ROMA. «Il centrodestra è al 52%, anche se un pò in ritardo, il centrosinistra al 47,5%». È «l’ultima scheda di sondaggio» fornita da Silvio Berlusconi, nella conferenza stampa a palazzo Chigi.
«Siamo stati accusati di fornire sondaggi thailandesi, ucraini o chissà cos’altro, e invece si sono rivelati gli unici seri e veritieri», ha aggiunto.
ABBIAMO TENUTO I CONTI IN ORDINE In questi cinque anni «abbiamo tenuto i conti in ordine, e li avevamo ricevuti con un deficit sommerso». In questi anni, ha aggiunto, il rapporto deficit-pil «è stato sempre sotto il 3%».
IL REFERENDUM CONFERMERA’ LA RIFORMA APPOROVATA «Il referendum del 25 giugno confermerà la nostra riforma che è stata una modifica necessaria». Lo ha detto il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi nella sua ultima conferenza stampa da presidente del Consiglio a palazzo Chigi. «Come tutte le cose - ha aggiunto Berlusconi - si può migliorare ma è stata una riforma assolutamebnte necessaria».
IN AUTUNNO IL «PARTITO DELLA LIBERTA’» «La nuova forza dei moderati dovrebbe chiamarsi Partito della Libertà. Credo che sarà questo il nome». «In autunno penso che i congressi di Fi, An e Udc sanciranno la fusione in un’unica forza dei moderati». A segnare la tempistica della nuova aggregazione di centrodestra è Silvio Berlusconi, nella conferenza stampa a palazzo Chigi. «È nostra ferma intenzione procedere verso un’ unica forza dei moderati - spiega Berlusconi - sarà un viaggio obbligato ho avuto la conferma da Fini e Casini che questa è ancora la loro intenzione».
A SINISTRA UNA CONCENTRAZIONE DI POTERE MAI VISTA «Quello che sta accadendo è sotto gli occhi di tutti: con l’Unione c’è una concentrazione di potere mai vista nella storia della Repubblica». Anche in conferenza stampa a palazzo Chigi, Silvio Berlusconi ribadisce quanto sta affermando da un mese.
Lungo l’elenco: «La sinistra controlla tutte le istituzioni locali, avendo vinto le elezioni: 6.500 comuni su 8.000, 67 province su 100, 16 regioni su 20. E poi controlla i gangli della società civile: con un’applicazione abile della strategia gramsciana, la sinsitra controlla la cultura, la scuola, l’università, le redazioni. Ma anche le grandi banche, con gli amministratori delegati che votano alle primarie, i grandi giornali, che abbiamo visto come si sono schierati. E poi la Corte Costituzionale, il Csm. E oltre a questo le 4 cariche istituzionali più importanti».
In questo quadro, Berlusconi si augura che si continui con la prassi che le Giunte per le Elezioni e per le Autorizzazioni del Parlamento siano presiedute da un esponente dell’opposizione: «Questo sarà il compito più importante che dovremo svolgere in Parlamento».
ORGOGLIOSO DELLA DURATA DEL GOVERNO «Sono orgoglioso di essere riuscito a stabilire il record» della durata di Governo, «un’intera legislatura». Lo ha detto Silvio Berlusconi, in conferenza stampa a Palazzo Chigi. L’ex Premier ha citato i numeri dell’azione dell’esecutivo, tra cui i 185 disegni di legge approvati. «Saremo in corsa come opposizione democratica del Paese, con energia ancora maggiore», ha aggiunto.
SARO’ IL PROSSIMO CANDIDATO PREMIER Silvio Berlusconi sarà prossimo candidato Premier? «Basta essere leader dell’opposizione, ca va sans dire..». Il Cavaliere risponde così, in conferenza stampa a Palazzo Chigi, dando per scontata la sua candidatura a Palazzo Chigi per le prossime elezioni.
LA LEGA SARA’ INDIPENDENTE MA LEALE Nella prospettiva della nuova forza dei moderati, il partito della libertà, «la Lega sarà indipendente, ma leale». Lo ha detto Silvio Berlusconi, in conferenza stampa a Palazzo Chigi, aggiungendo di averne parlato «a lungo» con Umberto Bossi e altri dirigenti del Carroccio.
«Ho già parlato con Umberto Bossi: non sarà l’eventuale sconfitta al referendum ad inficiare il nostro stare insieme». Silvio Berlusconi assicura così che la Lega resterà nella Cdl qualunque sia l’esito del referendum confermativo sulla riforma costituzionale.
Ma Berlusconi è comunque certo della vittoria: «Vinceremo, e assicuro alla Lega che faremo tutti insieme una seria e importante campagna elettorale». In ogni caso, ribadisce Berlusconi, «il referendum non avrà incidenza sulla Casa delle Libertà».
SE DA RICONTEGGIO VINCE LA CDL, SI DEVE RIVOTARE «Conto molto sul riconteggio dei voti: se si arrivasse a dimostrare che abbiamo vinto noi, non potremo che chiedere nuove elezioni, e il Capo dello Stato non potrà non concederle». Lo dice Silvio Berlusconi, nella conferenza stampa a palazzo Chigi.
«Abbiamo accettato democraticamente la proclamazione dei risultati da parte della Cassazione - spiega Berlusconi - ma intimamente siamo convinti che il risultato è opposto».
«Dal punto di vista egoistico escluderei che possiamo aggiungere i nostri voti ai loro perché superino i contrasti interni. Anzi ne approfitteremo per farli emergere». Lo ha detto Silvio Berlusconi in conferenza stampa a Palazzo Chigi, a proposito del rapporto in vista con l’Unione in Parlamento. «Che questa maggioranza avrà vita difficile - afferma Berlusconi - è sotto gli occhi di tutti. Ci sono divisioni profonde su moltissimi temi: non solo sulla divisione delle cariche e l’assegnazione dei posti di governo, lo spettacolo cui stiamo assistendo, ma anche sui singoli temi: politica economica, politica estera, i Pacs con la Margherita contro tutti». Divisioni che «non potranno non appalesarsi, e noi saremo lì, pronti ad approfittarne, democraticamente».
FATTI PASSI INDIETRO, MA PER SENSO DI RESPONSABILITA’ Non è stato facile per Silvio Berlusconi fare «passi indietro» durante gli anni di Governo, e quando è accaduto è stato «per senso di responsabilità». In questi anni, dice in conferenza stampa a Palazzo Chigi, «ci sono stati molti momenti difficili, superati facendomi indietro. Ahimé». Già, perché «l’immagine vincente è di chi si impone». Ma il rischio «era la caduta del Governo, e se fosse caduto avremo consegnato l’Italia alla sinistra. Ho dovuto fare molti passi indietro, per senso di responsabilità».
LA CRISI DI GOVERNO HA LOGORATO LA MIA IMMAGINE «La crisi di governo fatta per cambiare due o tre ministri e la richiesta di discontinuità hanno di sicuro logorato la mia immagine». Nel corso dell’incontro con i giornalisti Berlusconi non ha risparmiato critiche ai suoi alleati accusandoli «di non avermi dato quel supporto e quella positività che sarebero stati necessari».
da www.lastampa.it
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Napolitano su Berlusconi: "Patologiche ossessioni"
di GOFFREDO DE MARCHIS (la Repubblica, 14 ottobre 2015)
ROMA. "Ce l’avevano con Calderoli". Giorgio Napolitano risponde ironicamente alla plastica contestazione delle opposizioni: l’uscita dall’aula di Forza Italia e 5stelle, il cartello di Domenico Scilipoti con scritto "2011" (l’anno delle dimissioni di Berlusconi). Durante il suo intervento, la minoranza manifesta la propria distanza dall’ex capo dello Stato, padre della riforma come lo ha definito Maria Elena Boschi. "Sono usciti subito dopo il discorso di Calderoli. Poi ce n’è stato un altro. Non potevo essere io la causa di quell’esodo", scherza Napolitano.
È un modo per non rovinare un giorno di festa per il senatore a vita. Che nell’intervento rivendica il suo ruolo, difende la risposta riformatrice finora mai data "per la ricerca del perfetto o del meno imperfetto". Ma che adesso è arrivata.
Sempre sul filo dell’ironia reagisce ai ripensamenti di alcuni protagonisti della legge. Berlusconi innanzitutto. "Deluso da qualche atteggiamento? Ma qui entriamo nel campo della psicologia. E io non voglio fare commenti politici, figuriamoci quelli psicologici".
Al capogruppo forzista Romani invia tuttavia una durissima lettera che affida ai commessi (e viene immortalata dai fotografi). "Ho letto attribuite a Berlusconi - scrive l’ex capo dello Stato - parole ignobili, che dovrebbero indurmi a querelarlo, se non volessi evitare di affidare alla magistratura giudizi storico-politici; se non mi trattenesse dal farlo un sentimento di pietà verso una persona vittima ormai della proprie, patologiche, ossessioni".
A Pier Ferdinando Casini, con cui parla per 10 minuti in aula subito dopo il voto, confida il suo stupore per le parole dell’ex Cavaliere: "Lui si ricorda solo il 2011 ma dimentica il 2010 quando diedi 45 giorni al suo governo per affrontare un voto di fiducia".
Comunque le contestazioni le aveva messe nel conto. "Per svelenire il clima ho evitato di partecipare alle votazioni sugli emendamenti". Non è bastato. Ma non voleva rinunciare alla seduta finale in virtù del ruolo attivo che la Costituzione affida anche ai senatori a vita. A proposito, dispiaciuto per le parole di Elena Cattaneo che descrivendo la riforma ha parlato di "ircocervo istituzionale"? "La senatrice è libera. Quando l’ho nominata sapevo bene che aveva un’estrazione politica e culturale diversa dalla mia". Resta, racconta Casini, un pizzico di amarezza ma senza drammi anche perché Napolitano ha una certa esperienza. E alla fine, l’ex presidente non rinuncia a fare un salto alla buvette. In fondo, ieri ha vinto anche lui.
Lo svuotamento di Forza Italia
di Piero Ignazi (la Repubblica, 27.09.2015)
A BERLUSCONI tutti ormai, rendono l’onore delle armi. Persino Savini gli ha dedicato frasi di riconoscimento e gratitudine per l’azione volta nel passato. È come spolverare un ritratto di famiglia ingiallito o, se pensiamo all’afflato mistico dell’unto dal Signore che beveva l’amaro calice della discesa in politica, onorare una reliquia. Il suo tempo è passato. Solo l’incredibile risultato delle elezioni del 2013, con Grillo alle stelle e Bersani nella polvere, lo aveva rimesso in gioco. E questo nonostante la catastrofica perdita di voti dell’allora Pdl. Ora non ci sono più spazi di manovra. L’irruzione e l’irruenza di Matteo Renzi lo ha relegato in un angolo.
Berlusconi si era illuso che il patto del Nazareno lo riportasse in auge; invece, era solo una stampella a disposizione del nuovo capo del governo, buona per irretire e imbrigliare l’avversario di sempre e gestire gli oppositori interni. Nient’altro. Al momento delle scelte importanti come l’elezione del Presidente della Repubblica, Renzi non ha esitato un attimo a disfarsene. Ha reso la pariglia rispetto allo sgambetto fatto da Berlusconi a D’Alema sulla bicamerale, negli anni Novanta.
Da tempo il gruppo parlamentare di Forza Italia è un sorta di albergo del libero scambio, dove però non entra quasi nessuno (una Di Girolamo non fa primavera) mentre escono a frotte. L’ultimo gruppo di scissionisti lo ha guidato l’un tempo fedelissimo Denis Verdini. Questa nuova componente non ha ambizioni egemoniche sull’elettorato di destra. Ripropone il classico canovaccio dei “responsabili”, esponenti di un ceto politico che per rimanere in vita offre i suoi servigi al governo.
La politica italiana ne ha viste a dozzine di operazioni di questo tipo: non hanno mai portato a nulla. Non è da quelle parti che può nascere una alternativa al berlusconismo. Sono altri, in primis Meloni, Fitto e Salvini, i contendenti per la guida dello schieramento di destra. Sono tutti quarantenni, chi appena uscito da Fi come Fitto, chi prima entrata e poi uscita di nuovo come Meloni, chi mai entrato e tutto calato in un’altra storia come Salvini.
In questo trio Matteo Salvini gode di una posizione di vantaggio perché dispone di una forza politica consolidata e con il vento in poppa. È stabilmente sopra Fi quanto a intenzioni di voto e dispone di una agenda politica chiara e accattivante, intessuta di messaggi xenofobi e sicuritari. E a forza di diluire il suo tasso di padanità, la Lega scende sempre più efficacemente al sud. Le sue potenzialità dipendono proprio dal passaggio dalla dimensione regionale a quella nazionale. Il lancio di Lega Italia va in questa direzione.
Giorgia Meloni, oltre a giocare sul fattore donna, può profittare di un serbatoio di riferimenti politicoculturali e di un elettorato - della destra postmissina: un richiamo muscolare allo Stato e alle sue prerogative anche in economia, una assertività proto-nazionalista in politica internazionale, un omaggio ai valori cattolico-tradizionali (dimenticando Francesco). Una destra classica, forse troppo per questi tempi moderni, e ancora relegata in una nicchia dalla quale, ad eccezione di Meloni, nessuno riesce ad uscire.
Il movimento di Raffaele Fitto è quello più in sintonia con l’anima profonda del berlusconismo, soprattutto quella meridionale. Lo straordinario successo personale di Fitto alle Europee, primo nella sua circoscrizione, e secondo assoluto in Italia, dimostra che, al di là di quell’aria sonnolenta simil-morotea, Fitto riesce a convogliare attenzione e consensi. Il suo atout sta proprio nell’empatia che lo lega all’elettorato berlusconiano, grazie alla riproposizione, riveduta e corretta, dei temi portanti della Fi d’un tempo; il suo limite, nella dimensione prevalentemente meridionale del suo appeal.
Nessuno dei tre leader ha quindi in mano le chiavi del successo. Tutti insistono su spezzoni diversi dell’elettorato del centrodestra. È probabile allora che vi saranno alleanze tattiche tra i nuovi leader e chi , eventualmente, conserverà il reliquiario forzista; ma è improbabile che si consoliderà un nuovo attore unitario di questa area. Ai due pivot della politica nazionale, Pd e M5S, si affiancheranno, quanto meno nel breve periodo, una serie di partiti medio-piccoli sul fianco destro. Uno scenario inedito nella politica italiana.
L’ultimo atto della fuga da Fi
Ora a lasciare sono i peones
Da inizio legislatura persi 40 senatori e più di 30 deputati
di Mattia Feltri (La Stampa, 27.09.2015)
È il tempo di Carneade, o meglio del terzino dell’Atalanta, come si diceva un tempo e lo cantava benissimo Roberto Vecchioni: «Fossi stato un genio / o almeno un terzino dell’Atalanta...». Geni pochi o niente, ma di terzini dell’Atalanta ce n’è una folla, tutti di colpo al centro del villaggio: la destra italiana per un giorno o almeno un pomeriggio rimane emotivamente appesa alle mosse del senatore Domenico Auricchio, finché non è passato da Forza Italia ad Ali, cioè al partito di Denis Verdini. Chissà come va misurata la moralità di Auricchio visto il suo commento alle paturnie di Raffaele Fitto solo otto mesi fa: «Fossi in lui avrei già lasciato il partito, anzi la politica che dovrebbe essere prima di tutto coerenza e lealtà. Abbia rispetto per chi gli ha dato tutto». E cioè per Silvio Berlusconi: «Tradire Berlusconi sarebbe come tradire me stesso. Gli ho detto che non lo tradirò mai. Lui mi ha preso sotto braccio, mi ha chiamato “Mimì” e mi ha sorriso».
Così parlava Mimì Auricchio una settimana fa. Se volete il Carnevale siete nel posto giusto. La fantastica Eva Longo (ex Dc, ex Ccd, ex Fi, ex fittiana, ora verdiniana) nel gennaio del 2014 così escludeva l’ipotesi di un ritorno in Forza Italia, dove ancora la Longo risiedeva, di Nunzia De Girolamo, nel frattempo passata con Angelino Alfano: «Non possiamo accettare palesi e vili tradimenti». Non si andava leggeri, con gli altri, e non ci si va nemmeno adesso e infatti la suddetta De Girolamo venti minuti dopo essere rincasata da Berlusconi impegna del sarcasmo: «Adesso Alfano canta meno male che Renzi c’è». Sospetto da cui si poteva essere sfiorati da almeno un paio d’anni.
Ma è l’ora del terzino dell’Atalanta: la scissione è un brivido universale, sebbene passeggero. Un tempo se ne andavano Pierferdinando Casini e Gianfranco Fini, o almeno Clemente Mastella e Marco Follini, fino a Sandro Bondi e Denis Verdini, adesso tocca a Monica Faenzi e Giuseppe Galati, di cui il lettore probabilmente non conosce le biografie a memoria. E però è un andirivieni talmente massiccio che il centrodestra ormai si divide in alfaniani, verdiniani, fittiani, berlusconiani, salviniani, meloniani, e la geografia parlamentare pare quella dell’Jugoslavia dopo la dissoluzione.
Da inizio legislatura, Forza Italia ha perso fra isterie istantanee oltre trenta deputati e quasi quaranta senatori, e allora, davanti alle cedevolezze del senatore Peppe Ruvolo («Ribadisco la mia lealtà alla linea del presidente Berlusconi e diffido chicchessia dall’utilizzare impropriamente il mio nome», settembre 2013; «la linea politica intrapresa da Forza Italia mira a rincorrere i populismi», settembre 2015) fioriscono interviste a Domenico Scilipoti e Antonio Razzi, incaricati di ridefinire i confini dell’etica politica. Che effettivamente sono piuttosto elastici.
Giovanni Mottola, già vicedirettore del Giornale, a inizio anno indirizzava un consiglio e un po’ di disprezzo al solito Fitto («Se crede che il leader di Forza Italia sta sbagliando perché non va a fondarsi il suo partitino?»). Ora Mottola il consiglio l’ha fatto suo, e quantomeno rimane nella parte che vuole le riforme. Altrove si trovano motivazioni più friabili: il senatore Francesco Amoruso è passato con Verdini perché «Berlusconi non mi ha difeso» in una periferica polemica fra capoccia forzisti pugliesi. Del resto Forza Italia è il partito in cui si giustifica il passaggio dal sì al no alla fine del bicameralismo, cioè alla più importante riforma degli ultimi settant’anni, perché «Renzi ci ha fregato nell’elezione del capo dello Stato» (Maurizio Gasparri, ancora pochi giorni fa). E certi terzini presto o tardi finiscono in tribuna.
