PER LA CRITICA DELL’ANTROPOLOGIA E DELLA TEOLOGIA MAMMONICA E FARAONICA. E PER L’USCITA DA INTERI MILLENNI DI "PREISTORIA" E DI "LABIRINTO" ...
DAL DISAGIO ALLA CRISI DI CIVILTA’: FINE DEL "ROMANZO" EDIPICO DELLA CULTURA CATTOLICO-ROMANA.
Nota della Presidenza CEI sul Ddl Zan.
Troppi i dubbi: serve un dialogo aperto e non pregiudiziale *
La Presidenza della Conferenza Episcopale Italiana, riunitasi lunedì 26 aprile, coerentemente a quanto già espresso nel comunicato del 10 giugno 2020, nel quadro della visione cristiana della persona umana, ribadisce il sostegno a ogni sforzo teso al riconoscimento dell’originalità di ogni essere umano e del primato della sua coscienza. Tuttavia, una legge che intende combattere la discriminazione non può e non deve perseguire l’obiettivo con l’intolleranza, mettendo in questione la realtà della differenza tra uomo e donna.
In questi mesi sono affiorati diversi dubbi sul testo del ddl Zan in materia di violenza e discriminazione per motivi di orientamento sessuale o identità di genere, condivisi da persone di diversi orizzonti politici e culturali. È necessario che un testo così importante cresca con il dialogo e non sia uno strumento che fornisca ambiguità interpretative.
L’atteggiamento che è stato di Gesù Buon Pastore ci impegna a raggiungere ogni persona, in qualunque situazione esistenziale si trovi, in particolare chi sperimenta l’emarginazione culturale e sociale.
Il pensiero va in particolare ai nostri fratelli e sorelle, alle nostre figlie e ai nostri figli, che sappiamo esposti anche in questo tempo a discriminazioni e violenze.
Con Papa Francesco desideriamo ribadire che «ogni persona, indipendentemente dal proprio orientamento sessuale, va rispettata nella sua dignità e accolta con rispetto, con la cura di evitare ogni marchio di ingiusta discriminazione e particolarmente ogni forma di aggressione e violenza» (Amoris Laetitia, 250).
Alla luce di tutto questo sentiamo il dovere di riaffermare serenamente la singolarità e l’unicità della famiglia, costituita dall’unione dell’uomo e della donna, e riconosciamo anche di doverci lasciar guidare ancora dalla Sacra Scrittura, dalle Scienze umane e dalla vita concreta di ogni persona per discernere sempre meglio la volontà di Dio.
Auspichiamo quindi che si possa sviluppare nelle sedi proprie un dialogo aperto e non pregiudiziale, in cui anche la voce dei cattolici italiani possa contribuire alla edificazione di una società più giusta e solidale.
La Presidenza della CEI
28 Aprile 2021
* Fonte: Chiesa Cattolica Italiana
Omofobia.
In Spagna arcivescovo indagato per una frase. Caso che fa riflettere
Il rischio è di introdurre nel nostro ordinamento il cosiddetto "reato di opinione", anche chi afferma verità affermate dalla Chiesa cattolica da sempre
di Marcello Palmieri (Avvenire, mercoledì 10 giugno 2020)
La cosiddetta Legge Mancino, recepita negli articoli 604 bis e 604 ter del codice penale, punisce «con la reclusione sino a tre anni chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero incita a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi».
Non solo. Lo stesso testo normativo istituisce la pena della «reclusione da sei mesi a quattro anni» per «chi in qualsiasi modo incita a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi». Sono ben precise e tassative - come d’altronde impone il diritto penale - le fattispecie punite, in quanto i concetti di discriminazione o violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi risultano pacificamente chiari alla stragrande maggioranza dei cittadini.
Lo stesso non può dirsi per le fattispecie che vorrebbero essere incluse in questa legge: locuzioni come "identità di genere" e "orientamento sessuale" - contenuti nei testi in discussione presso la commissione Giustizia della Camera - rimandano a concetti tutt’altro che definiti, sui quali anche la comunità scientifica non si è ancora pronunciata in modo univoco. E il rischio, qualora queste proposte diventassero legge, sarebbe quello di introdurre nel nostro ordinamento il cosiddetto "reato di opinione", per la cui commissione basterebbe riferire un pensiero personale.
Né più né meno di quanto successo nel 2014 all’arcivescovo di Malaga (Spagna), indagato penalmente per aver affermato che la sessualità è destinata alla procreazione, evidentemente impossibile all’interno di una coppia omosessuale: una situazione, insomma, che si porrebbe in evidente contrasto il diritto alla libertà di pensiero sancita dalla nostra Costituzione. Affermare questo, tuttavia, non significa voler negare una doverosa tutela a quelle persone che, per via delle loro tendenze omo, si trovassero oggetto di qualsiasi tipo di violenza.
Già ora, infatti, il nostro ordinamento punisce penalmente chi uccide una persona, oppure la percuote, la diffama, la riduce o la mantiene in schiavitù, la sequestra, la violenta, la minaccia, la obbliga a fare o non fare una cosa, oppure ancora la rende vittima di stalking. Anche in questo caso, si tratta fatti (odiosi e delittuosi) ben chiari. Non di (liberi) pensieri, per di più su concetti tutt’altro che condivisi.
Piano d’estinzione.
Interventi urgenti o la famiglia muore
Nel rapporto Cisf 2020 un quadro allarmante sul futuro incerto di un Paese senza genitori e senza figli
di Luciano Moia (Avvenire, mercoledì 15 luglio 2020)
Nel ’Rapporto sulla popolazione’ pubblicato nel 1980, si ipotizzavano alcune tendenze - rischio denatalità, scarsa propensione dei giovani al matrimonio, limitata considerazione sociale della famiglia - considerati oggi da tutti gli studiosi come elementi che concorrono in modo dirompente al declino italiano. Sono passati quarant’anni. Quei segnali di pericolo si sono aggravati da apparire quasi irreversibili, ma la politica, oggi come allora, appare indifferente.
Lo racconta il Rapporto Cisf 2020 - La famiglia nella società postfamiliare - che traccia un quadro a tinte fosche sul futuro dell’istituzione familiare e quindi su tutti noi. Possibile evitare che la famiglia in liquefazione trascini nel baratro l’intera società? Sì, ma sarebbe necessario rifondare il welfare, avviare un nuovo sistema fiscale con l’introduzione del fattore famiglia, proporre norme stringenti per la conciliazione famiglia- lavoro. E tanto altro ancora.
Ma servirebbero interventi di ampio respiro, con un impegno coerente su base almeno decennale. L’instabilità endemica dei nostri governi non sembra purtroppo assicurare tempi e interventi così strutturali e così coraggiosi. Che fare allora? Non stancarsi di riflettere su quanto la disgregazione della famiglia e la crisi demografia finiscano per pesare sulla società, determinando fenomeni difficilmente governabili. Al di là delle incertezze pesantissime sul futuro del sistema pensionistico, sanitario, assistenziale, esistono fenomeni come l’aumento dei femminicidi, delle violenze intrafamiliari, degli abusi sui minori che sono dirette conseguenza della progressiva disgregazione familiare. Sono tra le questioni emerse ieri nel corso della presentazione del nuovo Rapporto.
«Abbiamo sempre cercato di valorizzare il positivo - ha detto il direttore del Cisf, Francesco Belletti - ma non possiamo negare che, come spiega il nostro studio, le famiglie sono sempre più piccole (il 60% ha una o due componenti). E tra vent’anni avremo almeno uno o due milioni in meno di coppie con figli. E già oggi il 36% dei giovani non vuole sposarsi, il 40% non vuole avere figli».
Non solo problemi sorprendenti. Il primo rapporto Cisf, datato 1989, già segnalava tendenze allarmanti. Trent’anni dopo quelle previsioni sono realtà. E il Covid, come ha fatto notare il sociologo Pierpaolo Donati, curatore del rapporto, ha accelerato processi già gravissimi, legati alla crescita incontrollata delle nuove tecnologie in ambito mediatico e biologico.
«La famiglia come l’ambiente si sta surriscaldando - ha osservato l’esperto che ha coniato il neologismo family warmimg - perché la cultura emergente accentua la perdita della funzione sociale della famiglia, cioè del valore prodotto dalla famiglia per la società. Se la famiglia viene fatta coincidere con il puro privato il genoma familiare (dono, reciprocità, sessualità coniugale, generatività) evapora».
Declino inevitabile? «Siamo di fronte a un trend strutturale. Dobbiamo avere la capacità di modificare alla radice queste tendenze», ha auspicato Donati. «La famiglia dev’essere messa in condizione di fare il proprio mestiere. La terapia la conosciamo bene e altri Paesi - ha osservato il presidente dell’Istat Giancarlo Blangiardo - che quando si fa qualcosa, i risultati poi arrivano».
Eppure qualche segnale positivo c’è, ha fatto notare il presidente del Cnel, Tiziano Treu: «Vent’anni fa la conciliazione famiglia-lavoro era tema pressoché sconosciuto a livello aziendale. Oggi sono esigenze diffuse». Ma la strada, inutile nasconderselo, è tutta in salita.
ECUMENISMO E PROBLEMA DELL "UNO" ... *
Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe.
Contemplando con fede la casa di Nazareth ogni credente può scorgervi un modello
di Matteo Liut (Avvenire, domenica 29 dicembre 2019)
La vita nasce da una relazione che si apre all’infinito, perché ogni essere umano che viene al mondo è segno dell’amore sconfinato di Dio. La famiglia è scrigno prezioso che ha la responsabilità di dare forma a questa continua promessa di futuro.
Oggi il rito romano pone la festa della Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, icona universale di un’intimità domestica portatrice di un messaggio rivoluzionario: Dio abita in mezzo a noi. Contemplando la casa di Nazareth ogni credente non può non scorgervi un’ispirazione e un modello: i piccoli gesti di cura e attenzione vissuti tra quelle mura testimoniano lo stile dell’agire di Dio nella storia. Ecco perché per i cristiani farsi compagni di strada degli ultimi significa prima di tutto essere luce di speranza e di amore per le persone più vicine: tutti abbiamo bisogno di aprirci continuamente alla vita attraverso relazioni d’amore.
Altri santi. San Davide, re (X sec. a.C.); san Tommaso Becket, martire (1118-1170).
Letture. Sir 3,3-7.14-17; Sal 127; Col 3,12-21; Mt 2,13-15.19-23.
Ambrosiano. Pr 8,22-31; Sal 2; Col 1,13b.15-20; Gv 1,1-14.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
FLS
AUTOSTRADE PER IL CIELO: CARTE TRUCCATE E "PONTE PERICOLANTE".
L’*AMORE* Di MARIA E GIUSEPPE E LA "PREGHIERA UFFICIALE PER L’INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE 2018" :
PREGHIERA UFFICIALE PER L’INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE 2018 *
Dio, nostro Padre,
Siamo fratelli e sorelle in Gesù, tuo Figlio,
Una famiglia unita dallo Spirito del tuo amore.
Benedici ognuno di noi con la gioia dell’amore.
Rendici pazienti e gentili,
Amorevoli e generosi,
Accoglienti con i bisognosi.
Aiutaci a vivere il tuo perdono e la tua pace.
Proteggi tutte le nostre famiglie con il tuo amore,
Specialmente coloro che ti affidiamo ora con la nostra preghiera:
[facciamo un momento di silenzio per pregare per i membri della famiglia e altre
persone che ci stanno a cuore, ricordandoli per nome].
Aumenta la nostra fede,
Rendi forte la nostra speranza,
Conservaci nel tuo amore,
Aiutaci ad essere sempre grati del dono della vita che condividiamo.
Ti chiediamo questo nel nome di Cristo, nostro Signore,
Amen
Maria, madre e guida nostra, prega per noi.
San Giuseppe, padre e protettore nostro, prega per noi.
Santi Gioacchino e Anna, pregate per noi.
San Luigi e Zelia Martin, pregate per noi.
