PER DON MARIANO ARCIERO, PER SANTA ILDEGARDA, PER LA CARITA’, NON LASCIATE LA “CAPPELLA SISTINA” DI CONTURSI TERME NEL DEGRADO!
Lettera aperta al cardinale Angelo Amato e all’arcivescovo di Salerno Luigi Moretti
CONSIDERATO CHE “Contursi Terme si appresta a vivere un momento di grande solennità e di grande gioia per la beatificazione, in programma il prossimo 24 giugno 2012, dell’illustre concittadino don Mariano Arciero. Il comitato parrocchiale, guidato dal monsignor Spingi, parroco di Contursi, e il comitato diocesano, presieduto dall’arcivescovo Luigi Moretti, hanno individuato la zona del Tufaro, quale luogo in cui celebrare la beatificazione, l’orario (intorno alle 18), e ricevuto assicurazioni che a celebrarla sarà il delegato dal Papa, cardinale Angelo Amato, prefetto per la congregazione per le cause dei Santi”(cfr. Gianluca Squaccio, Una vita per la carità: don Arciero. La beatificazione il 24 giugno, Avvenire, 27.11.2011)
CONSIDERATO CHE “La beatificazione del sacerdote Mariano Arciero va vista come una grande grazia che il Signore ha elargito alla nostra Arcidiocesi di Salerno - Campagna - Acerno e, in particolare, al clero. Riflettere sulla vita, sull’insegnamento, sulle opere di Don Mariano Arciero va visto come un dono ed un impegno per ciascuno di noi. Egli, animato da autentico spirito missionario, fu tutto dedito al ministero sacerdotale, all’evangelizzazione, alla predicazione, alla catechesi ed all’istruzione degli adulti. Oltre a tutto questo, la sua opera fu molto feconda nella formazione delle coscienze e nella direzione spirituale di seminaristi, sacerdoti, religiosi, laici (Luigi Moretti, Arcivescovo Metropolita Arcidiocesi di Salerno - Campagna - Acerno)
CONSIDERATO CHE A CONTURSI TERME SIETE STATI GIA’ IN VISITA ALTRE E VARIE VOLTE E CHE CONOSCETE LE VIE ...
CHIEDO A VOI ILLUSTRISSIMI - come già alla Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le province di Salerno e Avellino (si cfr. allegato), UN INTERVENTO URGENTE PER FERMARE IL DEGRADO E RESTITUIRE AL SUO SPLENDORE LA RITROVATA “CAPPELLA SISTINA”, LA CHIESA DELLA “MADONNA DEL CARMINE”, UN PATRIMONIO STORICO E VITALE PER L’INTERA COMUNITA’ CONTURSANA, ITALIANA ED EUROPEA.
“CONOSCI LE VIE” (“SCIVIAS”)
VISTO, INOLTRE, CHE PAPA BENEDETTO XVI HA DEDICATO TANTA ATTENZIONE A SANTA ILDEGARDA, LA “SIBILLA DEL RENO” (che riceverà da Lui il titolo di “dottore” della Chiesa, ad ottobre di questo anno),
ABBIATE LA BONTA’ DI ACCOGLIERE ANCHE QUESTO ULTERIORE INVITO:
INVITATE IL PAPA A PRESENZIARE PERSONALMENTE ALLA CELEBRAZIONE DELLA BEATIFICAZIONE DEL VENERABILE MARIANO ARCIERO E A FARE VISITA ALLA CHIESA DI MARIA SS DEL CARMINE, OVE POTRA’ FINALMENTE VEDERE MARIA INSIEME AI PROFETI ELIA E GIOVANNI BATTISTA ANCHE LE 12 SIBILLE DELLA TRADIZIONE RINASCIMENTALE E CARMELITANA.
CERTO DELLA VOSTRA NOBILE E CARITATEVOLE ATTENZIONE,
VI PREGO DI ACCOGLIERE I MIEI PIU’ DISTINTI SALUTI
E IL MIO FRATERNO AUGURIO DI BUON LAVORO E
BUONA PASQUA
Federico La Sala (29.03.2012)
Allegati (qui, di seguito):
Lettera aperta al Soprintendente di Salerno, sullo stato della Chiesa "Maria SS. del Carmine" di Contursi Terme
UNA VITA PER LA CARITA’.
don Arciero. La beatificazione il 24 giugno
Il sacerdote fu modello per il clero napoletano
Instancabile, l’«apostolo delle Calabrie» dedicava molte ore al giorno alla predicazione e all’istruzione dei bambini meno fortunati. Ottenne con la sua opera insperate conversioni
di Gianluca Squaccio *
Contursi Terme si appresta a vivere un momento di grande solennità e di grande gioia per la beatificazione, in programma il prossimo 24 giugno 2012, dell’illustre concittadino don Mariano Arciero. Il comitato parrocchiale, guidato dal monsignor Spingi, parroco di Contursi, e il comitato diocesano, presieduto dall’arcivescovo Luigi Moretti, hanno individuato la zona del Tufaro, quale luogo in cui celebrare la beatificazione, l’orario (intorno alle 18), e ricevuto assicurazioni che a celebrarla sarà il delegato dal Papa, cardinale Angelo Amato, prefetto per la congregazione per le cause dei Santi.
Per i devoti don Mariano Arciero è già santo e tale venerazione si è venuta a rafforzare all’indomani dell’evento miracoloso verificatosi a Contursi Terme nel gennaio del 1951 a favore di Concettina Siani, guarita da peritonite tubercolare, grazia acclarata e confermata da diverse e competenti commissioni come «miracolo» ottenuto per intercessione di don Arciero.
Intensa la vita di don Mariano, nato a Contursi Terme il 26 febbraio 1707, da genitori cristiani e modesti lavoratori dei campi, Mattia Arciero ed Autilia Marmura, per cui ad otto anni andò a servizio in casa Parisio, dove uno dei membri, don Emanuele, lo prese sotto la sua personale cura, facendolo collaborare nelle sue missioni, per far insegnare il catechismo ai fanciulli.
A 22 anni si trasferì a Napoli dove studiò teologia e lettere e filosofia, fu ordinato sacerdote il 22 dicembre 1732. In breve tempo don Mariano Arciero divenne un modello per il clero napoletano, per la sua inclinazione alla carità, coltivata sin dai primi anni della sua giovinezza, fu apostolo attivo nei fondachi, nei vicoli, nell’ospedale e nell’arsenale.
Gennaro Fortunato, canonico della cattedrale di Napoli, divenuto vescovo di Cassano sullo Ionio nel 1729, lo volle nella sua diocesi, dandogli incarichi in piena libertà, sia per le missioni, sia per la costante riforma del clero e degli Istituti religiosi femminili [a Castrovillari, in particolare, si occupò delle Clarisse e del loro Monastero, impegno che proseguì anche quando fece rientro a Napoli - fls].
Scrisse la «Pratica della dottrina cristiana, in dodici istruzioni in dialoghi», con un metodo molto efficace e pratico per l’acquisto della perfezione cristiana. Dedicava molte ore al giorno all’istruzione dei fanciulli e alla predicazione, ottenendo strepitose conversioni.
La fama della sua instancabile opera superò i confini della diocesi di Cassano, per cui fu invitato a svolgere la sua missione anche nelle diocesi vicine; per questo venne chiamato «apostolo delle Calabrie». Ritornò a Contursi solo per riabbracciare l’amatissima mamma. Nel giorno della sua morte, come egli stesso aveva predetto, il 16 febbraio 1788, alle 16, a Napoli, Santa Maria Francesca delle Cinque Piaghe, la mistica terziaria alcantarina «monaca di casa», vide la sua anima portata in cielo dagli angeli.
Per i numerosi miracoli che avvenivano per sua intercessione, già nel 1829 la Congregazione dei riti autorizzò l’inizio dei processi per la sua beatificazione, a Napoli ed a Cassano sullo Ionio. Il 24 aprile 1830 il Papa Pio VIII lo dichiarò venerabile. Il 15 ottobre1950 il suo corpo fu traslato a Contursi Terme.
La Sibilla del Reno
dottore della Chiesa
Ildegarda Bingen, mistica medievale famosa per le sue
profezie riceverà il titolo nell’ottobre del 2012 per volere di Papa Ratzinger
di Andrea Tornielli *
Ha paragonato le sue visioni a quelle dei profeti dell’Antico Testamento, la cita spesso e le ha dedicato due catechesi all’udienza del mercoledì. L’ha additata come esempio di donna teologa, ne ha lodato i componimenti musicali tutt’oggi eseguiti, come pure il coraggio che le faceva tener testa a Federico Barbarossa al quale comunicava ammonimenti divini. Benedetto XVI è molto legato alla figura di santa Ildegarda di Bingen e intende proclamarla, nell’ottobre 2012, «dottore della Chiesa»: un titolo raro e solenne, attribuito a santi che grazie alla loro vita e ai loro scritti sono stati illuminanti per la dottrina cattolica.
La Chiesa ha riconosciuto fino ad oggi 33 «dottori», trenta dei quali uomini. Le donne nell’elenco sono soltanto tre: Teresa d’Avila, Caterina da Siena e Teresina di Lisieux, le prime due proclamate da Paolo VI nel 1970, l’ultima da Giovanni Paolo II nel 1997. Ora Ratzinger vuole aggiungerne una quarta all’elenco, invitando così le donne a seguire l’esempio della mistica renana e a contribuire alla riflessione teologica.
Ildegarda, ultima di dieci fratelli della nobile famiglia dei Vermessheim, nacque nel 1098 a Bermersheim, in Renania, e morì ottantunenne nel 1179. L’etimologia del suo nome significa «colei che è audace in battaglia», una prima profezia che si sarebbe pienamente realizzata. Votata dai suoi genitori alla vita religiosa fin da quando aveva otto anni, si fece benedettina nel monastero di san Disibodo, quindi divenne priora (magistra) della comunità femminile e, visto il numero sempre crescente di aspiranti che bussavano al suo convento, decise di separarsi dal complesso monastico maschile trasferendo la sua comunità a Bingen, dove trascorse il resto della sua vita.
Fin da giovane aveva ricevuto visioni mistiche, che faceva mettere per iscritto da una consorella. Temendo che fossero soltanto illusioni, chiese consiglio a san Bernardo di Chiaravalle, che la rassicurò. E nel 1147 ottenne l’approvazione di Papa Eugenio III, che mentre presiedeva un sinodo a Treviri, lesse un testo di Ildegarda. Il Pontefice la autorizzò a scrivere le sue visioni e a parlare in pubblico. La sua fama si diffuse presto: i suoi contemporanei le attribuirono il titolo di «profetessa teutonica» e «Sibilla del Reno».
La mistica, santa per il popolo ma mai ufficialmente canonizzata, alla cui figura è dedicato il film Vision di Margarethe von Trotta, nella sua opera più nota, Scivias («Conosci le vie»), riassume in trentacinque visioni gli eventi della storia della salvezza, dalla creazione del mondo fino alla fine dei tempi. «Con i tratti caratteristici della sensibilità femminile - ha detto di lei Benedetto XVI - Ildegarda sviluppa il tema del matrimonio mistico tra Dio e l’umanità realizzato nell’incarnazione. Sull’albero della croce si compiono le nozze del Figlio di Dio con la Chiesa, sua sposa, resa capace di donare a Dio nuovi figli». Per Papa Ratzinger, che nel ricordarla un anno fa aveva incoraggiato le teologhe, è evidente proprio da esempi come quello di Ildegarda che la teologia può «ricevere un contributo peculiare dalle donne, perché esse sono capaci di parlare di Dio e dei misteri della fede con la loro peculiare intelligenza e sensibilità».
Non mancano nelle sue visioni profezie a breve termine, come quella sull’affermazione dell’eresia catara, ma anche squarci apocalittici, come quella sull’Anticristo che seminerà morte tra le genti «quando sul trono di Pietro siederà un Papa che avrà preso i nomi di due apostoli». O quella in cui fa balenare la possibilità che un musulmano convertito al cristianesimo, divenuto cardinale, uccida il Papa legittimo perché vuole il suo trono e non riuscendo a ottenerlo, si proclami antipapa.
La storia di Ildegarda attesta la vivacità culturale dei monasteri femminili dell’epoca e contribuisce a sfatare certi pregiudizi sul Medioevo. Era una monaca, teologa, cosmologa, botanica, musicista: è considerata la prima donna compositrice della storia cristiana. Sapeva governare, condannava le immoralità dei sacerdoti che con i loro peccati facevano «restare aperte le ferite di Cristo», teneva testa agli stessi vescovi tedeschi. Come pure a Federico Barbarossa, al quale fece arrivare un messaggio da parte di Dio, dopo che l’imperatore aveva nominato per la seconda volta un antipapa: «Io posso abbattere la malizia degli uomini che mi offendono. O re, se ti preme vivere, ascoltami o la mia spada ti trafiggerà».
La monaca tedesca è anche patrona dei cultori dell’esperanto, in quanto autrice di una delle prime lingue artificiali, la Lingua ignota, un idioma segreto che utilizzava per scopi mistici e si componeva di 23 lettere. È lei stessa a descriverla in un codice che contiene anche un glossario di 1011 parole in «lingua ignota».
La Congregazione per le cause dei santi, guidata dal cardinale Angelo Amato, sta concludendo lo studio dei documenti su Ildegarda. Anche se i Papi avevano permesso il suo culto in Germania - l’ultimo a esprimersi in questo senso era stato Pio XII - la mistica renana non è mai stata veramente canonizzata, perché il processo apertosi mezzo secolo dopo la sua morte venne interrotto.
Si prevede perciò che Papa Ratzinger, che l’ha già più volte definita «santa» nei suoi discorsi, la canonizzi ufficialmente prima di inscriverla nell’esclusivo albo dei dottori la cui vita e le cui opere sono state illuminanti per la dottrina cattolica.
ILLUSTRISSIMI SIGG.,
CARDINALE AMATO
ARCIVESCOVO MORETTI
MONSIGNOR SPINGI ...
è tempo! Per le donne e per gli uomini, è tempo: non solo per le pari opportunità, ma anche per la pari dignità - dinanzi alla Legge e dinanzi a Dio.
Questa la grande e importante lezione non solo della nostra “Cappella Sistina” carmelitana, ma anche delle nostre stesse madri e dei nostri stessi padri del nostro amato Paese.
Mi auguro che non vada in rovina non solo la nostra piccola Chiesa ma neanche il nostro piccolo paese, la stessa Contursi - e il nostro grande Paese, la stessa Italia!!!
Molti cari saluti e buon lavoro,
per la beatificazione di don Mariano Arciero
e per la salvaguardia della Chiesa di Maria SS. del Carmine
Federico La Sala
P. S.:
MEMORIA EVANGELICA, BIBLICA, E UMANA:
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
NON DIMENTICHIAMOLO!!! "Deus charitas est: et qui manet in charitate, in Deo manet, et Deus in eo" (1 Gv., 4.16).
Federico La Sala
LE 21 DONNE DELLA COSTITUENTE |
ANTROPOLOGIA E STORIA...
𝐈𝐥𝐝𝐞𝐠𝐚𝐫𝐝𝐚 𝐃𝐢 𝐁𝐢𝐧𝐠𝐞𝐧, detta "la Sibilla del Reno", benché beatificata nel 1342, è stata proclamata “Dottore della Chiesa Universale” solo nel 2012: dopo la lezione antropologica ed ecumenica (1508-1512) di Michelangelo ("La Sacra Famiglia o TondoDoni" e il racconto immortalato nella Volta della Cappella Sistina), la Chiesa cattolica ha ancora grandi difficoltà a leggere la storia dell’umanità come un cammino di Profeti e di Sibille che vanno verso Betlemme.
RIVOLUZIONE COPERNICANA E RIFORMA TEOLOGICO-POLITICA IN CORSO: NUOVO CIELO E NUOVA TERRA.
Una nota*
La grandezza di Shakespeare e l’importanza del suo "Amleto" è analoga a quella di Sofocle e del suo "Edipo Re": della loro lezione, anche dopo la sollecitazione di Freud, si stenta ancora a capire il legame tra il familismo amorale e le manipolazioni istituzionali della Legge (divina ed umana).
Con Lutero (1517), con Copernico (1543), e Giordano Bruno (Nola, 1548 - Roma, 17 febbraio1600), Shakespeare osa aprire un dibattito nel suo globo teatrale che fa tremare tutto l’ordine teologico-politico e sociale precedente e seguente: riapre il discorso sulla dottrina dei "Due corpi del Re" (Ernst H. Kantorowicz)!
La critica dell’adulterio in "Amleto", connesso (come è) all’intero ordine istituzionale e collegato fin nel cuore dello stesso messaggio biblico ed evangelico, pone all’ordine del giorno lo "spaccio della bestia trionfante" e sgombra la strada alla dea Giustizia, alla Vergine Astrea (Virgilio, Egloga IV, V. 6: "Iam redit et Virgo").
*
NOTA.
Europa 1600: RegnodiNapoli->Nola->Salerno->Eboli->Contursi Terme, Chiesa della Madonna del Carmine, 1608/1613.
Federico La Sala
COMUNE DI CONTURSI TERME (SA).: "Venerdì 24 giugno, alle ore 19, in piazza Salvatore Mastrolia, in occasione del decimo anniversario della Beatificazione di Don Mariano Arciero, la proclamazione del Beato a compatrono della Città di Contursi Terme. La celebrazione eucaristica sarà presieduta dall’Arcivescovo Andrea Bellandi".
AL SINDACO E AL PARROCO DI CONTURSI TERME. Ai Santi Patroni, forse, non è tempo di affiancare anche qualche Santa Patrona? Si potrebbe proporre Santa Teresa d’Avila (con le sue 12 Sibille - Apostole della Chiesa della Madonna del Carmine) .... a ricordo anche delle 21 donne dell’Assemblea Costituente, le 21 madri della Costituzione della Repubblica Italiana? Sicuramente don Mariano Arciero ne sarebbe felicissimo. Grazie.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FLS
“Capatrici di pace”
Un’analisi dei teologi Scarafoni e Rizzo: «Recuperare l’intreccio ecumenico di sguardi fraterni in Cristo»
di Paolo Scarafoni e Filomena Rizzo*
Sta per finire l’anno accademico e rimettendo in ordine la nostra biblioteca di casa, ci è capitato fra le mani il bel libro del 2017 «Le donne nel cantiere di San Pietro in Vaticano» curato da Assunta Di Sante e Simona Turriziani. Tratta delle artiste, artigiane e imprenditrici che lavorarono «all’ombra del Cupolone contribuendo ad accrescere la bellezza della Basilica Vaticana», svolgendo un ruolo importante nella Fabbrica di San Pietro.
Scrive Paola Torniai: «Nel 1673 Clemente X Altieri commissiona al mosaicista Orazio Manenti il restauro della Navicella, raffigurante Gesù che salva dalla tempesta la nave degli apostoli, realizzata da Giotto per il Cardinale Jacopo Stefaneschi, in occasione del primo giubileo indetto da Bonifacio VIII. Manenti deve risarcire l’opera, originariamente collocata nell’atrio della primitiva San Pietro e danneggiata durante i lavori di ampliamento sotto Paolo V Borghese. ... Manenti recupera ogni più minuta pietruccola, avvalendosi di maestranze femminili». Le «capatrici dell’immondezze de smalti». Esse a mani nude frugavano a terra tra i calcinacci per recuperare smalti vecchi che sarebbero stati rifusi in smalti nuovi. Lavoravano tra «la polvere che inaridisce la pelle e soffoca il respiro, il disagio di prostrarsi per ore alla ricerca di tessere musive, la difficoltà di scavare a mani nude, abrase e ferite, tra calcinacci e materiali ammassati. ... Le capatrici della Navicella ... sono state mani provvidenziali».
Questa storia suggestiva di donne, ci ha fatto riflettere sulle devastazioni che stiamo vivendo in questo momento, e che confermano i moniti di Papa Francesco che da tempo metteva in guardia contro i «venti di guerra». Anche la Chiesa di Cristo, specialmente nelle relazioni ecumeniche e nella riflessione teologica, ha subito forti scossoni come la Navicella di Giotto. Sono cadute tante tessere: fino a pochi mesi fa l’auspicio di molte chiese era che i cristiani tutti insieme fossero parte viva e coraggiosa della società civile, promotori di giustizia, di pace e misericordia per l’umanità. Quell’intreccio ecumenico di sguardi fraterni in Cristo sembra essere crollato in un attimo tra le macerie che le bombe e i missili producono nei territori di guerra.
C’è bisogno di «capatrici di pace». Un lavoro paziente di recupero, in mezzo a quelle rovine, che può essere fatto bene dalle donne, ancora troppo poche nei dialoghi e nelle trattative fra le parti, di fatto assenti ai tavoli dove si decide la guerra. La pace si costruisce recuperando proprio quegli intenti così belli ispirati dallo Spirito santo, come lo scintillio delle tessere musive «capate» che allude «allo splendore della sostanza divina e all’incorrotta chiesa primitiva».
Anche nella riflessione teologica è essenziale valorizzare il contributo delle donne. Abbiamo avuto modo di scrivere già da vari anni che è necessario sviluppare studi sugli «attributi di Dio», specialmente sull’onnipotenza divina, con una maggiore sensibilità nei confronti dei risvolti antropologici. «Lo sforzo della teologia attuale deve essere quello di vincere ogni riferimento individualistico ed egoistico nella presentazione di Dio di fronte alle creature, che possa giustificare una persistenza dell’egoismo e dell’individualismo nelle creature stesse». Dio non è potente al modo umano: «il concetto di potenza è ambiguo perché spesso ha un forte legame con l’egoismo». Nel Vangelo «l’onnipotente che opera con il suo braccio pieno di misericordia e bontà è contrapposto ai potenti, ai ricchi e ai superbi che opprimono i deboli, i poveri e gli umili».
Le bombe mettono in evidenza un Dio egoista e prepotente invocato dai duri di cuore, dai superegoisti privilegiati, per «occupare spazi» e legittimare «strutture di peccato» che fanno sembrare normale ed inevitabile il male inflitto agli ultimi e ai poveri. Disprezzano un Dio debole incapace di difendere le «vittime innocenti».
I teologi devono essere coraggiosi proprio per negare esplicitamente l’egoismo in Dio. «Dire che Dio è buono, benché sia tutt’altro che scontato, non è lo stesso che dire che Dio non è cattivo. Dire che Dio è amore, benché ripete il cuore stesso della rivelazione (cfr. 1Gv 4,8; Gv 3,16), non è lo stesso che negare in Dio l’egoismo». I battezzati che si consacrano a Dio e rinunciano al diavolo, in realtà «come un fiume carsico» nelle difficoltà e nelle prove o per giustificare interessi politici ed economici, sono tentati di affidarsi ad un Dio immaginato come un guerriero, che a suo piacimento riprende l’arco deposto nel cielo, quando ha stabilito l’alleanza della pace.
Se l’uomo non cambia idea su Dio è perché forse non vuole cambiare lui, rimanendo chiuso nel suo egoismo, che giustifica con il meccanismo di proiezione; un gioco sottile e menzognero (al quale si presta talvolta la teologia) di un uomo che sostituisce il Dio vero dell’amore e della libertà con il Dio della guerra. In tal modo rivela come il suo cuore sia chiuso in una autoreferenzialità così insuperabile da crearsi e raccontare per vero un Dio «a sua immagine».
* Don Paolo Scarafoni e Filomena Rizzo insegnano insieme teologia in Italia e in Africa, ad Addis Abeba. Sono autori di libri e articoli di teologia.
Un esercizio audace e creativo per ispirare uno stile sinodale «dal basso».
Le Sibille e la narrazione sinodale.
di Paolo Scarafoni - Filomena Rizzo *
Il popolo di Dio torni a parlare nella Chiesa! Sembra che balbetti con problemi che vanno dalla afasia, potrebbe parlare ma non sa; alla disartria, saprebbe parlare ma non può. Lo sforzo iniziale del sinodo per recuperare il popolo di Dio sarebbe quello di una rieducazione alla comunicazione, magari con dei mediatori?
Papa Francesco raccomanda di non perdere il «filo rosso» del Convegno ecclesiale di Firenze, dove invitava a ricominciare «dal basso», «dalle piccole comunità, dalle piccole parrocchie» affinché «esca la saggezza del popolo di Dio». Si tratta di «porsi al servizio di questa grande opera di raccolta delle narrazioni delle persone: di tutte le persone, perché in ciascuno opera in qualche misura lo Spirito; anche in coloro che noi riterremmo lontani e distratti, indifferenti e persino ostili» (CEI 12.10.2021). La rieducazione è al contrario. È il nostro ascolto che si deve aprire a comprendere parole nuove. Il percorso sinodale di questo biennio nella dimensione della narrazione «è per sua natura alla portata di tutti, anche di coloro che non si sentono a loro agio con i concetti teologici» (CEI 29.09.2021).
È a noi cara la cittadina di Contursi Terme, in provincia di Salerno, dove trascorriamo parte dell’estate. La sua suggestiva chiesetta del Carmine ci ha stimolato a riconoscere alcuni percorsi di fede propri di quella comunità. È il nostro «caso serio», di Balthasariana memoria. È un esercizio audace di creatività che non vuole dettare un programma, ma ispirare uno stile sinodale «dal basso» per l’evangelizzazione (Evangelii gaudium 33).
Di fronte agli accomodamenti e alle storture che iniziavano ad attenuare la fiamma cristocentrica accesa dal Concilio, Von Balthasar scriveva della vergine e martire Cordula, modello della accoglienza della novità irrinunciabile di Cristo. Noi facciamo riferimento alle dodici vergini Sibille dipinte a tempera sulle pareti della «piccola cappella sistina» del Carmine, che sono patrimonio della vita di fede dei contursani. Sono percorsi meno ufficiali e linguaggi creativi, nei quali molti potrebbero riconoscersi come persone che si appartengono in ragione della chiamata di Dio e riscoprire l’identità della Chiesa particolare per aprire nuove prospettive e orizzonti, non soltanto in vista del contributo da inviare alla segreteria del sinodo.
I Padri della Chiesa hanno trovato alleate preziose nelle Sibille, grazie alle loro profezie, come lampade che illuminano il cammino dell’umanità pagana verso il cristianesimo. I profeti annunciavano il Messia al popolo d’Israele, le Sibille il Salvatore ai pagani.
Varrone e Lattanzio enumerarono dieci Sibille, per lo più collocate in oriente. Nel 1481 il domenicano Filippo Barbieri all’elenco ne aggiunge due, con il proposito di riequilibrare geograficamente la loro presenza nel mondo occidentale e raggiungere il numero simbolico di 12, segno di pienezza sacra nell’ebraismo e nel cristianesimo.
Nel 1608 un ignoto frate carmelitano, con l’aiuto di modesti artisti, «scrisse» pittoricamente un poema sulla «nascita della fede». Rappresentando le Sibille ha saputo raccogliere le istanze pietistico devozionali di quel tempo del popolo contursano, sensibile ai doni divini, circondato da bellezze naturali, con numerose e abbondanti sorgenti di acque benefiche e terapeutiche. Esse sono un patrimonio che attraversa le generazioni, in quella pietà popolare sana, nella consuetudine di stare con Dio.
Il popolo di Contursi Terme, molto attento e attivo riguardo alle problematiche civili, può attingere anche a questa ricchezza per cementare il senso di comunità. Le Sibille aiutano a pensare modelli ecclesiali più liberi, per riattivare la circolarità delle relazioni come nella Chiesa nascente, rispetto alla visione di un’armata, o di una istituzione ingessata d’altri tempi.
Le Sibille erano donne del Mediterraneo, libere, voci profetiche del paganesimo greco, del monoteismo giudaico, della religione politeista romana e del cristianesimo, in diretto collegamento con lo Spirito divino. Un importante esercizio narrativo, quando si partecipa «alle celebrazioni, alla preghiera, ai dialoghi, ai confronti, agli scambi di esperienze e ai dibattiti», sarebbe quello di ricordare le donne della comunità, non soltanto le più prestigiose, ma tutte quelle significative nelle singole famiglie e a livello di paese. Si tratta della memoria che penetra nel quotidiano e nei piccoli gesti, che costruiscono la vera santità comunitaria (Gaudete et exultate 16); ma non solo, sarebbe un esercizio che serve a tutti per superare una mentalità patriarcale, dare il giusto valore alle donne, costruttrici di quella comunità, ed educare a relazioni positive e paritarie, che non si prestino alla violenza di genere.
I nomi delle Sibille ricordano la fratellanza dei popoli perché sono derivati dal luogo che la tradizione assegna loro come patria, e rivelano il ruolo della loro missione nelle nazioni. La comunità potrebbe riflettere sull’accoglienza delle numerose famiglie di stranieri che ormai ne fanno parte e dei tanti turisti che ogni anno visitano le terme, per purificare stereotipi e pregiudizi. Aiuterebbe fare riferimento all’alleanza di Noè o dei popoli, alla quale è legata la Sibilla, spesso identificata con quella Cumana, che sarebbe salita sull’arca per essere salvata, quale moglie di uno dei figli del patriarca (Oracoli sibillini I, 211; III, 827).
Nella fratellanza e nell’accoglienza c’è sempre lo spezzare il pane insieme. La Sibilla Persica vaticinava che Cristo avrebbe moltiplicato il pane e i pesci per sfamare il popolo (Oracoli sibillini I,357; VI,15), a sostegno anche oggi della moltiplicazione di esperienze solidali, della cura per gli altri, che «viene dal basso e in piena gratuità».
Il territorio di Contursi è in prevalenza a vocazione agricola. Fa parte di quelle «aree interne» del Meridione d’Italia. Ora è seriamente minacciato dal dislocamento di industrie inquinanti. Le comunità della valle dei fiumi Sele e Tanagro sono chiamate ad intervenire con spirito libero e amore per il creato sul proprio futuro. La comunità sta reagendo con tante iniziative per diventare protagonista di una nuova stagione di sviluppo sostenibile.
Le Sibille superano la cultura maschilista del conflitto e del profitto perché hanno un aspetto cosmico messo in evidenza già da Plutarco: come donne sono legate alla vita, alla fertilità, la loro morte è una non morte. Il loro corpo insepolto valica i confini spazio-temporali, con «una sorta di metamorfosi del corpo, che si assimila alla terra, alle erbe, agli animali, anch’essi portatori dello pneuma profetico», ai quali dona capacità mantiche.
Ecco perché da sempre sono simbolo della «cura del creato» e della «forza dello Spirito». La loro presenza nelle nostre chiese, accolta nel tempo, avrebbe dovuto agevolare il processo di recezione dei contenuti del Sinodo sull’Amazzonia e degli appelli di Querida Amazonía, ed evitare polemiche sterili e pretestuose. Profondo è il collegamento con le culture amazzoniche, che presentano la Madre Terra, che mai potrebbe essere confusa con la Madre di Dio, alla quale proprio le Sibille dedicano tanti versi. Il più bello è forse quello della Libica o italica: «Uterus Matris erit statera cunctorum. L’utero della Madre sarà la bilancia dell’umanità».
Il magistero sul creato di Papa Francesco potrebbe rafforzare la consapevolezza della comunità locale per giungere a decisioni di bene comune per il proprio futuro. L’esercizio del «discernere insieme» proposto dalla Chiesa, potrebbe essere di aiuto e di ispirazione, senza invadere gli spazi e le competenze, in un reciproco scambio di doni eliminando definitivamente i vecchi schemi di contrapposizione ideologica. A sua volta il cammino sinodale locale si arricchirebbe di contributi a contatto con le problematiche reali che vive la comunità.
La Chiesa non rinunci ad essere un presidio, un «ospedale da campo». Il coinvolgimento civile, rispettoso e libero, da parte dei cristiani, che si sforzano di essere testimoni credibili, potrebbe risvegliare in molti il desiderio di conoscere Gesù e il ritorno ad una più autentica vita sacramentale: anche la tradizione liturgica è ricca di riferimenti alle Sibille. In pieno Medioevo, nella celebrazione della Vigilia di Natale, nell’elenco dei «Profeti di Cristo» (Ordo Prophetarum) era compresa anche la Sibilla Eritrea, chiamata ad annunciare con il canto il ritorno del Signore nel Giorno del Giudizio. Come non ricordare la devozione popolare che è confluita nella liturgia romana funebre con la sequenza Dies irae: «Dies irae, dies illa, Solvet seclum in favilla, Teste David cum Sibylla».
Le Sibille possiedono in germe i tre tratti dell’umanesimo cristiano «umiltà, disinteresse, beatitudine», che stentiamo ancora a riconoscere nella società e perfino nella Chiesa. Sono fortemente auspicati dal Concilio Vaticano II, e possiamo augurarci di ritrovarli seminati in mezzo al popolo. Quelle vergini non sono ossessionate dal «potere» e dalla ricchezza, hanno uno stile di vita sobrio. Non sono sacerdotesse, non vivono in templi ma in grotte e presso corsi d’acqua accessibili a chiunque. I loro vaticini non si rivolgono all’interesse dei singoli, dei potenti, ma riguardano tutti, l’intera comunità, non sono astratti né ideologici. Indicano un cammino che porta a Cristo, cambiamenti profondi nell’umanità, e mettono in guardia contro il male. Papa Francesco invita a ritrovare la gioia di «annunciare il Vangelo in un tempo di rigenerazione» partendo dalle realtà locali. È il momento favorevole per questo esercizio, possibile in tante piccole comunità cristiane in Italia, che devono riscoprire il loro «caso serio», e trovare elementi di ispirazione per incarnare il Vangelo.
Nessuno ha mai visto Dio;
se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e il suo amore diventa perfetto in noi.
"Deus CHARITAS est" (1 Gv. 4:8):
su questa via,
ogni #essereumano può #sviluppare
"il senso della paternità e della maternità"
(Teresa d’Avila insegna)! -
e rinascere,
diventare "bambino" (Gv. 3.7).
#MESSAGGIO EVANGELICO
E
#MAGISTERO ANTROPOLOGICO
A #FUTURA MEMORIA.
Per una #Cristologia
non andrologica,
lezione di #Teresa d’Avila,
L’intervento del nunzio apostolico Pierre all’assemblea generale dei vescovi degli Stati Uniti
L’unità è il futuro di una Chiesa sinodale
di Amedeo Lomonaco (L’Osservatore Romano, 17 novembre 2021)
«Il cammino verso il futuro implica necessariamente l’unità. Una Chiesa divisa non sarà mai in grado di condurre gli altri all’unità più profonda voluta da Cristo». È quanto ha affermato, martedì 16 novembre, l’arcivescovo Christophe Pierre, nunzio apostolico negli Stati Uniti, nella giornata di apertura dell’assemblea generale della Conferenza dei vescovi cattolici del Paese (Usccb). L’appuntamento si svolge a Baltimora, nel Maryland, fino al 18 novembre, con la partecipazione di quasi 300 vescovi chiamati a riflettere sul tema dell’Eucaristia.
Il presule ha centrato il suo intervento sul tema della sinodalità, sulla scia del processo avviato da Papa Francesco in tutta la Chiesa. La sinodalità, ha detto, «non è un concetto astratto», ma aiuta ad affrontare «la realtà della nostra situazione attuale» come «una risposta alle sfide del nostro tempo e al confronto che minaccia di dividere questo Paese e che ha anche i suoi echi nella Chiesa. Sembra che molti non si rendano conto di essere impegnati in questo confronto, prendendo posizioni radicate in certe verità, ma isolate nel mondo delle idee e non applicate alla realtà dell’esperienza di fede, vissuta dal popolo di Dio nelle situazioni concrete».
Il nunzio ha ricordato «diverse questioni urgenti che la Chiesa deve affrontare oggi». Una di queste è la vita: «Non possiamo abbandonare la nostra difesa della vita umana innocente o della persona vulnerabile». Tuttavia, ha aggiunto, un approccio sinodale «sarebbe quello di capire meglio perché le persone cercano di interrompere le gravidanze», quali sono «le cause profonde delle scelte contro la vita» e quali sono i fattori che rendono queste scelte «così complicate per alcuni».
Sul tema dell’Eucaristia ha affermato che «le realtà sono più importanti delle idee. Possiamo avere tutte le idee teologiche sull’Eucaristia - e, naturalmente, ne abbiamo bisogno - ma nessuna di queste idee è paragonabile alla realtà del Mistero eucaristico, che ha bisogno di essere scoperto e riscoperto attraverso l’esperienza pratica della Chiesa, vivendo in comunione, particolarmente in questo tempo di pandemia. Possiamo diventare così concentrati sulla sacralità delle forme della liturgia che perdiamo il vero incontro con la Sua presenza reale. C’è la tentazione di trattare l’Eucaristia come qualcosa da offrire a pochi privilegiati piuttosto che cercare di camminare con coloro la cui teologia o discepolato è carente, aiutandoli a comprendere e apprezzare il dono dell’Eucaristia e aiutandoli a superare le loro difficoltà. Piuttosto che rimanere intrappolati in una “ideologia del sacro”, la sinodalità è un metodo che ci aiuta a scoprire insieme una via da seguire».
Dopo l’intervento del nunzio, ha preso la parola monsignor José Horacio Gómez, arcivescovo di Los Angeles e presidente della Conferenza episcopale degli Stati Uniti, che ha ricordato come la missione della Chiesa sia «la stessa in ogni tempo e in ogni luogo»: è quella di «proclamare Gesù Cristo e aiutare ogni persona a trovarlo e a camminare con Lui». Dio, ha sottolineato, ci chiama «a costruire il suo Regno» e a infondere nella società «i valori del Vangelo». «La sfida che abbiamo è quella di capire come la Chiesa dovrebbe svolgere la propria missione in un’America che ora è altamente secolarizzata».
Citando l’appello costante di Papa Francesco per una Chiesa missionaria, monsignor Gómez ha ricordato che ogni cattolico condivide la responsabilità per la missione:
sacerdoti,
diaconi,
seminaristi,
religiosi e consacrati,
uomini e donne laici:
siamo tutti battezzati per essere missionari».
Nonostante uno scenario difficile, reso ancora più critico dall’attuale pandemia, l’arcivescovo di Los Angeles afferma che ci sono segni di speranza: c’è «un risveglio spirituale» nel Paese e molti «sono alla ricerca» in un momento in cui «la società americana sembra perdere la sua storia, radicata in una visione biblica del mondo». «Stanno cercando una nuova storia che dia senso alla loro vita». Ma «non hanno bisogno - ha affermato monsignor Gómez - di una nuova storia». «Ciò di cui hanno bisogno è ascoltare la vera storia, la bellissima storia dell’amore di Cristo per noi, il suo morire e risorgere dalla morte per noi, e la speranza che egli porta alle nostre vite». Infine, ha parlato del piano pastorale per «una rinascita eucaristica». Si tratta di un progetto missionario che mira a portare le persone nel cuore del mistero della fede: l’Eucaristia - ha concluso - è «la chiave di accesso alla civiltà dell’amore che desideriamo creare».
Il tema.
Una domanda, dieci tracce: ecco come le diocesi saranno coinvolte nel Sinodo
Nel Documento preparatorio per il Sinodo dei vescovi il "questionario" per la consultazione dal basso che vedrà protagoniste tutte le Chiese locali del mondo
di Giacomo Gambassi (Avvenire, martedì 7 settembre 2021)
Un’unica, impegnativa domanda. E poi dieci tracce per declinarla nel concreto e capire come ciascuna diocesi sia capace di “camminare insieme”. Ha i tratti di un esame di coscienza la grande consultazione “dal basso” di tutta la Chiesa che aprirà il processo sinodale voluto da papa Francesco e che sarà il primo tassello per giungere a celebrare il Sinodo dei vescovi sul tema “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione” in programma nell’ottobre 2023 a Roma.
L’ascolto delle diocesi del mondo è ai nastri di partenza e coinvolgerà ogni angolo del pianeta da ottobre ad aprile. Un’avventura inedita «con obiettivi di grande rilevanza per la qualità della vita ecclesiale», spiega il Documento preparatorio diffuso ieri che intende «mettere in moto le idee, le energie e la creatività di tutti coloro che parteciperanno all’itinerario».
Il testo è soprattutto una bussola per ogni territorio e per avviare la consultazione. A partire dall’interrogativo «fondamentale», come viene definito, a cui tutte le diocesi sono chiamate a rispondere: «Una Chiesa sinodale, annunciando il Vangelo, “cammina insieme”: come questo “camminare insieme” si realizza oggi nella vostra Chiesa particolare? Quali passi lo Spirito ci invita a compiere per crescere nel nostro “camminare insieme”?». L’intento è «raccogliere le esperienze di sinodalità vissuta, coinvolgendo i pastori e i fedeli a tutti i livelli». In particolare, specifica il Documento, verrà «richiesto il contributo degli organismi di partecipazione delle Chiese particolari, specialmente il Consiglio presbiterale e il Consiglio pastorale». E ogni diocesi dovrà fare una sintesi del «lavoro di ascolto e discernimento» in dieci pagine al massimo.
Per favorire il confronto, vengono proposte alcune serie di domande “pratiche” racchiuse all’interno di dieci ambiti tematici. Così, ad esempio, ogni diocesi dovrà riflettere su «chi cammina insieme» o chi sono i suoi «compagni di viaggio anche al di fuori del perimetro ecclesiale». Oppure valutare come «vengono ascoltati i laici, in particolare giovani e donne»; in che modo si recepisce «il contributo di consacrati o consacrate»; come si accoglie «la voce delle minoranze, degli scartati, degli esclusi». Ancora. Le Chiese locali sono invitate a capire se il proprio «stile comunicativo» è «libero e autentico, senza doppiezze e opportunismi», a promuovere «la partecipazione attiva di tutti i fedeli alla liturgia», ad analizzare «come la preghiera e la celebrazione orientino il “camminare insieme”» ma anche «le decisioni più importanti».
Poi c’è la sfida della missione che chiama chiunque. Da qui i quesiti su come ogni battezzato sia «protagonista» o in quale maniera i credenti impegnati nel sociale siano sostenuti dalla comunità. Quindi la necessità del dialogo nella Chiesa e con l’ambito civile: come vengono affrontate le divergenze di visione, i conflitti? come promuoviamo la collaborazione con le diocesi vicine? come la Chiesa impara da altre istanze della società: il mondo della politica, dell’economia, della cultura, i poveri?, sono alcune domande. Non manca il richiamo alla vicinanza ecumenica con le altre confessioni cristiane o alla formazione.
E fra gli interrogativi ci sono anche quelli sui “vertici” nella Chiesa: come viene esercitata l’autorità? come si promuove la partecipazione alle decisioni in seno a comunità gerarchicamente strutturate?
Ciò che al Papa sta a cuore è «una conversione sinodale» che consenta di «immaginare un futuro diverso per la Chiesa e per le sue istituzioni all’altezza della missione ricevuta». Del resto, dice il Documento citando san Giovanni Crisostomo, «Chiesa e Sinodo sono sinonimi».
PAPA FRANCESCO
UDIENZA GENERALE
Aula Paolo VI
Mercoledì, 8 settembre 2021 *
Catechesi sulla Lettera ai Galati - 8. Siamo figli di Dio
Fratelli e sorelle, buongiorno!
Proseguiamo il nostro itinerario di approfondimento della fede - della nostra fede - alla luce della Lettera di San Paolo ai Galati. L’Apostolo insiste con quei cristiani perché non dimentichino la novità della rivelazione di Dio che è stata loro annunciata. In pieno accordo con l’evangelista Giovanni (cfr 1 Gv 3,1-2), Paolo sottolinea che la fede in Gesù Cristo ci ha permesso di diventare realmente figli di Dio e anche suoi eredi. Noi cristiani diamo spesso per scontato questa realtà di essere figli di Dio. È bene invece fare sempre memoria grata del momento in cui lo siamo diventati, quello del nostro battesimo, per vivere con più consapevolezza il grande dono ricevuto.
Se io oggi domandassi: chi di voi sa la data del proprio battesimo?, credo che le mani alzate non sarebbero tante. E invece è la data nella quale siamo stati salvati, è la data nella quale siamo diventati figli di Dio. Adesso, coloro che non la conoscono domandino al padrino, alla madrina, al papà, alla mamma, allo zio, alla zia: “Quando sono stato battezzato? Quando sono stata battezzata?”; e ricordare ogni anno quella data: è la data nella quale siamo stati fatti figli di Dio. D’accordo? Farete questo? [rispondono: sì!] È un “sì” così, eh? [ridono] Andiamo avanti...
Infatti, una volta che è «sopraggiunta la fede» in Gesù Cristo (v. 25), si crea la condizione radicalmente nuova che immette nella figliolanza divina. La figliolanza di cui parla Paolo non è più quella generale che coinvolge tutti gli uomini e le donne in quanto figli e figlie dell’unico Creatore. Nel brano che abbiamo ascoltato egli afferma che la fede permette di essere figli di Dio «in Cristo» (v. 26): questa è la novità. È questo “in Cristo” che fa la differenza. Non soltanto figli di Dio, come tutti: tutti gli uomini e donne siamo figli di Dio, tutti, qualsiasi sia la religione che abbiamo. No. Ma “in Cristo” è quello che fa la differenza nei cristiani, e questo soltanto avviene nella partecipazione alla redenzione di Cristo e in noi nel sacramento del battesimo, così incomincia. Gesù è diventato nostro fratello, e con la sua morte e risurrezione ci ha riconciliati con il Padre. Chi accoglie Cristo nella fede, per il battesimo viene “rivestito” di Lui e della dignità filiale (cfr v. 27).
San Paolo nelle sue Lettere fa riferimento più volte al battesimo. Per lui, essere battezzati equivale a prendere parte in maniera effettiva e reale al mistero di Gesù. Per esempio, nella Lettera ai Romani giungerà perfino a dire che, nel battesimo, siamo morti con Cristo e sepolti con Lui per poter vivere con Lui (cfr 6,3-14). Morti con Cristo, sepolti con Lui per poter vivere con Lui. E questa è la grazia del battesimo: partecipare della morte e resurrezione di Gesù. Il battesimo, quindi, non è un mero rito esteriore. Quanti lo ricevono vengono trasformati nel profondo, nell’essere più intimo, e possiedono una vita nuova, appunto quella che permette di rivolgersi a Dio e invocarlo con il nome di “Abbà”, cioè “papà”. “Padre”? No, “papà” (cfr Gal 4,6).
L’Apostolo afferma con grande audacia che quella ricevuta con il battesimo è un’identità totalmente nuova, tale da prevalere rispetto alle differenze che ci sono sul piano etnico-religioso. Cioè, lo spiega così: «non c’è Giudeo né Greco»; e anche su quello sociale: «non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina» (Gal 3,28). Si leggono spesso con troppa fretta queste espressioni, senza cogliere il valore rivoluzionario che possiedono. Per Paolo, scrivere ai Galati che in Cristo “non c’è Giudeo né Greco” equivaleva a un’autentica sovversione in ambito etnico-religioso. Il Giudeo, per il fatto di appartenere al popolo eletto, era privilegiato rispetto al pagano (cfr Rm 2,17-20), e Paolo stesso lo afferma (cfr Rm 9,4-5). Non stupisce, dunque, che questo nuovo insegnamento dell’Apostolo potesse suonare come eretico. “Ma come, uguali tutti? Siamo differenti!”. Suona un po’ eretico, no? Anche la seconda uguaglianza, tra “liberi” e “schiavi”, apre prospettive sconvolgenti. Per la società antica era vitale la distinzione tra schiavi e cittadini liberi. Questi godevano per legge di tutti i diritti, mentre agli schiavi non era riconosciuta nemmeno la dignità umana. Questo succede anche oggi: tanta gente nel mondo, tanta, milioni, che non hanno diritto a mangiare, non hanno diritto all’educazione, non hanno diritto al lavoro: sono i nuovi schiavi, sono coloro che sono alle periferie, che sono sfruttati da tutti. Anche oggi c’è la schiavitù. Pensiamo un poco a questo. Noi neghiamo a questa gente la dignità umana, sono schiavi. Così infine, l’uguaglianza in Cristo supera la differenza sociale tra i due sessi, stabilendo un’uguaglianza tra uomo e donna allora rivoluzionaria e che c’è bisogno di riaffermare anche oggi. C’è bisogno di riaffermarla anche oggi. Quante volte noi sentiamo espressioni che disprezzano le donne! Quante volte abbiamo sentito: “Ma no, non fare nulla, [sono] cose di donne”. Ma guarda che uomo e donna hanno la stessa dignità, e c’è nella storia, anche oggi, una schiavitù delle donne: le donne non hanno le stesse opportunità degli uomini. Dobbiamo leggere quello che dice Paolo: siamo uguali in Cristo Gesù.
Come si può vedere, Paolo afferma la profonda unità che esiste tra tutti i battezzati, a qualsiasi condizione appartengano, siano uomini o donne, uguali, perché ciascuno di loro, in Cristo, è una creatura nuova. Ogni distinzione diventa secondaria rispetto alla dignità di essere figli di Dio, il quale con il suo amore realizza una vera e sostanziale uguaglianza. Tutti, tramite la redenzione di Cristo e il battesimo che abbiamo ricevuto, siamo uguali: figli e figlie di Dio. Uguali.
Fratelli e sorelle, siamo dunque chiamati in modo più positivo a vivere una nuova vita che trova nella figliolanza con Dio la sua espressione fondante. Uguali perché figli di Dio, e figli di Dio perché ci ha redento Gesù Cristo e siamo entrati in questa dignità tramite il battesimo. È decisivo anche per tutti noi oggi riscoprire la bellezza di essere figli di Dio, di essere fratelli e sorelle tra di noi perché inseriti in Cristo che ci ha redenti. Le differenze e i contrasti che creano separazione non dovrebbero avere dimora presso i credenti in Cristo. E uno degli apostoli, nella Lettera di Giacomo, dice così: “State attenti con le differenze, perché voi non siete giusti quando nell’assemblea (cioè nella Messa) entra uno che porta un anello d’oro, è ben vestito: ‘Ah, avanti, avanti!’, e lo fanno sedere al primo posto. Poi, se entra un altro che, poveretto, appena si può coprire e si vede che è povero, povero, povero: ‘sì, sì, accomodati lì, in fondo’”. Queste differenze le facciamo noi, tante volte, in modo inconscio. No, siamo uguali. La nostra vocazione è piuttosto quella di rendere concreta ed evidente la chiamata all’unità di tutto il genere umano (cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. Lumen gentium, 1). Tutto quello che esaspera le differenze tra le persone, causando spesso discriminazioni, tutto questo, davanti a Dio, non ha più consistenza, grazie alla salvezza realizzata in Cristo. Ciò che conta è la fede che opera seguendo il cammino dell’unità indicato dallo Spirito Santo. E la nostra responsabilità è camminare decisamente su questa strada dell’uguaglianza, ma l’uguaglianza che è sostenuta, che è stata fatta dalla redenzione di Gesù.
Grazie. E non dimenticatevi, quando tornerete a casa: “Quando sono stata battezzata? Quando sono stato battezzato?”. Domandare, per avere sempre in mente quella data. E anche festeggiare quando arriverà la data. Grazie.
* Fonte: Vatican.va, 08.09.2021
Cammino sinodale e discernimento comunitario
Parola, alleanze e pietà popolare
di Paolo Scarafoni e Filomena Rizzo (L’Osservatore Romano, 24 agosto 2021)
Una delle priorità del cammino sinodale della Chiesa italiana, nella chiamata al discernimento comunitario, è riportare al centro la Parola nelle comunità reali, le parrocchie e le famiglie. Non c’è autentico discernimento cristiano senza la luce della Parola di Dio. Per il timore dell’eresia della libera interpretazione, la Bibbia di fatto scomparve dalle case dei cattolici. Il concilio Vaticano ii con la costituzione dogmatica Dei Verbum ha riproposto l’ascolto e la proclamazione della Parola nel cammino della Chiesa. Come farla tornare al centro della vita cristiana affinché si realizzi la Chiesa comunità?
Indichiamo le «alleanze» come chiave di lettura antropologica e teologica della Parola. Mostrano il rapporto vivo di Dio con il popolo. Lungo la storia, Dio ha stabilito alleanze con l’umanità, legami d’amore e promesse per concedere i suoi doni e ricevere la risposta dell’uomo. Sono reali, non ideologiche, e ne sono prova i tanti fallimenti.
L’alleanza della creazione, di Adamo ed Eva: è il Paradiso. Fallita per il peccato e per l’orgoglio, è vigente perché Dio continua a volerci tutti in Paradiso. È l’alleanza della felicità.
L’alleanza di Noè, con tutta l’umanità. Dio si impegna a non distruggere mai più ciò che ha creato. Il simbolo è l’arcobaleno fra il cielo e la terra. È fallita per l’orgoglio umano e la dispersione dei popoli, e sempre fedele nella regolarità delle stagioni. È l’alleanza della pace.