Compravendita senatori, Berlusconi e Lavitola condannati a 3 anni di reclusione
Prodi: se avessi saputo sarei ancora premier. Ghedini: sentenza ingiustificata
di Redazione ANSA NAPOLI *
Silvio Berlusconi è stato condannato dal Tribunale di Napoli a tre anni di reclusione per corruzione nel processo per la compravendita dei senatori. Alla stessa pena è stato condannato anche Valter Lavitola.
"E’ una sentenza che riteniamo clamorosamente ingiusta e ingiustificata". Lo ha detto l’avv. Niccolò Ghedini, difensore di Silvio Berlusconi, sottolineando che il processo si prescriverà il 6 novembre. Nonostante la prescrizione Ghedini ha espresso l’auspicio che la Corte di Appello assolva Berlusconi nel merito.
"Non commento le sentenze. Prendo atto delle sentenze. Prendo atto che questa sentenza ha condiviso la tesi accusatoria": lo ha detto il Procuratore di Napoli, Giovanni Colangelo, interpellato dall’ANSA sulla sentenza di condanna di Silvio Berlusconi e Valter Lavitola.
"C’erano delle voci, ma, come dissi al giudice, non ne sapevo nulla. Se lo avessi saputo sarei ancora presidente del Consiglio". Così l’ex premier Romano Prodi ha risposto all’ANSA sulla fine del processo a Silvio Berlusconi e Valter Lavitola per la presunta compravendita di senatori che avrebbe fatto cadere il suo governo.
* ANSA, 08 luglio 2015 20:45
B. e il “patto”
“Matteo ricordati: il Quirinale è nel Nazareno”
di Sara Nicoli (il Fatto, 15.12.2014)
Non vede l’ora di riconquistare la sua agibilità politica per rituffarsi nell’agone di una campagna elettorale a primavera che lui dà ormai per scontata. Ma fino a quel momento, quando saluterà gli anziani di Cesano Boscone (succederà “il 15 di febbraio - dice - e ci sarà un cambio assoluto nel modo di relazionarci con gli elettorio”) resterà fermo, ma vigile, nella sua posizione di contraente del Patto del Nazareno. Una visuale di assoluto privilegio per Berlusconi. Anche ieri ha fatto capire il perché, con una frase che è arrivata come una secchiata di acqua gelata sugli spiriti fin troppo bollenti che si stavano confrontando nel catino della direzione Pd.
Al telefono con i club dell’Emilia Romagna, riuniti a Imola, il Cavaliere ha buttato lì una frase tutta diretta a Renzi: “È logico - ha detto - che non potrà essere eletto un Capo dello Stato che a noi non sembri adeguato all’alta carica che dovrà ricoprire". Che nessuno s’immagini, insomma, che Berlusconi sia politicamente sepolto. E che, soprattutto, non voglia prendere parte attiva in una partita così importante come quella della successione a Napolitano. Dalla quale potrebbe anche dipendere la sua speranza di ricevere un giorno l’agognata grazia.
E ancora: per dare un segnale inequivocabile al suo principale interlocutore (il Pd renziano), Berlusconi ha fatto chiaramente capire - come se non fosse noto - che uno dei puntelli del Patto è proprio la condivisione di un nome per il Colle, anche se poi, per rinfrancare le sue truppe un po’ stanche, ha puntualizzato: “Non potevamo dire no al patto del Nazareno, un patto che ci dà tanto fastidio, perchè non ci fa fare opposizione vera e ci crea problemi all’interno. Ma come facciamo a dire di no alle riforme che consentono il bipolarismo e il superamento del bicameralismo? ”. Già, come si fa.
CHIARO CHE, subito dopo queste dichiarazioni, nel Pd è partita la gara alla smentita di facciata. Prima è arrivata Debora Serracchiani, subito dopo è stata la volta di Lorenzo Guerini: “Non c’è nessun accordo nel patto del Nazareno che riguarda l’elezione del presidente della Repubblica. Quando sarà il momento, costruiremo un percorso in Parlamento parlando con tutte le forze politiche, come abbiamo sempre detto”. Intanto, però, Berlusconi ha già messo una pesante ipoteca su quel prossimo, delicato passaggio parlamentare. E non solo con le parole di ieri. Come svelato dal Fatto il 2 agosto scorso, nel Patto del Nazareno c’è una clausula, sottoscritta da Renzi e Berlusconi, per escludere a tutti i costi la nomina di Romano Prodi.
Il Cavaliere, insomma, vuole essere assolutamente certo di non trovarsi al Colle qualcuno che pregiudichi anche la sopravvivenza stessa di Forza Italia, un partito oggi in default economico con gli ultimi 50 dipendenti messi da qualche giorno in cassa integrazione. “Oggi nessuno di noi, con quel che succede, può essere sicuro dei suoi diritti, dei suoi beni, perfino della sua libertà - ha concluso Berlusconi - dobbiamo cambiare il nostro Paese, dobbiamo uscire dall’oppressione fiscale, burocratica e giudiziaria in cui ci troviamo”. Frase da campagna elettorale, certo. Ma prima c’è da nominare il successore di Re Giorgio. E Silvio vuole essere uno dei protagonisti assoluti.
Berlusconi: "Patto del Nazareno? Logico che ci sia anche il capo dello Stato"
Il leader di Forza Italia: conseguenza dell’intesa è che "non potrà essere eletto un presidente della Repubblica che a noi non sembri adeguato all’alta carica che dovrà ricoprire" *
ROMA - Nel patto del Nazareno è logico che ci sia anche il capo dello Stato. Lo ha detto Silvio Berlusconi intervenendo telefonicamente a una convention di Forza Italia a Imola.
Una frase che non mancherà di suscitare polemiche anche nel Partito democratico (riunito oggi in un’assemblea infuocata), dove l’intesa con Forza Italia sulle riforme è sottoposta ad un carico sempre maggiore di critiche. "Come conseguenza logica (dell’intesa sulle riforme, ndr) non potrà essere eletto un capo dello Stato che a noi non sembri adeguato all’alta carica che dovrà ricoprire".
"Sapete come è difficile in questo momento la posizione di Forza Italia - ha proseguito Berlusconi -. Abbiamo ritenuto di stipulare il patto del Nazareno, che ci dà tanto fastidio, perché non ci fa fare opposizione vera e ci crea problemi all’interno. Ma come facciamo a dire di no alle riforme che consentono il bipolarismo e il superamento del bicameralismo?".
* la Repubblica, 14 dicembre 2014 (ripresa parziale)
Berlusconi assolto, Forza Italia si ricompatta: “Il giorno più bello in ultimi 20 anni”
Il centrodestra di nuovo tutto unito intorno al leader, da Minzolini a D’Anna fino a Fitto e Alfano: "Eravamo convinti della sua innocenza".
Tutti ora invocano la prosecuzione delle riforme.
E molti anche la grazia
di Redazione (Il Fatto Quotidiano,18 luglio 2014) *
Una sentenza allunga la vita. Come nei giorni peggiori - delle inchieste, delle intercettazioni e delle condanne -, anche questa volta Forza Italia vive l’assoluzione della corte d’appello di Milano come un pieno di carburante. Un partito crollato alla metà dei voti che aveva, diviso, stordito dalla bufera grillina e poi da quella renziana, si ritrova ora di nuovo, improvvisamente, nella stessa foto di gruppo. A gridare al complotto per un governo caduto sotto i colpi di inchieste finite nel nulla, a chiedere la riforma della giustizia, a rilanciare la leadership, a spingere un po’ di più le riforme: ritrovano tutti i loro vecchi sapori. Tra questi, ovviamente, anche la grazia. “I tempi sono maturi”.
Sarà un caso, ma la prima dichiarazione data alle agenzie di stampa dopo la pronuncia della sentenza di assoluzione è stata di Augusto Minzolini, l’alfiere dei forzisti contrari alla riforma del Senato: “Finalmente giustizia. E’ la dimostrazione che ci sono dei giudici anche a Milano. Resta un problema su cui dovrebbero riflettere tutti in questo Paese: i danni che un processo, che non doveva neppure tenersi, e una condanna di primo grado ingiusta hanno provocato all’uomo e al Paese”. Vincenzo D’Anna, il senatore “cosentiniano” con il quale Berlusconi due giorni fa si era quasi mandato a quel paese, dice che la sentenza ora permetterà di riprendere un confronto sereno. Daniele Capezzone rispolvera la riforma della giustizia. Tra la folla si scorge perfino Raffaele Fitto: “L’assoluzione di Silvio Berlusconi in Appello costituisce alla fine di una troppo lunga vicenda una pagina di giustizia. Ma la soddisfazione di oggi non cancella l’amarezza per anni di aggressione - dichiara l’europarlamentare, mister preferenze, peraltro condannato in primo grado a 4 anni per corruzione - A questo punto, si pongono domande enormi sull’immane campagna politica, mediatica e giudiziaria condotta per anni contro Berlusconi su basi così inconsistenti. Ora, spero che questa sentenza possa restituire a Silvio Berlusconi almeno un poco della serenità che gli è stata ingiustamente tolta per tutto questo tempo”.
Alla festa si aggiungono anche i vecchi amici. “Noi del Nuovo Centrodestra - dice Angelino Alfano - esprimiamo grande soddisfazione e compiacimento per l’assoluzione del presidente Berlusconi nel processo Ruby. Viene confermata un’innocenza della quale non abbiamo mai dubitato”. Una sentenza, spiega, che ora “chiede una rilettura storico politica di quel terribile anno 2011 che si concluse con la caduta dell’ultimo governo di centrodestra, dopo mesi di logorante polemica nascenti proprio dal caso Ruby, esploso nel gennaio di quell’anno”. D’altra parte da oggi ”si rafforza certamente la strada intrapresa per cambiare con coraggio il Paese sia sul fronte delle riforme istituzionali e legge elettorale sia su quello del rilancio economico, della diminuzione della tassazione, della lotta alla burocrazia”.
Gianfranco Rotondi lo definisce “il giorno più bello degli ultimi vent’anni”. Di certo questa volta sembrano fuori strada sia Laura Ravetto sia Nunzia De Girolamo (Ncd): “Questa sentenza vanifica ogni recondita illusione di certa sinistra di poter vincere a tavolino” dice la prima, Aspettiamo la sinistra alla prova dei fatti - aggiunge la seconda - per capire se si è finalmente liberata dell’ossessione di Berlusconi”.
In realtà l’assoluzione dell’ex Cavaliere non delude il Pd, tutt’altro. Matteo Renzi è colui che è uscito più rafforzato dalla camera di consiglio del collegio della corte d’appello di Milano. I giudici hanno pronunciato una sentenza di lunga vita al patto del Nazareno e alle riforme su cui si sono accordati il presidente del Consiglio e il suo predecessore pregiudicato. E’ così, per esempio, che la sintetizza Altero Matteoli, senatore ormai veterano (parlamentare dal 1983), ex missino, poi An che tra Fini e Berlusconi - quando ci fu da scegliere - non ebbe neanche l’ombra del dubbio. La sentenza, dice, “restituisce serenità al nostro leader e a Forza Italia. Ne beneficierà il clima politico ed il Paese”. Praticamente un editoriale. E’ un giorno di liberazione anche a sinistra, forse. “Forse smetteremo di frugare nell’alcova di Berlusconi per chiederci cosa preveda il patto del Nazareno” twitta uno dei senatori “dissidenti” del Pd, Corradino Mineo. “Rubygate: l’assoluzione di Berlusconi che fa comodo a Renzi”. Così la corrispondente del settimanale francese Nouvel Observateur, Marcelle Padovani, intitola il suo commento alla sentenza d’appello per Berlusconi. L’ipotesi di un’assoluzione, racconta la giornalista francese sul sito del magazine, “era difficile da credere ancora venerdì mattina”, eppure “è successo”. E tra le reazioni spiccano quelle “più politicizzate”, che “arrivano a dire che questa assoluzione ‘dà una mano importante a Matteo Renzi’”, nel suo irto percorso di riforme istituzionali. “In questo scenario, la magistratura italiana, che non è certamente a servizio dei partiti, dimostra comunque di poter giocare un ruolo eminentemente politico - scrive la Padovani - Perché è vero che la sentenza di assoluzione è come una ruota di scorta per Matteo Renzi: arriva al momento giusto, proprio quello in cui il suo governo si affanna per restare a galla”. In quest’atmosfera si riscopre “quasi renziano” perfino Gasparri: “Ed allora, andiamo avanti per portare a compimento le riforme, ma anche per liberare la magistratura dai condizionamenti che ne minano la credibilità”.
Così Renato Brunetta arriva presto al principale degli obiettivi: “Un minimo di risarcimento crediamo debba essere versato subito dallo Stato (e dal suo Capo) a Berlusconi e al popolo che si identifica con lui: ed è la grazia, adesso, senza tergiversazioni” scrive su Il Mattinale, il foglio pubblicato dal gruppo parlamentare di Forza Italia a Montecitorio. “L’innocenza di Berlusconi - si legge - è stata sin da principio palese anche a cento chilometri di distanza. Vale per noi che lo conosciamo bene, ma a occhi sgombri dalla trave del pregiudizio, avrebbe dovuto dir qualcosa di orribile sulle indagini il madornale travisamento di fatti, il dispiegamento completamente abnorme di forze in funzione della violazione della privacy delle persone, la loro esposizione senza rispetto, come se fossero pupazzi da squartare in pubblico”.
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http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/07/18/berlusconi-assolto-forza-italia-si-ricompatta-e-il-giorno-piu-bello-degli-ultimi-20-anni/1064806/
Il populismo tecnocratico del «rottamatore»
di Lelio De Michelis *
L’Italia, paese di populisti e di populismi. Ne ha conosciuti ben tre (e mezzo), nel ultimi vent’anni, un record mondiale. Populismo: che è concetto classico della politica e della sociologia ma che tuttavia è un processo culturale prima che politico. E oggi economico prima che culturale e politico, nel senso che è appunto l’economia capitalista ad essere oggi un processo culturale prima che economico, producendo - prima delle merci e del denaro - le mappe concettuali, cognitive, relazionali, affettive necessarie per la navigazione nel mercato; trasformando quello che era il cittadino dell’illuminismo in lavoratore, merce, capitale umano - ovvero in mero homo oeconomicus. Tre populismi interi: Berlusconi, Grillo e Renzi. E il mezzo populismo della Lega. Tre padri politici invocati dal popolo perché lo sorreggano, lo portino da qualche parte, gli dicano cosa deve fare, perché questo stesso popolo si ritiene incapace (o non più desideroso) di assumersi la responsabilità di essere sovrano di se stesso. Effetto culturale - questo - dell’antipolitica capitalista, che per essere sovrano assoluto e culturalmente monopolista deve rimuovere ogni sovrano concorrente.
Berlusconi: il populista che prometteva la modernizzazione neoliberale del paese. In realtà, un populismo del cambiare tutto per non cambiare nulla (soprattutto i suoi interessi personali e aziendali). Un populismo aziendalista, con la figura del padre/leader sostituita da quella dell’imprenditore che si è fatto da solo (o quasi), perfetta nell’esprimere il modello culturale che tutti dovevano apprendere: l’edonismo, il godimento immediato, la deresponsabilizzazione egoistica ed egotistica. Per legittimare - questa l’azione appunto culturale, pedagogica prima che economica - le retoriche neoliberiste dell’essere imprenditori di se stessi e della competizione come unica forma di vita.
Bossi e la Lega: il mezzo populismo (non solo perché limitato a una parte del territorio), apparentemente il più classico dei populismi con il richiamo alla tradizione, ai simboli di terra e di sangue. All’essere padroni a casa nostra: da intendere però non come sovrani sulla nostra terra ma come padroni nel senso antico del capitalismo. Populismo da piccola impresa, da capitalismo molecolare come versione localistica dell’ordoliberalismo tedesco e della sua pedagogia per imporre il modello impresa all’intera società.
Grillo: il populista contestatore, il teorico del net-populismo come forma perfetta della democrazia. Grillo come l’uomo del cambiamento ma incapace di cambiare (dice solo no) e forse populista anche di se stesso.
E Matteo Renzi. Un populismo di tipo nuovo ma evoluzione dei precedenti. Perché anch’egli cerca il rapporto diretto con il popolo e lo invoca come propria totalizzante legittimazione. Perché aspira ad essere insieme Partito di Renzi e Partito della Nazione. Un partito-non-partito tuttavia, ormai anch’esso trasversale - e quasi un non-luogo nel senso di Marc Augé: come un aeroporto, un supermercato, un luogo di consumo di politica.
Un populismo che invoca il popolo contro le caste e il sindacato salvando invece le oligarchie che lo sostengono come un sol uomo; che ha grandi mass-media schierati dalla sua parte e che gli consentono ciò che mai avrebbero consentito a Berlusconi; un populismo fideistico e teologico-politico (noi contro loro, noi il tutto che non accetta il due e il tre e il molteplice e gli eretici; noi il nuovo, gli altri il vecchio).
Un populismo che vuole rottamare appunto il vecchio, ma che non rottama, non corregge (una volta si chiamava autocritica, ma il nuovo che avanza travolge anche la memoria) i molti errori del passato: il sì all’austerità, all’articolo 81 della Costituzione sul pareggio di bilancio.
Un populismo finalizzato alla modernizzazione dell’Italia - e ogni populismo è stato, storicamente anche una via per la modernizzazione, facendo accettare al popolo, in nome del popolo quelle trasformazioni che altrimenti non sarebbero state possibili per trasformare un paese e quel popolo. Per questo, quello di Renzi è un populismo tecnocratico: che produce quella modernizzazione neoliberista che Berlusconi non è riuscito a produrre e Grillo fatica a poter produrre.
Un populismo nel nome della tecnocrazia, che la tecnocrazia ama; un populismo che trasforma (forse questa volta per davvero) il potere politico nel senso richiesto dalla tecnocrazia: meno democrazia (la riforma del Senato, le proposte di nuova legge elettorale); meno diritti sociali e quindi politici (diventati un costo); più decisionismo; meno partecipazione e più adattamento alla realtà immodificabile del mercato; meno cittadinanza attiva e più accettazione della ineluttabilità del reale. Perché le sue pratiche politiche - al di là delle apparenze e delle discussioni con Angela Merkel e di alcuni interventi comunque virtuosi - sono tutte dentro alla cultura della modernizzazione richiesta dall’ideologia neoliberista (flessibilità del lavoro, privatizzazioni, un nuovo modo di essere imprenditori di se stessi, riduzione ulteriore dello stato sociale, crescita invece di sviluppo, competizione invece di solidarietà); e la flessibilità sul Fiscal compact (invece della sua abolizione, per evidente irrazionalità e surrealtà economica), pure invocata, è un pannicello caldo rispetto al nuovo new deal che sarebbe invece necessario (e urgente). Un populismo futurista, inoltre: nel nome della velocità, delle macchine, delle parole in libertà, dell’azione per l’azione.
