Politica

Calabria, un’identità problematica

lunedì 11 aprile 2005.
 


-  Francesco Moricca
-  da www.rinascita.info
-  Mercoledì 6 Aprile 2005 - 17,14

In questi giorni di campagna elettorale nella mia Calabria, che riconosco sempre meno e che tuttavia non pare affatto quella derelitta regione d’Italia che si suole dipingere - ultima provincia di una provincia dell’impero statunitense - mi domando se mai essa abbia posseduto quell’identità antropologica che suole definirsi “calabresità” e sulla quale hanno molto detto gli scrittori calabresi a cominciare dal più grande di essi, Tommaso Campanella.

E se questa identità non fosse in realtà mai esistita? Sarebbe allora facile capire perché i Calabresi hanno tollerato la sistematica distruzione del loro tessuto economico e sociale facendone addirittura un punto di forza. Malleabili come la cera, si sono ben adattati alle peggiori situazioni e hanno trovato il loro posto al sole, sia nei Paesi in cui sono emigrati sia rimanendo nella loro terra.

A partire dagli anni Sessanta coloro che sono rimasti hanno vissuto di terziario e di assistenzialismo statale, mentre si verificava uno sviluppo esponenziale di una criminalità le cui origini erano di antica data e che si è saputa adeguare ai nuovi tempi fino a diventare una vera e propria classe dirigente.

Oggi il potere della ‘ndrangheta è superiore a quello delle altre organizzazioni criminali del Meridione, più capace di rispondere alle sfide della globalizzazione. La penetrazione del modello di vita americano, relativamente al sottosviluppo calabrese, è sicuramente la più alta o comunque fra le più alte d’Italia. Il ponte sullo Stretto, simbolo eloquente dello stile americano, sarà l’atto di morte di quanto ancora sussiste di antichissime tradizioni, per la criminalità organizzata un affare ben altrimenti redditizio del porto Di Gioia Tauro e di quello a suo tempo rappresentato dalla costruzione dell’ autostrada.

La Calabria è pertanto per la Nazione un pericolo più grave di quello rappresentato dal secessionismo padano. Questo può ancora offrire delle resistenze all’azione disgregatrice della globalizzazione. La Calabria no per la presenza della ’ndrangheta, e per quanto non abbia la vocazione secessionista della Sicilia ma al contrario assoluto bisogno del sostegno dell’Italia e dell’Europa. Ormai non esistono che uomini chiamati calabresi e ognuno, sfruttando il clientelismo e contando sulla cerchia degli ‘amici’ se non solamente sulle proprie forze individuali (i valori della famiglia sussistono ancora veramente solo nella ‘ndrangheta), cerca come può di farsi avanti a ogni costo. La vecchia “filosofia della roba” si unisce al più sfrenato consumismo; e questo, impacciato dai limiti di un’economia povera perché essenzialmente improduttiva, diventa nei vecchi e nei giovani pensiero dominante, l’ ideale invertito in cui trova espressione il mito dell’America dei primi emigranti, mito che per non pochi Calabresi si è oggi realizzato proprio nella loro terra.

In tale contesto, antico e moderno a un tempo, il calabrese vive il suo rapporto col denaro, se lo procura e lo sperpera. Ciò vale anche per gli emigranti che sono rientrati, e per quelli che non lo sono è comprensibile che siano perfino diventati elettori della Lega Nord.

Poiché possedevano un’identità precaria e meno sentivano il richiamo della terra natale, una volta stabilitisi nel Settentrione ne hanno assunto la cultura per uno spontaneo processo di compensazione e hanno finito per ritenersi più settentrionali dei veri settentrionali. Se la ‘ndrangheta è riuscita a costruire “uno stato nello stato”, o più precisamente uno stato che è in grado di condizionare lo stato centrale grazie a una maggiore, più libera e spregiudicata capacità di contrattare con la finanza internazionale, non si può dubitare che essa rappresenti la vera classe dirigente della regione, che la Calabria, addirittura, sia di fatto se non di diritto già una repubblica indipendente.

Il peggiore feudalesimo si è coniugato con la peggiore modernità, le ha concesso di utilizzare per i suoi fini l’atavica anarchica violenza dei discendenti dei briganti, trasfigurati,questi ultimi, in guerriglieri e in vendicatori del popolo - quali in certa misura furono effettivamente - dalla letteratura romantica calabrese (si pensi al ‘Brigante’ del Miraglia, ad ‘Antonello capobrigante calabrese’ del Padula, a ‘Giosafatte Tallarico’ del Misasi, ma anche al nocecentesco ‘Vizzarru’ di Sharo Gambino).