*Fonte: https://www.worldmeeting2018.ie/WMOF/media/downloads/prayerA4-IT.pdf
* L’Incontro mondiale. «Famiglia, sfida globale». Ecco il senso dell’incontro di Dublino. L’arcivescovo Martin, primate della Chiesa d’Irlanda: Amoris Laetitia, messaggio di misericordia nella complessità. Uno spazio dedicato anche al doloroso tema degli abusi (di Luciano Moia, Avvenire, venerdì 17 agosto 2018: https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/famiglia-sfida-globale-ecco-il-senso-di-dublino).
SUL TEMA, IN RETE, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
Federico La Sala (18.08.2018)
PAPA FRANCESCO
MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA
DOMUS SANCTAE MARTHAE
Lunedì, 21 maggio 2018
(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLVIII, n.114, 22/05/2018)
A Santa Marta, il 21 maggio, Papa Francesco ha celebrato per la prima volta la messa nella memoria della beata Vergine Maria madre della Chiesa: da quest’anno infatti la ricorrenza nel calendario romano generale si celebra il lunedì dopo Pentecoste, come disposto dal Pontefice con il decreto Ecclesia mater della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti (11 febbraio 2018), proprio per «favorire la crescita del senso materno della Chiesa nei pastori, nei religiosi e nei fedeli, come anche della genuina pietà mariana».
«Nel Vangeli ogni volta che si parla di Maria si parla della “madre di Gesù”» ha fatto subito notare Francesco nell’omelia, riferendosi al passo evangelico di Giovanni (19,25-34). E se «anche nell’Annunciazione non si dice la parola “madre”, il contesto è di maternità: la madre di Gesù» ha affermato il Papa, sottolineando che «questo atteggiamento di madre accompagna il suo operato durante tutta la vita di Gesù: è madre». Tanto che, ha proseguito, «alla fine Gesù la dà come madre ai suoi, nella persona di Giovanni: “Io me ne vado, ma questa è vostra madre”». Ecco, dunque, «la maternalità di Maria».
«Le parole della Madonna sono parole di madre» ha spiegato il Papa. E lo sono «tutte: dopo quelle, all’inizio, di disponibilità alla volontà di Dio e di lode a Dio nel Magnificat, tutte le parole della Madonna sono parole di madre». Lei è sempre «con il Figlio, anche negli atteggiamenti: accompagna il Figlio, segue il Figlio». E ancora «prima, a Nazareth, lo fa crescere, lo alleva, lo educa, ma poi lo segue: “La tua madre è lì”». Maria «è madre dall’inizio, dal momento in cui appare nei Vangeli, da quel momento dell’Annunciazione fino alla fine, lei è madre». Di lei «non si dice “la signora” o “la vedova di Giuseppe”» - e in realtà «potevano dirlo» - ma sempre Maria «è madre».
«I padri della Chiesa hanno capito bene questo - ha affermato il Pontefice - e hanno capito anche che la maternalità di Maria non finisce in lei; va oltre». Sempre i padri «dicono che Maria è madre, la Chiesa è madre e la tua anima è madre: c’è del femminile nella Chiesa, che è maternale». Perciò, ha spiegato Francesco, «la Chiesa è femminile perché è “chiesa”, “sposa”: è femminile ed è madre, dà alla luce». È, dunque «sposa e madre», ma «i padri vanno oltre e dicono: “Anche la tua anima è sposa di Cristo e madre”».
«In questo atteggiamento che viene da Maria che è madre della Chiesa - ha fatto presente il Papa - possiamo capire questa dimensione femminile della Chiesa: quando non c’è, la Chiesa perde la vera identità e diventa un’associazione di beneficienza o una squadra di calcio o qualsiasi cosa, ma non la Chiesa».
«La Chiesa è “donna” - ha rilanciato Francesco - e quando noi pensiamo al ruolo della donna nella Chiesa dobbiamo risalire fino a questa fonte: Maria, madre». E «la Chiesa è “donna” perché è madre, perché è capace di “partorire figli”: la sua anima è femminile perché è madre, è capace di partorire atteggiamenti di fecondità».
«La maternità di Maria è una cosa grande» ha insistito il Pontefice. Dio infatti «ha voluto nascere da donna per insegnarci questa strada». Di più, «Dio si è innamorato del suo popolo come uno sposo con la sposa: questo si dice nell’antico Testamento. Ed è «un mistero grande». Come conseguenza, ha proseguito Francesco, «noi possiamo pensare» che «se la Chiesa è madre, le donne dovranno avere funzioni nella Chiesa: sì, è vero, dovranno avere funzioni, tante funzioni che fanno, grazie a Dio sono di più le funzioni che le donne hanno nella Chiesa».
Ma «questo non è la cosa più significativa» ha messo in guardia il Papa, perché «l’importante è che la Chiesa sia donna, che abbia questo atteggiamento di sposa e di madre». Con la consapevolezza che «quando dimentichiamo questo, è una Chiesa maschile senza questa dimensione, e tristemente diventa una Chiesa di zitelli, che vivono in questo isolamento, incapaci di amore, incapaci di fecondità». Dunque, ha affermato il Pontefice, «senza la donna la Chiesa non va avanti, perché lei è donna, e questo atteggiamento di donna le viene da Maria, perché Gesù ha voluto così».
Francesco, a questo proposito, ha anche voluto indicare «il gesto, direi l’atteggiamento, che distingue maggiormente la Chiesa come donna, la virtù che la distingue di più come donna». E ha suggerito di riconoscerlo nel «gesto di Maria alla nascita di Gesù: “Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia”». Un’immagine in cui si riscontra «proprio la tenerezza di ogni mamma con suo figlio: curarlo con tenerezza, perché non si ferisca, perché stia ben coperto ». E «la tenerezza» perciò è anche «l’atteggiamento della Chiesa che si sente donna e si sente madre».
«San Paolo - l’abbiamo ascoltato ieri, anche nel breviario l’abbiamo pregato - ci ricorda le virtù dello Spirito e ci parla della mitezza, dell’umiltà, di queste virtù cosiddette “passive”» ha affermato il Papa, facendo notare che invece «sono le virtù forti, le virtù delle mamme». Ecco che, ha aggiunto, «una Chiesa che è madre va sulla strada della tenerezza; sa il linguaggio di tanta saggezza delle carezze, del silenzio, dello sguardo che sa di compassione, che sa di silenzio». E «anche un’anima, una persona che vive questa appartenenza alla Chiesa, sapendo che anche è madre deve andare sulla stessa strada: una persona mite, tenera, sorridente, piena di amore».
«Maria, madre; la Chiesa, madre; la nostra anima, madre» ha ripetuto Francesco, invitando a pensare «a questa ricchezza grande della Chiesa e nostra; e lasciamo che lo Spirito Santo ci fecondi, a noi e alla Chiesa, per diventare noi anche madri degli altri, con atteggiamenti di tenerezza, di mitezza, di umiltà. Sicuri che questa è la strada di Maria». E, in conclusione, il Papa ha fatto notare anche come sia «curioso il linguaggio di Maria nei Vangeli: quando parla al Figlio, è per dirgli delle cose di cui hanno bisogno gli altri; e quando parla agli altri, è per dire loro: “fate tutto quello che lui vi dirà”».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"TEBE": IN VATICANO NON C’E’ SOLO LA "SFINGE" - C’E’ LA "PESTE"!!! Caro Benedetto XVI ... DIFENDIAMO LA FAMIGLIA!? MA QUALE FAMIGLIA - QUELLA DI GESU’ (Maria - e Giuseppe!!!) O QUELLA DI EDIPO (Laio e Giocasta)?!
LA COMPETENZA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA DEL VATICANO E’ "PREISTORICA" E "MAMMONICA". Il "romanzo familiare" edipico della chiesa e della cultura cattolico-romana è finito
Federico La Sala
A Napoli il sindaco accende ’Nalbero’
E’ alto 40 metri, realizzato sul lungomare con circa 35mila tubi
di Redazione ANSA NAPOLI *
Il sindaco di Napoli Luigi de Magistris ha acceso ’Nalbero’ l’attrazione del Natale 2016 realizzata alla Rotonda Diaz sul lungomare Caracciolo. L’accesso al pubblico comincerà la mattina di sabato 10 e non domani come inizialmente previsto perché alcuni lavori non sono ancora stati completati.
Nalbero, realizzato dalla Italstage di Pasquale Aumenta, è alto 40 metri, è innalzato su 35mila tubi di multirezionale Lahye, materiale arrivato dalla Germania, e alla base ci sono 150 tonnellate di zavorra per aumentare la stabilità e rispondere al vento del lungomare. La struttura è stata realizzata in 18 giorni e resterà ad affacciarsi sul Golfo per 90 giorni pronta ad accogliere napoletani e turisti.
"Nalbero - ha detto Pasquale Aumenta - è un’opera di ingegneria napoletana ed è la dimostrazione che anche a Napoli si possono fare cose belle. È espressione delle nostra capacità ed è un’opera fatta per la città". Secondo i dati riferiti, in media ogni giorno hanno lavorato alla struttura 80 persone con picchi di 250 negli ultimi giorni.
All’interno al piano terra ci sono la galleria commerciale e le esposizioni tra cui ’Vulcano con vista mare’ di Gennaro Regina.
Salendo al primo piano si trova l’area food con un ristorante da 180 posti aperto a pranzo e cena, un bar e un bistrot per soddisfare tutti i gusti e tutti i portafogli. Qui una grande terrazza che si estende su tutti i lati di Nalbero offre panorami mozzafiato del Golfo e della città.
A questi primi due livelli di Nalbero si accede gratuitamente mentre per salire alle sue terrazze panoramiche poste una a 18 metri di altezza e l’altra a 30 metri si dovrà pagare un biglietto.
Il ticket costa 8 euro per gli adulti e 5 euro per minori di 12 anni e over 65. Sono inoltre previste agevolazioni per le famiglie, mentre i bambini al di sotto di un metro di altezza accedono gratuitamente e i disabili con accompagnatore pagano un solo biglietto.
Nalbero nella sua permanenza a Napoli sarà anche un contenitore interattivo con attività laboratoriali, esposizioni e forme di intrattenimento per tutti i gusti. Sinergie, solo per citarne alcune, sono state strette con il Santobono-Pausillipon, con Città della Scienza, con Emergency e la Croce Rossa Italiana.
Nalbero ospiterà anche l’incursione artistica del collettivo Scu8. Inoltre con l’acquisto di un biglietto a prezzo pieno sarà possibile l’accesso a scelta tra il complesso monumentale di San Lorenzo Maggiore, la Galleria Borbonica, le Catacombe di San Gennaro e viceversa. Ad accompagnare i visitatori ci sarà la musica di radio Kiss Kiss
Il lungo (e incompiuto) processo verso la famiglia fondata su amore e accoglienza Si discute molto di famiglia e di figli in questo periodo. Ma troppo spesso si dimentica che di “naturale” la famiglia ha poco o nulla, che nella storia e nelle varie culture essa ha assunto connotati molto diversi, e molto spesso violenti nei confronti di donne e bambini. In questo contesto, che significa che “i figli non sono un diritto”?
di Chiara Saraceno *
“I figli non sono un diritto”. Vero, non c’è dubbio. Vale per tutti: per le coppie formate da persone di sesso diverso come per le coppie formate da persone dello stesso sesso, per le coppie come per i/le single. Ma che cosa significa esattamente che non sono un diritto? Che chi non è fertile, o ha un partner non fertile, non ha diritto di provare e viceversa che basta essere fertili (e in un rapporto di coppia eterosessuale) per avere automaticamente il diritto di avere un figlio? Quando si discute di diritti e li si aggancia ad una idea di “natura” e di “normalità” si intraprende una strada molto scivolosa. Una strada lungo la quale si incontrano molte violenze, in particolare contro le donne e i bambini, ma talvolta anche contro gli uomini.