Il populismo di Renzi è dunque più di un classico neopopulismo, che ha dominato la scena per trent’anni coniugando populismo e neoliberismo, mercato e popolo, modernizzazione e impoverimento e disuguaglianze. E’ un neopopulismo tecnocratico - per altro discendenza diretta di quello neoliberista - che scardina ancor più di quello neoliberista le forme e le pratiche della democrazia; riduce a niente la società e la società civile; attacca il sindacato o lo rende inutile (in coerenza con le tecnocrazie globali); che spettacolarizza se stesso proponendosi come outsider, come rottura, come alternativa, in realtà portandoci nella società dello spettacolo della tecnocrazia.
Una tecnocrazia che non si espone più direttamente con i noiosi e antipatici tecnici, ma con la fantasia e l’estro di un populismo mediatico e spettacolare, moderno e postmoderno insieme, dove twittare è più importante che ascoltare.
La Stampa, 23/04/2014
Berlusconi firma l’affidamento in prova
Scatta l’ora X per l’ex Cavaliere. Fino al 10 marz0 2015 per lui libertà limitata
È scattata di fatto, con la firma delle dodici regole stabilite dal Tribunale di sorveglianza, la misura dell’affidamento in prova dei servizi sociali di Berlusconi.
Nero su bianco, l’ex Cavaliere ha accettato di rispettare il decreto della prescrizione che comprende i paletti entro i quali il leader di Forza Italia si dovrà muovere per il percorso di «rieducazione» che comprenderà anche l’assistenza agli anziani del centro di Cesano Boscone dell’Istituto Sacra Famiglia. E fino al 10 marzo 2015, di fatto, non sarà più completamente “libero di fare e andare”.
Arrivato nella sede dell’Uepe (Ufficio di esecuzione penale esterna) di piazza Venino a Milano, accompagnato dal suo avvocato Niccolò Ghedini, si è limitato a poche parole: «Sto bene, sto bene». Ad attenderlo la direttrice dell’ufficio, Severina Panarello, con la quale dovrà concordare un programma operativo. Si tratta di fissare data e orario del colloquio, si presume con cadenza mensile, con la stessa dottoressa, il giorno settimanale previsto per l’attività e le modalità con cui l’ex premier assisterà gli anziani ricoverati nella struttura di Cesano Boscone ed eventualmente mettere a punto altri dettagli. Si tratterà comunque di un appuntamento “fisso” per Berlusconi: una volta alla settimana per almeno quatto ore di fila.
Di fatto, messa la firma, dovrà risiedere ad Arcore, con facoltà di spostarsi a Roma solo dal martedì al giovedì. Se vorrà recarsi altrove, anche per tenere i comizi della campagna elettorale, dovrà mettere nero su bianco tutti i suoi spostamenti e chiedere prima il permesso al magistrato. Non potrà andare all’estero, non potrà frequentare pregiudicati, dovrà sempre tenere in tasca una copia del «decreto» con tutti i suoi obblighi in modo da mostrarla a qualunque poliziotto che gliene facesse domanda.
Corruzione, la parola che manca alla politica
di Furio Colombo (il Fatto, 20.04.2014)
Il giorno 15 aprile il New York Times, edizione internazionale, ha aperto il giornale (due colonne a destra, impaginazione rara e drammatica) con un articolo datato da Roma, che ha questo titolo: “La mafia allunga i tentacoli e cresce”.
Il paesaggio è l’Europa, dove la mafia pianta sempre più bandierine. Ma i nomi, i luoghi dei quartieri generali, le organizzazioni da cui partono sempre nuove e anche fantasiose iniziative, sono tutte italiane.
L’articolo continua occupando gran parte di pag. 4 di uno dei grandi quotidiani del mondo e sembra inviare un messaggio ai simpatici alleati italiani: niente da dichiarare? Erano i giorni in cui in Italia si stava facendo un grande discutere di reati di mafia, ma come materia di scontro politico in Parlamento, non come presa d’atto di una realtà tragica che chiede una lotta senza quartiere.
Erano le stesse ore in cui, tramite passaggio in Libano, si stava preparando uno scivolo per consentire al noto senatore Dell’Utri di saltare fuori dal rischio della prigione (sette anni per una questione di mafia). Gli stessi giorni in cui veniva consentito a Silvio Berlusconi di scontare un anno residuo di prigione in comode rate da quattro ore alla settimana. È lo stesso Berlusconi che mentre era a capo del governo italiano, da un palco elettorale, abbracciato a Dell’Utri, ha dichiarato “eroe italiano” un assassino di mafia condannato a vari ergastoli. Può farlo perché va e viene, come statista (definizione sua, ma evidentemente accolta nelle istituzioni italiane), tra i vertici del potere.
I CITTADINI, ormai si sono arresi e - quelli non caduti in depressione o nella chiusura della fabbrica - pensano: “Si vede che adesso in Italia si fa così”. Sperano che Renzi ce la faccia (non si sa esattamente che cosa vuol dire, ma funziona come ultima speranza), sperano che i poliziotti non picchino troppo forte i loro figli, in caso di corteo esasperato. E si sono persuasi, ormai, che Silvio Berlusconi sia il padre di questo governo e anche il padre delle riforme che il governo ha fatto (per ora solo mezza legge elettorale e mezza chiusura del Senato) e di quelle che certamente si faranno, tanto ci sono anni di tempo.
Il New York Times però ha insistito per dare una mano a questa Italia stremata, tenuta sveglia da un animatore di giochi. Attenzione, alla vostra politica manca una parola. Infatti, qualunque sia la crisi che viviamo, manca la parola corruzione. È come se, di fronte alla roccia impenetrabile di Ali Babà, nessuno avesse potuto dire “abracadabra”, la parola magica che smuove l’ostacolo e apre magicamente il passaggio verso il tesoro rubato.
Le fiabe, si sa, sono un modo per narrare la realtà. In questo caso si tratta di una fiaba di potere, tanto che il suo titolo è “Ali Babà e i Quaranta Ladroni”. Si trattava di batterli in astuzia e bravura. L’idea, invece è stata di fare un governo insieme. E una disorientata folla mista continua a sostare davanti alla caverna cercando non come entrare ma come tenere a bada coloro che avrebbero potuto pronunciare la parola magica, per iniziare il grande inventario.
Si poteva avviare il discorso sui tagli alla Sanità senza confrontarsi con il problema dell’immenso assalto e del continuo, accurato depredare della Sanità da fuori e da dentro, con un attivismo senza tregua? Si poteva affrontare il dibattito sul lavoro e sul “cuneo fiscale” senza tentare di calcolare la vasta quantità di tasse occulte che la malavita impone a quasi ogni attività produttiva in Italia e, adesso apprendiamo, anche in Europa ma a beneficio dell’Italia ricca e clandestina?
Si poteva esaltare e sostenere un programma di grandi opere (quelle che “danno lavoro” e “muovono l’economia”) senza domandarsi (ci sono fonti serie, accurate, informatissime a partire da Roberto Saviano) come affrontare l’infezione “tangenti politiche” che gravano fin dalla radice su ogni progetto, e durano fino alla consegna, che spesso (per la grande opera) non arriva mai, ma è pronta cassa per gli strani gruppi misti di politica e imprese che credono di usare la mafia e ne sono sempre usate?
Tutto ciò, come racconta il lungo articolo del New York Times, e come molto prima aveva avvertito Saviano, è zona infetta, dunque coltura adatta alla mafia, adatta a sostenerla e a moltiplicarla. Per questo la mafia cresce e cresce la malavita. Cresce dentro i luoghi e le istituzioni che dovrebbero combatterla.
FINO A BERLUSCONI, Dell’Utri, Previti e classe dirigente della “rivoluzione liberale” con cui Berlusconi ha ingannato l’Italia e chi gli ha creduto (un po’ anche, i governi amici) qualcuno poteva dire che non era così chiaro il rapporto fra corruzione, diffusa e mafia, in Italia. Adesso lo è, al punto di dubitare sulla sequenza causa-effetto. Tre poteri ormai si riversano (e allo stesso tempo si nutrono) in un mare di corruzione: la politica, il potere privato e la mafia. La mafia conduce sempre, e questo è il grido d’allarme del giornale americano. Sullo schermo del nuovo, auto-elogiatissimo governo scorrono in continuazione cifre di misure in cui si toglie ai poveri per dare ai poveri o si fanno acrobazie per racimolare pochi soldi per colmare (invano) una immensa diseguaglianza.
Su un altro schermo, che la maggioranza di noi non vede, scorrono le immense cifre della corruzione che non è conosciuta, non è intercettata, non è nei programmi di nessuno. Un grande vuoto fa da contenitore al male che impedisce ogni ritorno dell’Italia alla normalità e la rende pericolosa e infetta. Per ora, avrete notato, non si levano voci. Anzi, di solito cambiamo discorso.
L’incognita di essere ancora legati al Cavaliere
di Marcello Sorgi (La Stampa, 05.04.2014)
Dopo i rispettivi incontri con Berlusconi al Quirinale e con Letta e Verdini a Palazzo Chigi, Napolitano e Renzi si sono ritrovati ieri mattina per fare il punto della situazione. Sulle scadenze più prossime, il Def e i provvedimenti economici che il governo deve portare all’attenzione dei severi controllori europei, la situazione è sotto controllo.
Bruxelles ha accettato l’impostazione renziana, secondo la quale il taglio delle tasse che consentirà di dare ottanta euro al mese in più a tutti quelli che guadagnano fino a mille e cinquecento euro sarà coperto quest’anno da un lieve peggioramento del rapporto tra deficit e pil (dal 2,6 al 2,8 per cento) e con i benefici del calo dello spread (ieri a quota 160) e degli interessi dei titoli di Stato. I conti veri occorrerà farli l’anno prossimo, quando la Ue pretenderà che le coperture nel bilancio diventino strutturali, cioè siano assicurate con tagli alla spesa.
Sul fronte riforme, invece, la prospettiva resta legata a Berlusconi. A Napolitano, che gli aveva parlato per quasi due ore mercoledì sera, Renzi è apparso fin troppo ottimista sulle effettive intenzioni del leader di Forza Italia, dopo le turbolenze che anche ieri sono venute dal centrodestra. Il consiglio del Presidente al premier è stato di affrontare il difficile percorso parlamentare al Senato con atteggiamento flessibile, cercando un’intesa che possa reggere anche nelle votazioni successive al primo passaggio in aula del nuovo testo costituzionale. Napolitano insomma è prudente, ma confida che questa sia la volta buona.
Lo scontro vero, ormai senza esclusione di colpi, è quello tra Renzi e Grillo. Ieri contro il leader del Movimento 5 stelle s’è mosso anche il vicesegretario del Pd, e stretto collaboratore del premier, Lorenzo Guerini, in pratica il reggente del Nazareno. Grillo ha risposto a stretto giro. La verità è che, come dimostrano ormai in modo inequivocabile i sondaggi, il muro contro muro quotidiano tra Palazzo Chigi e il maggior partito d’opposizione conviene a tutti e due. Ma se il 25 maggio l’ex-sindaco e l’ex-comico dovessero fare il pieno di voti a scapito di tutti gli altri, anche la stabilità del governo potrebbe risentirne.
Berlusconi, il mondo capovolto
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 17.03.2014)
Quale che sia il governo, la funabolica girandola della politica italiana ruota sempre intorno a Silvio Berlusconi. Come prima, più di prima. Perché nel carniere del cacciatore vi è ora anche l’accordo che ha siglato la veloce approvazione alla Camera della riforma elettorale, il miracolo che ha rimesso in circolo il reo e leader di Forza Italia.
Forte del titolo di padre della patria, Berlusconi si lancia ora nell’affondo finale: la richiesta vox populi della grazia e infine la candidatura alle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo. Invece dei servizi sociali l’aula di Strasburgo. L’Italia rappresentata da un reo fatto eroe dalla politica nazionale. Una saga dai contorni surreali eppure recitata con la pomposità e la retorica della grandi manovre.
Da quando la Corte di Cassazione ha confermato la condanna per frode fiscale ai danni dello Stato italiano (la vittima), il reo Berlusconi, cacciato dal Senato in accordo ad una legge votata qualche mese prima anche dal suo partito e applicata dalla maggioranza che sosteneva il governo di Enrico Letta, ha manovrato abilmente per realizzare uno scopo e uno solo: salvare se stesso e i suoi interessi dal prevedibile danno che l’esclusione dalla politica istituzionale comporterebbe. È chiaro che Berlusconi potrebbe continuare a fare politica stando fuori dalle istituzioni: non è forse Beppe Grillo un grande trascinatore senza essere un eletto?
Ma evidentemente a Berlusconi non interessa tanto trascinare le masse, quanto trascinarle con lo scopo di meglio soddisfare i suoi interessi ovvero a proprio vantaggio, un obiettivo che può essere raggiunto stando dentro le istituzioni, non fuori. Non si spiega diversamente il suo amore per l’investitura istituzionale, per quell’immunità che gli è stata utilissima per tanti anni e che ha perso lo scorso novembre. È questa la politica che interessa a Berlusconi. Il resto sono solo chiacchiere ben cucinate per imbonire l’audience.
La mobilitazione dei Berluscones si è intensificata quando pochi giorni fa al loro capo fu impedito di recarsi al congresso del Ppe in programma a Dublino. Berlusconi, che ha dovuto riconsegnare il passaporto dopo la condanna definitiva per la frode fiscale sui diritti tv del gruppo Mediaset, non ha avuto il permesso chiesto al tribunale di Milano per poter partecipare alla riunione in vista delle elezioni europee.
La mobilitazione si fa ancora più accesa in prossimità della decisione del 10 aprile prossimo, quando i giudici di Milano dovranno decidere, come Berlusconi stesso ha detto «se dovrò andare in carcere, ai domiciliari o ai servizi sociali». A lui l’ipotesi dei servizi sociali suona come la soluzione «più ridicola »: lui, una persona «della sua età», che oltretutto ha il merito di essere anche «una persona di stato, di sport e di impresa»! «Ridicolo », dice l’uomo più ricco e più potente d’Italia (ancora Cavaliere del Lavoro), che debba pagare per aver violato la legge come capita a un qualunque normale cittadino. La soluzione che egli vuole è ben altra, è fare un altro tipo di servizio, quello al Parlamento europeo.
Quello che si prospetta davanti ai nostri occhi è un mondo rovesciato, nel quale il condannato diventa un perseguitato e la legge una «grave lesione al diritto» perché mette un fermo al suo «diritto di rappresentare i moderati italiani». In questa condizione surreale, Berlusconi e i suoi lanciano una nemmeno poco velata minaccia: chi si provasse a impedirlo si «assumerebbe una grave responsabilità davanti a milioni di italiani».
La politica italiana sembra non riuscire a fare a meno di Berlusconi, a liberarsi dai suoi ricatti, se è vero che perfino per attuare la politica della rottamazione c’è stato bisogno di lui. Il Pd di Matteo Renzi ha una responsabilità non piccola, e ora dovrà mostrare se quell’accordo sulla legge elettorale è venuto senza costi aggiuntivi.
Le parole di Maurizio Gasparri sono sibilline: perorando la causa del suo capo come una causa «di democrazia e di libertà» (sperando magari in una legge che consenta a Berlusconi di candidarsi alle prossime elezioni europee) il senatore di Forza Italia mette sul piatto il regalo fatto, ovvero l’argine che grazie alla nuova legge elettorale è stato messo ai “partitini”, ostacoli a sinistra e a destra nel progetto comune a Berlusconi e a Renzi di controllare i voti dei rispettivi campi per muovere verso una soluzione compiutamente bipolare, con poco pluralismo e molto consenso.
Non è un caso se proprio dal Ncd di Angelino Alfano vengano le bordate più forti al progetto di Forza Italia. «Quando Berlusconi parla dei piccoli partiti - ha detto Alfano - si trova in una condizione paradossale, il suo è un partito più grande ma non sa dove andare, il nostro è più piccolo ma sa benissimo dove andare». Parole che fanno intuire quanto questa legge elettorale e il destino politico di Berlusconi siano intrecciati. Il surreale di una rottamazione che si vorrebbe attuare a condizione di non rottamare mai l’icona della politica del privilegio.
Berlusconi: “Mi candiderò alle Europee”
Il Pd insorge: non può, è un condannato
Il dem Pittella, presidente vicario del Parlamento Ue: la legge Severino lo vieta
FI: «Il leader deve rivolgersi agli elettori». Ma la partita si gioca il 10 aprile.
davide lessi (nexta)
La Stampa, 14/03/2014
«Sarò felice di essere in campo nelle cinque circoscrizioni che sempre mi hanno dato tra i 600 ed i 700 mila voti ciascuna. Spero di poter avere velocemente una risposta dalla Corte europea». Silvio Berlusconi rompe gli indugi e conferma la provocazione anticipata dall’intervista a Giovanni Toti pubblicata oggi su La Stampa. Il consigliere politico del Cavaliere aveva ribadito la determinazione del suo “consigliato” per le elezioni europee di fine maggio. La campagna elettorale può cominciare. «Servono dodicimila club “Forza Silvio» perché, spiega Berlusconi in un collegamento telefonico con una iniziativa di Forza Italia a Montecatini Terme, «bisogna convincere almeno il 50% degli italiani delusi dalla politica». L’ex premier ammette che i messaggi televisivi non bastano più. «Ci sono 24-25 milioni di persone che non sono raggiungibili con la tv e che non leggono i giornali», ha aggiunto spiegando la necessità di un rapporto diretto con i cittadini attraverso internet. Grillo docet.
IL PD: «È INCANDIDABILE»
«N-o-n s-i p-u-ò». Scandisce bene le lettere Gianni Pittella, già candidato alle primarie per la segreteria Pd. «Sì che si può, è una questione di democrazia», ribatte Deborah Bergamini, responsabile della comunicazione degli azzurri. Ma netta è l’alzata di scudi dei democratici. Pittella spiega: «Capisco che gli amici di Forza Italia abbiano problemi nell’accettare la legge e rispettare le sentenze. Berlusconi e Toti si rassegnino. Esiste una legge dello Stato italiano - art.4 della legge Severino - che prescrive chiaramente che i condannati in via definitiva non possono essere candidati né al Parlamento italiano né tantomeno a quello europeo». Dal Pd si fa riferimento ad altri esempi “virtuosi”. «In Germania il presidente della squadra di calcio del Bayern Monaco Hoeness è stato condannato a tre anni e sei mesi di carcere per frode fiscale e ha anche rinunciato all’appello», commenta il senatore del Partito Democratico Vannino Chiti.
