblica di Gesù, dove è messa «sullo stesso piano dei discepoli». La sua figura però si può comprendere anche grazie al confronto con altre figure femminili presenti nel vangelo. Per esempio la peccatrice in casa di Simone, le «Marie di Betania» e, infine, la sposa del Cantico; come lei, la Maddalena «ha cercato Gesù con una passione inesausta, con una perseveranza invincibile e di conseguenza è una figura della ricerca di Gesù e del Signore risorto». Tutte rimandano in qualche modo a un «eccesso d’amore».
Nel testo si legge che il primo giorno dopo il sabato Maria si reca al sepolcro «di buon mattino», quando era ancora buio. Un atteggiamento inusuale e anche un po’ rischioso, che la dipinge fin da subito come una «donna che supera le convenzioni». Esce di casa perché non si dà pace e non si preoccupa di ciò che può capitarle o di ciò che può pensare la gente. Quando arriva al sepolcro ha una prima intuizione degli eventi, ma ancora parziale, distorta. -Sconvolta, va da Simon Pietro e dagli altri discepoli, ma, fa notare Martini, riferisce una sua versione dei fatti. In fondo cosa ha visto? La pietra ribaltata e il sepolcro vuoto; su questi elementi costruisce una storia; il corpo di Gesù è stato rubato. L’inquietudine di non sapere dove lo hanno portato non le dà pace.
* L’Osservatore Romano, 17 luglio 2017
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MICHELANGELO E LA SISTINA (1512-2012). I PROFETI INSIEME ALLE SIBILLE PER LA CHIESA UN GROSSO PROBLEMA .... DOPO 500 ANNI, PER IL CARDINALE RAVASI LA PRESENZA DELLE SIBILLE NELLA SISTINA E’ ANCORA L’ELEMENTO PIU’ CURIOSO. Materiali sul tema, per approfondimenti
Federico La Sala
N. Fraser, Scales of Justice. Reimagining Political Space in a Globalizing World, Polity Press, Cambridge (UK) 2008, pp. 224, ISBN 978-07456-4486-8 *
di Brunella Casalini (Jura Gentium. Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale)
Giocando sulla plurivocità semantica del termine inglese "scales", con il titolo Scales of Justice Nancy Fraser evoca due immagini: la bilancia come simbolo classico della capacità della giustizia di agire in modo imparziale e lo spazio cui necessariamente deve far riferimento qualsiasi teoria della giustizia. Sia il concetto di imparzialità sia la dimensione spaziale della giustizia sono oggi oggetto di una contestazione radicale. La contrapposizione tra paradigma redistributivo e paradigma del riconoscimento si è mossa oltre la problematica della risoluzione equa dello scontro tra rivendicazioni conflittuali; è infatti la sostanza stessa dell’idea di giustizia ad essere messa in discussione da coloro che si dividono sulla priorità di redistribuzione e riconoscimento, presentandole come istanze incommensurabili che non possono trovare risposta semplicemente pesandole sulla stessa bilancia.
Una teoria della giustizia che tenga conto delle diverse concezioni sostantive della giustizia oggi presenti nel dibattito politico, qualora ritenga che ciascuna di esse colga aspetti importanti e diversi del fenomeno dell’ingiustizia, secondo la Fraser, deve rispondere a due sfide: la prima consiste nel vedere cosa possa essere salvato dell’ideale dell’imparzialità e come esso possa essere riformulato, la seconda nel decidere contestualmente, accettando l’esistenza di una pluralità di prospettive, a quale visione della giustizia dare di volta in volta maggiore attenzione.
Da Justice Interruptus (1997) all’acceso confronto con Axel Honneth, contenuto in Recognition or Redistribution?, la Fraser ha tentato di superare la contrapposizione tra paradigma del riconoscimento e paradigma redistributivo, mediante due operazioni principali: 1) una teorizzazione del riconoscimento incentrata sulla differenza di status, che tende a separare la politica del riconoscimento dalla politica dell’identità, e a vedere nel mancato riconoscimento un’ingiustizia, un impedimento alla parità partecipativa, e non un ostacolo all’autorealizzazione e una ferita psichica (come nei modelli di Honneth e Taylor); e 2) la formulazione di un dualismo di prospettiva capace di cogliere analiticamente tanto le dinamiche di esclusione connesse alle caratteristiche intrinseche del sistema economico capitalistico quanto quelle legate al sistema simbolico-culturale, così da poter proporre soluzioni di volta in volta diverse a seconda delle specifiche condizioni di particolari gruppi sociali e dei presupposti necessari a garantire la parità partecipativa.
Accusata di aver dimenticato il ruolo autonomo della sfera politico-giuridica e l’importanza delle discriminazioni che avvengono sul piano prettamente giuridico e politico, a cominciare dal saggio Redefining Justice in a Globalizing World (2005, qui ripubblicato), Nancy Fraser ha posto accanto alla dimensione culturale del riconoscimento e alla dimensione economica della redistribuzione, una terza dimensione specificamente politica: la dimensione della rappresentanza.
Il criterio della rappresentanza risponde a una questione decisiva oggi nei dibattiti intorno alle diverse teorie della giustizia, dibattiti che non vertono più sul "che cosa" la giustizia deve riconoscere, ma sempre più su "a chi" deve riconoscerlo, su quali sono e come si determinano i confini della comunità cui una teoria della giustizia intende applicarsi.
La theory of justice as parity of participation della Fraser viene così a configurarsi come una teoria tridimensionale, che costituisce una sorta di ripresa e revisione della triade weberiana di classe, status e partito - cui, del resto, l’autrice esplicitamente si è richiamata fin dall’inizio nella sua ridefinizione del paradigma del riconoscimento.
L’aggiunta della terza dimensione appare inscindibile dall’attenzione per la questione del framing, dell’inquadratura dello spazio entro cui si pongono problemi di giustizia. In un contesto post-socialista, post-fordista e soprattutto post-westphaliano le ingiustizie sono insieme incentrate su questioni di misrecognition, misredistribution e misframing. Distribuzione e riconoscimento potevano essere considerate come le due dimensioni cruciali della giustizia finché il quadro di riferimento dello stato-nazione era dato per scontato.
Con la globalizzazione e la contestazione della cornice keynesiano-westphaliana, la dimensione politica emerge come la terza dimensione fondamentale nell’ambito delle teorie della giustizia. Domanda cruciale diviene infatti se la teoria della giustizia debba continuare a muoversi nello spazio della cittadinanza nazionale, se debba divenire cosmopolitica o se debba venire a riguardare le "comunità transnazionali del rischio".
La Fraser si è sentita inizialmente vicina alle posizioni di coloro che - come Iris Marion Young - hanno cercato di arrivare alla formulazione di una concezione transazionale mediante l’individuazione dei soggetti destinatari della giustizia in base al c.d. "all affected principle", ovvero in base ad un principio che fa riferimento alla possibile co-implicazione oggettiva di soggetti anche lontani tra loro in una rete di relazioni causali che può scavalcare i confini nazionali. Ora, Fraser riconosce due limiti a questa soluzione teorica: da un lato, il rimando a reti causali oggettive sembra delegare alle scienze sociali l’individuazione dei soggetti interessati; dall’altro, a causa del paradosso prodotto dal c.d. butterfly principle, per cui siamo tutti influenzati da tutto, rischia di non riuscire a delimitare lo spazio di relazioni sociali rilevanti.
Per ovviare a questi inconvenienti, l’autrice propone quale alternativa il c.d. all subjected principle, in base al quale chi è soggetto ad una data struttura della governance (concepita in senso lato in modo da poter comprendere non solo gli stati, ma anche, per esempio, le organizzazioni non governative e agenzie come il WTO e il IMF), ha diritto ad essere riconosciuto come destinatario di giustizia da parte di quella medesima struttura. Il principio all subjected individua non un unico "chi" destinatario della giustizia, ma una pluralità di "chi" collocati a livello locale, nazionale, regionale e, in alcuni casi, globale.
L’individuazione dei soggetti destinatari della giustizia transazionale può avvenire soltanto lasciando voce alla contestazione e al dialogo ai diversi livelli e creando canali istituzionali formali che consentano di arrivare a decisioni vincolanti. In questa direzione, la Fraser guarda al ruolo che rivestono oggi i movimenti sociali globali: la loro contestazione del quadro westphaliano è insieme un modo per rivendicare il diritto a determinare il "chi" della giustizia e il "come" arrivare alla sua definizione.
Sbagliano tuttavia, secondo la Fraser, i sostenitori delle visioni populiste, à la Negri e Hardt, che collocano il nesso contestazione/decisione nella società civile, perché le formazioni presenti nella società civile non sono da sole capaci di trasformare le loro proposte in decisioni politiche stringenti e perché esse mancano di rappresentatività e democraticità per poter rivendicare il diritto a ridisegnare i confini della giustizia. Una giustizia transnazionale richiede adeguati canali istituzionali che rispondano alla società civile, ma funzionino al tempo stesso secondo eque procedure e un sistema di rappresentanza che ne assicuri il carattere democratico dando legittimità alle decisioni prodotte. I tratti delle nuove sfere pubbliche transnazionali e delle nuove istituzioni democratiche globali rimangono, tuttavia, al momento, estremamente vaghi nel disegno della Fraser, che evita qui, per altro, di confrontarsi criticamente con le istituzioni sovranazionali esistenti, con i loro limiti e le loro possibilità di riforma.
* La bilancia della giustizia. Ripensare lo spazio politico in un mondo globalizzato di Nancy Fraser edito da Pensa Multimedia, 2012.
FILOSOFIA DELLA RIVELAZIONE. "L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE": "GENERARE DIO". L’immaginario del cattolicesimo romano....
Narciso e l’arte di restare a galla: una lezione di Massimo Cacciari
di Luisa Muraro *
Narciso non sapeva niente di narcisismo. Il pastorello vanitoso si sporge per specchiarsi, casca nello stagno e annega. Doveva venire in Italia a imparare dai nostri uomini di spicco. Specchiarsi e, soprattutto, restare a galla, è un’arte. Per esempio, come fa il narciso italiano quando succedono cose notevoli che lo mettono ai margini? Aspetta un po’ che passino ma se non passano, come sta succedendo con il femminismo?
Massimo Cacciari, intervistato sul suo ultimo libro risponde con una lezione esemplare.