L’alleanza di Abramo, la scelta del popolo ebraico, come primogenito. Un vincolo segnato nella carne con la circoncisione. È fallita perché il popolo eletto, invece di essere «un pedagogo che conduce a Dio» tutti i popoli, ha interpretato la sua elezione come privilegio. Essa permane perché il popolo ebraico non è maledetto, conserva la primogenitura. È l’alleanza della vocazione.
L’alleanza di Mosè: Dio rivela il suo nome, libera dalla schiavitù, dona la terra e la legge, che è luce e cammino sicuro per tutta l’umanità, e istituisce il rito come elemento di relazione. Fallisce per la sfiducia in Dio e si trasforma in legalismo e ritualismo. È mantenuta viva dai profeti che invitavano alla speranza. È l’alleanza della legge, dell’attaccamento e della memoria.
C’è poi la sorpresa della nuova ed eterna alleanza di Gesù Cristo, il Figlio di Dio fatto uomo, che compie le profezie. Da parte di Dio è un’alleanza definitiva, universale e irreversibile, che non abolisce le precedenti, ma «aggiunge», «porta a compimento» dando nuova vita a tutte le altre alleanze.
Il nuovo Adamo riapre il Paradiso e ci chiama “fratelli tutti”. L’alleanza di Gesù Cristo svela che Dio vuole una comunione di amore e di pace e non di dominio e di violenza. È l’alleanza dell’amore nonostante i fallimenti da superare e gli sbagli da correggere.
Il popolo nella Chiesa cattolica si relaziona con Dio nella liturgia, nella carità, nel rapporto con il creato e nella pietà popolare. Anche se solo una minoranza vi partecipa, la liturgia è il luogo teologico privilegiato per la Parola. I testi del lezionario delle domeniche e dei “tempi forti” sono stati selezionati alla luce delle alleanze, in modo che nel rapporto fra Antico e Nuovo testamento appaia chiaro il cammino di relazione fra Dio e umanità che apre al futuro di salvezza: promessa, compimento e pienezza. È importante, specialmente in parrocchia, preparare comunitariamente, alcune volte durante l’anno, la celebrazione domenicale e la predicazione, come suggerito in Evangelii gaudium, 135-151.
Negli ambiti della carità, specialmente con la scelta preferenziale per i poveri, e del rapporto con il creato, verso i quali molti si sentono oggi spontaneamente attratti, la Parola non è stata ancora sufficientemente valorizzata e talvolta è stata usata in modo riduttivo e ideologico; ma la teologia delle alleanze potrebbe apportare luce anche sulle grandi tragedie umanitarie di oggi.
Fin da subito invece si può ridare valore alla Parola di Dio nella pietà popolare. Una bella definizione di pietà popolare è di don Giuseppe De Luca: «La pietà è presenza amata di Dio; non è pietà una fiammata momentanea, per essere pietà deve essere come una vita. Si è pii come si è vivi». La pietà è consuetudine d’amore, tradizione assimilata, dal cuore del popolo. Non è mai solitaria e manifesta la vigenza delle alleanze. La comprensione teologica si trova in Evangelii nuntiandi, 48, dove si abbandona l’espressione “religiosità popolare” perché di sapore sociologico, e si chiede di prediligere l’espressione “pietà popolare”. Essa è naturalmente mistagogica, evangelizzatrice, perché contamina le generazioni in modo orizzontale e verticale, cioè sincronico e diacronico (Evangelii gaudium, 122). È universale come fenomeno che si riferisce a Dio, ma è particolare e locale come realtà vissuta, con testimoni conosciuti e amati e in rapporto con il creato in quel luogo specifico attraverso elementi simbolici.
Non sono bastati la lectio divina, i predicatori esperti, i gruppi selezionati, le élite, i movimenti, le scuole, perché sono cammini dall’alto. Per il popolo cattolico la pietà popolare è il luogo teologico per eccellenza “dal basso”, e in quel terreno fecondo da dissodare da ogni superstizione è importante che rifiorisca la Parola letta alla luce delle alleanze.
Il libro.
Riscoprire santa Teresa d’Avila attraverso la sua «Vita» ritradotta
L’opera portata a termine in oltre due anni dalle suore del Carmelo di Legnano. «Si avvertiva il desiderio di un’edizione che ci restituisse la nostra fondatrice nella sua freschezza originaria»
di Gianni Borsa (Avvenire, martedì 17 agosto 2021)
«Volevamo una traduzione che ci rendesse Teresa nel vivo del suo parlare, in modo che leggerla fosse un incontrarla come di persona e un ascoltarla direttamente dal suo flusso interiore». Da dietro la grata si scorgono volti sorridenti. Le monache del Carmelo di Legnano (Milano) s’illuminano parlando di Teresa d’Avila. La vivace comunità claustrale, guidata da suor Giovanna e collocata nel cuore della cittadina lombarda, oltre che essere un punto di riferimento spirituale e culturale per il territorio, è una fucina di studi, di lavoro, di musica (con un coro che fa commuovere quando accompagna le celebrazioni eucaristiche e i vespri).
Suor Edith (Cristina Migliorisi) e suor Michela (Maria Luisa Pagani) raccontano il percorso, durato oltre due anni, che ha portato a una versione rinnovata de La mia vita. Il libro delle misericordie di Dio, pubblicato dalle Edizioni Ocd. «Da tempo e soprattutto dall’anno del centenario della nascita di santa Teresa di Gesù (1515-1582) si avvertiva da più parti il desiderio e il bisogno di avere fra le mani una nuova traduzione dei testi teresiani che ci restituisse la nostra santa Madre - così è familiarmente chiamata nel Carmelo - nella sua freschezza originaria. Un’ulteriore provocazione, che è stata anche una sfida e insieme un incentivo per noi, ci è venuta dalla pubblicazione recente di una traduzione in tedesco dell’opera di Teresa, in due volumi: Teresa von Ávila. Werke und Briefe Gesamtausgabe, per le edizioni Herder. Infine, fra le nostre conoscenze e amicizie c’era quella di Massimo Fiorucci, persona che poteva essere adatta a un’impresa di questo tipo essendo esperto della lingua spagnola e della spiritualità teresiana. Con tali premesse è nata l’idea un po’ azzardata di tuffarci in questa avventura».
Dalla triangolazione Italia, Germania, Spagna emerge dunque un lavoro certosino, come spiegano le monache, il cui esito - un volume di 720 pagine - mostra l’anima affascinante e inquieta di Teresa, donna di estrema intelligenza e di fede profonda, figura centrale della mistica, proclamata santa nel 1622 e dichiarata dottore della Chiesa nel 1970. Da lei è nato il Carmelo teresiano.
«Da questa esperienza la comunità esce come rafforzata nella convinzione che l’insieme è vincente: in un momento storico in cui sembrano prevalere le logiche dell’individualismo, della competizione a volte spietata, dell’affermazione identitaria, riscopriamo - affermano le curatrici - che l’insieme delle diversità, il coinvolgimento di molti e la fermentazione reciproca sono certo un’ardua sfida, ma producono anche ottimi frutti».
Pagina dopo pagina ci si addentra nel pensiero e nel cuore della mistica spagnola vissuta al tempo dei conquistadores. «Sì, Teresa ci consegna la sua anima, la sua lotta interiore, il suo lungo e sofferto discernimento, le conquiste, i desideri... soprattutto il volto misericordioso e amante di Dio che a poco a poco impara a conoscere e che vuole far conoscere anche a noi».
Se doveste sintetizzare alcuni punti notevoli in cui Teresa può risultarci vicina e attuale? Il blocco degli appunti del giornalista si arricchisce di annotazioni...
«Anzitutto la questione del senso della vita. Ovvero: se tutto finisce e muore, se tutto è in balia di giudizi umani arbitrari e mutevoli, c’è qualcosa per cui vale la pena di vivere e soffrire, di gioire e di amare? C’è qualcosa che può saziare il desiderio umano e durare per sempre, fondato su una realtà più rocciosa che la precarietà creaturale, la mutevolezza umana e l’inganno degli onori? È quel sapore d’eterno che Teresa bambina aveva conosciuto e che le era rimasto addosso come inquietudine e ardente desiderio di verità, fino all’incontro che le ha dato una vita totalmente nuova».
Secondo elemento: «La questione della dignità umana, e in particolare della donna: per nulla scontata a quel tempo e anzi subordinata a pesanti discriminazioni d’ordine sociale, culturale, di razza e di genere». Ancora: «Il problema del male, del conflitto e della divisione, interni alla stessa Chiesa. Anche in questo caso Teresa non sta a guardare né si rassegna davanti alle soluzioni in atto, ma è tribolata dal desiderio di poter fare qualcosa. E infine dà forma all’intuizione nuova che coltiva: una risposta testimoniale di unità, un laboratorio di dinamiche di fraternità e riconciliazione. Ovvero, la piccola comunità orante da cui nasce il Carmelo teresiano».
Non manca - quarta sottolineatura dalle monache di Legnano - una sorpresa: «Lo stile sinodale». Teresa, chiariscono, «procede cauta sul cammino: fa le sue esperienze personali, ma chiede consiglio, cerca chi possa darle la certezza della bontà del cammino, chi abbia studiato e conosca la Sacra Scrittura (per lei vero e definitivo criterio di discernimento); soprattutto ritiene importante ed essenziale avere relazioni d’amicizia che ci aiutino a disingannarci reciprocamente e a capire quali sono le vie più giuste per seguire e dare spazio al Signore nella storia.
È l’esercizio del discernimento, fondato sull’esperienza personale e insieme sul confronto e sul dialogo, in una circolarità in cui l’esperienza personale è il presupposto fondamentale per non temere il confronto, e il dialogo è il necessario antidoto all’autoreferenzialità».
Maria Maddalena, "Apostola degli Apostoli"
Fu la prima ad annunciare Cristo Risorto e per espresso desiderio di Papa Francesco, la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti ha pubblicato un decreto, datato 3 giugno 2016, con il quale la celebrazione di Santa Maria Maddalena, viene elevata nel Calendario Romano Generale da memoria obbligatoria al grado di festa
Emanuela Campanile - Città del Vaticano *
Lo scriveva Beda il Venerabile intorno all’8 secolo d.C., riguardo ad Eva e a Maria Maddalena, l’apostola che per prima vide il Risorto e che per prima annunciò agli stessi apostoli la risurrezione del Cristo (Vedi anche la rubrica "Santo del Giorno").
Maria Maddalena, da penitente al kèrigma
Colei che fino a prima del decreto del 3 giugno 2016, era celebrata il 22 luglio come “penitente”, con la decisione di Papa Francesco viene ora restituita alla Chiesa tutta come un dono. Nell’intervista di Federico Piana, il teologo don Francesco Scalmati spiega così questa "intuizione formidabile" del Pontefice: -"L’istituzione di questa festa ci fa cambiare mentalità. Il significato è ben altro: è comprendere che un uomo. una donna, insieme - e solo insieme - possono diventare annunciatori luminosi del Risorto. Questo è il kèrigma: l’annuncio di Cristo morto e risorto, di cui Santa Maria Maddalena è la prima donna" (Ascolta l’intervista integrale)
Prima testimone della Divina Misericordia
Nell’articolo di commento al decreto, si spiega che la decisione di Papa Francesco si iscrive nel contesto ecclesiale di oggi, che domanda di riflettere più profondamente sul tema della dignità della donna, della nuova evangelizzazione e della grandezza del mistero della misericordia divina, proprio “per significare la rilevanza di questa donna che mostrò un grande amore a Cristo e fu da Cristo tanto amata”. Alla Maddalena che annunciò la Vita da un luogo di morte, un sepolcro, verrà d’ora in poi riservato, conclude la nota, "il medesimo grado di festa dato alla celebrazione degli apostoli nel Calendario Romano Generale", ed è al pari giusto "che risalti la speciale missione di questa donna, che è esempio e modello per ogni donna nella Chiesa".
Il dono delle lacrime
In una delle sue prime Messe a Casa Santa Marta, Papa Francesco ricordava della Santa la grazia delle lacrime. Quelle versate sui piedi di Gesù e asciugate con i capelli. Le lacrime che le rigano il viso davanti a quel sepolcro improvvisamente vuoto. Pur vivendo fuori dal sepolcro vuoto il “momento del buio” nell’anima, il “fallimento”, Maria Maddalena, aveva osservato Papa Francesco, “non dice: ‘Ho fallito su questa strada’”, ma “semplicemente piange”. “A volte - aveva continuato il Papa - gli occhiali per vedere Gesù sono le lacrime”. “Tutti noi, nella nostra vita abbiamo sentito la gioia, la tristezza, il dolore” ma “nei momenti più oscuri - si era chiesto - abbiamo pianto? Abbiamo avuto quella bontà delle lacrime che preparano gli occhi per guardare, per vedere il Signore?”. Di fronte alla Maddalena che piange - concludeva Francesco - “possiamo anche noi domandare al Signore la grazia delle lacrime”.
* Vatican News, 22 luglio 2018
Benedetto XVI: Santa Maria Maddalena de’ Pazzi, una mistica arsa di “amore vivo”
Lettera per il IV centenario della morte della Santa fiorentina
CITTA’ DEL VATICANO, lunedì, 28 maggio 2007 (ZENIT.org).- Santa Maria Maddalena de’ Pazzi (1566-1607) è un “figura emblematica di un amore vivo che rimanda all’essenziale dimensione mistica di ogni vita cristiana”, sostiene Benedetto XVI.
Così ha scritto il Santo Padre in una lettera inviata all’Arcivescovo di Firenze, il Cardinale Ennio Antonelli, in occasione delle celebrazioni per il IV centenario della morte della mistica carmelitana.
Nata a Firenze il 2 aprile 1566 da una nobile e facoltosa famiglia e battezzata con il nome di Caterina, Santa Maria Maddalena de’ Pazzi entrò per la prima volta, come educanda, nel Monastero di San Giovannino delle Cavalieresse di Malta.
Qui ricevette la prima comunione il 25 marzo 1576, ed appena qualche giorno dopo fece a Dio il voto di perpetua verginità.
“Abilmente, riusciva a non lasciarsi condizionare dalle esigenze mondane di un ambiente che, se pur cristiano, non le bastava nel suo desiderio di diventare più simile al suo Sposo crocifisso”, scrive il Papa nella lettera.
A sedici anni entrò nel Monastero di clausura di Santa Maria degli Angeli, il più antico dell’Ordine Carmelitano, dove il 30 gennaio 1583 ricevette l’abito del Carmelo e il nome di Suor Maria Maddalena. Nel marzo del 1584 si ammalò gravemente, ma riuscì ad emettere ugualmente la professione religiosa, il 27 maggio, festa della Santissima Trinità.
“Da questo momento ebbe inizio un’intensa stagione mistica dalla quale sarebbe venuta alla Santa la fama di grande estatica.”, ricorda il Papa.
I suoi confessori, allora, per determinare se l’origine di questi fenomeni fosse divina oppure no la obbligarono a riferire tutto quello che le accadeva ai Superiori, tramite le consorelle, che annotavano le sue parole fuori dell’estasi o durante le stesse esperienze mistiche.
“Una intensa esperienza che, a soli 19 anni di età, la rendeva capace di spaziare su tutto il mistero della salvezza, dall’incarnazione del Verbo nel seno di Maria alla discesa dello Spirito Santo nella Pentecoste”, sostiene il Vescovo di Roma nella missiva.
Il frutto di queste esperienze raccolte dalle Carmelitane di Santa Maria degli Angeli furono cinque manoscritti: dapprima i “Quaranta Giorni” (1584); poi “I Colloqui” (1585); e quindi le “Revelationi e Intelligentie” (1585), “otto giorni di splendide estasi che vanno dalla vigilia di Pentecoste alla festa della Trinità”, scrive ancora il Papa.
“Seguirono cinque lunghi anni d’interiore purificazione - Maria Maddalena de’ Pazzi ne parla nel libro della ‘Probatione’ -, nei quali il Verbo suo Sposo le sottrasse il sentimento della grazia e la lasciò come Daniele nella fossa dei leoni, tra molte prove e grandi tentazioni”.
“E’ in questo contesto che si inserisce il suo ardente impegno per il rinnovamento della Chiesa, dopo che nell’estate del 1586 bagliori di luce dall’alto vennero a mostrarle il vero stato in cui essa si trovava nell’epoca post-tridentina”, aggiunge il Pontefice.
“Come Caterina da Siena, si sentì ‘forzata’ a scrivere alcune lettere per sollecitare, presso il Papa, i Cardinali di Curia, il suo Arcivescovo ed altre personalità ecclesiastiche, un deciso impegno per la ‘Renovatione della Chiesa’, come dice il titolo del manoscritto che le contiene”, continua la lettera.
Successivamente la tisi cominciò a manifestarsi chiaramente e Suor Maria Maddalena si vide costretta a ritrarsi pian piano dalla vita attiva della comunità.
“L’amore purificato, che pulsava nel suo cuore, la apriva al desiderio della piena conformità con Cristo, suo Sposo, fino a condividere con lui il ‘nudo patire’ della croce. Gli ultimi tre anni della sua vita furono per lei un vero calvario di sofferenze”, si legge nella lettera del Papa.
Oppressa da pene atroci, muore il 25 maggio 1604. Il suo corpo incorruttibile si trova attualmente sotto l’altare maggiore della Chiesa del Monastero di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi a Careggi (Firenze).
L’8 maggio 1626 fu proclamata beata dal Pontefice fiorentino Urbano VIII, mentre ad iscriverla nell’Albo dei Santi fu il Papa Clemente IX, il 28 aprile 1669.
“Come, mentre era in vita, attaccandosi alle campane sollecitava le sue consorelle con il grido: ‘Venite ad amare l’Amore!’, la grande Mistica, da Firenze, dal suo Seminario, dai monasteri carmelitani che a lei si ispirano, possa ancora oggi far sentire la sua voce in tutta la Chiesa, diffondendo l’annuncio dell’amore di Dio per ogni creatura umana”, auspica infine il Santo Padre.
Chiesa.
Via al cammino sinodale, si parte dal popolo delle parrocchie e dalle diocesi
Durerà cinque anni il percorso nazionale che avrà come orizzonte il Giubileo del 2025. In agenda annuncio, famiglia, giovani, impegno sociale. La rivoluzione della Cei: basta input dall’alto
di Giacomo Gambassi (Avvenire, sabato 17 luglio 2021)
Il nome ufficiale è «Carta d’intenti». E rappresenta la prima roadmap del cammino sinodale della Chiesa italiana sollecitato da papa Francesco. Un percorso che è cominciato in modo formale con l’Assemblea generale dello scorso maggio e che è riassunto nel testo approvato dai vescovi della Penisola e consegnato al Papa. Il movimento “diffuso” che avrà come protagonisti le diocesi, le parrocchie e le multiformi espressioni del mondo ecclesiale italiano durerà cinque anni e avrà come orizzonte il Giubileo del 2025.
Il 2021 segna già il debutto del percorso in «sintonia con l’avvio della preparazione del Sinodo universale» dei vescovi. Il 2022 è l’anno della «prima tappa» italiana che sarà dal «basso verso l’alto»: in particolare avrà come snodo il «coinvolgimento» del “popolo delle parrocchie”. Il 2023 costituisce la «seconda tappa» che andrà «dalla periferia al centro»: in primo piano un grande «momento unitario di raccolta, dialogo e confronto con tutte le anime del cattolicesimo» del Paese, specifica il testo-guida. La «terza tappa» prevista per il 2024 sarà «dall’alto verso il basso» e ruoterà attorno alla «sintesi delle istanze» emerse fra la gente e alla «consegna, a livello regionale e diocesano» delle proposte di azione pastorale. La conclusione durante il prossimo Anno Santo con la «verifica nazionale per fare il punto» dell’itinerario compiuto.
Il cronoprogramma recepisce le indicazioni di Francesco che lo scorso gennaio aveva sollecitato di varare un «Sinodo nazionale» tornando al Convegno ecclesiale nazionale di Firenze del 2015 e che, a fine aprile, incontrando l’Azione cattolica, aveva suggerito che fosse «dal basso fino all’alto» e poi «dall’alto al basso», come lo stesso Bergoglio aveva già detto durante l’Assemblea generale del 2019. Nessun itinerario «precostituito», spiega la Cei. Anzi. -«L’incoraggiamento di papa Francesco - si legge nella Carta - richiede di dare una risposta sollecita e coraggiosa. Per fare questo occorre riprendere in mano Evangelii gaudium alla lente d’ingrandimento del Discorso di Firenze, facendo tesoro delle esperienze che in Italia già diverse Chiese locali hanno fatto in questi ultimi cinque anni». Il riferimento è anche ai Sinodi che la diocesi della Penisola hanno celebrato o stanno celebrando.
Mai nel testo si ricorre alla parola “Sinodo”: si preferisce utilizzare sempre l’espressione “cammino sinodale”, come del resto accade in Germania o in Irlanda dove sono in corso esperienze analoghe. A fare da filo conduttore la sfida di «annunciare il Vangelo in un tempo di rinascita», evidenzia il titolo dell’itinerario italiano annunciato al termine del Consiglio straordinario permanente della scorsa settimana. Perché alla base della scelta sinodale c’è anche il «travaglio del tempo presente» marcato dalla pandemia che «sta mettendo in ginocchio le comunità cristiane, diocesane e parrocchiali». Allora la crisi diventa occasione per «stimolare e accompagnare la rigenerazione, rafforzando quanto di buono e di bello si è già fatto negli ultimi anni, riaccendendo la passione pastorale, prendendo sul serio l’invito a rinnovare l’agire ecclesiale».
Un «ripensamento» che non ha bisogno di ricercare «affannosamente soluzioni immediate», ma necessita di mettere a fuoco «i “punti cruciali” per il prossimo futuro». La Carta ne indica alcuni: l’«abbondante semina della Parola»; la «proposta della lectio e della meditazione personale»; la «complementarità di celebrazioni sacramentali nelle comunità e di forme rituali vissute nello spazio familiare»; la «catechesi proposta con modalità e luoghi che superino il modello scolastico»; l’«azione educativa verso ragazzi»; l’urgenza di «un’alleanza familiare», di «una nuova stagione di solidarietà e carità», di un rinnovato «impegno civile» anche attraverso «un servizio politico all’altezza della ripresa auspicata». L’agenda sarà scandita dal rapporto fra «Vangelo, fraternità, mondo». Con alcune priorità: la “forma di Chiesa” per il futuro; l’Eucaristia domenicale come sorgente ecclesiale; l’accompagnamento delle famiglie; il ruolo dei giovani; l’attenzione ai poveri; la presenza sociale e culturale.
È ancora da definire la cassetta degli attrezzi di lavoro: può contenere un’«agenda di temi di ricerca», l’Instrumentum laboris, le schede per l’ascolto e la verifica, una piattaforma digitale per il confronto. Comunque la Conferenza episcopale prospetta già una rivoluzione nell’impostazione che ha segnato gli ultimi decenni. Con il cammino sinodale si passerà «dal modello pastorale in cui le Chiese in Italia erano chiamate a recepire gli Orientamenti Cei a un modello che introduce un percorso sinodale, con cui la Chiesa italiana si mette in ascolto e in ricerca per individuare proposte e azioni pastorali comuni». Basta quindi limitarsi all’opzione «applicativa»: serve imboccare la via «di ricerca e di sperimentazione» a partire dai territori.
Da qui le tre parole-chiave per coinvolgere le comunità: “ascolto”, “ricerca” e “proposta”. Il che significa «ascoltare la situazione», «cercare quali linee di impegno evangelico sono immaginabili e praticabili», «proporre scelte concrete che ciascuna Chiesa locale può recepire». L’intento è «smuovere il corpo ecclesiale e la sua presenza nella società». Ecco perché serve uno «stile ecclesiale» che guardi «al primato delle persone sulle strutture», alla «corresponsabilità», alla capacità di «tagliare i rami secchi, incidendo su ciò che serve realmente o va integrato/accorpato».
Il cammino italiano si armonizzerà con quello del Sinodo dei vescovi sul tema “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione” che, secondo la riforma approvata da papa Francesco, non si ridurre a un’adunanza in Vaticano ma coinvolgerà in prima battuta diocesi, Paesi e continenti. E questo va visto come «il primo momento» dell’itinerario nazionale, sottolinea la Carta d’intenti. Allora in Italia assumerà un valore particolare la data che segnerà in ogni diocesi del mondo (comprese quelle della Penisola) l’inizio del Sinodo dei vescovi: è domenica 17 ottobre quando ogni presule darà avvio al percorso universale nella propria Chiesa locale, preambolo del cammino italiano.
SCHEDA...*
VENEZIA:
LA CHIESA DI SANTA MARIA DI NAZARETH, O DEGLI SCALZI (E LA PRESENZA DI 12 SIBILLE).
La chiesa di Santa Maria di Nazareth, o chiesa degli Scalzi, è un edificio religioso della città di Venezia dei primi del XVIII secolo. Opera di Baldassarre Longhena ma con la facciata di Giuseppe Sardi, è situata nel sestiere di Cannaregio in prossimità della stazione ferroviaria di Venezia Santa Lucia.
La chiesa di Santa Maria di Nazareth deve la sua origine all’insediamento dei Carmelitani scalzi nella città lagunare.
Fu edificata da Baldassarre Longhena in un’unica navata, con due cappelle laterali, ognuna a sua volta affiancata da due cappelle minori. Dopo l’arco trionfale, l’aula si immette nel presbiterio, rialzato e dotato di una cupola. Nell’abside, si nota il coro dei frati.
Venne consacrata nel 1705, ma subì un importante restauro fra il 1853 e il 1862 da parte del governo austriaco. Al suo interno l’11 febbraio 1723 venne tumulato Ferdinando II Gonzaga, quinto e ultimo principe di Castiglione[1].
Oggi è monumento nazionale. Al suo interno marmi colorati e sfarzosi corinzi danno una sensazione di opulenza e di meraviglia al visitatore.
Presbiterio
L’altare maggiore è opera di Jacopo Antonio Pozzo (ovvero fra Giuseppe Pozzo) come anche il parato ligneo della sacrestia.[4] Il presbiterio è sovrastato da un baldacchino sorretto da colonne tortili. Il fastoso tabernacolo della mensa, vede la statua della Madonna con putto e profeti, proveniente dall’isola di Santa Maria di Nazareth, poi Lazzaretto.
Le statue di dodici Sibille, opera di Giuseppe Torretto, Giovanni Marchiori, Pietro Baratta, Giuseppe e Paolo Groppelli, stanno distribuite, cinque per parte, sulle pareti laterali e due giacenti sull’arco del baldacchino[5].
* Chiesa di Santa Maria di Nazareth (Venezia) (Wikipedia).
* Sulla presenza delle 12 Sibile nel "Presbiterio", in particolare, si cfr. anche il doc. su I Carmelitani Scalzi a Venezia. La chiesa di Santa Maria di Nazareth e il brolo del convento, Biblos Edizioni, 2015, pp. 22-26).
Scheda
Chi sono le Sibille?
di Ufficio Beni Culturali *
Con il termine Sibilla si indicava nell’antichità greco-romana una donna che possedeva la capacità di prevedere il futuro. Nel dizionario dell’Arte Medievale Treccani al termine Sibilla corrisponde la seguente definizione: "Nell’antichità classica, fin dal periodo arcaico della Grecia particolare tipo di veggente femminile [...] che profetizza quando e dove è ispirata, anche senza essere interrogata; la sua ispirazione è concepita come possessione divina, e per tale ragione la profetessa si mantiene vergine. Le Sibille divennero esseri leggendari; mediatrici tra dio e l’uomo, spesso concepite come figlie di divinità e di ninfe e dee esse stesse".
Pertanto le Sibille erano delle profetesse che, rivolgendosi alle comunità, alle città e ai regni, preannunciavano eventi e calamità naturali, esiti di battaglie e cantavano la storia delle città. Queste profetesse venivano anche consultate in occasioni di cerimonie, durante i periodi di carestia e al diffondersi di pestilenze, così da conoscere le cause e i rimedi ai mali che affliggevano il genere umano. Il dio che ispirava le Sibille è nella maggior parte delle attestazioni, Apollo, dio della poesia, della medicina, delle arti, della musica, della luce e della profezia. Minori sono le testimonianze che vedono Zeus, Giove o Dioniso quali ispiratori delle veggenti.
Le numerose profezie diffusesi in età classica spinsero gli studiosi antichi ad interrogarsi sul numero delle Sibille esistenti. Il primo autore che affrontò questa ricerca fu il filosofo greco Eraclide Pontico che individuò tre differenti Sibille: la Sibilla Marpessa o Ellespontica, la Sibilla Delfica e la Sibilla Eritrea. Solo in età romana, con lo studio dell’antiquario Varrone, si arrivò ad individuare dieci Sibille: la Sibilla Persica, la Libica, la Delfica, la Cimmeria, l’Eritrea, la Samia, la Cumana, l’Ellespontica, la Frigia e la Tiburtina. L’antiquario ordinò le profetesse in ordine cronologico e di ognuna fornì la fonte letteraria in cui era citata.
Con l’avvento della Religione Cristiana le Sibille non persero la loro importanza, anzi, al pari dei Profeti divennero annunciatrici della venuta di Cristo e del suo operato. Per questo motivo a partire dal Medioevo e durante tutto il Rinascimento le profetesse divennero soggetti nelle arti figurative italiane e nei testi letterari. Inizialmente le Sibille venivano rappresentate in forma singola ed accostate al ciclo dei Profeti, solo a partire dal Quattrocento vennero separate dai Profeti e costituirono un ciclo autonomo di dodici veggenti: le dieci del canone di Varrone più le due aggiunte da Filippo Barbieri nel 1481, l’Agrippea e l’Europea.
Nel contesto italiano l’apice della diffusione e considerazione delle Sibille si raggiunse con le raffigurazioni della Cappella Sistina nel 1508-1512 ad opera di Michelangelo Buonarrotti. In seguito, l’esaurirsi delle tensioni profetiche dalla metà del Cinquecento e i rigidi canoni controriformistici generarono una progressiva perdita di interesse, sia artistico che letterario, nei loro confronti. Ciò non si verificò nelle zone periferiche, dove le veggenti continuarono a rivestire un ruolo significativo sia in ambito religioso che privato.
È questo il caso della Provincia di Bergamo dove a partire dal XV secolo la presenza delle Sibille è osservabile nei contesti religiosi sottostanti alla Diocesi di Bergamo, e nell’ambito privato dell’Oratorio Suardi di Trescore Balneario.
* Ufficio diocesano dei Beni Culturali della diocesi di Bergamo
L’analisi.
E con il dolore delle donne il mercato divenne divino
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 13 marzo 2021)
L’età della Controriforma fu un tempo decisivo per la cultura economica e sociale dell’Italia e degli altri Paesi dell’Europa meridiana. Qualcosa si interruppe nell’evoluzione dell’etica della mercatura che aveva fatto di Firenze, Venezia o Avignone luoghi straordinari di ricchezza economica e civile. Tra i molti volti dell’età moderna c’è anche quello delle donne, in particolare quello della vita monastica femminile, poco noto perché nascosto e persino occultato. Il Concilio di Trento aveva reintrodotto la clausura strettissima per le monache. I vescovi e le congregazioni romane inasprirono controlli e norme sui monasteri femminili. Di fronte a una Chiesa riformata che annunciava la salvezza per sola grazia, che criticò la vita consacrata fino ad abolirla, che aveva molto ridimensionato il ruolo dei sacramenti, confutato radicalmente la teologia dei meriti e quindi delle indulgenze, e abolito il Purgatorio..., la chiesa di Roma rilanciò con forza l’importanza delle opere dell’uomo per la salvezza, moltiplicò gli istituti di vita consacrata, rafforzò la pastorale dei sacramenti incluso quello della confessione, rimise al centro il merito, le indulgenze e il Purgatorio.
In questa grande battaglia teologica le prime e più numerose vittime furono, anche qui, le donne, soprattutto quelle recluse nei monasteri e nei conventi. Un movimento enorme, se pensiamo che tra coriste, converse e terzi ordini in alcune regioni italiane le monache raggiungevano nel Seicento anche il 10-15% della popolazione femminile "adulta" (cioè, allora, con più di dodici anni). Quindi capire un po’ la vita di queste donne significa comprendere di più la storia dell’Europa e anche il nostro presente.
Ma perché esisterebbe un rapporto tra la vita dei monasteri femminili e l’economia? Il primo pensiero va all’ora et labora, ma non è quello più interessante e giusto, perché dove la logica economica è entrata pesantemente nella vita delle monache, è, paradossalmente, nella spiritualità, nell’ascetica e nella mistica. Già il Medioevo aveva prodotto una sua "religione economica". Le penitenze tariffate dei monaci, dove a ogni peccato corrispondeva una pena con relativa tariffa, dopo il XIII secolo divennero commerciabili come una sorta di merce. La penitenza venne oggettivizzata e separata dal peccatore, e così una colpa poteva essere pagata da una persona diversa dal colpevole. Da qui tutto il commercio di preghiere, pellegrinaggi, fino al famoso mercato delle indulgenze.
La Controriforma conobbe una forte ripresa della dimensione economico-retributiva del cattolicesimo, sebbene con importanti novità. Una riguarda direttamente le donne. Mentre, infatti, nel Medioevo gli attori del commercio religioso erano quasi esclusivamente maschi, nella prima età moderna sono le donne le prime operatrici di questa strana versione della religione cattolica. Le principali piazze di queste originali Borse valori erano i monasteri e i conventi, soprattutto quelli femminili. E il capitalismo latino divenne divino. Vediamo come.
Tutto ruota attorno a una particolare (e stravagante) interpretazione del significato e dell’uso del dolore umano, letto in rapporto al dolore di Cristo. Sappiamo che nel Nuovo Testamento esiste una tradizione che aveva letto la passione e la morte di Gesù come pagamento di un prezzo al Padre per lucrare il perdono dei nostri peccati. Questa idea di un Dio-Padre che per essere "soddisfatto" ebbe bisogno del sangue del suo Figlio (perché solo un prezzo dal valore infinito poteva estinguere un debito infinito), ha attraversato il primo millennio e fu sistematizzata da sant’Anselmo d’Aosta.
Ma era rimasta una faccenda per teologi, fino a quando con la Controriforma divenne nei monasteri qualcosa di spettacolare e di impensato, una colonna dell’età barocca. L’antica teologia dell’espiazione si trasformò in una vera e propria cultura dell’espiazione, che pervadeva le pratiche religiose e la pietà popolare. Il dolore umano divenne così la principale moneta per pagare i debiti/colpe propri e di altri.
Ciò che nel Medioevo era il commercio delle indulgenze e dei pellegrinaggi, nell’età della Controriforma divenne il commercio del dolore, sotto forma di penitenze, umiliazioni, mortificazioni. Un dolore principalmente femminile. Il linguaggio dei Manuali per confessori, che esplodono in questo tempo, rivela questa svolta: "opere penali", "opere soddisfattorie", "riparazione", "anime-vittime". Il confessionale divenne il principale meccanismo di trasmissione di questo commercio del dolore.
Su tutto spicca un’espressione: sofferenza vicaria. Si inizia cioè a pensare (e agire) che si potesse soffrire a vantaggio di altri, che qualcuno potesse pagare in proprio per espiare colpe altrui, ancora vivo o in Purgatorio. Sulla base di alcune citazioni della scrittura (ad esempio, della lettera deutero-paolina ai Colossesi: "completo nella mia carne ciò che manca ai patimenti di Cristo": Col 1,24) e un uso originale della categoria di Chiesa come "corpo mistico" (dove ciò che accade in un membro si ripercuote su tutti gli altri), si creò un immenso mercato del dolore e delle sofferenze. E così mentre l’Europa del Nord sviluppava i mercati "reali", nel Sud le categorie economiche venivano applicate alla religione e alle donne. Un ingrediente di questo originalissimo sistema di scambi era il cosiddetto "Tesoro dei meriti" di Cristo e Maria, meriti talmente grandi da superare il debito dei peccati umani; così la Chiesa poteva "vendere" la parte eccedente di quel tesoro per rimettere altri debiti di peccatori, tramite le indulgenze. Ma il colpo di genio teologico fu pensare che le penitenze e l’offerta delle sofferenze umane potessero aumentare il Tesoro e quindi la sua parte eccedente disponibile per i peccatori vivi e ancor più per quelli in Purgatorio: «Dio vuol che ’l debito si paghi» (Divina Commedia, Pg X,108). Ecco allora che i monasteri femminili si trasformarono in "centrali di produzione" di questa ricchezza spirituale: con il loro dolore dovevano incrementare il Tesoro. Come amava dire Veronica Giuliani: «Tante anime vanno all’inferno perché non c’è chi fa sacrifici per loro».
Da qui la proliferazione nei monasteri femminili di penitenze sempre più estreme, spesso ordinate dai confessori grazie al loro enorme potere sulle monache. Il sistema raggiungeva però la sua perfezione quando le monache interiorizzavano il valore del loro dolore e quindi si auto-infliggevano mortificazioni, umiliazioni, procurandosi in perfetta buona fede ogni sorta di dolore al fine di salvare se stesse e soprattutto gli altri. Un equilibrio perfetto: le monache attribuivano un senso e un valore al loro essere "vittime recluse" poiché leggevano il proprio sacrificio come offerta gradita a Dio e agli uomini; la Chiesa e la società attribuivano un valore sociale e religioso a quelle esistenze rinchiuse, ma "produttive". Impressionanti sono le biografie o auto-biografie di monache: «Il confessore convenne che due ore di sonno per notte, con un lenzuolo lacero come unica coperta, sarebbero state sufficienti. Dandole un nuovo cilicio munito di più di cinquecento aculei e una frusta con la punta di ferro, e non fece obiezione al fatto che Maria Maddalena portasse catene seghettate alle braccia e alle gambe» (Anne J. Schutte, "Orride e strane penitenze", pp. 159; 266).
In un’altra biografia: «Una simile risposta ebbe da Dio quando, durante una notte di Natale, sr. Margerita chiese di essere ammessa tra il bue e l’asinello per adorare il Bambino Gesù: Nel presepe non c’è posto per te, perché gli animali al tuo confronto hanno maggiori e più meritorie qualità» (Mariano Armellini, "Margherita Corradi monaca benedettina" (1570-1665), 1733). E nella celebre storia di suor Maria Crocifissa: «Prima di pranzo, stando le sorelle in refettorio sono andata a guisa di Bestia, cioè incatenata a quattro piedi, baciando i piedi alle sorelle» (Francesco Ramirez, 1709).
Altra fonte essenziale sono i libri spirituali per monache: «Subito che vi risvegliate figuratevi d’esser un reo incatenato, e condotto al tribunale per essere giudicato, o come un lebbroso, carico tutto di piaghe; e con questi o altri simili pensieri, andatevi vestendo» (Giovanni Pietro Pinamonti, "La religiosa in solitudine", 1697, p. 31). E in un Manuale per confessori molto diffuso, quello settecentesco di Alfonso Maria de’ Liguori, si legge: «La penitenza poi non solo deve essere medicinale per rimedio della vita futura, ma anche penale e vendicativa per la vita passata. Le penitenze generalmente utili a tutti sono l’entrare in qualche congregazione» (Alfonso M. de’ Liguori, "Il sacerdote provveduto", p. 240).
Entrare in congregazione visto dunque come forma di penitenza utile a tutti. Queste idee e pratiche sono durate secoli, in molti casi fino al Concilio Vaticano II. Ancora in un testo del secolo scorso leggiamo: «Nel convento delle Domenicane di Vercelli, v’era fra le altre una regola che vietava di bere fra un pasto e l’altro senza permesso della superiora, la quale però lo concedeva rarissimamente, eccitando le consorelle a questo piccolo sacrificio in memoria della sete che Gesù patì sul Calvario» (Luigi Carnino, "Il purgatorio nella rivelazione dei Santi", cap. 17, 1946). Non è stato per me affatto facile pensare e scrivere questo articolo. L’ho scritto con lo spirito con cui si scrive una lapide, una stele in memoria di quelle donne-vittime quasi sempre ignote. Per soffermarsi davanti ad esse, riflettere, piangere. Scrivere, poi, anche per chiedere loro scusa a distanza di secoli - scuse vicarie che faccio da uomo per conto di altri uomini del passato.
Il dolore umano può avere un senso. Forse alcune o molte di queste monache furono più grandi del loro destino e delle teologie sbagliate e violente verso il corpo delle donne. Forse. Ma prima Giobbe e poi i Vangeli ci avevano detto che solo gli idoli gradiscono il sangue dei loro fedeli. Il Dio biblico è diverso. Solo una visione sbagliata degli uomini e soprattutto delle donne può pensare di usare la loro sofferenza come moneta gradita a un qualche Dio. Un’ultima nota.
Tutto questo commercio di sangue e di dolore femminile era totalmente gratuito. La Chiesa nei suoi uomini vendeva le indulgenze e chiedeva ai laici elemosine per compensare i peccati: «La regola è: per i peccati di avarizia, limosine» (Alfonso M. de’ Liguori, cit.).
Il commercio religioso che avveniva sul corpo delle donne era invece tutto dono, e quindi gratis. La donna come icona del sacrificio gratuito, per proteggerla dal commercio mercenario. Sono passati decenni, secoli. Le monache e le suore che oggi entrano nei monasteri e nei conventi sono molto diverse, e spesso neanche conoscono queste storie.
Quelle antiche penitenze sono state eliminate dal Concilio Vaticano II, anche se radicata in tanti cristiani è ancora l’idea teologica che il nostro dolore possa essere una "moneta" che il Dio-creditore degli uomini accetta volentieri, che quindi Dio gradisca il dolore dei suoi figli, facendolo così diventare peggiore di noi. Ma nella vita civile ed economica le donne continuano ancora troppo a praticare espiazioni vicarie, a pagare nella loro carne per le famiglie e per la società, e il loro lavoro non riconosciuto e svalutato, e non di rado in nome del dono. Donne molto lontane e diverse, sofferenze ancora troppo simili.
#DivinaCommedia.
#Antropologia
#teologia e
#Costituzione:
"Ben puoi veder [...]
Soleva #Roma, che ’l buon mondo feo,/
#due soli aver, che l’una e l’altra strada/
facean vedere, e del mondo e di Deo [...] /
se non mi credi, pon mente a la spiga,/
ch’ogn’erba si conosce per lo seme.
"(Purgatorio XVI, 103-113).
INFUTURARSI CON DANTE *
di Gerardo Sano ( Centro di Cultura Popolare Unla Contursi Terme, 5 luglio 2021)
In occasione delle celebrazioni per i settecento anni dalla morte di Dante l’UNLA di Contursi Terme organizza “INFUTURARSI CON DANTE”, una manifestazione che intende rendere al “ghibellin fuggiasco” il giusto tributo. Un tributo che si vuole consumare in un contesto locale, dove la memoria dei padri, più che altrove, ha voluto lasciare il segno tangibile della propria fede e della propria devozione a “colei che l’umana natura nobilitasti sì, che ’l suo fattore non disdegnò di farsi sua fattura”.
Con questa chiave di lettura la manifestazione “INFUTURARSI CON DANTE” intende interpretare le celebrazioni, la cui data d’inizio individuata nel 25 marzo, quale inizio del viaggio ultraterreno del sommo Poeta, pone una significativa coincidenza con il Mistero dell’incarnazione di Cristo nel seno della Vergine Maria. Un mistero che neppure l’era pagana seppe, o forse, volle negare. La testimonianza più certa è data dal cantore della IV Bucolica, con quel suo celeberrimo verso “Iam redit Virgo”. E non può essere un caso se lo stesso cantore verrà eletto guida-maestra del viaggio in ben due regni dell’oltretomba. Egli aveva preconizzato la nascita di un Puer, che avrebbe ridonato al mondo un’era di pace.
Troppe e non casuali queste assonanze, che saldano indissolubilmente il poeta fiorentino, destinato a sperimentare “ come sa di sale lo pane altrui” e il poeta mantovano, cui la sorte aveva sottratto i beni paterni. Quel “Iam redit Virgo” li unisce in una visione profetica di un’età dell’oro, auspicata dall’umanità di ogni tempo.
E’ lo stesso “iam redit Virgo” che la mano di un ignoto pittore volle dipingere a mò di didascalia in uno medaglioni, ritraenti ben dodici Sibille in quella che è la più antica e preziosa testimonianza di una “cerniera” tra riti pagani e liturgie cristiane: la Chiesa del Carmine. Ed è’ ancora alla Sibilla Cumana che viene affidato il compito di illustrare ad Augusto il mistero dell’incarnazione. Una testimonianza? Semplicemente rare e preziose stampe, il cui racconto non necessita di parole. Così in una sorta di ringkomposition si sublima la più suggestiva narrazione del Divino, la Divina Commedia.
Sono queste semplici considerazioni che portano a mettere in essere una celebrazione di portata mondiale incardinandola in un contesto localistico, una celebrazione che vuole congiungere macrocosmo e microcosmo.
L’evento avrà luogo.
ALLE ORE 20,30
CHIESA DEL CARMINE
CONTURSI TERME
"DANTE VIRGILIO E LE SIBILLE"
Parole e musiche di un viaggio divino
Fonte: Centro di Cultura Popolare Unla Contursi Terme, 5 luglio 2021
#Parola Di Dante
...viro
(Paradiso XXIV, 34)
***
#Beatrice chiede al #proboviro
#SanPietro di verificare
se #Dante ha capito la differenza tra
l’#Ecce Homo dell’#antropologia
(#PonzioPilato: gr. «idou ho #anthropos»)
e
il #vir dell’#andrologia di
#SanPaolo
(#capo della #donna è l’#uomo [gr. ἀνήρ]: 1 Cor 11,1-3).
FILOSOFIA E ANTROPOLOGIA. COME NASCONO I BAMBINI...*
È la nostra nascita il miracolo che salva il mondo
Quella postilla di Hannah Arendt che illumina i dati Istat sulla natalità
di Sergio Belardinelli (il Foglio, 24 apr 2021)
L’Istat ci ha comunicato di recente che, complice anche il Covid, in Italia nel 2020 i morti sono stati 746 mila e i nuovi nati 404 mila. Un dato agghiacciante nel suo significato sociale e culturale che a me, come una sorta di riflesso condizionato, richiama alla mente uno dei brani filosofici più intensi che abbia mai letto: “Il miracolo che salva il mondo, il dominio delle faccende umane dalla sua normale, naturale rovina è in definitiva il fatto della natalità in cui è ontologicamente radicata la facoltà dell’azione. È in altre parole la nascita di nuovi uomini, l’azione di cui essi sono capaci in virtù dell’esser nati. Solo la piena esperienza di questa facoltà può conferire alle cose umane fede e speranza, le due essenziali caratteristiche dell’esperienza umana, che l’antichità greca ignorò completamente. È questa fede e speranza nel mondo, che trova forse la sua gloriosa e stringata espressione nelle poche parole con cui il Vangelo annunciò la ‘lieta novella’ dell’avvento: ‘un bambino è nato per noi’”.
Con queste parole Hannah Arendt conclude il capitolo di Vita Activa dedicato all’azione. Si tratta di un brano che cito e commento ormai da quarant’anni, nel quale viene messo a tema un nesso, quello tra la libertà e la natalità, tra la libertà e la vita, col quale, che io sappia, soltanto la Arendt ha avuto l’acutezza e il coraggio di cimentarsi e che, a prima vista, può apparire persino paradossale. La vita infatti, almeno immediatamente, sembra richiamare non tanto la libertà, quanto piuttosto il gigantesco, immutabile ripetersi dei cicli naturali, l’ambito di quelli che il grande biologo Adolf Portmann, autore peraltro assai caro alla Arendt, definirebbe i “rapporti preordinati” - il contrario, quindi, di ciò che in genere intendiamo allorché parliamo di libertà. Quanto poi alla vita specificamente umana, essa, è certo impastata di libertà, ma è anche qualcosa che, a diversi livelli, non dipende da noi, qualcosa di cui, nonostante le tecnologie della riproduzione, non possiamo avere il completo controllo: la riceviamo semplicemente; non scegliamo i nostri genitori, né il luogo dove venire al mondo; dobbiamo fare continuamente i conti con gli altri, con le nostre passioni, i nostri istinti, le nostre inclinazioni, con quel coacervo di natura, ragione, sentimenti, usi e costumi che vanno a costituire appunto il “gran mare” della vita. La vita insomma pone una serie di condizioni e condizionamenti alla libertà che possono renderla persino impossibile. Eppure, rompendo in un certo senso questa grande catena, è proprio la libertà che dà sapore e specificità alla vita umana; solo la libertà impedisce che il mondo si riduca spinozianamente a “sostanza”, a qualcosa di omogeneo, a qualcosa come un continuo fluire; solo la libertà è capace di introdurre nel mondo un elemento di novità, qualcosa di imprevisto.
Pensieri non nuovi, si potrebbe dire. Ma proprio qui si inserisce la fondamentale postilla arendtiana, preziosa per leggere in una chiave forse inusuale ma certo illuminante anche i dati Istat sulla natalità in Italia da cui siamo partiti: è la stessa vita umana, il nostro venire al mondo, la nascita unica e irripetibile di ciascuno di noi, a rappresentare la prima e più immediata forma di novità, il primo scompaginamento, se così si può dire, della routine della vita.
La facoltà dell’azione, dice la Arendt, “è ontologicamente radicata” nel “fatto della natalità”. In entrambe le dimensioni - la libertà e la natalità - ritroviamo non a caso una costitutiva “novità”, un costitutivo essere insieme agli altri (non si nasce, né si agisce da soli), qualcosa che implica l’accettazione della realtà nella quale siamo e insieme fiducia nel futuro. In questo senso ogni bambino che nasce è un segno di speranza nel mondo; è l’irruzione nel mondo di una “novità”, la cui memoria, è il caso di dire, ritroviamo da adulti nell’esercizio della nostra libertà, nella nostra capacità di incominciare qualcosa che senza di noi non incomincerebbe mai.
Novità, pluralità (gli uomini, non l’uomo abitano la terra, ripete spesso Hannah Arendt) e speranza: questo ci schiude direttamente e in modo straordinario il discorso arendtiano sulla libertà radicata nella natalità. Ma indirettamente, specialmente oggi, tale discorso ci schiude molto di più. Ci fa capire, ad esempio, quale tragedia, anche simbolica, si consuma nel momento in cui un paese come l’Italia registra in un anno un saldo passivo tra morti e nuovi nati di 342 mila unità. È un po’ come se il mondo e la nostra libertà perdessero la speranza, ossia ciò che dà loro sapore, ciò che è insieme accettazione della realtà nella quale viviamo e fiducia nel futuro.
È vero, tutto passa. La vita non è altro che un eterno dissolversi nel gigantesco circolo della natura dove, propriamente, non esiste inizio né fine e dove tutte le cose e gli eventi si svolgono in un’immutabile ripetizione: la mors immortalis di cui parlava Lucrezio. Ma la Arendt non accetta questa mestizia, poiché a suo avviso “la nascita e la morte di esseri umani non sono semplici eventi naturali”; avvengono in un mondo dove vivono altri uomini; un mondo che acquista significato grazie alle loro azioni e ai loro discorsi; un mondo che per questo è sempre aperto alla novità.
Con la creazione dell’uomo, dice la Arendt, “il principio del cominciamento entrò nel mondo stesso, e questo, naturalmente è solo un altro modo di dire che il principio della libertà fu creato quando fu creato l’uomo”. Di nuovo l’inizio, dunque, diciamo pure, la natalità.
È proprio perché, in quanto uomini, siamo initium, nuovi venuti, iniziatori, per virtù di nascita che secondo la Arendt, siamo indotti ad agire. La definizione che più si addice agli uomini non è quella di “mortali”, ma piuttosto quella di “coloro che nascono”. In questo modo, quasi per una sottile ironia della sorte, la categoria della natalità diventa fondamentale proprio nel pensiero di un’allieva (e anche qualcosa di più) di Martin Heidegger, l’inventore dell’essere per la morte. Non che la Arendt ovviamente trascuri che la morte rappresenta l’ineluttabile fine di ogni vita umana, solo che, a suo avviso, gli uomini, anche se debbono morire, non nascono per questo, bensì per incominciare. E siamo di nuovo al passo da cui siamo partiti: “Il miracolo che salva il mondo....”.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica L’EUROPA IN CAMMINO - SULLA STRADA DI GOETHE O DI ENZO PACI (“NICODEMO O DELLA NASCITA”, 1944)?!
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907 - con una nota introduttiva
Federico La Sala
"IAM REDIT ET #VIRGO" (#Virgilio).