IL CENTRODESTRA AGITA LO SPAURACCHIO
Ma nel centrodestra si continua ad agitare lo “spauracchio” di un Berlusconi nelle liste . «Un leader che si rivolge agli elettori per chiedere se vogliono che sia lui a rappresentarli. Nonostante le polemiche del Pd, a quanto ci risulta questa si chiama democrazia», afferma la responsabile comunicazione di Forza Italia Deborah Bergamini . «Valuteremo, ci sono una serie di problemi giudiziari ma anche legali dopo le ingiuste persecuzioni a Berlusconi. Limitare Berlusconi significa penalizzare un intero Paese a livello politico, violare i principi di democrazia. C’è stata una persecuzione ingiusta, che noi vogliamo denunciare anche con questa eventuale candidatura. Sarà un momento di raccolto di consensi intorno a Berlusconi, contro le ingiustizie che lui sta subendo», afferma Maurizio Gasparri, vice presidente del Senato in un’intervista radiofonica a Qlub Radio.
IL 10 APRILE SI DECIDE SU SERVIZI SOCIALI O ARRESTI DOMICILIARI
La strategia di Silvio Berlusconi sarà più chiara quando i giudici di Milano decideranno sul suo futuro: servizi sociali o arresti domiciliari? «Attendo la decisione», ha detto questo sera il premier, spiegando che quella dei servizi sociali è la soluzione «più ridicola per una persona della mia età, una persona di stato, di sport e di impresa: è ridicolo riabilitarla attraverso l’assistenza sociale». La data da cerchiare in agenda è il 10 aprile. Ma il messaggio lanciato oggi deve essere chiaro sia all’esterno di Forza Italia che all’interno del litigioso centrodestra: Berlusconi non ha nessuna intenzione di farsi da parte. E annuncia: «Tra poco più di un anno si andrà al voto». Non per Bruxelles, ma per Roma.
Silvio Berlusconi e’ fuori dal Parlamento. L’aula del Senato vota per la decadenza
’E’ un giorno amaro e di lutto per la democrazia’, aveva detto Berlusconi parlando alla folla di sostenitori che si sono riuniti nel pomeriggio davanti a palazzo Grazioli *
Il Senato ha dichiarato decaduto Silvio Berlusconi da senatore. Lo ha annunciato in Aula il presidente Grasso subito dopo che l’Assemblea aveva respinto tutti e nove gli ordini del giorno presentati.
"Essendo stati respinti tutti gli ordini del giorno presentati in difformità dalla relazione della Giunta per le Immunità che proponeva di non convalidare l’elezione di Berlusconi la relazione della Giunta deve intendersi approvata". Lo ha detto il presidente del Senato Pietro Grasso confermando la decadenza del Cav da senatore. A prendere il posto di Silvio Berlusconi al Senato è il primo dei non eletti in Molise per il Pdl Ulisse Di Giacomo.
"E’ un giorno amaro e di lutto per la democrazia": cosi’ Silvio Berlusconi aveva parlato in piazza del Plebiscito a Roma ai suoi sostenitori.. ’’Il Senato di sinistra con il suo potere ha ordinato al tempo di fare freddo’’, aveva detto Berlusconi aprendo il suo comizio davanti palazzo Grazioli. La magistratura vuole "la magistratura via giudiziaria al socialismo contro il capitalismo borghese", aveva aggiunto Berlusconi ai militanti di Forza Italia a via del Plebiscito. "Quando la sinistra non è al potere la magistratura fa di tutto per farla tornare al potere". ’’Noi siamo moderati. Si sono scagliati contro questa manifestazione ma vogliamo tranquillizzarli: questa è una manifestazione legittima e pacifica’’.
’’La sentenza sui diritti Tv è una sentenza che grida vendetta davanti a dio e agli uomini’’: così Silvio Berlusconi nel suo comizio in via del Plebiscito. Quella sentenza, ha aggiunto, ’’è basata solo su teoremi e congetture e su nessun fatto o documento o testimone’’. "Sono assolutamente sicuro che il finale di questi ricorsi sarà il capovolgimento della sentenza con la mia completa assoluzione", ha detto Berlusconi ai militanti di Fi a via del Plebiscito ribadendo la volontà di presentare domanda di revisione del processo Mediaset.
’’Non ci ritireremo in qualche convento, noi stiamo qui, restiamo qui, resteremo qui’’: così Silvio Berlusconi dal palco. "Nessuno di noi può stare più tranquillo sui propri diritti, sui propri beni e la propria libertà. E allora restiamo in campo. Non disperiamoci se il leader del centrodestra non sarà più senatore: ci sono altri leader di partito che non sono parlamentari e mi riferisco a Renzi e Grillo che dimostrano che anche da fuori si può continuare a battersi e combattere per la nostra libertà". Lo ha detto Silvio Berlusconi al comizio davanti a Palazzo Grazioli. ’’Oggi brindano perché sono riusciti a portare l’avversario davanti al plotone d’esecuzione: sono euforici, lo aspettavano da venti anni... ma non credo abbiano vinto la partita della democrazia e della libertà’’: così Silvio Berlusconi.
"Ci diamo un appuntamento preciso: l’8 dicembre ci incontriamo per festeggiare i primi mille club che si stanno fondando in Italia": cosi’ Berlusconi ai militanti di Forza Italia che manifestano a Via del Plebiscito.’’Altri se ne sono andati... ma noi siamo rimasti qui, siamo sicuri di essere la parte giusta, sicuri che non tradiremo mai i nostri elettori’’, ha detto il Cavaliere che ha fatto un implicito riferimento ad Alfano e al Nuovo centrodestra. La folla ha rivolto un lungo buuuuu agli alfaniani e il Cavaliere ha chiosato: "Interruzione ruvida ma efficace".
Secondo gli organizzatori della manifestazione di Forza Italia in Via del Plebiscito, i militanti presenti erano 20 mila.
I senatori di Forza Italia hanno cominciato a invocare il nome di Silvio Berlusconi nell’aula del Senato, durante le dichiarazioni di voto sulla sua decadenza. Dopo l’intervento di Annamaria Bernini, i senatori di Forza Italia si sono tutti alzati in piedi, gridando ’Silvio, Silvio’, ritmando il nome con il battito delle mani.
"L’ex premier italiano Silvio Berlusconi è stato espulso dal Senato". La notizia della decadenza del Cavaliere fa in una manciata di minuti il giro del mondo e irrompe come "breaking news" sui siti dei principali media internazionali: dalla Bbc al Wall Street Journal, dalla tedesca Faz allo spagnolo El Pais.
“Napolitano mi dia la grazia
io non la chiederò mai”
Berlusconi: “La decadenza un colpo di Stato”. Ma non parlerà in Aula
di Ugo Magri (La Stampa, 24/11/2013)
Roma Berlusconi ci ripensa, forse rinunzia a pronunciare in Senato l’ultimo disperato fiammeggiante discorso della sua carriera parlamentare. Si va convincendo che presentarsi mercoledì in aula, e rovesciare contro la magistratura tutto quanto gli passa per la mente, sarebbe un doppio boomerang. Suonerebbe come provocazione sfrontata nei confronti delle Procure, specie di quelle che un’ora dopo potrebbero spiccare un mandato di carcerazione domiciliare.
Già non mancano i rumors, specie da Milano come effetto dell’inchiesta «Ruby ter». Andarsi a cercare il martirio, per quanto invocato dai pasdaran, non è gesto compatibile con gli interessi aziendali in gioco. Ma c’è dell’altro. Il Cavaliere riflette sull’immensa vergogna che gli causerebbe l’espulsione fisica dal Parlamento. Berlusconi rischia, una volta passata la decadenza, di essere allontanato dall’emiciclo come un intruso, in base alla spietata formula: «Preghiamo il dottor Berlusconi di uscire dall’aula per consentire la prosecuzione dei nostri lavori». Le immagini dell’ex-premier che guadagna furibondo l’uscita, magari accompagnato dagli sberleffi della sinistra e dal ludibrio dei Cinque stelle, forse addirittura (questo si spingono a ipotizzare certi «berluscones» nel delirio delle ultime ore) con i carabinieri in attesa giù davanti al portone, farebbero all’istante il giro del mondo segnando, esse sì, il crepuscolo di un’epoca...
Dunque al momento, quando il conto alla rovescia segna «meno tre giorni», e ormai tutti danno scontato che il 27 pomeriggio si voterà sulla decadenza senza ulteriori «traccheggiamenti» (come li definisce il presidente del Senato Grasso), l’orazione berlusconiana contro la giustizia ingiusta sembra destinata ad altre platee. Tipo quella dei giovani forzisti, che all’Eur hanno udito il Cavaliere lanciarsi nell’elogio del mafioso Mangano, «un eroe» perché non accettò di chiamarlo in causa a Palermo (diversamente dall’ex senatore De Gregorio «convinto dai pm di Napoli ad accusarmi»). I giovani «falchi» sono rimasti interdetti dalla definizione del «Corsera» quale «organo della Procura milanese».
Ma hanno convenuto con Silvio che sarebbe «ridicolo» scontare i servizi sociali da Don Mazzi «il quale dice “Presidente, venga a pulire i cessi qui da noi”, credete che io possa umiliarmi così?». E infine, sono stati testimoni del primo minaccioso attacco al Presidente della Repubblica. Berlusconi (ecco la novità) ormai lo sfida pubblicamente. Napolitano, alza la voce, «non dovrebbe avere un attimo di esitazione a dare, senza che io presenti la richiesta, in quanto ho la dignità di non chiederla, un provvedimento di grazia». L’ex-premier sa che il Capo dello Stato mai lo farà a comando (e forse nemmeno dietro cortese domanda). Ma in realtà Berlusconi non mira alla clemenza presidenziale. Semplicemente, dicono i suoi, vuole marcare l’addio al Parlamento con un rombo assordante di tuono, intende sottoporre la Repubblica a uno stress senza precedenti. Non a caso già grida al «golpe» e minaccia con toni giudicati eversivi dal Pd: «La sinistra non pensi che il colpo di Stato si realizzi senza una reazione da parte nostra...».
Sembra l’avvio di un’«escalation» che punta a sommergere il Colle, senza risparmiare le altre istituzioni. Ormai espulso dal Parlamento, Berlusconi già si comporta come un leader extra-parlamentare. Manifestazione convocata per mercoledì pomeriggio davanti a Palazzo Grazioli, stavolta senza obiezioni dal sindaco Marino. Sarà una sorta di veglia intorno al leader, ma con l’intento di trasferirsi tutti quanti davanti a Palazzo Madama (cordoni di sicurezza permettendo) qualora alla fine il Cavaliere decidesse ugualmente di presentarsi in Senato. Domani, conferenza stampa per mostrare certe carte in arrivo dagli Usa, annunciate come la prova del fisco americano «che io non c’entro niente» con le società off-shore di Agrama, per le quali gli è piovuta addosso la condanna. Sempre domani, assemblea dei gruppi forzisti, deputati e senatori superstiti, per formalizzare un ormai scontatissimo passaggio all’opposizione.
Un insulto a tutta l’Italia
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 7 novembre 2013)
L’uomo che per un ventennio ha dominato politica e affari, che è stato presidente del Consiglio e che oggi è il referente di un partito di governo, ha dichiarato che i suoi figli «si sentono come dovevano sentirsi le famiglie ebree in Germania durante il regime di Hitler».
È una frase che lascia a bocca aperta. Come si fa a spiegare a lui e soprattutto a chi lo ascolta la differenza che c’è tra le conseguenze di una condanna per evasione fiscale e lo sterminio di milioni e milioni di esseri umani? Non è possibile. Si è disarmati.
Il presidente della comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici ha detto giustamente che più che agli ebrei Berlusconi dovrebbe delle scuse a se stesso. E Renzo Gattegna, presidente dell’unione delle comunità ebraiche italiane, ha provato a spiegare la differenza che passa tra l’Italia democratica di oggi e la Germania nazista. n
Ma la cosa è accaduta. Quelle parole sono state dette e immediatamente rilanciate dai media. Siamo davanti a un fatto pubblico, non a una battuta di ubriachi al bar.
Non mancheranno esegeti pronti a giustificarle come espressione di una sofferenza umana da meditare pensosamente, da usare come ricatto politico per chiedere una grazia presidenziale o un ennesimo sfregio alla giustizia.
Bisogna dunque chiedersi perché sia stato possibile che accadesse; bisogna chiedersi anche e soprattutto come si deve reagire a un fatto come questo. Lo dobbiamo a noi stessi, a chi osserva le cose italiane e ci giudica per quello che vede. Lo dobbiamo anche e soprattutto a coloro che questo tempo chiameranno antico.
Ci saranno in futuro storici che interrogheranno questo tempo nostro: avranno certamente strumenti più raffinati dei nostri. Saranno in grado di spiegare la malattia sociale italiana che ha preso il nome di quell’uomo individuandone le cause, così come noi siamo capaci di spiegare certe degenerazioni e follie del Medioevo perché sappiamo ad esempio quali allucinazioni potesse dare la segale cornuta del pane che mangiavano.
Questo nostro modernissimo Medioevo che si nutre soprattutto di chiacchiere e immagini televisive, ci pone invece davanti a episodi come questo, dove l’indecenza privata si mescola con una forte componente di responsabilità collettive.
Di indecente c’è la mancanza di pudore di un padre che tira in ballo i figli e se ne fa scudo: non solo, attribuisce loro pensieri e sentimenti che se fossero veramente da loro condivisi farebbero emergere un vuoto di cultura e di sensibilità tale da rendere urgente un ciclo di recupero scolastico e di alfabetizzazione elementare.
C’è da chiedersi se quei figli accetteranno in silenzio l’attribuzione di quei pensieri: perché anche all’interno dei rapporti più intimi c’è un momento in cui ognuno deve tutelarsi e prendersi le sue responsabilità. Non abbiamo dimenticato che, prima ancora dell’avvio del processo Ruby, ci fu una lettera pubblica con cui la signora Veronica Lario rese noto lo scandalo di quelle che definì le vergini offerte al drago: lei lo fece in nome del rispetto dovuto a se stessa.
Quella frase ha espresso e addebitato a presunti pensieri dei figli una forma di grave, inaudito negazionismo. Da un lato le file sterminate di milioni e milioni di uomini, donne, bambini che entravano nelle camere a gas e finivano poi nei forni crematori, dall’altro come un piatto della stessa bilancia i figli di Berlusconi e il loro stato d’animo in seguito alla condanna del padre.
Dovrebbe por mente a questo chi si è interrogato anche di recente su come si possa rendere giustizia alla memoria delle vittime e impedire quell’estrema, definitiva ingiustizia che è la negazione o la minimizzazione della Shoah. Si metta a prova su questo caso l’adeguatezza della misura penale di cui si parla nel paese e si dovrà discutere in Parlamento.
Quale punizione spetterebbe a chi, per la sua posizione sociale, per i media che governa e i giornalisti che paga, per il numero di cittadini italiani che ancora pendono dalle sue labbra, ha messo in circolazione nel linguaggio pubblico non una semplice minimizzazione ma una vera e propria ridicolizzazione della più grande tragedia del nostro tempo?
In casi come questi una amministrazione della giustizia meno torpida e priva di fantasia di quella che da noi è capace solo di misure carcerarie dovrebbe imporre forme di alfabetizzazione civile: per esempio corsi accelerati di storia contemporanea, servizio di assistenza ai visitatori della risiera di San Sabba, l’obbligo di imparare a memoria un congruo numero di pagine di «Se questo è un uomo».
Ma c’è un punto in cui il nodo delle responsabilità si aggroviglia, diventa un fatto di moralità pubblica e di responsabilità politica. Abbiamo sentito disquisire in questi giorni sul limite che divide privato e pubblico, sulle ragioni che dovrebbero impedire la permanenza al governo di un ministro non molto attento all’esistenza di quel limite. Ma si tratta di un fuscello rispetto alla trave che sta nell’occhio del Partito Democratico: una trave che si chiama alleanza di governo con Berlusconi e i suoi devoti.
Barbara Frank
di Massimo Gramellini (La Stampa, 7 novembre 2013)
I figli di B si sentono perseguitati come gli ebrei ai tempi di Hitler. La fonte della rivelazione è estremamente autorevole: B. In un libro di Vespa, tra l’altro. E allora perché ne parli? (Me lo domando da solo). Per analizzare il meccanismo che ha cambiato l’informazione e un po’ le nostre teste. Funziona così: da vent’anni, quasi ogni giorno, B pronuncia una sciocchezza terrificante, contraria al buonsenso e al buongusto. La sciocchezza ha lo scopo di ribadire l’unica idea forte su cui B ha costruito il suo successo in politica: il vittimismo. Gli italiani adorano i vittimisti.
Perciò un uomo che ha fatto affari con tutti i regimi e tutti i governi adora raccontarsi al suo popolo come il capro espiatorio di un’oscura macchinazione. B come i pellerossa, come gli ebrei, prossimamente come i migranti di Lampedusa. La scempiaggine provocatoria rimbalza sui siti e in tv, suscitando il commento divertito dei comici e quello indignato delle vittime vere. Ci cascano tutti. Ci cascano sempre. Per pigrizia, rabbia, automatismi strani. E la reazione alimenterà nel popolo di B il convincimento che lui sia veramente una vittima.
La tempesta di sabbia sollevata dalle panzane del Grande Incompreso è violenta ma breve, al pari di ogni altra emozione nella civiltà delle immagini. Il giorno dopo è già svanita nel nulla, lasciando un vuoto nevrotico che la prossima sparata provvederà a riempire. È una malattia di cui abbiamo inoculato il morbo. Non so chi perseguiti i figli di B. Ma mi sono fatto un’idea di chi, da vent’anni, perseguita noi.
IL FINTO TERMIDORO DI BERLUSCONI
di BARBARA SPINELLI (la Repubblica, 23 ottobre 2013)
SI FA presto a dire basta, non se ne può più di frugare nelle pieghe di Berlusconi e del suo harem. Oppure ad annunciare, volendo forse crederci: "Il ventennio è chiuso, in modo politico. Alfano ha vinto. Non si ricomincia con la tarantella" (Enrico Letta, 6 ottobre). Si fa presto a dire che altro oggi incombe: c’è la crisi, e non abbiamo più tempo né voglia di camminare con la testa voltata indietro, l’occhio fisso su Sodoma e Gomorra in fiamme alle nostre spalle.