Il suo libro è di argomento teologico ed è il giorno di Natale. Il Professore si vanta di aver fatto una scoperta filosofica, teologica e politica su Maria di Nazareth. L’intervistatore, Nicola Mirenzi, è ammirato ma mostra incredulità. L’intervistato ammette di non essere stato il primo e fa il nome di un grande teologo del passato. L’intervistatore chiede: come mai neanche le femministe si sono dedicate a pensare la grandezza di Maria? Neanche loro, conferma il professore. Dice il falso ma lui non teme che la verità gli secchi la lingua perché non la sa, lui di femminismo non ha mai voluto saper niente con un minimo di precisione. L’ignoranza, però, non basta più con i tempi che corrono, ci vuole un tampone e Cacciari l’ha pronto. Ripete un elogio del femminismo fatto da altri (sempre lo stesso, “ultima vera rivoluzione” ecc.). Intanto pensa: nessuno può lontanamente aver visto quello che ho visto io! E a voce alta dice: le femministe “sono rimaste vittime della lettura maschilista dell’incarnazione, hanno guardato Maria come una figura servile, totalmente oscurata dal rapporto tra padre e figlio, non riuscendo a scorgere quello che c’è oltre”. Questa è la mossa classica dell’intellettuale italiano: s’inventa una posizione “femminista” fasulla, che gli pare verosimile e che trova facile da eliminare.
Termina così l’intervista; la trovate su Huffington Post, che in seguito ha pubblicato l’intervento di Nadia Lucchesi su questo argomento; lo trovate anche qui.
Inventarsi un femminismo finto, dopo quasi mezzo secolo di un movimento che sta modificando i tratti di una civiltà, e uno studioso di chiara fama che crede di poterlo fare impunemente, tutto questo non sarebbe possibile senza la complicità dei suoi pari e dei mass-media che vanno per la maggiore. È questo un andazzo che è durato troppo e danneggia il nostro paese. Da notare però anche, in questo caso, un certo desiderio maschile di mettersi alla luce della differenza femminile. Nadia Lucchesi e le sue amiche sono intervenute a smentire il Professore con molta serenità, come se, sotto le sue arie da grande pensatore, riconoscessero uno dei pastori che andarono alla grotta di Betlemme. (Luisa Muraro)
Il commento di Nadia Lucchesi e amiche all’intervista di Massimo Cacciari
Se i filosofi hanno ignorato Maria, le filosofe ne hanno invece valorizzata la figura, liberandola dagli stereotipi e dalle incomprensioni della tradizione. Penso, per nominarne alcune, a María Zambrano, a Simone Weil e a Edith Stein. Le femministe hanno guardato ben oltre la lettura maschilista dell’incarnazione: come scriveva Luisa Muraro nel 2011 «Data la scarsa conoscenza del femminismo, dovuta più alla novità delle idee che all’ignoranza delle persone, vi capiterà di leggere che noi femministe eravamo contro la figura di Maria. No, non solo la mariologia fu un terreno di coltura del femminismo cattolico, ma anche le agnostiche si sono dedicate a strappare Maria alla devozione di tipo patriarcale. Penso al Magnificat di Rosetta Stella (Marietti)... Di Maria si è enfatizzato il protagonismo, la mobilità, l’autonomia. La sua verginità è stata interpretata in termini d’indipendenza simbolica dagli uomini. Fondamentale è stato l’apporto di Luce Irigaray, che, dagli anni Ottanta, ha contribuito a diffondere un nuovo linguaggio religioso...» (Maria. Il latte della Vergine, Madre di Dio e Dio lei stessa, Il manifesto - Alias, 24 dicembre 2011).
Infatti, Luce Irigaray ha pubblicato nel 2010 «Il mistero di Maria» (Edizioni Paoline, 2010), mentre nel 2002 Nadia Lucchesi aveva dato alle stampe «Frutto del ventre, frutto della mente: Maria, madre del Cristianesimo» (Luciana Tufani, Ferrara 2002).
Nel 2014 si è svolto a Venezia il convegno «Rivisitazione di Maria. Per una teologia in lingua materna», a cura di Laura Guadagnin e Grazia Sterlocchi delle associazioni Settima Stanza e Waves in collaborazione col Centro Donna, mentre a Roma, all’interno del progetto speciale culturale Biblioteche di Roma 2014 «Presenza e mistero di Maria», Annarosa Buttarelli e Suor Michela Porcellato sono intervenute sul tema: «La sovranità di Maria di Nazareth».
Raffaella Molinari e Monica Palma, relatrici di un intervento dal titolo «Maria della Sororità, Nostra Signora Nostra Sorella» continuano il lavoro straordinario di Ivana Ceresa, fondatrice della Sororità, un ordine religioso posto sotto l’autorità di Maria, concepita come figura di donna potente.
Da più di cinquant’anni, inoltre, Angela Volpini diffonde un’immagine di Maria che rappresenta l’umanità realizzata e ci insegna la “via della felicità sulla terra”.
Non parlo dei tantissimi contributi delle teologhe cattoliche e non, che hanno interpretato in modo non tradizionale la figura della Vergine, della Maestra di Sapienza: cito, per nominarne solo una, Elisabeth Schüssler-Fiorenza, teologa statunitense, femminista cattolica, autrice di due opere fondamentali: «In memoria di Lei» (Claudiana, Torino 1990) e «Gesù, figlio di Myriam, profeta della Sophia» (Claudiana, Torino 1996).
* www.libreriadelledonne.it, 19 gennaio 2018
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO". Una riflessione di Massimo Cacciari su "cosa significa ereditare il passato"
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI. In memoria di Kurt H. Wolff.
Federico La Sala
L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO: IL MAGGIORASCATO. UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"...
La relazione
Quarant’anni di un diritto
Così la legge 194 ha fatto crollare gli aborti in Italia
di Maria Novella De Luca (la Repubblica, 16.01.2018)
ROMA «Le donne hanno smesso di morire d’aborto, basterebbe questo per dire che la legge 194 ha funzionato e funziona. E io me le ricordo, quarant’anni fa, quelle donne e ragazze che arrivavano di notte in ospedale, devastate dalle emorragie dopo le famose interruzioni con il ferro da calza. Molte restavano mutilate per sempre. Con la legge 194 l’aborto ha smesso di essere una questione privata per diventare una questione sociale di cui lo Stato si è fatto carico. È stata una rivoluzione. Imperfetta, ma una rivoluzione». Carlo Flamigni ha 85 anni, è uno dei ginecologi più famosi d’Italia, pioniere della fecondazione assistita, ma anche protagonista di quella battaglia che negli anni Settanta ha cambiato nel profondo la nostra società, la famiglia, la maternità.
Approvata nel 1978, confermata dal referendum del 1981, la legge sull’aborto compie quarant’anni il 22 maggio prossimo. Un tempo abbastanza lungo per fare un bilancio, come infatti suggerisce la Relazione al Parlamento sull’attuazione della 194 presentata dalla ministra Lorenzin, dove per la prima volta si tenta una “analisi storica”. E se i numeri di quest’anno confermano la drastica riduzione degli aborti, passati dai 234.801 del 1982 (l’anno in cui le “Ivg”, interruzioni volontarie di gravidanza, raggiunsero il massimo storico) ai 84.926 del 2016, nello stesso tempo si assiste a un vero e proprio boom della contraccezione d’emergenza. In particolare dell’uso della “pillola dei cinque giorni dopo” (EllaOne) le cui vendite, dopo la caduta dell’obbligo di ricetta medica per le donne maggiorenni, è passata dalle 7mila confezioni del 2012 alle 189.589 del 2016. Se dunque abbiamo imparato a non abortire (pur potendo farlo), sul fronte dell’uso di pillola e condom siamo davvero indietro. Di fatto una contraddizione.
Ma al di là dei dati di oggi, nello sguardo sui 40 anni della legge, la Relazione afferma un principio fondamentale. «L’aborto volontario, dopo una prima fase iniziale, è costantemente diminuito e non è mai stato un mezzo di controllo delle nascite».
Se pensiamo che nel 1961, come denunciò una famosa inchiesta di “Noi donne”, gli aborti clandestini superavano il numero (spaventoso) di un milione l’anno, è evidente quanto la legge del 1978 abbia segnato il passaggio da un’Italia quasi post contadina a un’ Italia moderna. Livia Turco, a lungo parlamentare del Pd, ministra delle Pari Opportunità e poi della Salute, quella stagione da giovane militante comunista se la ricorda bene. E al tema della difesa della legge 194 ha dedicato un bel libro uscito di recente: “Per non tornare nel buio”. Perché in fondo nulla è garantito. E le proposte di revisione (restrittiva) della legge si susseguono ad ogni legislatura.
«Lo scontro fu feroce e lacerante. La Destra e una parte dei Cattolici dicevano che la legalizzazione avrebbe fatto aumentare a dismisura il numero degli aborti, banalizzandone la scelta. Invece oggi si dimostra che l’autodeterminazione delle donne ha prodotto una cultura della responsabilità e soprattutto si è arginata la piaga dell’aborto clandestino. Ma è della applicazione della 194 che bisogna tornare a parlare, uscire dal cono d’ombra». Perché l’obiezione di coscienza è ormai un dramma.
Spiega Livia Turco: «Ci sono interi ospedali dove le interruzioni non vengono praticate e le donne devono migrare di regione in regione, spesso con il rischio di superare i tempi legali. E poi i dati sul ricorso alla pillola del giorno dopo dimostrano che è sulla contraccezione che bisogna investire, pensando ai giovani, rendendola gratuita. Ma credo che una maggiore diffusione della Ru486, l’aborto farmacologico, potrebbe mitigare il ricorso all’obiezione di coscienza».
Immigrate, ragazze giovani. Sono loro le donne più a rischio. (Il 30% di tutte le interruzioni riguarda le straniere). Silenzio e solitudine i loro nemici.
Racconta Carlo Flamigni: «A 40 anni dalla sconfitta delle mammane e dei cucchiai d’oro, ci troviamo di fronte a un nuovo tipo di clandestinità che il ministero rifiuta di vedere. Avete presente quante pillole per abortire si possono comprare su Internet? O farmaci che comunque aumentano la contrazioni uterine? La legge 194 va protetta e pubblicizzata, la contraccezione favorita in ogni modo. Altrimenti si torna indietro».