Se non esiste un’identità calabrese e se il calabrese è sostanzialmente un apolide in cerca di una patria (per cui l’Alvaro vedeva all’origine dell’emigrazione più un’esigenza “spirituale” - o per meglio dire psichica - che una mera necessità economica), la ragione è da ricercarsi nel fatto che, fin dai tempi della colonizzazione greca, venne a stabilirsi una netta frattura fra la popolazione stanziata sulle coste, che raggiunse in breve un altissimo grado civiltà, e quella dell’interno, i Bruzi autoctoni, che si arroccarono sulle montagne e rimasero impermeabili all’ellenizzazione. Con ogni probabilità, se il nome di Bruzi potette essere originario, esso tuttavia venne interpretato dai Greci e dai Romani, e ovviamente con qualche ragione, nel senso dispregiativo di “bruti”, di veri e propri selvaggi.

E questa realtà, dura a riconoscersi per la dominante cultura di sinistra in ragione delle sue possibili interpretazioni lombrosiane, potrebbe spiegare l’inaudita ferocia dei briganti: nient’altro che l’espressione esasperata di un retaggio atavico che il tempo non è riuscito a cancellare e che ha inquinato nei Calabresi ogni altra positiva componente della loro tradizione, da quando la popolazione, a causa delle incursioni dei pirati, si ritirò sui monti, dove rimase di fatto isolata fino ai primi decenni dell’Ottocento allorché cessarono definitivamente gli attacchi barbareschi con la conquista francese di Algeri.

Ma accanto al retaggio belluino che indusse a teorizzare un “romanticismo naturale” dei Calabresi e col De Sanctis a sopravvalutare l’apporto della loro letteratura al Risorgimento, si poneva la tradizione della grecità col suo gusto per la speculazione e le tendenze mistiche diffuse dal pitagorismo e consolidate dall’opera dei monaci basiliani nel periodo della dominazione bizantina, tendenze che trovarono massima espressione nel millenarismo di Gioacchino da Fiore e si fusero con la propensione alla filosofia e all’utopia politica col Campanella.

Il contributo che la Calabria offrì al sorgere dell’Umanesimo fu notevolissimo anzitutto per merito di Flavio Magno Aurelio Cassiodoro (Squillace, 480 - 575 circa), che costituì col suo ‘Vivarium’, nei secoli bui dell’Alto Medioevo, il primo tramite fra il mondo greco-latino e l’Europa cristiana. Nel XIV secolo il patrimonio dell’ellenismo e la conoscenza in Europa della lingua greca furono diffusi da due insigni monaci di Seminara (di quella Seminara ancora oggi tristemente nota per le sue faide), Barlaam e Leonzio Pilato. Il primo fu conosciuto alla corte napoletana di Roberto d’Angiò dal Boccaccio che lo definì “piccolo di corpo ma grandissimo per scienza”, e ad Avignone fu maestro di greco del Petrarca. Il secondo nel 1360 fu chiamato dal Boccaccio allo Studio fiorentino e fu il primo traduttore in latino dei poemi omerici.

Di lui l’autore del ‘Decamerone’ notò di passata quell’inquietudine e labilità caratteriale che qui si è spiegata come conseguenza della mancanza di vera identità spirituale da parte dei Calabresi. Il Boccaccio infatti afferma che la propria conoscenza della lingua e della cultura greca avrebbe potuto essere più approfondita “qualora quell’uomo instabile fosse rimasto più a lungo presso di noi”(‘De genealogis deorum gentilium’, XV, 7).

D’altra parte il carattere assai problematico della calabresità, anzi il suo confondersi nei suoi aspetti meno negativi con la grecità - ed essa si può dire oggi quasi totalmente estinta nel patrimonio culturale della regione - è dimostrata in maniera incontrovertibile dal fatto che il più antico documento del volgare calabrese, la ‘Carta Rossanese’, scritta per altro in caratteri greci, risale soltanto alla fine del XV secolo. Della gran quantità di codici greci prodotti nei monasteri calabresi nell’Alto Medioevo - ben oltre seicento secondo gli studi di Francesco Russo - solo il celebre ‘Codex purpureus’ di Rossano, del VI secolo, è rimasto in Calabria. Gli altri si trovano sparsi in Italia e nel resto dell’Europa occidentale. Di questa sistematica spoliazione furono responsabili uomini della Chiesa come San Nilo, San Luca e il cardinale Sirleto, probabilmente preoccupati che un tale patrimonio non andasse distrutto a causa delle precarie condizioni di sicurezza in cui versava l’estremo lembo della Penisola.