Qualche secolo fa in Italia le donne nubili sospette di essere incinte venivano imprigionate per evitare che abortissero, salvo togliere loro i figli perché “indegne” di essere madri. In Irlanda, come ci ha ricordato il film Le Maddalene, la cosa è durata fino a qualche decennio fa con il beneplacito della Chiesa Cattolica. In nome della protezione della “paternità legittima” i figli nati da un uomo sposato fuori dal matrimonio non potevano essere riconosciuti da quello. E una madre coniugata che avesse un figlio con un uomo diverso dal marito, magari lontano o da cui era separata, aveva di fronte a sé solo due scelte: o non riconoscerlo affinché il padre, se non a sua volta sposato, potesse farlo lui, oppure tacere, attribuendone la paternità al marito. Il tutto con buona pace dell’oggi tanto sbandierato principio che i bambini hanno bisogno di un padre e di una madre, possibilmente biologici.
Nella legge 40, fortemente voluta da una grossa fetta dei parlamentari cattolici e la cui abrogazione per via referendaria è stata attivamente impedita dalla gerarchia cattolica, si è vietata sia la riproduzione artificiale con donatore o donatrice, sia il ricorso all’esame pre-impianto degli embrioni nel caso di aspiranti genitori portatori di malattie genetiche gravi, che avrebbero comportato sofferenze atroci all’eventuale nascituro. Ci sono volute sentenze delle Corti italiane ed europea per cancellare questa mostruosità voluta da parlamentari ottusi e arroganti che, con la benedizione della Chiesa, si arrogavano il diritto di dire chi può e in quali condizioni fare figli e chi no. Se dovessero poter avere figli solo coloro che sono fertili, e in coppia eterosessuale, dovremmo non solo condannare ogni forma di riproduzione assistita, inclusa quella con gameti della coppia, ma anche vietare l’adozione.
Nella nostra società e cultura da lungo tempo si è passati da un’idea che si facessero figli - in proprio o tramite adozione - vuoi perché “venivano”, come non sempre benvenuta conseguenza di un rapporto sessuale, vuoi perché utili alla dinastia o all’impresa famigliare, ma perché danno gioia e aprono al futuro. Come ha ammesso, con un lapsus involontario, lo stesso cardinal Bagnasco, la famiglia non è un fatto ideologico, bensì antropologico. Appunto, l’antropologia, e la storia, ci mostrano che qualunque sia la “famiglia voluta da Dio”, secondo la sorprendente e astorica definizione di papa Francesco, le famiglie umane vengono in forme e contenuti diversi.
Non c’è un’unica “famiglia umana”. Ed alcune forme di famiglia anche del nostro recente passato erano intrinsecamente violente nei rapporti di genere e generazione, non solo a livello individuale, ma proprio di conformazione istituzionale.
C’è voluto un lungo processo, non del tutto compiuto, perché la dimensione fondamentale, autenticamente generativa, della genitorialità fosse l’accoglimento e l’assunzione di responsabilità e perché la cifra della relazione genitori-figli (come per la coppia) fosse l’amore E’ su questo che si gioca il “diritto ad avere figli” o, meglio, a provarci, non di fronte alla legge, ma di fronte alla propria coscienza.
Le tecniche di riproduzione assistita, e più ancora la possibilità di ricorrere ad una madre gestante per altri, acuiscono ed esplicitano la necessità di effettuare - ciascuno nel proprio foro interiore - questa valutazione: non solo perché la scelta di diventare genitori è necessariamente più esplicitamente intenzionale, ma perché coinvolge più soggetti e modifica di poco o tanto il nesso tra coppia, sessualità, generazione. Di nuovo, vale per tutti, non solo per le persone omosessuali. Quando si smetterà di pretendere di possedere la verità e il monopolio della definizione di chi può fare famiglia e chi può avere figli, finalmente si potrà aprire una riflessione in cui tutte le parti possano trovare voce e ascolto, con rispetto e pazienza, per fare un passo ulteriore nel processo di civilizzazione della famiglia e dei rapporti di sesso e generazione.
Papa Francesco: "Donna tentatrice è luogo comune"
Bergoglio: "Famiglie combattano la subordinazione dell’etica alla logica del profitto" *
CITTA’ DEL VATICANO - "Esistono molti luoghi comuni, alcuni anche offensivi, sulla donna tentatrice", "invece c’è spazio per una teologia della donna che sia all’altezza di questa generazione di Dio". Lo ha detto il Papa, dopo aver affermato che "la donna, ogni donna, porta una segreta e speciale benedizione per la difesa della sua creatura dal maligno, come la donna dell’Apocalisse che corre a difendere il figlio dal drago e lo protegge".
"Il mondo creato è affidato all’uomo e alla donna: quello che accade tra loro dà l’impronta a tutto", ha detto Bergoglio concludendo un ciclo di catechesi sulla famiglia. "Cristo è nato da una donna ha aggiunto il Papa di fronte a oltre 25mila fedeli in Piazza San Pietro - "e questa è la creazione di Dio sulle nostre piaghe, sui nostri peccati, ci ama come siamo e vuole portarci avanti con questo progetto, e la donna è la più forte nel portare avanti questo progetto".
"La famiglia ci salva da tanti attacchi, distruzioni e colonizzazioni, come quella del denaro o quelle ideologiche che minacciano il mondo", ha detto Francesco, "la famiglia - ha affermato - è la base per difendersi" e contrastare quanti "dispongono di mezzi ingenti e di un appoggio mediatico enorme".
Secondo Bergoglio, "l’attuale passaggio di civiltà appare segnato dagli effetti a lungo termine di una società amministrata dalla tecnocrazia economica" e dunque il nemico da combattere è "la subordinazione dell’etica alla logica del profitto". "In questo scenario - ha scandito - una nuova alleanza dell’uomo e della donna deve ritornare ad orientare la politica, l’economia e la convivenza civile! Essa decide l’abitabilità della terra, la trasmissione del sentimento della vita, i legami della memoria e della speranza". "La famiglia ci salva dalla colonizzazione del denaro", ha poi aggiunto.
"Di questa alleanza - ha continuato - la comunità coniugale-famigliare dell’uomo e della donna è la grammatica generativa, il ’nodo d’oro’, potremmo dire. La fede la attinge dalla sapienza della creazione di Dio: che ha affidato alla famiglia non la cura di un’intimità fine a sè stessa, bensì l’emozionante progetto di rendere domestico il mondo".
Fuori la Chiesa dalle lenzuola d’Irlanda
di Deborah Dirani (L’Huffington Post, 27/05/2015)
Che enorme occasione di evangelizzazione ha perso, ancora una volta, la Chiesa di Roma definendo la vittoria dell’amore irlandese una sconfitta per l’umanità. E che infinita tristezza racchiudono le parole del suo Segretario di Stato, un servo di Dio, in teoria. Un servo di quel Dio che raccontano essere buono e misericordioso, incline al perdono e dispensatore di infinito amore. Così lo raccontano, così ce lo propongono dal giorno in cui veniamo al mondo in quella parte di mondo in cui quel Dio lì ancora resiste. Per quanto? Per quanto potrà resistere l’incoerenza di questa chiesa che si riempie la bocca della necessità dell’amore e si chiude gli occhi davanti a una sua umana forma?
L’umanità non è sconfitta per il riconoscimento del diritto di sposarsi tra persone dello stesso sesso, l’umanità è sconfitta ogni volta che non accetta se stessa, in tutte le sue infinite sfumature. L’umanità è sconfitta ogni volta che si ostina, granitica, a non accettare la propria evoluzione. Lo chiamano oscurantismo, io necessità di controllo sociale. Del resto non sono certo la prima a identificare nelle religioni la beatificazione di questa umanissima esigenza: l’ordine sociale va mantenuto, ad ogni costo. Anche se questo costo sono donne ammalate bruciate su un rogo, infedeli trapassati da una spada, miscredenti infiammati o ostracizzati. Il rogo e la spada sono memoria lontana (mai abbastanza), l’ostracismo è il presente di una congregazione di anziani incapaci di mettere in pratica ciò di cui parlano.
Non sono cattolica, non lo sono per la mia impossibilità di accettare l’ineluttabilità di un destino che non mi posso scegliere, innanzitutto. Non lo sono per la poca misericordia nella quale continuo a imbattermi tra i massimi rappresentanti di questa vecchia Chiesa. No, non parlo dei preti di periferia, di quelli che si preoccupano più della vita che del suo ordine: quelli so che ci sono e a loro destino la mia più profonda e sincera ammirazione. Parlo di quei pii uomini ostinati a confondere la salvezza delle anime devote con la quotidianità della vita, con la necessità inviolabile che ogni essere umano ha di amare e di vedere legittimamente riconosciuto il suo amore.
Sotto le lenzuola la Chiesa, lo Stato e la politica non hanno il diritto di entrare: nessuno può decidere sulla liceità di un amplesso, nessuno può definire giusto un sentimento stigmatizzandone al contempo una delle sue possibili sfumature. L’omosessualità è vita, nonostante non sia in grado di generarne. Continuare a negarne la dignità è un errore talmente colossale da meritare, questo sì, le fiamme dell’inferno.
Pietro Parolin, portavoce del pensiero della Chiesa di Cristo, è molto triste per la vittoria del referendum sulle unioni gay avvenuta in un pio Stato quale è l’Irlanda. Ad avercelo vicino mi premurerei di passargli un fazzoletto per asciugarsi le lacrime, quindi gli consiglierei di essere molto felice perché quella che lo rattrista in realtà è la vittoria del principe dei suoi valori: l’amore. Non mi preoccuperei di snocciolargli il rosario delle empietà di cui la sua Chiesa continua a macchiarsi, tra preti che amano un po’ troppo i bambini e cercano di soffiare a Robert Mapplethorpe un posto nell’Olimpo dei fotografi del nudo.
Non mi preoccuperei neanche di ricordargli che tanti di quei bambini troppo amati sono diventati degli adulti incapaci di amare a causa di qualche innamorato con la tonaca. A che serve rinfacciare gli orrori commessi a chi ne è ben consapevole, nonostante l’omertoso silenzio dietro il quale per tanto tempo ha trovato un sicuro rifugio? Com’è, pure che diceva il Figlio di Dio? Ah, ecco: "Chi è senza peccato...". No, a Pietro Parolin offrirei una birretta, gli proporrei un brindisi: "Alla salute dell’amore, Monsignore!". Perché nonostante lei e quelli come lei alla fine vince lui, non dovunque, ma non dispero. Il tempo e la storia sono dalla mia parte.
Anche lei, o chi verrà dopo di lei, Monsignore, sarà costretto a piegare il capo davanti alla meravigliosa realtà della natura umana che ama. Non importa chi e non importa come: anche lei piegherà il capo e onorerà chi mette in pratica nella sua vita la parola di quel Dio di cui lei è devoto. Nel frattempo, Monsignore, mi premurerò di farle arrivare una buona scorta di fazzolettini, prevedo che in futuro gliene serviranno molti, moltissimi. E meno male!
Rubare il futuro la dura legge che incatena le generazioni
Ma la storia antica dell’Isola di Pasqua svela che spesso sono i padri a divorare i figli
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 25.03.2015)
LE società vecchie sono quelle soffocate dal peso del passato. Le giovani sono quelle che, almeno in parte, se ne affrancano, per guardare liberamente se stesse e deliberare senza pregiudizi. Le età delle società si misurano in “generazioni”. Ma, che cosa sono le generazioni, una volta che, dalla cellula in cui sta il rapporto generativo genitori- figli, si passa alla dimensione sociale in cui migliaia o milioni d’individui si succedono sulla scena della vita, gli uni agli altri? Una volta che si voglia sostenere che una generazione giovane sostituisce una generazione vecchia? La questione ha una storia. Thomas Jefferson disse: «La terra appartiene a (alla generazione de) i viventi» («the earth belongs to the living»).
Quel motto stava a significare che, sebbene ogni costituzione porti in sé ed esprima l’esigenza di stabilità e continuità, non si doveva pensare a una fissità assoluta, a costituzioni perenni e immodificabili. Poiché ogni generazione è indipendente da quella che la precede, ognuna può utilizzare come meglio crede, durante il proprio “usufrutto”, i beni di questo mondo e, tra questi, le leggi e le costituzioni. Ma, qual è la “scadenza” di una generazione, cioè la sua durata in vita?