Michele Mariano è l’unico ginecologo non obiettore del Molise. Dirige un piccolo reparto di eccellenza all’ospedale “Cardarelli” di Campobasso, dove applica la legge 194. «Ormai da me arrivano donne da tutto il centro Sud. È incredibile. Dal Lazio, dall’Abruzzo, dalla Campania, perché i centri chiudono. Fanno centinaia di chilometri ma sanno che qui saranno accolte. E poi le migranti, spesso sbarcano in Italia già incinte. Ho visto troppe donne rovinate dagli aborti clandestini prima che ci fosse la legge, per questo continuo a lavorare in trincea, praticando 400 aborti l’anno. Sono orgoglioso di quello che faccio, ma sa qual è l’amarezza? A 40 anni dalla nascita di questa legge, noi che l’abbiamo voluta, siamo anche tra gli ultimi ginecologi ad applicarla, perché ormai tutti obiettano. Cosa accadrà quando andremo in pensione?».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
La Costituzione non è mai al sicuro, occhio ai programmi elettorali
1947-2017. La Carta come una bussola nella sfida del voto
di Anna Falcone (il manifesto, 28.12.2017)
Sarà la cifra tonda, sarà che questo compleanno della Costituzione arriva dopo la schiacciante vittoria referendaria del 4 dicembre, fatto sta che mai come quest’anno la ricorrenza della firma è stata fortemente sentita dagli italiani, che hanno partecipato in tanti alle iniziative organizzate per l’occasione in tutta Italia. E non solo per rinnovare il ricordo: questa celebrazione e il messaggio che ne scaturisce assumono un valore cruciale per le prossime elezioni politiche.
Lo hanno giustamente sottolineato Felice Besostri ed Enzo Paolini nell’articolo pubblicato ieri sulle pagine di questo giornale. Perché chi ha vinto la battaglia referendaria, e continua a difendere davanti alle Corti le ragioni della legittimità costituzionale delle leggi elettorali, o a sostenere chi lo fa, non potrà sottrarsi, al momento del voto, a un giudizio di coerenza fra schieramenti politici e rispetto del voto referendario.
Il fatto che a 70 anni dalla sua entrata in vigore la Costituzione è e rimane, in gran parte, inattuata rappresenta - per chi voglia raccoglierla seriamente - la sfida politica per eccellenza delle prossime elezioni. Non a caso, molti elettori ed elettrici, che non si rassegnano all’esistente, chiedono agli schieramenti in campo di ripartire proprio dall’attuazione della Costituzione e dalla implementazione dei diritti già riconosciuti dalla Carta quale antidoto alle inaccettabili diseguaglianze del nostro tempo. Un passaggio necessario, se non indispensabile, per rafforzare la credibilità dei programmi politici e, auspicabilmente, ricucire quel rapporto di fiducia fra politica e cittadini mai così in crisi. Un vulnus democratico tradotto in un astensionismo che sfiora ormai il 55% dell’elettorato: dato più che allarmante a cui non ci si può e non ci si deve rassegnare.
Rilanciare il messaggio della necessaria difesa e attuazione della Costituzione - in particolare delle norme che garantiscono il pieno e trasparente esercizio della democrazia e attribuiscono alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli che alimentano e aggravano le condizioni di diseguaglianza fra cittadini - diventa, allora, cruciale, soprattutto alla vigilia di una tornata elettorale le cui regole saranno scandite dall’ennesima legge elettorale ad alto rischio di incostituzionalità.
Pur nella piena consapevolezza che la Costituzione non delinea un programma univoco, capace di blindare le scelte dei diversi governi - è necessario riconoscere, infatti, e una volta per tutte, che esiste un nucleo duro di principi e diritti fondamentali inderogabili che ogni forza politica deve impegnarsi ad attuare, nelle forme e nei modi che ritiene più opportuni, per rispettare quella fedeltà alla Costituzione che li lega indissolubilmente alla Repubblica e ai suoi compiti costituzionali. Un patto democratico di diritti e obiettivi programmatici, inequivocabilmente vincolanti, che deve tornare ad essere il cuore di ogni programma elettorale. Soprattutto a Sinistra.
Sia chiaro: non è un’indicazione di voto, ma il suggerimento a una riflessione suppletiva sul voto e su chi auspicabilmente si impegnerà in maniera chiara e credibile a difendere e attuare la Costituzione. Nella piena consapevolezza che un tale ambizioso obiettivo, per essere concreto, deve essere condiviso da tanti, e non è monopolizzabile da pochi o da forze marginali. Perché la Costituzione non è perfetta, né intoccabile, ma è l’unico punto certo che abbiamo, il primo “bene comune” in cui si riconoscono gli italiani in questa difficile fase di transizione democratica. Se questa virerà verso il restringimento progressivo degli spazi di partecipazione e di democrazia o verso modelli più avanzati dipenderà anche dal se e come eserciteremo il nostro diritto di voto.
In tal senso, l’astensionismo, anche come forma estrema di protesta, più che sortire un ‘ravvedimento’, rischia di favorire le destre nel prossimo Parlamento, e con esse la formazione di uno schieramento largo e più ampio della compagine del futuro governo che, se non arginato, potrebbe trovare i numeri per unire le forze di quanti - avendo fallito le riforme del 2006 e del 2016 - potrebbero convergere su un progetto analogo, se non peggiore. Un’operazione che, (ipotesi remota, ma non impossibile) qualora dovesse raccogliere il sostegno dei 2/3 dei componenti di ciascuna Camera potrebbe non dare spazio neppure alla raccolta delle firme per chiedere il referendum costituzionale e, con esso, il pronunciamento popolare.
Per questo è necessario sollecitare le forze politiche in campo affinché si pronuncino, tutte, sul loro programma costituzionale: sul se e come intendano intervenire sulla Costituzione; sul se e come intendano dare attuazione al suo nucleo duro di principi e diritti inderogabili; sul se e come intendano metterla “in sicurezza” da possibili incursioni di future maggioranze gonfiate. Perché non ci si debba più trovare in futuro a contrastare una riforma o, peggio, una riscrittura della Carta, di parte e neppure menzionata nei programmi elettorali e adeguatamente dibattuta nel Paese. Ai tanti italiani che si sono recati al voto il 4 dicembre, almeno questo, è dovuto.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
Il pretesto della pazzia
Le donne ribelli o vittime di violenza erano spesso rinchiuse in manicomio
Un saggio di Annacarla Valeriano (Donzelli) sull’uso degli ospedali psichiatrici come strumento per colpire i comportamenti femminili ritenuti trasgressivi. Una pratica intensificata sotto il fascismo ma proseguita anche nel dopoguerra
di Paolo Mieli (Corriere della Sera,12.12.2017)
Un lavoro straordinario, quello portato a compimento da Annacarla Valeriano, che ha passato in esame le cartelle cliniche delle ricoverate nel manicomio Sant’Antonio Abate di Teramo, a partire dall’ultimo decennio dell’Ottocento fino al 1950, per definire un «percorso dell’esclusione» assai particolare. Esclusione che «tende a essere interpretata spesso come una condizione ineluttabile toccata in sorte ai più deboli, ai più disperati, la naturale conseguenza di stili di vita condotti fuori dagli schemi». E che proprio per questo «appare» come un «oggetto» opaco, «confinata ai margini di società in continua trasformazione o racchiusa tra le mura di un luogo deputato a gestirla, fino a farne perdere le tracce».
Un «percorso» che inizia, ovviamente, ben prima della marcia su Roma, ma che - come vedremo - trova il suo culmine ideologico proprio nel ventennio mussoliniano. Ne è venuto fuori un libro prezioso, Malacarne. Donne e manicomio nell’Italia fascista (Donzelli), che, è prevedibile, verrà discusso con grande interesse.
In principio - come ha raccontato David Forgacs in Margini d’Italia. L’esclusione sociale dall’Unità a oggi (Laterza) - fu la legge del 1904, imperniata sul concetto del malato di mente come persona pericolosa e «non più adeguata all’evoluzione sociale dei tempi» che dovrà essere iscritta nel casellario giudiziario come da imposizione dell’articolo 604 del Codice di procedura penale.
Un’importante questione sarà in tempi immediatamente successivi quella della «cornice eugenetica» all’interno della quale, già nel corso della Prima guerra mondiale, andrà collocato il trattamento delle donne (ma non solo) negli ospedali di cura delle malattie mentali. Il punto di riferimento era, però, precedente all’esplosione del conflitto, per la precisione il primo Congresso internazionale di eugenica tenuto a Londra nel 1912, i cui risultati erano stati immediatamente recepiti e portati nel nostro Paese dal Comitato italiano per gli studi di eugenica, nato nel 1913 proprio per «studiare i fattori che possono determinare il progresso o la decadenza delle razze, sia sotto l’aspetto fisico, sia sotto quello psichico».
Ma, avverte Valeriano, l’eugenica italiana - a differenza di quel che si potrebbe credere - non era affatto in sintonia con quelle dell’Europa settentrionale: la prevenzione, l’igiene, il recupero morale delimitarono i confini del discorso scientifico in Italia e consentirono al nostro Paese di non sfociare nelle «esagerazioni» tedesche.
Poi venne la Grande guerra. Le donne ricoverate in frenocomio tra il 1915 e il 1918 - «con patologie che sembravano avere un collegamento diretto con i traumi bellici» - «furono probabilmente inquadrate in quella categoria psichicamente tarata, incapace di sopportare l’urto degli eventi, sulla quale era bene adottare delle misure di risanamento».
Se si guarda alle cartelle cliniche, «è facile accorgersi di come ad essere medicalizzata fosse stata la sfera dei sentimenti»: «emotività, paura, rifiuto, quando non incanalati», erano deviati in «un indicibile tormento», con «manifestazioni a colorito depressivo che avevano perlopiù congelato le pazienti in stato di torpore e apatia». In questa dimensione sospesa «tutto il mondo si era annullato ed era rimasta in piedi solo la violenza del trauma vissuto».
L’immobilità, l’incapacità di assolvere i ruoli, di accudire i figli e di «far continuare la vita» - come scrive Anna Bravo in Donne e uomini nelle guerre mondiali (Laterza) - il non essere più le stesse persone che gli uomini avevano lasciato a casa nel giorno dell’arruolamento, animano i documenti che fotografano «un microcosmo femminile lacerato dall’esperienza bellica, irrimediabilmente compromesso nelle sue consuetudini». Bombardamenti, «ansie, attese, paure, fame erano divenuti orizzonti familiari nella quotidianità delle donne e non tutte riuscirono a uscirne indenni». Quantomeno negli equilibri psichici. I «deliri di perdizione e di rovina» erano «una manifestazione tipica dell’angoscia indotta dalla guerra». Attraverso la negazione del proprio corpo, della propria personalità, del proprio essere nel mondo aveva trovato espressione la sensazione di essere state tagliate fuori da un universo di valori e di abitudini al quale non si sarebbe più fatto ritorno.