Non raccontateci quel che già sappiamo. Il corpo di Berlusconi che mi mostrate: non voglio vederlo! Non sappiamo nulla invece, né del passato né di Gomorra. E serve la trasparenza sul corpo di Berlusconi, perché il corpo sta lì, dispositivo che ancora muove le cose. Perché ancor più crudamente rivela quel che resta opaco, impreciso: la politica che deperisce, il giudizio sulle menzogne di ieri che ingiudicate proseguono. Dietro le grida dell’harem, ecco i sussurri di chi senza dirlo lo sa: Berlusconi magari finisce ma non il suo sistema di potere, non le televisioni che controlla e usa, non il suo progetto di scardinare Costituzione e giustizia. La tarantella delle menzogne ricomincia, e sempre è condotta da oligarchie impenetrabili.
La menzogna della politica innanzitutto. Non è vero che il ventennio è stato chiuso "in modo politico": al momento, sono i giudici ad aver deciso l’interdizione per frode fiscale, non il Parlamento. La politica italiana è tuttora priva di anticorpi. Vive nel torbido, se è vero che in Parlamento si trama per salvare il frodatore: ecco perché ogni paragone fra Larghe Intese e Grande Coalizione tedesca è frode aggiuntiva. Alfano "ha vinto"? Non si sa che vittoria sia. Se non continuasse la tarantella, Monti non avrebbe denunciato l’assoggettamento del governo ai capricci d’un leader dato per vinto.
O la menzogna su quel che è stato il ventennio. Non la provincia che gonfia il petto in Europa, non l’Italietta di Fellini-Amarcord (memorabile l’uomo accusato d’aver detto: "Se Mussolini va avanti così ... io non lo so ...") ma stando a quel che dice Ernesto Galli della Loggia, "la favola bella della fine degli Stati nazionali e l’alibi europeista, che negli ultimi vent’anni (ha riempito) il vuoto ideale e l’inettitudine politica di tanti" (Corriere, 20 ottobre). Solo chi falsifica la storia può credere che questo sia stato il berlusconismo, e non uno Stato-marionetta che ripete, all’infinito, l’incompiuta liberazione del dopo-Mussolini.
Non c’è bisogno della permanenza in Senato del leader, per la messinscena che secondo Gustavo Zagrebelsky sfascia la politica. Alfano e Quagliariello recitano un finto Termidoro post-rivoluzionario, ma Robespierre è sempre lì. E tra i Grandi Intenditori proseguono le trattative per cambiare la Costituzione, come il capo ha sempre voluto. Non riusciranno magari, ma l’obiettivo non muta anche se oggi lo chiamano governance.
A parole il progetto pare ridursi a 2-3 cose semplici: minor numero di parlamentari; fine del bicameralismo perfetto (le due Camere che fanno la stessa cosa). Ben diverso il proposito, opaco ma palese. In realtà si tratta di riscrivere la Carta, troppo parlamentare per i governi forti di cui c’è bisogno. Se così non fosse non sarebbe nata una solenne Commissione di saggi, voluta dal Quirinale, e i tempi della riforma sarebbero più brevi dei 12-16 mesi previsti. Inoltre avremmo già una nuova legge elettorale, e cesseremmo di considerarla parte della Costituzione da rifare.
Qualcuno si sarà imbattuto forse, tra l’8 luglio e l’8 ottobre, nel questionario online di Palazzo Chigi attorno alla riforma istituzionale. Un questionario che non nascondeva i propri convincimenti: la Carta così com’è blocca l’esecutivo, dà troppi poteri a deputati e senatori. La democrazia parlamentare non garantisce efficienza, né il prezioso bene che è la stabilità. Il costituzionalista Mauro Volpi ha definito "truffaldino" il formulario: "Tutto è giocato sui poteri del Capo del Governo (o di un Presidente potenziato, ndr), necessari a evitare "l’instabilità politica derivante" da un assetto parlamentare. Le parole pesano come pietre". Chi aveva idee contrarie non poteva esprimerle, tanto orientato era il quiz.
Se i saggi guardassero oltre le frontiere, vedrebbero la vera favola del ventennio: non il superamento degli Stati-nazione, ma la panacea di governi che fingono sovranità inesistenti, e l’esaltazione di sacre unioni che fanno blocco contro populisti o dissenzienti (le maggioranze parlamentari del 70-80% auspicate da Letta nell’intervista al New York Times del 15 ottobre). Vedrebbero il fondale furioso della crisi europea: l’impossibilità dei cittadini di influenzare i piani di austerità, l’assenza di una comune discussione pubblica, che rafforzi le Costituzioni nazionali estendendo il perimetro di regole e diritti. È il pericolo che ha spinto la Corte costituzionale tedesca a mettere paletti all’Europa federale: nella prima sentenza sul trattato di Maastricht nel ’93, in quella sul Trattato di Lisbona nel 2009, in quella del 2011 sul Fondo salva-Stati. Lo ha fatto in un’ottica nazionalista, ma sapendo che il rischio oggi è la diminutio dei Parlamenti, non degli esecutivi.
Il cosiddetto fiscal compact (Trattato di stabilità fiscale) ha messo in luce questi pericoli. Lo spiega bene uno dei principali costituzionalisti europei, Ingolf Pernice, che assieme ad altri giuristi ha elaborato un piano di democratizzazione delle istituzioni comunitarie (A Democratic Solution to the Crisis, Nomos 2012; del gruppo fa parte Giuliano Amato). Il Trattato di stabilità, nella fase di elaborazione, s’è fatto senza i Parlamenti. Solo a cose fatte si chiede la partecipazione cittadina. Il Patto introduce inoltre una serie di sanzioni "automatiche", al posto di procedure concertate tra i responsabili davanti ai loro elettori.
Nella nota introduttiva al testo di Pernice, Amato lo riconosce: ovunque, nell’Unione, i cittadini temono una "perdita, un furto della sovranità". In effetti nelle costituzioni democratiche è scritto che il cittadino è sovrano, non lo Stato-nazione né l’esecutivo. Al primo va restituita la sovranità perduta, ampliandola in casa e nell’Unione. Defraudati di poteri, i cittadini rigetteranno altrimenti l’Europa e le sue unions sacrées.
La tendenza dei governi italiani (da Berlusconi in poi) è stata di camminare in senso inverso. La scelta di riarmare l’esecutivo più che i cittadini e i Parlamenti è miope oltre che autoritaria. Ignora che la fedele osservanza delle Costituzioni è condizione d’efficienza e non intralcio.
Non è vero che i difensori della Costituzione aspirano allo status quo. Ben venga la loro battaglia, soprattutto se guarderà oltre le democrazie nazionali. Se farà nascere uno spazio pubblico europeo. Virgilio Dastoli, presidente del Movimento europeo in Italia, ricorda che non è sufficiente reclamare, alle prossime elezioni europee, il diritto a scegliere il presidente della Commissione. L’elettore dovrà poter scegliere anche "un vero programma di governo per un’altra Europa: per uno spazio politico dove abbiano diritto di cittadinanza visioni radicalmente alternative di politiche economiche e sociali, e posizioni conflittuali sul significato della democrazia europea".
Probabilmente in Italia non avremo la Costituzione rifatta dai saggi. Manca lo spirito costituente. Già all’alba del berlusconismo, Bobbio ammoniva contro i ritocchi della Carta: nel dopoguerra fu possibile, "tra partiti radicalmente diversi, un patto di non aggressione reciproca di fronte al nemico comune. Oggi vedo una grande rissosità, che rende estremamente difficile mettere insieme una nuova assemblea costituente". Oggi sarebbe il cittadino a rimetterci. Non gli resterebbe che l’inerte, mesta protesta di Amarcord: "Se il governo va avanti così ... io non lo so ...".
Ecco l’amnistia di Napolitano, svuota le celle e salva B.
Il Colle scopre che l’Italia verrà condannata dalla Ue per le carceri affollate (anche per le leggi firmate da lui) e chiede clemenza
Sono già pronti tre ddl salva-Silvio
di Antonella Mascali (il Fatto, 09.10.2013)
La ministra dell’Interno Annamaria Cancellieri, che per prima, a giugno, lanciò la proposta di amnistia e indulto, respinge l’opinione di chi pensa che in questo modo Silvio Berlusconi si potrebbe salvare dalla condanna per frode fiscale al processo Mediaset. “È una falsa idea, è il Parlamento che decide per quali reati prevedere l’amnistia e non è mai successo che si occupasse di reati finanziari”. Ma se non sarà così, a Berlusconi verrebbe cancellata totalmente la pena per frode fiscale, compresa l’interdizione dai pubblici uffici: l’amnistia, secondo il codice, “estingue il reato e fa cessare l’esecuzione della condanna e le pene accessorie”.
Ovviamente per il leader del Pdl resterebbero in piedi gli altri procedimenti in corso, a cominciare da Ruby, per tipo di reato ed entità della pena. Per quanto riguarda il processo Mediaset, Berlusconi potrebbe cavarsela anche in caso di indulto, nonostante solitamente cancelli la pena principale ma non quella accessoria.
In Parlamento, infatti, ci sono disegni di legge, due al Senato e uno alla Camera, che prevedono proprio il salvataggio del leader del Pdl: in caso di indulto scatta la cancellazione delle pene accessorie temporanee. Un progetto è stato presentato dai senatori democratici Luigi Manconi, Paolo Corsini e Mario Tronti nonché da Luigi Compagna, senatore del gruppo misto. Già nella precedente legislatura, Compagna, come senatore del Pdl, provò a inserire un emendamento “salva Silvio” alla controversa modifica del reato di concussione contenuta nella legge Severino.
Il disegno di legge su amnistia e indulto, presentato al Senato il 15 marzo scorso, prevede l’amnistia per tutti “i reati commessi entro il 14 marzo 2013 per i quali è stabilita una pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni”. Per quanto riguarda l’indulto “è concesso nella misura di tre anni in linea generale e di cinque per i soli detenuti in gravi condizioni di salute”.
Ed ecco la postilla fatta a misura di Berlusconi, per la condanna Mediaset: “È concesso indulto, per intero, per le pene accessorie temporanee, conseguenti a condanne per le quali è applicato anche solo in parte l’indulto”. Un altro ddl fotocopia è a sola firma Manconi-Compagna. Anche alla Camera c’è un progetto di legge che prevede le pene accessorie temporanee indultabili, l’ha firmato il deputato del Pd, Sandro Gozi.
Dunque, se dovesse esserci l’indulto, così come previsto da questi testi, per Berlusconi la pena per frode fiscale sfumerebbe. Non solo quella principale, già ridotta all’osso dal-l’indulto del 2006 (dei 4 anni inflitti ne dovrà scontare solo 9 mesi) ma anche la pena accessoria dell’interdizione ai pubblici uffici, inizialmente stabilita a 5 anni, ma che, dopo la sentenza della Cassazione, dovrà essere ricalcolata dalla Corte d’Appello di Milano il prossimo 19 ottobre: potrà infliggere da un minimo di un anno a un massimo di tre anni, sulla base della normativa tributaria. L’interdizione sarà definitiva probabilmente entro l’anno, amnistia e indulto permettendo. Berlusconi, già nel 1990 ha beneficiato di un’amnistia che ha azzerato un procedimento per falsa testimonianza sulla sua iscrizione alla P2 di Licio Gelli.
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Dizionario
L’amnistia estingue il reato. L’indulto condona la pena
L’AMINSTIA estingue il reato (129, 531, 578 Codice Procedura Penale) e, se vi è stata condanna (648 cpp) fa cessare l’esecuzione della condanna e le pene accessorie (672 e succ. cpp).
L’INDULTO condona, in tutto o in parte, la pena inflitta, o la commuta in un’altra specie di pena stabilita della legge (672 e succ. Codice Procedura Penale). Non estingue le pene accessorie (19 cpp) salvo che il decreto disponga diversamente, neppure gli altri effetti penali della condanna. Sono concessi con legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale. La legge che concede l’amnistia o l’indulto stabilisce il termine per la loro applicazione e non possono applicarsi ai reati commessi successivamente alla presentazione del disegno di legge (articolo 79 della Costituzione).
Berlusconi, dalla discesa in campo a oggi
di Marco dell’Omo *
Silvio Berlusconi nel 1993 ufficializza il suo sostegno al missino Gianfranco Fini alle elezioni comunali di Roma: e’ l’esordio del Cavaliere in politica
Davanti a una telecamera annunciò la sua discesa in campo, con una telefonata a una trasmissione televisiva ha annunciato il suo passo indietro. Ma proprio in queste ore si parla di un ritorno con una sorta di ’predellino 2’ per rilanciare Forza Italia. Sono 18 anni che Silvio Berlusconi è in politica: in tutto questo tempo il cavaliere ha abituato gli italiani a strappi, accelerazioni, frenate.
26 gennaio 1994: il 26 gennaio le tv di Berlusconi mandano in onda un videomessaggio di nove minuti in cui il Cavaliere annuncia che si candiderà alla guida del nuovo partito, Forza Italia.
27 marzo 1994: vince le elezioni con due alleanze distinte: al nord il popolo delle libertà, con la Lega, al Sud il polo del buon governo, con il Msi di Gianfranco Fini.
2000: mette insieme Bossi, Fini e Casini e dà vita alla coalizione della "Casa delle libertà", che vince le elezioni del 2001.
2006: partito in svantaggio nei sondaggi, Berlusconi sfiora il pareggio con Prodi: l’Ulivo ha una maggioranza risicata al Senato e Berlusconi propone un governo di "grande coalizione", come quello tedesco (dove governano socialdemocratici, liberali e democristiani). Ma Prodi (e la lega) gli dicono no.
18 novembre 2007 a Milano, dopo un comizio in piazza San Babila, salendo sul predellino dell’automobile che lo porta via annuncia che la Casa della Libertà è "vecchia" e va superata. "Oggi nasce il nuovo partito del popolo delle libertà ".
29 marzo 2009 - nasce ufficialmente il Popolo delle libertà
22 aprile 2010: si consuma la rottura con Fini. Berlusconi lo attacca al consiglio nazionale del pdl: "Ti devi dimettere". Lui replica "Che fai mi cacci?".
1 giugno 2011: dopo la pesante sconfitta alle amministrative, Berlusconi, all’epoca ancora presidente del consiglio, affida il partito ad Angelino Alfano, che viene nominato segretario. Quindi, dopo un vorticoso giro di indiscrezioni, l’annuncio del ritiro dalla competition per la premiership.
24 novembre 2012: Berlusconi fa sapere di valutare un suo ritorno in pista, con l’obiettivo, si ipotizza tra l’altro, di un ’ritorno al futuro’ con il ’dinosauro’ Forza Italia.
4 ottobre 2013: La giunta per le elezioni del Senato "decide a maggioranza di proporre all’assemblea del Senato di deliberare la mancata convalida dell’elezione del senatore Silvio Berlusconi".
*ANSA:
http://www.ansa.it/web/notizie/photostory/primopiano/2012/11/24/Berlusconi-discesa-campo-oggi_9409821.html
Le lacrime del despota
di Michele Ciliberto (l’Unità, 03.10.2013)
UN FILOSOFO DELL’OTTOCENTO ERA SOLITO DIRE CHE LA FINE ILLUMINA IL «PRINCIPIO» E IL SUO SVILUPPO. IN CHE SENSO SI PUÒ UTILIZZARE QUESTO PRECETTO RISPETTO ALLA VICENDA DI BERLUSCONI? È sempre stato il triste personaggio di questi giorni, l’Ermete Zacconi in diciottesimo che abbiamo visto all’opera al Senato, con lacrime finali, come si conviene a un bravo protagonista di un dramma che si rispetti? E se non è stato sempre questo, su cosa getta luce questo triste, e lacrimoso, tramonto?
Non è facile dare una risposta perché Berlusconi è stato un personaggio centrale della vita politica italiana, anzi ne è stato a lungo il dominatore, anche se molti tendono ora a dimenticarlo, specie nel cerchio dei suoi seguaci. Nei primi anni Novanta intuì lo spazio che gli apriva la crisi della prima Repubblica, in tre mesi costruì un partito nuovo di zecca e vinse le elezioni, radicalizzando a destra lo schieramento moderato italiano, diretto fin ad allora dalla Dc. E ottenne questi risultati interpretando il risentimento degli italiani e presentandosi come un rinnovatore e un «modernizzatore» della vita politica italiana: bipolarismo, cambio della classe dirigente, nuove forme di individualismo, riforma della Costituzione, un modello di democrazia dispotica imperniato sulla subordinazione del potere giudiziario a quello esecutivo. Naturalmente, Berlusconi vinse le elezioni perché riuscì a raccogliere intorno a sé un ampio, a volte, amplissimo blocco sociale, reso a sua volta possibile dalla crisi degli schieramenti tradizionali e da una ideologia basata su un programmatico rovesciamento tra apparenza e realtà un nucleo centrale prima della vittoria, poi della disfatta di Berlusconi. Politicamente, è vissuto di parole, è morto di parole.
Ora, se si riflette su cosa siano diventati, in concreto, i suoi obiettivi programmatici, si constata un vero e proprio abisso: il bipolarismo si è trasformato in una forma di deteriore trasformismo; la nuova classe dirigente è stata formata da servi e cortigiani, preoccupati solo del loro potere personale; il nuovo individualismo si è trasformato in un bellum omnium contra omnes... Gli unici obiettivi su cui è rimasto fermo e inossidabile sono stati l’attacco alla Costituzione repubblicana e la lotta sfrenata contro la magistratura.
Ma sono proprio i problemi giudiziari, giunti a conclusione in questi giorni, a gettare luce sul «principio» della sua vicenda, facendone comprendere lo sviluppo. Come ha dimostrato la recente sentenza della Cassazione, quella vicenda si è basata fin dall’inizio su un intreccio di corruzione, clientele, violazione di regole civili e giuridiche fondamentali; è stata, insomma, fin dalle origini un potere al limite, e spesso fuori, della legge.
Questo è il dato di fondo, permanente, e questo ha inquinato fin dalle origini anche gli obiettivi «modernizzatori» che aveva dichiarato di voler conseguire. Essi appaiono per quello che sono stati: chiacchiere, propaganda... Mentre tutti i suoi governi sono stati ossessionati dal varo frenetico di leggi ad personam, con una confusione di «pubblico» e di «privato» che ha corroso, e fatto degenerare, la Costituzione interiore della nazione italiana, oggi assai più corrotta di quanto fosse prima della sua presa del potere. La fine di questi giorni illumina un «principio» che non è mai cambiato, è sempre stato eguale a se stesso.
C’è poco da gioire, o da ridere, di fronte a questo triste tramonto, alle lacrime che ha versato, al tentativo grottesco di tenere impigliato il governo nelle sue vicende personali. L’Italia che Berlusconi lascia è profondamente indebolita e incrinata nella sua fibra morale, nel suo carattere. E non è consolante constatare che la sua lunga vicenda non sarebbe finita se non ci fosse stata una crisi internazionale che ha fatto saltare il suo governo e il suo potere. Noi siamo circondati da rovine ed è difficile dire quale sarà l’esito della situazione italiana.