Parliamo della generazione del fascismo, della resistenza, del ‘68, di Internet, ecc. Da ultimo, si parla di “generazione perduta”, con riguardo a coloro che sono privi di lavoro e d’istruzio- ne. La nuova generazione tedesca ha chiesto conto alla generazione dei suoi padri, per la parte avuta nel nazismo. La caduta del muro di Berlino ha aperto la via alla generazione dell’89. Ciascuna di queste generazioni è tale non per ragioni d’età di coloro che ne hanno fatto e ne fanno parte, ma per l’epoca da essi segnata e da cui essi sono segnati. In altri termini, si tratta d’identità storiche, di caratteri spirituali collettivi che definiscono determinati periodi e determinano passaggi o conflitti con la generazione precedente.
E oggi, nelle nostre società, in nome di che cosa la generazione nuova pretende lo spazio che era della vecchia? Sempre più spesso i vecchi confessano il loro sentirsi “fuori luogo”. Con le parole di Norberto Bobbio: «Nelle società evolute il mutamento sempre più rapido sia dei costumi sia delle arti ha capovolto il rapporto tra chi sa e chi non sa. Il vecchio diventa sempre più colui che non sa rispetto ai giovani che sanno, anche perché hanno maggiore capacità di apprendimento ». Il luogo dei giovani nelle società odierne è il luogo della competitività, dell’innovazione, dell’efficienza e della velocità. L’identità dell’odierna generazione emergente è la produttività crescente finalizzata allo sviluppo.
A differenza di altre identità generazionali che fissavano, stabilizzavano e arrestavano il tempo e, dunque, in certo modo rassicuravano fino a quando non fossero sostituite da altre, la produttività crescente è la più implacabile delle leggi, perché richiede la mobilitazione di tutte le energie sociali disponibili e implica la marginalizzazione di coloro i quali non ne sono partecipi. Costoro, cioè coloro che non sanno, non possono o non vogliono stare al passo, cioè gli inidonei e i non integrati non possono giustificare la loro esistenza.
Noi viviamo in un’epoca che crediamo ancora dominata dall’idea o, forse, dall’ideologia dei diritti umani: un’epoca aperta dalle rivoluzioni liberali e trionfante nella seconda metà del Novecento, anche come reazione alle tragedie dei totalitarismi. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, che inizia proclamando che «tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti» può essere assunta come il simbolo riassuntivo di un’intera generazione. Ma è ancora così? Nelle società gravate dalla penuria di risorse vitali - cioè, in pratica, tutte, salvo le società dell’utopia - gli individui nati o divenuti inutili erano soppressi fin dall’inizio o abbandonati a se stessi. Erano i non-produttivi, i deboli, gli affetti da malformazioni e malattie, i “malriusciti” (secondo la terminologia eugenetica del nazismo) o coloro che rappresentavano solo un peso per gli altri, come i vecchi irrecuperabili a una vita attiva.
Herbert Spencer ne è stato il teorizzatore riconosciuto. I poveri, i marginali, gli handicappati, i deboli, in generale gli “inadatti”, non avrebbero dovuto essere sostenuti a spese della collettività. La spesa sociale sottrae risorse allo sviluppo della “parte sana” della società. Oggi, i diritti umani impediscono la riproposizione di simili teorie, ma la pratica, rivestita dalla forza della necessità, ne ripropone gli esiti. La cosiddetta crisi fiscale dello Stato e la conseguente riduzione della “spesa sociale” - pensioni e assistenza, sanità, lavoro - chi finisce per colpire? Proprio i più deboli. Tra questi, gli anziani, il cui numero percentuale rispetto agli individui produttivi, aumenta con la durata della vita. Forse, è alle viste una vera e pro- pria ribellione della generazione giovane, su cui grava l’onere del sostentamento degli anziani. Non li si elimina fisicamente e direttamente, ma li si abbandona progressivamente al loro destino, con effetti analoghi.
Sulle società della crescita per la crescita, incombe un’altra minaccia. Occorrerebbe sempre rammentare la lezione dell’Isola di Pasqua. Quest’isola polinesiana, scoperta dagli europei il giorno di Pasqua del 1722, è celebre per i 397 megaliti, uno dei quali raggiunge il peso di 270 tonnellate, che raffigurano giganteschi ed enigmatici tronchi umani, alcuni dei quali sovrastati da parallelepipedi colorati di rosso. Quando gli esseri umani vi posero piede alla fine del primo millennio, doveva essere una terra fiorente, coperta di foreste, ricca di cibo dalla terra, dal mare e dall’aria. Arrivò a ospitare diverse migliaia di persone, divise in dodici clan che convivevano pacificamente. Quando vi giunsero i primi navigatori europei, trovarono una terra desolata, come ancora oggi ci appare: completamente deforestata, dal terreno disastrato e infecondo, dove sopravvivevano poche centinaia di persone. Nel 1864, quando mercanti europei vi sbarcarono per i loro affari, il numero era ridotto a 111 individui, denutriti, geneticamente degradati. Che cosa e come era avvenuto questo disastro?
C’è un rapporto tra le grandi e inquietanti teste di pietra e l’estrema desolazione di ciò che le circonda? L’enigma di Pasqua, per com’è stato sciolto dagli studiosi, è un grandioso e minaccioso apologo su come le società possono distruggere da sé il proprio futuro per gigantismo e imprevidenza. La causa prima del collasso sarebbe stata la deforestazione, cioè la dissipazione della principale risorsa naturale. La foresta ospitava uccelli stanziali e attirava uccelli di passo; forniva il legname alle canoe usate per la pesca; difendeva l’integrità del territorio coltivato a orto dalle tempeste tropicali. A poco a poco, le risorse alimentari vennero a mancare e la dieta si ridusse, prima, a polli e piccoli molluschi e, poi, a topi e sterpaglia. La penuria dei fattori primi della vita, come sempre accade, alimentò le rivalità e la guerra tra i clan. Nella generale carenza di cibo, si finì all’ultimo stadio, l’antropofagia.
E le teste di pietra? Sembra che abbiano avuto una parte di rilievo. Col passar del tempo e in concomitanza con le lotte tra i clan, da piccole che erano all’inizio, diventarono progressivamente sempre più imponenti. La più alta, sei volte un uomo normale, è anche quella costruita per ultima, quando la catastrofe incombeva. Motus in fine velocior. Erano un simbolo di potenza tecnologica he poteva essere speso nella lotta per la supremazia politica. Ma per scalpellarle dalla cava, trasportarle e drizzarle - un lavoro, per quella società in quel luogo e in quel tempo, mostruoso - occorrevano tronchi d’albero d’alto fusto e fibre legnose per fabbricare funi. Alla fine, l’isola fu desertificata e, parallelamente, si eressero pietre sempre più alte; poi per la maggior parte furono abbattute e spezzate. Quando tutto fu compiuto, i sopravvissuti pensarono a una via di fuga dall’inferno ch’essi stessi avevano creato. Ma il legno per costruire le barche - la loro salvezza - era già stato usato e consumato per le teste di pietra.
Che cosa dunque avvenne a Pasqua? Come possiamo condensare in una sola frase la sua parabola? Per soddisfare manie di potenza e grandezza di oggi, non si è fatto caso alle necessità di domani. Ogni generazione s’è comportata come se fosse l’ultima, trattando le risorse di cui disponeva come sue proprietà esclusive, di cui usare e abusare. Il motto di quella gente dissennata avrebbe potuto essere quello del distinto signore, estensore della Dichiarazione d’indipendenza, Thomas Jefferson: «La terra appartiene alla generazione vivente». Ammesso che nuove generazioni viventi possano esserci sempre di nuovo.
Bergoglio e la società senza padri
«Assenti e troppo presi da sé»
di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 29.01.2015)
CITTÀ DEL VATICANO Una «società di orfani», una «società senza padri», perché non ci sono oppure cercano un rapporto «alla pari», da amici, ed è come se non ci fossero. Si è passati «da u n e s t re m o a l l ’a l t ro » , dice Francesco. «Il problema dei nostri giorni non sembra essere più tanto la presenza invadente dei padri, quanto piuttosto la loro assenza, la latitanza. I padri sono talora così concentrati su se stessi, sul lavoro e alle volte sulle proprie realizzazioni individuali, da dimenticare anche la famiglia. E lasciano soli i piccoli e i giovani».
Nell’udienza di ieri il Papa ha sviluppato un tema che gli sta molto a cuore. «Vorrei dire a tutte le comunità cristiane che dobbiamo essere più attenti: l’assenza della figura paterna nella vita dei piccoli e dei giovani produce lacune e ferite che possono essere anche molto gravi», avverte Francesco. «E in effetti le devianze di bambini e adolescenti si possono in buona parte ricondurre a questa mancanza, alla carenza di esempi e di guide autorevoli, alla carenza di vicinanza e amore da parte dei padri. È più profondo di quel che pensiamo il senso di orfanezza che vivono tanti giovani».
È interessante notare che Bergoglio ha una devozione particolare per San Giuseppe, «uomo forte e silenzioso», padre putativo che «custodisce e a c c o m p a g n a G e s ù n e l s u o cammino di crescita» e rappresenta «il modello dell’educatore». A San Giuseppe era dedicata la chiesa di Flores, il quartiere di Buenos Aires dove è nato, la stessa nella quale sentì la sua vocazione.
L’inizio solenne del suo pontificato è avvenuto il 19 marzo, festa di San Giuseppe educatore. Nella stanza 201 a Santa Marta tiene sul tavolo una statua del santo che dorme, «e quando ho un problema, una difficoltà, io scrivo un foglietto e lo metto sotto San Giuseppe, perché lo sogni; questo gesto significa: prega per questo problema!».
Francesco chiede spesso: giocate con i vostri figli, perdete tempo con loro? «Un papà mi diceva: quando vado a lavorare dormono, quando torno la sera lo stesso. Ma questa non è vita, è disumano», raccontava tempo fa.
Così ieri ha ripercorso il passaggio dalla figura «autoritaria» al suo opposto. Si dice che la figura del padre, «specie nella cultura occidentale», sia ormai «simbolicamente assente, svanita, rimossa». Il che, ha ricordato, è stato considerato all’inizio come una «liberazione dal padrepadrone». In alcune case «regnava in passato l’autoritarismo o addirittura la sopraffazione».
I figli trattati «come servi». E ora siamo all’opposto: «I figli sono orfani in famiglia, perché i papà sono spesso assenti da casa ma soprattutto perché, quando ci sono, non si comportano da padri, non dialogano, non adempiono il loro compito educativo, non danno ai figli, con il loro esempio accompagnato dalle parole, quei principi, valori, regole di vita di cui hanno bisogno come del pane». A volte «sembra che i papà non sappiano bene quale posto occupare» e allora «nel dubbio si astengono e trascurano le loro responsabilità, magari rifugiandosi in un improbabile rapporto “alla pari”. È vero che tu devi essere “compagno” di tuo figlio, ma senza dimenticare che tu sei il padre!».
Lo stesso problema si vede pure nella «comunità civile, con le sue istituzioni», ha concluso Francesco: «Così i giovani rimangono orfani di strade sicure da percorrere, di maestri, di ideali. Vengono riempiti di idoli ma si ruba loro il cuore; sono spinti a sognare divertimenti e piaceri, ma non si dà loro il lavoro; illusi col dio denaro, sono negate loro le vere ricchezze».
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Lo psicanalista junghiano Luigi Zoja
«Un rapporto da fratelli non può funzionare Serve il coraggio dei no»
«Sono perfettamente d’accordo con il Papa.
Anzi, scherzando con il mio editore argentino, gli ho proposto di chiedere al Pontefice la prefazione al mio libro»
intervista di Riccardo Bruno (Corriere della Sera, 29.01.2015)
Luigi Zoja, psicanalista junghiano, quindici anni fa ha scritto Il gesto di Ettore, un caposaldo nell’analisi tra padri (assenti) e figli, testo ancora molto letto e tradotto. «Ettore si sfila l’elmo, prende in braccio il figlio e prega che diventi più forte di lui - spiega Zoja -. Nella mitologia non c’è solo Edipo, il padre castrante, ma anche la figura di un genitore forte e positivo».
Papa Francesco parla di figli «orfani», perché vivono in famiglie con padri assenti.