In Italia il cosiddetto «grande internamento manicomiale», scrive Valeriano, può essere individuato in un periodo tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. Ed è nel corso di questi decenni che viene edificato un consistente numero di manicomi su tutto il territorio nazionale. Questo periodo coincide con la nascita di un Paese moderno «così come siamo abituati a pensarlo oggi». Un «Paese moderno» nel quale, accanto alle campagne, cominciavano a svilupparsi grandi agglomerati urbani capaci di accogliere famiglie sempre più numerose, in cui compaiono «infrastrutture potenziate» anche dal sistema manicomiale, concepito per «assistere la follia», ma usato «soprattutto per mantenere l’ordine pubblico e la tutela della moralità, attraverso la presa in carico della pericolosità sociale e del pubblico scandalo».
Questo aspetto «già dispiegato all’indomani dell’Unità d’Italia, si irrobustisce negli anni del fascismo quando, con la stretta repressiva attuata dal regime, si ampliano i contorni che circoscrivono i concetti di marginalità e devianze».
I manicomi, di riflesso, accentuano la loro dimensione di controllo, affiancandosi allo Stato per contribuire a plasmare «uomini e donne chiamati ad assolvere una serie di compiti che rispecchiano il clima dei “tempi nuovi” e a mettere le proprie vite al servizio della “rivoluzione fascista”». È in questa fase storica che in manicomio finisce la «malacarne» che, «nella sua destinazione di genere», è composta da «quelle donne che si discostano dall’ideale fascista della sposa e madre esemplare e che con le loro condotte intemperanti, con le loro esuberanze, con la loro inadeguatezza fisica, rischiano di intaccare il patrimonio biologico e morale dello Stato».
Attorno a queste «anomalie della femminilità», ridotte dallo sguardo psichiatrico a semplici «corpi» che «non eseguono più i loro doveri e che si dimostrano incapaci di qualsiasi freno», il regime mussoliniano «intreccia discorsi diversi, attingendo in larga parte alle costruzioni culturali di matrice positivista intessute per conferire un’identità a quelle frange marginali che sono in antitesi con la parte sana della società».
Dalla consultazione della documentazione medica e della pubblicistica di regime «balza però agli occhi come i “discorsi” sulle donne diverse non siano una novità introdotta dal fascismo ma siano stati, semmai, ideologicamente utilizzati nel corso del Ventennio per delimitare la devianza femminile e contrapporre ad essa un’immagine pubblica di femminilità disposta ad assolvere compiti e doveri nell’interesse comune». Si tratta «di un’operazione di reinvenzione delle identità femminili».
Attuata dal regime «con la volontà esplicita di inserire anche le donne in un più ampio progetto di educazione spirituale e morale, al fine di trasformarle in cellule organicamente produttive, soggetti capaci di interagire armonicamente con l’apparato statale, fondendosi in esso come ingranaggi perfettamente sincronizzati». L’ospedale per «malati di mente», in uno scenario di questo tipo, «oltre a controllare e custodire l’anormalità, diventa», scrive Valeriano, «uno dei luoghi in cui attuare una politica di sorveglianza che annulla i diritti individuali in nome dell’ordine pubblico».
All’istituzione psichiatrica vengono consegnate «quelle donne che si rifiutano di conformare il proprio stile di vita agli ideali proposti dal fascismo e che, proprio per questa ragione, hanno bisogno di essere rieducate attraverso la disciplina manicomiale per riportare le loro condotte entro i recinti di una normalità biologicamente e socialmente costruita».
Lo stesso richiamo alla «normalità biologica» diventa essenziale all’interno della politica sanitaria che, già a partire dal 1927, si incardina sui temi della «difesa» e della «cura della razza» e si impegna per la «realizzazione di obiettivi di politica demografica attraverso l’allontanamento dalla società di coloro che, tarati sotto il profilo somatico e morale, non possono trovare altro spazio di accoglienza se non in luoghi - come i manicomi - deputati al trattamento dei comportamenti più turbolenti e al risanamento degli istinti deviati».
In questo sistema assistenziale, «riprogrammato sugli obiettivi di politica demografica», i manicomi «conoscono uno sviluppo sostanziale e registrano per tutto il Ventennio un aumento costante dei ricoverati, tanto che tra il 1927 e il 1941 i pazienti passano da circa sessantamila a quasi novantacinquemila unità». Tra le loro mura vengono rinchiuse «le madri inadeguate - che hanno ricusato un ruolo materno vissuto come costrittivo - oppure le ragazze ribelli, colpevoli di non saper controllare pulsioni sessuali, caratteri indomiti, e assimilate, in diversi casi, a vecchie figure patologiche come le isteriche di Charcot»; ma anche donne che oggi tutti sarebbero naturalmente portati a «tutelare», come «le vittime di violenza carnale o dei traumi di guerra».
Poi il fascismo cadde, ma il secondo dopoguerra fu, per la «malacarne», ugualmente terribile. Annacarla Valeriano riporta alla luce diversi casi inquietanti. Quello della giovane ricoverata dopo essersi ribellata allo zio e alla madre, con i quali aveva avuto dissidi e «litigi continui», finché il medico di famiglia l’aveva dichiarata «affetta da isterismo di alto grado».
La presa di coscienza avvenne solo negli anni Sessanta. Dapprima con un libro di Lieta Harrison, Le svergognate (Edizioni di Novissima). Poi con una serie di articoli di Angelo Del Boca, successivamente raccolti nel volume Manicomi come lager (Edizioni dell’Albero). In quegli stessi anni Sessanta il ministro socialista della Sanità, Luigi Mariotti, inizia una campagna di denuncia degli ospedali psichiatrici, divenuti, a suo dire, vere e proprie «bolge dantesche».
È incredibile, ma ancora cinquant’anni fa - come documenta ampiamente Pier Maria Furlan in Sbatti il matto in prima pagina. I giornali italiani e la questione psichiatrica prima della legge Basaglia (Donzelli) - i manicomi erano affollati da donne «sane trattate come pazze solo per punizione». Donne rinchiuse perché avevano palesato un «temperamento ostinato e ribelle», compiendo «fughe frequenti e immotivate da casa», cercando la compagnia di «uomini di qualunque ceto e condizione».
In alcuni casi erano accusate di essersi rese protagoniste di litigi «con la portiera e i vicini di casa». In altri di aver condotto «vita irregolare con spiccate tendenze erotiche e rifiuto di qualsiasi ordine o minima regola di vita». Talvolta di aver «tralasciato le preoccupazioni per la famiglia» e qualcuna di aver preferito spendere «sconsideratamente il denaro che il marito le affidava». Oppure di aver esibito, a detta dei parenti più stretti, un «comportamento inadeguato» e «abnorme in campo sessuale».
Qualcuna, anziché dedicarsi alle «faccende», aveva cominciato a «uscire molto spesso e a dimenticare l’ora del rientro a casa». Suo padre raccontava di aver fatto tutto il possibile «per frenarla, ma lei non voleva sentire niente, né consigli, né minacce». Per giunta aveva gettato l’ombra del disonore sulla famiglia «perché la si vedeva spesso coi giovanotti».
Un’altra era stata considerata affetta da «disturbi sotto forma di intolleranza alla disciplina familiare» che la portavano a compiere «conquiste amorose, fughe da casa».
Un’altra ancora era ripetutamente fuggita dalla famiglia e - a detta dei suoi parenti - aveva preso l’abitudine a «sperperare il proprio denaro regalandolo e facendo acquisti non necessari» (ma i medici avevano accertato che questa «alterazione psichica» si era manifestata dopo che era stata «ripetutamente percossa alla testa con un bastone dal proprio marito, riportando contusioni multiple al capo»). In qualche caso, dopo che il medico di famiglia aveva diagnosticato «isterismo di alto grado», gli psichiatri, avendo tenuto la paziente in osservazione per oltre un mese, l’avevano considerata «rassegnata per la sua sorte tragica», ma «perfettamente orientata e cosciente» e l’avevano restituita alla famiglia (uno zio che la maltrattava), specificando che non riconoscevano in lei «alcuna malattia mentale».
Questo genere di medici più scrupolosi erano, però, un’eccezione. Quasi sempre la diagnosi di «comportamento quanto mai strano e dovuto senza dubbio a squilibrio mentale» (o cose del genere) era sufficiente per rinchiudere molte di queste povere persone in pubblici lager per malate di mente. Sul finire degli anni Sessanta alcune giovani erano state ricoverate a forza con l’accusa di essersi allontanate da casa e dal lavoro «per unirsi con i capelloni» o perché erano andate «nelle bettole a fare l’amore».
Qualcosa del genere si prolungò ancora per anni e anni. Praticamente fino al 13 maggio del 1978, quando fu approvata la cosiddetta legge Basaglia. Incredibile.
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Federico La Sala
Violenza sulle donne: 84 vittime in 9 mesi. Boldrini: ’E’ uno sfregio a tutta la nostra comunità’
Gabrielli,calano reati spia, allarma sommerso
di Melania Di Giacomo *
Sono 84 gli omicidi di donne nei primi nove mesi del 2017, in calo rispetto ai 109 nello stesso periodo del 2016. Di questi 61 si sono verificati in ambito familiare, e 31 sono stati femminicidi, termine non giuridico ma di uso comune, che identifica l’omicidio di una donna da parte di un uomo come forma estrema di prevaricazione. Sono i dati aggiornati della Polizia sugli omicidi volontari, che non tengono ancora conto di quelli che si sono verificati negli ultimi due mesi. Secondo il rapporto Eures in 10 mesi sono state 114 le donne uccise.