Alcuni punti però appaiono chiari: la sinistra deve ricostruire se stessa, come forza autonoma: Berlusconi è finito anzitutto per la disgregazione del suo partito e per il precipitare dei suoi problemi giudiziari. Ma anche i moderati devono riorganizzarsi, impedendo che prevalgano forze estremistiche di destra. E non mi riferisco ai dirigenti o ai ministri che ora cambiano campo; tanto meno a una «società civile» che dovrebbe per la sua positività contrapporsi alla politica. Né parlo di grandi o piccole intese.
Mi riferisco alle forze delle imprese e delle industrie italiane che dovrebbero uscire da una dimensione corporativa o dalla subordinazione alle correnti estremistiche, come è accaduto negli ultimi anni. Mi riferisco, in breve, a quelle forze che dovrebbero finalmente compiere, nella storia italiana, la loro «rivoluzione» politica e culturale, riorganizzando il loro campo, e non certo nei termini di Montezemolo. Quello che sta avvenendo in questi giorni è un punto di partenza, non un punto di arrivo. Guai a non capirlo.
Una storica farsa
di Antonio Padellaro (il Fatto, 03.10.2013)
Alla fine Enrico Letta ha parlato di “giornata dai risvolti storici”, affermazione del tutto stupefacente a meno che il premier bis non alludesse allo spettacolo tragicomico andato in scena ieri mattina al Senato, questo sì storico poiché niente di simile si era mai visto in un’aula parlamentare. Sulla farsa berlusconiana non aggiungeremo una sillaba a quanto detto al Tg3 dall’insospettabile Vittorio Feltri che di fronte alle giravolte di Berlusconi ha chiesto l’intervento degli infermieri. Ma cosa avesse Letta da esultare resta un mistero.
Cinque mesi fa, Napolitano gli fece gentile dono del governo delle larghe intese e di una maggioranza bulgara e cinque mesi dopo si è ritrovato in mano un catorcio inutilizzabile con una maggioranza raffazzonata e dai contorni incerti. Il giovane Enrico si è detto stufo dei continui ricatti del pregiudicato di Arcore e ha le sue ragioni, ma è davvero convinto che d’ora in poi la navigazione sarà quieta e sicura e la coalizione “più forte e coesa”?
I nuovi compagni di viaggio sono un gruppo ancora imprecisato di transfughi dal Pdl guidati da personaggi come Formigoni, Cicchitto e Giovanardi e non aggiungiamo altro. A parte lo spessore morale e politico degli acquisti, cosa garantisce che chi è uscito così frettolosamente da Palazzo Grazioli non possa rientrarvi convinto dai solidi argomenti del Caimano o dalle telefonate notturne di Verdini?
Senza contare le due parti in commedia di Angelino Alfano, nello stesso tempo leader degli scissionisti e segretario del Pdl di cui rivendica l’uso del marchio e della cassa. Quanto alla pretesa del condannato di essere salvato da decadenza e ineleggibilità, sembra cambiato poco. Per coda di paglia e per non finire impalati nelle pagine del vendicativo Giornale di Sallusti, i disertori si dicono pronti a immolarsi per salvare l’amato Silvio dalla persecuzione giudiziaria e conservargli il posto in Senato.
Infine, non una parola del premier sull’aumento dell’Iva e sul ripristino dell’Imu che sopravviverà con un nome diverso. Insomma, B. non è messo bene, ma potrebbe aver scaricato su Letta nipote la zavorra dei “traditori” e le tasse da far pagare agli italiani. Chi ha fatto l’affare?
E nell’Aula irruppe lo Spirito Santo
di Gian Arturo Ferrari (Corriere, 03.10.2013)
E così alla fine lo Spirito Santo si è poi deciso a scendere nell’aula tutt’altro che sorda e grigia (ma quella era Montecitorio...), bensì rutilante di rosso e oro, del Senato. Ma che cosa c’entra lo Spirito Santo, si chiederà il lettore? C’entra, c’entra. Perché è stato evocato - prudentemente, cautamente, copertamente, cioè indirettamente e obliquamente - da Enrico Letta. Il quale nel suo discorso di cui adesso, a cose fatte, si possono apprezzare le asciutte eleganze, ma che deve essere stato pronunciato con la bocca secca, ha inserito una nobile e severa citazione di Benedetto Croce.
«Ciascuno di noi - disse Croce alla Costituente l’11 marzo 1947 e ha ripetuto Letta - si ritiri nella sua profonda coscienza e procuri di non prepararsi, col suo voto poco meditato, un pungente e vergognoso rimorso». Una frase da etica protestante, che riecheggia la lapide posta nell’Abbazia di Westminster di fronte alle tombe delle sorelle regine, Maria (cattolica) ed Elisabetta (anglicana), dove si auspica che «vengano qui ricordati tutti coloro che nell’età della Riforma diedero la vita per amore di Cristo e di fronte alla propria coscienza».
Un richiamo alla coscienza, specie se profonda, non abituale nella nostra cultura e nel nostro costume. Quest’aria più fina (Letta aveva iniziato citando un altro padre della patria, Luigi Einaudi) deve aver colto un po’ di sorpresa i senatori e fatto correre un brivido nelle loro menti. Che così spronate hanno cercato di mostrarsi all’altezza, rispolverando antichi soprammobili ovvero cercando di far fuoco con la legna che avevano sottomano. E dunque il senatore D’Anna ha riagguantato un Voltaire (non dei più incisivi, per la verità): «quando i diritti di un uomo sono minacciati, sono in pericolo i diritti di tutti», l’uomo essendo naturalmente Berlusconi.
Il medesimo Berlusconi, in anticipo sul discorso di Letta, aveva fatto ricorso, nell’intervista di Panorama, a Giovannino Guareschi e al suo bellissimo «non muoio neanche se mi ammazzano». Ma scambiando la prigionia nazista con la molto successiva condanna penale per diffamazione, aveva destato le ire dell’Anrp, Associazione nazionale reduci dalla prigionia, e del suo presidente, Enzo Orlanducci, dato che la frase di Guareschi è il motto dei militari italiani internati in Germania per non aver voluto aderire a Salò. I quali internati non gradiscono che il loro motto venga fatto proprio da chi è stato condannato per evasione fiscale.
Da ultimo l’ineffabile senatore Scilipoti, dicendosi intenzionato a seguire ad oltranza Enrico Letta, ha concluso trionfalmente «Insomma, per dirla con una citazione della Primavera di Praga, “continuons le combat”». Incurante del fatto, ma qui la lingua avrebbe dovuto insospettirlo,che il «continuons le combat» (continuiamo la lotta), preceduto dal canonico «ce n’est qu’ un debut» (non è che l’inizio), costituisce non uno qualsiasi, ma «il» motto per eccellenza del Maggio francese e nulla ha a che vedere né con Praga né con la sua primavera. Per non dire che si fa un po’ fatica a immaginare il medesimo Scilipoti, ma se è per questo anche Enrico Letta, nei panni di un sessantottino o di un giovane praghese di fronte ai carri armati.
Per tornare o meglio per venire allo Spirito Santo, il saggio Letta nella sua citazione del discorso di Croce che risale al 1947 ha omesso il seguito. Che suona così: «Io vorrei chiudere questo mio discorso, con licenza degli amici democristiani dei quali non intendo usurpare le parti, raccogliendo tutti quanti qui siamo a intonare le parole dell’inno sublime: “Veni, creator spiritus, mentes tuorum visita, accende lumen sensibus, infunde amorem cordibus”. Soprattutto a questi: ai cuori». E proprio in cuor suo, senza dirlo, Enrico Letta deve aver sperato che lo Spirito Santo visitasse quelle menti. È stato accontentato, ma oltre ogni più rosea aspettativa. Lo Spirito Santo, tenuto come una carta coperta dentro la citazione di Croce, ha dato prova della sua potenza esplosiva. Non conosce mezze misure. Li ha illuminati tutti, anche Berlusconi. Troppa grazia.
Berlusconi, uno e due, virtuale e reale
di Mons. Giuseppe Casale
in “Adista” - Segni nuovi - n. 30 del 7 settembre 2013
Ma chi è il personaggio Berlusconi, che tiene in agitazione un intero Paese, che suscita accesi contrasti, che mette a rischio la tenuta stessa del governo, mentre ben altri e gravi problemi (crisi economica, disoccupazione giovanile, criminalità organizzata, immigrazione) esigono interventi urgenti e indilazionabili?Non è una domanda retorica. Perché il caso Berlusconi va ben al di là del fatto di cronaca riguardante una persona. È il termometro che segna una grave anomalia nella vita della democrazia italiana.
Si fa presto a descrivere il Berlusconi reale: un imprenditore che ha accumulato un’enorme ricchezza, non si sa con quali metodi; un uomo politico che ha suscitato forti critiche e riserve da parte di tanti onesti cittadini e numerosi interventi della magistratura per una condotta che è apparsa a coloro che indagavano su di lui riprovevole, in contrasto con le leggi dello Stato e l’etica pubblica, sia quando Berlusconi vestiva i panni di uomo di governo sia quando dirigeva, direttamente o indirettamente, le sue aziende. Alla fine di uno dei tanti procedimenti giudiziari che lo hanno visto indagato o imputato è stato condannato in maniera definitiva dalla Cassazione. Non è un perseguitato. È, tecnicamente, un condannato. La sentenza della Cassazione doveva perciò bastare per chiudere questo triste e avvilente capitolo della storia italiana recente.
Non è così. Perché se cade Berlusconi, cade tutta una costruzione pseudo-politica che ha in lui sostegno e spinta propulsiva. Ecco quindi che a fianco del Berlusconi reale c’è il Berlusconi virtuale, quello che ha fatto dimenticare ad un’intera generazione il rispetto delle leggi, della Costituzione e dei poteri dello Stato, assieme alle stesse norme minime di comportamento che vigono in una società organizzata. E che continua ad alimentare suggestioni collettive e un fitto reticolo di interessi. Ci sono ancora milioni di persone che vedono in Berlusconi il “salvatore della patria”, il politico che fa sognare e dispensa dal pensare. Vi sono, inoltre, altre centinaia di persone alle quali Berlusconi assicura potere, posti di lavoro, carriera politica, posizioni di rilievo nell’apparato dello Stato.
E allora la condanna? Per tutte queste persone non conta. È solo il frutto di una magistratura di sinistra che perseguita "l’unto del Signore. Gli insuccessi nel governo della cosa pubblica? Solo la conseguenza di una democrazia che impedisce al “capo” di governare con rapidità e decisione. Bisogna quindi salvare Berlusconi - si dice - perché è stato eletto da milioni di italiani. Come se l’essere eletti comporti non la responsabilità, ma l’impunità. Bisogna salvare Berlusconi, perché - si insiste - altrimenti tutto crolla. È vero. Però crolla una costruzione che non si basa sull’apporto responsabile dei cittadini, ma sulla verbosità, spesso menzognera, di chi pensa e decide per tutti.
Bisogna resistere alla tentazione di chiudere gli occhi, di accettare gli italici compromessi. Il bene comune non esige l’acquiescenza, il salvacondotto, la tortuosità di pseudo giustificazioni. La condanna di Berlusconi è l’uscita di sicurezza da un populismo mistificatore verso una democrazia sana, costruita ogni giorno con l’apporto intelligente e responsabile di tutti i cittadini. Che ne pensano i tanti cattolici “berluscones”? Non è giunto il momento per fare un serio esame di coscienza e... convertirsi?
* Arcivescovo emerito della diocesi di Foggia-Bovino
Il sudario delle larghe intese
di Franco Cordero (la Repubblica, 06 Settembre 2013(
Il tempo politico italiano tendeva al torpido ma ha dei soprassalti da quando lo infesta l’Olonese. Forte d’eufemismi Imu (saremo torchiati sotto nome diverso), mercoledì 28 agosto Letta jr. parla Urbi et et orbi: alleluja, non hanno più termine le “larghe intese”; l’invadente consorte se ne vanta; e adesso, avverte, resti sospeso l’antipatico affare della sua decadenza dal Senato. Spirava aria d’appeasement. L’indomani la guastano i cinque della Cassazione depositando 208 pagine letali: negli anni lo Statista frodava fisco e azionisti, autore d’una colossale macchina falsaria; ormai restano briciole della res iudicanda,il resto essendo inghiottito da prescrizione, indulto, condoni che gli affatturavano Yes men in livrea parlamentare.
E lui sbraita le solite invettive: «sentenza allucinante, fondata sul nulla »; milioni d’italiani impediranno che un voto butti fuori il loro condottiero. Assalto al Palazzo d’Inverno? No, o almeno non ancora: il governo in carica, dichiara venerdì 30, dura finché lui sieda nel Senato, violando norme votate anche dal Pdl (d. lgs. 31 dicembre 2012 n. 235); simul stabunt, simul cadent («cadunt», declamava una volta; abilissimi nelle cacce fraudolente, gli alligatori valgono meno in grammatica latina). Sabato nega d’averlo detto ma lo ripete, in cura d’anima presso Marco Pannella. Staremo a vedere se e come sia decentemente graziabile un gangster da Gotham City: quanto pericoloso, lo dicono fulminee metamorfosi nelle cosiddette colombe e l’ascendente elettorale; una sonda gli dà 3 punti sul Pd.
L’incognita è fin dove arrivi l’abito subalterno nella quasi sinistra, e manca poco al test; lunedì 9 settembre, a Palazzo Madama, Giunta delle immunità, va in scena un dibattito: se B. sia decaduto dall’ufficio. Il “no” presuppone schieramenti così stralunati, che non vi conta nemmeno lui: gli basta perdere tempo (arma forense d’alto rendimento); vuol mandare le carte alla Consulta; nel frattempo aspetta una sbalorditiva grazia; e se piovesse dal Colle, la spaccerebbe per sconfessione della res iudicata.
Formano l’ordigno bellico 6 opinioni d’8 giusloquenti. Le chiamavano “consilia sapientis”, un genere molto screditato, e stavolta pesano meno d’una piuma. Primo quesito se la Giunta possa spedire gli atti alla Corte, lavandosi le mani. No, dicono i precedenti: domanda inammissibile; l’accertamento d’illegittimità avviene in via incidentale, ossia su impulso del giudice chiamato ad applicare la norma dubbia. Siamo fuori del processo. I glossatori lo definivano “actus trium personarum”: due parti contraddicono; un terzo decide, stando in medio. La Giunta appartiene al parlamento: il quale discute e vota leggi; se teme d’avere lavorato male, vi rimetta mano (Corte cost., ord. 22 ottobre 2008 n. 334). S’era mai visto il Senato attore d’un giudizio contra se ipsum (presunta invalidità delle norme che ha votato)? Ipotesi lunatica.
Nel merito, a sciogliere gl’ipocriti dubbi bastano l’idioma italiano e un’elementare sintassi del diritto. La legge individua i non candidabili (art. 65, comma 1, Cost.): spetta alla Camera competente dire se ricorra uno dei casi previsti (art. 66); ed è discorso burlesco che, essendo sovrana, possa mantenere nei banchi i legalmente esclusi dall’ufficio. Tra le norme vigenti (d. lgs. n. 235/2012) eccone due: l’art. 1 marchia “non candidabile” l’irrevocabilmente condannato; l’art. 3 contempla la “incandidabilità sopravvenuta”; identico l’esito; non sta nel pensabile un rifiuto d’applicare la norma. Sia detto en passant: in tali contesti “ineleggibile” e “non candidabile” sono sinonimi; è trucco vaniloquo distinguerli, come tenta uno dei sei “consilia”.
Veniamo al clou della dottrina d’Arcore, formulabile così: la “incandidabilità” somiglia all’interdizione dai pubblici uffici, pena accessoria; ed esiste dal 31 dicembre 2012;dunque colpisce solo l’autore dei fatti posteriori al 5 gennaio 2013, data dell’entrata in vigore (art. 25 Cost.: le norme penali non valgono in praeteritum). Salta agli occhi la falsa premessa, che lo stato personale de quosia pena nel senso tecnico. No, è profilassi parlamentare. Ogni pena presuppone una condanna che la infligga, e qui nessuno gliel’ha inflitta: gli artt. 1 e 3 l. c. escludono dall’elettorato passivo chiunque versi in date situazioni; l’esclusione avviene ex lege. Vale l’art. 66 Cost.: causa ostativa sopravvenuta, a fortiori varrebbe se la “incandidabilità” equivalesse a pena accessoria, perché le pene accessorie erano comminate prima che divus Berlusco se le meritasse frodando mezzo mondo. Le Camere devono potersi ripulire delle presenze infestanti.
I berluscones agitano questioni manifestamente infondate. Sarebbe indecoroso simulare dubbi, dispute, incubazioni (dormire in luoghi consacrati sperando che qualche dio mandi lumi), ma pendono disonorevoli precedenti: Re Lanterna era ineleggibile ab ovo, quale concessionario dell’etere (art. 10, comma 1, d. P. R. 30 marzo 1956 n. 361), e sei volte, omertosamente, gli avversari l’hanno tenuto in arcione con risibili cavilli. Decoro e moralità a parte, è perdita secca assecondarlo. Gli concedano quanti mesi vuole; invitato a concludere, urlerebbe: «siete un plotone d’esecuzione». In mani tartufesche il diritto alla difesa diventa perditempo. Speriamo che esca dal quadro politico: cosa dubbia; se mai accade, loderemo Dike. Gli oppositori sinora l’hanno trattato con i guanti, cappello in mano, inchini; e l’establishment gli presta sponde: Anna Maria Cancellieri, prefetto a riposo, ex ministro degl’Interni nel gabinetto Monti, candidata al Quirinale, ora guardasigilli, raccomanda laboriose riflessioni sui dubbi sollevati dagli otto oracoli. Erano un sudario le “larghe intese”.
Il giudice non risponde agli elettori ma alla legge uguale per tutti
di Corrado Stajano (Corriere della Sera, 05.09.2013)
Nel 2002 il governo Berlusconi d’epoca decise di far scomparire dalle aule dei tribunali la scritta «La legge è uguale per tutti» che poteva intimidire, così aggressiva. Fu sostituita da una frase più morbida e amichevole, «La giustizia è amministrata in nome del popolo italiano». Gli ignari e i distratti non ci fecero caso, ai pochi che protestarono fu risposto: che cosa c’è da scandalizzarsi? Le sentenze non vengono emesse dai giudici «in nome del popolo italiano»?