«L’atteggiamento della madre è radicato nella biologia, e in tutte le culture varia di poco. Quello del padre è invece variabilissimo: non basta avere il ruolo fecondante, bisogna riconoscere e alimentare il proprio figlio, fisicamente ma anche affettivamente e culturalmente. Il padre era tradizionalmente preposto a una funzione secondaria, a dire dei no, a insegnare a limitare i bisogni. E questo sta venendo meno».
Eppure sempre più padri cambiano i pannolini, svolgono compiti prima esclusivi delle madri.
«È vero e anch’io l’ho fatto con i miei tre figli. È molto bello e ti gratifica. Credo che in parte derivi dal senso di colpa dopo secoli di patriarcato e di abusi, come se si sentisse il bisogno di essere accettati».
E questo è positivo?
«Sì, è positivo. E rispetto a quindici anni fa è un fenomeno che si ulteriormente rafforzato».
E allora perché i padri sono sempre più assenti?
«Perché non viene coperta o è sottovalutata l’educazione, la fase dell’adolescenza. Per esempio, il padre, soprattutto con i figli maschi, deve essere in grado di canalizzare l’aggressività dei giovani».
E deve proporsi come modello. Ma in una società competitiva come la nostra, non è allora meglio che si dedichi alla carriera piuttosto che stare troppo a casa?
«Quando scrivevo il libro la mia figlia più piccola mi rimproverava che non l’aiutavo a fare i compiti».
E adesso immagino che sia orgogliosa di lei...
«Se non ti dedichi alla carriera chissà che un giorno tuo figlio non ti rimproveri di essere stato un pappamolla, che per colpa tua non potrà comprarsi una casa. In effetti l’equilibrio è delicatissimo».
Francesco invita anche a evitare di mettersi «alla pari».
«Deve esserci comunicazione ma senza eccedere, il padre deve mantenere la sua figura di rispettabilità. Non bisogna creare una “società di fratelli”, ma recuperare anche una verticalità nei rapporti. Lasciandoci alle spalle la società patriarcale abbiamo finito per buttare anche il bambino con l’acqua sporca».
Anche in questo è d’accordo con il Papa.
«Sì, ma anche lui deve stare attento. I termini Papa e papà, non a caso, hanno la stessa radice. Bergoglio cerca di essere alla mano, ma a mio avviso a volte è al limite. Se il Papa diventa un amicone rischia di perdere autorevolezza. Così come un papà».
Società
La mamma, Dio e la nonviolenza
di Monica Lanfranco (Il Fatto, 18 gennaio 2015)
Avevamo bisogno, dopo il bagno di sangue e le puntualizzazioni su chi è o non è Charlie, dell’esternazione del Papa circa l’onore della mamma da difendere?
No, purtroppo. Pur sapendo che ogni evento, notizia ed emozione viene triturata nella turbina social che nulla sedimenta qualche pulviscolo resta impresso, e il pugno papale è memorabile, quindi doppiamente dannoso.
Usando l’ottimo stile comunicatore tanto caro a Berlusconi e a Renzi (la scanzonata mescolanza di pop e friendly, con selfie, corna, barzellette e frasi a effetto) il campione della fede Papa Francesco smentisce la sobrietà manifestata nella scelta del suo nome e mette ko qualche decennio di faticosa costruzione di pratiche politiche collettive nonviolente e antisessiste.
Proprio lui che, pochi mesi fa, sull’omosessualità affermava ‘chi sono io per giudicare’, oggi sostiene che chi insulta la mamma si deve aspettare un pugno. Seguono interpretazioni della sottile metafora da parte di autorevoli uomini: Eugenio Scalfari scrive che non si può chiedere al Papa di essere volterriano, visto che la ‘mamma’ di Bergoglio è la chiesa cattolica, e Moni Ovadia trova l’esternazione lungimirante, plaudendone l’iniziativa, perché manda un messaggio di forza della comunità dei credenti cattolici, pronti anche loro a difendere la chiesa così come gli islamici han dimostrato di difendere la loro fede. Si profila dunque l’annuncio di una simpatica nuova crociata che, date le premesse, sarà la fine della vita sulla terra nel nome di una entità (dio) che non ha ancora manifestato la sua esistenza. Non era meglio morire nel nome di qualcosa di più sostanzioso? Pubblicità
Qui e ora, in attesa di sviluppi io, modestamente donna, madre e attivista nonviolenza e femminista, trovo che la frase così lungimirante mi scaraventi in un angolo per tre volte: come attivista, come donna e come madre.
I pugni non sono simboli, sono carne e ossa contro altra carne e ossa, chi ne ha fatto esperienza lo sa, e con buona pace dell’epos letterario che racconta di amicizie virili cementate dai cazzotti essi restano un gesto d’aggressione e di violenza, che raramente non ha conseguenze.
Nelle scuole in cui vado a fare formazione sulla violenza di genere affronto ogni volta la semplificazione da parte dei ragazzi e delle ragazze verso lo schiaffo, la spinta, il pugno, gesti spesso vissuti come ‘inevitabili’, ‘naturali’, giustificati dalla gelosia e dalla necessità di far rispettare onore, gerarchia, proprietà: lei guardava un altro, lui guardava un’altra, lei è mia, lui è mio, che hai da guardare, che cosa hai detto di mia sorella, di mia madre, della mia ragazza?
Clima da rissa, da stadio, da caserma, (ma siamo a scuola) inarginabile facendo sottili distinguo: un pugno non è peggio di uno schiaffo, di una spinta.
Le mani o si alzano o si tengono abbassate: la bella campagna di Intervita lo dice con efficacia, ma evidentemente al Papa è sfuggita. Dietro e prima del pugno c’è la visione delle donne come esseri da difendere, ma solo se e quando sono in una relazione di proprietà: non è forse vero che tutte le donne sono puttane, tranne mia madre e mia sorella? Eccolo il desolante riassunto dell’ancestrale, brutale logica (e pratica) del patriarcato globale, che spesso risuona nei nostri cortili con i proclami pro famiglia della subcultura leghista e fascista (donne e buoi dei paesi tuoi, un orrore senza fine).
Sono atea, e credo con passione che alla violenza di qualunque tipo si debba opporre altro, diametralmente lontano da ogni eco di aggressione.
Non possiamo smantellare la casa del padrone con gli attrezzi del padrone, scrive Audre Lorde. O s’insegna in famiglia, scuola, chiesa e dopolavoro una cultura del rispetto, del ripudio della violenza (dalle parole ai gesti), o presto si arriva a superare quella soglia, quel limite, che trasforma il faticoso ma fecondo terreno del conflitto nella rapida e mortale guerra.
Guerra tra le persone, le comunità, i popoli, il mondo. E’ una certezza, oggi: dal pugno alla guerra santa il passo non è lungo.
I pugni, Francesco e tutti gli altri, imparate a tenerli in tasca.
Documento preparatorio del Sinodo sulla famiglia: qualche domanda sul rapporto tra uomini e donne
di Rita Torti (www.teologhe.org, 8 novembre 2013)
Sulle caratteristiche e sulle importanti implicazioni del Documento preparatorio alla III Assemblea generale straordinaria del Sinodo dei Vescovi, reso pubblico in questi giorni, molto è già stato scritto. Tuttavia alcuni aspetti rimasti per il momento in ombra suscitano interrogativi che credo valga la pena di condividere, raccogliendo così anche l’invito contenuto nell’ultima domanda del Questionario allegato al testo introduttivo: “Ci sono altre sfide e proposte riguardo ai temi trattati in questo questionario, avvertite come urgenti o utili da parte dei destinatari?”.
1) Un primo dato che balza agli occhi è che nell’elenco delle “numerose nuove situazioni che richiedono l’attenzione e l’impegno pastorale della Chiesa” sono contemplati fenomeni di vario tipo - dai matrimoni misti alle famiglie monoparentali, dai fenomeni migratori ai messaggi dei mass media, dalle legislazioni civili alle madri surrogate -; a dire il vero alcuni di essi non rientrano propriamente nella categoria della “novità” (ad esempio la poligamia o i matrimoni combinati - questi ultimi abbondantemente conosciuti anche dalle società europee).
Manca però qualunque accenno, nel testo e nel Questionario, a un fenomeno drammatico, documentato e diffuso in modo trasversale nei diversi contesti geografici, culturali e sociali: quello della violenza di genere (fisica, sessuale, economica...) all’interno delle famiglie.
La domanda che ci si può porre è allora questa: come mai a parere degli estensori del documento la violenza maschile nei confronti delle donne non è un problema da mettere in luce, da indagare e da evangelizzare?
E’ improbabile che in un testo così ufficiale e importante l’assenza sia casuale. Tuttavia sarà utile ricordare che questa mancanza può aggravare la situazione di milioni di donne - spose, ma anche figlie - di ogni parte del mondo, che a questo punto non solo subiscono violenze all’interno della famiglia, ma si trovano ad essere anche invisibili agli occhi dei pastori della Chiesa.
2) Il silenzio su questa ferita endemica delle relazioni familiari è rafforzato, sempre nell’elenco delle situazioni che richiedono “attenzione e impegno pastorale”, da un’altra scelta: quella di segnalare esplicitamente la presenza di “forme di femminismo ostile alla Chiesa”, e di ignorare invece la presenza - certamente più concreta, diffusa e radicata, anche in contesti cattolici - di mentalità e prassi maschiliste.
Anche in questo caso, in molte donne - e auspicabilmente in altrettanti uomini - può sorgere una domanda: davvero il maschilismo nelle sue varie declinazioni non è un problema per le relazioni familiari, e per le donne e gli uomini che ne sperimentano gli effetti? Davvero è un fatto che non suscita alcun interesse nei pastori della Chiesa, e su cui essi non ritengono quindi di dover sollecitare esplicitamente la riflessione delle comunità cristiane?.
3) Passando alla parte del Documento in cui si illustra “la buona novella dell’amore divino” che “va proclamata a quanti vivono questa fondamentale esperienza umana personale, di coppia e di comunione aperta al dono dei figli, che è la comunità familiare”, un altro interrogativo sorge nel seguire quelli che il testo definisce “riferimenti essenziali” delle fonti bibliche su matrimonio e famiglia.
Dopo alcuni rimandi a passi della Scrittura che mostrano l’importanza attribuita al matrimonio, all’amore e all’indissolubilità del legame coniugale, il paragrafo intitolato “L’insegnamento della Chiesa sulla famiglia” si apre con questa enunciazione: “Anche nella comunità cristiana primitiva la famiglia apparve come la ‘Chiesa domestica’ (cf. CCC,1655). Nei cosiddetti “codici familiari” delle Lettere apostoliche neotestamentarie, la grande famiglia del mondo antico è identificata come il luogo della solidarietà più profonda tra mogli e mariti, tra genitori e figli, tra ricchi e poveri”.
Che gli autori delle Lettere apostoliche considerassero con tanta ammirazione la “famiglia del mondo antico” è affermazione che probabilmente la maggior parte dei biblisti non sottoscriverebbe, anche volendo mettere tra parentesi le notevoli differenze che correvano tra il mondo greco e il mondo romano in questo ambito del vivere. Ma più immediata e alla portata di tutti è un’altra riflessione: in che senso si può definire “luogo della solidarietà più profonda tra mogli e mariti” la realtà che il Documento preparatorio illustra ad esempio con il rimando alla Prima lettera a Timoteo (2,8-15), che ordina fra l’altro: “La donna impari in silenzio con ogni sottomissione. Poiché non permetto alla donna d’insegnare, né di usare autorità sul marito, ma stia in silenzio. Infatti Adamo fu formato per primo, e poi Eva; e Adamo non fu sedotto; ma la donna, essendo stata sedotta, cadde in trasgressione; tuttavia sarà salvata partorendo figli, se persevererà nella fede, nell’amore e nella santificazione con modestia”?.
Quindi, l’ultima domanda: in che modo questo e gli altri testi a cui il Documento rimanda (appunto, i famosi/famigerati codici domestici) possono comunicare la buona novella alle famiglie di oggi? Sarà veramente opportuno portare come esempio di famiglia evangelica brani che per secoli sono stati usati dalla teologia, dalla predicazione e dagli uomini comuni per rafforzare con il sigillo divino quella che era considerata la legge naturale della superiorità maschile e inferiorità femminile?!