Nell’approssimarsi dell’#alba,
un’ottima sollecitazione:
riascoltare la lezione di
#Stazio
su
#come nascono i bambini
(Purg. XXV, 34-78)
e riprendere le ricerche
#Giovanni Valverde
Monastero della B.V. del Carmine
Street View
e
dello stato della Chiesa
(agosto del 2016)
di
Antonio Siani
COSTITUZIONE (DOGMATICA E ANDROLOGIA) E ANTROPOLOGIA. Messaggio Evangelico e Istituzioni....
“La Chiesa corre il rischio di diventare una sotto-cultura”.
Intervista a Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers,
a cura di Stéphanie Le Bars (Le Monde, 4 aprile 2010)
Arcivescovo di Poitiers, Mons. Albert Rouet è una delle figure più libere dell’episcopato francese.La sua opera J’aimerais vous dire (Bayard, 2009) è un best-seller nella sua categoria. Più ditrentamila copie vendute e vincitore del premio 2010 dei lettori di La Procure, questo libro-intervista getta uno sguardo molto critico sulla Chiesa cattolica. In occasione della Pasqua, Mons.Rouet offre le proprie riflessioni sull’attualità e la sua diagnosi sulla Chiesa.
La chiesa cattolica è scossa da molti mesi per la rivelazione di scandali di pedofilia in parecchi paesi europei. Tutto questo l’ha sorpresa?
Vorrei anzitutto precisare una cosa: perché ci sia pedofilia sono necessarie due condizioni, una profonda perversione e un potere. Questo vuol dire che ogni sistema chiuso, idealizzato,sacralizzato è un pericolo. Quando una istituzione, compresa la Chiesa, si erge in posizione di diritto privato, si ritiene in posizione di forza, le derive finanziarie e sessuali diventano possibili. E’ quanto rivela l’attuale crisi e tutto questo ci obbliga a tornare all’Evangelo; la debolezza del Cristo è costitutiva del modo di essere Chiesa.
In Francia, la Chiesa non ha più questo tipo di potere; questo spiega perché si sia di fronte a devianze individuali, gravi e detestabili, ma non si riscontra una sistematizzazione di questi casi.
Queste rivelazioni sopraggiungono dopo parecchie crisi, che hanno segnato il pontificato di Benedetto XVI. Chi maltratta la Chiesa?
Da qualche tempo, la Chiesa è flagellata da tempeste, esterne ed interne. C’è un papa che è più unteorico che uno storico, E’ rimasto il professore che pensa che un problema, una volta impostatobene, è per metà risolto. Ma nella vita non succede così. Ci si imbatte nella complessità, nella resistenza della realtà. Lo si vede bene nelle nostre diocesi, si fa quello che si può! La Chiesa fa fatica a situarsi nel mondo tumultuoso nel quale si trova oggi. E’ il cuore del problema. -Oltre a questo, due cose mi colpiscono nella situazione attuale della Chiesa. Oggi, si constata un certo gelo della parola. Oramai, il minimo interrogativo sull’esegesi o sulla morale viene giudicato blasfemo. Interrogarsi non è più ritenuto una cosa ovvia, ed è un peccato. Parallelamente regna nella Chiesa un clima di sospetto malsano. L’istituzione si trova ad affrontare un centralismo romano, che si basa su di una rete di denunce. Certi gruppi passano il loro tempo a denunciare le posizioni di questo o quel vescovo, a fare dei dossier contro qualcuno, a tenere delle informazioni contro qualcun altro. E questi comportamenti si sono intensificati con internet. Inoltre, noto una evoluzione della Chiesa parallela a quella della società. Questa vuole più sicurezza, più leggi, quella più identità, più decreti, più regolamenti. Ci si protegge, ci si rinchiude, è proprio il segno di un mondo chiuso, è catastrofico!
In generale, la Chiesa è uno specchio fedele della società. Ma, oggi, nella Chiesa, le pressioni identitarie sono particolarmente forti. C’è tutta una corrente, che riflette poco, che ha sposato un’identità rivendicativa. Dopo la pubblicazione di alcune caricature sulla stampa riguardanti la pedofilia nella Chiesa, ci sono state delle reazioni degne degli integralisti islamici sulle caricature di Maometto! A voler apparire offensivi, ci si squalifica.
Il presidente della Conferenza episcopale (francese), Mons. André Vingt-Trois lo ha ripetuto a Lourdes il 26 marzo: la Chiesa francese è colpita dalla crisi delle vocazioni, dalla difficoltàdella trasmissione della fede, dalla diluizione della presenza cristiana nella società. Come vive questa situazione?
Cerco di prendere atto che ci troviamo alla fine di un’epoca. Si è passati da un cristianesimo diabitudine, ad un cristianesimo di convinzione. Il cristianesimo è perdurato grazie al fatto di essersiriservato il monopolio della gestione del sacro e delle celebrazioni. Di fronte alle nuove religioni,alla secolarizzazione, le persone non fanno più riferimento a questo sacro. Pur tuttavia, possiamo dire che la farfalla è “più” o “meno” della crisalide? E’ un’altra cosa. Allora,non ragiono in termini di degenerazione o di abbandono: stiamo mutando.
Bisogna misurare l’ampiezza di questa mutazione. Si prenda la mia diocesi: Settantanni fa contava ottocento preti. Oggi ne ha duecento, ma conta anche 45 diaconi e 10mila persone impegnate nelle 320 comunità locali che abbiamo creatoquindici anni fa. E’ meglio. Bisogna arrestare la pastorale della SNCF (ndr.: ferrovie dello stato francesi). Bisogna chiudere delle linee e aprirne delle altre. Quando ci si adatta alle persone, al loro modo di vivere, ai loro orari, la frequenza aumenta, anche al catechismo! La Chiesa ha questa capacità di adattamento.
In quale modo?
Non abbiamo più un personale per mantenere una suddivisione di 36000 parrocchie. O si considerache si tratta di una miseria da cui bisogna uscire ad ogni costo e allora si torna a sacralizzare ilprete; oppure si inventa qualcosa d’altro. La povertà della Chiesa costituisce una provocazione per aprire nuove porte.
La Chiesa deve appoggiarsi sul clero o sui battezzati? Per mio conto, penso che occorra dare fiducia ai laici e smetterla di funzionare sulla base di una organizzazione medievale. E’un cambiamento fondamentale. E’ una sfida.
La sfida presuppone l’apertura del sacerdozio agli uomini sposati?
Sì e no! No, perché immaginate che domani io possa ordinare dieci uomini sposati, ne conosco, non è quello che manca. Ma non potrei pagarli. Quindi dovrebbero svolgere un altro lavoro e sarebbero disponibili solo nei fine settimana per i sacramenti. Allora si tornerebbe ad un’immagine cultuale del prete. Sarebbe una falsa modernità
Invece, se si cambia il modo di esercitare il ministero, se la sua posizione nella comunità è diversa, allora sì che si può immaginare l’ordinazione di uomini sposati. Il prete non deve più essere il capo della sua parrocchia; deve sostenere i battezzati perché diventino degli adulti nella fede, formarli, impedire loro di ripiegarsi su se stessi.Tocca a lui ricordare che si è cristiani per gli altri, non per sé; allora presiederà l’eucarestia come un gesto di fraternità. Se i laici resteranno dei minorenni, la Chiesa non sarà credibile. Deve parlare da adulto ad adulto.
Lei ritiene che la parola della Chiesa non sia più adatta al mondo. Perché?
Con la secolarizzazione, si sviluppa una “bolla spirituale” nella quale le parole fluttuano; a cominciare dalla parola “spirituale” che si può riferire più o meno a qualsiasi merce. Quindi è importante dare ai cristiani i mezzi per identificare e per esprimere gli elementi della loro fede. Non si tratta di ripetere una dottrina ufficiale ma di permettere loro di esprimere liberamente la propria adesione.È spesso il nostro modo di parlare che non funziona. Bisogna scendere dalla montagna, scendere in pianura, umilmente. Per far questo occorre un enorme lavoro di formazione. Perché la fede era diventata un qualcosa di cui non si parlava tra cristiani.
Qual è la sua maggiore preoccupazione per la Chiesa?
Il pericolo è reale. La minaccia per la Chiesa è di diventare una sottocultura. La mia generazioneteneva particolarmente all’inculturazione, all’immersione nella società. Oggi, il rischio è che icristiani si rinchiudano tra di loro, semplicemente perché hanno l’impressione di essere di fronte aun mondo di incomprensione. Ma non è accusando la società di tutti i mali che si diventa luce perl’umanità. Al contrario, occorre un’immensa misericordia per questo mondo in cui milioni di persone muoiono di fame. Tocca a noi aprirci al mondo e tocca a noi renderci amabili.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
UOMINI E DONNE, PROFETI E SIBILLE, OGGI: STORIA DELLE IDEE E DELLE IMMAGINI. A CONTURSI TERME (SALERNO), IN EREDITA’, L’ULTIMO MESSAGGIO DELL’ECUMENISMO RINASCIMENTALE .....
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
FLS
Recital Itinerante:
La Divina Commedia in 100 borghi:
LA DIVINA COMMEDIA *
Paradiso, Canto XIX
Argomento
L’aquila inizia a parlare (1-21)
Dante manifesta un antico dubbio (22-33)
Imperscrutabilità della giustizia divina (34-66)
Il problema della salvezza (67-99)
La predestinazione: eletti e reprobi (100-111)
Rassegna dei principi cristiani corrotti (112-148)
* Fonte- Weebly: La Divina Commedia. Paradiso, Canto XIX (ripresa parziale).
STORIA, MEMORIA, E ULTIMA NOTIZIA: LA "DIVINA COMMEDIA" IN UNA CITTÀ (RIDIVENTATA) "BORGO"
CONTURSI TERME (SA)
Contursi Terme è un paesino, divenuto città nel 2012, della provincia di Salerno, il cui centro abitato è situato su di una piccola collina che domina la Valle del Sele. Il paesaggio è ricco di flora e fauna e a valle della città vi è la confluenza di due importanti fiumi: il fiume Sele, detto anche fiume Bianco, e il fiume Tanagro, detto anche fiume Negro.
ORIGINI DI CONTURSI
Gli studiosi hanno avanzato diverse ipotesi sulle origini e sul nome di Contursi. Secondo la tradizione, la città prende il nome dal Conte Orso, feudatario di Siconolfo, principe di Salerno, il quale fondò il paese e vi fece costruire il suo castello nell’840. Oggi ci restano soltanto le rovine dell’antico castello, su cui sorge un edificio di più recente costruzione, che presenta tuttavia tracce dell’antico splendore nella maestosità delle linee architettoniche, malgrado i cambiamenti avvenuti nel corso del tempo.
Molti, invece, hanno ritenuto che Contursi potesse identificarsi con Ursentum, i cui abitanti erano gli Ursentini, un popolo di origine betica. Questa ipotesi viene però smentita nel terzo libro delle Naturales Historiae di Plinio il Vecchio.
Altri studiosi, come Filomarino, fanno risalire le origini di Contursi alla fine del VI secolo d.C. ad opera degli abitanti di Saginara, cittadina scomparsa, posta tra Contursi e Campagna e distrutta dai Goti di Alarco tra il 395 e il 400 d.C.
A testimonianza delle antiche origini di Contursi troviamo:
Il Castello Rosapepe, edificato nell’840 dal Conte Orso: egli notò che la collina aveva una posizione strategica di dominio su tutta la valle del Sele e capì che quello sarebbe stato il luogo ideale per difendersi dalle continue scorribande dei normanni. Il castrum aveva delle minime strutture logistiche fisse ed era cintato da un’alta palizzata con delle torrette di legno. Questa è la più antica struttura presente nel territorio, e fu proprio grazie alla sua costruzione che quelle poche genti sparse nella valle, sentendosi protette da questa fortificazione, incominciarono a costruire le prime capanne nei pressi del castello stesso. Solo in seguito nel XI secolo, sotto il dominio normanno, il castello e le vicine abitazioni vennero costruite in muratura. In seguito il castello fu soggetto a continue opere di rifacimento, per cui della sua struttura iniziale resta ben poco. Nel 1675 divenne proprietà della famiglia Parisano che lo tenne fino al 1807 quando, per motivi di debiti, lo dovette cedere a Don Paolo Rosapepe, i cui eredi sono ancora proprietari.
Tra gli edifici storici che arricchiscono la città troviamo le antiche chiese che sorgono nella città, tra queste:
La chiesa S.S. Maria degli Angeli, o Chiesa Madre, è la chiesa più antica del paese, fu edificata attorno all’anno 840 e poi ampliata verso il 1500. Inizialmente essa era caratterizzata da una sola navata e aveva il suo unico ingresso sul lato Nord con l’altare maggiore che fronteggiava l’entrata stessa. Nel 1559 fu aperto un nuovo ingresso a ponente, attraverso un atrio che successivamente venne ingrandito e così nel 1737 la chiesa divenne di tre navate. A seguito del terremoto del 1980 la Chiesa crollò e fu fatta ricostruire. Oggi, del suo antico impianto, ci rimangono soltanto il campanile ed il portale.
La chiesa del Bambino Gesù fu inizialmente edificata per la devozione di San Giovanni e Santa Lucia. Nel 1600, a seguito di alcuni lavori di ristrutturazione, l’arciprete Paradiso consacrò la chiesa al Bambino Gesù, dopo aver fatto arrivare da Napoli una statuetta che lo raffigurava, di fattura pregevole, sia nelle proporzioni anatomiche che per le vesti ricamate con fili d’oro. L’attuale corpo della chiesa, tranne l’abside e i suoi spazi laterali, fu edificato verso la fine del XV secolo. All’interno si trovano le statue di Santa Maria Immacolata Concezione Santa Maria Addolorata e il magnifico organo settecentesco intagliato.
La Chiesa Santa Maria delle Grazie, originariamente di dimensioni più piccole, fu successivamente ampliata. Nel 1656, al suo interno, fu costruito un altare dedicato a Santa Filomena Martire, in ringraziamento dei suoi tanti miracoli, avvenuti, come narra la tradizione, durante i giorni della peste.
La Chiesa Maria S.S. del Carmine, in origine era una piccola cappella dedicata ai Santi Donato e Rocco. Assunse l’attuale nome e forma nel 1564 quando se ne concesse l’uso ai padri Carmelitani, che dopo averla ingrandita la provvidero di un convento. La chiesa fu aggregata all’Arcipretura nel 1653, dopo la soppressione del convento. La chiesa è composta da una sola navata, che termina con un’abside di pianta quadrangolare. Ai due lati si aprono dieci cappelle, decorate con raffinatezza, otto delle quali hanno un altare. Alle spalle dell’altare maggiore, ornato da splendidi marmi policromi, vi è la pala raffigurante la Madonna del Carmelo dipinta da Jacopo de Antora. Di grande interesse anche la cupola dell’abside, che sovrasta l’altare, dipinta con figure del Paradiso realizzate dai pittori Innocenzo Gentile e Carmine de Matina. Ai lati dell’ingresso della Chiesa sono collocate due tombe monumentali appartenute ai feudatari del tempo.
L’antica sede dell’universitas, ossia del Comune è un edificio che accoglieva i vari uffici pubblici, amministrativi e giuridici presente oggi nella parte più antica della città. Esso si caratterizza di un cortile chiuso da un cancello con montanti scolpiti con immagini d leoni rampati e sirene a doppia coda.
Contursi presenta anche un antico borgo, il quale anticamente rappresentava il primo sviluppo urbano a ridosso delle antiche mura del paese. Esso si sviluppa lungo due vie: il primo detto, Borgo S .Antonio perché la stradina che lo attraversa verticalmente conduce alla chiesetta del Santo; il secondo detto, Borgo S. Michele perché la stradina che lo attraversa conduce alla chiesa dell’omonimo Santo.
LE TERME
La principale risorsa della città è la presenza delle acque termali e dei numerosi stabilimenti termali, che la rendono un rinomato centro turistico-termale. Proprio in virtù della vocazione termale della città, nel 1974, all’originario nome “Contursi”, venne affiancata la parola “Terme”, divenendo così “Contursi Terme”.
L’acqua termale di Contursi presenta la notevole caratteristica di essere quella con più alta concentrazione di anidride carbonica d’Europa, qualità che la rende particolarmente efficace nella cura di particolari patologie vascolari.
Nella città di Contursi sgorgano una quindicina di sorgenti termali, che fuoriescono quasi tutte sul fondo della valle in prossimità del fiume Sele, e si dividono in termali (o calde) e fredde, in base alla temperatura della sorgente (di cui la più calda esce dalla terra a 48°).
Tutte le acque delle sorgenti termali e parte di quelle fredde sono classificate come salso-bromo-iodiche-sulfuree, mentre la restante parte sono classificate invece solfureo-bicarbonato-alcaline con la presenza anche di una fonte di acqua oligominerale.
Le principali acque che sgorgano in località Contursi sono:
La varietà delle acque di Contursi si presta a numerose applicazioni terapeutiche: esse sono particolarmente efficaci nella cura delle vasculopatie croniche, ma sono altresì indicate per la cura di artrosi, artriti, reumatismi, gotta, malattie della pelle e dell’apparato respiratorio. Le acque fredde di Contursi sono inoltre adatte alla cura delle malattie dell’apparato digerente e delle vie urinarie; possiedono inoltre la capacità di regolarizzare le funzioni epatiche e la pressione sanguigna.
La Divina Commedia in 100 borghi è un Recital Itinerante ideato dall’Artista Matteo Fratarcangeli in omaggio ai 700 anni dalla scomparsa di Dante Alighieri. Il Recital è prodotto dall’Associazione Culturale “Il Tempo Nostro” e vede la collaborazione del Comune di Macchiagodena in qualità di partner organizzativo.
Ogni giorno, l’artista, porterà un canto diverso in un borgo diverso. Sarà un viaggio di riflessione esistenziale verso il concepimento di alcuni grandi temi cari a Dante ma sottotono ai giorni nostri.
Matteo Fratarcangeli è un performer che si è diplomato presso l’Accademia Internazionale “Teatro Senza Tempo”, laureato in Arti e Scienze dello Spettacolo e in Linguistica presso l’Università “La Sapienza” di Roma. E’ stato il direttore artistico per anni del Teatro “V. Gassman”. Attualmente è Presidente dell’Associazione Culturale “Il Tempo Nostro”. Con l’Associazione ha messo in scena più di 100 spettacoli teatrali.
Nel 2016 ha ideato e realizzato la Performance “Il viaggio”: un viaggio di 33 giorni in sud Italia in bicicletta dove ogni giorno veniva recitato un canto del Paradiso. Di grande importanza sono anche le performance Ascolto, La Paura dell’Esserci e i libri Un sogno chiamato libertà e Come Ascoltare il Tempo Interiore.
La fedeltà e il riscatto.
Noemi la migrante si alzò
di Luigino Bruni ( Avvenire, sabato 3 aprile 2021)
«Al tempo dei giudici ci fu nel paese una carestia...» (Rt 1,1). Nei pochi versi del Libro di Rut ogni nome è un messaggio. Come in una miniatura medioevale, il capolavoro nasce dalla cura dei dettagli. Al tempo dei giudici... Il libro dei Giudici descrive un tempo di violenza e di soprusi, e si chiude con il racconto - tra i più tremendi della Bibbia - dell’omicidio perpetrato da uomini di Gadaa nei confronti di una donna di Betlemme (Gdc 19,29).
Il Libro di Rut inizia con un’altra donna di Betlemme: Noemi (o Naomi). La Bibbia va letta tutta insieme, perché, come nella vita, il senso di una parola lo si trova anche in un’altra, anche lontana. Ci fu nel paese una carestia. Nella Bibbia le carestie non sono soltanto eventi climatici. Sono anche teofanie, parole di Dio. Una carestia condusse Abramo in Egitto, un’altra ci portò i figli di Giacobbe e lì avvenne la grande riconciliazione con il loro fratello Giuseppe. Spesso una carestia è dolore che prepara una resurrezione. È un dolore che ci costringe a uscire da una terra che senza quel dolore non avremmo mai lasciato. Nella Bibbia qualche volta le persone partono inseguendo una voce; altre volte partono inseguendo acqua a pane. Per poi scoprire, ma solo alla fine, che dentro quel dolore che li aveva fatti fuggire di casa c’era lo stesso amore. Ma per capirlo c’è voluto tutta la vita, a volte quella di molte generazioni.
«E un uomo con la moglie e i suoi due figli emigrò da Betlemme di Giuda». Una famiglia emigra. Ancora non sappiamo i loro nomi, ma subito sappiamo il nome della città colpita dalla carestia: Betlemme. Quel nome però non sta facilmente accanto alla parola carestia.
Betlemme, lo sappiamo, significa "casa del pane". Quella famiglia per una carestia lascia la casa del pane, va a cercare il pane lontano dalla sua casa. Eccoci dentro un primo paradosso. Erano già dentro la casa del pane e la lasciano per il pane. Ma quella famiglia, diversamente dalle altre grandi migrazioni bibliche, non va in Egitto, dove il ciclo delle acque del Nilo era più forte delle carestie.
Va in un luogo improbabile, un nome quasi impronunciabile per gli ebrei del tempo: «nei campi di Moab». Va dai moabiti, che insieme agli ammoniti erano tra gli storici nemici di Israele. Un popolo, poi, che portava iscritto nella sua storia proprio il segno del pane e dell’acqua: «L’Ammonita e il Moabita non entreranno nella comunità del Signore... Non vi entreranno mai, perché non vi vennero incontro con il pane e con l’acqua nel vostro cammino, quando uscivate dall’Egitto» (Dt 23,4-5). Non vi vennero incontro con il pane: perché allora andare a cercare pane là dove il pane era stato negato? La tensione cresce...
«Quest’uomo si chiamava Elimélec, sua moglie Noemi e i suoi due figli Maclon e Chilion; erano Efratei, di Betlemme di Giuda. Giunti nei campi di Moab, vi si stabilirono" (Rt 1,2). Elimélec, cioè il mio Dio (Eli) è re (mélec). Anche qui un nome che parla: quell’uomo migrante porta con sé il legame con quel suo Dio diverso. I nomi dei suoi due figli maschi sono invece nefasti e cupi, traducibili come "malattia" e "tubercolosi" (o "esaurimento").
Nella Bibbia il numero due per i figli in genere non porta bene, a partire da Caino e Abele, passando per Isacco e Ismaele, Esaù e Giacobbe, Rachele e Lia, fino al rapporto tra il figliol prodigo e suo fratello - tanto che André Gide ha voluto immaginare, nella parabola di Luca, un terzo figlio minore, e una madre ("Il ritorno del figliol prodigo"). Due è anche il numero dell’invidia, della rivalità, del conflitto per ottenere il riconoscimento, per l’eredità e la primogenitura. Nella Bibbia il due non è ancora il numero della buona fraternità - e nessun numero lo è se la fraternità non genera un legame più grande di quello del sangue.
E vi si stabilirono. Vissero a Moab da "migranti". Il verbo gûr (emigrare) e il sostantivo ger (migrante) sono parole di casa nella Bibbia o, meglio, "di tenda". Vivere in un paese straniero da ger è una buona condizione. In Israele, ad esempio, il ger osservava il Sabato e partecipava alle principali feste. Non sappiamo come fosse la condizione giuridica del ger presso i moabiti, ma non è da escludere una condizione analoga a quella in Israele ("Rut", Donatella Scaiola, Paoline). Una parola, ger, che al lettore biblico ricorda poi direttamente Abramo: «Io sono uno straniero (ger) residente ospite in mezzo a voi» (Gn 23,4). Abramo abitò la terra promessa da ger, a dirci che la condizione di migrante è la condizione umana, che nessuna terra promessa è per sempre.
Nella Bibbia ogni migrazione è continuazione di quella dell’arameo errante, che non ha mai smesso di errare, che ha sempre custodito una nostalgia spirituale profonda per quella casa nomade, libera e povera. Il libro di Rut è molte cose, ma è anche una grande riflessione sulla dimensione nomade della vita, che ci porta a cercar pane lontano dalla casa del pane, poi ci fa tornare, per ripartire ancora inseguendo, come la cerva, altre piste dell’unica vita, che è vera perché provvisoria.
«Poi Elimélec, marito di Noemi, morì ed essa rimase con i suoi due figli» (Rt 1,3). In quella nuova situazione di residenti-migranti a Moab accade un primo evento traumatico. Muore Elimélec. Nel morire viene definito "marito di Noemi". Prima era Noemi la "moglie di Elimélec", ora l’uomo è il marito di Noemi, un’espressione rarissima in quelle culture patriarcali, ma che sta bene in un libro al femminile. Il Midrash aggiunge una bella nota su questa definizione: «La morte di un uomo non è sentita da nessuno tranne che da sua moglie» (Midrash Rabbah del libro di Rut, Parashah Beth).
Non sappiamo come e perché morì il marito di Noemi. Ciò che è certo è che gli uomini iniziano, uno alla volta, a sparire. «I figli sposarono donne moabite: una si chiamava Orpa e l’altra Rut» (Rt 1,4). Sposare, per due ebrei, delle donne moabite non è un dettaglio secondario. La Legge di Mosè, lo abbiamo visto, non permetteva ai moabiti di diventare membri della comunità di Israele. Ancora il Midrash dà una sua lettura: «Moabita (maschile) ma non moabita (femminile)». Quel divieto allora non valeva per le donne?
Quel mondo patriarcale tutto incentrato sulla legge dei primogeniti maschi, aveva sviluppato delle norme che attenuavano e contrastavano questa legge ferrea. La storia della salvezza è infatti intersecata da primi figli non eletti (Caino, Esaù...) e da ultimi che vengono scelti (Giuseppe, Davide...). E ora vediamo donne che riescono a violare addirittura la Torah di Mosè.
C’è una tipica trasgressione femminile. Accanto alle trasgressioni di tutti, maschi e femmine, c’è quella che si insinua nelle intercapedini delle leggi scritte da maschi, nei pertugi di regolamenti pensati e voluti da e per un mondo maschile. Le donne, quasi sempre ospiti di comunità non disegnate da loro, hanno dovuto imparare a sopravvivere infilandosi, spesso di nascosto, in quelle zone grigie e ambivalenti delle leggi, approfittando del non-detto e del non-esplicitato. E qualche volta togliendo quel sassolino dal muro per vedere oltre attraverso un foro, o gettando un seme tra le pietre di un muro a secco. Quel muro qualche volta poi crolla, magari senza averlo voluto - volevano solo vedere un altrove, solo piantare un fiore. C’è una sovversione discreta della legge, un "rovesciare i potenti dai troni" diverso, dove i potenti cadono quasi senza accorgersene.
«Abitarono in quel luogo per dieci anni. Poi morirono anche Maclon e Chilion, e la donna rimase senza i suoi due figli e senza il marito» (Rt 1,4-5). Rimase «come il resto dei resti dell’offerta del pasto» (Parashah Beth). Passano dieci anni (di matrimonio? o di residenza a Moab?), e poi muoiono anche i due figli di Noemi, per di più senza lasciarle nipoti - il testo non lo dice ma il contesto lo suggerisce, come suggerisce una sterilità delle due nuore: dieci anni fu il termine che portò Sara a far unire Abramo con la sua schiava Agar. La vita le lascia solo due vedove: Noemi ha una compagnia tutta femminile. L’economia del racconto ha eliminato i tre uomini dalla scena, e in un libro fatto quasi solo di dialoghi, quegli uomini sono entrati e usciti senza dire neanche una parola. Un campo sgombrato per far risaltare tre donne, tre vedove.
A questo punto, in questa condizione simile a un Giobbe femminile - ma cui restano accanto due vedove - Noemi riparte: «Allora lei si alzò con le sue nuore e fece ritorno dai campi di Moab» (Rt 1,6).
Noemi ritorna a casa, alla "casa del pane". Torna da sconfitta dalla vita. E noi non possiamo non pensare ai tanti emigrati che ripercorrono lo stesso cammino di Noemi, partiti per vivere, e tornati sconfitti da quella vita che li aveva fatti partire. Per le donne questo cammino a ritroso è ancora più triste e duro, prima durante e dopo.
Lei si alzò. Come Anna, la madre di Samuele, che dopo le umiliazioni e i pianti per la sua sterilità, «si alzò» (1 Sam 1,9). Come il figliol prodigo, che, un giorno, «si alzò» dal suo porcile, e quell’alzarsi fu il primo passo del ritorno a casa. Il libro non ci dice cosa accadde nell’anima di Noemi tra la morte dei figli e il suo alzarsi. Ma deve essere accaduto qualcosa di simile a quello che continuiamo a vedere in tanti uomini, e ancora più spesso in donne. Chissà quante parole le avranno detto Rut e Orpa - le donne sanno consolarsi solo con le parole, come Sharazad nelle "Mille e una notte" sconfiggono la morte parlando - quel logos che vince thànatos è donna.
«Si alzò» è la fine del lutto. Noemi non restò bloccata nel passato, fu capace di non morire anch’essa insieme ai suoi morti - il lutto è forse solo questo, ma lo abbiamo dimenticato. Si alzò, scelse di continuare a vivere. È la resurrezione di Noemi, la resurrezione di tante donne e uomini, ieri e oggi. Se quelle donne e poi gli uomini dell’antica Palestina furono capaci di riconoscere quella resurrezione diversa, è perché conoscevano le resurrezioni di Agar, di Anna, di Sara, di Noemi. Erano tutte lì, insieme, nel primo giorno tutto il sabato, a far festa per il Crocifisso che si era "rialzato". Buona Pasqua.
STORIA, STORIOGRAFIA, E ANTROPOLOGIA: SAN GIUSEPPE, TERESA D’AVILA, E IL CARMELO TERESIANO... *
Giuseppe, il santo dei mistici, e cosi vicino al «Geppetto» di Biffi
L’esperto di letteratura religiosa Giacomo Jori ne rievoca alcuni aspetti: fondamentale la sua figura per capire la riforma del Carmelo
di Filippo Rizzi (Avvenire, venerdì 19 marzo 2021)
Patrono della Chiesa universale, padre putativo di Gesù, certo. Ma anche una figura chiave grazie al suo proverbiale silenzio e al fatto di «rimanere in secondo piano», defilato, per capire il linguaggio dei mistici e in particolare per comprendere il senso, quasi il dna più intimo degli Ordini contemplativi. San Giuseppe ha rappresentato, in un certo senso, quasi l’«emblema narrativo» del Carmelo riformato impresso da Teresa d’Avila (1515-1582). È la lettura che offre, nella sua riflessione, lo studioso ed esperto di letteratura religiosa Giacomo Jori per ripensare, in chiave attuale e per certi versi “controcorrente ”, la figura di san Giuseppe in questo Anno speciale dedicato a lui e nella solennità che si celebra oggi e rievoca, in tutti noi, la festa dei papà.
«Tra i dati più singolari c’è quello che rimane per tutta la vita un personaggio silente come ci testimoniano gli evangelisti Luca e Matteo - annota Jori, docente di letteratura italiana all’Università di Lugano -. Ma è un uomo che vive di sogni: tra questi quello premonitore della fuga in Egitto. Giuseppe è quasi in ombra, non parla nei Vangeli e non interloquisce con Gesù a differenza per esempio di uomini come Nicodemo e Pilato».
Non dimentica nel suo ragionamento lo studioso, allievo di Carlo Ossola e vicedirettore della Rivista di storia e letteratura religiosa («Uno dei prossimi numeri del nostro periodico in via di pubblicazione sarà proprio dedicato san Giuseppe») di fare emergere anche altri aspetti singolari a cui viene spesso accostata questa figura paterna, in molti quadri, nel solco del Concilio di Trento. «È stato un falegname rappresentato spesso con i ferri del mestiere o con quasi sempre in braccio Gesù bambino. Inoltre è stato raffigurato come marito ideale di Maria e padre vicario del Figlio di Dio».
Ma dietro al Giuseppe “quasi” assente dalle scene evangeliche si annida, per certi versi, molto di più. «Se si riprendono in mano le Avventure di Telemaco di Fénelon e la declinazione successiva che ne darà Collodi con il personaggio di Pinocchio - è il ragionamento - è facile avvicinare lo sposo di Maria alla figura di Geppetto, anche lui “padre putativo”, che guarda caso fa di mestiere il falegname. Anche Geppetto come Giuseppe non solo si sente il “padre” di quella creatura ma si avverte come il custode privilegiato della crescita di un bambino destinato a diventare grande (non più una marionetta) e a scegliere la libertà.
In questa prospettiva può essere ancora utile leggere l’interpretazione teologica che offre su questo tema il cardinale Giacomo Biffi nel suo famoso saggio degli anni Settanta «Contro Maestro Ciliegia. Commento teologico alle avventure di Pinocchio».
Una figura dunque «poco citata nei testi della Rivelazione» che affiora seppur sottotraccia nella stessa Divina Commedia. «Se rileggiamo oggi a 700 anni dalla morte di Dante - è l’osservazione - il canto XXXIII del Paradiso proprio dove si snoda l’inno alla Vergine di san Bernardo. Nei versi iniziali delle terzine dal 19 al 39 nascondono un acrostico: in esso sono racchiuse la parole “Joseph Av” cioè Ave Joseph (“Ave Giuseppe”). È suggestivo pensare che il Divin Poeta attraverso quest’acrostico renda omaggio al falegname di Nazareth, senza nominarlo esplicitamente ma tenendolo in silenzio».
Un santo che diventa uno dei pilastri «quasi interiori» su cui poggia la riforma spirituale dei carmelitani scalzi impressa da santa Teresa d’Avila. «Non è un caso che Teresa nei suoi Diari lo scelga come suo protettore - è l’argomentazione -. E studiando il carteggio inedito della carmelitana torinese la beata Maria degli Angeli, al secolo Marianna Fontanella vissuta tra il 1661 al 1717, ho scoperto di quanto la figura di Giuseppe fosse centrale, quasi “strategica”, nella vita di un Carmelo di fine Seicento. Se oggi san Giuseppe è il co-patrono di Torino lo dobbiamo proprio all’azione apostolica e “mediatrice” di questa religiosa. Fu lei a convincere i Savoia, a chiedere alla Sede Apostolica di accostare al patrono della città, san Giovanni Battista, il padre putativo di Gesù».
Un personaggio dunque che parla all’uomo di oggi. «Penso di sì perché si tratta di un uomo umile che si fa custode dell’infanzia di Gesù. Riguardando certe istantanee del film Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini ciò che più colpisce di Giuseppe è che parla più con gli sguardi che con le parole. Il segreto della sua grandezza e del suo carisma risiede credo proprio in questo».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PINOCCHIO E NOI, ITALIANI ED ITALIANE: IL CROCIFISSO E UN PEZZO DI LEGNO. INDIETRO NON SI TORNA. Una nota su una discussione già fatta (2003)
DON MARIANO ARCIERO, ILDEGARDA DI BINGEN, E UNA "CAPPELLA SISTINA" IN ROVINA. Al cardinale Angelo Amato, all’arcivescovo di Salerno Luigi Moretti, l’invito a un sollecito interessamento.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI". Con la morte di Giovanni Paolo II, il Libro è stato chiuso. Si ri-apre la DIVINA COMMEDIA, finalmente!!! DANTE "corre" fortissimo, supera i secoli, e oltrepassa HEGEL - Ratzinger e Habermas!!! MARX, come VIRGILIO, gli fa strada e lo segue. Contro il disfattismo, un’indicazione e un’ipotesi di ri-lettura. AUGURI ITALIA!!!
Federico La Sala
#FILOLOGIA e #ARCHEOLOGIA. L’Uomo-#Sapienza di #Ruysbroec ("nel cuore di ogni uomo un #Ecco, cioè #Vedi, guarda"), il corteo "andrologico" dei #Magi (https://it.wikipedia.org/wiki/Cappella_dei_Magi), e l’«uomo» di #PonzioPilato («#Eccehomo»: gr. «idou ho #anthropos»), oggi... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5195 ...
in dialogo con il testo di Giorgiomaria Cornelio, Verumtamen in imagine pertransit homo, "Nazione Indiana".
FLS
Donna Sapienza
fin dal principio
di Marinella Perroni
Biblista, Pontificio Ateneo S. Anselmo *
Salomone lo conoscono più o meno tutti. Se non altro per quello stratagemma di voler far tagliare in due un bambino conteso tra due madri: una storia raccontata nel primo libro dei Re (3, 16-28). Forse, alcuni sanno anche che la saggezza del figlio di Davide e di Betsabea, l’adultera, è divenuta proverbiale perché il regno di Salomone ha assicurato a Israele non soltanto pace e stabilità, ma anche il contatto con le altre grandi culture del Vicino Oriente e, quindi, un tempo di grande vivacità culturale e di progresso civile. Per questo Israele ha attribuito al re Salomone tutta la riflessione sapienziale che sta alla base di alcuni libri della Bibbia, scritti in realtà in epoche diverse (dal secolo V al II prima di Cristo), che contengono sentenze, orientamenti e norme che hanno di mira una vita proficua e felice. Quasi nessuno però sa che quella sapienza che ha reso famoso Salomone è una raffigurazione che, accanto ad altre due figure, la Legge e il Messia, consente di capire perché, ma soprattutto come, Dio si fa presente nella storia del suo popolo. Ed è figura femminile.
Donna-Sapienza
Tra le tante cose degne di stupore emerse grazie al restauro della Cappella Sistina (1980-1994) una è, a mio avviso, tutt’altro che marginale. Nell’affresco della creazione, che occupa la volta, l’attenzione viene catturata dal vigore dell’Adamo e dalla grandiosa potenza espressiva con cui Michelangelo ha saputo rendere conto del rapporto di vicinanza e al contempo di distanza tra il creatore e la creatura fatta a sua immagine e somiglianza.
Eppure, il restauro ha fatto riemergere un particolare per troppi secoli rimasto del tutto oscurato: tra i putti che circondano e sostengono Dio nel suo atto creativo domina una figura femminile che Dio vincola a sé in un abbraccio. Eva? Inevitabile che in molti lo sostengano, anche se, in realtà, alla creazione di Eva il pittore dedica un riquadro specifico nelle storie della Genesi che corredano la volta.
Se gli storici dell’arte propendono per l’identificazione con Eva, i biblisti azzardano invece un’altra ipotesi, tutt’altro che fantasiosa perché molto ben accreditata dagli scritti sapienziali della Bibbia. Leggiamo nel libro dei Proverbi: «Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine. Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della terra. [...] Quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull’abisso, [...] io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo» (Proverbi 8, 22-31).
È la Sapienza stessa che si presenta come colei che presiede alla creazione, come la forza creativa che fa della creazione un’opera che - ce lo dice il racconto che apre il libro della Genesi - Dio considera una «cosa molto buona» (Genesi 1, 31). La reciprocità che Dio stabilisce con l’opera delle sue mani riflette, insomma, il rapporto ludico che intercorre tra Dio e la Sapienza. Il discorso sarebbe lungo: basti solo dire che, nonostante la struttura sociale di Israele fosse fortemente caratterizzata in senso patriarcale e nonostante ciò abbia spesso imposto alle donne anche pesanti restrizioni, nella letteratura biblica emergono invece, sia pure in modo carsico, attestazioni del ruolo decisivo giocato dalle donne nello sviluppo della storia di Dio con il suo popolo nonché riflessioni, spunti, allusioni che rivelano un immaginario religioso in cui la presenza femminile gioca un ruolo di primo piano. Al riguardo, gli scritti sapienziali sono una vera e propria miniera.
Il termine italiano “sapienza”, come quello greco sofia, possono ingenerare un fraintendimento rispetto a quello ebraico hochmah, che ha una storia molto antica e rimanda a una qualità superiore che alcune persone hanno e altre no, l’aspirazione presente nelle radici più antiche della nostra cultura a saper orientare i nostri atteggiamenti di fondo nel mestiere di vivere. La sapienza non si insegna, ma questo non significa che la sapienza non si impari: il significato più arcaico di hakam è l’uomo abile, l’artigiano, in particolare, l’orefice, colui che conosce bene un mestiere.
La sapienza biblica tradizionale non ha quindi la pretesa di essere frutto di una rivelazione divina, per questo è stata definita una sapienza laica. E i libri sapienziali non contengono racconti mitici e nemmeno sono opere filosofiche o speculative, come quelle dei grandi pensatori greci. Sono un distillato di sapere pratico e di riflessioni sulla realtà vissuta, non vi si trovano discorsi edificanti e tanto meno devote esortazioni. La sapienza non trasmette neppure un facile moralismo religioso, ma piuttosto richiede, e in termini molto esigenti dal punto di vista umano, di saper riflettere e prendere posizione nei confronti di insegnamenti a volte perfino tra loro contraddittori. Per questo il valore della sapienza è inestimabile.
Un esempio eloquente
La divisione del libro dei Proverbi in sette sezioni potrebbe richiamare la dichiarazione che apre il c. 9 «La sapienza si è costruita la sua casa, ha intagliato le sue sette colonne» e alludere così al fatto che, chi legge i proverbi e i discorsi di ammonimento contenuti nel libro, accoglie l’invito della sapienza a farsi ospitare nella sua casa.
Molto ci sarebbe da dire su indubbi tratti di misoginia presenti nel testo, ma non bisogna neppure dimenticare che, più ancora che nel testo, l’androcentrismo è stata una delle dominanti della storia della sua interpretazione. Da qui la forte diffidenza nei confronti soprattutto di un brano come l’elogio della donna forte (31, 10-31) che appariva come una vera e propria esaltazione della moglie ideale che vive solo in funzione del suo uomo e dei suoi figli.
Il capitolo è intitolato Parole di Lemuèl, re di Massa, «che egli apprese da sua madre» e si deve quindi supporre che si tratti di insegnamenti che la madre di un re trasmette a suo figlio. Non stupisce che per lungo tempo anche il ritratto della donna forte che suggella il libro sia stato interpretato come una raccolta di suggerimenti della madre al futuro re perché scelga una sposa appropriata.
A ben guardare, però, il poemetto si chiude chiamando in causa direttamente una tra le “molte figlie” e questo lascia lecitamente supporre che, se la prima parte del discorso della madre è rivolta al futuro re, l’ultima parte è invece l’elogio di una figlia che «ha compiuto cose eccellenti», a cui bisogna essere «riconoscenti per il frutto delle sue mani» e di cui va tessuta lode pubblica «alle porte della città».
Ben lungi dall’essere l’elogio di una futura nuora da parte di una suocera illustre, dunque, il brano contiene gli insegnamenti funzionali all’ideale di educazione del principe Lemuèl e di una principessa, di cui non si dice il nome, ma che viene interpellata direttamente.
Studi archeologici e storico-sociali hanno poi messo in luce che, all’epoca, le donne erano proprietarie terriere ed erano attive in tutti gli ambiti menzionati nel nostro testo, dal commercio alla produzione e alla vendita dei tessuti di lusso, ben lontane cioè dall’ideale casalingo che ne faceva le regine del focolare. Per non dire, infine, che i tessuti preziosi delle sue vesti (v. 22), il lino e la porpora, sono gli stessi che arredano l’arca che guida il popolo nel deserto o che vestono i sacerdoti del Tempio e che oltre a lei (v. 25), in tutta la Bibbia solo Yahweh veste di forza (Salmo 93, 1).
Descritta dunque con tratti caratteristici dell’epoca, la donna forte con cui l’autore del libro dei Proverbi suggella il suo scritto, è Donna-Sapienza, la personificazione della Sapienza di Dio. A lei deve legarsi il re, come mostra la straordinaria preghiera per ottenere la sapienza che, non a caso, viene attribuita a Salomone (Sapienza 9, 1-18). Non è la casalinga, ma colei che, costruita la sua casa, «ha imbandito la sua tavola. Ha mandato le sue ancelle a proclamare sui punti più alti della città: “Chi è inesperto venga qui!”. A chi è privo di senno ella dice: “Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato. Abbandonate l’inesperienza e vivrete, andate diritti per la via dell’intelligenza” (Proverbi 9, 3-6).
I proverbi
Proverbi 31, 10-31
* Fonte: L’Osservatore Romano - 6 febbraio 2021 (ripresa parziale, senza immagini).
LO SPIRITO DI ASSISI. LA LEZIONE DI GIOVANNI PAOLO II SULLA DONNA E SULL’UOMO E SU DIO... *
Papa: nuovi ruoli alle donne, apre a Lettorato e Accolitato
’Ma la Chiesa non può conferire loro l’ordinazione sacerdotale’
di Redazione ANSA *
CITTA DEL VATICANO. Papa Francesco ha stabilito con un Motu proprio che i ministeri del Lettorato e dell’Accolitato siano d’ora in poi aperti anche alle donne, in forma stabile e istituzionalizzata con un apposito mandato. Le donne che leggono la Parola di Dio durante le celebrazioni liturgiche o che svolgono un servizio all’altare in realtà già ci sono con una prassi autorizzata dai vescovi.
Fino ad oggi però tutto ciò avveniva senza un mandato istituzionale vero e proprio.
Aprire ufficialmente le porte alle donne nel Lettorato e nell’Accolitato non significa che potranno diventare sacerdoti. E’ quanto precisa lo stesso Papa facendo proprie le parole di Giovanni Paolo II: "Rispetto ai ministeri ordinati la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale".
* ANSA 11 gennaio 2021 - 19:06 (ripresa parziale).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FLS
IL TERREMOTO DELL’AQUILA (2009) E “LA QUIETE DI APOLLONIA”. Una sollecitazione a svegliarsi dal “sonno dogmatico” storiografico.... *
A MIO PARERE, questo lavoro di Silvia Mantini (“La quiete di Apollonia. Religiosità femminile e spazi di devozione nell’Italia del Seicento”, Milano, Educatt, 2020), su «quel documento inventariato come “S. Maddalena Ventiquattro terziaria filippina di Aquila”», già solo dalle indicazioni del “SOMMARIO”
SOLLECITA AD ALLARGARE LA COSCIENZA storiografica e ad allertare l’attenzione - come invita a fare Aurelio Musi nella sua nota («non è facile in questa “autobiografia estorta” riconoscere, come pure pensa la Mantini, “l’immagine di una donna fedele ai suoi sentimenti e alle sue intenzioni”») - E, AL CONTEMPO, AD ACCOGLIERE LA PRECISAZIONE della stessa Autrice che proprio «il manoscritto, invece, è molto di più del racconto della vita di una nobile aquilana del XVII secolo. È una storia che, a partire dalla biografia di una donna del Seicento, permette di portare alla luce figure del “movimento quietista” e reti della cultura religiosa di quegli anni, in cui emergono tensioni tra “nuovi mistici” e Inquisizione». E non solo!
SE NON SI TIENE PRESENTE che Teresa d’Avila (Avila, 28 marzo 1515 - Alba de Tormes, 15 ottobre 1582) è “beatificata il 24 aprile 1614 da Papa Paolo V, fu canonizzata quarant’anni dopo la morte, il 12 marzo 1622, da papa Gregorio XV, insieme ad altre grandi figure del periodo della Controriforma quali Ignazio di Loyola, Francesco Saverio e Filippo Neri” e che “Maria Maddalena de’ Pazzi, al secolo Caterina (Firenze, 2 aprile 1566 - Firenze, 25 maggio 1607), è stata una religiosa carmelitana, proclamata santa da papa Clemente IX il 22 aprile 1669”, E, ANCORA, CHE SU QUESTE FIGURE, e sulla figura di APOLLONIA-MADDALENA, lavorano a “definirle” attentissimi poteri politici e religiosi, come la Inquisizione spagnola da una parte e l’Inquisizione romana dall’altra, come è possibile arrivare a comprendere al meglio la dinamica del “sistema imperiale spagnolo”, e della stessa storia dell’ Europa moderna e contemporanea?!
NOTE:
B) STORIA DELL’ARTE: Benedetto Gennari (Cento, 1633 - Bologna, 1715), “Le Sante Teresa d’Avila e Apollonia”, 1662 ca., Olio su tela, cm 190×280.
C) PRINCIPE DI EBOLI, TERESA D’AVILA, E CARMELITANI SCALZI. Dopo il terremoto del 1980 in Campania e dopo un lavoro di restauro completato nel 1989, «ritrovato nel salernitano “file” perduto del tardo Rinascimento».
CARMELITANI SCALZI IN VISITA PRIVATA A CONTURSI TERME (SALERNO), PRIMA DEL TERREMOTO DEL 1980: IL CARDINALE BALLESTRERO (ARCIVESCOVO DI BARI) E IL SUO SEGRETARIO, PADRE GIUSEPPE CAVIGLIA:
Anniversario.
La « lezione » del cardinale Ballestrero a 20 anni dalla morte [1998]
Guidò le Chiese di Bari e Torino. Presidente della Cei nei primi anni Ottanta, è stato un fine tessitore di riconciliazione. Padre conciliare, a lui si deve il titolo della Gaudium et Spes.
di Marco Bonatti (Avvenire, venerdì 22 giugno 2018)
Padre Giuseppe Caviglia, suo segretario per 25 anni, se n’è andato a gennaio dello scorso anno, ma con la certezza di aver compiuto anche l’ultimo lavoro: infatti la causa di beatificazione del suo confratello il carmelitano Anastasio Alberto Ballestrero era stata avviata solennemente il 2 ottobre 2014.
A vent’anni dalla morte la figura del cardinale che fu arcivescovo di Bari (1973-1977) e di Torino (1977-1989) emerge con forza ed è sempre ricordata con grande stima e affetto. Fu lui a volere la grande ostensione della Sindone nel 1978: tre milioni di persone coinvolte in un pellegrinaggio popolare di preghiera, di penitenza e di contemplazione verso quel “Volto” che richiama la Passione del Cristo ma anche rilancia la domanda sulla sofferenza degli uomini di ogni tempo. E Ballestrero con la Sindone prese intera la sua “croce” quando si trattò di gestire le ricerche sulla datazione col Carbonio 14.
Ancora oggi i risultati di quelle ricerche, e il metodo con cui furono condotte, sono molto discussi e tutt’altro che acquisiti. Di Ballestrero rimane attuale l’ispirazione che egli seppe dare non solo al suo episcopato ma all’intera vita sacerdotale e religiosa : quella di un primato di Dio che significava, molto concretamente, non fondare su forze e circostanze umane il cammino della Chiesa, ma andare in cerca ogni volta del «coraggio della fede», anche a costo di trovarsi soli, controcorrente, criticati. Al primato di Dio il cardinale seppe unire sempre una conoscenza profonda, disincantata e però rispettosa del mondo.
A oltre 35 anni di distanza stupisce ancora l’attualità di un documento come La Chiesa italiana e le prospettive del Paese, firmato dal Consiglio permanente della Cei nel pieno della presidenza Ballestrero (ottobre 1981). Vi si legge: «La crisi in corso non si risolverà a brevi scadenze né possiamo attendere soluzioni miracolistiche. Conosceremo ancora per molto tempo le contraddizioni di carattere socio-economico, le minacce della violenza e del terrorismo, la precarietà delle strutture pubbliche, la fatica di costruire l’Europa, i rischi per la pace internazionale, il dramma della fame nel mondo».
Nato a Genova il 3 ottobre 1913, entrò nell’Ordine dei Carmelitani Scalzi e nel 1936 venne ordinato sacerdote. Dal 1955 al 1967 è stato alla guida dei carmelitani scalzi di tutto il mondo come preposito generale. Nominato arcivescovo di Bari, ricevette la consacrazione episcopale il 2 febbraio 1974 e l’anno successivo predicò gli Esercizi spirituali a Paolo VI e alla Curia Romana. Il 1º agosto 1977 fu chiamato a succedere al cardinale Michele Pellegrino e divenne arcivescovo di Torino. Giovanni Paolo II lo creò cardinale nel 1979. E dallo stesso anno al 1985 è stato presidente della Cei.
Morì il 21 giugno 1998 a Bocca di Magra, in Liguria, nella casa di spiritualità carmelitana dove si era ritirato. Aveva 84 anni. È sepolto nell’eremo carmelitano del Deserto di Varazze. Il ricordo di molti è legato al Convegno ecclesiale nazionale di Loreto nel 1985 (il secondo promosso dalla Cei), quando Ballestrero, insieme con il cardinale Carlo Maria Martini, seppe ribaltare il clima di confronto aspro tra le varie anime della Chiesa italiana rilanciando con forza il valore della riconciliazione. Come presidente della Cei il porporato si trovò anche a gestire una situazione completamente nuova: quella di un vescovo di Roma e primate d’Italia che, per la prima volta da 450 anni, non era italiano, il Papa polacco Karol Wojtyla. Ma la figura del cardinale va anche oltre: è l’uomo che partecipò a tutti i lavori - nella veste di superiore generale dei carmelitani - del Concilio Vaticano II, dalla sessione antepreparatoria alla conclusione dell’8 dicembre 1965.