Boldrini, sfregia tutta la nostra comunità - "Sbaglia chi pensa che la violenza sia una questione che riguarda esclusivamente le donne. No, riguarda tutto il Paese e sfregia la nostra comunità. Quindi, se su questo tema vogliamo fare sul serio, non può esserci solo la risposta delle vittime o delle altre donne, come in gran parte avviene ora: sono quasi sempre le donne a protestare, a ribellarsi, a promuovere mobilitazione". Lo dice la presidente della Camera Laura Boldrini all’evento ’In quanto donna’ nell’Aula di Montecitorio cui partecipano oltre 1.400 donne. "La metà delle donne che vengono uccise sul pianeta - sostiene - sono uccise per femminicidio. Sono uccise, cioè, in quanto donne e per mano di chi dovrebbe amarle. In Italia ne viene uccisa una ogni due giorni e mezzo. Lo dice l’Istat. Ed è un dato spaventoso".
"Il caso Weinstein ha scoperchiato la vergogna" delle molestie nel luogo di lavoro "in un mondo glamour e patinato come quello del cinema americano, provocando un terremoto in tanti altri ambiti della società. In Italia non ha avuto certo lo stesso effetto. Nel nostro Paese questo tema fatica ad affermarsi. Mi farebbe piacere se ciò accadesse perché non ci sono molestatori, ma ho paura che non sia così". "La verità - rileva Boldrini - è che le donne tendono a non denunciare le molestie, e purtroppo in molti casi nemmeno le violenze e gli stupri, perché temono di non essere credute, temono di perdere il lavoro. Perché sanno che in questo Paese persiste un forte pregiudizio contro di loro, quasi che debbano giustificarsi di aver denunciato. Ma è il momento di non stare più zitte", dice Boldrini. "Siamo la maggioranza, non una sparuta minoranza. E sappiamo farci sentire! Sappiamo trovare la forza di rialzarci e parlare pubblicamente delle violenze subite. E il Paese non può ignorarci più", conclude.
E le cronache dicono che le donne uccise sono tre solo negli ultimi giorni: Maddalena Favole, 84 anni, uccisa domenica dal figlio in provincia di Cuneo; Anna Lisa Cacciari trovata morta lunedì nella sua cosa a Bubrio e Marilena Negri, la 67enne, accoltellata ieri al parco Milano. Le cifre degli ultimi 10 anni, dicono che gli omicidi volontari diminuiscono nel nostro Paese, ma non quelli in cui la vittima è donna, che erano, infatti, 150 nel 2007 e 149 nel 2016. Di conseguenza è aumentata la percentuale rispetto al totale, dal 24% degli omicidi nel 2007, al ben più grave 37% nel 2016. Il 73% avvengono tra le mura di casa e nel 56% dei casi l’assassino è il partner o l’ex partner. Ci sono poi quelli che le forze dell’ordine chiamano ’reati spia’: stalking, maltrattamenti in famiglia e violenze sessuali. Tutti in calo quest’anno. Le denunce per stalking sono state 8.480 tra gennaio e settembre 2017, in calo del 15,76% rispetto alle 10.067 nello stesso periodo del 2016; i maltrattamenti in famiglia sono stati 9.818 a fronte di 10.876 nello stesso periodo del 2016; le violenze sessuali (di cui oltre il 90% su donne) 3.059 a fronte di 3.095 nello stesso periodo del 2106 (- 1,16 %).
Secondo la Polizia, questi reati sono "indici importanti di un rapporto uomo-donna malato, che può pericolosamente degenerare". Sono tutti in leggera flessione, ma i dati però vanno letti con attenzione: da un lato possono essere un segnale positivo nella lotta alle discriminazioni di genere, ma dall’altro, la riduzione delle denunce, può nascondere un sommerso di paura e solitudine. Un aspetto messo in rilievo dal Capo della Polizia, Franco Gabrielli che parla di un "numero oscuro" di chi non denuncia perché pensa ai figli, alle conseguenze, alla vergogna: "Noi forze di polizia interveniamo quando il male è acuto e si manifesta. Ma questo genere di reati, che sono in fondo dei crimini contro l’umanità prima ancora che con la repressione deve essere affrontato con la prevenzione". La prevenzione si fa con l’informazione e con le politiche sociali.
Per oggi, quando in tutto il mondo si celebra la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, indetta dall’Onu nel 1999, sono numerose le iniziative in tutte le città.
A Roma si tiene la manifestazione nazionale ’Non Una di Meno’, le cui organizzatrici propongono un piano per un "cambiamento strutturale" nel mondo della scuola, nella sanità, nel lavoro, nella giustizia e nei media. Montecitorio sarà aperto solo a visitatrici, per l’evento "#InQuantoDonna", voluto dalla presidente Laura Boldrini. E in tutta Italia la Marina Militare illuminerà di arancione i suoi palazzi storici e monumenti.
"L’Italia civile si unisce per dire basta alla vergogna della violenza sulle donne", ha scritto su Twitter il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, che accompagna al messaggio l’hashtag #giornatacontrolaviolenzasulledonne.
* ANSA, 25 novembre 2017 (ripresa paziale).
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Il filosofo Semen.
Tutta la verità sull’amore secondo Wojtyla
Il filosofo francese Yves Semen spiega la teologia di Giovanni Paolo II su sessualità e matrimonio: «Le sue catechesi sono armi della luce per contrastare oggi l’ideologia del gender»
di Antonio Giuliano (Avvemire, martedì 7 novembre 2017)
Chiamatela pure “teologia del sesso”. Nessuna reticenza, nessun imbarazzo. L’ha definita proprio così il suo autore, un papa, un santo della Chiesa. La “scandalosa” Teologia del corpo di san Giovanni Paolo II è un tesoro prezioso che pur affermando verità scomode non ha alcuna soggezione nei confronti della cultura dominante. Sono ben 129 discorsi sull’amore umano che il pontefice polacco pronunciò nelle sue udienze del mercoledì dal 1979 al 1984. Una raccolta che spiazza ancora oggi come testimonia da anni un laico francese, il filosofo Yves Semen, presidente- fondatore dell’Istituto di Teologia del corpo a Lione e professore presso la Libera Facoltà di Filosofia a Parigi.
Appassionato e competente divulgatore delle lezioni di Karol Wojtyla, Semen ha curato ora un nuovo Compendio della teologia del corpo di Giovanni Paolo II (Ares, pagine 216, euro 15). Oltre a rivedere la traduzione dei testi, lo studioso ha tenuto conto del manoscritti originali di queste catechesi redatte in polacco ben prima dell’elezione al soglio pontificio. Non è dunque casuale che Wojtyla più che la sua firma personale abbia voluto mettere quella da pontefice: «Si tratta del più vasto insegnamento mai proposto da un Papa su uno stesso argomento ed è significativo che abbia voluto presentarlo all’inizio del suo pontificato come a farne il pilastro di tutto il suo magistero». A corredo del compendio, Semen inserisce anche un utile glossario che riprende parole e concetti dirompenti, come “godimento”: «Nella Teologia del corpo il piacere legato al godimento è talvolta considerato in senso positivo in quanto piacere erotico nobile conforme al disegno divino sulla sessualità umana, talvolta in senso negativo quando è ricercato per sé stesso e mediante l’uso e la strumentalizzazione dell’altra persona a servizio di un piacere egocentrico». Un manuale controcorrente che, smentendo i soliti pregiudizi, esalta il corpo e la sessualità umana, mettendo in luce un desiderio di infinito che nessun “consumo” o possesso può appagare.
George Weigel, biografo di Giovanni Paolo II, l’ha definita «una sorta di bomba ad orologeria teologica». Ma i cattolici hanno compreso la Teologia del corpo?
«Solo da qualche anno sono stati pubblicati libri di buona divulgazione e iniziative per farla conoscere. Adesso si stanno per diffondere anche all’estero i Forum Wahou (www.forumwahou. fr) che dal 2015 in Francia hanno già radunato migliaia di persone: nel corso di un week end la gente scopre la grandezza e la bellezza dell’amore nel piano divino. L’Istituto che presiedo dal 2014 ha già formato più di 120 persone in grado di insegnare questa teologia. Formiamo anche i genitori perché a loro spetta la responsabilità primaria dell’educazione sessuale dei ragazzi. Il successo che stiamo riscontrando, è il segno che qualcosa di nuovo sta nascendo nella Chiesa».
Difensore energico dell’Humanae vitae, Giovanni Paolo II ha detto che: «La prima, ed in certo senso la più grave difficoltà è che anche nella comunità cristiana si sono sentite e si sentono voci che mettono in dubbio la verità stessa dell’insegnamento della Chiesa». Crede che un giorno la Chiesa possa rivedere il magistero di Wojtyla?
«Non è la Chiesa che può cambiare la Teologia del Corpo ma è la Teologia del corpo che può cambiare la Chiesa! Bisogna lavorare alla sua larga e fedele diffusione perché la visione della persona e dell’amore che promuove è liberatrice e permette di comprendere la dimensione “profetica e sempre attuale” dell’ Humanae vitae, per usare le parole di Benedetto XVI».
La società oggi dà al “corpo” un significato diverso da quello di Giovanni Paolo II che risale al principio, all’uomo creato a immagine di Dio.
«La cultura contemporanea ha reso il corpo un materiale privo di senso che può essere manipolato in tanti modi. Fino alle affermazioni deliranti del transumanesimo. Per Wojtyla invece il corpo è stato fatto per realizzarsi nel dono di sé e per rivelare il divino: “Il corpo, e soltanto esso, è capace di rendere visibile ciò che è invisibile: lo spirituale e il divino. Esso è stato creato per trasferire nella realtà visibile del mondo il mistero nascosto dall’eternità in Dio, e così esserne segno”».
La Teologia del corpo insiste tanto sulla persona creata maschio e femmina. Un ammonimento profetico contro la diffusione del gender che oggi vuole annullare le differenze sessuali.
«Sì è una teologia della mascolinità e della femminilità che dimostra come il sesso non sia un semplice attributo, ma un dato fondamentale antropologico che qualifica la persona. È in questo senso che il cardinale Ouellet disse che la teologia di Giovanni Paolo II è l’unico vero “antidoto” all’ideologia del gender. Le catechesi di Wojtyla sono armi della luce per affrontare la corruzione antropologica del gender».
Niente contraccettivi, niente rapporti prematrimoniali... Spesso la Chiesa è stata accusata di dire sempre di “no”.
«Ma la Chiesa dice “sì”. Sì alla verità dell’amore come dono di sé. Sì alla verità del corpo fatto per essere donato. Sì alla nobiltà e alla dignità della sessualità. Sì alla grandezza del dono della vita. Sì al matrimonio come vocazione autentica alla santità. Sì al celibato offerto come annuncio profetico del Regno».