Il nodo dell’attuale conflitto sull’agibilità politica di B., inimmaginabile almeno da due secoli in un Paese civilizzato del mondo occidentale, è proprio legato alla sostanziale diversità di quelle due frasette. «La legge è uguale per tutti» è un motto ben chiaro, senza ambiguità. I cittadini, come è scritto anche nell’articolo 3 della Costituzione, forse il più importante della somma Carta, sono uguali davanti alla legge: l’uguaglianza è il fondamento dello Stato di diritto.
L’altra dizione, invece, ha non casualmente il significato opposto trasformando in giudice il popolo, privo di sovranità. È quel che B. e i suoi fedeli vorrebbero anche oggi. Come si può condannare, sostengono infatti, un leader politico, come escludere dal Senato di cui fa parte un capopartito che anche alle ultime elezioni ha ricevuto milioni di voti? Deve essere il popolo, il «suo» popolo, il vero giudice: un giudice amico che l’ha già assolto. Si cancellano in questo modo intere biblioteche di scienza giuridica. La legge è uguale per tutti ma non per B., anche se condannato con una sentenza definitiva a una grave pena dalla Suprema Corte per un’«enorme evasione fiscale realizzata con società off-shore».
Non è una variante filologica quella scritta apposta nelle aule dei tribunali che il governo Prodi cancellò nel 2006, ma il cuore della politica dell’ex presidente del Consiglio e dei suoi fedeli, l’avallo della caduta di ogni regola. L’opinione pubblica d’Europa di cui l’Italia ha non poco bisogno è esterrefatta e irridente di fronte alle grandi manovre degli azzeccagarbugli di B. che si stanno agitando come anguille per salvarlo da questa pesante sentenza senza scampo. In quei Paesi è costume infatti che un uomo politico si dimetta anche per le più minute illegalità, come qualche giorno fa il presidente della Repubblica federale tedesca Christian Wulff accusato di aver ricevuto piccoli favori da imprenditori amici.
Qui da noi, invece, si sostiene che B. dovrebbe essere graziato, la sua pena abrogata o almeno commutata anche se non esistono le necessarie ragioni umanitarie, il suo scranno rosso al Senato conservato in nome del bene comune, della crisi economico-finanziaria e soprattutto delle «larghe intese». (Ma forse l’ex presidente ha compreso che quel ricatto, la tenuta di Letta in cambio della sua salvezza - anche ieri ha minacciato di «staccare la spina» - non gli conviene: è il governo la sua vera guardia del corpo).
Non conta, sembra di capire, il principio di legalità, essenziale in uno Stato di diritto, non importa che B. non sia neppure un «pentito» ma si senta solo un perseguitato. Tra l’altro l’ex presidente del Consiglio non ha un sereno avvenire nei tribunali della Repubblica. Lo attendono in appello a Milano il processo Ruby (sette anni in primo grado e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici) e il processo per concussione nel caso Mediaset; a Napoli il processo, forse il più grave, per la corruzione dell’ex senatore De Gregorio, reo confesso: un mucchio di denaro per far cadere il governo Prodi. Saranno necessarie in caso di condanna un’infinità di grazie? La grazia a vita, forse.
C’è qualcosa di grottesco in questo gran pasticcio. La Giunta delle elezioni e delle immunità del Senato dovrà cominciare la prossima settimana a discutere sulla validità della legge Severino - l’incandidabilità di chi è stato condannato per gravi reati - concordemente votata dagli stessi che ora debbono giudicare: è retroattiva, non è retroattiva, può essere inviata alla Consulta, oppure no?
La manovra eversiva
di ALBERTO ASOR ROSA (il manifesto, 06 Agosto 2013)
Da più di trent’anni in Italia corruzione e malaffare s’intrecciano alle vicende e alle scelte della politica. Nel lungo processo seguito alla dissoluzione delle due grandi componenti ideal politiche, quella democristiana e quella comunista, hanno prosperato tutte le possibili forme di uso distorto della politica: dall’affarismo personalistico democristiano all’avventura dissipatoria di Bettino Craxi e dei suoi sodali, i veri inventori e iniziatori del sistema italico da basso Impero nel quale viviamo. Poi è arrivato Silvio Berlusconi, a sistematizzare con la sua forza finanziaria e mediatica e il carisma personale che è difficile disconoscergli l’uso in grande della politica a fini di potere personale e di copertura delle proprie innominabili turbe psichiche e morali. C’è un filo diretto fra l’una e l’altra scansione del triste processo? Certo che c’è, basterebbe esaminare con attenzione le storie e i rapporti personali e le fortune pubbliche e private di ognuno di questi protagonisti per rispondere affermativamente. Se non lo rivelasse in maniera esplicita quel che emerge vistosamente dai vari anelli di questa storia, ci avrebbe pensato la potente struttura della massoneria deviata a fornirgliene una (e oggi? mah, io no lo so, ma sarebbe interessante che qualcuno che se ne intende se ne occupasse).
A questa fenomenologia di profondo degrado politico e morale si sono accompagnati, e da un certo momento in poi si sono profondamente intrecciati, due altri aspetti di eguale portata storica. Il primo è rappresentato dal vasto consenso che, nella latitanza di una politica alternativa seria, hanno riscosso le proposte di una politica corrotta (sul molteplici piani) e affaristica.
Qui il discorso dovrebbe calarsi sull’Italia: su ciò che l’Italia è o non è, su ciò che avrebbe potuto essere e non è stata (dall’Unità nazionale in poi, s’intende; ma in maniera più pressante dalla Resistenza fino ai nostri giorni). Non possiamo dilungarci. Basti qui rilevare che, nel corso degli ultimi trent’anni, cui all’inizio alludevamo, le due sponde del processo si sono avvicinate sempre di più: la politica corrotta ha favorito l’emergere di una nazione infetta; la nazione infetta ha manifestato un suo ampio consenso, e persino la sua gratitudine, alla politica corrotta.
L’altro aspetto storico di notevole importanza è di segno opposto. L’affermazione di una politica corrotta all’interno di una nazione infetta ha incontrato un argine, forse superiore alle previsioni, nell’applicazione delle leggi, cioè da parte, essenzialmente, della magistratura. Ciò è accaduto sia nei primi grandi casi di corruzione della politica (l’affarismo democristiano, l’avventura socialistico-craxiana); sia, ancor più clamorosamente, nei casi recenti riguardanti scelte personali, scelte affaristiche e scelte politiche tout court di Silvio Berlusconi.
Questa resistenza ha avuto un aspetto positivo e uno negativo. L’aspetto positivo riguarda, appunto, la forza di resistenza di pezzi intieri dell’apparato dello Stato, allevati nel culto della separazione dei poteri e dello Stato di diritto, e non corrompibili (se lo fossero stati, no?, questa storia non sarebbe nemmeno cominciata). L’aspetto negativo riguarda l’evidente incapacità della politica, - quella sana, o presunta tale, - di sottrarsi con le sue sole forze al ricatto della corruzione.
Per carità, nel lungo periodo di cui parliamo sono stati Presidenti della Repubblica personalità come Ciampi, Scalfaro, Napolitano: sarebbe certo un errore ridurre tutta la storia politica italiana alla tabula rasa, che comunque, a vederne le conclusioni, si direbbe la sua vera sostanza. Forse sarebbe più esatto dire che a opporre un argine con gli argomenti giusti non sono riusciti e spesso non hanno neanche pensato i gruppi dirigenti dei partiti democratici, che avrebbero invece dovuto farne la loro principale missione (anche da qui si dipartirebbe un troppo lungo discorso, che faremo un’altra volta, ammesso che ce ne sia ancora l’opportunità).
Richiamo queste poche e piccole cose, che tutti conoscono ma pochi ricordano, per dare maggior forza alle mie argomentazioni successive. Ciò di cui oggi parliamo non nasce a caso, ha radici profonde. Le mezze misure non bastano più, gli accomodamenti fanno ancora più male. Dico questo perché penso che quel che è avvenuto in queste ultime settimane e in questi ultimi giorni nel nostro paese non costituisca una scoperta improvvisa, una novità sorprendente, ma un punto di non ritorno. Dalla direzione che ora s’imbocca dipende tutto il resto.
Silvio Berlusconi è stato condannato in via definitiva per frode fiscale. Quello che, su questa legittima e ormai incontestabile sentenza, egli è riuscito a costruire seduta stante ha tutti caratteri di una manovra eversiva contro la separazione dei poteri e contro lo Stato di diritto, cioè contro la nostra democrazia. Non ci sono parole per descrivere ciò che ha detto nel suo messaggio televisivo. Non ci sono parole per descrivere il senso dell’appello alla piazza nei dintorni della sua principesca abitazione romana, e il fatto medesimo che esso sia stato possibile e si sia realizzato.
Siamo cioè di fronte a un pregiudicato che per salvarsi, e persino per rilanciarsi, fa appello alla folla, cioè all’indeterminato più incontrollabile della volontà popolare (per un gioco della sorte Palazzo Venezia è a due passi), per dire che le regole del gioco son quelle che lui ha inventato e pratica per sé. Anche un bambino capirebbe che la sua dichiarazione di lealtà al Governo Letta non è che una copertura al suo gioco eversivo. Tengo in piedi il Governo, a patto che mi riconosciate l’impunità.
Questo gioco va immediatamente contrastato e sconfitto. Io, che sono un moderato fra gli estremisti, dico che in questo momento la questione decisiva non è quella della sopravvivenza del Governo Letta. La questione decisiva è la difesa della libertà repubblicana. Questa è la linea del Piave delle istituzioni, del Parlamento e dei partiti «sani», che su questo punto devono dimostrare se la loro «sanità» è vera o solo presunta. Sono gli altri, i «berluscones», che devono accettare la difesa della legalità a tutti i costi, se vogliono tenere in piedi il governo; non viceversa, come, ahimè, cercheranno in tutti i modi di motivare e fare (e non solo loro, ma anche altri).
La difesa della legalità repubblicana consiste del resto in questo momento in tre semplici cose: 1) l’applicazione in tutti i suoi modi e forme della sentenza; 2) la decadenza ipso facto - cioè, anche qui, pura e semplice - del condannato dal suo seggio parlamentare; 3) la moltiplicazione urbi et orbi di tutte le voci disponibili (istituzioni, Parlamento, politica) a favore della legalità repubblicana e di condanna esplicita e senza riserve delle molteplici, infami dichiarazioni dei sostenitori del Capo contro la magistratura e a favore della sovversione (serve fare esempi?).
Un ruolo importante, anzi decisivo, è destinato a svolgere in questi frangenti il Presidente Napolitano. Come lui sa meglio di chiunque altro, la difesa della legalità repubblicana non tollera né mediazione né sconti: paradossalmente, come già dicevo, è perciò più semplice, c’è solo da tener ferme le regole, e difenderle contro gli attacchi forsennati cui sono sottoposte.
Chiedo, chiediamo al Presidente Napolitano di farsi garante della corretta e totale applicazione della sentenza della Cassazione, con tutte le necessarie e inevitabili ricadute. Chiedo, chiediamo, al Presidente Napolitano che vada in televisione a dire, con uno di quei suoi discorsi semplici e diretti di cui è capace, che a nessuno è consentito di evocare e sollecitare lo scontro con lo stato di diritto e contro la separazione dei poteri, e che la campagna eversiva suscitata da Silvio Berlusconi e dai suoi amici in questi giorni non è tollerabile, è anch’essa un reato, che replica un reato.
La crisi delle democrazie in Europa nel corso del Novecento, e segnatamente in Italia, sono state sempre favorite dalla debolezza delle classi dirigenti e dalla loro incapacità di segnalarne la progressiva avanzata. Il rischio che la democrazia fosse travolta in genere è stato segnalato ventiquattro ore dopo che sera stata travolta (così come il più delle volte coloro che ne segnalavano il rischio sono stati accolti dalle risate e dal dileggio dei contemporanei). L’Italia, come sempre, è un paese speciale. In Italia oggi il rischio della catastrofe della democrazia non consiste nel colpo di Stato (di cui peraltro, il nostro personaggio, se ce ne fosse bisogno, sarebbe capace). Consiste in una cosa anch’essa più semplice, e in fondo più lurida, e cioè nella pratica cancellazione e dissoluzione delle regole e dei valori che la sovraintendono e la rendono possibile. Questo rischio oggi è assolutamente reale: non a caso il pregiudicato invoca come prima riforma la riforma della giustizia, con lo scopo, ora e sempre, di mettersi al riparo dai rischi della sua applicazione.
O lo si ferma prima che questa soglia sia varcata: oppure tutto il resto, - governo e governance, riscatto possibile dei partiti democratici dalla loro subalternità, ricostruzione del rapporto etica-politica - sarà perduto. Chi sottovaluta è complice. Solo chi è consapevole di questo, e agisce di conseguenza, può ricominciare.
Sentenza contro Berlusconi
Il Cavaliere alla fine
di Stefan Kornelius
(traduzione dal tedesco di José F. Padova)
Fra i tanti commenti usciti sulla stampa estera, quello della Sueddeutsche Zeitung ne è una specie di compendio. (J.F.Padova) Süddeutsche Zeitung, 1 agosto 2013
Politica
Sentenza contro Berlusconi - Il Cavaliere alla fine
Un commento di Stefan Kornelius
(traduzione dal tedesco di José F. Padova)
sueddeutsche.de
Chi se lo sarebbe mai aspettato? Senza sosta Silvio Berlusconi è finito nella rete della giustizia, senza sosta se n’è liberato da trionfatore. Anche a posteriori lascia senza fiato constatare come l’ex capo del governo ha messo con indifferenza i [suoi] interessi d’affari al disopra dell’interesse comune. Eppure con la sua sentenza di condanna Berlusconi è finalmente un uomo del passato - se avesse ancora in corpo un briciolo di decenza si ritirerebbe dalla politica.
Lentamente, ma soltanto molto lentamente, anche Silvio Berlusconi ha esaurito quelle sette vite che a Roma si attribuiscono a ogni gatto randagio. Poco prima del suo 77esimo compleanno è stato condannato in uno dei suoi numerosi processi per frode fiscale, questa volta nella vera e propria ultima istanza. Chi se lo sarebbe aspettato? Fin dai primi anni ’90 Berlusconi è incappato nella rete della giustizia. Sempre se ne è liberato, ha tagliato le maglie della rete, è rispuntato fuori trionfante. Ma adesso la Procura di Stato è riuscita a portare un processo alla sua fine. Ciò deve anche significare la fine del politico Silvio Berlusconi.
Questa notizia dieci anni fa, perfino tre anni fa, avrebbe ancora scatenato in Europa gigantesche manifestazioni di gioia. Oggi essa è accolta con alzate di spalle, per lo meno al di fuori dell’Italia. Berlusconi stanca e adesso - a prima vista - non riveste più alcun ruolo importante. Egli ha superato da lungo tempo il suo zenit politico. E perfino se adesso il suo partito andasse in pezzi con una ridicola auto-immolazione - Berlusconi è ormai una figura del passato.
La carriera politica di Silvio Berlusconi sembra essere finita. Ci si chiede quale eredità politica egli lascia dietro di sé e perché l’Italia senza un capo del governo già tanto potente starà meglio. A questo deve pensare il governo italiano, del quale Berlusconi fa parte, se adesso la sua esistenza traballa. Il messaggio del giudice è: Quest’uomo è condannato con sentenza passata in giudicato - sulla sua interdizione politica deve decidere la politica stessa. La giustizia apre al governo e a Berlusconi una via d’uscita onorevole; se avesse ancora in corpo un briciolo di decenza si ritirerebbe a vita privata.
Il panorama rosa era soltanto scena
Gli italiani vivono sempre, ogni giorno, sulla loro pelle la peggiore eredità di Berlusconi - come vittime di un’economia allo sfinimento, come disoccupati, come prigionieri di un sistema chiuso in sé stesso. I nove anni di governo di Berlusconi sono stati anni del benessere soltanto in apparenza. Con la collettività italiana e l’economia del Paese si è comportato come in uno dei numerosi studi televisivi di Cavaliere: il colore rosa era soltanto scena.
Berlusconi è stato un maestro alla guida di questa Repubblica di facciata. Non pochi dicono: l’Uomo ha costruito la sua propria Repubblica, nella quale ha potuto farsi indisturbato i suoi affari privati, che lui dichiarava essere interesse dello Stato. Misurato sul livello dell’arricchimento personale, della legislazione distorta, dell’abuso politico e della sfacciataggine la condanna contro Berlusconi soddisfa solo insufficientemente l’esigenza di giustizia. Perfino come delinquente giudicato tale l’Uomo sembra sempre stare un palmo sopra al diritto.
In modo bizzarro Berlusconi è stato la prosecuzione della tramontata prima Repubblica italiana, nella quale i partiti avevano fatto dello Stato il loro bottino. Berlusconi ha messo al posto dei partiti il suo movimento, Forza Italia, quindi il Popolo delle Libertà - das Volk der Freiheit. Libero questo popolo non lo è certo mai stato, per lo meno libero dalle vecchie strutture, dai gruppi d’interesse, dai clan e dalle organizzazioni degli industriali. Nella loro rissa per il denaro, il potere e gli affari essi si sono assoggettati al sistema di patronato berlusconiano - a una organizzazione con a capo un solo uomo a fine non ultimo di arricchimento.
Berlusconi non può salire sulla ghigliottina - scomparirà nella nebbia
A posteriori lascia ancora pur sempre senza fiato constatare con quale naturalezza Berlusconi ha potuto legare assieme potere dei media e potere di Stato; come ha posto l’interesse dei suoi affari sopra l’interesse comune; come ha fatto emanare leggi per mascherare i suoi soprusi; come ha impiegato il presidente della Commissione Giustizia [del Senato] come avvocato dei suoi interessi personali [ndt.: allude a Nitto Palma]. Chi si meraviglia dell’ascesa del Movimento di Grillo deve soltanto studiare l’esautorazione politica del popolo sotto Berlusconi. Beppe Grillo può ben essere un populista, ma ancor più è l’immagine riflessa delle condizioni in cui si trova l’Italia.
Per quasi 20 anni Berlusconi è stato una figura dominante della politica italiana e anche europea. Soltanto pochi politici hanno plasmato il Paese come ha fatto lui. Dopo la sentenza per un paio di settimane l’Italia si tormenterà con la domanda se e come adesso fare sparire dietro le quinte quest’uomo. Berlusconi non può salire sulla ghigliottina - scomparirà nella nebbia.
Forse era sbagliata l’aspettativa che una sentenza di tribunale potesse liberare l’Italia da quest’uomo. Per questo la sua parola definitiva è troppo potente, per questo le ombre scendono già troppo lentamente. Berlusconi è un’istituzione politica, dalla quale il sistema potrà liberarsi soltanto a poco a poco. I primi passi li hanno fatti già con successo i suoi successori Monti e Letta. Chi ancor oggi si fa abbacinare dall’Uomo cede alla tentazione del seduttore.