Lui stesso ricordava come intervenne, all’ultimo minuto, sulla Costituzione pastorale dedicata al mondo contemporaneo, che il 7 dicembre doveva ancora essere approvata. Ballestrero fece invertire le prime parole, che danno il titolo al documento : non Angor et luctus, come risultava fino ad allora nella bozza, ma appunto Gaudium et spes.
IL MONTE CARMELO, IL MONASTERO "STELLA MARIS", E L’ARCANGELO MICHELE ...
Monastero di Stella Maris *
Il monastero carmelitano di Stella Maris è un convento cattolico situato sul Monte Carmelo ad Haifa, in Israele. Secondo la tradizione sarebbe fondato su una grotta che fu dimora del profeta Elia.
Cenni storici
Il monastero sorge sul monte Carmelo, sulle alture della città di Haifa, nell’alta Galilea. Venerato sin dall’antichità e già citato in documenti egizi del XIV secolo a.C. come una delle conquiste del faraone Thutmose III, è nominato anche nella Bibbia come cima da cui il profeta Elia sfidò i profeti di Baal.
La prima fondazione del monastero omonimo risale all’epoca bizantina, quando esso divenne luogo di culto dell’Arcangelo Michele, già incluso nella liturgia Cristiano Ortodossa e venerato dai Longobardi in seguito alla loro conversione al Cattolicesimo avvenuta intorno al VII secolo.
Nel XII secolo la struttura venne fortificata dai crociati per ospitare l’Ordine Carmelitano, qui fondato da un gruppo di eremiti guidati da San Broccardo e la cui regola fu approvata agli inizi del XIII secolo. Nel 1230 il superiore dei carmelitani, san Simone Stock, testimoniò di aver avuto una visione della Madonna che dette origine alla devozione dello Scapolare del Carmelo.
Nel 1631, secoli dopo la sconfitta crociata del 1291, i Carmelitani fecero ritorno nel luogo in cui era nato l’ordine e costruirono un nuovo monastero nelle vicinanze ma nel 1768 si trasferirono nell’attuale collocazione. Tuttavia, a seguito della fallita campagna napoleonica del 1799 il monastero, che ospitava anche alcuni soldati francesi rifugiati, fu teatro di violenti scontri in cui venne distrutto e i suoi occupanti uccisi.
L’edificio dell’attuale monastero fu ricostruito fra il 1823 e il 1828 da monaci italiani ed è caratterizzato da una vistosa cupola.
* Da Wikipedia, l’enciclopedia libera (ripresa parziale).
La linea micaelica...
DALL’IRLANDA A ISRAELE, 7 SANTUARI UNITI DA UNA LINEA RETTA
Sette santuari allineati dedicati a San Michele Arcangelo. Con al centro la Sacra di San Michele
Un po’ di Storia | 21 Oct | .
di Norma Raimondo *
La definizione di retta, in geometria, è "un insieme di punti allineati, che non ha un inizio e nemmeno una fine". Nel caso del culto di San Michele Arcangelo, invece, il tracciato rettilineo in questione ha un inizio ben preciso, in Irlanda, e va a concludersi in Israele, coprendo una distanza di oltre 4 mila chilometri. E su questa linea sono disposti ben 7 santuari a lui dedicati, di cui la “nostra” Sacra di San Michele, sulla cima del Pirchiriano, rappresenta il centro.
Meta ogni anno di migliaia di visitatori, affascinati dalla sua maestosità, dalla sacralità del luogo, dalla splendida vista su Torino e sul fondovalle, la Sacra è un luogo di pace e meditazione, che si trova a 1000 km dall’abbazia normanna di Mont Saint-Michel e ad altrettanti dalla chiesa pugliese di Monte Sant’Angelo. Insomma, a metà strada tra le due abbazie che con lei rappresentano i pilastri del culto micaelico. Ma la linea parte da ben prima, dalle selvagge scogliere irlandesi, e termina ben oltre, in terra di Israele, non lontano da Gerusalemme. Proviamo a ripercorrerla ed a scoprire i santuari dedicati all’arcangelo.
Skellig Island (Irlanda)
Il monastero di Skellig, una delle prime testimonianze cristiane in Irlanda, è probabilmente il meno accessibile dei sette. Molto spartano e di non agevole accesso, posto sull’omonimo isolotto, è stato realizzato verso il 588. Si narra che lì San Michele apparve a San Patrizio per aiutarlo a sconfiggere il demonio. Dal 1996 è divenuto patrimonio Unesco (anche la Sacra di San Michele è candidata per entrarne a far parte).
Nel 2014 l’isola di Skellig Michael, l’isolotto più grande delle due isole Skellig, quello su cui sorge il monastero, venne usata come set cinematografico per le scene finali di Star Wars: Il risveglio della Forza. L’isola appare anche nel sequel del film, Star Wars: Gli ultimi Jedi, uscito nel 2017.
St Michael’s Mount (Inghilterra)
Sempre su un’isola sorge il monastero di St. Michael’s Mount, di fronte alla cittadina di Marazion, cui è collegato con un servizio di traghetti e, durante la bassa marea, tramite una strada (così come avviene al santuario di Mont Saint-Michel in Normandia).
Qui il Santo apparve nel 495 ad un gruppo di pescatori, e i benedettini provenienti dall’abbazia normanna decisero di erigere un altro santuario in suo onore. Dell’originale edificio resta ben poco: nel XVI secolo, su suoi resti venne eretta una fortezza.
Mont Saint-Michel (Francia)
Decisamente più conosciuto il santuario di Mont Saint-Michel, patrimonio dell’Unesco fin dal 1979 e principale sito turistico della Normandia. Qui San Michele apparve al vescovo nel 709, intimandogli di costruire una chiesa nella roccia. I lavori furono avviati, ma vennero completati solo dopo il ‘900, con l’avvento dei monaci benedettini. La roccia, un isolotto di circa 960 m di circonferenza e con una superficie di circa 7 ettari, si eleva ad un’altezza di 92 m sul livello del mare, ma con la statua di San Michele collocata in cima alla guglia della chiesa abbaziale, raggiunge l’altitudine di 170 metri.
Un tempo raggiungibile tramite una diga di accesso costruita nel 1880, poi smantellata per evitare l’insabbiamento della baia, dal 2015 Mont Saint-Michel è collegato alla terraferma con passerelle sospese, ed in occasione di maree particolari si trasforma nuovamente in un’isola.
Sacra di San Michele (Valle di Susa)
Pochi metri dopo aver varcato l’ingresso dell’abbazia è impossibile non notare, alzando gli occhi, la statua dedicata all’Arcangelo San Michele, realizzata dallo scultore altoatesino Paul dë Doss-Moroder. Ma l’opera ha una datazione recente, mentre ben più antica è la devozione all’arcangelo: nel 313 d.C. l’imperatore Costantino gli conferì grande rilevanza, ulteriormente arricchita dalle numerose apparizioni agli occhi dei vescovi governanti.
Monumento simbolo del Piemonte, l’abbazia di San Michele della Chiusa venne fondata tra il 983 e il 987 attorno ad una chiesetta preesistente dal conte Ugo (Ugone) di Montboissier, ricco e nobile signore dell’Alvernia, recatosi a Roma per chiedere indulgenza al Papa. Questi, a titolo di penitenza, gli concesse di scegliere fra un esilio di 7 anni e l’impresa di costruire un’abbazia.
Essa è stata una delle più celebri abbazie benedettine dell’Italia settentrionale, ed è tra i più grandi complessi architettonici di epoca romanica in Europa. La sua attuale imponente costruzione, edificata tra l’XI e il XIV secolo, presenta elementi artistici ed architettonici unici, quali il portale dello zodiaco e lo scalone dei morti (XII sec.), mentre l’interno della chiesa abbaziale è impreziosito dalle sculture romaniche nell’area absidale e da numerosi affreschi del XV-XVI secolo.
Monte Sant’Angelo (Foggia)
Il santuario pugliese di San Michele Arcangelo, nel foggiano, prese avvio nel 490, quando il Santo si manifestò a San Lorenzo Maiorano, e divenne ben presto il principale centro di culto dell’arcangelo dell’intero Occidente. Fu ampliato ed arricchito sia dai duchi di Benevento, sia dai re Longobardi installati a Pavia, che promossero numerosi interventi di ristrutturazione per facilitare l’accesso alla grotta della prima apparizione e per alloggiare i pellegrini. Anch’esso è patrimonio Unesco.
Monastero di San Michele Arcangelo (Grecia)
Il monastero greco di Panormitis sorge nuovamente su un’isola (Simi, nell’arcipelago greco del Dodecanneso), e custodisce una delle maggiori effigi dell’Arcangelo, alta tre metri. Costituisce il più importante luogo di culto della Grecia dedicato all’Arcangelo Michele, e fu costruito nel 1783 sui resti di un preesistente monastero del XV secolo.
Nell’isola, già ricca di svariati luoghi di culto, ci sono ben nove monasteri dedicati all’Arcangelo Michele, uno per ogni Ordine Angelico.
Monastero Stella Maris (Israele)
Pressapoco della stessa epoca è il Monastero Stella Maris. Anch’esso testimonianza di grande venerazione, è edificato sul Monte Carmelo, ad Haifa, in terra d’Israele, che rappresenta l’ultima tappa della linea Sacra. Convento cattolico, secondo la tradizione sarebbe fondato su una grotta che fu dimora del profeta Elia. La prima fondazione del monastero risale all’epoca bizantina, quando divenne luogo di culto dell’Arcangelo Michele, venerato dai Longobardi in seguito alla loro conversione al Cattolicesimo avvenuta intorno al VII secolo.
Secondo la leggenda, a definire questa linea fu un colpo di spada di San Michele Arcangelo, durante la battaglia tra angeli del bene, a lui legati, e angeli del male, guidati da Lucifero, che aveva assunto le sembianze di un dragone e che, dopo il fendente, precipitò sulla terra insieme ai suoi seguaci.
La retta in realtà è piuttosto approssimativa: quello che abbiamo riportato, riprendendolo da una vasta letteratura fatta di leggende e di suggestioni esoteriche, evidentemente è solo un gioco.
Ci piace pensare però che possa essere utile per invogliare alla visita di questi sette magnifici monumenti, a partire dalla nostra meravigliosa Sacra di San Michele, candidata ad entrare a far parte del patrimonio Unesco assieme ad altri 7 insediamenti benedettini dell’Italia medievale.
*Fonte: Laboratorio Val Susa (ripresa parziale - senza immagini).
Linea di San Michele: Haifa, il Monastero ’Stella maris’ del Monte Carmelo
di Antonio Tarallo *
Siamo in direzione di Haifa, nell’alta Galilea. Quella stessa città, Haifa, che viene citata nel Talmud, come una piccola città contadina. Stiamo continuando il viaggio tra le località della “Linea di San Michele”. Dopo l’Irlanda, la prima tappa, e quella successiva dei due siti italiani in Val di Susa e sul Gargano, ci richiama l’attenzione - in quest’ultima puntata - il famoso Monte Carmelo. Chi di noi non conosce, almeno per “sentito dire”, questo sacro monte? Possiamo ben affermare, in fondo, che proprio in merito a questo luogo, sono tanti i riferimenti che si rifanno a quella che potremmo quasi definire “memoria religiosa collettiva”.
Il Carmelo - che significa “giardino di Dio” - s’innalza in Samaria, a trenta chilometri da Nazareth ed è uno dei luoghi più affascinanti della Palestina. Ad esempio, quando lo sposo del Cantico dei Cantici vuole esprimere la bellezza della sua sposa, le parla in questo modo: “Caput tuum ut Carmelus”, “la tua testa è bella come il Carmelo”. E per approfondire questo sito, prendiamo spunto dalla Parola. Già nel libro dei Re, nel Vecchio Testamento, capiamo subito che ci troviamo di fronte a un luogo sicuramente assai “particolare”. E’ proprio qui, assieme ad altri importanti nomi di siti religiosi, che la storia dell’Uomo si è da sempre intrecciata con quella di Dio, in maniera tangibile.
Ma non possiamo citare solo questo episodio. Sempre al profeta Elia, è legato questo monte. Primo profeta d’Israele, proprio dimorando qui, e più precisamente in una grotta, ebbe la visione della venuta della Vergine, che si alzava come una piccola nube dalla terra verso il monte, portando la pioggia e salvando Israele dalla siccità. Tutti i mistici cristiani e gli esegeti, hanno visto in questa “poetica” immagine, la Vergine Maria, recante in sé il Verbo divino. Su questa montagna, ci “parla” Maria. E ci “parla” anche quel segno legato a lei, “metafora” di fiorente fecondità per il mondo. Ed è sulla grotta del profeta Elia che si erge il “Monastero carmelitano della Stella Maris”.
La prima fondazione del monastero risale all’epoca bizantina, quando divenne luogo di culto per l’Arcangelo Michele da parte di alcuni eremiti che avevano trovato dimora su questa imponente altura. Col trascorrere del tempo, quegli, assunsero il nome di “Frati della Beata Vergine del Monte Carmelo”. Da questo momento in poi, la storia di questo luogo, s’intreccerà con la storia di quello che diverrà ufficialmente l’“Ordine carmelitano”. Infatti, tra il 1206 e il 1214, il priore, di cui si conosce solo l’iniziale del nome, chiede ad Alberto, il patriarca latino di Gerusalemme, di approvare per gli eremiti, una regola di vita. Sarà proprio grazie a lui, che otterranno di essere accolti ufficialmente come comunità nell’ambito della chiesa locale.
Sarà il preludio al riconoscimento come ordine religioso, che avverrà solo nel XIII secolo. Un libro di pellegrini, scritto verso sempre il 1220, testimonia così la loro presenza: “Sul monte Carmelo vi è un luogo delizioso, in cui vivono eremiti latini, che si chiamano frati del Carmelo. Vi è una piccola chiesa dedicata alla Beata Vergine”. Era il 1220 circa. Dieci anni dopo, nel 1230, il superiore dei carmelitani, San Simone Stock, testimoniò di aver avuto una visione della Madonna con il famoso Scapolare del Carmelo.
Un posto che, certamente, abbiamo compreso, non passa - certo - inosservato. Ed è davvero significativo che questo luogo così “mariano”, per i diversi motivi che abbiamo sopracitato, sia lo stesso che chiude la sequela di luoghi legati alla figura dell’Arcangelo Michele. Quasi come fosse a conferma dello stretto legame fra le due “importanti figure”. Unite, loro, da sempre - a partire da quella stessa immagine dell’Apocalisse da cui questo “immaginario viaggio” ha preso vita - per la lotta contro il male.
* Fonte: "San Francesco" (https://www.sanfrancescopatronoditalia.it/notizie/fede/Haifa-il-Monastero-Stella-maris-del-Monte-Carmelo-44281).
LA SPAGNA DI CARLO V, FILIPPO II E TERESA ’AVILA, E LA "STORIA" DI CONTURSI - IERI E OGGI...
A.
UNA "TESTIMONIANZA" DELLA "CRONISTA CONZANA" [1691] SULL’AMICIZIA DELLA CITTA’ DI CONTURSI CON L’IMPERATORE CARLO V:
"Fù onorata questa Terra dall’imperatore Carlo V, il quale passò per Contursi e l’Auletta, ed in Contursi nobilitò quei cittadini dicendo “nobilitamus omnes cives contursinos” e perciò li cittadini di detta Terra sin’al presente giorno si vanno vantando essere nobili e tengono un certo libro de’ loro privilegi e capitolazioni, volgarmente detto il livro rosso, ove sono tutte le raggioni e decreti fatti nel S. C. [Sacro Consiglio] e R. C. [Regia Camera] à pro dell’Università e vi è in detto libro una cosa curiosa ed è che L’arciprete di Contursi antichissimo haveva non so che teneva col padrone di detta Terra ed il detto se n’andò à ritrovare Carlo V sino à Spagna e detto Imperatore ordinò al padrone di detta Terra, sotto rigorose pene, che non molestasse il detto Arciprete, mà perché detto padrone di Contursi prese à malo tal fatto, perciò ritornò un’altra volta il detto Arciprete à Spagna ed otten’ordine dal detto Imperatore diretto al detto padrone di Conturso che in ogni mese mandasse fede di quale verità della salute che godeva detto Arciprete e ciò à proprie spese dal detto Barone e sin’hora in detto libro se ne conservano le lettere originali" (Cfr. “La Cronista Conzana del Castellani", a cura di don Franco Celetta, Circolo Culturale Cristiano “Santa croce”, Montella [...]: cfr. il Libro rosso dell’Università della Terra di Conturso, A cura di Salvatore Bini, Arci Postiglione 2018, vol. I, pp. 21-22).
B.
CARMELITANI SCALZI ED ECUMENISMO: STORIA E MEMORIA. Ritrovato nel salernitano "file" perduto del tardo Rinascimento
C.
DON MARIANO ARCIERO, ILDEGARDA DI BINGEN, E UNA "CAPPELLA SISTINA" IN ROVINA. Al cardinale Angelo Amato, all’arcivescovo di Salerno Luigi Moretti, l’invito a un sollecito interessamento (24 GIUGNO 2012).
Federico La Sala
Un messaggio dell’imperatore [1917]
di Franz Kafka *
L’imperatore - così si racconta - ha inviato a te, a un singolo, a un misero suddito, minima ombra sperduta nella più lontana delle lontananze dal sole imperiale, proprio a te l’imperatore ha inviato un messaggio dal suo letto di morte. Ha fatto inginocchiare il messaggero al letto, sussurrandogli il messaggio all’orecchio; e gli premeva tanto che se l’è fatto ripetere all’orecchio. Con un cenno del capo ha confermato l’esattezza di quel che gli veniva detto. E dinanzi a tutti coloro che assistevano alla sua morte (tutte le pareti che lo impediscono vengono abbattute e sugli scaloni che si levano alti ed ampi son disposti in cerchio i grandi del regno) dinanzi a tutti loro ha congedato il messaggero.
Questi s’è messo subito in moto; è un uomo robusto, instancabile; manovrando or con l’uno or con l’altro braccio si fa strada nella folla; se lo si ostacola, accenna al petto su cui è segnato il sole, e procede così più facilmente di chiunque altro. Ma la folla è così enorme; e le sue dimore non hanno fine. Se avesse via libera, all’aperto, come volerebbe! e presto ascolteresti i magnifici colpi della sua mano alla tua porta. Ma invece come si stanca inutilmente! ancora cerca di farsi strada nelle stanze del palazzo più interno; non riuscirà mai a superarle; e anche se gli riuscisse non si sarebbe a nulla; dovrebbe aprirsi un varco scendendo tutte le scale; e anche se gli riuscisse, non si sarebbe a nulla: c’è ancora da attraversare tutti i cortili; e dietro a loro il secondo palazzo e così via per millenni; e anche se riuscisse a precipitarsi fuori dell’ultima porta - ma questo mai e poi mai potrà avvenire - c’è tutta la città imperiale davanti a lui, il centro del mondo, ripieno di tutti i suoi rifiuti. Nessuno riesce a passare di lì e tanto meno col messaggio di un morto.
Ma tu stai alla finestra e ne sogni, quando giunge la sera
* Cfr. Franz Kafka, Tutti i racconti, trad. di E. Pocar, Mondadori, Milano, 1990, pp. 235-236.
La bustina di minerva
Il Cavaliere, il mugnaio, l’Italia
"C’è un giudice a Berlino" è un vecchio modo di dire nato dalla vicenda di un poveraccio, in Germania, rimasto senza mulino ma che alla fine ebbe giustizia. Ora possiamo dire, con orgoglio, che c’è un giudice anche a Roma di Umberto Eco * ’Ci deve pur essere un giudice a Berlino’ è espressione che, anche quando se ne ignora l’origine, molti usano per dire che ci deve essere una giustizia da qualche parte. Il detto è così diffuso che l’aveva citato anche Berlusconi (noto estimatore delle magistrature), quando nel gennaio 2011 aveva visitato la signora Merkel con la curiosa idea di interessarla ai suoi guai giudiziari. La signora Merkel (con un tratto di humour che una volta avremmo definito all’inglese - ma anche i popoli si evolvono) gli aveva fatto osservare che i giudici ai quali lui pensava non erano a Berlino ma a Karlsruhe, nella Corte Costituzionale, e a Lipsia nella Corte di Giustizia. Non potendo girare per tutte le città tedesche a cercare soddisfazione, Berlusconi se n’era tornato a casa coi pifferi di Hamelin nel sacco, ma aveva continuato a ignorare che, senza fare dispendiosi viaggi all’estero, si sarebbero potuti trovare giudici corretti (e non corruttibili) anche a Roma.
Come nasca e come si diffonda la storia del giudice a Berlino è faccenda complessa. Se andate su Internet vedrete che tutti i siti attribuiscono la frase a Brecht, ma nessuno dice da quale opera. Comunque la cosa è irrilevante perché in tal caso Brecht avrebbe semplicemente citato una vecchia vicenda. I bambini tedeschi hanno sempre trovato l’aneddoto nei loro libri di lettura, della faccenda si erano occupati vari scrittori sin dal Settecento e nel 1958 Peter Hacks aveva scritto un dramma ("Der Müller von Sanssouci"), di ispirazione marxista, dicendo che era stato ispirato da Brecht, ma senza precisare in qual modo.
Se proprio volete avere un resoconto di quel celebre processo, che non è per nulla leggenda, come molti siti di Internet, mendaci per natura, dicono, dovreste ricuperare un vetusto libro di Emilio Broglio, "Il Regno di Federico di Prussia, detto il Grande", Roma, 1880, con tutti i gradi di giudizio seguiti per filo e per segno. Riassumendo, non lontano dal celebre castello di Sanssouci a Potsdam, il mugnaio Arnold non può più pagare le tasse al conte di Schmettau perché il barone von Gersdof aveva deviato certe acque per interessi suoi e il mulino di Arnold non poteva più funzionare. Schmettau trascina Arnold davanti a un giudice locale, che condanna il mugnaio a perdere il mulino.
Ma Arnold non si rassegna e riesce a portare la sua questione sino al tribunale di Berlino. Qui all’inizio alcuni giudici si pronunciano ancora contro di lui ma alla fine Federico il Grande, esaminando gli atti e vedendo che il poveretto era vittima di una palese ingiustizia, non solo lo reintegra nei suoi diritti ma manda in fortezza per un anno i giudici felloni. Non è proprio un apologo sulla separazione dei poteri, diventa una leggenda sul senso di equità di un despota illuminato, ma il "ci sarà pure un giudice a Berlino" è rimasto da allora come espressione di speranza nell’imparzialità della giustizia.
Che cosa è successo in Italia? Dei giudici di Cassazione, che nessuno riusciva ad ascrivere a un gruppo politico e di cui si diceva che molti fossero addirittura simpatizzanti per un’area Pdl, sapevano che qualsiasi cosa avessero deciso sarebbero stati crocifissi o come incalliti comunisti o come berlusconiani corrotti, in un momento in cui (si badi) persino la metà del Pd auspicava una soluzione assolutoria per non mettere in crisi il governo. Ma, lavorando solo su elementi di diritto e giurisprudenza, indipendentemente dai loro desideri o passioni, e ignorando ogni pressione politica, i giudici hanno scelto di attenersi alla legge, riconoscendo che la sentenza della corte d’appello di Milano non poteva essere annullata (e i particolari sulla durata dell’interdizione erano solo un contentino). Il mugnaio avrebbe detto "Ci sono dunque ancora dei giudici a Berlino". E che ci siano anche a Roma dovrebbe accenderci d’orgoglio. Eppure la cosa ci sconvolge a tal punto che parliamo di tutto meno che di questo. Tra i tanti sciacallaggi politici non riusciamo ad accettare l’idea che al mondo ci siano ancora delle persone per bene.
* Fonte: L’Espresso, 12 agosto 2013
Sul "caso del mugnaio Arnold",, si cfr. anche: Alessandro Barbero, Federico il Grande, Sellerio, Palermo 2007, pp. 119-121.
FLS
Teresa d’Avila.
Il «Castello interiore» come porta del paradiso
di Matteo Liut (Avvenire, giovedì 15 ottobre 2020)
Sarebbe “follia” cercare di entrare in Cielo senza prima entrare in noi stessi: è lì che possiamo cogliere i doni che Dio ci ha dato e renderci conto del nostro bisogno della sua misericordia. In questo cammino abbiamo testimoni autorevoli che ci aiutano e ci guidano, come santa Teresa d’Avila, la cui eredità più preziosa si trova nel suo “Castello interiore” e nella sua opera riformatrice del Carmelo.
Nata nel 1515 ad Avila, era entrata nel Carmelo nel 1535 prendendo il nome di Teresa di Gesù. All’età di 39 anni, dopo un travagliato percorso interiore, visse quella che lei chiamò la sua “conversione”, dedicandosi poi alla riforma dei monasteri carmelitani sia femminili che maschili. Morì ad Alba de Tormes (Salamanca) nel 1582; santa dal 1622, nel 1970 è stata proclamata dottore della Chiesa. [...].
FRANZ KAFKA
[NOTE SU]
IL CASTELLO *
Il castello (titolo originale tedesco: Das Schloß) di Franz Kafka (1883-1924), scritto intorno al 1922[1] e pubblicato postumo nel 1926, è l’ultimo dei tre romanzi dello scrittore praghese. Rimasto incompiuto, Il castello, spesso oscuro e a volte surreale, è centrato sui temi della burocrazia, della legge come ordine globale, e quindi dell’alienazione e della frustrazione continua dell’uomo che tenta di integrarsi in un sistema che mentre lo invita, contemporaneamente lo allontana emarginandolo.[1] [...].
Genesi e struttura
Kafka comincia a lavorare al romanzo presumibilmente intorno al 1921, ma lo completa in gran parte nell’anno successivo. Il 15 marzo di quest’anno ne legge all’amico Max Brod la parte iniziale. In una lettera giunta l’11 settembre, sempre a Max Brod, Kafka si lamenta di non essere in grado di tradurre in parole il «carattere demoniaco delle figure del romanzo»[1] e conclude di aver interrotto «per sempre la storia del Castello».[1] Sono questi gli anni in cui la tubercolosi si aggrava e i ricoveri si fanno più frequenti, ma anche gli anni nei quali la difficile relazione con Milena, probabile ispiratrice della figura di Frieda, può essere considerata conclusa. Kafka morirà due anni più tardi, ricoverato nel sanatorio di Kierling.[1]
Il manoscritto, che secondo le istruzioni di Kafka stesso doveva essere bruciato alla sua morte, presenta soltanto una suddivisione ed è privo di titolo. Sarà sempre l’inseparabile Max Brod che ne curerà la prima edizione nel 1926 suddividendo l’opera in venti capitoli e intitolandolo Das Schloß (Il castello), essendosi Kafka così sempre riferito al romanzo.[1]
I significati
Il romanzo di Kafka ha dato vita a numerose interpretazioni critiche nel corso del Novecento. Il romanzo fu pubblicato postumo nel 1926 a cura dell’amico Max Brod, il quale aggiunse una postfazione nella quale avanzava un’interpretazione teologica dell’opera. Secondo Brod il Castello rappresenterebbe la Grazia divina, mentre Il processo, il secondo romanzo di Kafka, sarebbe centrato sul tema della Giustizia di Dio. Il protagonista è dunque l’uomo che si barcamena fra le vicende del quotidiano cercando di comprendere il misterioso disegno del deus absconditus, quella legge che stabilisce il bene, il male e il destino stesso, alla quale legge è impossibile accedere ma alla quale l’uomo aspira fidando nella benevolenza di Dio, nella sua grazia. L’interpretazione di Brod condizionò pesantemente tutti i primi commentatori.[1]
Negli anni quaranta, a opera di Erich Fromm, Angel Flores, Charles Neider e altri, si diffuse l’interpretazione psicoanalitica del romanzo. Facendo riferimento alla celeberrima Lettera al padre, si è così visto ne Il castello l’espressione della persecuzione, della colpa e della solitudine dell’uomo al cospetto dell’autorità. Il villaggio in cui K. giunge è un ambiente estraneo, misterioso e avverso, sul quale la figura del Castello si erge come minacciosa e ostile.[1]
Successivamente la critica sociologica cercò di liberarsi da interpretazioni religiose e psicoanalitiche per mettere in luce la concretezza dei nessi che Kafka evidenzia nel rapporto fra l’uomo e la società. Walter Benjamin, Theodor W. Adorno, György Lukács sono i nomi più noti di un’analisi condotta in tal senso.[1]
Le vicende dell’agrimensore K. rappresentano la proiezione dell’impotenza e delle frustrazioni dell’uomo moderno, il quale si trova schiacciato da una realtà che sfugge ai suoi criteri di valutazione. Il protagonista si sente ovunque solo e alienato, il suo rapporto con il mondo esterno è ormai completamente compromesso, e la presenza cupa e minacciosa del Castello rappresenta un’entità superiore negativa che finisce per determinare e opprimere l’esistenza dell’uomo. In questa prospettiva, si è perduto il senso di ogni cosa. Per Kafka la ragione diventa così inutile: l’essere viene destrutturato fino a perdere la propria identità, come dimostra il nome stesso dell’agrimensore ridotto alla sola lettera K. (l’uso di questa iniziale richiama inevitabilmente il nome dell’autore). [...].
ALLA RICERCA DEL QUADRO SCOMPARSO dalla Basilica di Santa Maria degli Angeli (Contursi Terme). Nota:
La basilica di Santa Maria degli Angeli, conosciuta anche come Duomo di Contursi Terme, è il principale luogo di culto cattolico della città di Contursi Terme in provincia di Salerno .
Il 12 settembre 1966, Papa Paolo VI, l’ha elevata al rango di basilica minore. [...]
La maggior parte dei dipinti che ornavano gli altari e le cappelle, sono oggi conservati nel Santuario della Madonna di Contursi.
Il 13 dicembre 1637, venne consultato un organista di Napoli, Gian Domenico Riccio, per la costruzione e l’acquisto di un organo, da porre nella Chiesa. Lo strumento musicale, aveva le seguenti caratteristiche: colore bianco, 9 registri, 3 armature di rinforzo in legno lavorate ad intaglio, 3 mantici, (ciascun mantice doveva avere larghezza di 42 cm e lunghezza di 126 cm) e 2 file di canne grosse piene e proporzionate. [...] (Wikipedia)
L’ARCIVESCOVO IN VISITA A CONTURSI TERME
Recupero beni storici, dossier a Bellandi
di Mariateresa Conte (La Città di Salerno, 18 febbraio 2020)
CONTURSI TERME. «L’arcivescovo Bellandi a Contursi Terme? Un momento storico per la comunità». Con gli occhi lucidi, la voce interrotta dall’emozione e impegnato in un lungo lavoro pastorale per una chiesa accanto ai giovani e tra la gente, il parroco di Contursi Terme, don Salvatore Spingi, ha così sintetizzato la visita dell’arcivescovo della Diocesi di Salerno Campagna-Acerno, Andrea Bellandi, giunto domenica a Contursi Terme per la festa in onore del beato don Mariano Arciero. «È stata la prima visita ufficiale. - dice don Spingi che non nasconde l’entusiasmo - Sono momenti emozionanti». Impegnato nella diffusione della devozione al beato don Arciero, il parroco ha accolto insieme al sindaco Alfonso Forlenza, l’arcivescovo di Salerno.
«Il beato don Arciero come sacerdote modello. - ha detto Bellandi durante l’omelia - La Chiesa comunica per testimonianza attraverso le azioni dei santi anche se i tempi sono diversi. E’ possibile seguire l’esempio dei santi che hanno scelto la strada del bene». Esempio di santità il beato Arciero dunque, venerato dalla comunità contursana che ha donato all’arcivescovo una copia della pratica della dottrina cristiana cioè un catechismo scritto dal beato Arciero.
La visita si è conclusa con un colloquio tra Bellandi e il sindaco che ha posto all’attenzione «una richiesta di collaborazione tra Curia e Comune - come spiega l’assessore Gerarda Forlenza - volta a preservare lo stato delle chiese». In pratica il recupero del patrimonio storico e religioso descritto in un dossier che è stato consegnato a Bellandi.
Mariateresa Conte
BENI CULTURALI, TERRITORIO, SCUOLA... SCUOLA, TERRITORIO, BENI CULTURALI.
CONTURSI TERME, PRINCIPESSA DI EBOLI, E TERESA D’AVILA.
Una "Cappella Sistina" in rovina ...
LETTERA APERTA AL DIRIGENTE dell’ IIS “Perito-Levi-Daniele” di Eboli
Ch.mo Prof.
Giovanni Giordano
Essendo stato nei lontani anni Sessanta allievo del Liceo Classico "E. Perito" (Preside, prof. Emilio Di Leo, e Vice-Preside, prof. ssa Pansa-Gammino) e, al contempo, sapendola anche Dirigente dell’Istituto Comprensivo di Contursi Terme, Le ho qui inviato per conoscenza alcuni "appunti" relativi a un "monumento" di grande interesse storico-culturale sia per Eboli (e la "Principessa di Eboli") sia per Contursi (Teresa d’Avila): la Chiesa della Madonna del Carmine di Contursi Terme.
Sull’argomento, e per un primo orientamento, mi permetta di sollecitarLa a prendere in prestito dalla biblioteca del suo Liceo, il seguente volume (circa 10 copie presenti): Federico La Sala, "Della Terra, il brillante colore"; -***consultare questo "doc." in rete (Lettera aperta al Soprintendente di Salerno, sullo stato della Chiesa "Maria SS. del Carmine" di Contursi Terme),
LETTERA APERTA, AL VENTO...
All’Assessore alla cultura del Comune di Contursi Terme
CARA GERARDA FORLENZA....
Ti scrivo in merito all’immane degrado (oggi, 11.02.2020) in cui versa la Chiesa della Madonna del Carmine....
DAL MOMENTO CHE, purtroppo, piano piano, giorno per giorno, e anno dopo anno, hai perso la memoria,
rivedi questo documento dello stesso Comune di Contursi Terme, del 12 agosto 2013:
http://62.77.55.6/contursiterme/index.php?action=index&p=976
e poi confronta il tutto con queste foto del 10 febbraio 2020:
https://www.google.it/maps/place/Monastero+della+B.V.+del+Carmine/@40.64925,15.2387409,3a,75y,90t/data=!3m8!1e2!3m6!1sAF1QipMLZKPe_jYUZ5lAqS1IbMPMXJ44INamlN0byIab!2e10!3e12!6shttps:%2F%2Flh5.googleusercontent.com%2Fp%2FAF1QipMLZKPe_jYUZ5lAqS1IbMPMXJ44INamlN0byIab%3Dw203-h135-k-no!7i2738!8i1825!4m5!3m4!1s0x133968beb81f6093:0xd3d3b406944f60e3!8m2!3d40.6492709!4d15.2384059
MI AUGURO E SPERO CHE, con le indicazioni di B.B.:
... e con l’aiuto spirituale di Mariano Arciero, in occasione della festa a Lui dedicata (il 16 febbraio), TU POSSA RICORDARE al nuovo arcivescovo, Andrea Bellandi, il legame del Beato Mariano Arciero con la Madonna del Carmelo e la Chiesa della Madonna del Carmine (quando era piccolo, chissà, quante e quante volte l’ha visitata - sarà stata sicuramente quasi già la sua "casa"!!!), e, con l’Arcivescovo Bellandi, RICORDARE la "brillante" manifestazione (di cui anche tu sei stata grande protagonista) del 12 agosto 2013, avvenuta all’interno della Chiesa della Madonna del Carmine!!!
PERMETTIMELO. Sveglia! E non sciupare il percorso e il lavoro già fatto!!! Raccorda la tua memoria e la nostra (di tutti i contursani e di tutte le contursane) storia e, portandola fuori dal *pantano* e dal *burrone* in cui sembra che stia "affondando", ri-aggangiati (ri-aggangiamoci) alla memoria dei "nostri" Giovanni e Giambattista Rossi (legatissimi anche loro a Teresa d’Avila e all’ordine carmelitano), e, con loro, ... cerchiamo di approdare a *Ripacandida* (Potenza). E tornati da lì, recuperate aria e respiro, potremo certamente riportare in sicurezza e bellezza la Chiesa della Madonna del Carmine di Contursi Terme!!! O no?!
Buona giornata e buon lavoro,
Federico La Sala
***
CH. MO PROF GIORDANO,
Sia gentile, SUL TEMA E SUL PROBLEMA, voglia accogliere ANCORA la Testimonianza e la documentazione del sig. Alfonso Apostolico (anch’egli già allievo del suo Liceo - e mio compagno di classe): *
Domenica 9 Febbraio [2020]sono ritornato a Contursi Terme per rivedere l’interno della Chiesa del Carmine, essendo stato informato che, nella mattinata, sarebbe stata aperta. C’ero già stato tre volte, nel corso degli anni passati, ma ho sempre trovato cielo nuvoloso. Questa volta ho approfittato di una giornata bellissima, sole pieno e temperatura fresca. Situazione ideale per scattare foto con l’esaltazione dei colori degli affreschi.
Già dall’ingresso era visibile l’affresco sotto la cupola, nella sua pienezza di colori e nella potenza espressiva (non a caso è stata denominata "la piccola Cappella Sistina"). Purtroppo il pavimento era cosparso di detriti derivanti dallo sfaldarsi dell’intonaco, caduti dall’alto. Sulle panche erano presenti anche detriti più consistenti, segno che ha iniziato a cedere anche la struttura dell’intonaco.
E’ in corso lo sfacelo della Chiesa, già recuperata dopo il terremoto con l’impiego di risorse pubbliche a cura della Soprintendenza e consegnata alla comunità contursana con la scoperta e recupero degli affreschi di 12 Sibille scoperte sulle pareti laterali. I lavori terminarono nel 1989.
Già nel 12 Marzo del 2012 partì una richiesta di intervento inviata al Soprintendente, per segnalare che "purtroppo, dopo molti anni di totale incuria, la sua (=della Chiesa) situazione ora sta precipitando paurosamente.
Solo per darle un’idea, Le ho qui allegato una foto relativa allo stato attuale del tetto ... uno scenario orribile ....". I tecnici della Soprintendenza giunsero a Contursi, fecero un sopralluogo e redassero una relazione tecnica, che consegnarono all’allora Sindaco.
Una costante assenza di iniziative ha portato ad un lento, costante ed inesorabile peggioramento dello stato delle strutture, Fino ad arrivare ad oggi. Piange il cuore nel vedere come una comunità assiste muta alla scomparsa di proprie radici.
Le foto allegate intendono rappresentare il dramma in atto in questo luogo, che oltre ad avere valenza storico-culturale, è anche un luogo di culto, officiato. Ma non demordo.
RINGRANZIANDOLA PER L’ATTENZIONE che vorrà porgere a questo "appello", a tutti i livelli,
La saluto.
Buona giornata e buon lavoro!
Con stima,
Federico La Sala
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI. UNA "CAPPELLA SISTINA" IN ROVINA.... *
Testimonianza e documentazione
di Alfonso Apostolico *
Domenica 9 Febbraio sono ritornato a Contursi Terme per rivedere l’interno della Chiesa del Carmine, essendo stato informato che, nella mattinata, sarebbe stata aperta. C’ero già stato tre volte, nel corso degli anni passati, ma ho sempre trovato cielo nuvoloso. Questa volta ho approfittato di una giornata bellissima, sole pieno e temperatura fresca. Situazione ideale per scattare foto con l’esaltazione dei colori degli affreschi.
Già dall’ingresso era visibile l’affresco sotto la cupola, nella sua pienezza di colori e nella potenza espressiva (non a caso è stata denominata "la piccola Cappella Sistina"). Purtroppo il pavimento era cosparso di detriti derivanti dallo sfaldarsi dell’intonaco, caduti dall’alto. Sulle panche erano presenti anche detriti più consistenti, segno che ha iniziato a cedere anche la struttura dell’intonaco.
E’ in corso lo sfacelo della Chiesa, già recuperata dopo il terremoto con l’impiego di risorse pubbliche a cura della Soprintendenza e consegnata alla comunità contursana con la scoperta e recupero degli affreschi di 12 Sibille scoperte sulle pareti laterali. I lavori terminarono nel 1989.
Già nel 12 Marzo del 2012 partì una richiesta di intervento inviata al Soprintendente, per segnalare che "purtroppo, dopo molti anni di totale incuria, la sua (=della Chiesa) situazione ora sta precipitando paurosamente.
Solo per darle un’idea, Le ho qui allegato una foto relativa allo stato attuale del tetto ... uno scenario orribile ....". I tecnici della Soprintendenza giunsero a Contursi, fecero un sopralluogo e redassero una relazione tecnica, che consegnarono all’allora Sindaco.
Una costante assenza di iniziative ha portato ad un lento, costante ed inesorabile peggioramento dello stato delle strutture, Fino ad arrivare ad oggi. Piange il cuore nel vedere come una comunità assiste muta alla scomparsa di proprie radici.
Le foto allegate intendono rappresentare il dramma in atto in questo luogo, che oltre ad avere valenza storico-culturale, è anche un luogo di culto, officiato. Ma non demordo.
*
Fonte: Profilo Facebook (vedi: documentazione fotografica).
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI.... "Le Sibille di Contursi hanno parentele più celebri nella Cattedrale di Siena, nell’appartamento Borgia in Vaticano, nel Tempio Malatestiano di Rimini, nella Cappella Sistina di Michelangelo. La pittura disegna l’ eclettismo ermetico-cabalistico-neoplatonico rinascimentale" (Fulvio Papi).
Federico La Sala
LETTERA APERTA, AL VENTO...
All’Assessore alla Cultura del Comune di Contursi Terme
CARA GERARDA FORLENZA....
Ti scrivo in merito all’immane degrado (oggi, 11.02.2020) in cui versa la Chiesa della Madonna del Carmine....
DAL MOMENTO CHE, purtroppo, piano piano, giorno per giorno, e anno dopo anno, hai perso la memoria,
TI SOLLECITO a rivedere questo documento dello stesso Comune di Contursi Terme, del 12 agosto 2013: http://62.77.55.6/contursiterme/index.php?action=index&p=976
e poi confronta il tutto con queste foto del 10 febbraio 2020: https://www.google.it/maps/place/Monastero+della+B.V.+del+Carmine/@40.64925,15.2387409,3a,75y,90t/data=!3m8!1e2!3m6!1sAF1QipMLZKPe_jYUZ5lAqS1IbMPMXJ44INamlN0byIab!2e10!3e12!6shttps:%2F%2Flh5.googleusercontent.com%2Fp%2FAF1QipMLZKPe_jYUZ5lAqS1IbMPMXJ44INamlN0byIab%3Dw203-h135-k-no!7i2738!8i1825!4m5!3m4!1s0x133968beb81f6093:0xd3d3b406944f60e3!8m2!3d40.6492709!4d15.2384059
MI AUGURO E SPERO CHE, con le indicazioni di B.B.:
... e con l’aiuto spirituale di don Mariano Arciero, in occasione della festa a Lui dedicata (il 16 febbraio), TU POSSA RICORDARE al nuovo arcivescovo, Andrea Bellandi, il legame del Beato Mariano Arciero con la Madonna del Carmelo e la Chiesa della Madonna del Carmine (quando era piccolo, chissà, quante e quante volte l’ha visitata - sarà stata sicuramente quasi già la sua "casa"!!!), e, con l’Arcivescovo Bellandi, RICORDARE la "brillante" manifestazione (di cui anche tu sei stata grande protagonista) del 12 agosto 2013, avvenuta all’interno della Chiesa della Madonna del Carmine!!!
PERMETTIMELO. Sveglia! E non sciupare il percorso e il lavoro già fatto!!! Raccorda la tua memoria e la nostra (di tutti i contursani e di tutte le contursane) storia e, portandola fuori dal *pantano* e dal *burrone* in cui sembra che stia "affondando", ri-aggangiati (ri-aggangiamoci) alla memoria dei "nostri" Giovanni e Giambattista Rossi (legatissimi anche loro a Teresa d’Avila e all’ordine carmelitano), e, con loro, ... cerchiamo di approdare a *Ripacandida* (Potenza). E tornati da lì, recuperate aria e respiro, potremo certamente riportare in sicurezza e bellezza la Chiesa della Madonna del Carmine di Contursi Terme!!! O no?!
Buona giornata e buon lavoro,
Federico La Sala
BENI CULTURALI!!! Lettera aperta, al vento...
A CONTURSI TERME, UN APPELLO PER UNA MOBILITAZIONE CITTADINA E "SCOLASTICA"!
PER FERMARE IL DEGRADO DELLA CHIESA DELLA MADONNA DEL CARMINE (CON LE SUE 12 SIBILLE CARMELITANE SCALZE, 1613).
Nella Giornata mondiale della Lingua Greca, 09.02.2020, con un invito a uscire dal letargo e con la Sibilla Delfica, la Sibilla Cumana e le Altre (http://lavocedifiore.org/SPIP/IMG/pdf/pieghevole-3.pdf) e andare a visitare la Chiesa della Madonna del Carmine di Contursi Terme .... lo scenario che si è aperto agli occhi di "quattro gatti" in visita alla storica struttura è stato sconvolgente!
SE A QUEST’OGGI, a partire dalla denuncia e dalla segnalazione alla Soprintendenza di marzo 2012, E A QUESTO PUNTO (alla soglia di perdita irreparabile degli affreschi presenti nella Chiesa), e il Sindaco (con tutta l’Amministrazione) e il Parroco continuano a non aprire gli occhi sulla gravità della situazione, il problema diventa di tutti i cristiani e di tutte le le cristiane, dei cittadini e delle cittadine di Contursi che devono decidere cosa farsene della Chiesa della Madonna del Carmine!
NEL GIORNO DELLA MEMORIA DI SANTA SCOLASTICA, c’è da augurarsi che le foglie delle Sibille carmelitane possano essere spinte dal vento fino a Salerno e sollecitare qualche decisivo intervento del nuovo Arcivescovo di Salerno, volto a rompere la situazione di stallo e sonnambulismo e, finalmente, sollecitare le Istituzioni contursane (e solo!) a salvare il salvabile!
Federico La Sala
Lettera aperta
ALLA CORTESE ATTENZIONE DELLA DIRIGENTE
DELL’ISIS "E. CORBINO" DI CONTURSI TERME (SA)
Ch.ma Dr.ssa Mariarosaria Cascio
SapendoLa profondamente impegnata e attenta a valorizzare le molteplici risorse del territorio in cui opera e ad assicurare a tutti gli alunni e a tutte le alunne del suo Istituto una ricca e articolata (sia sul piano locale sia sul piano globale) conoscenza, e, al contempo, una formazione all’altezza del nostro tempestoso presente storico, mi sono deciso a scriverLe.
Chi scrive è un contursano, è il nipote di colui a cui è dedicata una delle vie principali della Città (“Felice La Sala. Medaglia d’Oro al Valore Militare”), vive a Milano, ed è molto “attaccato” alla memoria e alla storia del suo paese natio.
Sollecitato dall’evento-ricorrenza del Cinquecentenario della morte di Raffaello Sanzio e, insieme, decisamente convinto dell’importanza storico-culturale degli affreschi tardo-rinascimentali (12 Sibille) presenti nella Chiesa della Madonna del Carmine (convento carmelitano dal 1561 al 1652), ha ritenuto opportuno (sperando di fare cosa gradita) comunicarLe il proprio “pensiero”.
Dedicare particolare attenzione alla ricorrenza raffaellesca, questa l’idea, potrebbe essere una degna e nobile occasione da parte sua (e di tutto il “corpo docente” dell’Istituto) per meglio mettere a fuoco il “materiale prezioso” (una eccellente risorsa didattica per i vari percorsi disciplinari) racchiuso nella Chiesa di Contursi, e connetterlo (non solo con gli affreschi della Volta della Cappella Sistina di Michelangelo, ma anche) con la produzione artistica di Raffaello e, in particolare, con la sua straordinaria “ Madonna di Foligno ” (che richiama il legame tra la figura di Ottaviano Augusto e la Sibilla Tiburtina, con tutte le sue varie implicazioni); e, ancora (e già, per il "DanteDì"), con tutta la produzione poetica e filosofica di Dante Alighieri (strutturalmente legata a Virgilio, alla sua IV Egloga e alla Sibilla Cumana dell’Eneide).
RingraziandoLa dell’attenzione, voglia accogliere auguri di buon lavoro e cordiali saluti.
Con stima
Federico La Sala
Geografie
Dante, lo Zibaldone di Giulio Ferroni attraversa l’Italia Speciale Dantedì
In «L’Italia di Dante» (La nave di Teseo) lo studioso descrive i luoghi della Divina Commedia alla luce della tradizione e dell’oggi. Tangenziali e grandi ciclisti compresi
di PAOLO DI STEFANO *
«E poi questa luce e questa eco di voci e di luci antiche, di sole e mare d’altri tempi, di magie segrete, di esistenze, popoli, linguaggi che sembrano trasparire dal fondo della terra, dalle stesse minacciose esalazioni vulcaniche». È Napoli la prima tappa scelta da Giulio Ferroni per il suo «viaggio nel Paese della Commedia» (L’Italia di Dante, pubblicato da La nave di Teseo). Ed è un viaggio che contiene diversi viaggi, essendo Ferroni un «pellegrino» del tutto particolare: critico, filologo e da sempre viaggiatore (sedentario) nella letteratura italiana. Dunque, un cammino doppio, o triplo o quadruplo: fisico nella geografia dell’Italia d’oggi (siamo tra il 2014 e il 2016), culturale nella sua storia e nella sua letteratura, sentimentale nella propria vita e, infine, anzi prima di tutto, un cammino appassionato nell’opera dantesca: perché da lì si parte e lì si ritorna, come in un movimento centrifugo e centripeto a spirale.
Cominciando, appunto, da Napoli, dove troviamo la tomba di Virgilio: «Vespero è già colà dov’è sepolto/ lo corpo dentro al quale io facea ombra». La porta d’entrata è sempre un passo di Dante. Ma da Dante e Virgilio si può rimbalzare in avanti a Curtius e Eliot, dal Novecento all’indietro verso Leopardi (i cui resti erano stati depositati a Fuorigrotta dall’amico Ranieri) e dalla tomba di Leopardi si torna ancora alla tomba di Virgilio, finché passando per rapidi accenni all’amico Franco Cordelli e a Raffaele La Capria, e rasentando Boccaccio, si approda a un’altra tomba: quella del poeta umanista Jacopo Sannazzaro, riconnesso a Virgilio dal cardinal Bembo che ne scrisse l’epigrafe. È un esempio dei nodi e dei nessi che va tessendo il viaggiatore Ferroni.
Ferroni, che non sembra amare particolarmente la cultura tecnologica, ci invita a navigare nel suo testo per connessioni imprevedibili: si direbbe che ha una mente in natura digitale, disposta per link, cioè per associazioni di idee o di figure. Dunque, è vero che il suo libro (più di mille pagine) è, oltre che un diario, uno zibaldone, cioè, letteralmente, una vivanda composta di svariati ingredienti: narrazione odeporica, autobiografia, critica letteraria, racconto morale, riflessione civile, reportage, il tutto in uno stile molteplice e mobile che svaria dalla prosa saggistica alla descrizione lirica.
Se aveva ragione Dino Campana (citato da Ferroni) nel sostenere che tutta la poesia di Dante «è poesia di movimento», va sottolineato che al contrario dello Zibaldone leopardiano, un quaderno scritto per lo più da fermo, questo è invece uno zibaldone scritto tutto al presente nell’andare: in coerenza appunto con l’attitudine dell’Alighieri, cronista dell’aldilà quanto Ferroni è cronista di un aldiquà segnato da autostrade, superstrade e tangenziali, code interminabili di camion, autosnodati, autoarticolati, furgoni, furgoncini, Suv... Un paesaggio in cui convivono brutture inenarrabili e miracoli di bellezza e di civiltà, perché questa è l’Italia, come già osservava Giulio Bollati, una disarmonia tra vecchio e nuovo, fra tradizione e modernità. Mentre l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso danteschi avevano spazi e confini propri, il territorio italiano appare come il regno di una promiscuità vertiginosa, e non meraviglia che una mefitica fettuccia autostradale si trovi a due passi dai Colli Euganei o dell’Arquà petrarchesca, ancora quasi perfetta.
Via via, Ferroni si sceglie il suo Virgilio sempre diverso: che può essere Petrarca o Bembo, ma può essere anche un suo contemporaneo, in carne e ossa o in forma di compagno di strada ideale. Trovandosi di passaggio a Trieste, il pellegrino tiene a precisare che ad accompagnarlo è Non luogo a procedere, uno più recenti libri di Claudio Magris, «perplesso indagatore dell’etica di questi luoghi, dell’umanità che li ha coltivati e della violenza che li ha lacerati». E chissà quante volte gli sarà tornata alla mente la forma-Danubio. Fatto sta che procedendo a suo piacimento il lettore si imbatte in figure-guida che non avrebbe mai pensato di incontrare, non di rado spiazzanti: per esempio quando, alle falde dell’Etna, ci si imbatte in uno scrittore che avevamo già incontrato ad Avezzano (nella cui piazza c’è il suo busto), Mario Pomilio, «etichettato come “cattolico”, ma tra i più intensamente problematici del Novecento». A Pomilio si deve un racconto in cui compaiono i versi di Orazio su Empedocle, Eddy Merckx e il cane che gli ha attraversato la strada in una tappa del Giro d’Italia 1967 facendogli perdere qualche secondo prezioso.