Il retaggio della grecità, di cui sussistono ad oggi tenui focolai linguistici a Bova, Roghudi, Gallicianò e Gorio, era ancora vivo negli anni Trenta del Novecento, quando - scriveva l’Alvaro - nell’indole del calabrese forte si notava la propensione “verso le cose superiori”, la scienza era “considerata la cosa più nobile, più alta, più degna dell’uomo”, e “ il piacere più raro (...) quello di ascoltare i discorsi degli uomini colti”. Ma in Calabria - nome che nel Medioevo indicava la parte meridionale delle Puglie e solo in un secondo tempo passò a designare l’antico Bruzio - sempre “mancò l’orgoglio delle cose popolari e locali, e mancò quel soffio di città moderna di cui i Comuni italiani furono i primi a dire gli accenti nel mondo. Popolo e borghesia non furono da noi come in Toscana due classi comunicanti” (C. Alvaro, ‘Calabria’, Firenze,1931, pp. 23 - 25, 18).

La precaria identità calabrese e la sua negativa valutazione erano ormai un consolidato luogo comune, se Jacopo Antonio Marra ebbe a definire “un tal bruzio” Bernardino Telesio. L’intento era chiaramente spregiativo volendo il Marra significare che il primo dei massimi filosofi del Rinascimento era dopo tutto figlio di una terra di bruti e sottouomini. Eppure il pungente critico non faceva che riprendere la voce “Brutium” del vocabolario di Ambrogio Calepino (1502). Si deve alla risentita risposta del Campanella all’ingiuria del Marra il primo tentativo di nobilitare la calabresità, non solo comunque assimilandola alla grecità, ma addirittura affermandone la maggiore antichità rispetto ad essa perché i suoi primitivi abitanti sarebbero stati addirittura contemporanei di Noé: una tesi che sarà poi sviluppata dal Vico per affermare l’originalità della civiltà italica nel ‘De antiquissima Italorum sapientia’ e successivamente dal Cuoco nel ‘Platone in Italia’.

Il testo campanelliano, tratto dalla ‘Prefazione’ alla ‘Philosophia sensibus demonstrata’ (1591), merita di essere riportatato.
-  “Poiché questo saccente (il Marra, n.d.r.) chiama con disprezzo Telesio ora Bruzio ed ora Calabrese, sappia che la Calabria è la migliore e la più antica di quasi tutte le regioni. Questa regione incominciò ad essere abitata dopo il Diluvio per la fertilità del suolo da Aschenaz, nipote di Noé, nei pressi di Reggio. Fu chiamata Ausonia per essere fertile di ogni bene, come ora è detta Calabria, il cui nome significa quasi ‘regione abbondante’; fu anche detta Enotria, Morgezia, Sicilia, Magna Grecia, per distinguerla dall’altra Grecia, la quale veniva superata da essa in tutte le cose. E fu detta anche Italia, da cui ora è derivato il nome a tutta l’Italia, che è una parte dell’Europa
-  (...). Fu anche detta Brettia (donde Brutium, n.d.r.) da Brento, figlio di Ercole, che una volta fu re di questa regione, come narrano nelle loro storie gli antichissimi scrittori, Stefano, Eustazio ed Antioco (...). Presso i Calabresi vigoreggiano anche tutte le discipline e l’intera scienza umana, e quella che ora s’insegna nelle scuole trae origine dalla Calabria. Platone infatti e il suo discepolo Aristotele furono allievi di Calabresi (...). Platone infatti si portò da Atene in Calabria, e qui apprese tutto da Timeo, Euticrate ed Arione, tutti di Locri. (...).
-  (La scuola di Pitagora) fiorì presso Crotone, e da tutto il mondo venivano a lui filosofi e re, come narrano svariati scrittori; e dopo la sua morte la sua scuola fiorì a Locri e a Reggio sotto diversi maestri; e a quel tempo in tutta la regione non si contavano i filosofi e le donne sapientissime che scrissero molte opere”.

Come è dato constatare, il Campanella elude la questione cruciale della peculiarità dei Bruzi e della loro relativa impermeabilità all’ellenismo e alla civiltà. Suggerisce che essi stessi discenderebbero da Noé e dagli Eraclidi ‘come gli altri Greci’. E questo è tutto: poco, a ben guardare, per invalidare i ‘luoghi comuni’ del Calepino e del Marra.

Chi invece non chiuse gli occhi davanti alle contraddizioni della calabresità, sebbene tendesse a spiegarle in termini di arretratezza economica e di insufficiente impegno riformatore da parte dei governi, fu l’illuminista Domenico Grimaldi (1735 - 1805), anche lui, come Barlaam e Leonzio Pilato, figlio dell’infelice Seminara.

Il Grimaldi fornisce un’analisi dell’indole dei Calabresi che è senz’altro attendibile fino alla grande emigrazione degli anni Sessanta del Novecento, quella che coincise con la prepotente irruzione della modernità, con la messa in liquidazione dell’economia agricola e con la presa del potere da parte della ‘ndrangheta.