Davvero siamo sicuri che nessuno se ne approfitterà per legittimarsi padrone, e davvero siamo sicuri che nessuna penserà che allora subire è cosa buona e giusta? Le esperienze che si registrano in ogni parte del mondo - e che gli estensori del Documento certo non ignorano - sembrano dirci che no, non possiamo essere sicuri.
Vaticano e Italia, mali comuni
di Furio Colombo (il Fatto, 03.06.2012)
La domanda è questa: la turbolenta spaccatura che sta attraversando il Vaticano e - come in un film dell’orrore - arriva fino alle stanze del Papa, è la stessa spaccatura di profondità sconosciuta, che tormenta l’Italia? La risposta è sì. È una brutta risposta, perché dice che il Vaticano - il papa, il governo della Chiesa, la Istituzione - dovranno confrontarsi con uno sforzo immane per uscire dalla palude. Dovranno, soprattutto, dimostrare una decisa volontà di farlo, senza sotterfugi, autocelebrazioni e finzioni. Qualcosa che in Italia non è ancora accaduto.
Che cosa hanno in comune la storia italiana contemporanea e quella del Vaticano, che cosa può dimostrare la stessa natura del male (corvi, complotti, spionaggi, agguati, tradimenti e misteriosi tornaconti, in cui spesso restano ignoti mandante e beneficiario)? Prima di produrre le prove di quello che sto scrivendo, devo tentare di definire questo "male comune" che mette in pericolo l’equilibrio e persino la continuità di due Stati.
Lo descriverei così. È la decisione, abile e pericolosa di affidare immagine e auto-definizione a principi e programmi alti e nobili sempre più lontani dalla realtà che invece peggiora sotto gli occhi di tutti. In questo modo si evita ogni spietata e coraggiosa verifica dei fatti, accusando più o meno oscuri nemici di essere l’unica causa del male (malareligione o malapolitica).
Proverò a produrre alcune prove della situazione inaffidabile che scuote e tormenta tanto l’Italia quanto il Vaticano e la Chiesa, precisando che di questi due ultimi protagonisti parlerò a partire da ciò che vede e constata un osservatore estraneo, dunque dalle manifestazioni sociali, organizzative, di governo, non di fede e di religione, che in questa riflessione non entrano mai.
COMINCIO da uno spunto che mi pare molto utile perché fa da ponte fra politica vaticana e politica italiana (istituzioni e leggi) e dunque chiama apertamente in causa quei cittadini che sono allo stesso tempo attivi nelle istituzioni italiane e vincolati all’ubbidienza di Vaticano-Stato e di Vaticano-Chiesa. Intendo riferirmi al finto culto della famiglia, che viene visto come strumento di aggregazione (ma anche di espulsione, se non si tratta della famiglia giusta) e come fondamento dell’edificio politico conservatore (di nuovo inteso come argine e frontiera contro ogni mutamento di aggregazione sociale, visto come turbamento della conservazione politica).
Ho appena scritto "finto culto della famiglia" perché nessun gruppo sociale è più solo, abbandonato, privo di sostegno morale e sociale, da parte di entrambi i celebranti di questo culto, la Chiesa e la politica. È vero, non tutta la Chiesa e non tutta la politica. Ma qui interessa individuare i percorsi da cui entra con impeto il disordine, il distacco, l’apparente sottomissione e il profondo cinismo di cui stiamo parlando.
Quando si spengono le luci su eventi e giornate organizzate per celebrare la famiglia, non resta né un asilo né una scuola né un sostegno per le madri che lavorano, né un progetto, per quanto austero, per le famiglie troppo povere, per esempio Rom e immigrati, dove la presenza di mamme e bambini non ha mai fatto differenza.
Pensate alla distruzione di un campo nomadi (e agli animaletti di peluche che restano fra i denti delle ruspe). Pensate ai pasti scolastici negati ai bambini se le famiglie non possono pagare. O all’internamento delle donne dette “clandestine” nei “Centri di identificazione”, improvvisamente e brutalmente separate dai loro bambini a causa di un arresto arbitrario (parlo di eventi vissuti e constatati).
E, come se non bastasse, aggiungete la risoluta e congiunta condanna (Stato-Chiesa) delle famiglie “diverse”, definite “una minaccia”. Ecco, in questa finzione, che è forse la madre di tutte le finzioni di atti e fatti che hanno solo un fine politico (impedire che esistano altri tipi di famiglia, di amore, di figli), sta il deposito di cinismo, tradimento, rincorsa del potere, distacco da ogni valore, di patria o di fede, che constatiamo nel doppio dramma, dell’Italia e del Vaticano.
Appartengono alla galleria delle finzioni (che si trasformano in veri inganni) le folle di autorevoli finti credenti, pronti a ricevere i sacramenti, purché in presenza di telecamere e di pubblico, o alla gara dei medici che si dichiarano obiettori di coscienza negli ospedali dove essere obiettori “fa curriculum” per i medici, qualunque sia la condizione della donna che chiede aiuto.
IL FINTO credente, che trova Dio solo se la cerimonia è ben frequentata e notata da chi deve notare, corrisponde al finto amor di patria di chi - specialmente fra i politici - cerca la benevolenza delle Forze Armate e “dei nostri ragazzi in armi”, ma si infastidisce se quei ragazzi sono in tuta da operaio, magari iscritti a un sindacato, specialmente se quei ragazzi insistono nel pretendere i diritti che legge e Costituzione garantiscono. Intorno, nell’una e nell’altra chiesa, c’è un deserto di solidarietà.
In Europa nessuno è più solo e più abbandonato dei disabili italiani. In quel vuoto entrano i rapitori di Emanuela Orlandi, i maggiordomi con doppio e misterioso lavoro, i banchieri improvvisamente cacciati per ragioni non dette, i tesorieri di partito, gestori di ricchezze comunque illecite che dividono diamanti e spese indecenti con strani infiltrati nella vita pubblica, tutti molto simili, per coraggio e mancanza di scrupoli, a certi cardinali.
La Repubblica italiana come istituzione politica, e il Vaticano come governo dell’omonimo Stato e della Chiesa, sono contenitori di società segrete, intente a un sommerso, ininterrotto lavorìo di promozione (il mio uomo contro il tuo) e di eliminazione reciproca, in una infinita variazione di casi Boffo. I maggiordomi, con o senza la severa uniforme vaticana, avranno ancora molto da fare. Ai credenti nella fede e nella patria toccano tempi duri
«Ci sono tante Concetta ma vanno aiutate davvero Sono la speranza del Sud»
intervista a Luigi Ciotti,
a cura di Massimiliano Amato (l’Unità, 11 febbraio 2012)
Maria Concetta, Lea, Rita, Giuseppina. Storie di donne che, dice don Luigi Ciotti, «hanno deciso di ribaltare il piano inclinato della violenza lungo il quale le mafie fanno scivolare la vita di migliaia di persone, ed adesso si rifiutano di ritenere quella mafiosa l’unica organizzazione sociale possibile». C’è più di una nota di speranza, nelle parole del fondatore di “Libera”. C’è la consapevolezza ragionata che si è messo in moto un meccanismo inarrestabile, impensabile appena pochi anni fa nel Sud del padre-marito-figlio padrone.
È lo scardinamento definitivo di un modello ancestrale, don Luigi?
«C’è questo dato, che può interessare i sociologi, ma c’è ovviamente molto altro. La molla che fa scattare la ribellione è l’arrivo dei figli. È l’amore viscerale che produce la rottura: il pensiero delle creature che hanno messo al mondo le spinge a chiudere con quel mondo di sopraffazione e violenza. Lea Garofalo la conobbi a Firenze, al termine di una manifestazione di “Libera”. Si avvicinò e mi chiese aiuto, non per sé, ma per Denise, la figlia: Lea non voleva che la ‘ndrangheta le rubasse la vita come l’aveva rubata a lei. Le procurammo un avvocato, che ora assiste Denise nel processo contro i presunti assassini della madre. In fondo, che cosa mi aveva chiesto la povera Lea? Di aiutarla a riappropriarsi della propria dignità, e di esser messa nelle condizioni di far crescere la figlia in un mondo pulito».
Poi venne Maria Concetta Cacciola.
«Un’altra bella e alta donna del Sud, come Rita Atria, come la Buscemi, che sfidò i suoi fratelli nelle aule di Tribunale, come Felicia Bortolotti Impastato. Quando le uccisero il figlio Peppino disse una cosa meravigliosa: non voglio vendetta, voglio giustizia. Trasformò immediatamente il dolore in volontà di cambiamento. Ora sono loro, le donne, la punta più avanzata del risveglio antimafia che registriamo al Sud».
Uno spiraglio di luce.
«Più di uno spiraglio. C’è uno straordinario fermento sotterraneo, sicuramente frutto del grande lavoro culturale svolto negli ultimi anni nelle scuole e all’interno della società meridionale. Perché guardi, in queste donne non c’è solo la volontà di cambiare campo, c’è soprattutto il bisogno di ritrovare ciò che le mafie hanno rubato loro: la libertà, la vita, la dignità».
È un movimento importante?
«È un fiume che va progressivamente ingrossandosi. Non ci sono solo le collaboratrici e le testimoni di giustizia. Ci sono tante donne, come associazione ne seguiamo attualmente una quindicina, che fanno fagotto e basta. Scappano con i figli, decidendo di rompere per sempre con quella vita. Magari non hanno niente da offrire allo Stato, perché dei loro uomini, mariti, fratelli, padri, sanno solo che sono dei delinquenti e basta».
E chi le protegge?
«Ci sforziamo di farlo noi, e sono salti mortali. Recentemente sono stato contattato da una di loro, a cui hanno ammazzato il marito. Niente nomi. Ha una figlia piccola: mi ha detto che vuole che cresca al Nord, lontana dall’ambiente che ha deciso la morte del padre. È un problema del tutto nuovo, perché queste persone non rientrano nei parametri previsti dalla legge per l’applicazione delle misure di protezione. Non hanno scorta, né sussidi economici dello Stato, non possono cambiare identità».
Come fate?
«Ci affidiamo alla rete di sindaci amici che abbiamo cercato di creare in tutta Italia. Ci danno una mano loro. Le facciamo spostare in continuazione da un comune all’altro, sempre sperando che non accada niente, perché il mondo che si sono lasciate alle spalle non dimentica: le cerca, le tampina. E loro, giustamente, hanno paura. Ma in tutte il riscatto della dignità è più forte del timore di eventuali ritorsioni».
Sarà necessario intervenire sul piano normativo?
«Basterebbe esercitare buon senso e umanità: è sufficiente la stipula di protocolli riservati, in grado di coprire la vacatio legis. Ci troviamo di fronte a persone che hanno deciso con coraggio di infrangere codici millenari, fondati sulla violenza e su un assurdo rispetto sacrale del ruolo subordinato della donna. Per le mafie, sono mine vaganti non per quello che possono rivelare ai magistrati, ma soprattutto perché simboleggiano il tramonto di un modello culturale».
oops!
di Mirella Camera
in “a latere...” (http://alatere.myblog.it) del 13 aprile 2011 *
Annunciato con squilli di tromba in tutto il mondo cattolico, Youcat (furbo acronimo di Youth catechism), il mini-catechismo che Benedetto XVI vuole dedicare ai giovani, dopo essere apparso per pochi giorni in libreria è stato ritirato in fretta e furia. Motivo? Un “errore” di traduzione nella versione italiana, che alla domanda 420: "Può una coppia cristiana fare ricorso ai metodi anticoncezionali?" risponde: "Sì, una coppia cristiana può e deve essere responsabile nella sua facoltà di poter donare la vita".
Nella versione originale non si parla di “anticoncezionali” ma di “controllo del numero dei figli”. Detto a latere, questo è il secondo errore di traduzione che mette in imbarazzo la gerarchia: l’altro era relativo, guarda caso, all’uso del condom da parte di “una prostituta” che poi nell’originale dell’intervista al papa si è rivelato essere “un prostituto”. Si vede che la lingua batte dove il dente duole.