Il cortocircuito straniante ci conferma la passione di Ferroni per il Giro d’Italia e il sospetto che questo suo viaggio avrebbe voluto farlo in bicicletta, magari scortato, oltre che da Dante, da un altro «dolcissimo patre» come Gino Bartali, cui dedica un ritratto dopo aver percorso la sponda destra del fiume Ema ed essersi inoltrato nel Parco dell’Albereta-Pioppeta del Galluzzo. Sono tre pagine che si concludono con la canzone eponima di Paolo Conte: partendo dallo strappo dei Buondelmonte (Paradiso XVI) che rifiutarono le nozze con gli Amidei, passando per Eugenio Montale, sepolto da quelle parti accanto alla moglie Drusilla Tanzi («Non è piacevole/ saperti sotto terra anche se il luogo/ può somigliare a un’Isola dei Morti/ con un sospetto di Rinascimento»), si arriva alla casa natale del grande Gino. Ecco, nel volgere di poche righe, la vertigine a cui il nostro Virgilio-Ferroni è capace di condurci.
Diario, zibaldone, ma anche un genere del tutto particolare di atlante storico-geografico-letterario, in cui ciascuno può muoversi liberamente aiutandosi con gli (indispensabili) indici dei nomi e dei luoghi, che aggiungono a questo libro una potenzialità ludica da Gioco del Monopoli: come ha fatto l’autore, ciascuno può partire da dove vuole, perdersi e arrivare dove non avrebbe mai immaginato. Per esempio un avolese può partire da pagina 554, dove incontra il tiranno «Dïoniso fero,/ che fé Cicilia aver dolorosi anni» (Inferno XII), intravede la siracusana santa Lucia, «nimica di ciascun crudele», passa sul tronco di autostrada che da decenni promette, verso Sud, di arrivare a Gela ma si interrompe a Rosolini, risale in direzione di Catania, respira le zaffate mefitiche delle raffinerie di Priolo, manda un pensiero grato a Vincenzo Consolo e al suo L’olivo e l’olivastro, salta indietro a una bella serata palermitana di Giulio con l’amico scrittore, evoca dei più bei versi mai scritti sul tema della nostalgia («Nessun maggior dolore/ che ricordarsi del tempo felice / ne la miseria», Inferno V), e seguendo quel passo si ritrova catapultato a Pavia, la città di Boezio che vide insegnanti Ugo Foscolo, e in anni più recenti Maria Corti e Cesare Segre...
Anime sante, direbbe il Poeta, che «’l mondo fallace fanno manifesto a chi di loro ben gode».
La proposta nata dalle pagine del «Corriere della Sera» (qui lo speciale), sostenuta dal ministero per i Beni e le attività culturali di cui è titolare Dario Franceschini, e sancita dal Consiglio dei ministri
* Corriere della Sera, 25 gennaio 2020 (modifica il 27 gennaio 2020 (ripresa parziale).
La mostra.
Gli arazzi di Raffaello tornano nella Cappella Sistina
Per una settimana, dal 17 al 23 febbraio, i capolavori intessuti a Bruxelles su cartoni del "divino" tornano sotto gli affreschi di Michelangelo e Perugino, dove li volle Leone X
di Marco Busssagli (Avvenire, venerdì 7 febbraio 2020)
Dopo quasi quarant’anni gli arazzi disegnati dal grande artista per papa Leone X tornano per una settimana nel luogo per cui il pontefice li aveva voluti Raffaello, in questi giorni, inizia a far sentire la sua presenza in maniera sempre più insistente. In realtà, le iniziative hanno preso avvio già nel 2019, quando, proprio su queste pagine, abbiamo recensito la bella mostra (ancora in corso, fino al prossimo 17 marzo) dedicata a Giovanni Santi, il padre del grande artista.
Ora, i Musei Vaticani vogliono (e possono) stupire tutti, come ha annunciato il direttore Barbara Jatta, esibendo dal 17 al 23 febbraio, una delle opere di Raffaello meno note al grande pubblico: gli arazzi realizzati per Leone X Medici. Non basta, però, perché non si tratta di una semplice esposizione.
Gli arazzi saranno ricollocati nella Cappella Sistina, per la quale erano stati pensati. Si tratta di un evento raro che non avveniva dal 1983, quando il mondo celebrò il cinquecentenario della nascita del grande artista.
Quando papa Medici li fece appendere la prima volta, per coprire i finti velari ad affresco che appartengono alla prima decorazione della Cappella, quella voluta da Sisto IV Della Rovere che incaricò il Perugino di coordinare un manipolo di artisti stellari, da Botticelli a Luca Signorelli, passando per il Perugino stesso, non esisteva ancora il Giudizio Universale di Michelangelo che, però, aveva dipinto la volta. Allora, il desiderio di Leone X di lasciare la sua traccia nei Palazzi Pontifici lo spinse, forse già dal 1514, a commissionare i cartoni (oggi conservati al Victoria and Albert Museum di Londra) in modo da poter intervenire nella decorazione di uno dei luoghi che - già allora - era considerato il più prestigioso dei Palazzi Vaticani.
Realizzati, fra il 1515 e il 1519, gli arazzi furono tessuti nella bottega di Pieter van Aelst a Bruxelles e avrebbero pienamente assolto a questo compito. Per questo in occasione di cerimonie importanti, venivano appesi in Sistina, lungo le pareti dell’aula, dove avevano la funzione di completare il programma degli affreschi quattrocenteschi con gli episodi della vita di Mosè e di Cristo. Gli arazzi, infatti, focalizzavano l’attenzione sulle vicende di san Pietro e di san Paolo, cui si affiancava la scena del Martirio di santo Stefano, prima vittima del nuovo credo cristiano.
Divennero una sorta di scuola pittorica del mondo (si pensi a Guido Reni e Carracci) e, come manufatti, furono copiati dalle principali corti europee mentre, nel XVII secolo, furono imitati da Rubens a Poussin e dalla stessa Santa Sede, quando papa Urbano VIII pensò bene di farne realizzare altri con gli episodi della propria vita.
Dalla Pesca miracolosa, fino al bellissimo San Paolo in carcere (che prefigura, per certi versi, le soluzioni della Sala dei Giganti di Giulio Romano al Palazzo Te di Mantova), passando per la Punizione di Elima (Atti degli Apostoli 13) uno stregone che si era opposto alla predicazione di san Paolo, fino alla Predica di san Paolo, tanto per ricordare quelli dal maggior impatto visivo, gli arazzi sono una successione di capolavori di stoffa.
Si tratta di opere che hanno anche un profondo significato religioso e politico, come mostra, quello dedicato all’episodio evangelico della Guarigione dello storpio (Atti degli Apostoli, III, 1 ss.). Ogni giorno, a Gerusalemme, un uomo, storpio fin dalla nascita, chiedeva l’elemosina vicino al Tempio. Quando vide Pietro e Giovanni che si erano recati nella città, non mancò di chiederla anche a loro. Pietro, allora, gli rispose di non avere con sé oro né argento, ma di potergli donare solo la fede in Cristo e aggiunse: «...nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!». Raffaello ambienta la scena fra le colonne tortili del Tempio di Salomone che si riteneva fossero state portate a Roma dopo la distruzione operata dall’imperatore Tito. Esse, poi, avrebbero sorretto la pergola marmorea del San Pietro costantiniano. Non è un caso, però, che sia Pietro l’unico ad ergersi ritto in piedi a mo’ di colonna fra quelle del Tempio di Salomone. Infatti, è lui, la colonna del Tempio nuovo, quello fondato da Cristo. Ai lati (fra le quinte-navate laterali), si accalca la folla dei curiosi e dei fedeli. È il popolo della nuova Chiesa.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
RAFFELLO: AUGUSTO, LA SIBILLA TIBURTINA, E LA "MADONNA DI FOLIGNO".
UNA "CAPPELLA SISTINA" IN ROVINA: BENI CULTURALI, SCUOLA, E TERRITORIO: CONTURSI TERME.
Federico La Sala
Ildegarda di Bingen, la «Sibilla del Reno».... *
ll disco e il tour.
Branduardi in cammino con l’anima di Ildegarda
Da stasera il nuovo, coraggioso lavoro. E a febbraio festeggerà i 70 anni con una trilogia in vinile (da Futuro Antico a Francesco a Ildegarda) e un mega-concerto
di Massimo Iondini (Avvenire, sabato 16 novembre 2019)
Dall’etere al palcoscenico. Ildegarda di Bingen tocca terra e dal disco con cui Angelo Branduardi l’ha riportata a vibrare e a far vibrare le anime, la monaca, mistica, santa, musicista, scrittrice e molto altro da stasera prenderà anche forma. Quella sua musica orizzontale (ai tempi non esisteva l’armonia) ma verticale nella portata spirituale e nel suo ascendere verso le vette della contemplazione, proverà infatti a sfidare con la verticalità dell’armonizzazione che ne ha fatto Branduardi l’orizzontalità di questi nostri tempi assuefatti al disincanto. Dopo la data zero di giovedì a Castelraimondo, nel Maceratese, stasera ci sarà il debutto ufficiale in tour di questo nuovo coraggioso album di Branduardi al Teatro Galleria di Legnano. -Diviso idealmente in due parti, il concerto si aprirà proprio con i brani de Il cammino dell’anima. Con lui sul palco, uniti ad Angelo anche nei cori, Fabio Valdemarin (tastiere e chitarra), Antonello D’Urso (chitarre), Stefano Olivato (basso e contrabbasso elettrico, chitarra, armonica) e Davide Ragazzoni (batteria e percussioni). «Essendo una suite - spiega Branduardi - ci sono molti complessi agganci tra un pezzo e l’altro. Essermi immerso nel mondo spirituale e musicale di Ildegarda è stato tanto faticosa quanto profondamente appagante. Incredibile, ma vero, questo disco di musica sacra si sta rivelando un successo simile a quello su san Francesco. Forse significa che c’è un grande bisogno di alzare lo sguardo».
Ildegarda definì “Sinfonia” il ciclo lirico delle sue opere composte nel XII secolo. Per lei l’anima è infatti “sinfonica” e trova la sua espressione nell’accordo segreto di spirito e corpo sublimati nell’atto musicale, nell’armonia prodotta dal suono degli strumenti e dalla voce umana, nell’armonia celeste e nell’accordo misterioso che viene dall’anima. Tradotti dal latino e rielaborati da Luisa Zappa (moglie di Branduardi e sua storica sodale artistica in veste di paroliera) i testi e le musiche sono tratti dall’opera Ordo Virtutum, dramma liturgico di Ildegarda in cui le personificazioni delle Virtù seguono trepidanti i passi incerti dell’Anima tentata dal Demonio.
Colpisce ascoltare Branduardi impersonare Satana tentatore con una suadente e nel contempo minacciosa voce (resa grave e cavernosa) mentre avverte le Virtù: «Non avete nulla da dare a chi vi segue, voi tutte non sapete nemmeno chi siete, voi non siete niente! E tu, anima, chi sei, da dove vieni? Tu eri avvinghiata ed io con me ti ho sollevata. Ora sono adirato per il tuo tradimento, ma combatterò e di nuovo ti avrò!» Ecco, dunque, il cammino dell’anima. Tra atmosfere cupe e a tratti radiose. A cui Branduardi conferisce ritmo da danza.
«Ci si potrebbe chiedere cosa c’entra la danza, ma nell’anno mille durante le cerimonie si danzava. E Ildegarda ha proprio scritto alcune danze per le monache che rappresentavano la sua opera, assolutamente originale e moderna». «Fuggi, fuggi, il passo del serpente è dietro di te!» avvertono in coro le Virtù mentre il ritmo incalza e si preannuncia la parte musicalmente più stupefacente e melodiosa dell’opera di Ildegarda. «Io non sono un teologo - dice Branduardi spiegando la parte finale dell’opera che si conculde con i brani L’estasi - La Donna e L’estasi il Figlio -, ho solo seguito esattamente il percorso spirituale di Ildegarda che sfocia in due meravigliose Ave Maria che sono da brivido. Ma ancor più è il testo in cui si rivolge alla Madonna definendola “generosa”: questo è genio puro, poesia alla potenza ennesima». A Branduardi, invece, il merito e il coraggio di questo ulteriore cammino. Anche verso i suoi 70 anni che festeggerà il 12 febbraio. Ci sarà un concerto pubblico e uscirà la trilogia in vinile che partendo da Futuro Antico, attraverso L’Infinitamente piccolo su San Francesco arriva a Ildegarda di Bingen.
ANGELO BRANDUARDI /
L’intervista: “Io, Ildegarda e Franco Battiato”
Angelo Branduardi pubblica un disco interamente dedicato all “sinfonie” della monaca benedettina dell’anno Mille Santa Ildegarda, Il cammino dell’anima
di Paolo Vites (Il Sussidiario, 29.09.2019)
La birra che magari state bevendo mentre leggete queste righe non esisterebbe se una donna dell’anno Mille, il profondo Medioevo, quello che a tanti studiosi piace definire “epoca buia”, non avesse pensato di aggiungere il luppolo in quel miscuglio di spezie che era fino ad allora quella bevanda. Ma è la cosa più banale che Ildegarda di Bingen (1098-1179) ha fatto tra le tantissime.
Scrittrice, drammaturga, poetessa, musicista, filosofa, linguista, naturalista e soprattutto la prima donna a cui papi e imperatori permisero di parlare in pubblico, chiedendole anche di far loro da consigliere politico. Per questo la futura santa, dichiarata dottore della Chiesa nel 2012, negli anni 70 era diventata il simbolo di molte femministe. Non male per una persona che viveva nel “periodo buio”, che forse così buio non fu.
A lei Angelo Branduardi ha dedicato il suo nuovo disco, il primo dopo sei anni di silenzio, che idealmente entra a far parte della sua trilogia “spirituale”, cominciata con le musiche dei nativi americani, proseguita con San Francesco e che qui trova l’aspetto più fortemente musicale: “Ildegarda era un genio musicale” ci ha detto in questa intervista “avanti dal punto di vista tecnico e compositivo di almeno 300 anni”.
Monaca benedettina, mistica e profetessa, cosmologa, guaritrice, è probabilmente la prima donna musicista e compositrice nella storia cristiana: “E dato che a volte, ascoltando una melodia, un essere umano spesso sospira, e geme, circondandosi della natura dell’armonia celeste, il profeta Davide, considerando sottilmente la profonda natura dello spirito, e sapendo che l’anima dell’uomo è sinfonica (Symphonialis) ci esorta nel suo salmo a proclamare il Signore sul liuto e a suonare per lui sulla cetra a dieci corde” scrisse.
In uscita il prossimo 4 ottobre,”Il cammino dell’anima” di Angelo Branduardi è un disco fascinoso e misterioso, in cui il musicista insieme alla moglie Luisa Zappa che si è occupata della parte testuale, ha saputo rendere moderna e attuale la lezione di questa donna straordinaria.
Un disco musicalmente ricchissimo. Da sempre sei definito “musicista colto”: è una etichetta che ti fa piacere o ti infastidisce?
Io sono un musicista colto poi motivi inerenti al destino e alla vita in cui mi sono detto “voglio fare qualcosa di mio” mi hanno fatto allontanare dalla carriera classica. Non mi ritengo colto e classico, so di esserlo, sono diplomato al violino al conservatorio, però operazioni come questo disco le definirei cross over, termine strabusato, perché non è musica classica, non è musica leggera, forse è più musica sacra.
Non è la prima volta che che ti approcci alla musica sacra. La musica è nata con la religione, hai detto una volta. In un disco come questo un credente troverà tante cose, ma c’è un aspetto che unisce i credenti e i non credenti, un aspetto superiore per entrambi, che è la musica stessa, come la definisce Ildegarda: “un accordo segreto tra corpo e anima, l’armonia prodotta dal suono degli strumenti e dalla voce umana, nell’armonia celeste e nell’accordo misterioso che viene dal profondo del nostro io”. Sei d’accordo?
Assolutamente, musica come visione. Anche la cosiddetta musica leggera se fatta con il cuore esprime una visione. Come dice il mio amico Ennio Morricone, la musica essendo l’arte più astratta, è la più vicina all’assoluto. E’ una cosa che mi ha segnato sin da quando ero bambino. Che la musica fosse spirito me lo dicevano quando avevo 5 anni. E se guardo indietro già dall’inizio della mia carriera ci sono evidenti riferimenti alla spiritualità. C’è uno solo che mi assomiglia tra i miei colleghi, ed è Franco Battiato.
Come ti sei imbattuto nella figura di questa donna così affascinante?
La definirei una marziana. E’ difficile pensare a una figura umana in una epoca storica come quella che scrive una quantità di musica incredibile, aveva visioni che sapeva trascrivere, che fu inventrice della birra, idolo delle femministe degli anni 70. Nè io e né mia moglie Luisa possiamo dire di essere degli esperti della sua figura, ma quando ne ho sentito parlare abbiamo approfondito rimanendo senza parole.
Come hai scelto il repertorio da musicare?
Ho scelto a mio gusto e piacere. Ci sono cose che ho arrangiato con musica verticale o orizzontale, armonizzazioni, un po’ di ritmiche, ho cercato di fare qualcosa di accessibile, come feci con San Francesco.
Come si può definire la musica di Ildegarda paragonata a quella della sua epoca?
E’ avanti di 300 anni. Direi anche di più, ha anticipato i trovatori, la musica verticale, le progressioni che lei anche se in modo nascosto, sapeva già fare.
La parte musicale del disco è ricchissima, c’è anche il Coro della Basilica Ortodossa di Mosca. Come mai hai usato proprio quel coro?
Perché nessuno trovava un inizio, nemmeno io. Poi mi è venuta in mente la musica ortodossa i cui cori sono bellissimi. Li ho rallentati tantissimo e ci ho suonato sopra, per cui ne è uscita una strana commistione di elettronica e coro vero, che è il coro più grande di tutta la Russia. Credo di aver ottenuto un bell’inizio che mette nelle condizioni di ascoltare, una sorta di anticipazione di quello che succede dopo.
In un certo senso questo disco, per usare una parola molto anni 70, “è un concept album”, sei d’accordo?
Ah... non uso la parola concept album da tanti anni, ma è bello, io amo molto gli anni 70.
Nel disco in alcuni pezzi appare Cristiano De André: come mai hai scelto proprio lui?
Fa la parte del profeta. Ho scelto lui perché è figlio di un profeta.
Molto suggestivo è lo strumentale Gerusalemme, aperto e chiuso da percussioni alquanto inquietanti, come nasce?
Il brano musicalmente è di Ildegarda, io ho aggiunto le percussioni. E’ il titolo che diede lei a quel pezzo. In genere lei chiamava i suoi brani “sinfonie”, in quel caso lì c’è proprio scritto Jerusalem.
Ne Il cammino dell’anima n. 2 interpreti il diavolo. Anche quel testo è di Ildegarda?
Sì, tradotto da mia moglie. Dal punto di vista letterario è una traduzione fedelissima. E’ stato un lavoro molto difficile tradurlo, ma sono comunque tutte parole di Ildegarda, che come sai sin dagli 8 anni di età aveva visioni e vedeva cose che solo lei poteva vedere.
Insomma, un lavoro che, come quello di San Francesco, visti i personaggi, le storie, la trama, potrebbe anche essere uno spettacolo teatrale, che ne dici?
Ma lo diventerà infatti. Adesso partiremo per un tour europeo che in realtà sono una serie di date che, visto il successo di alcuni recenti concerti, ci hanno chiesto di replicare in luoghi più grandi. Poi arriveremo in Italia dal 16 novembre con il primo concerto italiano a Legnano ed eseguiremo proprio questo disco per un anno intero, più naturalmente alcuni classici del mio repertorio. E’ previsto anche un grande evento di cui al momento non posso dire nulla (il 12 febbraio 2020 Angelo compie 70 anni, immaginiamo che l’evento sia legato a questa data... nda).
A proposito di date internazionali, tu sei stato il primo della tua generazione a fare tour in europa, il primo ad avere successo all’estero. Cosa significò al tempo e perché pensi che il pubblico europeo ti ami così tanto?
Io faccio musica molto particolare e anche di nicchia, a tratti è sfuggita nel mainstream piazzando grandi successi. Una musica, la mia che non assomiglia a quella di nessuno. Come disse il tuo collega Marco Mangiarotti anni fa, la mia musica è come l’aglio, un gusto unico e riconoscibile che piace o fa schifo. Io divido il pubblico, ho un pubblico che mi ama e un pubblico che mi odia.
Gli artisti infatti, almeno i veri artisti, devono dividere, non accontentare il pubblico. Oggi va molto di moda la figura di San Francesco, forse perché abbiamo un papa che si ispira a lui. Tu hai cantato il santo di Assisi in tempi non sospetti, come accadde?
Ogg c’è una spiritualità di moda perché è un momento difficile e ciò che non si vede, che sta sopra di noi, ci calma l’ansia. Mi fu chiesto dai frati francescani di occuparmi di San Francesco, io dubitavo tantissimo di farlo. Loro mi dissero che doveva essere una cosa cristologica, e io risposi, ma perché scegliete un peccatore? Perché Dio sceglie i peggiori, risposero.
Fu un successo clamoroso.
Pensa che un dirigente della casa discografica mi disse: avrai 20 spettatori. La sera della prima ce ne erano 2mila in sala e 500 rimaste fuori.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
DON MARIANO ARCIERO, ILDEGARDA DI BINGEN, E UNA "CAPPELLA SISTINA" IN ROVINA.
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
Alla fiera dell’est - Angelo Branduardi*:
Alla fiera dell’est, per due soldi, un topolino mio padre comprò
Alla fiera dell’est, per due soldi, un topolino mio padre comprò
E venne il gatto, che si mangiò il topo, che al mercato mio padre comprò
E venne il gatto, che si mangiò il topo, che al mercato mio padre comprò
Alla fiera dell’est, per due soldi, un topolino mio padre comprò
E venne il cane, che morse il gatto, che si mangiò il topo
Che al mercato mio padre comprò
Alla fiera dell’est, per due soldi, un topolino mio padre comprò
E venne il bastone, che picchiò il cane, che morse il gatto
Che si mangiò il topo, che al mercato mio padre comprò
Alla fiera dell’est, per due soldi, un topolino mio padre comprò
E venne il fuoco, che bruciò il bastone, che picchiò il cane
Che morse il gatto, che si mangiò il topo
Che al mercato mio padre comprò
Alla fiera dell’est, per due soldi, un topolino mio padre comprò
E venne l’acqua, che spense il fuoco, che bruciò il bastone, che picchiò il cane
Che morse il gatto, che si mangiò il topo, che al mercato mio padre comprò
Alla fiera dell’est, per due soldi, un topolino mio padre comprò
E venne il toro, che bevve l’acqua, che spense il fuoco
Che bruciò il bastone, che picchiò il cane
Che morse il gatto, che si mangiò il topo
Che al mercato mio padre comprò
Alla fiera dell’est, per due soldi, un topolino mio padre comprò
E venne il macellaio, che uccise il toro, che bevve l’acqua
Che spense il fuoco, che bruciò il bastone, che picchiò il cane
Che morse il gatto, che si mangiò il topo, che al mercato mio padre comprò
E l’angelo della morte, sul macellaio, che uccise il toro, che bevve l’acqua
Che spense il fuoco, che bruciò il bastone, che picchiò il cane
Che morse il gatto, che si mangiò il topo, che al mercato mio padre comprò
Alla fiera dell’est, per due soldi, un topolino mio padre comprò
E infine il Signore, sull’angelo della morte, sul macellaio
Che uccise il toro, che bevve l’acqua, che spense il fuoco
Che bruciò il bastone, che picchiò il cane, che morse il gatto
Che si mangiò il topo che al mercato mio padre comprò
E infine il Signore, sull’angelo della morte, sul macellaio
Che uccise il toro, che bevve l’acqua, che spense il fuoco
Che bruciò il bastone, che picchiò il cane, che morse il gatto
Che si mangiò il topo, che al mercato mio padre comprò
Alla fiera dell’est, per due soldi, un topolino mio padre comprò
* Fonte: Rockol.it
“Alla fiera dell’est”: tutti conoscono la canzone, ma non il vero significato del testo di Branduardi
dii Redazione *
“E venne il cane, che morse il gatto, che si mangiò il topo...” e così via sulle note della canzone “Alla fiera dell’est” di Angelo Branduardi.
Si tratta di un brano senza tempo, che generazioni e generazioni di bambini hanno imparato e continuano ad imparare a memoria grazie a genitori e insegnanti. Ma i personaggi raccontati nel testo, che si annientano a vicenda come in una sorta di “matrioska lirica”, sono semplicemente se stessi o rappresentano qualcos’altro?
Branduardi, il “menestrello” della musica italiana, è noto per la profondità storica e culturale che c’è dietro i suoi lavori. Basti pensare all’album ispirato alla vita di San Francesco, in cui l’autore racconta le vicende del poverello di Assisi basandosi sulle Fonti Francescane.
Ebbene, in questo senso, la canzone “Alla fiera dell’est” non fa eccezione.
Il brano, infatti, è liberamente ispirato al canto pasquale ebraico del Chad Gadya. Un testo che viene recitato al termine della Haggadah shel Pesach (Narrazione della Pasqua) durante la cena pasquale.
Le dieci strofe del canto narrano le vicende non di un topolino ma di un capretto, che ricorda l’agnello pasquale col cui sangue gli israeliti marchiarono le loro porte per salvarsi dallo sterminio dei primogeniti in Egitto.
Il testo è una lunga metafora che, tramite personaggi che simboleggiano figure chiave della storia biblica, ripercorre la storia dell’Israele antico narrata nella Bibbia.
“Un capretto che mio padre comprò per due susim (denari)”. Così comincia il canto, con il Padre a rappresentare il Dio unico e il capretto a rappresentare il patriarca Abramo.
“E venne il gatto, che mangiò il capretto, che mio padre comprò per due susim”, prosegue il canto. Con il gatto a rappresentare il re di Babilonia Nimrod, un monarca che odiava il Dio unico tanto da sbattere Abramo in una fornace ardente, da cui uscì però miracolosamente illeso.
“Il cane” simboleggia il dominio dei faraoni d’Egitto, che superarono la potenza del “gatto” babilonese - specialmente nel periodo ramesside - senza però sconfiggerlo in battaglia. In questo senso il cane “morse” il gatto, senza ucciderlo.
“Il bastone” è quello che Dio donò a Mosè come strumento per realizzare i prodigi che avrebbero liberato gli israeliti dalla schiavitù d’Egitto (il cane).
“Il fuoco”, che bruciò il bastone, rappresenta le fiamme che divorarono Gerusalemme nel 586 a.C ad opera del regno neo-babilonese di Nabucodonosor. Gli ebrei - dei regni di Giuda e Israele - vennero deportati in Babilonia, specialmente i maggiorenti e la classe sacerdotale.
Finchè, però, non sopraggiunse “l’acqua”, cioè il regno di Persia e Media retto da Ciro il Grande, il sovrano che sconfisse Babilonia consentendo agli israeliti di tornare in Palestina (libri di Esdra e Neemia).
“Il bue”, anche se sarebbe più corretto dire “il toro”, rappresenta la dominazione ellenistica sopraggiunta con la conquista di Alessandro Magno. Un periodo raccontato in modo critico dalla tradizione ebraica posteriore, specialmente dal Talmud, secondo cui i greci cercarono di oscurare la vista degli ebrei con una mentalità nuova e distorta.
“Il macellaio” che uccise il bue, rappresenta la conquista della Palestina da parte dei romani, che scalzarono i successori di Alessandro. Il rosso del sangue, intrinseco nella figura del macellaio, è il tratto distintivo della potenza bellica di Roma.
“L’angelo della morte” che uccise il macellaio, rappresenta i tumulti che annunciano l’arrivo del Messia, l’Unto di Dio destinato a liberare Israele dall’oppressione.
E venne il Signore, definito “l’Unico” nel testo originario, che uccise l’angelo della morte, riportando la canzone - con una struttura ad anello - verso il punto di partenza. Il Padre, che ha “acquistato” alla fede il patriarca Abramo, ritorna alla fine dei tempi per adempiere le sue promesse.
* Fonte: *Oggi Scuola, 14/01/2019 (ripresa parziale).
Angelo Branduardi, il mistico del folk ha 70 anni: "La gente deve uscire felice. A che altro serve la musica?"
Il cantautore parte in tour per portare in giro il nuovo disco, ’Il cammino dell’anima’, dedicato a Ildegarda di Bingen, mistica medievale tedesca, scienziata, filosofa, teologa, drammaturga, scrittrice, pittrice: "Il profumo del legno del violino mi fece innamorare subito. Poi arrivarono i poeti"
di LUIGI BOLOGNINI *
Il cespo di capelli ora incanutito, il violino, soprattutto una cultura sterminata di poeti, filosofi, menestrelli rinascimentali, teologi trasposta in canzoni: la più popolare è un canto pasquale ebraico, Chad Gaya, che nel riadattamento diventa Alla fiera dell’Est, una filastrocca indimenticabile col toro che bevve l’acqua che spense il fuoco che bruciò il bastone che picchiò il cane che morse il gatto che si mangiò il topo che al mercato mio padre comprò.
Passano gli anni e Angelo Branduardi ne ha compiuti 70 da pochi giorni ma resta sempre se stesso, ed è probabilmente il complimento più bello che si possa fare a questo cantautore non raro, ma proprio unico. Che ora si lancia in un nuovo tour che toccherà tutta l’Italia legato al disco Il cammino dell’anima, dedicato a Ildegarda di Bingen, mistica medievale tedesca, scienziata, filosofa, teologa, drammaturga, scrittrice, pittrice. “E musicista: mi ha molto toccato che nell’anno Mille una donna scrivesse musica. Parte di queste melodie erano esoteriche e che questo si poteva sottolineare attraverso accorgimenti musicali, ossia con l’impiego della musica verticale, che a quei tempi non c’era, delle sue armonie, delle progressioni. Ho cercato di costruire una suite che avesse un suo inizio e una sua fine musicale, con un preludio e una coda, come si usava una volta. E sarà questa la prima parte dei concerti, per poi passare a tutto il resto del mio repertorio. La scaletta sarà in gran parte obbligata, perché se non suonassi Alla fiera dell’Est, La pulce d’acqua, Confessioni di un malandrino e tante altre canzoni mi dovrei asserragliare nei camerini. Invece così la gente esce felice. E a che altro serve la musica?”.
I 70 anni, come tutti i compleanni con lo zero in fondo, sono l’occasione per fare bilanci. I suoi quali sono?
“Non ne ho, odio fare bilanci, perché vorrebbe dire che la vita si sta avvicinando alla fine, in senso anagrafico e artistico. Invece io non solo sto benissimo ma ho ancora parecchie cose da fare, un lungo cammino che non sarà un’autostrada, ma neanche una viuzza di campagna. I dischi non si vendono più ma io faccio quel che mi pare, riempio i teatri, la gente mi conosce e mi ama. Insomma, se mi guardo indietro sono contento. Ma un bilancio lo farò solo dopo che avrò diretto l’opera Tristano e Isotta, cioè mai. Quindi preferisco guardare avanti”.
Torni a guardare indietro, per un po’, perché una chiacchiera con lei è sempre un’occasione per ricostruire una vita speciale. A cominciare dalla nascita a Cuggiono, il che per molti fa di lei un cantante milanese.
“E invece io sono genovese, cioè tale mi sento, a Cuggiono stava mia nonna materna, contadina, io sono nato in una grande fattoria di quelle di una volta. Ma a tre mesi ero già a Genova e lì ho vissuto una fantastica gioventù nel famoso angiporto, i vicoli eternati da De André, zeppi di personaggi bizzarri e irregolari. Per le scuole materne il Comune usava il metodo Montessori, che stimola i bambini a scoprire il talento artistico. Un pianoforte non lo potevamo avere e il papà mi portò da un maestro di violino, Augusto Silvestri, l’uomo che mi ha cambiato la vita aprendo davanti a me una magica scatola dove dentro c’era questo meraviglioso strumento, lucente, profumato di legno, fu amore a prima vista”.
L’altro incontro fondamentale della sua vita è stato col poeta Franco Fortini.
“Era mio professore alla Statale di Milano, mio maestro, un grande amico. Con un piccolo gruppo di studenti andavamo ogni pomeriggio a casa sua e lui ci faceva scoprire la poesia. Pendevamo dalle sue labbra. Grazie a lui un pomeriggio conobbi Pasolini”.
Che ricordi ha di quell’incontro?
“Si capiva il tormento umano interiore. Fortini gli fece leggere alcune poesie dialettali in friulano, mi colpirono molto”.
Di poeta in poeta, tocca parlare di Esenin: il suo primo grande successo fu la versione in musica di Confessioni di un malandrino.
“Fu una folgorazione: vidi una sua foto e notai una grande somiglianza fisica. Iniziai ad appassionarmi alla sua biografia, era un poeta contadino, come me. E le sue poesie erano strepitose. Certo, la poesia ha già un proprio solfeggio interno ma se si riesce a metterla in musica la si rende più comprensibile”.
Anni dopo si è lanciato addirittura su William Butler Yeats.
“Quello fu un grande fiasco, anche se col tempo è diventato un disco di culto. Ma fu un lavoro di grande soddisfazione personale anche perché fatto con l’approvazione dei figlio di William, Michael, senatore e perfetto conoscitore dell’italiano. E pensi che tanti gli avevano chiesto di mettere in musica le poesie del padre, ma lui aveva detto di no a tutti, anche a Van Morrison: a disco finito Michael gli bloccò tutto. A me diede il permesso”.
E poi c’è Alla fiera dell’Est. Che cosa non è stato ancora detto su questa canzone?
“Ad esempio che è il mio grano di immortalità: nessun bambino conosce il mio nome, ma se gli dici del topolino che mio padre comprò sanno tutto e la cantano. Non mi serve altro: la canzone non è più mia, ma è di tutti. Tanti miei colleghi non hanno un buon rapporto con la loro canzone di maggior successo, temono di essere identificati solo con questa: il mio l’ho ottimo e mi dispiace non averne scritte mille altre così”.
Eppure era un lato B del 45 giri.
“Eh sì, sul lato A c’era Il dono del cervo, che era comunque una gran canzone. Ma non vendeva. E anche ad Alla fiera dell’Est non credeva nessuno, veniva considerata troppo lunga per poter essere trasmessa delle radio. Finché per caso sette mesi dopo andai in tv e la suonai. Un successo a valanga”.
Parliamo del successo, allora. Perché il suo è stato davvero clamoroso, soprattutto negli anni Settanta e Ottanta.
“Naturalmente il successo è bello, ma io mi ritengo un artista di nicchia che ogni tanto incontra il mainstream, e quando non capita vive felice lo stesso. Avrei potuto scrivere cose più semplici e avere ancor più successo? Forse, ma non sarei stato me stesso. E grazie a questo ho fan particolari: i branduardiani sono molto amici tra di loro, e spesso lo diventano grazie a me, io sono un catalizzatore di incontri di gente che poi si piace e mantiene i rapporti personali. E questo mi piace davvero parecchio”.
Lei poi è tra i pochi italiani che ha successo avuto nel mondo. Eppure è ben lontano dallo stile alla Bocelli o alla Ramazzotti e canta cose che in patria molti trovano difficili, per di più con la barriera linguistica. Si è mai chiesto perché?
“Certo: credo che mi considerino profondamente italiano, ma un italiano del Rinascimento. Poi immagino che aiuti l’aspetto fisico, anche se non l’ho mai coltivato per diventare un personaggio. E poi sono unico: non ho epigoni e per fortuna, sennò li avrei ammazzati”.
Ma è vero che all’Olimpia di Parigi le tiravano le rose?
“Sì, i francesi sono così, gettano cose sul palco per manifestare l’entusiasmo. Anche se l’episodio più divertente fu in Belgio: a Bruxelles mi lanciarono di tutto e io mi lamentai che non mi arrivava mai un reggiseno. E il giorno dopo a Liegi me lo tirarono davvero: ma non era usato, aveva ancora il cartellino del prezzo”.
Insuccessi che ricorda?
“Al festival di Parco Lambro, a Milano, a metà degli anni Settanta. Io e Maurizio Fabrizio suonammo Confessioni di un malandrino. Fine del brano: non un applauso, non un fischio, niente, l’indifferenza totale. La risuonammo subito. Stesso risultato. Pensavano ad altro, lì. Prendemmo e ce ne andammo. Ma a proposito del successo mi lasci dire una cosa: sono contento che il mio disco più venduto in assoluto non sia nessuno di quelli che abbiamo citato, ma L’infinitamente piccolo”.
Che nel 2000 dedicò alla vita di San Francesco.
“Continua a vendere, e ci ho fatto 300 concerti in giro per il mondo, finché ho detto che non ne potevo più e che non aspiravo al martirio. Certo, sono stato bergogliano prima di Bergoglio, in un certo senso, ma la sensibilità dell’artista è vedere oltre il muro, andare oltre, precorrere i tempi. Quando i frati francescani mi chiesero di musicare qualche scritto del santo chiesi perché io. Risposta: ‘Dio sceglie sempre i peggiori’”.
Lei invece sa scegliere i migliori: fu la prima persona a credere in Giorgio Faletti come scrittore di canzoni e libri.
“Era solo un comico, per molti, ma io nei suoi personaggi a Drive In coglievo un lato poetico. E lo esortai a comporre testi di canzoni, facemmo due dischi assieme. Quando scrisse Io uccido mi portò al ristorante e mi raccontò tutta la trama per due ore e mezzo, svelandomi anche il colpevole. Da allora diventò una tradizione per ogni romanzo. Mi manca molto, Giorgio”.
Lei stesso ha detto di essere unico. Iconico si direbbe con una parola di moda. Cosa pensa delle tante parodie che le hanno dedicato?
“Che mi sono sempre divertito tantissimo. Mi viene in mente Lo gnegno di David Riondino, Lo struzzo e lo gnomo di Stefano Bollani, e Alla fiera della casa di Tony Tammaro. E qualche volta queste canzoni le ho suonate dal vivo con i loro autori, con Riondino addirittura sul palco del Club Tenco. In fondo le parodie sono degli omaggi: non le dedichi certo a chi non è conosciuto e apprezzato”
* la Repubblica, 18.02.2020 (ripresa parziale, senza immagini e allegati)
APPELLO
PER LA CHIESA DELLA MADONNA DEL CARMINE DI CONTURSI TERME (13 MARZO 2012):
E’ PASSATO TROPPO TEMPO: PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI, PER L’INVERNO E LE PIOGGE GIA’ INCESSANTI, e che tutto degradi in modo irreversibile, è bene intervenire subito con i lavori di manutenzione straordinaria e ordinaria, più urgenti.
CONSIDERATO che oggi, 09 novembre 2019, la Chiesa celebra la dedicazione della Basilica di San Giovanni in Laterano, che è la Cattedrale di Roma ma anche "madre" di tutte le chiese del mondo, e la memoria della monaca dell’Ordine delle Carmelitane scalze, santa Elisabetta della Trinità, è bene che don Salvatore Spingi, il parroco della comunità contursana, non dimentichi l’importanza e la funzione della chiesa della Madonna del Carmine, una vera e propria casa di tutti i cittadini e di tutte le cittadine (battezzati e non battezzate, credenti e non credenti)!!!
Federico La Sala
Perché il pianeta non vuole essere salvato
di Maurizio Corrado (Doppiozero, 11 settembre 2019)
Uno dei mantra consolatori più ricorrenti di questi anni è: Salviamo il pianeta. Tutto viene fatto per salvare il pianeta, dalla scelta del balsamo per capelli a non stirare i vestiti per non contribuire al riscaldamento globale, un’idea degna del miglior Woody Allen prima maniera. C’è un effetto gratificante notevole nell’idea di salvare un pianeta. Nell’immaginario comune, fino a pochi anni fa, solo i supereroi potevano riuscirci. Ora è in atto una massificazione del supereroe, chiunque, con piccoli gesti quotidiani, può salvare il pianeta e quindi essere supereroe. Basta chiedere un cappuccino alla soia e il gioco è fatto.
Chiunque voglia salvare il pianeta non ha che da andare in rete e avrà in una manciata di secondi intere serie di missioni alla portata di tutti: volare di meno, mangiare meno carne rossa, fare la raccolta differenziata, riciclare, andare in bicicletta, smettere di stirare i vestiti, chiudere il rubinetto mentre ti lavi i denti o ti insaponi sotto la doccia, fare meno la doccia e mai il bagno, bere l’acqua di rubinetto anziché quella in bottiglia, lasciare l’auto a casa due giorni a settimana, al supermercato scegliere il prodotto con il packaging più sostenibile, fare il compost in casa, cambiare le vecchie lampadine, acquistare elettrodomestici a risparmio energetico, fare una spesa intelligente, ridurre i rifiuti, ridurre la plastica, usare borse di tela, usare detersivi alla spina e prodotti sfusi, usare la carta riciclata, non stampare mail o altri documenti, tirare lo sciacquone il meno possibile, acquistare mobili di legno certificato, scegliere cosmetici e detersivi ecologici, stendere il bucato, usare pannolini riciclabili, mangiare frutta e verdura, prediligere gli spazzolini in legno riciclabile, non usare la Vespa.
C’è un problema, però. In questa ansia di salvataggio, che nasconde la vera ansia, il terrore dell’estinzione di massa che si profila in un orizzonte sempre più vicino, a nessuno è venuto in mente di chiedersi se al pianeta importi di essere salvato o se ne ha realmente bisogno, perché anche facendo un paio di banalissime considerazioni, sembrerebbe proprio che lui, che noi ormai consideriamo alla stregua di un moribondo, non sia minimamente interessato ai nostri sforzi e non abbia neanche lontanamente l’idea di essere in pericolo, nonostante fra i potenti della terra ultimamente vada molto la fiaba del piccolo fiammiferaio e si scatenino in Sudamerica, Africa e dalle parti del Polo, dove ormai il gas imprigionato nel permafrost non aspetta altro che liberarsi nell’atmosfera.
Quante volte durante la sua vita, oltre quattro miliardi di anni, il pianeta ha avuto temperature estreme, sconvolgimenti, condizioni proibitive per qualsiasi forma di vita o almeno vita concepibile da noi umani? Quante volte una forma di vita è arrivata, si è sviluppata e quindi estinta? I dinosauri sono stati specie dominante per 160 milioni di anni, in questa scala temporale i trecentomila anni di Homo Sapiens sono un tempo risibile ma sufficiente a gonfiarci d’orgoglio e continuare a considerarci in cima a una scala evolutiva che abbiamo ideato noi stessi. Neanche oggi, a un passo dalla fine, abbiamo perso la vecchia abitudine di vederci al centro dell’universo e ci divertiamo a dare alle ere geologiche il nostro nome, orgogliosi, anche se in negativo, di aver cambiato l’aspetto del luogo in cui siamo comparsi.
Hildegard von Bingen, mistica tedesca del XII secolo, nella sua opera Ordo Virtutum fa dire ad uno dei personaggi: “Dio ha creato il mondo e io voglio goderne, senza recargli offesa.” Qui sta un pensiero che oltrepassa in altezza e profondità ogni ecopalliativo consolatorio e coincide con la posizione di Ivan Illich che, in un libro-intervista del 1992 a cura di David Cayley, ci invita a “essere in grado di celebrare il presente e di celebrarlo usandone il meno possibile, perché è bello e non perché è utile a salvare il mondo.” In entrambi è totalmente assente l’idea di sacrificio e punizione che fa da substrato a tutte le azioni che vengono sistematicamente proposte per il presunto salvataggio del pianeta, anzi, vive l’idea opposta, Hildegard parla chiaramente della volontà di godere del mondo, Illich parla di celebrare, che è un’azione che ha a che fare con la meraviglia e la bellezza. Di bellezza parla anche James Hillman in contrapposizione al sacrificio.
Ovviamente tutti sanno che quello che stiamo distruggendo non è il pianeta, che continuerà serenamente la propria esistenza con o senza di noi, ma solo le condizioni che ci permettono di viverci sopra, ma è molto più soddisfacente pensarci come supereroi impegnati a salvare non noi, ma qualcun altro, ancor meglio se l’intero pianeta. Meglio dimenticare che siamo noi a non poter sopravvivere se la temperatura generale si alza di anche solo di tre gradi. Quello che per noi può rappresentare la fine, per altre forme di vita può essere l’inizio di una nuova fase di prosperità. In altre parole, al pianeta non importa nulla di trasformarsi ulteriormente, siamo solo noi a rischiare grosso.
Questa insistenza su Salviamo il pianeta è una forma di esorcismo, una maschera dell’oblio, una rimozione della paura, il rifiuto della consapevolezza di essere arrivati alla fine della prateria, oltre, ci aspetta la scogliera. Abbiamo un solo modo per proseguire: imparare a volare.
Contursi Terme
Il confessore del Papa in visita alla città
CONTURSI TERME. Il sindaco Alfonso Forlenza ha accolto nei giorni scorsi padre Rocco Rizzo, rettore dei Penitenzieri Vaticani e confessore personale di Papa Francesco e del Papa emerito, Benedetto...
di Lucia Giallorenzo *
CONTURSI TERME. Il sindaco Alfonso Forlenza ha accolto nei giorni scorsi padre Rocco Rizzo, rettore dei Penitenzieri Vaticani e confessore personale di Papa Francesco e del Papa emerito, Benedetto XVI. Una visita nel centro storico e alle chiese insieme al presidente della Pro Loco di Ripacandida, Gerardo Cripezzi, all’assessore comunale alla cultura, Gerarda Forlenza, e ad un gruppo di cittadini.
Padre Rocco per l’occasione ha donato alla città alcune copie del suo ultimo lavoro su Giambattista Rossi, “Il parroco santo di Ripacandida”. Tra Contursi e Ripacandida c’è un legame cultura ed ecclesiale, in primis lo stesso patrono, San Donato, vescovo di Arezzo ma anche per aver dato i natali ad altri santi.
Padre Rocco Rizzo è originario proprio di Ripacandida in provincia di Potenza, località che ha dato i natali ai fratelli Rossi, Giambattista e Giovanni, figli di Donantantonio Rossi da Contursi. Padre Rocco ha voluto visitare i luoghi in cui quest’ultimo ha mosso i suoi passi prima di arrivare a Ripacandida.
«Già nel 1992 - spiega l’assessore Gerarda Forlenza - fu fatto un gemellaggio con la cittadina lucana nella ricorrenza della nascita di Giambattista Rossi; ed oggi con la visita di un figlio illustre di Ripacandida si intende proseguire su questa strada per rinsaldare i rapporti che già esistono grazie alle testimonianze del passato».
Giovanni Rossi, arciprete a Contursi dal 1727 al 1751 si adoperò in particolare per alcuni lavori alle chiese, fece compilare l’inventario dei beni che appartenevano della parrocchia, in qualità di vicario generale a Troia conobbe Sant’Alfonso de’ Liguori e infine concorse anche all’apertura della Casa di Materdomini.
Una nipote dei Rossi, suor Maria di Gesù, è inoltre in odore di santità, orfana di padre, dimorò a Contursi presso lo zio materno, don Giovanni. Proprio padre Rizzo sta portando avanti la causa per la sua beatificazione.
* La Città di Salerno, 05 novembre 2018 (ripresa parziale, senza foto).
Ildegarda e la lingua artificiale
di Arnaldo Casali *
L’Esperanto ha un patrono. Anzi, una santa patrona: è Ildegarda di Bingen. La lingua artificiale creata nel XIX secolo dall’oftalmologo polacco Ludwik Lejzer Zamenhof trova infatti un antecedente proprio nella monaca tedesca, tra le più importanti figure della spiritualità femminile medievale. Scrittrice, drammaturga, poetessa, musicista, compositrice, filosofa, cosmologa, naturalista, ma anche consigliera politica, profetessa, fondatrice del monastero Bingen am Rhein, religiosa controcorrente e anticonformista, Ildegarda è stata anche l’autrice di una delle prime lingue artificiali di cui si abbiano notizie, la Lingua ignota, da lei utilizzata probabilmente per fini mistici.
La Lingua ignota utilizza un alfabeto di 23 lettere, definite le ignotae litterae. Ildegarda ha parzialmente descritto la lingua in un’opera intitolata Lingua ignota per hominem simplicem Hildegardem prolata, di cui sono sopravvissuti solo due manoscritti, entrambi risalenti al Duecento: il Codice di Wiesbaden e un manoscritto di Berlino.
Il testo è un glossario di 1011 parole con traslitterazione per la maggior parte in latino e in tedesco medioevale. Le parole sembrano essere per lo più nomi con qualche aggettivo. Sotto l’aspetto grammaticale la lingua ideata da Ildegarda appare come una parziale rilessificazione della lingua latina: è stata forgiata, cioè, adattando parole nuove sulla grammatica latina.
Non si sa se sia mai stata usata da altre persone al di fuori della sua creatrice.
Secondo alcuni studiosi del XIX secolo l’intenzione della monaca tedesca sarebbe stata proprio quella di proporre una lingua universale che unisse tutti gli uomini (per questo motivo santa Ildegarda è oggi come la patrona degli esperantisti), tuttavia oggi è generalmente accettato che la “Lingua ignota” sia stata concepita come un linguaggio segreto, simile alla “musica inaudita” di Ildegarda, della quale ella avrebbe avuto conoscenza per ispirazione divina.
Monaca aristocratica, Ildegarda più volte definì se stessa come “una piuma abbandonata al vento della fiducia di Dio”. Fedele peraltro al significato del suo nome, “protettrice delle battaglie”, fece della sua religiosità un’arma per una battaglia da condurre per tutta la vita: scuotere gli animi e le coscienze del suo tempo.
Non ebbe timore di uscire dal monastero per trattare con vescovi e abati, nobili e principi. In contatto epistolare con il monaco cistercense Bernardo da Clairvaux, come lui rivoluzionò il concetto stesso di monachesimo, uscendo dal chiostro per prendere parte attiva nella vita politica e religiosa del suo tempo.
Ildegarda fu infatti in stretti rapporti con l’imperatore Federico Barbarossa, che poi sfidò con parole durissime quando questi oppose due antipapi ad Alessandro III. L’imperatore, peraltro, non si vendicò dell’affronto, ma lasciò cadere il rapporto di amicizia che fino ad allora l’aveva legato alla mistica.
Nel 1169 Ildegarda eseguì persino un esorcismo su una tale Sigewize, che aveva fatto ricoverare nel suo monastero, dopo che altri religiosi non erano approdati a nulla: nel rito da lei personalmente condotto volle però naturalmente la presenza di sette preti, visto che solo i sacerdoti - secondo la Chiesa Cattolica - sono dotati del ministero di esorcista.
“Nel monastero di Rupertsberg vicino a Bingen nell’Assia in Germania - recita il Martirologio romano - santa Ildegarda, vergine, che, esperta di scienze naturali, medicina e di musica, espose e descrisse piamente in alcuni libri le mistiche contemplazioni, di cui aveva avuto esperienza”.
Ildegarda morì nel 1170 e fu seppellita nel Monastero di Rupertsberg. Quando però nel 1632, durante la Guerra dei Trent’anni, il monastero fu distrutto e bruciato dagli Svedesi, i monaci benedettini portarono via con loro le reliquie nella cappella del priorato di Eibingen, dove ancora oggi si trovano.
Papa Giovanni Paolo II, in una lettera per l’ottocentesimo anniversario della sua morte, salutò in Ildegarda la “profetessa della Germania” e la donna “che non esitò a uscire dal convento per incontrare, intrepida interlocutrice, vescovi, autorità civili, e lo stesso imperatore”.
Il 10 maggio 2012 papa Benedetto XVI la proclamò santa e il 7 maggio dello stesso anno dottore della Chiesa. La sua memoria liturgica cade il 17 settembre, giorno della sua morte. Tale giorno, secondo la tradizione, sarebbe stato “predetto” dalla santa a seguito di una delle sue ultime visioni
Ildegarda nel corso della sua vita ebbe infatti numerosissime visioni, di cui ha lasciato dettagliati resoconti illustrati nei manoscritti Scivias e Liber divinorum operum. Alcuni studiosi hanno suggerito che l’origine di queste visioni sia di tipo neurologico. Lo storico della scienza e della medicina Charles Singer le attribuì ad aure di origine emicranica, teoria resa popolare dal celebre neurologo Oliver Sacks, autore del “Risvegli” da cui fu tratto il film con Robert De Niro e Robin Williams, e scomparso dopo una lunga malattia nel 2015.