Ecco cosa dice il Grimaldi nel II capitolo della I sezione del ‘Saggio sull’economia campestre per la Calabria Ultra’:
-  “Il genio dei Calabresi è attivo ed intraprendente quando viene animato, ma facile a cadere nella inerzia e nell’avvilimento, quando trova degli ostacoli forti. I Calabresi sono sensibilissimi all’onore, e perciò facili alla vendetta; ma trattati dolcemente sono umani, politi e riconoscenti. Sono prontissimi a durar ogni fatica, quando sono ben diretti, ed hanno generalmente una complessione atta a resistervi; sono la maggior parte d’ingegno elevato e di una fervida immaginazione: non mancano di coraggio, né trovasi un calabrese che non meni da bravo le mani nell’occasione. Sono altresì sensibilissimi all’emulazione, che degenera alle volte in invidia; ed io credo che facendosi l’analisi dell’indole de’ Calabresi di oggi, pressappoco vi si troverebbero gl’istessi vizi che formavano il carattere degli antichi Greci, da’ quali i Calabresi tirano l’origine”.

Per il Grimaldi, dunque, i Calabresi sono “Greci” ‘persino nei vizi’. E tuttavia l’estrema arretratezza della loro agricoltura e industria, sulla quale egli impietosamente si sofferma nel ‘Saggio’, sembra doversi attribuire, sebbene non lo si dica per carità di patria, a una primitività, a una incapacità individuale di pensare l’innovazione e di attuarla nonostante l’“immaginazione” e l’“intraprendenza” propria dei Greci. Non è dunque possibile non attribuire ai Bruzi il fatto che il loro carattere abbia finito col prevalere e con lo stravolgere le buone qualità dei Calabresi.

L’intelligenza dei Greci, unendosi alla ferinità bruzia, ha dato così luogo all’insieme di peculiarità psichiche e comportamentali che distinguono la ‘ndrangheta come classe egemone e sono tollerate se non condivise da tutto il popolo. E’ ben vero, come hanno rilevato illustri antropologi, che la arcaica cultura contadina calabrese è la medesima dell’area mediterranea. Ma non lo è anche l’arcaica cultura greca, che tuttavia ha saputo superarla nella misura in cui ha imposto la visione del mondo apollinea al substrato demetrico e asiatico della cultura mediterranea? Ciò non è accaduto invece nella Magna Grecia e la diffusione del pitagorismo e dell’orfismo ne sono prova, per cui le tesi del Vico e del Cuoco sull’originalità della cultura italica dovrebbero essere accolte con qualche riserva di non lieve momento.

Nei Calabresi si potrebbero quindi rinvigorire le radici della grecità che si riferiscono alla tradizione magnogreca e che tanta parte hanno, in quanto passate al cristianesimo, nella civiltà italiana prima che in quella europea. Rinverdire l’altra grecità, quella che è strettamente imparentata con la romanità, è una eventualità remota che vale tuttavia la pena di indicare perché nella storia tutto è possibile.

Ma cosa fa il governo regionale per recuperare all’identità calabrese quella grecità che le compete per tradizione ed è un progetto politico-economico e non astrattamente “culturale”? In linea con gli orientamenti dei vari governi nazionali succedutisi in un sessantennio - orientamento che oggi è diventato prevalente - non sa proporre altro che un vuoto folclore finalizzato allo sviluppo del turismo, quasi che l’economia di una regione - ma diciamo pure di tutta la Nazione -possa avere in questa attività una delle principali se non la principale forza trainante.

In Calabria sarebbe invece auspicabile la ripresa di quel progetto politico che si espresse in Gioacchino da Fiore e che tanta parte ebbe nel determinare gli orientamenti più innovativi del francescanesimo medioevale, riaffermati dall’Alighieri - che nel ‘Paradiso’ ricorda l’Abate calabrese “di spirito profetico dotato” - e confluiti infine nella sintesi campanelliana di fede e ragione.

In merito a tale auspicio, la candidatura di Gianni Vattimo a sindaco di San Giovanni in Fiore, candidatura avanzata da una pare insospettabile lista civica, può essere il segno di un cambiamento che la ragione giudica sotto ogni punto di vista impossibile. Il filosofo del “pensiero debole” è di origine calabrese e ritorna dopo tanti anni alla sua terra, in quel paese dove risuonò, espressione inequivocabile di un ‘pensiero forte’, la profezia dell’Abate Gioacchino.


Sul tema, nel sito, si cfr.:

MELCHISEDECH A SAN GIOVANNI IN FIORE, TRA I LARICI “PISANI”. Per i ‘Settanta’ di VATTIMO: 1° FESTIVAL INTERNAZIONALE DI FILOSOFIA A SILVANA MANSIO (CS)


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