Ma andiamo avanti. Questo mostra, ancora una volta, la distanza siderale che c’è tra l’insegnamento dottrinale e la vita reale delle persone.
L’intenzione e la volontà di pianificare il numero di figli è definita dalla Chiesa cattolica nei suoi documenti ufficiali “paternità responsabile”. Ci sarebbe da chiedersi perché non “maternità responsabile”, che sarebbe molto più logico, vista la parte che ha la donna nella faccenda. O, meglio ancora, “genitorialità responsabile” in modo che siano ben chiari i soggetti della decisione. Comunque sia, questa volontà è ritenuta cosa responsabile, quindi buona e giusta.
E’ sui mezzi che scatta una feroce idiosincrasia, come se questi fossero di per sé molto più importanti dell’intenzione stessa. La spirale no, e fin qui possiamo capire: agisce sulle cellule già fecondate, quindi sarebbe una sorta di proto-aborto. Ma la pillola neanche, perché "distorce la natura e gli obiettivi del sesso". E il preservativo, innocuo aggeggio di lattice che ha solo una funzione di barriera meccanica e che più povero di così non potrebbe essere? Nemmeno quello, perché banalizza la sessualità. Anzi, contro il preservativo la Chiesa ha scatenato una vera guerra come se fosse uno strumento del diavolo, visto che lo vieta persino in caso di Aids fra coniugi.
Salvo, a sorpresa, sentirsi dire dal papa stesso che può essere concesso in un rapporto omosessuale a pagamento. Forse perché in quel caso l’intenzione di regolare le nascite proprio non si pone?
Al posto di tutti questi mezzi, normalmente usati con efficacia dai non osservanti, la Chiesa propone solo l’astinenza sessuale, magari guidata dai cosiddetti “metodi naturali”; che in realtà sono metodi molto macchinosi, di gestione a volte irrealizzabile nella vita reale di una famiglia e per nulla sicuri (metodi Billings, Ogino-Knaus, temperatura basale).
Che si tratti di catechismo per i giovani o di quello degli adulti, su questo tema, sulla sessualità in genere e su moltissimi altri argomenti la Chiesa cattolica dovrebbe fare un profondo ripensamento. Di forma ma soprattutto di contenuto. Se ne parla da anni e lo chiedono in molti, non certo eretici o secolarizzati persi. Ma la risposta è sempre un arroccamento nella Dottrina.
Se il papa pensa che presentando un catechismo in formato quiz con una simpatica copertina gialla si venga incontro alle domande dei credenti di nuova generazione, sbaglia di grosso. Sarà infallibile ma sbaglia. Per passare il testimone della fede ai ragazzi non gli si dà in mano una sorta di manuale d’uso, come se dovessero mettere in moto la loro fede alla maniera di un frullatore o di un microonde. Manuale oltretutto vecchio e datato, le cui affermazioni sono desunte da una logica filosofica tramontata da secoli (il tomismo) e che non risponde più alle domande di oggi.
Tra i primi atti di Benedetto XVI c’è stata la consegna del Compendio, un catechismo "leggero" cheevidentemente lui considera strumento imprescindibile per un credente. Ora la replica con i giovani. Ma non sarebbe molto meglio dare il Vangelo?
* Fonte: Fine settimana.org
Sul tema, nel sito, si cfr.:
La violenza rituale del «melting pot» romano
Un nuovo volume della Fondazione Valla presenta i testi che celebrano la nascita di Roma e le sue mitologie, a cominciare dal ratto delle Sabine
DI ROSITA COPIOLI (Avvenire, 08.05.2010)
Violenza e rapimento, trasgressione e violazione, sono i primi atti compiuti per mutare un ordine e stabilirne uno nuovo.
Dopo la fondazione di Roma, Romolo, ispirato dal padre Marte, decide di prendere con la forza le donne che i popoli del Lazio gli negano, perché disprezzano il suo popolo di pastori.
Organizza giochi in onore di Posidone, ai quali invita gli abitanti delle città vicine. Il ratto delle donne sabine avviene con l’inganno durante il rito.
La violenza ha uno scopo matrimoniale. I Romani vogliono che sia sancito il loro diritto al connubio e alla fusione dei popoli. Alla guerra che segue, al tradimento di Tarpeia in favore dei Sabini, punito con la morte, subentra la riconciliazione tra i popoli: la vogliono le stesse donne rapite.
Dietro lo schema del ratto rituale (affine ai riti di passaggio), diffuso in tutto il mondo, benché più raro in forma collettiva, si celano concezioni del mondo estremamente complesse.
I Romani assimilano Greci, Etruschi, Italici, Orientali, sacralizzano ogni atto e concetto con la stessa concreta mania distintiva degli antichi Vedici.
Nei luoghi consacrati della fondazione della «Roma quadrata» a partire dalla metà del IX secolo a.C. e della sua estensione territoriale, ogni costruzione, distruzione, ricostruzione, prevedeva sacrifici, uccisioni rituali, la città dei vivi si sosteneva sui morti, passati violentemente nell’aldilà.
Questo rapporto ctonio, e celeste, per l’osservazione degli astri e del Tempo nel calendario (lunare e di dieci mesi fino ad età regia), indica la struttura che regola uomini e donne sulla terra.
Quando Augusto si instaurò come nuovo Romolo, nella sua domus inglobò la «Roma quadrata» del fondatore, vi restaurò il Lupercale, il «presepe» di Romolo e Remo nel proprio santuario, definì il calendario solare riformato da Cesare.
Singolarmente, la cappella palatina di Santa Anastasia di età costantiniana, che si affiancò alla domus , iniziò a celebrare lì il Natale cristiano, il presepe nuovo rispetto all’antico.
E le donne? Le donne sono la terra. Che viene presa e posseduta. Le donne diedero allora i nomi alle curie. Una consolazione, rispetto al principio del ratto? No. L’interpretazione simbolica rispetta la violenza reale. Nemmeno sant’Agostino è immune dall’idea del possesso - legittimo, attraverso la violenza: «il vincitore avrebbe conquistato per diritto di guerra le donne che gli erano state negate ingiustamente; invece le rapì contro ogni diritto di pace e fece una guerra ingiusta contro i loro genitori giustamente sdegnati» ( La città di Dio, II, 17).
Si crede che Roma sia conosciuta. Eppure le infinite denominazioni di Giove, Giunone, Venere, di figure come Conso, Pico, Bona Dea, Acca Larentia, Tacita Muta, Anna Perenna, riti come i Matralia, sono ancora nascosti nelle viscere della città. Penso al ritrovamento straordinario (1999) del deposito di Anna Perenna, che presiedeva all’anno, al cibo, alla magia. Questo libro dimostra fino a che punto sia possibile rivedere la realtà antica di Roma, attraverso l’analisi comparata di fonti mitiche, etnografiche, letterarie, artistiche, epigrafiche, giuridiche, di tutti gli studi storici nel loro complesso, alla luce delle più recenti indagini archeologiche stratigrafiche: condotte fino a raggiungere la terra vergine.
*
A cura di Andrea Carandini
LA LEGGENDA DI ROMA
Dal ratto delle donne al regno di Romolo e Tito Tazio
Fondazione Valla/ Mondadori Pagine 452. Euro 30
Pedofilia Grazie a Dio tutto il mondo se ne sta
occupando.
Ma chi sono veramente gli uomini che
molestano e abusano dei bambini?
Adulti sessualmente immaturi che in modo perverso veicolano nel sesso il loro potere
— Quei figli traditi dai padri mancati
Psichiatria. Tra pedofilia e omosessualità non c’è alcun legame
Il genere conta poco. La seduzione è data dal controllo su un oggetto fiducioso
Lo psicoanalista Ferenczi. Un’estrema confusione tra i linguaggi di tenerezza e passione
Il trauma. Ogni volta che succede vuole dire che qualcuno ha chiuso gli occhi
di Vittorio Lingiardi, Ordinario di Psicopatologia a Roma (l’Unità, 07.05.2010)
Grazie a Dio tutto il mondo si sta occupando dei casi di molestie e abuso perpretrati da preti cattolici su bambini e adolescenti bisognosi e fiduciosi. Il tema, già difficilissimo per gli addetti ai lavori, ha sollevato dichiarazioni false, grossolane, crudeli o semplicemente strategiche. Con buona pace del Cardinale Bertone, tra pedofilia e omosessualità (laica o talare che sia) noi psichiatri non vediamo alcun legame (come dovremmo chiamare chi abusa di bambine o ragazze?). La stessa definizione di pedofilia formulata dall’International Classification of Diseases («preferenza sessuale per soggetti in età prepuberale o puberale iniziale. Alcuni pedofili sono attrati solo dalle ragazze, altri solo dai ragazzi ed altri ancora da entrambi i sessi») verrebbe a cadere. In alcuni casi, inoltre, il genere della vittima conta poco, essendo il potere e il controllo su un oggetto fiducioso, più che le sue caratterstiche sessuali, a stimolare la seduzione, l’eccitazione e la predatorietà.
Qualunque psicologo, psichiatra o assistente sociale, peraltro, sa che gli abusi sui minori avvengono per lo più all’interno della famiglia da parte di maschi adulti eterosessuali. Per Hans Kung una delle principali cause del proliferare di condotte pedofile nella Chiesa va ricercata nel celibato. Non credo.
Direi piuttosto che la personalità pedofila può trovare nella posizione ecclesiastica, e di conseguenza nel celibato, un habitat che consente un’identità sociale slegata da un’opzione sessuale esplicita e la possibilità di stare in intimità psichica e fisica con un pubblico giovane in attesa di educazione. Quell’educazione che un grumo di fiducia e tradimento può trasformare nella mala educación di cui, con intuito ed esperienza, ci ha raccontato Almodóvar. Agli occhi dell’adolescente sedotto, il sacerdote incarna l’autorevolezza e l’autorità del Padre. Il prete pedofilo (che spesso a sua volta ha una storia di abuso) è contemporaneamente l’adulto sessualmente immaturo che si proietta e identifica predatoriamente nel bambino o adolescente da sedurre, e l’adulto che sessualizza in modo perverso il potere insito nella sua funzione pedagogica e genitoriale.
Il titolo di un saggio del 1932 dello psicoanalista ungherese Sandor Ferenczi aiuta a capire più di molti discorsi: Confusione delle lingue tra adulti e bambini. Il linguaggio della tenerezza e il linguaggio della passione. Sarebbe dunque più appropriato ragionare di «padri mancanti e figli traditi», all’interno di un tipo di relazione in cui l’adulto sfrutta a fini sessuali, spesso senza averne coscienza, il potere conferitogli dal suo status. La dinamica si protegge dall’interno e dall’esterno per mezzo di negazioni («non dire a nessuno cosa stiamo facendo», «questo è il nostro segreto») e razionalizzazioni («gli/le sto donando un’esperienza d’amore speciale»).
Chi conosce le dinamiche e gli effetti di un abuso sessuale subito nell’infanzia sa che la possibilità di condividerlo in un racconto fiducioso (e qui si gioca un grande passo della terapia) è uno degli elementi che possono aiutare l’elaborazione di un fatto di per sé inelaborabile. Dunque, almeno simbolicamente, il recente impegno all’ascolto preso da Ratzinger a Malta è un fatto, se non terapeutico, quantomeno in grado di promuovere sollievo psichico in alcune vittime.
Ma chi è esperto di questa materia sa anche che i casi di vittimizzazione sessuale di un minore implicano quasi sempre tre posizioni soggettive tipiche: la vittima/ superstite, il perpetratore e lo spettatore silenzioso, che sa o percepisce che qualcosa non va, ma rimane in silenzio. Per dirla con la Frawley-O’Dea, una dei massimi esperti di trauma, «ogni volta che un minore subisce un abuso sessuale, vuol dire che qualcuno ha chiuso gli occhi».