* FESTIVAL DEL MEDIOEVO (SENZA IMMAGINI).
Da Caravaggio a Bernini, a Roma il Seicento italiano caro ai re di Spagna
Alle Scuderie del Quirinale una grande mostra sulle relazioni artistiche tra le due culture nel diciassettesimo secolo. Sessanta opere in arrivo dai celebrati palazzi reali di Madrid e dintorni. Sino al 30 luglio
di NICOLETTA SPELTRA (la Repubblica, 13 aprile 2017)
E’ dedicata alle relazioni artistiche tra Spagna e Italia nel XVII secolo la mostra che apre domani, 14 aprile, alle Scuderie del Quirinale, per concludersi il prossimo 30 luglio. Relazioni che nacquero nel corso del dominio spagnolo su diversi territori della nostra penisola, durato oltre un secolo e mezzo, a partire dalla pace di Cateau Cambrésis, datata 1559. In questo lunghissimo lasso di tempo le due culture, quella iberica e quella italiana, ebbero modo di influenzarsi considerevolmente a vicenda.
Il barocco italiano era molto apprezzato da vicerè, principi, ambasciatori e dignitari di corte, che acquistavano o commissionavano opere per inviarle ai sovrani di Spagna, su loro diretta richiesta o, come dono, per riceverne in cambio appoggio e favori, considerato che gli Asburgo erano grandi appassionati d’arte. Queste acquisizioni contribuirono alla nascita, nel 1821, del Museo del Prado, mentre le opere rimaste nelle residenze reali, prima annoverate nel “Patrimonio de la Corona de España”, sono poi divenute, ufficialmente dal 1940, “Patrimonio Nacional”.
La mostra, intitolata “Da Caravaggio a Bernini - Capolavori del Seicento italiano nelle Collezioni Reali di Spagna” e curata da Gonzalo Redín Michaus, attinge proprio dalle importanti collezioni di questo patrimonio, con sessanta opere seicentesche di pittura e scultura che provengono dal palazzo reale di Madrid e dagli altri siti reali: per esempio, l’Escorial, El Pardo, che, dal 1940 al ’75, fu anche la residenza ufficiale di Francisco Franco, e il palazzo reale della Granja di San Ildefonso, conosciuto come la “piccola Versailles”.
In esposizione ci sono pezzi molto noti accanto a opere conservate in luoghi non aperti al pubblico e rimaste inedite fino allo scorso anno, quando furono esposte in una mostra presso la reggia madrilena che ha fatto da fondamentale prologo a quella romana.
Sono molti, infatti, i capolavori che tornano, per l’occasione, nella terra in cui furono concepiti. Tra questi, “La tunica di Giuseppe”, olio su tela di grandi dimensioni realizzato da Diego Velázquez, presumibilmente subito dopo il suo primo viaggio in Italia, tra il 1629 e il 1631, quando aveva ancora negli occhi le immagini dell’arte classica ma anche delle opere caravaggesche e dei maestri della scuola bolognese. Il dipinto, tra i più belli e interessanti della rassegna e perciò collocato in posizione centrale nell’allestimento, illustra con grande chiarezza e compostezza compositiva, come se si trattasse della scena di una rappresentazione teatrale, il momento in cui i fratelli di Giuseppe, dopo averlo venduto come schiavo, raccontano al padre Giacobbe la menzogna della sua morte, mostrandogli una tunica insaguinata. Solo il cane in primo piano, fiutandola, riconosce che il sangue è quello di un capretto e abbaia inutilmente, ignorato da tutti.
Altro capolavoro ben noto è la “Salomè con la testa del Battista” di Caravaggio, proveniente dal palazzo reale di Madrid e databile intorno al 1607, quindi un po’ anteriormente rispetto all’altro quadro caravaggesco a medesimo tema conservato presso la National Gallery di Londra.
Nel dipinto, che faceva parte della collezione di García de Avellaneda y Haro, conte di Castrillo, viceré di Napoli tra il 1653 e il 1659, da uno sfondo verde scuro, riscoperto da un recente restauro, emergono i busti della principessa giudaica che ha tra le mani il vassoio con il capo mozzo del Battista, della madre di lei, Erodiade, e del giovane giustiziere che regge la spada, rappresentati con tutto il contrasto luministico e la drammaticità caratteristici del linguaggio dell’autore.
E a Napoli hanno la loro prima origine anche molte altre opere presenti in questa mostra, dal momento che la città dette un contributo veramente significativo al Patrimonio Nacional spagnolo. Basti pensare a tutti i nomi di artisti attivissimi in terra partenopea che troviamo tra le sale dell’esposizione, quali Jusepe de Ribera, noto anche come “lo Spagnoletto” (molto intenso il suo “San Gerolamo penitente”, del 1638), Andrea Vaccaro, Massimo Stanzione e Luca Giordano. Consistente anche il contributo dalla Collezione Maratti, appartenuta alla poetessa Faustina Maratti, figlia del pittore Carlo, acquistata nel 1722 a Roma per il palazzo della Granja. Da questa raccolta provengono opere dedicate a regine ed eroiche figure femminili, come “Lucrezia si dà la morte” di Carlo Maratti (1685 circa).
Nella sezione dedicata alla scultura risaltano due opere in bronzo del Bernini: un modello della Fontana dei Quattro Fiumi e un Cristo crocifisso, inizialmente molto sottovalutato in Spagna e per motivi ancora ignoti sostituito poco dopo il suo arrivo al Pantheon reale dell’Escorial da un crocifisso di minor valore di Domenico Guidi, allievo di Alessandro Algardi, uno dei principali antagonisti di Bernini. Eppure il grande crocifisso berniniano è ritenuto dalla critica un manufatto di eccezionale qualità, anche perché, come scrive Tomaso Montanari nel catalogo della mostra, è l’unico esemplare di figura completa in metallo, autonoma e mobile, di Bernini che ci sia pervenuta, vale a dire l’unica non legata, fisicamente o anche solo concettualmente, a una architettura o a un complesso monumentale.
Interessantissima, infine, la storia di una delle due opere di Guido Reni presenti in mostra. Oltre a una “Santa Caterina”, c’è la “Conversione di Saulo”, realizzata intorno al 1620. L’episodio, tratto dagli Atti degli Apostoli, è ben noto: mentre cavalca sulla via di Damasco, Saulo, fino ad allora feroce persecutore dei cristiani, viene disarcionato dal cavallo da una luce folgorante accompagnata dal rimprovero di Cristo. Il dipinto, finora quasi sconosciuto, è stato attribuito al suo autore proprio dal curatore della mostra, Redín Michaus, che ne ha ricostruito anche la complicata, prestigiosa e a tratti sfortunata vicenda collezionistica, che ha origine tra le ricche raccolte del cardinale Ludovico Ludovisi e tra le sale della sua villa situata sulle colline del Pincio, a Roma. Guido Reni riprende un tema già affrontato per ben due volte, circa vent’anni prima, da Caravaggio. Tra i due non correva buon sangue e, anche se quando Reni dipinge la sua opera, il rivale è già morto, il linguaggio che adopera, teso alla ricerca del bello ideale, vuole rappresentare una sorta di contrapposizione e di critica al linguaggio, fortemente realistico, dell’altro, e forse un tentativo di oscurarne la fama. E’ l’emblema stesso, in questo senso, di un inquieto passaggio di consegne e del tramonto di un’epoca.
Ildegarda di Bingen
Maestra di sapienza nel suo tempo e oggi
Autore: Michela Pereira
ISBN: 978-88-6099-313-7
Pagine: 175
Formato: 14 x 21
Anno: 2017
Anteprima: Disponibile
Michela Pereira, tre le massime esperte a livello internazionale sulla figura di Ildegarda di Bingen (1098-1179), riversa in questa pubblicazione quarant’anni di frequentazione delle opere della mistica renana. Con un approccio che unisce l’alto livello scientifico a quello divulgativo, presenta in quadri successivi il pensiero e le opere di Ildegarda: la chiamata, la missione, la visione cosmica e la cura del corpo umano, l’eredità.
Un ulteriore aspetto che fa di questo libro una vera e propria novità è la traduzione, per la prima volta nella nostra lingua, di alcune delle lettere più significative inviate da Ildegarda a suoi grandi contemporanei (come Bernardo da Chiaravalle) o a monache e monaci che a lei si rivolgevano come guida spirituale. Documenti che ancor più mettono in risalto l’autorità riconosciuta a Ildegarda, ieri come oggi (Dottore della Chiesa dal 2012, quarta donna dopo Teresa d’Avila, Caterina da Siena e Teresa di Lisieux).
«La magistra delle novizie di Disibodenberg, la fondatrice e badessa di Rupertsberg e di Eibingen, ha saputo riconoscere la trascendenza nell’esperienza femminile, rintracciando qualcosa di fondamentale che le culture patriarcali hanno soffocato e finito con l’ignorare - che cioè esiste un aspetto femminile del principio divino, il quale si esprime nel creato, manifestandosi nella bellezza luminosa della materia vivificata dallo spirito, che in essa si cela e attraverso essa si lascia intravedere.» (p. 161)
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE. Sul tema, la prefazione di Fulvio Papi e parte della premessa del lavoro di Federico La Sala
Le Sibille di Contursi hanno parentele più celebri nella Cattedrale di Siena, nell’appartamento Borgia in Vaticano, nel Tempio Malatestiano di Rimini, nella Cappella Sistina di Michelangelo. La pittura disegna l’ eclettismo ermetico-cabalistico-neoplatonico rinascimentale (...)
Ildegarda di Bingen (1098-1179)
Badessa tra i leopardi
Le vivide «Visioni» della santa benedettina, un ricco palinsesto di animali, edifici, citazioni e allusioni bibliche e apocalittiche
di Gianfranco Ravasi (Il Sole-24 Ore, Domenica, 04.09.2016)
Non esitava a tessere un rapporto epistolare amichevole, lei monaca benedettina, con Federico Barbarossa, nonostante la Chiesa detestasse l’imperatore. Ma non temeva di attaccarlo quando egli aveva sostenuto l’elezione di due antipapi contro il legittimo Alessandro III, il senese Rolando Bandinelli.
Stiamo parlando della “Sibilla renana”, come fu definita Ildegarda di Bingen, monaca benedettina, nata in Assia nel 1098, donna di straordinaria genialità, paradossalmente alimentata anche da una sorta di emicrania permanente che la rendeva un’ardita visionaria, badessa dal polso fermo e fin autoritario, viaggiatrice e predicatrice sorprendentemente autonoma in un mondo maschilista. Eppure, mentre era ancora in vita, nel 1147 (morirà nel 1179), nientemeno che un papa, il pisano Eugenio III, leggerà durante il sinodo di Treviri brani del suo capolavoro, Scivias.
È proprio quest’opera, articolata in tre libri di visioni e rivelazioni, a costituire il pannello centrale del trittico di scritti ildegardiani - gli altri sono il Libro dei meriti della vita e il Libro delle opere divine - che ora vengono tradotti dal latino e didatticamente proposti e rielaborati da Anna Maria Sciacca.
La studiosa accompagna il lettore attraverso il necessario apparato introduttorio ed ermeneutico perché chi legge queste pagine è come se si affacciasse su un abisso di luce, dove si ergono palazzi quadrangolari, si ramificano numerologie da decrittare, si agitano leopardi, leoni, lupi, orsi, cervi, agnelli e strisciano serpi e granchi, si procede lungo tappe cosmiche. Ma soprattutto si aprono orizzonti mistico-teologici disegnati su un palinsesto di citazioni o allusioni apocalittiche bibliche.
Confessa, infatti, Ildegarda: «Per volontà divina il mio spirito nella visione sale fino alle stelle, in alto sopra le differenti regioni, in luoghi lontani da dove resta il mio corpo».
Parole che descrivono il significato etimologico dell’“estasi” per cui il carnale si trasfigura in spirituale. Basti soltanto ascoltare questa invocazione incastonata nella X visione di Scivias: «Signore, dammi per tua forza il dono del fuoco, che in me estingua la passione della perversità, per bere con giusti sospiri all’acqua della fonte viva, che mi faccia godere della vita eterna, io che sono cenere e polvere, che guarda più alle opere delle tenebre che a quelle della luce».
Il testo scritto o dettato rivela questo intreccio dinamico che potrebbe essere espresso con un bellissimo e curioso aggettivo usato da Ildegarda, symphonialis: è la “sinfonia”, l’armonia che sa incrociare il mondo e la persona, la materialità e l’anima, il finito e l’assoluto, il transito dalla turbida nubis, la nebulosa torbida del peccato, allo splendore cristallino dello spirito puro ove echeggia la voce divina rivelatrice.
In questa linea l’abbadessa era riuscita nelle sue varie opere a spaziare senza imbarazzo anche nell’orizzonte della botanica trasformandosi in una sorta di erborista; conseguentemente non aveva esitato ad applicarsi alla farmacopea vegetale approdando alla medicina, tant’è vero che una delle sue opere s’intitola Liber subtilitatum diversarum creaturarum, bipartito in un trattato di Physica e in un De causis et curis; era affascinata dalla poesia, dalla musica e persino da forme teatrali e si era consacrata pure all’esegesi di testi cristiani classici come la Regola di s. Benedetto e il Simbolo di fede di s. Atanasio.
Ma, spezzate le reti pur fulgide della sua razionalità, si slanciava verso i cieli dell’intuizione e della contemplazione pura. È appunto questo il caso delle sue visioni, un arcobaleno mistico che proprio in Scivias - titolo enigmatico, probabile anagramma del latino Scito vias Domini, “conosci le vie del Signore” - si dispiega in tutte le sue iridescenze cromatico-tematiche. Non per nulla il codice archetipo della tradizione manoscritta di quest’opera - conservato a Wiesbaden nella Hessische Landesbibliothek fino al 1945, quando fu distrutto da un incendio (per fortuna esisteva una fotoriproduzione) - è costellato da 35 miniature che cercano di cristallizzare in scene pittoriche l’incandescenza visionaria dell’autrice, dimostrando, così, quella “sinfonialità” tra visibile e invisibile, tra esperienza terrena e ascesi trascendente.
Non siamo, perciò, in presenza della pura e semplice attestazione di una vicenda spirituale personale ma di una parabola apocalittica che cerca di rispondere ai quesiti radicali sul senso dell’essere e dell’esistere umano ma che si affaccia anche sul divino.
Infatti l’itinerario simbolico dell’opera s’incrocia col mistero cristiano: dalla Trinità all’incarnazione di Cristo, dalla Chiesa, corpo di Cristo, alla Gerusalemme celeste, dall’eucaristia alle Scritture, dalle virtù all’escatologia. Proprio per questo, da un lato, è necessario lasciarsi conquistare, trasportare e persino cullare dalle immagini, ma d’altro lato, bisogna trapassarle e allertare l’intelligenza per seguire la filigrana teologica sottesa che la stessa Ildegarda si premura di esplicitare.
Ecco un esempio dedicato al tema trinitario: «La luce senza origine, cui nulla manca, è il Padre. La forma d’uomo di color zaffiro, senza macchia d’imperfezione, invidia e iniquità, indica il Figlio ... Tutta questa luce, ardente di un fuoco dolcissimo, privo di ogni forma di arida e tenebrosa mortalità, rappresenta lo Spirito Santo, grazie al quale l’Unigenito di Dio fu concepito secondo la carne ... Lo Spirito infonde nel mondo la luce del vero splendore».
Ci siamo soffermati sull’opera più nota, Scivias, ma di Ildegarda in questo volume sono raccolti altri due testi. Innanzitutto il Libro dei meriti della vita che mette in scena il conflitto tra i vizi che irretiscono e conquistano la creatura umana, e le virtù che vi si oppongono.
Lo sguardo della santa - canonizzata nel 2012 da papa Benedetto XVI che l’ha proclamata anche Dottore della Chiesa- si proietta sull’oltrevita, puntando soprattutto sul purgatorio, l’unico stato aperto alla descrizione, essendo temporale e quindi transitorio e narrabile, mentre inferno e paradiso, essendo sotto il regime dell’eterno, sono solo pensabili ma non rappresentabili. Anche per la catarsi purgatoriale è, comunque, la visione il canone descrittivo, come accade pure per la sequenza malefica dei vizi affidati a ben 35 visioni.
Il trittico offerto da Anna Maria Sciacca si conclude col Libro delle opere divine, anch’esso affidato all’approccio visionario e destinato a illustrare l’azione divina a partire dall’incipit della creazione fino all’explicit dell’escatologia. Un’imponente architettura cosmica regge queste pagine (si leggano i passi descrittivi dei venti la cui rosa è, però, simboleggiata attraverso un pittoresco bestiario), un atlante che ha il suo asse centrale nel Creatore.
Dalla lettura della trilogia ildegardiana si esce ammirati e frastornati al tempo stesso, ed è curioso tentare - come è stato fatto e lo si ripete ora in questo volume - una comparazione sinottica con la Divina Commedia ove i contatti, però, più che essere diretti sono da ricondurre alle matrici e alle fonti comuni a cui l’abbadessa e Dante attingevano per i loro differenti percorsi intellettuali, poetici e spirituali.
La spiritualità carmelitana
L a B e a t a V e r g i n e M a r i a e i c a r m e l i t a n i *
La consapevolezza mariana della propria identità spirituale e carismatica, infatti, appare già agli arbori della storia dell’Ordine carmelitano, quando agli inizi del XIII secolo unmaria patrona dei carmelitani gruppo eterogeneo di pii cristiani decise di dimorare sul Carmelo per condurre vita eremitica a imitazione del profeta Elia, e lì intitolare la loro prima chiesetta a "Santa Maria".
Non fu un caso che quei primi eremiti, da cui proviene tutta la famiglia carmelitana, dedicassero proprio alla Vergine il loro oratorio, perché forte era percepito il suo legame col Carmelo nella prima tradizione cristiana: la bellezza di quel monte in primavera rimandava inevitabilmente alla bellezza di Maria, a lei elevavano gli affetti quando leggevano dal profeta Isaia: «Le è data la gloria del Libano, lo splendore del Carmelo e di Saron» (Is 35,2).
Numerose al tempo, erano anche le leggende sorte intorno alla vita di Maria, alcune delle quali volevano che Maria ancora giovinetta, si recasse più volte sul Carmelo, insieme alle altre vergini sue compagne, e lì decise di consacrarsi in perpetua verginità al Signore.
In un’epoca in cui cominciava a emergere l’interesse per l’umanità di Cristo, la spiritualità mariana tese a focalizzare l’attenzione sui misteri della natività e infanzia di Gesù, ma anche sulla sua vita pubblica e passione.
Maria veniva contemplata come Madre di Dio, mediatrice di grazie presso Dio e per favorire la sua potente intercessione i carmelitani «compresero che dovevano completamente porsi al suo servizio, come vassalli alla sua signora. Tale elemento mariologico, trova riferimento anche nell’arte iconografica del tempo, in cui la Madonna veniva raffigurata con in braccio Gesù ancora infante in atteggiamenti di tenerezza reciproca.
La tradizione vuole che sia di questo periodo l’icona della Vergine Bruna, proveniente, si dice, proprio dall’eremo sul Carmelo e ora custodita presso la Basilica del Carmine Maggiore a Napoli. A prescindere dall’attendibilità di questa fonte storica, ciò che è vero è che l’icona rispecchia un modo di raffigurare la Vergine proprio dell’epoca medioevale, è l’Eleusa, la Coccolatrice, e quegli atteggiamenti di tenerezza col figlio non sono preclusi ai suoi fedeli devoti, anzi essi stessi col loro servizio ne contraccambiano l’affetto.
Col passare del tempo, il porsi in ossequio di Maria, fece maturare in quei carmelitani, la consapevolezza della protezione di Maria, ella, allora, non era più solo per loro la Madre di Dio e Madre dei cristiani, ma anche la loro potentissima Patrona.
Col passare degli anni la relazione dei carmelitani con Maria è cresciuta in intimità, ella non è più solo la Patrona alla quale si deve il servizio di tutta una vita, ma è anche la Sorella, compagna di viaggio nel nostro peregrinaggio verso Dio; è la Maestra che ci educa lungo le vie dello spirito; il Modello da imitare.
* Fonte: La spiritualità carmelitana (ripresa parziale: senza foto).
La vita esemplare di Fabio Maniscalco, archeologo in trincea
di Tomaso Montanari (Nazione Indiana, 29 giugno 2016)
Oro dentro. Un archeologo in trincea: Bosnia, Albania, Kosovo, Medio Oriente è un libro che bisognava scrivere: Laura Sudiro e Giovanni Rispoli lo hanno fatto nel migliore dei modi. L’ ‘oro dentro’ del titolo è quello, metaforico, di chi ha il cuore abbastanza grande da spendere la propria vita per salvare un bene comune (proprio quel patrimonio culturale: e cioè la memoria e il futuro, di paesi in guerra). Ma è anche quello, purtroppo letterale, che l’uranio impoverito delle bombe Nato esplose in Kosovo ha fatto penetrare, insieme ad altri metalli, nel corpo in cui batteva quel cuore: fino a ucciderlo. Sono queste le due terribili facce della breve, ma meravigliosa, vita di Fabio Maniscalco.
Se questo Paese avesse ancora un servizio pubblico televisivo, la figura di Fabio (che non ho avuto la fortuna di incontrare di persona, ma che dopo aver letto questo libro mi sembra di conoscere da sempre) dovrebbe essere al centro di un racconto fatto di documentari, rigorose inchieste giornalistiche e (perché no?) anche di fiction capaci di far conoscere a tutti un italiano di cui essere, finalmente, fieri. Un italiano da cui imparare qualcosa.
Questo libro, d’altra parte, fa esattamente questo: anzi, fa qualcosa di più. È sempre raro (ma oggi è rarissimo) che un libro riesca a storicizzare la figura di un contemporaneo senza affogarla nella retorica, o senza ridursi ad un’inchiesta o ad una denuncia. Oro dentro, invece, ci riesce: è come se la materia della nostra vita quotidiana, la nostra cronaca, le nostre esistenze così seriali, simili, piccole e in fondo irrilevanti riuscissero qui ad apparire in una luce esemplare. Si arriva all’ultima pagina commossi, e profondamente turbati: ma soprattutto pieni di una fiducia rinnovata nelle possibilità di ognuno di noi.
Laura Sudiro e Giovanni Rispoli sono riusciti a trasmetterci il messaggio essenziale della vita di Fabio Maniscalco: e quel messaggio è che un singolo individuo può fare la differenza. Sempre: e - pensate! - perfino in Italia. Anche di fronte a sistemi corrotti e impermeabili (la nostra povera università), o ben decisi a non farsi cambiare (l’esercito): e perfino nel fuoco di terribili conflitti armati, mossi spesso da interessi imperscrutabili, giocati così in alto sopra le nostre teste.
Questo libro, dunque, fa quello che dovrebbero fare la scuola, o per l’appunto l’università: farci capire (quando siamo ancora in tempo) che la nostra vita è preziosa, importante. Forse essenziale. Può essere il granello che finalmente inceppa la macchina del sistema. Può essere quel millimetro in più che riesce a fare saltare lo stato delle cose. Può lasciare un segno. Può fare, davvero, la differenza.
Fabio cresce a Napoli, dove la progressiva distruzione del patrimonio artistico pare - come molte altre cose - fatale, irreversibile, immutabile. Se crolla un Lungarno nella mia Firenze (giustamente) il mondo tiene il fiato sospeso: ma se l’ennesima chiesa storica della Napoli in cui ho scelto di insegnare sprofonda nell’ennesima voragine, la notizia non arriva nemmeno al telegiornale regionale. Non inganni la propaganda di Pompei che rinasce e della Reggia di Caserta che risplende: chiunque vive in Campania conosce il vero stato delle cose.
Ma Fabio - che lo conosce come nessuno - non si arrende, e non si abitua: studia, invece. E non per fuggire: ma per cambiare le cose. A Napoli succede. C’è un bellissimo film (La seconda natura, di Marcello Sannino) che racconta l’esperienza di Gerardo Marotta e dell’Istituto di studi filosofici di Napoli. «La rivoluzione si fa studiando»: è questa la frase chiave del film. È questo l’unico modo di uscire dalla nostra condizione servile di uomini ad una sola dimensione - quella economica. L’unico modo di combattere e cambiare una classe dirigente dominata - dice Marotta - dalla «regina Ignoranza».
La voce profetica di Marotta e la testimonianza eroica di Fabio Maniscalco arrivano all’Italia e all’Europa dal luogo da cui meno te lo aspetteresti: dalla Campania, che lo stesso Marotta definisce la pattumiera d’Europa, una regione popolata di ombre, di condannati a morte. È da questa terra - per millenni la più bella e feconda d’Europa -, da questa terra oggi ridotta ad un pozzo di veleni, da questa terra che avrebbe bisogno di tutto, che si alzano queste voci: fragili, e insieme fortissime.
La sua voglia di riscatto spinge Fabio, dopo una laurea in archeologia alla Federico II, ad andare a difendere il patrimonio dove le condizioni sono ancora più estreme: ufficiale a Sarajevo, e poi nel Kosovo. Ed è impossibile non pensare che sia stata la fragilità di Napoli ad insegnare a Fabio l’amore per le fragilità ancora più radicali. A Napoli, uno come Fabio non diventa egoista. Anche se Fabio è tormentato da quello che gli autori chiamano «la spirale del precariato»: una delle abissali vergogne dell’Italia presente. Ma proprio qui, in Italia, Fabio scopre che non ci si salva da soli.
In compenso è da solo, a mani nude, che il tenente archeologo Fabio Maniscalco riesce a fare quello che nessuno Stato sovrano sembra interessato a praticare: attuare l’articolo 7 della Convenzione Internazionale dell’Aja del 1954, che prevede che ogni esercito abbia un nucleo specializzato nella tutela del patrimonio culturale. È un’idea semplice e rivoluzionaria: mettere la conoscenza, la cura, la tutela nell’occhio del ciclone dei conflitti. Frivolezze? Preoccupazioni delle anime belle? No: sacrosanta sollecitudine di chi sa che, passata la guerra, la ricostruzione morale e culturale sarà impossibile se non potrà basarsi su un patrimonio monumentale ancora vivo e condiviso. È la lezione dell’Italia del dopoguerra: e Fabio la ricorda.
Ma Fabio è uno dei pochissimi: sono temi davvero marginali nel discorso pubblico. E la pubblica opinione non ha strumenti per giudicare. Per esempio, i caschi blu dell’arte voluti dal ministro Franceschini e accolti dall’Unesco sono una soluzione, o sono solo l’ennesimo spot? Quanto avrei voluto leggere un editoriale di Fabio Maniscalco, per poterlo capire!
E intanto nessuno ne parla. Fa impressione ricordarlo oggi, di fronte alle devastazioni dei barbari del sedicente Stato Islamico, ma anche gli stati europei - anche l’Italia - hanno contribuito, direttamente o indirettamente, alla distruzione di un’enorme fetta del patrimonio culturale del Kosovo. Lo sappiamo? Esiste qualche organo di stampa che sia interessato a denunciarlo, a documentarlo, a ricordarlo? Pare di no.
Fabio Maniscalco lo sapeva, e per anni ha combattuto con tutte le sue forze: andando sul campo, documentando, fotografando, studiando, fondando osservatori, scrivendo ai governi, mobilitando la pubblica opinione. Un archeologo, uno studioso, un soldato: ma prima un cittadino. Un cittadino esemplare.
Dietro tutto questo c’era una convinzione profonda: lottare per il patrimonio, significa lottare per i diritti fondamentali, per la salute psichica e fisica delle persone. Anche questa è una lezione imparata a Napoli: il veleno nella terra e la distruzione dei monumenti sono due facce della stessa medaglia. Quando dalla terrazza della Reggia di Carditello, devastata fino a poco tempo fa dalle razzìe della Camorra, si alza lo sguardo verso la campagna si vede un turbine di gabbiani: che non segnala il mare, ma la discarica di Maruzzella, criminalmente realizzata su un terreno acquitrinoso in cui il percolato penetra fino alla falda, avvelenando i frutteti circostanti, e compromettendo per decenni la catena alimentare, e dunque l’uomo. In questa distruzione simultanea dell’ambiente, del paesaggio, e del patrimonio storico e artistico pare di scorgere davvero «il cadavere della patria» (per usare un’espressione che Raffaello adoperò per descrivere la Roma classica devastata dai pontefici medioevali), cioè il volto sfigurato dell’Italia.
Fabio Maniscalco l’aveva capito: la lunga guerra per l’ambiente (usiamo un’espressione di Elena Croce), la lunga guerra per il patrimonio culturale, è anche la guerra per la nostra salute fisica e mentale. Come in un mito antico e crudele, Fabio ha sperimentato questa intima unione sulla propria pelle, fino a morirne: non basta essergli grati, bisogna proseguire il suo lavoro.
Aver scritto questo libro è stato il primo passo per farlo. Ora tocca a noi.
Mistica, filosofa, poetessa, la badessa di Bingen visse nel XII secolo e illustrò le sue profezie che anticipano Jung
Il Libro Rosso di Ildegarda la donna che volò via dal Medioevo
di Silvia Ronchey (la Repubblica, 04.06.2016)
«Simon Pietro disse loro: Maria si allontani da noi, poiché le donne non sono degne della Vita! Gesù disse: ecco, io la trarrò a me per renderla maschio, perché anche lei divenga uno spirito vivo simile a voi maschi. Perché ogni femmina che diventerà maschio entrerà nel Regno dei Cieli». È il capitolo 121 del “Vangelo di Tommaso”, il più famoso dei testi gnostici ritrovati nel 1945 a Nag-Hammadi. L’insegnamento lasciato sepolto dal V secolo nell’apocrifo gnostico bizantino riaffiora in uno scenario medievale tedesco. Siamo all’inizio del XII secolo, in riva al Reno. La monaca benedettina siede davanti a uno scrittoio, sorretta dall’alto schienale di una sedia. È pronta a scrivere o trascrivere qualcosa: tiene in mano l’occorrente, due tavolette di cera nera a due colonne ciascuna. È nera anche la veste claustrale, su cui è drappeggiato
un mantello marrone, e le maniche della cotta bianca stringono i polsi che reggono lo stilo.
È lei stessa a ritrarsi così, nella miniatura in cui la grande ruota del firmamento scintilla di carminio e lapislazzulo, schiacciando in basso, in un piccolo riquadro illuminato, il minuscolo autoritratto dell’autrice. Il viso è rivolto verso la parte principale del foglio, che la sovrasta con la visione da cui traboccano “squame di fuoco lucido”, a ferirla «sotto forma di scintille».
Ildegarda, badessa di Rupertsberg presso Bingen nell’Assia, studiosa di scienze naturali, di medicina e di musica, nonché dello pseudo Dionigi Areopagita, scrittrice, compositrice, teurga, drammaturga, era dotata di talenti multiformi e affetta da violenti disturbi. «La forza delle visioni misteriose, segrete e stupefacenti » la tormentava da quando aveva cinque anni. Tacere ciò che vedeva e sapeva le aveva fatto trascorrere una giovinezza macerata nell’ansia e diventare col tempo sempre più «misera e debole, figlia di enormi sofferenze, tormentata da molte e gravi infermità corporali», come annota negli incipit dei suoi cosiddetti libri profetici, ora tradotti nella raccolta che consegna integralmente al lettore italiano le sue visioni: lo Scivias, il Liber vitae meritorum e il Liber divinorum operum (Ildegarda di Bingen, Visioni, a cura di Anna Maria Sciacca, prefazione di Enrico dal Covolo, Castelvecchi).
Dettate da una misteriosa voce e da lei solo compitate, per essere a loro volta trascritte con l’aiuto del vecchio monaco segretario Volmar, le visioni di Ildegarda sono affiancate in due manoscritti - quello di Wiesbaden, perito nell’incendio del 1945 e sopravvissuto solo in copia, e quello della Biblioteca Governativa di Lucca, identificato da Tritemio e ancora oggi consultabile in originale - dalle formidabili esplosioni di forma e colore delle miniature, che risalgono all’autrice e illustrano dal vero i paesaggi di una frastagliata geografia dello spirito.
Nel nastro policromo dell’illustrazione scorrono incessanti le schegge visive, “appuntite, piccole e grandi”, di una tradizione universale, si dilatano “sfere d’ombra e cerchi di luce”, roteano mandala, si serrano labirinti, si schiudono meandri, e le geometrie astratte si popolano di figure ermetiche e di presenze animali. Un bestiario che si è tentato invano di interpretare, accostandolo ora a quello dell’Apocalissi di Giovanni, ora al medioevo fantastico delle cattedrali tedesche, ora ai bestiari, agli erbari, alle tabulae della tradizione tardoantica, o perfino alle allegorie della Commedia dantesca o al Libro rosso di Jung.
«Nel millecentoquarantunesimo anno dall’Incarnazione di Gesù Cristo, quando avevo quarantadue anni e sette mesi», si legge nella prefazione allo Scivias, «un globo di fuoco abbacinante, proveniente dal cielo aperto, invase tutto il mio cervello e pervase il mio cuore e il mio petto come una fiamma che non ustiona, ma scioglie nel suo calore immenso».
Ildegarda udì una voce chiamarla homo: «L’uomo che ho voluto e ho scosso per mio arbitrio e capriccio con meraviglie più grandi dei segreti degli antichi», diceva la voce, «l’ho steso a terra, perché non si rialzasse in esaltazione di spirito. Il mondo non ha prodotto in lui né gioia né diletto, né progresso nelle cose che gli erano sue, perché l’ho privato di qualsiasi aggressività e ostinazione, facendolo rimanere timoroso e spaventato, senza alcuna sicurezza di sé, in preda al senso di colpa».
Fu così che Ildegarda si consentì di consegnare alle parole e alle immagini ciò che fino ad allora non aveva «manifestato a nessuno, ma serbato per tutto il tempo in silenzio».
Impiegò dieci anni a trascrivere ciò che in quei «momenti rovinosi del suo cuore » lei, uomo, vedeva e sentiva non «secondo l’intelligenza dell’inventio umana e nemmeno secondo la volontà di comporre umanamente, ma secondo il tenore della parola così come è voluta, mostrata, descritta» da un’entità più grande e profonda «che sa, vede e dispone ogni cosa nel segreto dei suoi misteri»: secondo la visione «non del cuore o della mente, ma dell’anima», còlta «non in sonno né in estasi», ma «da sveglia, con occhi e orecchie umani», e però “interiormente”, in “luoghi scoperti” dentro di sé. È in questo modo che Ildegarda diventò maschio e realizzò il comandamento gnostico del Vangelo di Tommaso.
Nel secolo di Federico Barbarossa, che consigliò e sfidò, e di Bernardo di Chiaravalle, con cui corrispose e che la ammirò, ingaggiò le gerarchie ecclesiastiche cattoliche con tale coraggio e tanta abilità da non venirne mai considerata eretica, ma anzi eletta a autorità dottrinale e ascoltata nei sinodi. Le sue prediche risuonavano a Treviri, a Colonia, a Liegi, a Magonza, a Würzburg, a Metz; i suoi drammi e poemi sacri nelle chiese di tutta Europa.
Era detta la Sibilla del Reno anche per la chiaroveggenza che esercitava in politica, quando imperatori e papi le si rivolgevano a consulto, di persona o nelle lettere ancora oggi conservate dal suo prezioso epistolario.
La scrittura “maschile” di Ildegarda è solo uno degli esempi di quella grande e formidabile tradizione femminile, fino a poco tempo fa misconosciuta o marchiata dal sigillo della pura irrazionalità, che è la letteratura delle mistiche. Ildegarda è solo un combattente, anche se indubbiamente di alto grado, nell’esercito di donne colte e sofisticate, dal carattere libero e dalla prosa superba, che da Eloisa a Margherita Porete, da Angela da Foligno a Brigida di Svezia, da Caterina da Siena a Maria Maddalena de’ Pazzi, da Margherita Maria Alacoque a Veronica Giuliani alle due Terese, d’Avila e di Lisieux, ha sfidato le oppressioni della cultura dominante. Donne che furono giudicate anoressiche, isteriche, forse epilettiche, ma attraverso le quali l’intelligenza e l’indipendenza femminili hanno sfidato secoli di oscurità.
«È donna chi non ha l’intelletto maschio che sradica dalla sua memoria tutte le passioni, che sono femmine, chi non sa servirsi di quella sola collera, che è potenza dell’anima distruttrice dei pensieri», aveva scritto nel quarto secolo Evagrio Pontico nelle sue Centurie (47).
In questo senso, quella delle sante mistiche è il più grande esempio, forse, di letteratura autenticamente maschile.
Ildegarda, l’umanesimo ante litteram
di Carlo Ossola (Avvenire, 09 febbraio 2015
Breve fu il Medioevo, tra la fine della romanità e la Rinascita carolingia: il rifiorire delle cattedrali e dei monasteri, dei commerci e degli studi, è nuovamente la restituzione alla parola della «leggibilità del mondo», come ha scritto Hans Blumenberg.
Il Medioevo sembra già ricordo alla corte di Carlo Magno, tra fine VIII e inizio IX secolo: le strade tornano percorribili, i boschi e i fiumi meno insidiosi; sì che Alcuino può persino scrivere, della sua lettera, alla sua Cartula: «O fogliettino, presto, corri sui flutti oltre il mare,/ giungi coi venti all’impetuosa foce del pescoso Reno/ tuffandoti nel vorticoso flusso delle onde marine/ [...] / Verrà forse a incontrarti il mio caro Albrico lungo il fiume» (Alcuino, Carmi dalla corte e dal convento). E Hildegard von Bingen (1097-1179) fece poesia di tutte le feste dell’anno liturgico, Symphonia degli angeli e delle vergini, in dignità di impalpabile lume dipingendo l’umanità di Maria: O flos, tu non germinasti de rore... «O fiore, non sei germogliato da rugiada/ né da gocce di pioggia e neppure l’aria/ t’ha sfiorato: a produrti sboccio di virgulto/ fu il divino splendore».
Compimento del trittico profetico e mistico della santa, il Liber divinorum operum scritto nel decennio 1163-1174 completa il Liber vitae meritorum e Scivias, ai quali va aggiunta la Symphonia harmoniae caelestium revelationum. Ma l’opera di Ildegarda è vastissima e si articola dall’enciclopedia (Liber subtilitatum diversarum naturarum creaturarum) agli alfabeti artificiali (Lingua Ignota per hominem simplicem Hildegardem prolata), dal teatro sacro (Ordo virtutum) a un esteso Epistolario che è specchio acuto della vita politica e religiosa del XII secolo.
Il Libro delle opere divine inscena un’imponente galleria di visioni, un arsenale figurativo che rinnova l’immaginario europeo, vivifica la tradizione del testo miniato con tavole di purpurea e dorata plenitudine che fondano l’arte d’Occidente (basterebbe pensare al magnifico Ms. 1942 della Biblioteca Statale di Lucca, della prima metà del secolo XIII: cfr. l’illustrazione in questa pagina).
L’uomo è già - come si vede nella figura - umbilicus mundi, centro dei rapporti che collegano tutta la creazione al disegno divino, perfetta corrispondenza di microcosmo a macrocosmo: «Come l’ombelico è il punto di forza di tutte le viscere che gli aderiscono, e la circonferenza della Terra è il ricettacolo di tutte le altre creature, così tutte le azioni del corpo e dell’anima, sia buone che cattive, riguardano l’anima» (Capitoli della quarta visione della prima parte, LXXVI). Similmente: «La Terra è resa stabile con le pietre e con gli alberi, e l’uomo è stato fatto in maniera analoga; perché la sua carne è come la terra e le sue ossa prive del succo del midollo sono simili a pietre, mentre le ossa che contengono il midollo sono come alberi. Per questa ragione l’uomo edifica la sua dimora in conformità alla propria natura, con la terra, le pietre e il legno» (Quarta visione della prima parte, LXXXII). E appena oltre: «L’essere umano siede infatti sul trono della terra e comanda a tutto il creato, che ad esso obbedisce ed è sottomesso; ed è superiore a tutte le creature» (ivi, C).
Non c’è bisogno dunque di attendere l’Umanesimo per ritrovare l’uomo al centro del creato e delle cure divine: perfezione e promessa, poiché le visioni non sono che anticipazioni di una "edificazione" armonica nella plenitudine: «Infatti i princìpi e le finalità dei misteri di cui si è parlato, le loro azioni e i loro significati, hanno un unico scopo, l’educazione dell’uomo [...]; tutto ciò che la scienza di Dio indica come conveniente alla salvezza dell’anima lo portano a effetto per la sua edificazione» (Seconda visione della prima parte, XXIX).
Sorge già ora - come poi in Dante - la contemplazione della «magnificenza di Dio» che si compiace nelle opere del proprio amore: «Poiché la magnificenza della sua carità è, nell’eccellenza e nello sfolgorare dei suoi doni, tale da trascendere ogni capacità di comprensione della scienza umana» (Prima visione della prima parte, III). Ildegarda inoltre, interpretando con ardita libertà il testo del Genesi, toglie alla creazione di Eva dal corpo di Adamo l’abituale "secondarietà", per farne anzi primizia di primavera e redenzione: «Dio creò il maschio dalla terra e lo trasformò in carne e sangue; ma la donna, presa dall’uomo e carne della sua carne, non dovette trasformarsi in qualcosa d’altro. E costoro nello spirito della profezia seppero, per ispirazione dello Spirito santo, che la donna avrebbe partorito il figlio di Dio come un fiore che cresce nell’aria dolcissima» (Seconda visione della terza parte, III). La donna allora diviene, nella Vergine, aurora di un mondo di grazia, tenero "germe" di eternità: «Ondo il dolce germoglio,/ di Lei il Figlio,/ per la porta del suo ventre/ ha aperto il paradiso./ E il Figlio di Dio/ traversandone i segreti/ è sbocciato come aurora» (Symphonia, De Sancta Maria).
Ildegarda è una «voce che viene dalla luce vivente», una freschezza sorgiva che attinge al divino, pensato non già come forza e potere, ma come alito «che con la rugiada della divinità stilla, come gocce di miele, la grazia celeste sul suo popolo» (Quarta visione della terza parte, XI). È uno slancio alitante che sale vivificando il desiderio: «Insieme a ogni creatura che cresce, l’anima vola come l’aria in tutti i desideri del corpo per portarli a perfezione» (Quarta visione della prima parte, XV). Le sue visioni sono la radice di un sapere mai spento, che ha rinnovato l’Europa: la chiarità della speranza, il candore del sempre: «un sassolino candido e un nome nuovo» (Seconda visione della prima parte, XII).
La musica di Ildegarda
"Vision (O Euchari In Leta Via)" di Emily Van Evera/Sister Germaine Fritz/Catherine King/Richard Souther:
AUDIO-CLIP. O Euchari, in leta via
This audio clip is presented as part of an educational article about Hildegard Von Bingen (http://www.aeolus13umbra.com/2011/08/hildegard-von-bingen-her-life-and-music.html) on a non-profit blog that accepts no advertising.
SARONNO. Santuario della Beata Vergine dei Miracoli *
LE SIBILLE NELL’ARTE *
Le raffigurazioni delle Sibille nell’arte sacra appaiono nel tardo Medioevo e diventa-no frequenti nel Rinascimento, ma in seguito gradualmente cessarono. Le Sibille ven-gono sempre raffigurate come profetesse spesso in corrispondenza a profeti biblici. Di solito sono raffigurate con un libro o un cartiglio nella mano, analoghi a quelli dei profeti.
Sembra che la più antica Sibilla raffigurata nell’arte sacra sia quella Persica, dipinta nel sec. XI tra la serie dei profeti in un pennacchio della chiesa di S. Angelo in For-mis. Una Sibilla appare scolpita in bassorilievo nel pulpito di Sessa Aurunca (sec. XII-XIII). La più notevole raffigurazione delle Sibille del tardo medioevo è dovuta a Giovanni Pisano, che adornò con esse sia il pulpito della cattedrale di Pisa, che quello della chiesa di S. Andrea a Pistoia, collocandole al disopra dei capitelli delle colonni-ne che reggono i pulpiti stessi.
Agli albori del Rinascimento il Beato Angelico dipinse la Sibilla Eritrea da sola in mezzo all’intera serie dei profeti nell’incorniciatura della grande scena della Crocifis-sione di Gesù, affrescata nella sala capitolare del Convento di S. Marco a Firenze.
Di Andrea del Castagno si ha contemporaneamente la vigorosa Sibilla Cumana, af-frescata per la Villa Pandolfini a Legnaia ed ora conservata nel convento di S. Apol-lonia a Firenze. Quattro graziose statuette di Sibille si vedono intercalate con quelle dei profeti nei fregi verticali della magnifica porta del Battistero di Firenze, opera di Lorenzo Ghiberti.
Nello splendido pavimento del duomo di Siena, decorato di graffiti in marmo, dieci Sibille sono raffigurate nelle navate laterali.
Domenico Ghirlandaio affrescò nel 1484 quattro Sibille negli spartimenti triangolari della volta della cappella Sassetti nella chiesa della SS. Trinità a Firenze.
Sono opera del Pinturicchio e della sua scuola le Sibille affrescate nell’Appartamento Borgia in Vaticano (tra il 1492-1494): le Sibille sono affiancate ai Profeti in questo ordine:
Geremia e la Sibilla Frigia
Mosè e la Sibilla Delfica
Daniele e la Sibilla Eritrea
Baruc e la Sibilla Samia
Zaccaria e la Sibilla Persica
Abdia e la Sibilla Libica
Aggeo e la Sibilla Cumana
Amos e la Sibilla Europea
Geremia e la Sibilla Agrippina
Isaia e la Sibilla Ellespontica
Michea e la Sibilla Tiburtina
Ezechiele e la Sibilla Cimneria.
Ma la più famose Sibille sono quelle di Michelangelo dipinte sulla volta del-la Cappella Sistina. Vi troviamo cinque Sibille alternate a sette Profeti (1509):
Sibilla Delfica
Sibilla Eritrea
Sibilla Cumana
Sibilla Persica
Sibilla Libica.
Nello stesso periodo, caratterizzato dalla riscoperta e dalla valorizzazione della cultu-ra classica e dell’Umanesimo, alla sommità delle sue due grandi scene della Presenta-zione di Gesù al Tempio e dell’Adorazione dei Magi (1525) Bernardino Luini ha dipinto rispettivamente la Sibilla Persica e quella Libica, la Sibilla Delfica e quella Chimica, ciascuna con rispettivo cartiglio profetico. Le due scene evangeliche, infatti, vogliono illustrare il significato della Nascita del Redentore, che è Messia di tutti; e-gli è sì di discendenza israelitica, ma è pure “luce delle genti” ed è stato subito rico-nosciuto dai Magi, espressione del mondo pagano.
Quando si trattò di comporre la magnifica decorazione della cupola Gaudenzio Ferra-ri espose il suo progetto e volle collocare nelle nicchie appaiate sui dodici lati del tamburo i Profeti affiancati dalle Sibille. Le 22 statue lignee vennero intagliate da Giulio Oggiono da Varese e decorate da Al-berto da Lodi tra il 1539 e il 1544. A detta di Padre Sevesi, nel suo volume “Il santua-rio di Saronno” (1926), secondo i cartigli attribuiti le statue lignee risultavano così collocate in successione, guardando alla destra della Madonna Assunta:
Davide e Sibilla Cumana
Baruch e Sibilla Delfica
Michea e Sibilla Tiburtina
Isaia e Sibilla Persica
Abacuc e Sibilla Libica
(Aggeo e Sibilla Eritrea)
Abdia e Sibilla Ellespontica
Geremia e Sibilla Europea
Osea e sibilla Chimica
Daniele e Sibilla Frigia
Ezechiele e Sibilla Samia (mancando i cartigli questa attribuzione risultava incerta).
Attualmente in Santuario sono presenti solo 10 coppie, perché le statue del profeta Aggeo e della Sibilla Eritrea sono state trafugate intorno agli anni ’50 del sec. scorso e sono attualmente irreperibili.
* TESTO RIPRESO DA: SARONNO: PROFETI E SIBILLE IN SANTUARIO
* SANTUARIO DI SARONNO: Restauri 2011 - 2012. Le statue lignee della meravigliosa cupola del Santuario di Saronno
«1512. La volta di Michelangelo nella Sistina compie 500 anni» è il titolo del documentario realizzato da Nino Criscenti in onda il 31 ottobre (giorno dell’anniversario) su TV2000 alle ore 13.05 (replica 23.05) con Antonio Paolucci, Gianluigi Colalucci e cardinale Gianfranco Ravasi.
Lo stesso 31 ottobre, su Rai Storia (ore 23), va in onda il documentario «Michelangelo e la Sistina. Storia di un’opera d’arte» di Piero Badaloni e Nino Criscenti con Antonio Paolucci, Gianluigi Colalucci e Massimo Firpo.
La Volta Sistina compie 500 anni
di Antonio Paolucci (Il Sole-24 Ore, 28 ottobre 2012)
Ci sono date destinate a rimanere indimenticabili nella universale storia delle arti. Una di queste è il 1508. Quell’anno Giulio II della Rovere un vecchio papa che sembrava amare la politica, la diplomazia e la guerra più di quanto non amasse la pittura, chiama al suo cospetto due artisti. Uno è un ragazzo di appena venticinque anni, Raffaello Sanzio da Urbino, e a lui chiede di dipingergli ad affresco le pareti del suo appartamento privato, le Stanze più famose del mondo, quelle che da allora in poi tutti conosceranno come "di Raffaello".
L’altro è Michelangelo Buonarroti, giovane uomo di trentatré anni, celebre per i capolavori di scultura (la Pietà di San Pietro, il David di Piazza della Signoria) lasciati a Roma e a Firenze. A quest’ultimo affida la decorazione della volta nella "cappella magna" che quasi trent’anni prima (1481-83) il papa all’epoca regnante, lo zio Sisto IV, aveva fatto affrescare lungo le pareti dai grandi professionisti umbri e toscani di quegli anni; dal Ghirlandaio, dal Botticelli, dal Perugino, fra gli altri.
Incomincia così nel 1508 l’avventura della volta della Sistina, il duello, quasi il corpo a corpo di Michelangelo con gli oltre mille metri quadrati di intonaco da riempire di centinaia di figure. Il contratto è dell’8 Maggio 1508, l’inaugurazione della prima parte, dall’ingresso fino al centro, è del 15 agosto del 1511, del 31 ottobre 1512 la conclusione dei lavori.
Nel pomeriggio del 31 ottobre di Cinquecento anni fa, ai Vespri della vigilia di Ognissanti, il Papa (con «17 cardinali in cappa festiva» scrive il cronista) inaugurava la grande impresa. Da quei più di mille metri di pittura oggi sospesi sui cinque milioni di visitatori che ogni anno attraversano la Sistina, è precipitato sulla storia dell’arte italiana ed europea - scriverà il Wölfflin nel 1899 con una bella metafora - qualcosa di paragonabile a un «violento torrente montano portatore di felicità e al tempo stesso di devastazione».
Di fatto, dopo la volta della Sistina, nulla sarà più come prima. Incomincia da quel 31 ottobre del 1512 la stagione che i manuali chiamano del Manierismo. Al punto che Giorgio Vasari, in un passaggio famoso delle Vite, potrà scrivere: «questa opera è stata ed è veramente la lucerna dell’arte nostra, che ha fatto tanto giovamento e lume all’arte della pittura, che ha bastato a illuminare il mondo». In una trentina di parole tre volte con tre diversi vocaboli ("lucerna", "lume", "illuminare") il Vasari esalta il concetto di un’opera destinata a svelare e a guidare il destino delle arti nel tempo a venire. In un certo senso le cose sono andate proprio così, a tal punto grande è stata l’influenza che quegli affreschi hanno esercitato sugli artisti d’Italia e d’Europa.
La bibliografia sulla volta della Sistina è così vasta che basterebbe a riempire una biblioteca di medie dimensioni. Del resto l’immane sciarada teologico scritturale che Michelangelo dispiegò nel cielo della "cappella magna" offre di continuo occasioni di singolari interpretazioni e decodificazioni. Il formidabile genio mitopoietico del Buonarroti, la sua ineguagliata capacità di inventare situazioni iconografiche radicalmente nuove, spalancano praterie sterminate agli esegeti contemporanei, specie a quelli di scuola americana.
Per esempio. Di recente, qualcuno con una ipotesi certo fantasiosa e improbabile però suggestiva, ha voluto riconoscere nel gruppo di Dio Padre circondato dagli angeli che "crea" un Adamo già esistente e perfettamente formato, il profilo di un cervello umano. Quasi che quella scena fosse il manifesto di un Michelangelo creazionista precursore del "disegno intelligente".