Perché i metodi naturali, che non sono contraccettivi, sono ancora poco conosciuti?
«Non se ne parla abbastanza, sebbene essi permettono di esercitare una maternità e una paternità realmente responsabili nel rispetto dell’integrità del corpo della donna. Molti però lo stanno comprendendo: in Francia, in dieci anni, la percentuale di donne che utilizzano la pillola è scesa dal 46% al 33%».
La teologia del corpo riprende un passo del Discorso della Montagna che Wojtyla stesso ammoniva dal considerarlo solo un divieto, ma come chiave per uno sguardo puro che ci permetterà un giorno di godere in anima e corpo il “sommo piacere” della visione di Dio.
«Quando Gesù dice: “Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore” rivolge un appello al cuore dell’uomo, a non farsi dominare dalla concupiscenza che mira ad usare l’altro e a considerarlo oggetto di godimento e possesso. Ecco perché Giovanni Paolo II non ha esitato a affermare che uno può essere adultero anche con la propria moglie se la considera come oggetto per appagare il proprio istinto sessuale. Quando gli è stato obiettato che era “troppo esigente”, ha semplicemente risposto: “Non sono io che sono esigente, è Cristo”».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
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Federico La Sala
AL DI LA’ DELL’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE (E DEL FIGLIO), DONNE E UOMINI, CITTADINE-SOVRANE E CITTADINI-SOVRANI. Il "romanzo familiare" edipico della chiesa e della cultura cattolico-romana è finito... *
Libere di scegliere sul nostro corpo: sit-in in varie città e corteo a Roma
Non Una di Meno. Giornata mondiale per l’aborto libero e sicuro, nella capitale manifestazione anche contro le ricette antistupro che colpevolizzano donne e migranti
di Rachele Gonnelli (il manifesto, 29.09.2017)
A Roma il comitato della rete Non Una di Meno ha organizzato, oltre a un presidio in mattinata davanti al Policlinico Umberto I - sempre contro i troppi ginecologi obiettori e per l’utilizzo della pillola abortiva Ru486 - anche un corteo. O meglio, un sit-in in piazza dell’Esquilino che in serata si è trasformato in un piccolo corteo - tollerato dalla polizia - fino a piazza Vittorio.
CARTELLI E TAMBURI hanno accompagnato la manifestazione romana che, oltre alla libertà di scelta per quanto riguarda l’interruzione volontaria di gravidanza, si è caratterizzata per una rivendicazione più a tutto tondo sul corpo delle donne. E quindi «contro tutte le risposte securitarie che a Roma ci vogliono propinare dalle varie autorità come soluzioni antistupro», spiega Sara, dai militari a cavallo nei parchi, al vademecum pubblicato dal quotidiano il Messaggero, contro il quale c’è già stato un sit-in di protesta specifico la scorsa settimana. «Vogliono colpevolizzare le donne per come si vestono e gli immigrati - spiega ancora Sara - nascondendo che l’80 per cento delle violenze sessuali accadono tra le mura domestiche».
LE FEMMINISTE ROMANE non ci stanno e insistono a dire, dal camion-palco della manifestazione, negli slogan gridati e sui cartelli che «le strade sicure le fanno le donne che le attraversano», contro tutti quelli che vorrebbero invece rinchiuderle in casa o messe sotto scorta e sotto tutela. E infatti scrivono anche «Le strade libere non le fanno i militari, i taxi o i lampioni», e anche, con evidente riferimento ai carabinieri di Firenze: «Dopo una sbronza mi aspetto un mal di testa non uno stupro».
SUI SAMPIETRINI dietro la Basilica di Santa Maria Maggiore le ragazze più giovani sono le più diffidenti con i giornalisti, temono di essere strumentalizzate. Ma un grappolo di studentesse del liceo Tasso accetta di parlare, collettivamente e senza nomi. Hanno 17 anni, al quarto anno, di varie sezioni, e non si sono riunite in collettivo o in assemblea «perché nel nostro liceo non è molto possibile», dicono. Hanno iniziato a parlare tra loro a partire dalle lezioni di un comune professore di filosofia. «Dice di essere dalla nostra parte - spiegano - ma in realtà molte sue lezioni sono solo propaganda di un maschilismo soft, ci dice di non girare di notte con le gambe nude, perché altrimenti “ve la siete cercata”, per lui niente cambierà mai, il femminismo è solo speculare al maschilismo, che invece è sbagliatissimo, e certi ruoli sono cementati dalla tradizione, per cui immutabili. Alla fine non fa che dare spazio a discorsi razzisti sugli immigrati e non dice i dati veri, siamo dovute andarli a cercare ma neanche i giornali li chiariscono».
È GIOIOSO il corteo romano e mescolati tra le tante donne ci sono anche uomini, di varia età. «Se ce ne sono di più è perché le nostre donne stanno facendo un percorso anche con loro, e questo è un successo», sostiene Simona di Non Una di Meno. Ma le ragazze del Tasso sostengono che «sono le donne che dovrebbero essere più partecipi su ciò che le riguarda direttamente».
NON SI VEDONO INVECE cartelli del tipo «la 194 non si tocca», che invece contrassegnavano i presidi davanti agli ospedali pugliesi, dove l’obiezione di coscienza nei reparti Ivg raggiunge punte dell’89 per cento. Non che nel Lazio la situazione sia tanto migliore: al Policlinico a fare gli aborti ci sono solo medici assunti a tempo determinato. E anche le sale parto sono insufficienti.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
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LA COMPETENZA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA DEL VATICANO E’ "PREISTORICA" E "MAMMONICA". Il "romanzo familiare" edipico della chiesa e della cultura cattolico-romana è finito
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. Una nota di Eleonora Cirant (e altri materiali).
Federico la Sala
FILOLOGIA E FILOSOFIA/TEOLOGIA. AMORE, RESPONSABILITÀ, E SESSUALITÀ... *
IN MEMORIA DI SANT’AGOSTINO (E IN ONORE DEL LAVORO DELLA FONDAZIONE "TERRA D’OTRANTO").
Lode a Marcello Gaballo per questa bellissima e preziosa nota su "L’affresco di sant’Agostino nella cattedrale di Nardò" (cfr.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/08/28/laffresco-di-santagostino-nella-cattedrale-di-nardo/#_ftn1) - e il lavoro di De Giorgi: la sua trascrizione della scritta sul cartiglio (ormai scomparsa) "iuste/et cas/te viv/ere et/ xarita(te)" - contrariamente alla protervia che ha portato allo "sproposito maiuscolo" e alla brutta abitudine instauratasi almeno a partire da Ludovico A, Muratori di una "caritas" latina! - conserva ancora la memoria del legame della tradizione dell’evangelo (non: "vangelo"!) con la lingua greca ("charis", "charites"... "charitas").
FILOLOGIA E FILOSOFIA/TEOLOGIA. Giambattista Vico ("De constantia iurisprudentis", 1721) giustamente e correttamente e onestamente così pensava e scriveva: "Solo la carità cristiana insegna la prassi del Bene metafisico"("Boni metaphysici praxim una charitas christiana docet"). Sapeva che Gesù ("Christo") aveva cacciato i mercanti FUORI dal tempio, e non aveva autorizzato i sacerdoti a vendere a "caro-prezzo" (lat.: "caritas") la "grazia" (gr.: "Xapis", lat.: "Charis") di Dio (lat.: "Charitas")!!! Due padroni: Dio "Charitas" o dio "Caritas"?!, Dio Amore o dio Mammona?! In questo bivio ("X") ancora siamo, oggi - e ancora non sappiamo sciogliere l’incognita (""x")!
Sul tema, mi sia consentito, si cfr. la seguente nota:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO": LA LEZIONE DI VICO. Un breve testo dalla "Prefazione ai lettori" del "Trattato sulla carità cristiana" di Ludovico A. Muratori.
MURATORI E RATZINGER. "DEUS CARITAS EST": FINE DEL CRISTIANESIMO. TOLTA AL PESCE ("I.CH.TH.U.S.") L’ ACCA ("H"), IL COLPO ("ICTUS") E’ DEFINITIVO!!!
ALLA LUCE DEL lavoro di ARMANDO POLITO e MARCELLO GABALLO SU "SANTA MARIA DI CASOLE E LE SUE SIBILLE" (cfr.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/24/santa-maria-casole-copertino-le-sue-sibille/), all’affresco di Sant’Agostino (databile forse più precisamente nella seconda metà del sec. XV), mi augurerei una rinnovata e maggiore attenzione non solo a tutta la figura dell’affresco ma, in particolare, all’immagine del bastone-pastorale con i suoi DUE SERPENTI. Essa richiama, con chiarezza, non solo la figura di Mosè ma anche e soprattutto la figura di ERMETE TRISMEGISTO con il suo caducèo (e, con essa, della Sibilla Pizia, di Apollo, e di Delfi).
L’affresco di Sant’Agostino nella cattedrale di Nardò, a mio parere, è un luminosissimo segno "manifesto" della diffusione della concezione umanistico-rinascimentale nella Terra d’Otranto e, insieme, del grande lavoro che porterà infine la Chiesa e Michelangelo a celebrare le Sibille (5) insieme ai Profeti (7) nella Volta della Cappella Sistina: ovvero, dice chiaramente del ruolo "giocato" dalla figura di Agostino nella costruzione dell’ orizzonte ecumenico umanistico e rinascimentale.
Sul tema, si cfr., unitamente al già citato lavoro di A. Polito e M. Gaballo, la mia nota sul
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
NEL LIBRO DI Marcello Gaballo e Armando Polito, "Santa Maria di Casole a Copertino (Lecce) ed altri repertori di Sibille" (Fondazione Terra d’Otranto 2017), è ripreso l’intero capitolo 23 del Libro XVIII del "De civitate Dei" (per eventuali approfondimenti, si cfr. sant’Agostino, "La città di Dio": http://www.augustinus.it/italiano/cdd/index2.htm)
PER MEGLIO CAPIRE il filo che lega l’ecumenismo umanistico-rinascimentale (Niccolò Cusano, "La pace della fede", 1453) con l’ecumenismo del presente attuale (nuovo Concilio di Nicea, 2025) e, insieme, la portata simbolica del particolare PASTORALE di sant’Agostino nell’affresco della Cattedrale di Nardò, mi sia consentito rinviare all’immagine del pastorale del Patriarca di Costantinopoli e all’intervista relativa all’ INCONTRO DI PAPA FRANCESCO E BARTOLOMEO I A ISTANBUL (cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5791).