Dopo averli chiusi per anni, la Chiesa, travolta da uno scandalo senza precedenti, oggi è costretta ad aprirli. All’impegno preso dal Papa di «consegnare i responsabili alla giustizia», si affiancano manovre di attacco che dispiacciono. Vengono attaccati i media perché «ostili alla fede». Ma come si può condannare gli abusi e al tempo stesso stigmatizzare il sistema informativo che li ha rivelati al mondo? Vengono attaccati gli omosessuali, e in particolare i preti omosessuali. Ma che senso ha accanirsi, contro ogni evidenza scientifica, su soggetti incolpevoli, vulnerabili e già marginalizzati?
Non si tratta, come dice anche Mauro Pesce nella bella introduzione al volume Atti impuri. La piaga dell’abuso sessuale nella chiesa cattolica (Cortina, 2009), di essere cattolici o anticattolici, ma di analizzare in profondità un problema senza passare né per silenzi omertosi e terrificati, né per scorciatoie scandalistiche. Di studiare le radici di un fenomeno che non ha mai un singolo aspetto, ma che, nel triangolo «vittima-abusatore-spettatore silenzioso», raduna elementi storici, dottrinali e psicologici.
Jung diceva che «qualsiasi realtà interiore che non viene portata alla coscienza, si manifesta all’esterno sotto forma di fato». Basterebbero le parole del Vangelo: «Guardatevi dal lievito dei farisei, che è l’ipocrisia. Non c’è nulla di nascosto che non sarà svelato, né di segreto che non sarà conosciuto. Pertanto ciò che avrete detto nelle tenebre, sarà udito in piena luce; e ciò che avrete detto all’orecchio nelle stanze più interne, sarà annunziato sui tetti».
Pedofilia, la colpa e il reato
Alcuni psicoanalisti hanno argomentato che anche un paziente in analisi è “minorenne” di fronte al terapeuta Se vi è un abuso, difficilmente potrà denunciarlo subito: è ambivalente come l’abusato bambino
di Luigi Zoja, psicoanalista junghiano e saggista (il Fatto, 07.05.2010)
La maggior parte dei crimini ha una delimitazione netta. Qualcuno ha preso un oggetto di nascosto? È un furto. Alcuni, però, hanno un confine variabile. È il caso dell’abuso sessuale, che varia col grado di consenso, col potere delle persone coinvolte e la loro età. Di più. Se anche un oggetto è stato rubato 20 o 30 anni fa, sia il proprietario sia il ladro sapevano che si trattava di un furto. La convinzione che un rapporto sessuale sia stato atto libero o abuso varia invece con la vita dell’abusato. Un bambino desidera sia abbracci sia dolciumi. Può lasciarsi sedurre. Crescendo, potrà capire due cose. Innanzitutto quell’adulto, che dava a lui cibo e affetto, in realtà prendeva per sé.
Secondariamente, quel rapporto era molto asimmetrico: più che di amore, fatto di potere. Ancora più ovvia è la variabilità storica dell’abuso. La definizione di furto cambia poco nei millenni. Invece, fino alla seconda metà del secolo XIX in certi paesi esisteva la schiavitù: il rapporto sessuale del padrone con una schiava - oggi un abuso - era uso. Lo schiavo, infatti, era proprietà. Le differenze non finiscono qui. Per non essere abuso, un rapporto sessuale deve anche tener conto della mentalità prevalente: e quella verso i reati sessuali è molto cambiata nell’ultimo mezzo secolo.
I religiosi e i bambini
Gli abusi commessi da religiosi, di cui oggi si discute, sono prevalentemente omosessuali e su minorenni. Negli Stati Uniti l’omosessualità era definita malattia mentale fino al 1973. Oggi è sempre meno rilevante che le attività sessuali siano omo o eterosessuali, se avvengono fra adulti consenzienti. Viceversa, si presta molta attenzione all’età: oggi gli studi psicoanalitici dicono che costringere i minori ad attività sessuali è traumatico. La loro gravità si dimostra da sola, col tempo.
È un vero contagio psichico: se scaviamo nel passato di un abusatore, quasi sempre scopriamo che egli è stato a sua volta abusato nell’infanzia. Questo ha conseguenze paradossali. Da un lato è una seria attenuante per il colpevole, che in origine è stato vittima non responsabile. Dall’altro, richiede una particolare severità perché il male può perpetuarsi attraverso le generazioni, come una maledizione nella tragedia greca. In ogni caso, oggi si considera che grave sia la violenza psichica compiuta su una mente impreparata, non il tipo di sessualità in sé (in altre parole: il delitto è compiuto contro una persona, non contro il “buon costume”).
Il caso Polanski
Consideriamo un esempio noto. Nel 1977, il regista Polanski comparve di fronte a un tribunale di Los Angeles per reati sessuali su una minore. All’inizio del 1978 fuggì in Francia. Oltre 30 anni dopo è stato fermato dalle autorità svizzere su mandato di cattura americano. Malgrado gli Stati Uniti siano tradizionalmente severi, nel processo del 1978 si era quasi raggiunto un accordo senza pene detentive: l’imputato accettava l’accusa di stupro, ma le altre venivano cancellate (tra cui quella di sodomia, che allora in America era un grave reato punibile in sé, indipendentemente da consenso ed età dei coinvolti).
Persino la madre della ragazza sapeva dove lei si trovava quella sera, e si era offerta di venirla a prendere. È come se nel ‘78 la pedofilia fosse ancora tollerata, similmente all’antica Grecia, ma molto fosse poi cambiato in tre decenni. Oggi la posizione dell’imputato è molto più grave. Non solo scappando si è trasformato in un ricercato: oggi l’età della ragazza (13 anni) e il fatto che Polanski le avesse dato psicofarmaci ed alcool sono valutati molto più severamente che negli anni ‘70.
Gli aspetti sfuggenti
Ma gli abusi sessuali che riguardano oggi la Chiesa cattolica hanno anche un altro aspetto sfuggente. Quello che per la legge è un reato, interessa invece la Chiesa come colpa. Naturalmente, nel moderno Stato laico la Chiesa dovrebbe essere solo una delle tante istituzioni, tenuta a rispettare le leggi come tutti. Ma i criteri morali hanno la tendenza a rimanere per secoli immobili nell’inconscio collettivo: finché non giungono cataclismi di cui è inevitabile prendere atto e che sconvolgono la coscienza della società. È solo in parte vero che la Chiesa non ha voluto accorgersi degli abusi: piuttosto, ha seguitato a trattarli come colpe morali. E mentre la soluzione di un reato si ha con la condanna giuridica, quella della colpa si ha con il perdono.
Anche da una prospettiva psicoanalitica le connessioni dei fatti nel tempo hanno rilievo per valutare le responsabilità. Nella vicenda di Polanski si dovrebbe considerare che egli, bambino ebreo, era sopravvissuto da vagabondo nella Polonia occupata dai nazisti. Nella sua biografia, il regista non specifica con quali espedienti: ma la vita stessa di un piccolo, solo in quelle circostanze, non era già violenza e abuso? Vittima da bambino, l’adulto famoso si è trasformato nel carnefice di una bambina. Oggi, comunque, non è irrilevante che questa, divenuta maggiorenne, lo ha perdonato, chiedendo che le accuse vengano lasciate cadere.
Torniamo alla Chiesa. Proprio nel perdono essa è stata manchevole. Ha concesso assoluzioni direttamente al suo interno. (In casi anche clamorosi, come quello di Padre Maciel - fondatore dei potenti Legionari di Cristo - ha invece castigato: la sostanza autocratica, però, non cambia). Sarebbe invece prioritario coinvolgere le vittime nella riconciliazione. In un mondo che dà ormai per scontati i diritti individuali laici, si sono così formate associazioni di vittime furenti. Queste non chiedono solo punizioni: vogliono che la Chiesa renda conto anche fuori delle sue strutture.
L’abuso nelle terapie
La storia della psicanalisi avrebbe qui qualcosa da insegnare. Nelle prime generazioni, diverse terapie si sono risolte in forme di abuso (gli analisti eran prevalentemente uomini e le pazienti donne). Come la Chiesa, le società analitiche hanno cercato di affrontare questi problemi con procedure interne. Come nella Chiesa, questa modalità ha due aspetti: da un lato, ha permesso che la estrema delicatezza delle rispettive materie (l’educazione religiosa e il processo psicanalitico) non venisse affidata a un apparato giuridico impersonale e impreparato. Dall’altro, sia gli analisti sia il clero hanno certamente seguito questa pista anche per proteggersi dallo scandalo pubblico. Si sono studiate forme di riconciliazione, di indennizzo e si sono messi in discussione i tempi di prescrizione. In qualunque campo, infatti, esistono dei tempi limite per chiedere la punizione di un crimine. Per l’abuso su minori i tempi sono più lunghi: bisogna attendere la loro maggiore età. Per un bambino abusato a dieci anni, solo dai suoi 18 anni si cominciano a contare gli anni per la prescrizione.
Alcuni psicoanalisti hanno argomentato che anche un paziente in analisi è, per diversi aspetti, “minorenne” di fronte all’analista. Se vi è un abuso, difficilmente potrà denunciarlo subito: è ambivalente come l’abusato bambino. Spesso cercherà, con fatica, un altro analista, tentando di nuovo il percorso psicologico. Solo al suo compimento, tornato in ogni senso “maggiorenne”, potrà decidere se denunciare il trasgressore. Le vittime dei religiosi sono spesso doppiamente “minorenni”: lo sono per età, ma sono anche persone educate a non metter in discussione l’autorità del clero.
Oggi sembra che anche la Chiesa stia finalmente pensando a una graduale riconciliazione con le vittime, simile a quella necessaria per gli abusi psicoterapeutici. Lo suggerisce (Süddeutsche Zeitung 23/4/10) l’arcivescovo di Monaco successore di Ratzinger: Reinhard Marx, intellettuale progressista come il lontano cugino Karl.
L’analogia con la psicoanalisi non sta solo nell’origine, ma anche nella soluzione del problema. Le vittime potrebbero ritrovare fiducia in sé attraverso un nuovo rapporto con un religioso non abusante; o con uno psicoanalista, pagato dalla istituzione religiosa. Anche ammettendo che questo abbia successo, rimarrà comunque un problema non risolvibile a priori. Torniamo alla “trasgressione” analitica. L’analisi che Sabine Spielrein compì con Carl Gustav Jung è forse il più clamoroso esempio di rapporto che divenne intimo (non è sicuro se fu anche sessuale) in una maniera oggi inaccettabile. Ma quell’analisi, ormai oggetto di studi infiniti, fu probabilmente anche l’esempio più clamoroso e rapido di guarigione analitica mai visto. Riflettiamo sul motivo.
Dopo gli scandali avvenuti nei collegi religiosi in Germania è stato ricordato (H-E Tenorth, Die Welt 12/3/10; Adolf Muschg, Tagesspiegel 15/3/10; Daniel Cohn-Bendit, Die Zeit 10/3/10) che il modello più alto di insegnamento, quello dell’antica Grecia, includeva la sessualità. Altri (Micha Brumlik, Neue Zürcher Zeitung 14/4/10) hanno precisato che, proprio come oggi, anche allora la vittima di abuso soffriva.
Tra insegnante e allievo
Proviamo a sintetizzare. Il rapporto più ricco tra insegnante e allievo comporta una passione, non troppo diversamente da quello tra paziente e psicoterapeuta. Questa passionalità può anche esser chiamata eros. Non è, però, identica a sessualità: proprio nel dialogo di Platone che definisce l’eros, il Simposio, Alcibiade spiega che ammira Socrate perché è stato il migliore dei maestri senza cadere nella intimità sessuale (allora ampiamente accettata).
Anche oggi il problema è questo. Nessuno dubita che si debba stroncare l’abuso. Molti temono però che, vietando rigidamente emotività e contatti fisici, il docente diventi un soggetto freddo, meccanico, anerotico. Si tratta di una semplificazione eccessiva: spesso gli abusatori sono proprio soggetti poco affettivi, che cercano inconsciamente di superare il loro limite attraverso l’intimità. L’insegnamento - moderno amore conoscitivo - è una passione distinta dalla sessualità. Dopo quella tra insegnamento e psicanalisi, permettiamoci un’ultima analogia, con la letteratura. Anche secondo Dante e Petrarca per il poeta lo scopo dell’amore non era il possesso della persona amata, ma l’elevazione di quella che ama.