Molte cose si sono dette e si diranno ancora sulla volta della Sistina. A me piace ricordare l’impresa della volta così come ce la racconta Michelangelo stesso in un celebre sonetto autocaricaturale il cui originale si conserva negli archivi di Casa Buonarroti a Firenze.
I’ho già fatto un gozzo in questo stento
come fa l’acqua a’ gacti in Lombardia
o ver d’altro paese che si sia,
ch’a forza ’l ventre appicco sotto l’mento
la barba al ciel, e la memoria sento
in sullo scrigno, e l’pecto fo d’arpia
e ’l pennel sopra ’l viso tuctavia
mel fa, gocciando, un ricco pavimento...
Il testo è grottesco, surreale, sulfureo. Parla di un uomo che il lavoro stravolge e disarticola, che non si sente adatto, da scultore, alla pratica della pittura a fresco, che prova rabbia, delusione, sconforto e che pure è capace di esaltare con due versi bellissimi («e ’l pennel sopra ’l viso tuctavia mel fa gocciando un ricco pavimento») la faticosa gloria dell’arte.
«1512. La volta di Michelangelo nella Sistina compie 500 anni» è il titolo del documentario realizzato da Nino Criscenti in onda il 31 ottobre (giorno dell’anniversario) su TV2000 alle ore 13.05 (replica 23.05) con Antonio Paolucci, Gianluigi Colalucci e cardinale Gianfranco Ravasi.
Lo stesso 31 ottobre, su Rai Storia (ore 23), va in onda il documentario «Michelangelo e la Sistina. Storia di un’opera d’arte» di Piero Badaloni e Nino Criscenti con Antonio Paolucci, Gianluigi Colalucci e Massimo Firpo.
SANTA TERESA D’AVILA
Una nota
di don Aldo Antonelli
Oggi ricorre la festa di Santa Teresa d’Avila.
A suo tempo, nella relazione al Papa sulla vita della Santa, il Nunzio Apostolico così scriveva:
"Femmina inquieta, vagabonda, disubbidiente e contumace, che sotto titolo di Divozione inventava perniciose Dottrine; che contra i divieti del Concilio di Trento usciva fuori della Clausura, e contra il dettame di S. Paolo voleva insegnare, e farla da Maestro" (Vita II, XXXI).
L’amico Alberto Maggi, che qualcuno ricorderà avemmo il piacere di avere ospite in uno degli incontri ad Antrosano, così commenta:
"La femmina inquieta e vagabonda sarà proclamata Dottore della Chiesa. Il nunzio finirà nel dimenticatoio della storia".
Pace e bene.
Aldo
L’inquisizione di oggi e le religiose nordamericane
di Ivone Gebara, suora, scrittrice, filosofa e teologa brasiliana
in “www.paves-reseau.be” del 25 aprile 2012 (traduzione dal francese: www.finesettimana.org)
Una volta ancora assistiamo stupite alla “valutazione dottrinale” o piuttosto al sedicente appello alla sorveglianza o alla punizione condotta dalla Congregazione della Dottrina della fede nei confronti di chi, a suo avviso, si discosta dall’osservanza della dottrina cattolica corretta. Unica differenza: oggi, non è su una persona che puntano il dito accusatore, ma su un’istituzione che riunisce e rappresenta più di 55000 religiose nordamericane. Si tratta della Conferenza nazionale delle Religiose, conosciuta sotto la sigla LRWC - Conferenza della Direzione religiosa femminile. In tutta la loro storia, queste religiose hanno sviluppato - e sviluppano ancora - una vasta missione educativa a favore della dignità di molte persone e di molti gruppi negli Stati Uniti e oltre.
La maggioranza di queste donne appartiene a diverse congregazioni nazionali e internazionali; oltre alla loro formazione umanista cristiana, sono delle intellettuali e delle professioniste impegnate negli ambiti più diversi della conoscenza. Sono scrittrici, filosofe, biologhe, sociologhe, avvocate, teologhe e possiedono un vasto curriculum e una competenza riconosciuta a livello nazionale e internazionale. Sono anche educatrici, catechiste e militanti per i diritti umani. In molteplici circostanze sono state capaci di mettere a rischio la propria vita a favore delle vittime dell’ingiustizia o di opporsi a comportamenti gravi assunti dal governo nordamericano.
Ho l’onore di conoscerne alcune che sono state imprigionate perché si erano messe in prima fila in una manifestazione per la chiusura della Ecole des Amériques, istituzione del governo nordamericano che prepara i militari in vista di interventi repressivi e crudeli nei nostri paesi. Queste religiose sono donne di pensiero e d’azione, hanno una lunga storia di servizio non solo nei loro paesi ma anche in altri. Oggi sono sotto il sospetto e la sorveglianza del Vaticano. Sono criticate per le loro divergenze con i vescovi considerati come “gli autentici maestri della fede e della morale”.
Inoltre sono accusate di essere sostenitrici di un femminismo radicale, di deviazioni rispetto alla dottrina cattolica romana, di complicità con l’approvazione delle unioni omosessuali e di altre accuse che ci stupiscono per il loro anacronismo. Che cosa sarebbe un femminismo radicale? Quali sarebbero le sue manifestazioni reali nella vita delle congregazioni religiose femminili? Quali devianze teologiche vivrebbero queste religiose? Noi donne saremmo spiate e punite per la nostra incapacità ad essere fedeli a noi stesse e alla tradizione del vangelo attraverso la sottomissione cieca ad un ordine gerarchico maschile? I responsabili delle Congregazioni vaticane sarebbero estranei alla grande rivoluzione mondiale femminista che raggiunge tutti i continenti, comprese le congregazioni religiose?
Molte religiose negli Stati Uniti e in altri paesi sono, di fatto, eredi, maestre e discepole di una delle più interessanti espressioni del femminismo mondiale, soprattutto del femminismo teologico che si è sviluppato negli Stati Uniti a partire dalla fine degli anni ’60. Le loro idee originali, le loro critiche, le loro posizioni libertarie permetteranno una nuova lettura teologica che, a sua volta, può accompagnare i movimenti di emancipazione delle donne. Di modo che esse potranno contribuire a ripensare la nostra tradizione religiosa cristiana al di là della “invisibilizzazione” e dell’oppressione delle donne. Creeranno anche spazi alternativi di formazione, testi teologici, testi di celebrazione affinché la tradizione del Movimento di Gesù continui a nutrire il nostro presente e non sia abbandonata da migliaia di persone affaticate dal peso delle norme e delle strutture religiose patriarcali.
Quale atteggiamento adottare davanti alla violenza simbolica degli organismi di governo e di amministrazione della Chiesa cattolica romana? Che cosa pensare del riferimento filosofico rigido che assimila il meglio dell’essere umano alla sua parte maschile? Che dire della visione antropologica filosofica unilaterale e misogina a partire dalla quale interpretano la tradizione di Gesù?
Che cosa pensare di questo trattamento amministrativo-punitivo a partire dal quale si nomina un arcivescovo per rivedere, orientare e approvare le decisioni prese dalla Conferenza delle Religiose, come se noi fossimo incapaci di discernimento e di lucidità. Saremmo per caso una multinazionale capitalistica nella quale i nostri “prodotti” dovrebbero obbedire ai diktat di una linea di produzione unica? E per mantenerla, dovremmo essere controllate come degli automi da coloro che si considerano i proprietari e i guardiani dell’istituzione? Dove vanno a finire la libertà, la carità, la creatività storica, l’amore ’sororale’ e fraterno?
Nel momento in cui l’indignazione si fa strada in noi, un sentimento di fedeltà alla nostra dignità di donne e al Vangelo annunciato ai poveri e agli emarginati ci invita a reagire a questo ulteriore atto di ripugnante ingiustizia.
Non è da oggi che i prelati e i funzionari della Chiesa agiscono con due pesi e due misure. Da un lato, gli organismi superiori della Chiesa cattolica romana sono stati capaci di accogliere di nuovo al loro interno i gruppi di estrema destra, la cui storia negativa soprattutto nei confronti dei giovani e dei bambini è ampiamente conosciuta.
Penso in modo particolare ai Legionari di Cristo di Marcial Maciel (Messico) o ai religiosi di Mons. Lefebvre (Svizzera), la cui disobbedienza al papa e i metodi coercitivi per creare dei discepoli sono attestati da molti. La stessa Chiesa istituzionale accoglie gli uomini che le interessano in vista del proprio potere e respinge le donne che desidera mantenere sottomesse. Questo atteggiamento le espone alle critiche ridicole veicolate anche nei media religiosi cattolici in mala fede. I prelati fingono di riconoscere in maniera formale qualche merito a queste donne quando le loro azioni si riferiscono a quelle esercitate tradizionalmente dalle religiose nelle scuole e negli ospedali. Ma noi siamo forse solo quello?
Sappiamo che mai, negli Stati Uniti, c’è stato il minimo sospetto che quelle religiose possano aver violentato dei giovani, dei bambini e dei vecchi. Nessuna denuncia pubblica ha offuscato la loro immagine. Non si è mai sentito dire che si siano alleate per i propri interessi alle grandi banche internazionali. Nessuna denuncia per traffico di influenze, scambio di favori per preservare il silenzio dell’impunità. Ma anche così, nessuna di loro è stata canonizzata e neanche beatificata dalle autorità ecclesiastiche come invece è stato fatto per degli uomini di potere. Il riconoscimento di queste donne viene da molte comunità e gruppi cristiani o non cristiani che hanno condiviso la vita e il lavoro con molte di loro. E certamente quei gruppi non resteranno in silenzio davanti a questa “valutazione dottrinale” ingiusta che colpisce anche loro in maniera ingiusta.
Plagiando Gesù nel suo vangelo, lo sento dire: “Ho pietà di quegli uomini” che non conoscono le contraddizioni e le bellezze della vita nella prossimità, che non lasciare vibrare il loro cuore in tutta chiarezza con le gioie e le sofferenze delle persone, che non amano in tempo presente, che preferiscono la legge severa alla festa della vita. Hanno soltanto imparato le regole chiuse di una dottrina chiusa in una razionalità superata ed è a partire da lì che giudicano una fede diversa , specialmente quella delle donne. Forse pensano che Dio li approvi e si sottometta a loro e alle loro elucubrazioni talmente lontane da quelle di coloro che hanno fame di pane e di giustizia, dagli affamati, dagli abbandonati, dalle prostitute, dalle donne violentate o dimenticate. Fino a quando dovremo soffrire sotto il loro giogo? Quali atteggiamenti ci ispirerà “lo Spirito che soffia dove vuole” perché possiamo continuare ad essere fedeli alla VITA che è in noi?
Alle care suore nordamericane della LWRC, la mia riconoscenza, la mia tenerezza e la mia solidarietà. Se siete perseguitate per il bene che fate, probabilmente il vostro lavoro produrrà frutti buoni e abbondanti. Sappiate che noi, donne di altri continenti, con voi, non permetteremo che facciano tacere la nostra voce. Ancor di più, se le facessero tacere con un decreto di carta, ce ne faremmo una ragione ulteriore per continuare a lottare per la dignità umana e per la libertà che ci costituisce.
Continueremo con tutti i mezzi ad annunciare l’amore del prossimo come la chiave della comunione umana e cosmica presente nella tradizione di Gesù di Nazareth ed in molti altri, sotto forme diverse. Continueremo insieme a tessere per il nostro momento storico un tratto supplementare della vasta storia dell’affermazione della libertà, del diritto di essere diversi e di pensare in modo diverso, e, cercando di fare questo, di non aver paura di essere felici.
Testo originale al sito:
http://www.adital.com.br/site/noticia.asp?lang=PT&langref=PT&cod=66441
Concistoro sempre più vicino, tutti i possibili cardinali
di Giovanni Panettiere (quotidiano.net, 24 agosto 2012)
Berrette rosse in arrivo. Si fanno sempre più insistenti le voci su una convocazione nel 2013 di un concistoro per la creazione di cardinali, a dodici mesi dal precedente. Con il compimento degli ottant’anni di monsignor Murphy O’Connor, emerito di Weestmister, oggi scendono a 118 i porporati elettori nel conclave dal quale uscirà il successore di Benedetto XVI. Due in meno rispetto al tetto massimo di 120 sancito nella Universi dominici gregis (1996), la costituzione apostolica di Giovanni Paolo II che disciplina l’elezione del vescovo di Roma.
Il 13 settembre ’uscirà dalla Cappella sistina’ il colombiano Pedro Rubiano Saenz, il primo novembre sarà la volta di Francis Arinze, quindi toccherà a Renato Martino (23 novembre) e al brasiliano Eusebio Sheid (8 dicembre).
A fine anno i cardinali con le carte in regola per entrare in conclave - meno di ottant’anni di età - saranno 114, lutti permettendo. Considerando che erano 115 i principi della Chiesa che elessero Ratzinger, è probabile che il papa tedesco voglia integrare la compagine dopo la sfornata del febbraio scorso. In quell’occasione a fare la voce grossa fu la Curia romana che si aggiudicò 10 dei 18 nuovi cardinali under 80. Per giunta quasi tutti vicinissimi al segretario di Stato, Tarcisio Bertone. Benedetto XVI potrebbe annunciare il concistoro già ad ottobre, in concomitanza con l’apertura dell’anno della fede. Difficilmente guarderà dentro le mura leonine per scegliere i novelli porporati. Un po’ perché Bertone è ancora sotto attacco - per alcuni analisti potrebbe andare in pensione a dicembre -, un po’ perché stavolta sono le diocesi a vantare credito.
Cionostante nel toto nomine qualche curiale è d’obbligo. Su tutti svetta il neo prefetto di Doctrina fidei, Gerhard Ludwig Müller, accusato dai tradizionalisti di essere un liberal, ma inviso ai progressisti tedeschi di Wir sind kirche. Per il prelato, che in questi mesi ha mostrato i muscoli ai lefebvriani, la berretta rossa è quasi d’obbligo. In pole position anche l’arcivescovo francese, Jean Louis Bruguès, fresco di nomina a bibliotecario e archivista della Chiesa cattolica dopo il pensionamento del cardinale Raffaele Farina, salesiano e confessore di Bertone. Ma in Vaticano prende quota anche la candidatura del nuovo ministro della Famiglia, monsignor Vincenzo Paglia, mentre rimarrebbe alla finestra, anche stavolta, Rino Fisichella, presidente del Pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione e amico della giornalista Oriana Fallaci.
In Europa si fa largo il nome di monsignor Vincent Nichols, classe 1945, arcivescovo di Weestmister e organizzatore del recente viaggio papale in Regno Unito. Con il pensionamento di O’Connor, a Londra cade la regola tacita che impedisce ad una diocesi di avere due cardinali in conclave e così per Nichols, dato molto vicino a Ratzinger, potrebbe essere la volta buona. Contrario alla proposta del governo conservatore britannico di allargare le nozze alle coppie omosessuali, il vescovo si è espresso in termini positivi sull’istituto dei Dico in salsa inglese, scatenando i malumori della destra cristiana. In Francia e Spagna potrebbero sperare due diocesi, un tempo sedi cardinalizie: Marsiglia e Siviglia.
Sembra, invece, fuori da giochi il pastore di Dublino, Diarmuid Martin, alle prese con lo scandalo degli abusi sessuali in Irlanda. Sulla questione il vescovo ha sposato la linea della tolleranza zero, ma ha anche avanzato una richiesta esplicita di riforme nella Chiesa. L’Italia spera con il patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, l’ultimo allievo del cardinale Giuseppe Siri, e con il torinese Cesare Nosiglia (anche se la Mole in conclave schiera già l’emerito Severino Poletto).
Negli Stati Uniti dovrebbero aspettare il prossimo giro di giostra, causa la norma delle doppie porpore, sia l’opusdeista José Gomez (Los Angeles) che monsignor Charles Chaput (Philadelphia), il vescovo dal sangue cherooke. Guardando all’Asia, è attesa la nomina del patriarca maronita libanese, Bechara Rai (Ratzinger sarà nella regione tra un paio di settimane per consegnare l’esortazione apostolica postsinodale). Salvo sorprese, come a febbraio l’Africa resterà a bocca asciutta
Con l’aiuto di Dio (e delle armi) così i repubblicani sfidano Obama
di Furio Colombo (il Fatto Quotidiano, 29 agosto 2012)
Vi diranno che la Convention repubblicana che sta per aprirsi a Tampa, in Florida, sarà una quattro giorni di parata dei libertari che non vogliono Stato ma solo libertà, niente tasse e ciascuno responsabile da solo del proprio destino. Vi diranno che sarà la impetuosa manifestazione del partito della grande potenza che non deve accodarsi, ma deve decidere e prendere sempre, da sola, il comando.
Vi diranno che questa di Tampa sarà l’assemblea della immensa ricchezza che non viene a patti con questioni di beneficenza, assistenza, solidarietà, perché quello che conta è moltiplicare la vastità dei profitti, che poi ricade su tutti (specialmente se gli ex assistiti, una volta privati di perniciosi sussidi, usciranno dal loro pigro rifugio e si daranno personalmente da fare).
È tutto vero. O meglio, ho raccolto dai giornali e dalle televisioni americane di questi giorni e di queste ore, ciò che i Repubblicani pensano e dicono di se stessi, con comprensibile enfasi e la determinazione, evidente di ciascuna descrizione dei gruppi diversi, di spingere Barack Obama fuori dalla scena politica americana per sempre.
Ma mi sembra affidabile l’interpretazione che gli inviati del New York Times hanno annotato nel
loro primo articolo da Tampa, il 27 agosto:
“Tutto ciò riflette una campagna segnata dalla lama tagliente di cose non dette di classe e di razza.
Venerdì scorso Romney (probabile candidato repubblicano alla presidenza, ndr) ha detto in un
comizio: “Nessuno ha mai dovuto chiedermi il mio certificato di nascita”. E Ryan (candidato
vicepresidente scelto da Romney, ndr) ha invocato la sua ardente fede cattolica e il suo amore per le
battute di caccia”.
LA BREVE citazione contiene tutte le parole-codice che consentono di capire che cosa è accaduto in questa campagna elettorale e che cosa accadrà nella Convenzione repubblicana di Tampa. L’accusa a Obama di non essere americano e di avere alterato il certificato di nascita per candidarsi illegalmente, sollevata molto presto e mai abbandonata, da alcuni leader del Tea Party (la frangia estrema del Partito repubblicano), evoca in modo violento la vera anomalia che evidentemente circola ancora in settori arretrati della tribù americana: Obama non è bianco. Obama è afroamericano, “eppure” governa l’America. Ryan, da parte sua, ha aggiunto le altre due parole codice,
Dio e le armi. Infatti, proclamarsi appassionato cacciatore (love of hunting) significa dare il segnale di libera circolazione delle armi automatiche e semi automatiche che, più o meno permesse nei vari Stati, circolano liberamente, con il pretesto della caccia, negli Stati Uniti, sotto la potente protezione della National Gun Association, una sorta di Confindustria delle armi personali, che è in grado di sostenere o di abbattere qualunque candidato al Congresso usando, pro o contro, pesantissimi interventi finanziari. In questo modo Ryan si fa riconoscere e tenta di mettere in imbarazzo chiunque invochi una limitazione delle armi in America, a cominciare dal presidente Obama.
Dio entra in campo, accanto alle armi, anzi nella stessa frase, come non era mai accaduto prima negli Usa. In questo senso Ryan rovescia il mondo civile e rispettoso di John Kennedy che sulla sua fede cattolica aveva detto: “È una mia questione personale che non potrà mai interferire con le leggi degli Stati Uniti, quelle esistenti e quelle da fare”.
Qui però il senso di codice della proclamazione di fede si fa più ricco e complesso e, allo stesso tempo, diventa un rude ma efficace gesto di propaganda. Dio è il Dio della potenza e delle armi che è sempre dalla nostra parte quando decidiamo di combattere secondo il nostro destino di grande potenza che deve eliminare per sempre la civile prudenza di Barack Obama. E in questo senso la caccia definisce il vero uomo americano, ben distinto e ben lontano dalla pretesa di dare spazio ad altri modi di vita e atri tipi di famiglie.
Ma il Dio cattolico, interviene con tutta la sua vasta immagine a coprire e nascondere l’ignoto e sospetto Dio mormone di Romney. Ma il Dio cattolico di Ryan scende in campo per tuonare contro la discutibile religiosità di Barack Obama, che forse è di fede islamica (altro modo di screditare un presidente nero, fingendo però di non evocare mai la razza). E soprattutto, questo Dio cattolico, autorizzato dal Vaticano, ha la missione di trasformare la vasta sala della Convention di Tampa in una Cappella Sistina americana dal cui cielo condannerà la tolleranza di Obama per le coppie di fatto, l’inaudita accettazione di un rapporto legale e uguale per i gay d’America e, soprattutto, il fatto che la sua riforma sanitaria finanzia anche la libertà delle donne di decidere sulla procreazione.
E QUI IL GIOCO tentato dai Repubblicani è uno straordinario atto di acrobazia politica: indurre, attraverso il messaggio religioso, masse di poveri a votare contro se stessi, contro le cure mediche gratuite che non hanno mai avuto e non avranno mai. Lo comanda, assieme a Romney e Ryan e alle grandi compagnie di assicurazione, la Chiesa cattolica. Per la prima volta sarà l’arcivescovo di New York Theodore Dolan, il più alto rappresentante della gerarchia cattolica in America, a benedire la Convention repubblicana, la sua ricchezza, le sue armi, la sua potenza, la sua proibizione di aiutare i poveri, la sua negazione della riforma sanitaria, il suo progetto di tagliare drasticamente le tasse ai ricchi. Il tentativo è di usare la formula tradizionale dei processi americani, cambiando il senso e le parole per la nuova minaccia: “Dio contro il popolo americano”.
«Io, monaca, dico: Chiesa ascolta le donne»
intervista a Suor Benedetta Zorzi,
a cura di Roberto Monteforte (l’Unità, 10 agosto 2012)
Si discute della fuga delle quarantenni dalla fede. Ne parla con l’Unità suor Benedetta Zorzi, monaca e teologa, che sottolinea la distanza tra gli auspici del Vaticano II, con le sue aperture al mondo e all’apporto creativo delle donne, e una cultura del potere ancora «maschilista». Il problema, dice suor Benedetta, non è il sacerdozio femminile ma cercare di costruire insieme una Chiesa a «due voci».
Si è rotto qualcosa nell’alleanza tra le donne e la Chiesa cattolica? La domanda è legittima. Non è in discussione il riconoscimento del ruolo delle donne nella Chiesa e nella società. Lo attestano numerosi testi ecclesiali, già a partire dal Concilio Vaticano II. Giovanni Paolo II vi ha dedicato un documento memorabile, la Mulieris dignitatem, dove si afferma perfino che alcuni passi biblici sulla donna non rispecchiano la mentalità evangelica. È chiarissima anche la presa di posizione, del 2004, da parte della Congregazione per la Dottrina della fede, che parlava del ruolo insostituibile delle donne in tutti gli aspetti della vita e della necessità di vederle presenti nel mondo del lavoro, dell’organizzazione sociale, nei posti di responsabilità, nella politica e nell’economia. Eppure nella Chiesa vi è ancora una forte tensione tra le dichiarazioni di principio e la prassi nell’affidare loro ruoli di responsabilità.
«Già il termine “genio femminile”, che stranamente non ha mai visto un corrispettivo “genio maschile”, rischia di essere facilmente strumentalizzato per veicolare una precisa idea di donna, più che per sostenere il riconoscimento dell’esperienza delle donne» afferma convinta Benedetta Selene Zorzi, monaca benedettina e teologa. Il tema lo sente particolarmente.
Nata a Roma nel ’70, fa parte della generazione delle quarantenni, quelle che qualcuno vorrebbe «tentate dalla fuga». Da una ventina d’anni vive in un monastero a Fabriano, nelle Marche. Una vocazione maturata dopo gli studi di teologia, una laurea in filosofia e - ci tiene a sottolineare - anni di pallavolo giocato a livello agonistico. Fa parte del Coordinamento delle teologhe italiane, di cui gestisce il sito. «Certo, vi sono state donne che hanno svolto di fatto e svolgono ruoli di leadership nella Chiesa. Ma si fa ancora fatica ad avere spazi».
Con quale effetto?
«L’abbandono. Recenti statistiche ci dicono che tra le generazioni nate dal ’46 al ’64 e quelle nate dopo il 1981 vi sono differenze abissali non solo socio-culturali, ma anche legate al rapporto con la fede e la Chiesa. Le donne nate negli anni ’70 sono le più sensibili a questi cambiamenti. Non sentono più differenze di genere, vivono una disaffezione religiosa, sono lontane dai sacramenti e distanti dal sentire ecclesiale sulle tematiche politiche e le questioni etiche. Questa generazione oggi sta pagando il prezzo di non sentirsi ascoltata anche dentro la Chiesa».
È il fenomeno analizzato dal teologo don Armando Matteo nel suo “La fuga delle quarantenni”. Quanto è difficile il rapporto delle donne con la Chiesa?
«Non ringrazierò mai abbastanza l’autore di questo studio per averne parlato. Ancora più apprezzabile perché realizzato da un uomo e prete. La Chiesa non può perdere il rapporto con questa generazione, perché ne va della trasmissione della fede alle future generazioni».
Forse serve il coraggio del parlare chiaro. Come ha fatto suor Eugenia Bonetti, la superiora della Consolata impegnata contro la “tratta” delle donne, intervenuta il 13 febbraio 2011 a difesa della dignità della donna alla manifestazione “Se non ora quando”.
«Quando la Chiesa è profetica non ha difficoltà a farsi ascoltare. Suor Eugenia ha parlato di cose semplici, di valori trasversali come la pace e la dignità della donna, che non può essere considerata oggetto di dominio o strumento di piacere. Ma ha anche detto che bisogna costruire assieme, uomini e donne, nel quotidiano, una cultura del rispetto. Così suor Bonetti ha fatto eco al gesto del Concilio Vaticano II, quando la Chiesa ha scelto la strada del dialogo con la società. È l’unica strada possibile per lavorare ad un futuro di pace, armonico per tutti. Quando la Chiesa fa ciò che è chiamata ad essere sa farsi ascoltare ».
Non sempre è così credibile...
«Forse perché almeno in Italia abbiamo un modello di Chiesa dal volto ufficiale maschile, quando il tessuto vitale ecclesiale è assicurato soprattutto dalle donne: impegnate nella catechesi, nei luoghi di cura, tra i poveri e nelle parrocchie. Malgrado le loro competenze devono sottostare ancora ad una cultura segnata dal maschilismo. Quanto più la Chiesa saprà dare alle donne di oggi la possibilità di dispiegare sempre meglio tutta la gamma dei loro genî, tanto più realizzerà quell’ ”umano integrale” definito da papa Benedetto XVI “lo sviluppo di tutto l’essere umano e di tutti gli esseri umani”. Come religiose abbiamo un compito particolare. Rispondere alla forte ricerca di spiritualità espressa da donne anche estranee alla Chiesa cattolica, aiutando la Chiesa e le donne a ricucire un’antica alleanza».
Siamo alla vigilia dell’Anno della fede proclamato da Benedetto XVI nel 50° del Concilio Vaticano II. È possibile una “rievangelizzazione” senza aver fatto i conti con questi nodi?
«Non credo al separatismo di un certo femminismo radicale, che giustamente la Chiesa cattolica condanna. Per questo guardo con preoccupazione a quegli episodi in cui l’autorevolezza femminile viene screditata con un semplice richiamo all’ordine dall’alto. Così c’è il rischio che si debba dare ragione a chi pensa che la differenza di genere significhi che gli uomini non debbano pretendere di intervenire sulle donne o sulla vita interna delle loro congregazioni religiose. Significherebbe avallare l’esautoramento della Chiesa gerarchica dalla realtà femminile. Non è questa la strada».
Quale strada andrebbe percorsa?
«Non resta che percorrere quella del reciproco riconoscimento, della comune partecipazione e collaborazione. Le istituzioni ecclesiastiche dovrebbero riconoscere l’irreversibilità del cammino della nuova autocoscienza femminile. Sembra, invece, che siano ancora alle prese con un immaginario femminile che non corrisponde più all’autopercezione delle donne di oggi».
Ma c’è un limite che pare invalicabile: il sacerdozio riservato esclusivamente agli uomini...
«Sono convinta che il problema del ruolo della donna nella Chiesa vada lasciata indipendente dalle discussioni sul sacerdozio femminile. Intanto perché l’ideologia maschilista è ancora presente nelle Chiese che hanno aperto al sacerdozio femminile. Ma poi legare la questione femminile al falso binomio “donna e sacerdozio”, che non affronteremo mai, significa relegare al silenzio le tante questioni connesse alla nuova autocomprensione delle donne, all’identità sessuale e maschile in particolare, al ruolo del prete, ai modelli di gestione del potere in vista di una collaborazione tra uomini e donne per la costruzione di una Chiesa a due voci. L’ideologia del maschio al potere è, appunto, un’ideologia; l’emancipazione delle donne è storia. Come seppe riconoscere la Pacem in Terris».
Le quarantenni in fuga dalla fede
L’allarme “mediatico” lo ha lanciato don Matteo Armando, il teologo autore dello studio La fuga delle quarantenni - Nuovi scenari del cattolicesimo italiano (Rubbettino, Soveria Mannelli 2012; pp. 105, € 10). Il punto è «il progressivo allontanamento delle giovani generazioni femminili dal cattolicesimo». Commentando le inchieste sociologiche più recenti, don Matteo osserva come è «sulla linea femminile che si registra il mutamento generazionale più alto: lo scarto rispetto alla frequenza alla messa tra gli uomini nati prima del 1970 e quelli nati dopo il 1970 è di 15 punti, è invece di ben 25 punti lo scarto tra le donne nate prima del 1970 e quelle nate dopo il 1970». Non va meglio con «il riferimento alla fede in Dio». Si passa da «uno scarto maschile di soli 7 punti, tra i nati prima e quelli dopo il 1970, a uno femminile di 12 punti, prendendo in considerazione le nate prima e quelle dopo il 1970». Sono le quarantenni nate nel 1970 il punto critico del «progressivo cammino di omogeneizzazione dei comportamenti tra uomini e donne in relazione alla pratica della fede» che si compie nelle giovani nate dopo il 1981. Dopo quella data i giovani di entrambi i sessi «vanno di meno in chiesa, credono di meno, hanno meno fiducia nella Chiesa, si definiscono meno cattolici»
LA GRAZIA ("CHARIS"), L’AMORE ("CHARITAS"), O LA RICCHEZZA ("CARITAS") DELLA GERARCHIA CATTOLICO-ROMANA?! IL ’VANGELO’ DI PAPA RATZINGER ("Deus caritas est", 2006) E’ QUELLO DI VENDERE A "CARO PREZZO" (= "CARITAS")IL "PANE QUOTIDIANO" DEL "PADRE NOSTRO" ...
LA CRISI ECONOMICA E TEOLOGICO-POLITICA, LA GRATUITA’ EVANGELICA, E LA SUBDOLA APOLOGIA DELLA DOTTRINA DI RATZINGER-BENEDETTO XVI. Una riflessione di Enzo Bianchi - con note
IL DIO PIENO DI GRAZIA ("CHARITAS") DI GESU’, GIUSEPPE E MARIA ... O IL DIO PIENO DI GRAZIE MAMMONICHE ("CARITAS") DI RATZINGER E BERTONE?!
di Lucetta Scaraffia (Il Sole-24 Ore, 22 luglio 2012) *
Le 23 donne invitate da Paolo VI a partecipare al concilio Vaticano II come uditrici presenziavano alle riunioni vestite di nero, con un velo sul capo come a una funzione pontificia. Negli intervalli potevano andare in una saletta-bar separata, approntata per loro, e per due volte fu negata a Pilar Bellosillo, presidente dell’Unione mondiale delle organizzazioni femminili cattoliche, la possibilità di prendere la parola in pubblico. Tutte cose che oggi ci indignano, ma normali se giudicate con criteri storici: nel 1964 nessuna riunione della Banca d’Italia, del Consiglio superiore della magistratura, e neppure della Corte suprema statunitense, per limitarsi a qualche esempio, prevedeva presenze femminili.
Piuttosto, libri come questo di Adriana Valerio fanno capire quanto velocemente e radicalmente sia cambiato il mondo - anche un mondo lento come quello della Chiesa - grazie alla rivoluzione delle donne. Già nell’enciclica Pacem in terris Giovanni XXIII aveva riconosciuto l’emancipazione femminile come un importante e positivo «segno dei tempi», e molti cardinali e vescovi appoggiarono la proposta di Paolo VI di aprire le porte del Concilio alle uditrici.
La scelta delle invitate fu comunque faticosa, anche se la loro presenza avrebbe dovuto essere simbolica - così la definì Papa Montini - non avendo diritto né di parola né di voto. Invece, le uditrici parteciparono attivamente ai gruppi di lavoro, presentarono memorie e contribuirono con la loro esperienza alla stesura dei documenti, in particolare su temi come la vita religiosa, la famiglia, l’apostolato dei laici.
La presenza di due vedove di guerra contribuì a rafforzare il peso femminile anche nelle discussioni sulla pace, alle quali, dall’esterno, contribuiva con la sua attività di lobbying l’americana Dorothy Day. Delle uditrici facevano parte 10 religiose e 13 laiche. Molte di loro, specie le religiose, costituivano il filo terminale di gruppi costituiti ai margini dell’assemblea conciliare per preparare commenti e richieste. In particolare, il peso di questo lavoro di mediazione gravò sulle spalle di Sabine de Valon, superiora generale della Società del Sacro Cuore che, nel 1962, aveva organizzato l’Unione internazionale delle superiore generali, di cui era presidente. Superiora anche delle uditrici ed entrata nell’aula conciliare piena di entusiasmo - salutò quel momento come «il passaggio dalla sala di attesa al soggiorno» - si scontrò poi con tensioni e ansietà crescenti.
La più vivace delle uditrici laiche fu senza dubbio Pilar Bellosillo, presidente dell’Unione mondiale delle organizzazioni femminili cattoliche, scelta proprio per questo due volte come portavoce dal gruppo degli uditori. Nel 1965, per l’ultimo periodo, fu chiamata la più giovane delle partecipanti, l’argentina Margarita Moyano Llerena, presidente del Consiglio superiore delle giovani, combattiva come Gladys Parentelli, uruguaiana, che non rinunciò durante il concilio ad andare a capo scoperto e con le maniche corte, così da essere poi espunta dalle foto ufficiali. Gladys si sentì delusa dal poco spazio dato agli uditori laici durante i lavori conciliari, tanto da non partecipare alla sessione conclusiva.
Leggendo le biografie ricostruite nel libro si può vedere come molte uditrici, fra cui la Parentelli, si siano poi avvicinate a posizioni progressiste, considerate poco ortodosse. Molte delle partecipanti, inoltre, si sarebbero dichiarate a favore del sacerdozio femminile. L’autrice si schiera senza remore con queste ultime, presentando con sguardo critico le osservazioni conclusive sulle donne di Paolo VI, che parlano di «un modello che rappresentava il femminile nella funzione "naturale" di custode di un’umanità da salvare», perché ribadiva in sostanza il ruolo materno.
Il materiale offerto dal libro meriterebbe invece un’analisi più approfondita, con un occhio più attento anche al rapporto con il mondo esterno alla Chiesa e ai cambiamenti di quegli anni, per superare la facile interpretazione di ogni fatto conciliare come progressista o conservatore.
Anche perché la presenza delle donne, per il solo fatto di esserci stata, segna una svolta importante nella storia della Chiesa e del Novecento, mentre gli esiti possibili sono più numerosi e sfumati dell’alternativa tra conservazione e progresso.
*
Adriana Valerio, Madri del Concilio. Ventitrè donne al Vaticano II, Carocci, Roma, pagg. 168,
Benedetto XVI il rivoluzionario
di Jacques de Guillebon
in “www.temoignagechretien.fr” del 20 luglio 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Due santi saranno presto nominati dottori della Chiesa da parte del papa. Chi sono? Una suora che descrisse dettagliatamente la natura fisiologica dell’orgasmo femminile, un predicatore che criticava i ricchi cattolici antisemiti spagnoli.
Questo vecchio papa tedesco, teologo autore di 250 libri, continua a stupirci e a prendere di sorpresa i pochi commentatori ancora interessati, in un mondo polarizzato dall’islam e dalla crisi del capitalismo, alla vita del cristianesimo e specificamente a quella della Chiesa cattolica. Mentre con una mano cerca di ottenere, anche dolorosamente, il consenso della banda dei lefebvriani, e di imporre una interpretazione del grande Concilio, quello del Vaticano II, con l’altra traccia delle prospettive rivoluzionarie incredibilmente ampie.
Una rivoluzione nascosta, è vero. Ma di cui bisogna spiare i simboli poco appariscenti. Ad esempio, mentre nessuno se lo aspettava, decide che san Giovanni d’Avila e sant’Ildegarda di Bingen saranno proclamati 34° e 35° dottore della Chiesa nel novembre prossimo. Due santi oggi universalmente riconosciuti, ma che alla loro epoca furono sottoposti ad angherie e perseguitati più di quanto si possa pensare.
Della badessa benedettina tedesca del XII secolo conosciamo ora la scienza quasi universale, quella che le permise di produrre sia trattati medici che compendi musicali. Si dimentica a volte che fu di gran lunga la prima a scoprire la circolazione sanguigna e che non disdegnò di descrivere nei minimi particolari la natura fisiologica dell’orgasmo femminile, lei, la suora, la mistica sposa di Dio. Si dimentica anche talvolta che, contro il furore del suo vescovo, contrariato da una tale libertà di parola, in particolare da parte di una donna, fu un papa a prenderla sotto la sua protezione e a permetterle di proseguire le sue eccezionali ricerche.
pregiudizi
Anche Giovanni d’Avila, tre secoli dopo, nell’epoca della grandeur spagnola, diede la testimonianza della possibilità di quaere deum secondo la ragione. L’oratore immenso, che convertiva con il solo suono della sua voce sia le folle che i grandi, sia gli umili che gli intellettuali vanitosi, il san Giovanni Bocca d’Oro occidentale che sognava di convertire le Indie di Colombo e che fu trattenuto sul suolo delle penisola iberica dalle sue ascendenze in parte ebraiche all’epoca sinistra della moda della limpieza del sangre, fu anch’egli preda dei gelosi, dei funzionari della Chiesa locale, che gli intentarono dei processi per eresia.
Ne uscì vittorioso e più grande, sia al suo tempo che davanti alla storia. Uno dei suoi biografi esprime in questi termini la misura del suo anticonformismo modellato sulla parola di Cristo: “È certo che il predicatore delle Beatitudini, profondamente evangelico, si scontrava con i pregiudizi di allora o con certe resistenze che sono di sempre, ad esempio quando biasimava l’odio o il disprezzo che alcuni dei suoi penitenti confessavano di avere per gli ebrei i i musulmani. [...] È anche certo che il beato fu vittima di una colpevole macchinazione: ricchi offesi e confratelli gelosi tentarono di fargli espiare la sua sollecitudine per i poveri o i suoi successi di predicatore”.
Benedetto XVI, papa sociale, aggiunge una pietra preziosa al suo scrigno: la nomina di Monsignor Gerhard Müller, discepolo del grande teologo della liberazione Gustavo Gutierrez, a capo della più potente Congregazione romana, quella della Dottrina della fede. I vecchi conservatori liberali e gli spregiatori progressisti del Panzerkardinal sono posti di fronte alla loro malafede. E la Chiesa militante milita.
La bomba americana
di Jérôme Anciberro
in “www.temoignagechretien.fr” del 6 luglio 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Il Vaticano e la principale organizzazione di religiose cattoliche americana hanno iniziato un braccio di ferro, il cui esito potrebbe avere gravi conseguenze sulla vita religiosa. Tra i temi che Mons. Müller, il nuovo prefetto della Congregazione per la dottrina della fede (CGF) si troverà a trattare prioritariamente, quello della Leadership Conference of Women Religious (Conferenza delle religiose americane, LCWR), non è stata oggetto di grande attenzione da parte della stampa europea.
È l’esatto contrario di quanto avvenuto oltre Atlantico, dove i principali media, da CBS al New York Times, hanno ampiamente informato su un avvenimento che minaccia di far esplodere una gran parte della vita religiosa cattolica americana.
accuse infondate e un processo non trasparente
La LCWR, che conta circa 1500 membri che rappresentano circa l’80% delle 55 000 religiose cattoliche americane, si trova oggi in una situazione pericolosa derivante da un doppio controllo romano, condotto, da un lato, da parte della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica (CIVCSVA) su tutti gli istituti religiosi femminili americani non di clausura e, dall’altro lato, dalla CDF, che ha fatto una “valutazione” dottrinale specifica della LCWR.
Dire che questa valutazione è stata accolta male, è poco: in un comunicato del 1° giugno, l’ufficio esecutivo della LCWR dichiarava che era stata avviata sulla base “di accuse infondate e di un processo imperfetto, non trasparente”. Il rapporto della CDF, precisa la LCWR, sarebbe stato inoltre “causa di sandalo e di dolore in tutte la comunità ecclesiale” e avrebbe accentuato “la polarizzazione” tra cattolici di sensibilità diverse.
Effettivamente, e contrariamente a molte azioni condotte dalla CDF, il grande pubblico americano - cattolico e non solo - ha reagito in maniera forte alla messa in discussione della LCWR. Il 12 giugno, le responsabili della LCWR hanno incontrato a Roma il cardinal Levada, prefetto della CDF a cui ora è succeduto Mons. Müller. In base ai comunicati dell’una e dell’altra parte, i dialoghi sono stati completi e diretti, ma difficili.
In un’intervista concessa al National Catholic Reporter, il cardinal Levada non ha esitato a parlare di un “dialogo tra sordi”, non escludendo una “decertificazione” canonica se le suore non si sottomettessero alle richieste del Vaticano (riscrittura degli statuti della LCWR, controllo prioritario degli interventi pubblici...).
dottrina cattolica
La LCWR è conosciuta per le sue posizioni aperte, sia in ambito sociale che nel suo rapporto con l’evoluzione dei costumi. La CDF le rimprovera di lasciare la parola, durante le sue assemblee annuali, a persone che intervengono esprimendo idee in contrasto con la dottrina cattolica, in particolare sulle questioni di morale sessuale (contraccezione, omosessualità), ma anche sulla questione dei ministeri.
La cosa non è nuova: nel 1979, la presidente della LCWR aveva già chiesto, in occasione della visita di Papa Giovanni Paolo II negli Stati Uniti, che le donne fossero considerate idonee a tutti i ministeri nella Chiesa.
Ogni anno, la LCWR assegna un premio ad una religiosa, il cui impegno riflette quello della LCWR in maniera particolarmente marcata. L’ultima “neo-laureata”, Carol Keehan, Figlia della Carità e presidente della Catholic Health Association (associazione cattolica per la salute), a cui sono associati circa 650 ospedali americani, si è risolutamente impegnata a favore della riforma dell’assicurazione sanitaria sostenuta da Barack Obama, mettendosi così in posizione diversa rispetto a quella dell’episcopato americano.
La LCWR è l’associazione ampiamente maggioritaria delle religiose americane, ma non è l’unica. Certe congregazioni sono affiliate al Council of Mayor Superiors of Women Religious (CMSWR), nata da una scissione della LCWR risalente agli anni ’90. Secondo vari studi, l’età media alla CMSWR, più tradizionale, sarebbe molto più bassa rispetto a quella constatata alla LCWR.
È quindi sulla base di un rinnovamento generazionale ed ideologico a rovescio - in quanto le più giovani sono le più legate ad una visione gerarchica e molto inquadrata della vita religiosa - che si svolge questo braccio di ferro, di cui si conoscerà l’esito solo in agosto, durante la riunione generale annuale della LCWR che dovrebbe allora far conoscere la sua risposta alle richieste del Vaticano
Benedetto XVI e la crisi del papato in quanto forma istituzionale.
"I corvi, il papa e la posta in gioco". Un’analisi di Aldo Maria Valli
Il Vaticano e la teologia delle sorelle
di Massimo Faggioli (Europa, 6 giugno 2012)
Durante e nonostante lo scandalo delle divisioni interne alla Curia romana ormai noto come “VatiLeaks”, proseguono i richiami del magistero della Chiesa rivolti contro teologhe e teologi cattolici. Due giorni fa è toccato a suor Margaret A. Farley, docente alla Divinity School della Yale University, ricevere da Roma una notifica (datata 30 marzo 2012) riguardo il suo recente libro, Just Love: A Framework for Christian Sexual Ethics. Le critiche riguardano la trattazione di questioni come la masturbazione, gli atti omosessuali, le unioni omosessuali e il matrimonio.
In questi ambiti suor Farley presenta dei casi in cui, sulla base di una morale esperienziale e non dottrinale, si difende la moralità di pratiche rigettate dalla morale sessuale ufficiale della Chiesa. La notifica viene non dai vescovi americani, ma dalla Congregazione per la dottrina della fede che attualmente è guidata da un cardinale americano, William Levada. Il libro viene accusato di insegnare in materia morale principi significativamente differenti da quelli insegnati dal papa e dei vescovi, e quindi di provocare confusione tra i fedeli. Il libro di conseguenza «non può essere usato come valida espressione della dottrina cattolica».
Nella sua risposta, Farley ha «ringraziato la Congregazione» per l’attenzione ricevuta e non ha smentito il fatto che il libro contenga opinioni che non sono in accordo con l’insegnamento ufficiale della Chiesa, ma ha anche puntualizzato che il libro è inteso ad offrire non una dottrina cattolica alternativa, ma «un’interpretazione contemporanea di significati tradizionali che sono rilevanti per il corpo umano, la differenza di genere e la sessualità».
Come accade di consueto, i teologi americani si sono schierati in difesa del libro sotto accusa, che al momento della pubblicazione nel 2006 venne accolto da recensioni molto positive. Una delle teologhe moraliste più importanti, Lisa Cahill del Boston College, ha affermato che una delle questioni-chiave del libro è la violenza contro le donne e le sue conseguenze per la teologia morale cattolica - una questione che non viene menzionata nel giudizio della Congregazione, che invece accorda grande importanza alla moralità della masturbazione.
Anche l’ordine religioso a cui appartiene suor Farley, quello delle “Sisters of Mercy of the Americas”, ha espresso il suo sostegno all’autrice del libro, docente a Yale dal 1971, pluripremiata e celebre a livello mondiale non come esperta di morale sessuale bensì di bioetica ed etica medica.
Agli occhi dei cattolici americani, infatti, è chiaro lo schema di azione della gerarchia verso la teologia americana e in particolare contro le teologhe. Risale al 2010 l’inizio delle tensioni tra i vescovi americani e le religiose circa la riforma sanitaria dell’amministrazione Obama, che le religiose hanno appoggiato per il tentativo di estendere la copertura sanitaria a quasi tutti quelli attualmente senza accesso alle cure mediche.
È dell’autunno 2011, poi, lo scontro tra la conferenza episcopale americana e la docente di teologia di Fordham University, Elizabeth Johnson circa il suo libro, Quest for the Living God. Nel maggio 2012 si è infine avuta notizia dell’indagine aperta dai vescovi americani sulle Girl Scouts (che negli Stati Uniti sono separate dai Boy Scouts of America e politicamente molto più liberal e socialmente più impegnate) per i legami che le Girl Scouts hanno con organizzazioni che promuovono la contraccezione e la salute sessuale delle donne.
È una spaccatura grave e crescente quella tra il Vaticano e i vescovi da una parte, e la teologia americana dall’altra: si tenta di ironizzare apprezzando il fatto che immediatamente, qualche ora dopo la pubblicazione di queste “condanne” vaticane, i libri presi di mira scalano le classifiche di vendita. Nel caso di Farley, i proventi andranno al suo ordine religioso, anch’esso nel mirino del Vaticano per i provvedimenti annunciati due mesi fa contro la Lcwr, la più grande federazione degli ordini religiosi femminili degli Stati Uniti.
DON MARIANO ARCIERO E DON PRIMO MAZZOLARI: DUE “TROMBE DI CRETA” CHE SOFFIAVANO PER TUTTI E PER TUTTE!!!
DON MARIANO ARCIERO: Le sue prediche duravano sino a due ore: non solo il popolo non si stancava, ma erano ascoltate anche dai sacerdoti e dallo stesso Arcivescovo di Napoli. Quando veniva richiesto da alcuni Sacerdoti di volere qualche predica scritta, D. Mariano rispondeva che “quello che diceva in Parrocchia era opera di Dio”. “Badate - diceva agli uditori - approfittatene delle mie parole poiché sebbene la tromba è di creta, è lo Spirito Santo che vi soffia”(da "Breve vita del venerabile Sac. D. Mariano Arciero", del parroco che riportò (anche con l’aiuto del vescovo di Campagna, mons. Giuseppe M. Palatucci) le ossa di don Mariano Arciero a Contursi - don Salvatore Siani, Gonnella Grafica, Contursi Terme, pag. 10).
DON PRIMO MAZZOLARI. (...) don Primo Mazzolari era solito dire che rimettersi totalmente, ciecamente a un uomo, per autorevole che fosse, era come dimettersi da uomo. E agli uomini della sua parrocchia puntualmente ricordava: "Quando entrate in chiesa vi togliete il cappello, non la testa". (Angelo Casati, Libera parola. Perché chiudere la nostra vita in una scatola? Ovvero della paura di pensare, “mosaico di pace”, novembre 2010)
Cronache del parroco di Bozzolo
di Angelo Paoluzi (“Europa”, 28 febbraio 2012)
Non è morto nel 1959 perché il suo messaggio sembra scritto oggi. Don Primo Mazzolari, «la tromba dello Spirito Santo della Bassa mantovana» - così lo definì papa Giovanni XXIII -, è ancora fra noi, con il suo potere di ammonimento e possiamo dire di profezia.
Nelle centoventi pagine di un’antologia dal titolo Come pecore in mezzo ai lupi le edizioni, Chiarelettere (Milano 2011, 7 euro) ripropongono testi che continuano a servire come catechismi di moralità politica. Nella prefazione don Virginio Colmegna parla di «attività provocatoria » di don Primo, di una «nuova cultura politica, partecipata, rilanciando la connessione virtuosa fra etica e impegno politico, riscoprendo una soggettività che ha il coraggio del servizio disinteressato, del bene comune come responsabilità».
Un concetto al quale risponde - sembra per i nostri giorni - il brano di un articolo scritto su Adesso nel 1950: «Un popolo che stenta a vivere e conta a milioni i suoi disoccupati e ha lo schifo di pochi avventurieri che buttano via volgarmente il denaro, ha diritto di vedere che almeno gli uomini da lui scelti per governarlo, se non proprio poveri, siano almeno distaccati, in omaggio a quello spirito di povertà da cui prendono nome e vanto». Così un’amara osservazione sui principi, sui quali «è almeno strano che certe difese a oltranza vengano fatte principalmente nei confronti dei poveri, i quali, posti nel disumano dilemma di scegliere tra un principio morale e una tremenda necessità materiale, all’infuori di qualche caso di grazia, sono costretti ad arrendersi alle necessità». E sullo spettacolo (triste immagine dei nostri tempi) «poco edificante ma istruttivo, di uomini senza fede che si dichiarano per la religione; di senza patria, che s’accendono di furore nazionalistico; di corrotti celibatari, che esaltano la santità della famiglia».
Abbiamo di don Mazzolari un ricordo preconciliare. Si svolse a Napoli, negli anni che precedettero il Vaticano II, un convengo di scrittori cattolici, cui partecipò il meglio della cultura di allora, da Giancarlo Vigorelli a Giorgio La Pira, da Carlo Bo a Mario Pomilio. Fra essi un silenzioso don Primo: il suo Adesso era sotto il tiro della censura clericale. In un gruppo di lavoro si sfogò: chiese a tutti i laici presenti che cosa stessero rischiando, in quanto credenti, della loro libertà: un povero prete come me questo rischia, disse, e sventolò la tonaca. Erano gli anni in cui, fra la generale diffidenza ecclesiale, si batteva per la pace, per l’obiezione di coscienza, per una Chiesa che respingesse - come più tardi essa fece - la legittimità della guerra.