Federico La Sala
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Amore e responsabilità (Karol J. Wojtyla) - e "caritas" (J. Ratzinger) !!! Fonti cattoliche a confronto...
MA NON E’ POSSIBILE FARE CHIAREZZA? SI TRATTA DELLA PAROLA FONDANTE E DISTINTIVA DELLA FEDE CRISTIANA!!! DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?!
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
Chi ha paura di Jorge Mario Bergoglio
di Riccardo Cristiano (Articolo 21, 1 settembre 2017)
Le anticipazioni di un libro intervista che contiene la trascrizione di dodici dialoghi con il sociologo Dominique Wolton (titolo: “Politique et sociétéˮ, edizioni L’Observatoire) riferiscono che Papa Francesco ha detto di essere andato per alcuni mesi da una psicanalista. In queste ore non sono pochi i giornali che riferiscono le condanne preconciliari della psicanalisi. Forse è il bisogno di trovare qualcosa di “inaudito” in quanto ha detto Bergoglio. Eppure a partire da Pio XII, passando attraverso gli apprezzamenti positivi del Vaticano II nei confronti della psicologia del profondo, si è giunti al riconoscimento di Paolo VI - nella Sacerdotalis coelibatus (1967) - della possibile necessità di un aiuto psicanalitico per i sacerdoti in difficoltà. Questa evoluzione è stata facilitata da una schiera di psicoanalisti dichiaratamente cattolici.
C’è un saggio, ad esempio, del professor Bresciani sul debito della Chiesa verso la psicoanalisi e Sigmund Freud nel quale possiamo leggere: “Freud, nonostante proponesse una vera e propria antropologia, militava decisamente per l’alleanza terapeutica con il malato; mettendosi a livello del sofferente si prestava ad un ascolto profondo e ad una partecipazione alla sua vita emotiva. [Un studio del professor] Ancona vede qui un Freud vicino alla pedagogia cristiana più di quanto egli stesso pensasse. Il suo ideale di uomo come colui che è capace di «amare e lavorare», la sua posizione sulla possibilità di sublimazione della sessualità, la conclusione della sua opera di ricerca con l’affermazione che la coscienza «resta la sola luce che nelle tenebre della vita psichica ci illumina e ci guida», erano posizioni passibili di sviluppi meno conflittuali.”
Passa in ombra così l’usuale coraggio di Jorge Mario Bergoglio, che anche in questa “confessione” di essere andato per sei mesi da una psicanalista ebrea, che lo ha molto aiutato, sembra stare in questo: anch’io sono un uomo, e tutti gli uomini hanno bisogno di aiuto. Lo dice lui, noi lo diciamo molto più difficilmente. -L’epoca buia dello scontro tra religione e psicanalisi è andata in soffitta da tempo. Ma siccome siamo in un’epoca che si fa nuovamente buia, intrisa di odio per l’altro, di pregiudizio, fondamentalmente di paura, sono moltissime le affermazioni fatte da Papa Francesco che colpiscono. E che per leggere bene dovremmo avere il suo stesso coraggio, cioè quello di toglierci il paraocchi e leggere per quel che sono. Un invito ad andare oltre gli steccati di oggi, oltre quei confini che ci chiudono in ghetti tanti asfittici quanto rassicuranti.
Leggiamo alcuni altri passaggi fondamentali delle sue riflessioni, partendo dall’ Africa e i migranti.
“[...]L’Europa ha sfruttato l’Africa ... non so se possiamo dirlo! Ma alcune colonizzazioni europee... sì, hanno sfruttato. Ho letto che un capo di stato africano appena eletto come primo atto di governo ha presentato al Parlamento una legge per il rimboschimento del suo paese - ed è stata promulgata. Le potenze economiche del mondo avevano tagliato tutti gli alberi. Rimboschire. La terra è secca per essere stata sfruttata e non c’è più lavoro. La prima cosa da fare, come ho detto alle Nazioni Unite, al Consiglio d’Europa in tutto il mondo, è trovare qui fonti per creare di posti di lavoro, investire. È vero che l’Europa deve investire anche a casa propria. Anche qui esiste un problema di disoccupazione. L’altro motivo per la migrazione è la guerra. Possiamo investire, le persone avranno una fonte di lavoro e non dovranno partire, ma se c’è guerra, dovranno ancora fuggire. Ora chi fa la guerra? Chi dà le armi? Noi.”
Per un uomo come Papa Francesco generalizzare è sempre difficile, ma se proprio deve farlo non generalizza sulle “razze”, ma sulle azioni degli Stati e le loro conseguenze. Per condannare? No, per esortare a invertire tendenza, a non cercare scorciatoie, a non vedere nelle vittime degli esseri inferiori, ma delle vittime.
Passiamo a Laicità e religioni. “Lo stato laico è una cosa sana. C’è una laicità sana. [...] Credo che la Francia - questo è il mio parere personale, non quello ufficiale della Chiesa - dovrebbe “elevareˮ un po’ il livello della laicità, nel senso che deve dire che anche le religioni sono parte della cultura. Come esprimerlo in modo laico? Attraverso l’apertura alla trascendenza. Ognuno può trovare la sua forma di apertura.” Come si vede, come si legge, qui non c’è una pretesa di superiorità del credente, ma la rivendicazione della spiritualità dell’uomo, del suo bisogno “naturale” di trascendenza.
Quarto punto, l’Europa. “Non vedo più Schumann, non vedo più Adenauer... L’Europa, in questo momento, ha paura. Chiude, chiude, chiude... L’Europa ha una storia di integrazione culturale, multiculturale come dice lei, molto forte. I Longobardi, i nostri Longobardi oggi, sono barbari che sono arrivati molto tempo fa... E poi tutto si fonde e abbiamo la nostra cultura. Ma qual è la cultura europea? Come definirei oggi la cultura europea? Sì, ha importanti radici cristiane, è vero. Ma non è sufficiente per definirla. Ci sono tutte le nostre capacità. Queste capacità per integrarsi, per ricevere gli altri. C’è anche la lingua nella cultura. Nella nostra lingua spagnola, il 40% delle parole è arabo. Perché? Perché erano lì per sette secoli. E hanno lasciato il segno... Credo che l’Europa abbia delle radici cristiane, ma non sono le uniche. Ci sono altre che non possono essere negati. Tuttavia, credo che sia stato un errore non citare le “radici cristianeˮ nel documento dell’Unione europea sulla prima Costituzione, e questo è stato anche commesso dai governi. Era un errore non vedere la realtà. Questo non significa che l’Europa debba essere interamente cristiana. Ma è un patrimonio, un patrimonio culturale, che abbiamo ricevuto.”
C’è qualcosa di enorme in queste parole, in questa capacità di ricordarci che quel che è stato vero ieri è vero anche oggi. Non esiste purezza, esiste contaminazione. La purezza è delle pietre, la contaminazione è della vita. Anche se non vogliamo più capirlo qualcuno, per fortuna, ce lo ripete.
L’insistenza sulla morale «sotto la cintura». “Ma noi cattolici, come insegniamo la moralità? Non puoi insegnarla con precetti del tipo: “Non puoi farlo, devi farlo, devi, non devi, puoi, non puoiˮ. La morale è una conseguenza dell’incontro con Gesù Cristo. È una conseguenza della fede, per noi cattolici. E per altri, la moralità è una conseguenza dell’incontro con un ideale, o con Dio, o con se stessi, ma con la parte migliore di se stessi. La morale è sempre una conseguenza... C’è un grande pericolo per i predicatori, quello di cadere nella mediocrità. Condannare solo la morale - la prego di perdonare l’espressione - “sotto la cinturaˮ. Ma degli altri peccati, quali l’odio, l’invidia, l’orgoglio, la vanità, l’uccisione dell’altro, prendere la vita, non se ne parla. Entrare nella mafia, fare accordi clandestini...”
Il Vaticano, se posso dir così, è apparso a lungo strabico: l’etica vista dalla Città del Vaticano sembrava riguardare l’inizio e la fine della vita, la morale limitata alla sfera sessuale... Ora l’etica torna a riguardare tutta la vita, dal momento in cui si concepisce a quando si muore, passando però per tutti i momenti della nostra esistenza: da quando sfruttiamo a quando veniamo sfruttati, da quando siamo vittime a quando facciamo nostra vittima un altro. Poco?
Amoris laetitia e rigidità. “La tentazione è sempre quella dell’uniformità delle regole... Prenda ad esempio l’esortazione apostolica Amoris laetitia. Quando parlo di famiglie in difficoltà, dico: “Dobbiamo accogliere, accompagnare, discernere, integrare...ˮ e poi ciascuno vedrà le porte aperte. Quello che sta realmente accadendo è che le persone sentono dire la gente: “Non possono fare la comunione”, “Non possono farlo”: la tentazione della Chiesa è lì. Ma “noˮ, “noˮ e “noˮ!”
Papa Francesco parla di uniformità delle regole, si potrebbe dire che allora la sua Chiesa non si pensa un giudice eterno ed esterno alla storia. Poco?
«L’aborto rimane un peccato grave». “ L’estensione del potere di assolvere il peccato dell’aborto a tutti i sacerdoti, «attenzione, questo non significa banalizzare l’aborto. L’aborto è grave, è un peccato grave. È l’omicidio di un innocente. Ma se c’è peccato, è necessario facilitare il perdono.” Un papa non poteva fare un esempio più rilevante e drammatico per indicare la portata rivoluzionaria della misericordia. Che non è “cancellare il peccato”, ma rigenerare la vita del peccatore. La misericordia così appare la vera cultura alternativa all’odio e, quindi, al terrorismo.
Reciprocità con i musulmani. “Non accettano il principio della reciprocità. Alcuni paesi del Golfo sono aperti e ci aiutano a costruire chiese. Perché sono aperti? Perché hanno lavoratori filippini, cattolici, indiani... Il problema in Arabia Saudita è che è davvero una questione di mentalità. Con l’Islam, comunque, il dialogo sta andando bene, perché non so se lo sa, ma l’Imam di Al-Azhar è venuto a trovarmi. E ci sarà incontro: vado. Penso che farebbe bene a loro fare uno studio critico sul Corano, come abbiamo fatto con le nostre Scritture. Il metodo storico e critico di interpretazione li farà evolvere.”