Come pecore fra i lupi restituisce al nostro ricordo il tenace parroco di Bozzolo, che non soltanto i fascisti non riuscirono a piegare
«Cristo è la vite, non il Vaticano». intervista a suor Gramick sul futuro delle religiose Usa
intervista a Suor Jeannine Gramick
a cura di Ludovica Eugenio (Adista- Notizie, n. 19, 19 maggio 2012)
La Curia vaticana e Benedetto XVI hanno paura «del significato dato dal Concilio Vaticano II a ciò che significa essere cattolico», della «libertà di espressione che esso comporta». Di conseguenza, hanno anche paura di permettere «alle voci critiche di essere ascoltate perché alcune di esse potrebbero legittimamente portare al cambiamento». Un cambiamento che, «nelle personalità autoritarie», fa temere di perdere «potere e controllo». In questa chiave, le suore statunitensi, prese di mira dal Vaticano con il commissariamento del loro organismo di coordinamento più importante, la Leadership Conference of Women Religious (Lcwr) (v. Adista Notizie nn. 16 e 17/12), risultano pericolose «perché forse sono l’ultimo gruppo organizzato a riflettere lo spirito conciliare di ciò che significa veramente essere Chiesa». È molto decisa suor Jeannine Gramick, dal 2001 componente della congregazione delle Sisters of Loretto, da sempre dedita al ministero rivolto alle minoranze sessuali e in tale ambito cofondatrice, insieme a p. Robert Nugent, dell’associazione New Ways Ministry, impegnata nella ricerca della giustizia sociale per gay e lesbiche.
Suor Gramick ha accettato di condividere con Adista le proprie opinioni e il proprio punto di vista sulla misura intrapresa di recente dal Vaticano e sul futuro della Lcwr, Di seguito, in una nostra traduzione dall’inglese, l’intervista che suor Gramick ci ha rilasciato.
Con il Vaticano II la Chiesa, popolo di Dio, è stata chiamata ad essere più vicina al mondo. Le religiose statunitensi hanno incarnato questo appello in un’ampia varietà di ministeri, vivendo profondamente nel mondo e ascoltando le persone che, in diversi modi, si trovano in difficoltà. Ci può dire quali tipi di ministeri si sono sviluppati?
Prima dell’inizio degli anni ’60, le religiose svolgevano il loro ruolo soprattutto come insegnanti nelle scuole o come infermiere o amministratrici negli ospedali. Dopo il Concilio Vaticano II, si sono impegnate in numerose nuove forme di ministero. Per esempio, in attività riguardanti la giustizia e la pace, per cambiare le politiche e le strutture nella società e nella Chiesa, a beneficio dei poveri e degli emarginati. Questo ruolo è stato portato avanti in un ministero di tipo politico che puntava sull’educazione e sulle pressioni, lavorando con i media, alla radio, alla tv e attraverso un ministero che si occupa di ecologia e di cura della terra. Molte religiose si sono messe a difendere le persone lesbiche e gay e per una partecipazione più piena delle donne in ogni forma di ministero ecclesiale, compresa l’ordinazione. Oltre al tradizionale ministero di servizio sociale, le suore hanno raggiunto i divorziati risposati, le prostitute, i detenuti, i senza fissa dimora e le donne maltrattate.
Il Vaticano ha accolto positivamente questa vicinanza al mondo e alle persone?
Il Vaticano non ha obiettato al fatto che le suore si facessero più vicine al mondo e alle persone, ma ha contestato le implicazioni di questa vicinanza nei ministeri non tradizionali che si occupano di politica, di sessualità o di entrambi. Per esempio, nel 1983 il Vaticano obbligò suor Agnes Mary Mansour a dare le proprie dimissioni dalla congregazione delle Sisters of Mercy a causa del suo incarico di direttore del Dipartimento dei servizi sociali del Michigan, che finanziava l’aborto per le donne povere. Nel mio caso, il Vaticano mi ha ingiunto, nel 1999, di interrompere il mio ministero pastorale rivolto ai cattolici gay e lesbiche perché avevo scelto di affermare che non condividevo la posizione tradizionale sulla moralità dell’omosessualità.
Si sono verificati numerosi casi meno noti nei quali vescovi diocesani hanno messo in pratica le posizioni vaticane. Per esempio, le religiose hanno ricevuto l’ordine di dimettersi dalla direzione di organismi che hanno a che fare con l’Hiv-Aids, perché promuovevano l’utilizzo dei condom. Alcune religiose sono state licenziate dai loro incarichi parrocchiali o diocesani perché appoggiavano l’ordinazione sacerdotale femminile.
L’attuale valutazione dottrinale della Lcwr da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede (Cdf) ne costituisce un ulteriore esempio. Le due obiezioni concrete citate dalla Cdf sono state la posizione dell’Lcwr sull’omosessualità e sull’ordinazione femminile.
Il suo ministero ha portato la sua congregazione, quella della School Sisters of Notre Dame, ad escluderla perché lei aveva scelto di non obbedire al silenzio impostole, e nel 2001 è entrata nella congregazione delle Sisters of Loretto che, al contrario, l’hanno sostenuta nel suo ministero. Da allora ha più avuto problemi con il Vaticano?
Tra il 2001 e il 2009 il Vaticano ha mandato nove lettere alla presidente delle Sisters of Loretto riguardanti il mio ministero. In ognuna di esse, in sostanza, si affermava che dovevo interrompere il mio ministero a favore delle persone Lgbtq o sarei stata allontanata dalla vita religiosa. Le mie consorelle hanno scelto di non allontanarmi e, a questo punto, non l’ha fatto nemmeno il Vaticano.
Dal 1956 la Lcwr rappresenta la maggioranza delle congregazioni religiose femminili statunitensi. Quali sono state le sue maggiori conquiste, attività e interessi?
La Lcwr offre una vasta gamma di attività e programmi che sono di supporto alle superiore e sono tese al rafforzamento delle relazioni tra le componenti della Lcwr con altri gruppi importanti. Tra queste attività vi è un workshop con cadenza annuale, comprensivo di un ritiro, per le nuove leader e un manuale che aiuta a sviluppare le competenze importanti per la leadership. Produce regolarmente anche materiali scritti, come una pubblicazione trimestrale sulla giustizia sociale, un volumetto di preghiera e riflessione, un diario di Occasional Papers e informazioni su giustizia e pace.
Credo che la conquista più importante dell’Lcwr sia stata quella di aver reso tutte le religiose che vi aderiscono, ma anche un pubblico più ampio, consapevoli di ogni genere di tema che implichi la giustizia. Offre riflessioni teologiche, analisi sociali e suggerimenti per l’azione su molti temi, come la giustizia economica, la difesa dei poveri, il dialogo con l’islam e interreligioso, la pena di morte, la riforma delle politiche migratorie, il cambiamento climatico e le questioni ambientali, la riforma sanitaria, gli armamenti nucleari, la testimonianza contro la tortura, la cancellazione del debito per i Paesi impoveriti, il traffico d’organi e la militarizzazione dello spazio e molti altri temi legati alla giustizia. La lista è praticamente inesauribile.
Negli ultimi anni, le religiose sono state nel mirino del Vaticano. Oltre a singoli casi individuali, le congregazioni religiose femminili hanno subìto una visita apostolica. Lo stesso è accaduto alla Lcwr. C’è una relazione tra le due visite apostoliche? Di cosa ha paura Roma?
Non sono stata licenziata, perché la Cdf non è il mio datore di lavoro e non mi ha mai supportata finanziariamente in questo ministero. La Cdf, nel 1999, ha affermato che non avrei dovuto impegnarmi in questo ministero, ma dopo un discernimento approfondito ho concluso che Dio continuava a chiamarmi ad esso, quindi ho deciso di non cooperare con l’oppressione del silenzio. Continuo a occuparmi delle persone lesbiche e gay.
Per il resto sì, credo che ci sia un legame tra le visite alle singole congregazioni religiose e la valutazione dottrinale (o inquisizione dottrinale) dell’Lcwr, entrambe avviate all’inizio del 2009. Sono in molti a ritenere che entrambi i progetti di indagine sono stati avviati per eliminare il dissenso e spazzare via le ultime vestigia del rinnovamento portato dal Vaticano II. Nel documento che presenta il processo della visita, una delle domande poste ai leader delle comunità era: «Qual è il processo messo in atto per rispondere alle consorelle che esprimono pubblicamente o privatamente il loro dissenso dall’insegnamento autoritativo della Chiesa?».
A mio giudizio, la Curia vaticana e papa Benedetto XVI hanno paura del significato dato dal Concilio Vaticano II a ciò che significa essere cattolico. Hanno paura della libertà di espressione che esso comporta. Hanno paura di permettere alle voci critiche di essere ascoltate perché alcune di queste voci potrebbero legittimamente portare al cambiamento. Le personalità autoritarie hanno paura del cambiamento e di perdere potere e controllo. Ken Briggs, autore di Double Crossed: Uncovering the Catholic Church’s Betrayal of American Nuns (Vittime di un doppio gioco: lo svelamento del tradimento delle suore americane da parte della Chiesa cattolica, ndr), ritiene che le suore abbiano conservato più di qualsiasi altro gruppo nella Chiesa l’etica e lo spirito conciliare, nonostante una strenua opposizione da parte dei due ultimi papi. Le suore statunitensi sono pericolose perché forse sono l’ultimo gruppo organizzato a riflettere lo spirito conciliare di ciò che significa veramente essere Chiesa.
Come vede il futuro della Lcwr, alla luce della nomina di un commissario che ne riveda gli statuti e i programmi?
Penso che la Lcwr abbia due scelte: sottomettersi al controllo Vaticano o sciogliere la Lcwr e ricostituirla come organismo privo di legami con il Vaticano. Credo che la prima scelta rappresenterebbe un ripudio dei quarant’anni e più di rinnovamento nei quali le comunità religiose si sono impegnate. Bisogna ricordare che è stato chiesto alle religiose di rivalutare e aggiornare le loro comunità affinché rispondano alle esigenze dei tempi. Le religiose hanno preso sul serio questa richiesta e ora al Vaticano non piacciono i risultati. Il Vaticano vuole che le suore tornino alla vita religiosa del passato.
La storia ha dimostrato che la politica di appeasement (accomodamento, ndt) di Neville Chamberlain (primo ministro del Regno Unito dal 1937 al 1940, ndt) non ha soddisfatto i desideri di un dittatore come Hitler. La Chiesa istituzionale cattolica, come è attualmente, è uno stato totalitario religioso che dall’epoca del papato di Pio IX ha vissuto una sempre crescente centralizzazione. Il Concilio Vaticano II ha tentato di riportare la Chiesa sul binario di una comunità di credenti sulla via di Cristo, ma le forze curiali hanno cercato di far deragliare il rinnovamento negli ultimi 30 e più anni.
La seconda opzione, ritengo, rispetterebbe l’onore e l’integrità delle congregazioni religiose che hanno cercato, con la loro fedeltà, di tenere vivi i valori di una Chiesa come comunità di discepoli fedeli di Cristo. La ricostituzione della Lcwr come organismo che rispetta il Vaticano ma non abbandona nulla della propria autonomia rappresenterebbe un’applicazione del valore conciliare della sussidiarietà. Tale ricostituzione sarebbe un vantaggio per le religiose, ma anche per la Chiesa nel suo complesso. Essa affermerebbe la necessità di abbandonare un atteggiamento di obbedienza cieca a favore di una capacità decisionale morale adulta.
Fin da papa Pio IX, la Chiesa ha dato prova di un’atmosfera di infallibilità strisciante in forza della quale si partiva dal presupposto che ad ogni decisione, da parte di qualsiasi leader, accettata spesso come infallibile, si dovesse obbedire senza discutere. Il Vaticano II ha cercato di cambiare questo atteggiamento sottolineando la libertà di coscienza. Una ricostituzione mostrerebbe che la Chiesa consiste in molti rami radicati in Cristo, la vite. Il Vaticano è uno dei rami. Le singole diocesi, congregazioni religiose apostoliche, ordini monastici e contemplativi e movimenti laicali sono altri rami. Dobbiamo ricordarci sempre che Cristo, non il Vaticano, è la vite.
Non so per quale scelta opterà la Lcwr. Ha già cooperato con la Cdf nella sua investigazione dottrinale, quindi non so se l’organizzazione continuerà a collaborare nella sua oppressione invece di resistere alla presa di possesso da parte del Vaticano. Continuo a nutrire la speranza che i nuovi vertici della Lcwr siano più realistici nel constatare che si ha a che fare con il totalitarismo religioso e che esso rifiuterà la misura come intrusione indebita e come affronto alla natura profetica della vita religiosa.
In che misura questo passo del Vaticano toccherà la vita, il ministero e il ruolo delle religiose nella Chiesa Usa in futuro?
L’intervento vaticano avrà effetti enormi sulla vita, il ministero e il ruolo delle religiose negli Usa e nella Chiesa mondiale. Gli effetti dipenderanno dal corso che la Lcwr sceglierà di intraprendere. Vorrei essere ottimista e credere che la decisione della Lcwr rafforzerà non solo le religiose ma la Chiesa intera. Rifiutare garbatamente di essere dominate da un sistema patriarcale che non comprende la natura comunitaria della Chiesa significherà dimostrare che un cristiano maturo non obbedisce ciecamente agli uomini, ma segue la chiamata di Dio nella preghiera. Tale scelta dirà che non c’è bisogno di persone controllori dell’ortodossia o di inquisizioni. Tale scelta dirà che Cristo, e non il Vaticano, è la vite e noi ne siamo i rami. Tale scelta dirà che lo Spirito di Dio guida la Chiesa e che sotto questa guida non abbiamo paura. Sotto questa guida abbiamo fede e fiducia. (l. e.)
«CONTINUATE A SOSTENERE LE RELIGIOSE». APPELLO DI EX SUORE AI VESCOVI USA *
36679. NEW YORK-ADISTA. «Nessuno spazio per il dissenso; nessuna possibilità di prospettive diverse; nessun modo di impegnarsi nel dialogo su posizioni cattoliche tradizionali e spesso ristrette; in breve, le religiose devono tenersi le loro idee per loro e seguire semplicemente il dettato e la direzione di Roma, pena la censura, imbarazzo pubblico, atteggiamento oppressivo e persino potenziale espulsione». Dopo innumerevoli testimonianze di solidarietà e di appoggio cui hanno dato voce, negli Usa, media cattolici e laici, così inizia una lettera aperta che quindici ex suore statunitensi, capitanate da Helen Urbain-Majzler, direttora di un’istituzione sanitaria di carattere pubblico, hanno inviato ai vescovi del loro Paese - formalmente al card. Timothy Dolan, arcivescovo di New York, con preghiera di condividerla con i confratelli - riguardo all’attacco lanciato dal Vaticano alla Leadership Conference of Women Religious (Lcwr), l’organismo che riunisce i vertici dell’80% delle congregazioni religiose femminili, giudicati da Roma troppo liberal e femministe (v. Adista Notizie nn. 16 e 17/12 e notizia precedente).
Se la Lcwr ha mostrato sorpresa per il provvedimento romano, scrivono le ex-suore, tra le quali medici, psicologhe, docenti universitarie, educatrici, «donne come noi non si sono stupite. Tutte noi - ora ex religiose - abbiamo vissuto molti anni in comunità religiose e abbiamo sperimentato il trattamento crudele e punitivo delle religiose che hanno assunto posizioni coraggiose a livello pubblico per difendere i poveri, i più vulnerabili nella salute, e le vittime della società, tra cui gli omosessuali».
Il Vaticano, proseguono le ex-religiose, non ha riconosciuto i cambiamenti avvenuti nella Chiesa e nella società americana negli ultimi 40-50 anni, nella quale le forze cattoliche, un tempo maggioritarie, hanno lasciato il posto al pluralismo culturale, ma anche religioso; nella quale il cattolicesimo obbediente e mansueto del passato è in gran parte scomparso e numerosissimi sono i fedeli che hanno deciso di abbandonare la Chiesa. «Per molti cattolici adulti - scrivono le suore - le riforme del Vaticano II, così come il divieto della contraccezione naturale da parte della Chiesa, gli scandali degli abusi sessuali, le coperture della gerarchia, hanno cominciato a intaccare l’obbedienza cieca di molti fedeli. Di sicuro, i vescovi americani sono consapevoli del fatto che l’87% dei cattolici si oppone alla proibizione papale della contraccezione artificiale. Forse il Vaticano non ha capito che la cultura occidentale pone più enfasi sulla responsabilità personale».
Anche le superiore delle congregazioni religiose si sono trovate immerse in questa trasformazione e hanno dovuto fare i conti con le mutate esigenze delle donne che facevano parte delle loro congregazioni, nonché pubblico al quale rivolgevano il loro ministero, ma questo cambiamento «non ha messo in discussione l’orientamento spirituale e la fede in Dio», poiché «dottrina e ministero sono questioni separate». Il problema, semmai, è che non si comprende «perché il Vaticano trovi così difficile permettere un dialogo sincero e aperto sul futuro della Chiesa, sulla spiritualità, sulle priorità ministeriali, senza ingenerare paura di un’azione punitiva». E «solo le organizzazioni più repressive e autocratiche temono l’apporto sincero e onesto dei loro membri. Che cosa esprime questo aspetto riguardo all’autorità della Chiesa e alla relazione con le donne, che hanno offerto migliaia di anni di servizio dedicato, coerente e fedele?».
Le suore firmatarie della lettera affermano che l’impatto personale del provvedimento sulle suore della Lcwr, a molte delle quali sono legate da rapporti di amicizia, è stato pesante. «Speriamo che la Conferenza episcopale statunitense mantenga un atteggiamento di apertura mentale e di cuore nei confronti delle leader religiose, e continuino ad apprezzare e promuovere i loro numerosi doni, invece di supportare con atteggiamento mite e obbediente il Vaticano nel mettere al silenzio questa voce dello Spirito nella chiesa di oggi. Speriamo - è la loro conclusione - che abbiate il coraggio di fare la cosa giusta per le donne, anche se non siamo del tutto fiduciose nel fatto che ciò avverrà. Molte di noi hanno lasciato la propria comunità religiosa per il modo in cui le donne venivano trattato. La Chiesa, purtroppo, mostra ancora di avere paura e di volersi difendere dalla nostra influenza. Come potrà sopravvivere la Chiesa se continua a ignorare o a soggiogare metà della popolazione mondiale?».
Nel frattempo si sono moltiplicate, in numerose città statunitensi, veglie di preghiera e di sostegno alle religiose nonché manifestazioni di protesta; per il 29 maggio è stata programmata una grande manifestazione di supporto a Oakland, in California. È stato inoltre lanciato in tempi record un sito, www.nunjustice.org sul quale è possibile, tra l’altro, sottoscrivere le petizioni di sostegno. (ludovica eugenio)
* Adista Notizie, n. 19, 19/05/2012
CONTURSI TERME, 24 GIUGNO 2012: MEMORIA E RICONCILIAZIONE, IN RICORDO DI CARMELA CERNERA
LETTERA APERTA A DON SALVATORE SPINGI E AL COMITATO PER LA CELEBRAZIONE DELLA BEATIFICAZIONE DI DON MARIANO ARCIERO (1707-1788)
CARO DON SALVATORE ....
IN AVVICINAMENTO AL BELLO E GRANDE GIORNO DI TUTTA LA COMUNITA’ DI CONTURSI,
UN PENSIERO E UNA PREGHIERA IN MEMORIA DI CARMELA CERNERA
Avendo il Comitato individuato la zona del Tufaro, quale luogo in cui celebrare la beatificazione,
io credo che sia opportuno, bello, e doveroso, risanare prima e cristianamente il luogo dalla
memoria del delitto lì avvenuto nel 1959.
Nel percorso di avvicinamento alla grande giornata dedicata alla beatificazione di don Mariano Arciero, sarebbe bello realizzare un pre-evento: decidere di celebrare una messa, proprio lì al Tufaro, in memoria di Carmela Cernera.
Un atto di memoria e di riconciliazione, credo sia un grande gesto per te e per tutta la cittadinanza di Contursi, per prepararsi ad onorare nel modo più bello la memoria stessa del nostro Beato, don Mariano Arciero.
Mi auguro che la cosa sia possibile e realizzabile, anche con la presenza dell’Arcivescovo Moretti.
Con grande stima e in spirito di affettuosa amicizia,
Accogli i miei più fervidi auguri di
Buona Pasqua e di Buon Lavoro!
Federico La Sala (04.04.2012)
NON AVENDO AVUTO ALCUNA RISPOSTA, SE NON UN GENERICO "CI STO PENSANDO" (IL 20 APRILE 2012), DAL PARROCO DON SALVATORE SPINGI, IO - PERSONALMENTE - DICHIARO CHE IL 24 GIUGNO 2012 NON SARO’ AFFATTO NELLA "ZONA DEL TUFARO", MA SARO’ DAVANTI ALLA CHIESA DELLA MADONNA DEL CARMINE (CON LA "MAMMA BELLA" DI DON MARIANO ARCIERO) A RICORDARE LA GIOVANE CITTADINA DI CONTURSI TERME UCCISA NEL 1959. Federico La Sala (11 maggio 2012)
CONTURSI TERME. "Il comitato parrocchiale, guidato dal monsignor Spingi, parroco di Contursi, e il comitato diocesano, presieduto dall’arcivescovo Luigi Moretti, hanno individuato la zona del Tufaro, quale luogo in cui celebrare la beatificazione":
ZONA DEL TUFARO. A quanto pare, i due comitati hanno riacceso i riflettori sul luogo del delitto, ma - da come si sono comportati almeno fino ad ora - le hanno riaccese solo ... per meglio mettere in evidenza la grandissima sensibilità che hanno nei confronti di loro stessi, non del Beato Mariano Arciero e nemmeno dell’intera comunità contursana!
Antonio P.
Caro Antonio P.
quando i contursani e le contursane hanno saputo della scelta del luogo, hanno pensato subito che le ragioni non fossero casuali o solo logistiche, ma che fossero dettate da una bella e buona volontà - in nome di don Mariano Arciero (tornato a Contursi nel 1950) - di risanare le ferite di un momento terribile di tutta la comunità. Ma poi hanno dovuto ricredersi.
Incredibilmente, da parte dei due comitati, c’è stato silenzio assoluto su quanto accaduto nella "zona del Tufaro", nel 1959. La preoccupazione dominante è stata unicamente quella di mettere a punto la macchina organizzativa. Di tutto il resto, niente!
Che dire?! C’è solo da sperare che lo spirito di don Mariano Arciero li illumini alla grande! E che il 24 giuno 2012, la giornata della celebrazione della sua beatificazione, possa essere una giornata memorabile di rinnovamento civile e morale di tutta la comunità locale e di tutta la comunita religiosa (da quella parrocchiale a quella diocesana e a quella vaticana - vista anche la presenza del cardinale Angelo Amato alla cerimonia).
Grazie per l’intervento.
M. saluti,
Federico La Sala
Ildegarda di Bingen: i retroscena di una promozione tardiva
di Karin Heller*
in “www.comitedelajupe.fr” del 19 aprile 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
L’annuncio romano della prossima canonizzazione e proclamazione come “Dottore della Chiesa” di Ildegarda di Bingen (1098-1179) ha fatto fare un sussulto ai media attorno a Natale. Ci si può rallegrare di questo riconoscimento da parte delle autorità romane otto secoli dopo la morte della “Sibilla del Reno”. Quanto al significato di questa promozione tardiva, occorre innanzitutto andare a ricercarla nelle due udienze pubbliche tenute da Benedetto XVI il 1° e l’8 settembre 2010, dedicate alla persona e alla vita di Ildegarda. Il Papa vi delinea il ritratto della “santa” ben inquadrato dalla “Mulieris dignitatem” e dedicato all’esaltazione del “genio femminile” secondo il punto di vista vaticano.
Le donne del XXI secolo, cristiane e cattoliche favorevoli ad un dialogo con il mondo dello spirito delle aperture teologiche create dal Vaticano II, non si lasceranno ingannare. La trasposizione dell’immagine di una donna vissuta tra l’XI e il XII secolo sulla donna di oggi non può limitarsi a qualche osservazione esaltante sui doni eccezionali di Ildegarda in quanto badessa, compositrice, filosofa, farmacista, “consigliera” dei grandi del suo tempo ed ecologista anzitempo. In attesa del discorso ufficiale di questa promozione tardiva, cerchiamo di scoprire un volto di Ildegarda più vicino alla realtà storica.
Ildegarda vive alla fine di un’età in cui i “monasteri doppi” offrono un accesso agli studi superiori indistintamente agli uomini e alle donne che vivono secondo la regola di san Benedetto. Queste “pari opportunità” si radicano nella convinzione profonda di una uguaglianza tra i sessi messa in pratica dal cristianesimo del primo millennio. Dopo Ildegarda, al contrario, si apre un’epoca che esclude tutte le donne dalle nascenti università, una delle quali, quella di Parigi, fu tra le più famose.
L’esclusione delle donne dalla vita universitaria è essenzialmente dovuta alla legge del celibato ecclesiastico promossa dalle riforme gregoriane (secoli XI - XIII). Bisognava a tutti i costi separare il clero dalle donne per garantire la castità del clero, condizione ineliminabile per celebrare la messa e toccare il corpo e il sangue (sacri) di Cristo. Il destino di Abelardo e di Eloisa è una dimostrazione perfetta dell’incompatibilità di una vita di studio nel quadro aperto di una scuola cattedrale o di una università che accogliesse uomini e donne. Mentre i monasteri garantivano un ambiente relativamente sicuro per mantenere una condotta casta per gli uomini e per le donne, non era più così con l’istituzione di scuole dipendenti da una cattedrale.
Ildegarda è ancora una testimone di ciò che può produrre uno scambio intellettuale praticato tra uomini e donne per il progresso della vita umana alla luce del Vangelo di Cristo. Con la loro decisione di escludere le donne dal dibattito intellettuale pubblico, le autorità ecclesiastiche hanno causato un’interruzione brutale ad uno sviluppo molto promettente. Hanno privato la Chiesa e l’umanità di un progresso nelle scienze umane, teologiche e spirituali per il millennio successivo.
Eloisa è un perfetto esempio di questa evoluzione che culminerà nella riduzione di tutte le badesse allo stato laico. Sarà testimone e protagonista dell’aspra battaglia che opporrà la Scuola di Laon ad Abelardo, sostenuto da altri teologi della sua epoca. Quella scuola aveva prodotto dei Glossalia ordinaria che stabilivano l’esclusione delle donne dall’ordinazione diaconale. Tale ordinazione ancora conferita alle badesse faceva di loro membri del clero. Abelardo ed Eloisa persero questa battaglia. In seguito, ogni traccia scritta che facesse riferimento a donne ordinate del primo millennio è stata sradicata, minimizzata, degradata. Così prevalse la convinzione che un’ordinazione delle donne non avesse mai avuto luogo nella Chiesa fin dai tempi di Gesù Cristo. Una volta entrata nei documenti compilati dalle riforme gregoriane tale constatazione, non restava altro che fare un “copia e incolla” da un secolo all’altro. Al contempo, il sacerdozio maschile è stato a tal punto esaltato da farne uno stato metafisico speciale, che innalza l’individuo maschio ordinato al di sopra di tutte le altre categorie umane, e dotato di un sigillo indelebile.
Inoltre, fino al tempo di Ildegarda, la chiusura monastica era considerata uno spazio proibito a ciò che veniva dall’esterno e non come un luogo da cui non si dovesse uscire. Dopo Ildegarda, è diventata una prigione volontaria per donne, o un rifugio proibito agli uomini maschi, dove le donne potevano ancora dare libero corso, in qualche modo, alle loro aspirazioni di creatività intellettuale e sociale.
Ildegarda si concepisce ancora in un mondo in cui può parlare a testa alta direttamente al Papa, all’imperatore di Germania, al vescovo di Magonza, di Colonia, di Würzburg, di Treviri o di Bamberga. Predica dall’alto della cattedra nelle loro cattedrali poiché, essendo badessa, era anche diaconessa. Nelle sue prediche, prive di qualsiasi untuosità ecclesiastica e di ogni timore di restare “politically correct”, sviluppa una solida teologia dell’Incarnazione di fronte agli errori dualisti del catarismo e fustiga il clero avido di ricchezze e onori.
* Karin Heller, Dottore in Teologia (Roma); Dottore in Storia delle Religioni e Antropologia religiosa (Sorbona, Parigi IV); Professore di Teologia, Whitworth University, Spokane, WA, U.S.A.
Ildegarda di Bingen e l’uguaglianza uomo-donna
di Karin Heller*
in “www.comitedelajupe.fr” del 20 aprile 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Dopo un primo articolo che mostrava quanto le donne del primo millennio godessero nella Chiesa di una posizione rispettata, ecco ciò che si diceva nel secoli XI e XII sulle “nature” femminile e maschile. Il dibattito non era meno vivo di quanto lo sia oggi!
Per Ildegarda, la visione della relazione uomo-donna era ancorata in una complementarietà, basata su una uguaglianza tra i sessi. Esprime il suo pensiero utilizzando un linguaggio preso da Aristotele e da Platone ma al contempo prendendo le distanze da loro. Spiega l’essere umano con l’aiuto dei quattro elementi delle natura (fuoco, acqua, aria, terra). Aristotele oppone gli uomini alle donne, rende l’uomo superiore alla donna e associa l’uomo al fuoco e al vento, e la donna all’acqua e alla terra. Ildegarda, invece, associa l’uomo al fuoco e alla terra e la donna all’aria e all’acqua. Così, stabilisce un equilibrio tra elementi leggeri e pesanti, inferiori e superiori, che funziona a favore dei due sessi.
Basata sulla sua lettura dei racconti della Genesi 1 e 2, si oppone ancora ad Aristotele che pretende la sottomissione della donna all’uomo, a causa del fatto che la donna non controlla le sue emozioni. Di nuovo, Ildegarda rompe con questa visione bipolare, opponendovi l’argomento seguente: la donna, essendo creata a partire dalla carne dell’uomo e non dalla terra, gode di maggiore stabilità dell’uomo. Quindi, non solo è in grado di controllare le sue emozioni, ma lo fa a partire da una posizione che la favorisce rispetto all’uomo maschio. Infine, alla convinzione bipolare aristotelica del rispetto imposto alla donna da parte dell’uomo, oppone il rispetto che la donna stessa ispira grazie alla pratica delle virtù al seguito di Cristo.
Ildegarda ha sviluppato una stupefacente analisi dell’interazione tra fattori psicologici e biologici negli uomini e nelle donne. Vedeva in un uomo la cui sessualità era fatta di fuoco e di vento, il carattere equilibrato e la fertilità moderata, un uomo che non cercava il possesso di una donna, ma l’unione con una donna in quanto persona integrale. Questo tipo d’uomo sarebbe stato un buon marito o un buon servo di Dio impegnato nel celibato. Ugualmente, vedeva una donna i cui muscoli avevano una struttura di terra e il cui sangue era mescolato ad aria una persona che ama la compagnia di un uomo senza averne bisogno. Ildegarda riconosceva in questo tipo di donna una persona “molto fertile”, fatta per il matrimonio, ma adatta anche a sopportare una vita di castità.
Per Ildegarda l’uomo di grande perfezione doveva essere in relazione con una donna, o nel matrimonio o in una relazione di amicizia spirituale. Senza alcun dubbio, Ildegarda avrebbe espresso delle riserve su un celibato ecclesiastico imposto ad ogni tipo di uomo o una vita religiosa a ogni tipo di donna. Sapeva troppo bene che gli uomini e le donne non erano uguali davanti a “madre natura”.
Nel campo delle virtù, Ildegarda adotta un atteggiamento piuttosto platonico che riconosce ai due sessi la capacità di esercitare le stesse virtù. Sia Platone che Ildegarda non consideravano il silenzio o l’obbedienza come virtù particolarmente femminili e il prendere la parola in pubblico o il comandare come riservati ai soli maschi. In due occasioni, Ildegarda rifiutò di piegarsi alle ingiunzioni del suo Padre Abate e del suo vescovo.
Ha rotto con la tradizione dei monasteri doppi e istituito dei monasteri dove solo le donne erano al comando. La virtù della donna sta nel costruire e nel parlare allo stesso titolo dell’uomo. Queste attività non sono segno di abolizione della differenza uomo-donna. Ildegarda non avrebbe adottato la teoria dell’indifferenza dei sessi, poiché, sulla scia di San Paolo, sa che “ciò che è debole nel mondo, Dio lo ha scelto per confondere i saggi” (1Co 1,27).
Tra gli storici è aperto il dibattito per sapere se Ildegarda stessa sia andata a Parigi nel 1174 o se il suo legatario letterario Bruno di Strasburgo se ne sia incaricato. In entrambi i casi, lo scopo di tale viaggio era l’inserimento delle opere di Ildegarda nel curriculum degli studi teologici. Ahimè, non furono le opere di Ildegarda ad essere scelte dalle autorità ecclesiastiche per arricchire il curriculum accademico, ma quelle di Aristotele la cui lettura fu resa obbligatoria nel 1255. La ricerca della verità come opera comune degli uomini e delle donne era decisamente finita e la vittoria della bipolarità sessuale aristotelica era garantita per i successivi mille anni. Ildegarda e le sue opere sono cadute nell’oblio, il che le ha probabilmente salvate da una distruzione completa o parziale da parte di un clero che si pensava “definitivamente” al di sopra delle donne!
Certo, ci rallegriamo della promozione tardiva di Ildegarda a rango di “dottore della Chiesa” dalle stesse autorità che l’hanno condannata al silenzio per tanti secoli. Nel corso delle prossime festività, quale immagine di Ildegarda sarà presentata ai cattolici? Da parte mia, crederò alla sincerità di tale promozione solo se una donna della tempra di Ildegarda sarà invitata in Vaticano per predicarvi un ritiro di Quaresima!
* Karin Heller, Dottore in Teologia (Roma); Dottore in Storia delle Religioni e Antropologia religiosa (Sorbona, Parigi IV); Professore di Teologia, Whitworth University, Spokane, WA, U.S.A.
Breve bibliografia che ha ispirato l’articolo:
1. Sr. Prudence Allen, The Concept of Woman. The Aristotelian Revolution, 750 BC- AD1250,
Eerdmans, Grand Rapids, 1985, 292-315. 468-473.
2. Barbara Newman, Sister of Wisdom. St. Hildegard’s Theology of the Feminine, University of
California Press, Berkeley-Los Angeles, 1987.
3. Gary Macy, The Hidden History of Women’s Ordination. Female Clergy in the Medieval
West. Oxford University Press, 2008.
4. Régine Pernoud, Hildegarde von Bingen. Conscience inspirée du XIIe siècle, Editions du
Rocher, 1994.
5. DVD Vision: From the Life of Hildegard von Bingen, diretto da Margarethe von Trotta,
interprete Barbara Sukowa, 2010.
(araldica) figura araldica chimerica che rappresenta la fata Melusina che ha perduto la sua coda di serpente per una coda di pesce; diviene così una variante della sirena da cui differisce solo per l’acqua del bagno: il mare ondoso della sirena è un tino da bagno per la melusina. Alcuni autori danno il nome di melusina alla sirena con la coda doppia
Citta di Contursi Terme, cliccare su:
Salvare la Chiesa di Maria SS. del Carmine a Contursi
di Valentina del Pizzo *
Dalle pagine della rivista online “La voce di Fiore”, si è levato un accorato appello rivolto sotto forma di missiva, a cura di Federico la Sala, indirizzata al Soprintendente per i Beni architettonici della Provincia di Salerno, Gennaro Miccio, perché intervenga al fine di salvaguardare la Chiesa di Contursi dedicata a Maria Santissima del Carmine.
Intitolata probabilmente al patrono di Contursi, San Donato Vescovo, la fondazione della Chiesa, in principio una cappella, risale ad un periodo antecedente il XV sec.: composta da un’unica navata culminante in un’abside a pianta quadrata, la chiesa è stata di recente restaurata dalla locale Soprintendenza. Questi lavori hanno consentito di mettere in luce le decorazioni a tempera che adornano le pareti interne delle dieci cappelle in muratura, decorate con stucchi e cornici, che si aprono lungo le pareti laterali: si sono potute così distinguere delle Sibille i cui diretti confronti sono nella Cappella Sistina di Michelangelo o con gli affreschi di Raffaello nella Chiesa romana di Santa Maria della Pace, secondo un motivo iconografico caro al Rinascimento italiano e che data i nostri al pieno XVI sec.
I lavori di restauro architettonico hanno interessato il consolidamento generale della struttura e delle murature che versavano in cattive condizioni. Il tetto è stato sostituito da una nuova copertura in pianellato di cotto ed orditura di legno, sovrapposta a capriate lignee, con l’inserimento di elementi strutturali di ferro.
L’intervento, resosi necessario a seguito del terremoto del novembre 1980, si sono conclusi nel 1989, tuttavia oggi la chiesa versa in uno stato di abbandono, con erbacce che intasano il corretto deflusso delle acque e che vanno ad infiltrarsi nelle pareti provocando danni già disastrosi ed evidenti all’interno, nonché favorendo l’avvio del cedimento dell’orditura che tiene l’intero manto delle tegole.
Problemi non del tutto risolti di umidità non rassicurano sulla conservazione delle decorazioni parietali, rischiando di sottrasse alla fruizione da parte della comunità e dei potenziali visitatori delle dodici Sibille rinascimentali e del loro messaggio di Rivelazione. Queste infatti dalla Sibilla Cumana alla Sibilla Aegyptia, di modesta fattura e di complessa lettura, si susseguono fino all’altare, dietro il quale sorge una pala del 1608 di Jacopo de Antora, raffigurante il Profeta Elia, il profeta Giovanni Battista ed in alto, su una nuvola, Maria con il Bambino, mentre alle loro spalle svettano le colline del Carmelo, con chiese e grotte, ed un’iscrizione che menziona il committente Paolo Pepe, nipote di Paolo Antonio Pepe, alla cui memoria l’opera è dedicata: un patrimonio fondamentale per il quale urgono interventi urgenti di recupero e consolidamento affinché non si perda del tutto l’effettodel restauro dello scorcio degli anni ottanta, determinando così un doppio spreco, delle opere e di risorse impiegate in passato.
Una curiosità: i Pepe sono gli antenati dei Rosapepe, noti oggi per gli stabilimenti termali e chissà se non fossero disponibili ad assumere anche il ruolo di Mecenati, finanziando, in tempi di magra, per la gestione e la manutenzione del nostro patrimonio culturale, un restauro degno di un paesino che ha fatto dell’industria turisticalegata agli stabilimenti termali, il proprio vanto.
Valentina Del Pizzo
* Fonte: “UNICO Settimanale”, n. 11, 24.03.2012, pag. 18
Donne e ministeri da segno dei tempi a indice di autenticità
di Lilia Sebastiani
in “Viandanti” (www.viandanti.org) del 10 marzo 2012
Nell’enciclica ‘conciliare’ Pacem in terris di Giovanni XXIII (1963) al n.22 l’ingresso crescente delle donne nella vita pubblica veniva annoverato tra i segni dei tempi, insieme alla crescita delle classi lavoratrici (n.21) e alla fine del colonialismo (n.23).
Ricordare l’enciclica è doveroso, per il valore storico di questo semplice e cauto riconoscimento: infatti è la prima volta che un documento magisteriale rileva la cosiddetta promozione della donna senza deplorarla - anzi come un fatto positivo. I segni dei tempi sono ancora al centro della nostra attenzione, ma per quanto riguarda le donne la questione cruciale e non ignorabile è ormai quella del loro accesso al ministero nella Chiesa, a tutti i ministeri.
Venerande esclusioni
Certo il problema dei ministeri non è l’unico connesso con lo status della donna nella Chiesa, ma senza dubbio è fondamentale; guardando al futuro, è decisivo. Non solo e non tanto in se stesso, ma per la sua natura di segno.
In questo momento nella Chiesa la donna è ancora esclusa dai ministeri ecclesialmente riconosciuti: non solo da quelli ordinati (l’Ordine sacro, cioè, nei suoi tre gradi: episcopato, presbiterato, diaconato) ma anche da quelli istituiti, il lettorato e l’accolitato. Questi ultimi, chiamati un tempo “ordini minori” e considerati solo tappe di passaggio obbligatorie per accedere all’ordinazione, furono reintrodotti nel 1972 da Paolo VI (Ministeria quaedam) come “ministeri istituiti” - per distinguerli da quelli ordinati, mantenendo però l’elemento della stabilità e del riconoscimento ecclesiale - e furono aperti anche a laici non incamminati verso l’Ordine; tuttavia si specificava chiaramente che tali ministeri erano riservati agli uomini, “secondo la veneranda tradizione della chiesa latina”.
Un po’ più recente l’istituzione dei “ministri straordinari dell’Eucaristia”: con prerogative non molto diverse da quelle degli accoliti, questi possono essere anche donne. E di fatto sono più spesso donne che uomini. Un passo avanti, forse? Certo però la dichiarata ‘straordinarietà’ sembra messa lì a ricordare che si tratta di un’eccezione, di una supplenza..., di qualcosa che normalmente non dovrebbe esserci.
A parte i servizi non liturgici ma fondamentali, come la catechesi dei fanciulli, quasi interamente femminile, e le varie attività organizzative e caritative della parrocchia, le letture nella Messa vengono proclamate più spesso da donne che da uomini; ma si tratta sempre e comunque di un ministero di fatto, che in teoria sarebbe da autorizzare caso per caso, anche se poi, di solito, l’autorizzazione viene presunta.
Il Concilio e l’incompiuta apertura
Il problema dell’accesso femminile ai ministeri è diventato di attualità nella Chiesa nell’immediato post-concilio, nel fervore di dibattito che caratterizzò quell’epoca feconda e rimpianta della storia della Chiesa. Il Vaticano II aveva mostrato una notevole apertura sulle questioni che maggiormente sembravano concernere il problema della donna in generale e della donna nella Chiesa in particolare. Sulle questioni più specifiche e sul problema dei ministeri i documenti conciliari erano generici fino alla reticenza, ma senza chiusure di principio. Ciò autorizzava a sperare nel superamento, non proprio immediato ma neppure troppo lontano, di certe innegabili contraddizioni che persistevano sul piano disciplinare. Inoltre altre chiese cristiane avevano cominciato da qualche anno, certo non senza resistenze anche aspre, a riconsiderare e a superare gradualmente il problema dell’esclusione (a nostra conoscenza, la chiesa luterana svedese fu la prima ad ammettere donne al pastorato, nel 1958)
.Una chiusura fragile
Nel decennio che seguì il Concilio, il dibattito in proposito fu intenso. La Chiesa ufficiale mantenne però una posizione di cautela e di sostanziale chiusura sempre più netta, che culminò - volendo chiudere la questione una volta per sempre - nella dichiarazione vaticana Inter insigniores, che è della fine del 1976, ma resa pubblica nel 1977.
In questo documento l’esclusione delle donne dal ministero ordinato veniva ribadita con caratteri di definitività vagamente ‘infallibilista’, ma anche con un significativo mutamento di argomentazione, che ci sembra importante poiché dimostra che l’esclusione è un fatto storico-sociologico in divenire e non un fatto teologico-sacramentale. Non si dice più, come affermava Tommaso d’Aquino, che la donna è per natura inferiore all’uomo e quindi esclusa per volere divino da ogni funzione implicante autorità; si richiama invece l’ininterrotta tradizione della Chiesa (che è evidente, ma è anche evidentissimo portato della storia e delle culture) e soprattutto la maschilità dell’uomo Gesù di Nazaret, da cui deriverebbe la congruenza simbolica della maschilità del prete che, presiedendo l’assemblea, agisce in persona Christi.
Quest’ultimo argomento fragile e sconveniente è stato lasciato cadere, infatti, nei pronunciamenti successivi: questi si rifanno solo alla tradizione della Chiesa e a quella che viene indicata come l’esplicita volontà di Gesù manifestata dalla sua prassi.
Anche questo argomento non funziona. Gesù, che non mostra alcun interesse di tipo ‘istituzionale’, alle donne accorda, con naturalezza, una piena parità nel gruppo dei suoi seguaci. Sembra insieme scorretto e pleonastico dire che “non ha ordinato nessuna donna”, dal momento che, semplicemente, non ha ordinato nessuno. Non vi è sacerdozio nella sua comunità, ma servizio e testimonianza, diakonìa non formalizzata - eppure rispondente a una chiamata precisa - che, prima di essere attività, è opzione fondamentale, stile di vita, sull’esempio di Gesù stesso “venuto per servire”.
Nel Nuovo Testamento di sacerdozio si può parlare solo in riferimento al sacerdozio universale dei fedeli (cfr 1 Pt 2,9; Ap 1,6), negli ultimi decenni tanto rispettato a parole quanto sfuggente e ininfluente nel concreto del vissuto ecclesiale; oppure in riferimento all’unico sacerdote della Nuova Alleanza - sacerdote nel senso di mediatore fra Dio e gli esseri umani -, Gesù di Nazaret (cfr Ebr 9), il quale nella società religiosa era un laico, oltretutto in rapporti abbastanza conflittuali con il sacerdozio del suo tempo.
Un’esclusione che interpella tutti
Vi sono due fatti, molto modesti ma significativi, che aiutano a tenere viva la speranza. Il primo, che i pronunciamenti dell’autorità ecclesiastica volti a chiudere ‘definitivamente’ la questione sono diventati abbastanza ricorrenti, il che dimostra che non è poi tanto facile chiuderla. Il dibattito è aperto e procede. Il secondo, che l’argomentazione teologica sembra cambiata ancora: felicemente sepolto l’infelicissimo argomento della coerenza simbolica, già pilastro dell’Inter insigniores, si richiama solo la prassi ininterrotta della chiesa romana e sempre più spesso si sente riconoscere, anche dalle voci più autorevoli, che contro l’ordinazione delle donne non ci si può appellare a ragioni biblico-teologiche.
No, non si tratta di banali rivendicazioni. L’esclusione interpella tutti: nessuna/nessun credente adulto può disinteressarsi di questo problema chiave finché le donne nella chiesa non avranno di fatto le stesse possibilità degli uomini, la stessa dignità di rappresentanza.
E’ necessario ricordare che vi sono donne cattoliche di alto valore e seriamente impegnate - tra loro anche alcune teologhe - che a una domanda precisa sul problema dei ministeri istituiti rispondono o risponderebbero più o meno così: no grazie, il sacerdozio così com’è proprio non ci interessa. E’ un atteggiamento che merita rispetto: almeno in quanto manifesta il timore che insistere troppo sul tema dell’ordinazione induca ad accentuare l’importanza dei ministri ordinati nella Chiesa (mentre sarebbe urgente semmai ridurre quell’importanza, insomma ‘declericalizzare’).
Ma dobbiamo ricordare che il “sacerdozio così com’è”, nella storia e nella mentalità corrente, si fonda proprio sulla ‘separazione’, sullo spirito di casta, sul sospetto previo e sul rifiuto nei confronti della donna, che nella chiesa di Roma si esprime in una doppia modalità: l’esclusione delle donne dalle funzioni di culto, di governo e di magistero, è parallela all’obbligo istituzionale di essere “senza donna” per coloro che le esercitano. Il divieto per le donne di essere ministri ordinati el’obbligo per i ministri ordinati di restare celibi sembrano due problemi ben distinti, mentre sono congiunti alla radice. E ormai sappiamo che potranno giungere a soluzione solo insieme.
Segno dei tempi, certo. Segno di trasformazione, segno contraddittorio, segno incompleto, proprio come il tempo in cui viviamo. Per quanto riguarda la chiesa cattolica, però, non solo segno, ma indice di autenticità. Non temiamo di dire che sulla questione dei ministeri, che solo a uno sguardo superficiale o ideologico può apparire circoscritta, si gioca il futuro della chiesa.
Lilia Sebastiani
Teologa
Recitare o essere? Pensieri tra Quaresima e Pasqua
di don Angelo Casati
Viandanti (www.viandanti.org, 30 marzo 2012
Mi succede - qualcuno la ritiene una mia ossessione - di avere in sospetto ogni parola che, poco o tanto, sembra recitata, ogni atteggiamento che, poco o tanto, sembra studiato. Si recita una parte. A volte mi sorprendo a guardarmi. E mi chiedo: "Stai recitando? Stai celebrando o recitando? Stai pregando o recitando? Stai predicando o recitando? Stai parlando o recitando?". Nella recita non ci sei. C’è una parte che indossi. Che non è la tua.
Gesù incantava
Gesù non recitava. Forse per questo o anche per questo, incantava. Era autentico, aderente la vita, non a una parte da recitare. E la gente lo sentiva vero. A differenza di altri. A differenza, per esempio, di una certa frangia - non tutti! - di farisei che "recitavano": "Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini. Allargano i loro filatteri, allungano le frange; amano posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare rabbì dalla gente"(Mt.23,5-7).
Qualcuno, anche nel mondo ecclesiastico, sconcertato dalla calda umanità di Gesù, tende a presentarla come se il Signore stesse recitando, quasi non gli fosse consentito, in quanto Dio, di crescere, di essere stanco, di non sapere, di amare i banchetti, di desiderare la tenerezza di un bacio o il profumo dell’unguento, di provare paura e solitudine. Quasi recitasse, in tutto ciò una parte non sua. Gesù non ha mai recitato. Era.
Dominante è il ruolo
C’è il pericolo - lo avverto sempre più acutamente e il racconto delle tentazioni di Gesù, all’inizio della Quaresima, lo segnalava - che anche la religione diventi spettacolo, luogo in cui si recita. Strano verbo, questo "recitare", che abbiamo nel nostro linguaggio religioso legato al pregare! Si "recita" una Ave Maria o un Padre Nostro, si "recita" il rosario. È in agguato la recita. La avverti. A volte è nell’aria. A tradirla è un tono affettato, artefatto, poco naturale, studiato.
Aria strana. L’aria di certi raduni ecclesiastici. Volti impassibili, non tradiscono la benché minima emozione. Ci si parla di errori, di cedimenti o di smarrimenti, sono sempre quelli degli altri. L’inquietudine non esiste. Esiste la sicurezza. Si recita la parte di Dio. Mai uno che dica: "Ho peccato". Lo si dice nella Messa, ma per modo di dire. Nessuno che abbia mai fatto un errore. E che lo riconosca. Domina il ruolo. L’impassibilità del ruolo. Impenetrabili, drappeggiati, diplomatici. E senti la distanza. E come se mancasse gente vera. Non sono i volti che cerchi, quelli che ti incantano fuori le mura, volti che non mascherano le stanchezze e le emozioni, volti che confessano l’inquietudine e la lontananza.
Scrive Carlo Maria Martini: "Non di rado mi spavento sentendo o leggendo tante frasi che hanno come soggetto "Dio" e danno l’impressione che noi sappiamo perfettamente ciò che Dio è e ciò che egli opera nella storia, come e perché agisce o in un modo e non in un altro. La Scrittura è assai più reticente e piena di mistero di tanti nostri discorsi pastorali".
Come figli di Dio
Comunità alternativa si diventa vivendo il Vangelo, non recitando la parte del "perfetto". Alternativi diventiamo non mascherandoci dietro il ruolo o dietro il titolo, ma dando trasparenza ai rapporti. Incontrandoci come persone. Come figli di Dio. Questa la più grande dignità che ci è toccata. Non esiste, per un vero credente, altra tanto grande.
Essere Papa, essere Vescovo, essere prete, non vale l’essere figli di Dio. E, se figli, liberi, e quindi non soffocati, non mascherati, non misurati da titoli e da ruoli.Quando Papa Giovanni, poco dopo la sua elezione, si accorse che l’ Osservatore Romano introduceva le sue parole con questa formula di rito: "Come abbiamo potuto raccoglierle dalle auguste labbra di Sua Santità", chiamò il capo redattore e gli disse: "Lasciate perdere queste sciocchezze e scrivete semplicemente: Il Papa ha detto".
La grande sfida
Quale perdita per la società, se la Chiesa, che nel mondo dovrebbe apparire come lo spazio dove risplende la libertà e l’umanità dei rapporti, diventasse luogo di relazioni puramente formali, deboli e fiacche, non sincere e intense.
Rischierebbe l’insignificanza. Verrebbe meno alla grande sfida, all’opportunità che oggi le si offre di tessere in una società ampiamente burocratizzata rapporti autentici e profondi.
E non sarà che alla Chiesa di oggi, e quindi a ciascuno di noi, Dio chieda meno protagonismo, meno organizzazione, meno recite e più vicinanza, più sincerità?
Alla mente ritorna una pagina folgorante dello scrittore Ennio Flaiano, là dove abbozzava un ipotetico ritorno di Gesù sulla terra, un Gesù, infastidito da giornalisti e fotoreporter, come sempre invece vicino ai drammi e alle fatiche dell’esistenza quotidiana: "Un uomo" - scrive - "condusse a Gesù la figlia ammalata e gli disse: "Io non voglio che tu la guarisca, ma che tu la ami". Gesù baciò quella ragazza e disse: "In verità questo uomo ha chiesto ciò che io posso dare". Così detto, sparì in una gloria di luce, lasciando le folle a commentare quei miracoli e i giornalisti a descriverli".