E’ questo il punto per me più importante, più forte. Senza nessuna pretesa di superiorità, né religiosa né culturale, Bergoglio indica la strada della salvezza dell’islam, in una parola: ermeneutica. Non esita a far presente ai suoi interlocutori il punto decisivo, il punto “critico”, ma lo fa per il bene dell’islam, dei musulmani. E questo, francamente, è commovente.
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SUL TEMA, BEL SITO, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
EUROPA ED EVANGELO. LA ’CROCE’ DI CRISTO ("X" = lettera alfabeto greco) NON HA NIENTE A CHE FARE CON IL "CROCIFISSO" DELLA TRADIZIONE COSTANTINIANA E CATTOLICO-ROMANA.
Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è morto.
INDIETRO NON SI TORNA: GIOVANNI PAOLO II, L’ULTIMO PAPA. PER IL DIALOGO A TUTTI I LIVELLI: UT UNUM SINT.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
Federico La Sala
LA CHIESA ANGLICANA SORPASSA LA CHIESA "CATTOLICA". Il cattolicismo "andropologico" romano è finito:
Antonio (non più don) Potenza si è sposato a Westminster
di Alessio Porcu - 8 luglio 2017
Togliamoci subito di mezzo la notizia di gossip. Antonio (non più don) Potenza si è sposato. L’ex segretario del chiacchierato 191mo abate di Montecassino Pietro Vittorelli si è unito in matrimonio con Celeste, la ragazza di Cassino che aveva conosciuto nell’archivio del museo dell’abazia. E per la quale ha lasciato: la tonaca di benedettino, la carica di segretario dell’abate, nonché la carriera spianata verso i vertici dell’Ordine.
Il matrimonio è stato celebrato nel pomeriggio all’interno della cattedrale di Westminster a Londra, direttamente dal dean John Hall che è il decano di Westminster. Il rito è stato quello anglicano. Officiato in un giorno particolare: quello del compleanno della sposa. Tra le foto è possibile riconoscere con sicurezza l’assessore comunale e già cerimoniere abbaziale Benedetto Leone nonché l’avvocato Gianrico Ranaldi. Sono seduti l’uno accanto all’altro nell’immagine che li vede nel chiostro di Westminster Abbey durante il concerto per violino che si è tenuto al termine della cerimonia religiosa.
Puntare sul pettegolezzo, di fronte ad una notizia così sarebbe un grave limite.
Perché Antonio (non più don) Potenza poteva convolare a nozze ovunque gli fosse garbato. Ma farlo a Westminster ha un significato molto profondo e particolare. Il suo matrimonio rappresenta un segnale forte alla Chiesa di Roma ed a Papa Francesco. E’ un messaggio con il quale sollecitare a rimettere nell’agenda il tema del celibato dei preti.
Non è un caso che il rito sia stato celebrato dal dean John Hall: non è solo il decano di Westminster. In quanto tale, è anche il capo del capitolo dell’abbazia. Che è prelatura personale della Corona. Quindi il dean risponde direttamente alla Regina (che è il capo della Chiesa anglicana) non al Vescovo di Londra come ordinario, né all’arcivescovo di Canterbury come metropolita. L’abate Pietro Vittorelli ed il suo segretario Antonio Potenza avevano lavorato molto sui rapporti tra Chiesa di Roma e Anglicani. Avevano cercato di favorire il dialogo ecumenico. Più volte erano stati a Londra ed avevano ospitato a Montecassino i vertici della chiesa di Sua Maestà.
Antonio Potenza in questo momento è formalmente un exclaustrato. E’ cioè un monaco che non conduce più vita monastica ed ha lasciato l’ordine. L’iter lo aveva avviato a gennaio 2016, presentando la domanda e trasferendosi quasi subito a Londra. Ma avendo preso i voti monastici resta sempre un consacrato: il sacramento è per sempre e in nessun modo può essere tolto.
Il suo matrimonio celebrato a Westminster può essere un modo per tentare di accelerare i meccanismi di dialogo che in qualche modo erano stati attivati proprio dai due vertici dell’abazia di Montecassino negli anni scorsi.
«E’ la visione di una Chiesa pre Tridentina - analizza il filosofo Biagio Cacciola - in quanto a quel tempo era prevista la possibilità dell’unione matrimoniale pur conservando il sacerdozio. Soltanto dopo il secolo XI con papa Gregorio VII, Ildebrando di Soana, ci fu il radicamento del celibato. Che era però legato soprattutto ad una questione di convenienza. Infatti, il papato era egemone sotto il profilo territoriale ed avere figli, essendo sacerdoti, avrebbe tolto alla Chiesa strutture e terreni»
Il tema è aperto. In Puglia esiste una diocesi di rito Bizantino Orientale che è incardinata nella Chiesa di Roma. Non è di rito Ortodosso. E prevede l’istituto dell’uxoriato cioè i sacerdoti sono sposati.
Quel matrimonio, celebrato a Westminster, paradossalmente è anche una risposta ai preti sposati anglicani passati al Cattolicesimo, motivo di attrito tra Chiesa Anglicana e Cattolica, cinque anni fa.
In questo periodo Antonio (non più don) Potenza lavora per anglicani in una delle loro strutture di Londra. Alcuni sostengono trattarsi di un hotel nel cuore della City. Formalmente, potrebbe rivendicare il titolo di don. Ma per ora, tolti i formalismi farisaici, per i fedeli di Roma non lo è. Le prossime settimane, con i successivi passi, diranno come stanno le cose.
L’ITALIA, LA CHIESA CATTOLICA, I "TESTICOLI" DELLE DONNE E LA "COGLIONERIA" DEGLI UOMINI OVVERO ANCHE LE DONNE HANNO LE "PALLE". L’ammissione di Giovanni Valverde, del 1560!!!:
Lettere
Quanto è atavica la mentalità maschile
La donna che non genera è esposta a un dubbio logorante.
Ed è guardata ancora con sospetto
Risponde Umberto Galimberti *
Alla parità tra maschi e femmine non si arriverà mai, perché, non essendo in grado di generare, i maschi capiscono del mondo femminile unicamente quello che loro ritengono sia proprio della donna, e precisamente ciò che per natura a loro non è concesso. Svincolati dai ritmi della natura, i maschi, per occupare il tempo e non morire d’inedia nell’ozio, hanno inventato la storia, e in questa storia hanno inserito la donna come generatrice, madre dei loro figli, prostituta per le loro soddisfazioni sessuali e, a sentire Lévi-Strauss, il più grande antropologo del ’900, come merce di scambio nei loro traffici.
Un altro antropologo, Bronislaw Malinowski, riferisce che gli abitanti delle numerose tribù da lui visitate ignoravano il ruolo maschile nella generazione, e pur tuttavia, le donne da lui interrogate, rispondevano che tutti i figli assomigliano al padre, mentre la madre, genitrice riconosciuta dai suoi figli, non ha con essi alcuna somiglianza. La coppia parentale, "paritetica" nella riproduzione sessuale, diventa "gerarchica" nella rappresentazione sociale. A questo schema non sfugge neppure Aristotele per il quale "la femmina offre la materia e il maschio la forma", e neanche il mito cristiano di Maria Vergine, che con il suo corpo mette al mondo il figlio di Dio che di sé dice: "Io e il Padre siamo una sola cosa" (Gv. 10,30).
Questo impianto ideologico, che affonda negli abissi del tempo e della storia, governa ancora la mentalità maschile, che da qui prende spunto per esercitare il suo potere sul mondo femminile ridotto al rango di "materia", a proposito della quale Aristotele scrive: "La femmina desidera il maschio come la materia desidera la forma, il brutto desidera il bello".
A questo punto il dominio dell’uomo sulla donna appare come perfettamente "naturale", perché non c’è niente di più naturale e di più evidente del suo corpo fatto apposta per la generazione. Ebbene, proprio nella differenza tra il corpo dell’uomo e il corpo della donna si trova la prova inconfutabile del dominio del primo sulla seconda, di cui sono convinti non solo gli uomini, ma anche le donne che per secoli hanno trovato naturale il dominio esercitato su di loro da parte dell’uomo. Com’è noto, infatti, il potere non sta tanto nell’esercizio della sua forza, ma nel consenso dei dominati alla propria subordinazione.
È da questo consenso, quello dei subordinati, che lei si deve liberare. E liberandosi potrà persuadere la mente di qualche uomo e di qualche donna che la donna non è solo materia per la generazione e i piaceri sessuali, ma al pari dell’uomo può generare anche a un altro livello, quale può essere la realizzazione di sé nel mondo lavorativo, in quello culturale, persino in quello sessuale senza doversi ridurre alla pura e semplice opacità della materia. E se sente sopra di sé la disapprovazione di molti tra quanti le stanno intorno, sappia che dobbiamo fare a meno di mezzo mondo per poter generare il nostro mondo, che non è deciso solo dalla biologia al servizio della specie, perché la specie, come sappiamo, è interessata agli individui unicamente per la sua sopravvivenza. E dopo che hanno generato, nella sua crudeltà innocente, li destina alla morte, perché altri individui, nascendo e generando, le assicurino la sua vita.
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO ...
Fedeli, femminicidio fenomeno strutturale e trasversale
Serve nuovo patto scuola-famiglia-società, competenze a docenti
di Redazione *
ROMA - "La violenza sulle donne non è un’emergenza sociale ma un fenomeno strutturale, trasversale in tutti i ceti sociali, in tutte le età della vita, e che riguarda gli uomini". Così Valeria Fedeli, ministra dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca partecipando a un convegno sulla violenza di genere e sui minori.
"Si tratta di una violazione dei diritti che interroga i rapporti che si sono storicamente determinati tra uomini e donne. Siamo convinti che la scuola e l’università devono fare il loro lavoro tenuto conto del ruolo molto importante di tutte le agenzie formative. Noi - aggiunge la ministra - siamo pronti a affrontare il tema della formazione e delle nuove competenze su questo tema da parte dei nuovi insegnati.
Ora - conclude Fedeli - serve un nuovo patto tra scuola, famiglia e società. E su questo fronte siamo pronti a fare la nostra parte, pur di superare, a partire dalla scuola, le discriminazioni tra ragazze e ragazzi che poi portano alla violenza".(ANSA).
METTERSI IN GIOCO, CORAGGIOSAMENTE. LA LIBERTA’ DI MARIA E DI GIUSEPPE ...