* Il dialogo, Venerdì 02 Agosto, 2013
PROCESSO MEDIASET
Berlusconi condannato a quattro anni
I giudici: "Interdizione da ridefinire”
L’indulto copre tre quarti della pena Per gli altri 12 mesi le opzioni sono servizi sociali o arresti domiciliari. La Corte di Appello di Milano dovrà pronunciarsi sulle pene accessorie. Nessun commento dei suoi avvocati *
ROMA Confermata la condanna a 4 anni di reclusione con rinvio alla Corte d’Appello di Milano per rideterminare l’interdizione. È questa la sentenza della Corte di Cassazione a conclusione del processo Mediaset. Al momento della sentenza gli avvocati difensori di Berlusconi, Longo e Ghedini, non erano presenti in aula. Berlusconi ha atteso il verdetto a Palazzo Grazioli insieme al vicepremier e ministro dell’Interno Angelino Alfano. Con loro anche Piersilvio Berlusconi, secondogenito del Cavaliere.
TRE ANNI COPERTI DA INDULTO
In questo modo Berlusconi potrà continuare a svolgere il suo ruolo da parlamentare fino alla nuova decisione. Per quanto riguarda la pena di 4 anni (3 anni coperti dall’indulto, un anno con le opzioni degli arresti domiciliari o dei servizi sociali), questa troverà applicazione nel momento in cui l’aula del Senato voterà a favore del parere positivo espresso dalla Giunta per le autorizzazioni. Da quel momento il Cavaliere avrà a disposizione 30 giorni per scegliere una delle due opzioni relative all’anno di pena che dovrà scontare: in caso di una mancata scelta scatterebbe automaticamente l’opzione dei domiciliari.
IL PD: APPLICARE LA SENTENZA La sentenza della Cassazione «va rispettata e applicata» ha spiegato Guglielmo Epifani. «La condanna di Silvio Berlusconi - aggiunge il segretario del Pd - è atto di grande rilevanza. Per quanto riguarda il Pd questa condanna va non solo, come è naturale, rispettata ma va anche applicata e resa applicabile e a questo spirito si uniformerà il comportamento del Gruppo parlamentare».
NAPOLITANO: RISPETTARE LA MAGISTRATURA «La strada maestra da seguire è sempre stata quella della fiducia e del rispetto verso la magistratura, che è chiamata a indagare e giudicare in piena autonomia e indipendenza alla luce di principi costituzionali e secondo le procedure di legge» ha spiegato Giorgio Napolitano in una nota diffusa dal Quirinale.
NO COMMENT DEGLI AVVOCATI
«Non dirò a». È quanto si è limitato a dire uno dei legali dello studio Coppi che ha assistito Silvio Berlusconi nel processo Mediaset in Cassazione subito dopo la lettura del dispositivo. Nessun commento alla decisione della Cassazione anche da parte del procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati che si è limitato a spiegare che «la pena principale è definitiva ed è eseguibile».
BERLUSCONI RIUNISCE I SUOI
Pochi minuti dopo l’emissione della sentenza della corte di Cassazione sono arrivati a palazzo Grazioli i capigruppo di Camera e Senato Renato Schifani e Renato Brunetta, Denis Verdini e Altero Matteoli. Silvio Berlusconi quindi ha riunito nella sua residenza romana lo stato maggiore del Pdl, per fare il punto dopo la sentenza che conferma la condanna.
IN PROCESSO BIS INTERDIZIONE DA 1 A 3 ANNI
Nel processo Mediaset la Cassazione ha stabilito che dovrà essere rifatto un processo d’appello bis a Milano nei confronti di Silvio Berlusconi solo per rideterminare la durata dell’interdizione in base a quanto previsto dal decreto legislativo 74 del 10 marzo 2000, che ha stabilito una «nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto». Stabilisce l’art. 12 del decreto legislativo che, in caso di condanna per frode fiscale si applica, come pena accessoria, «l’interdizione dai pubblici uffici per un periodo non inferiore ad un anno e non superiore a tre anni». I giudici di Milano, censurati sul punto dalla Cassazione, avevano, invece, applicato le disposizioni generali in materia di interdizione dai pubblici uffici (art. 28 del codice penale), le quali, tra l’altro, stabiliscono che «la condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a tre anni importa l’interdizione dai pubblici uffici per la durata di cinque anni», quanti ne erano stati previsti per il Cavaliere sia in primo che in secondo grado.
LA VICENDA
In appello Berlusconi era stato condannato a 4 anni di reclusione per frode fiscale e a 5 di interdizione dai pubblici uffici. Ieri, al “Palazzaccio”, era stata la giornata delle difese. Nel corso della sua arringa l’avvocato Ghedini aveva spiegato che «nel tessuto della sentenza mancava la prova che Berlusconi avesse partecipato al reato». Martedì invece il procuratore Antonio Mura, dopo aver definito Berlusconi «l’ideatore del meccanismo delle frodi fiscali», aveva chiesto il rigetto dei ricorsi delle difese degli imputati (e quindi la conferma delle condanne). Da ricalcolare invece l’interdizione dai pubblici uffici considerata troppo elevata.
* La Stampa, 01/08/2013
GLI SCENARI
Berlusconi condannato
e adesso che cosa gli accadrà?
La pronuncia degli Ermellini non chiude la partita giudiziaria. Restano aspetti da definire e si aprono diverse procedure. Da un lato,
la perdita della libertà personale, dall’altro quella dei diritti civili. Quali sono le possibilità?
A CURA DI PAOLO COLONNELLO (La Stampa,
Dopo la lettura della sentenza da parte della Cassazione, esperti di diritto e cittadini normali hanno cominciato a domandarsi quali saranno i prossimi passi e le variabili per Silvio Berlusconi.
Berlusconi andrà in carcere?
No, in alcun modo. Come ormai tutti sanno, la pena di 4 anni diventata definitiva da ieri ricade in buona parte sotto l’indulto deciso nel 2006 e relativo ai reati commessi prima di quella data. Dunque, a Berlusconi rimane un solo anno da scontare effettivamente. Probabilmente ai domiciliari. E, avendo ormai raggiunto i 78 anni di età, se per esempio nel giro di un anno diventasse definitiva anche la sentenza Ruby (7 anni) verrebbe comunque lasciato ai domiciliari. Dove, sarà lo stesso Berlusconi a deciderlo. Non potrà però rilasciare interviste o avere rapporti con altri al di fuori dei suoi famigliari stretti. Ma a queste regole è sempre possibile una deroga...
Se rinuncia a servizi sociali e domiciliari?
Non andrebbe comunque in carcere anche se il Tribunale a quel punto sarà obbligato a emettere un ordine di cattura che però godrebbe della cosiddetta “doppia sospensiva Bruti” (il riferimento è a Edmondo Bruti Liberati, procuratore della Repubblica di Milano), ovvero dello stesso provvedimento di sospensione della custodia deciso per il caso del direttore de Il Giornale, Alessandro Sallusti. Anche volendo, le porte del carcere non verranno aperte per far entrare il Cavaliere, la cui unica possibilità per «provare» una cella sarebbe quella di fuggire dai domiciliari. Ma sicuramente otterrà tutti i permessi di uscita che vorrà.
Gli sarà ritirato il passaporto?
In parte sì. Per esempio, gli verrà ritirato il passaporto e non potrà più recarsi all’estero se non presentando una richiesta al tribunale di sorveglianza. Il ritiro del documento di espatrio è un atto amministrativo e andrà eseguito dalla polizia che potrebbe decidere di farlo subito, per evitare il pericolo di fuga, o di attendere quando verrà stabilito se Berlusconi andrà agli arresti domiciliari o ai servizi sociali. Quando poi si stabilirà la durata dell’interdizione dai pubblici uffici, Berlusconi non potrà più sedere in Senato nè candidarsi ad eventuali elezioni. Non potrà nemmeno contrattare con la pubblica amministrazione. E Mediaset è concessionario pubblico.
Quando verrà decisa l’interdizione?
Bisognerà aspettare che la Corte di Cassazione depositi le motivazioni della sentenza di ieri. Poi, una volta trasmesse alla cancelleria della Corte d’Appello, dovrà essere fissato un nuovo processo. L’udienza potrebbe durare anche un solo giorno e stabilire la durata della pena accessoria, obbligatoria per i reati tributari, ma che non potrà in questo caso superare i tre anni. Teoricamente potrebbe anche essere di un solo anno, cioè equivalente alla durata della pena effettiva da scontare. Ma, dato che la condanna penale ha superato i 3 anni, è probabile che si applichi in questo caso il massimo consentito dalla Cassazione.
Quando andrà agli arresti domiciliari?
Ora che la Cassazione ha emesso il verdetto, bisognerà attendere qualche giorno prima che arrivi, con posta ordinaria, alla procura di Milano. Sarà l’Ufficio Esecuzione a dover emettere un ordine di arresto ma contestualmente anche un provvedimento di sospensione dello stesso. Essendo periodo feriale, Berlusconi avrà tempo un mese per presentare eventuale richiesta di affido ai servizi sociali o di arresti domiciliari a partire dal 15 settembre. Poi deciderà il tribunale di Sorveglianza.
Ci sono altre istanze giudiziarie?
L’ultimissima spiaggia per Berlusconi è a Strasburgo, presso la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Così ha annunciato “l’Esercito di Silvio”. Bisognerà vedere cosa ne pensano i suoi avvocati. La Corte è a presidio della salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali ed è stata istituita dalla Convenzione del 1950. Se dovesse accadere è probabile che il Cavaliere più che sulla condanna di ieri, si rivolga ai giudici europei per denunciare la famosa «persecuzione giudiziaria».
Confermata condanna Berlusconi a 4 anni Cassazione: interdizione da ridefinire *
Confermata la condanna d’appello a 4 anni di reclusione e rinvio alla Corte d’Appello di Milano per rideterminare l’interdizione. Lo ha deciso la Corte di Cassazione a conclusione del processo Mediaset.
* ANSA, 01.08.2013
http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/politica/2013/07/30/Mediaset-oggi-Cassazione-processo-Berlusconi_9093907.html
L’ULTIMO ATTO DEL BERLUSCONISMO
di Giovanni Valentini (la Repubblica, 29 Giugno 2013)
EMULSIONE di liberalismo e populismo, dunque, il berlusconismo. Ma liberalismo di un certo tipo. Più precisamente: un liberalismo di estrema destra. (da "Il berlusconismo nella storia d’Italia" di Giovanni Orsina-Marsilio, 2013-pag. 129)
La pesante sentenza con cui il Tribunale di Milano ha condannato Silvio Berlusconi a sette anni per concussione e prostituzione minorile, accompagnata dall’interdizione perpetua dai pubblici uffici, segna virtualmente la fine di quella ventennale stagione della vita politica e sociale italiana che va sotto il nome di berlusconismo. Una cultura o sottocul-tura inoculata, tramite il messaggio della tv commerciale, dall’individualismo, dall’edonismo e dal consumismo esasperato. Una mentalità collettiva, diventata senso comune e codice di comportamento.
Quale che possa essere il giudizio definitivo della magistratura sui reati addebitati all’ex presidente del Consiglio, e anche indipendenteménte da questo, le responsabilità di Berlusconi nel degrado civile del nostro Paese sono già palesi ed evidenti. Innanzitutto, il fallimento di una "rivoluzione liberale" più volte promessa e annunciata, ma mai realizzata. E in secondo luogo, una progressiva disgregazione di principi e valori per definire la quale non basta neppure la sfera morale.
Sarebbe un errore ridurre questo complesso fenomeno solo all’influenza della televisione. Qui non l’abbiamo mai fatto né tanto meno lo faremo adesso. Ma è certo comunque che la tv commerciale è stata prima lo strumento principale per plasmare e forgiare una nuova "coscienza comune" e poi per aggregare e raccogliere il consenso poli-tico. Il nostro è diventato così un popolo di teledipendenti, narcotizzati dall’imbonimento pubblicitario e ipnotizzati dalle suggestioni propagandistiche del berlusconismo d’assalto e di governo.
Lo stesso Cavaliere, passando finora come una salamandra nel fuoco degli scandali e delle vicende giudiziarie ha incarnato il prototipo dell’italiano medio: l’arci-italiano che tende a non rispettare le regole, a evadere o eludere le tasse, a cercare favori o privilegi, a truffare o frodare l’apparato statale. È stata - diciamolo senza alcun moralismo - un’opera di corruzione generalizzata, dissimulata dietro un programma di "liberazione nazionale" che in realtà ha provocato un’involuzione e un regresso. Con la complicità più o meno inconsapevole delle forze che non sono state capaci di proporre un’alternativa valida e convincente, la retorica berlusconiana ha potuto perciò dilagare contagiando perfino una parte dello schieramento opposto.
Oggi il Paese esce stremato e disfatto da questo ventennio, non meno infausto di quello del regime fascista. Privo di un’etica pubblica, indebolito nel suo senso di appartenenza, fiaccato nelle ragioni della convivenza civile. Un Paese più povero e insicuro, allo sbando, senza un orizzonte e un futuro da offrire alle giovani generazioni.
A questo punto, nell’attesa di un improponibile scambio fra politica e giustizia, poco importa in fondo se Berlusconi verrà condannato definitivamente all’interdizione a vita dai pubblici uffici. Sotto il peso delle accuse e delle sentenze finora emesse, dalla concussione alla prostituzione minorile, dalla corruzione alla frode fiscale, la sua legittimazione politica di capo partito è irrimediabilmente compromessa. Né possono essere più sufficienti a riscattarla le testimonianze dei suoi adepti o i consensi elettorali dei suoi fans. Ormai è una questione di onore e di decoro istituzionale: per il Cavaliere è arrivata l’ora di uscire di scena. (sabato@repubblica. it)
SENTENZA RUBY
Ciak, si gira «La grande ipocrisia»
di Luigi Ferrarella *
Oggi la sentenza Ruby, mercoledì scorso la Consulta sul legittimo impedimento, giovedì prossimo la Cassazione civile sul lodo Mondadori, a fine anno la Cassazione penale sui diritti tv Mediaset: il nuovo gioco di società è l’attesa sempre di una qualche altra sentenza «decisiva» per Berlusconi e quindi - si dice - per l’equilibrio del governo Letta che si regge sul suo appoggio.
Ma ci sarà sempre una sentenza più «decisiva» dell’altra, la prossima immancabilmente più della precedente. Perché ormai a questo sono ridotti i verdetti giudiziari: a essere usati come paravento dall’incapacità della politica di assumersi responsabilità autonome dalle condanne e dalle assoluzioni.
Non c’era bisogno di attendere 19 mesi il pronunciamento mercoledì della Corte Costituzionale per constatare che nel 2010 l’istituzione Presidenza del Consiglio era stata piegata all’interesse personal-processuale di chi si era procurato uno strumentale «legittimo impedimento». E oggi l’inquadramento giuridico che la sentenza-Ruby riterrà di dare alla telefonata di Berlusconi in Questura, calandola o meno in una fattispecie di reato, non accentuerà né mitigherà l’umiliazione di una ex maggioranza parlamentare consegnata al ridicolo («Ruby parente di Mubarak») da un premier ostaggio della propria oggettiva ricattabilità. Così come non sarà certo l’odierna scelta processuale dei giudici, tra gli elementi che militano per escludere e quelli che inducono a ravvisare la consapevolezza di Berlusconi della minore età di Ruby, a disvelare o a offuscare la palese incompatibilità tra taluni comportamenti dell’allora premier e le sue responsabilità di governo.
Il bello è che più si fa finta di attendere «decisive» sentenze definitive e più si fa poi finta di niente quando le sentenze arrivano davvero: basti vedere come imperterrita continua a essere snocciolata la litania di asserite vessazioni giudiziarie milanesi anti-Berlusconi nonostante appena un mese fa la Cassazione (nel respingere il trasferimento a Brescia) le abbia escluse a una a una, qualificandole come «accuse infamanti destituite di qualsiasi fondamento» e tracimate in «superficiale dileggio».
Ed è storia dell’ultimo quindicennio come le motivazioni di sentenze penali che hanno via via dato conto di compravendita di giudici (lodo Mondadori), corruzione di testimoni (Mills), tangenti ad apparati pubblici (verifiche fiscali Guardia di Finanza), falsi in bilancio per mille miliardi di lire (All Iberian) e finanziamenti illeciti a partiti (il Psi di Craxi), siano state digerite senza controindicazioni istituzionali per il solo fatto che la corretta traduzione giuridica di quei fatti fosse stata o la condanna di strettissimi collaboratori di Berlusconi in corrispondenza della sua assoluzione, o la sua non punibilità personale per intervenute prescrizioni e modifiche legislative.
Tutto destinato a ripetersi oggi, e ancor più poi con la già ora mitologica attesa della prossima sentenza «decisiva» di turno: quella della Cassazione sul processo Mediaset, sulla cui pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici saranno in ogni caso gli schieramenti parlamentari ad avere l’ultima parola, quando nella Giunta delle immunità eserciteranno la propria responsabilità politica nel ratificare o disattendere la decadenza da senatore di Berlusconi in forza dell’interdizione eventualmente confermatagli dalla Suprema Corte.
E allora, sia risparmiato almeno il cinema delle sentenze «decisive» gabbate per finte bussole dell’agire politico: al cinema vero, in luogo de «La grande bellezza», novelli Sorrentino e Servillo in erba stanno già crescendo per girare tra qualche anno, come spaccato di questa stagione, «La grande ipocrisia».
lferrarella@corriere.it
*
Le ragioni di una sentenza pesante
di Carlo Federico Grosso (La Stampa, 25.06.2013)
Con la sentenza Ruby i nodi, per Berlusconi, vengono finalmente al pettine. E il Presidente, dopo una prima condanna aquattroannidireclusione confermata in appello, è stato ieri condannato a sette anni dalla IV sezione del Tribunale di Milano. Sentenza giusta? Sentenza ingiusta? Non mi si chieda, su tale profilo, una valutazione. Non avendo studiato gli atti del processo, ma avendo soltanto letto le cronache giornalistiche, non sono in grado di formulare un giudizio che vada aldilà dell’impressione personale. E sulle impressioni personali non è consentito esprimere giudizi o valutazioni. Non sarebbe serio.
Piuttosto, mi sembra utile commentare, in punto di diritto, il ragionamento che, stando al dispositivo letto in aula ieri pomeriggio, devono avere fatto i giudici per giungere alla pesante condanna pronunciata.
Nel dispositivo i giudici hanno innanzitutto scritto di ritenere «Berlusconi responsabile dei reati a lui ascritti»; qualificato quindi «il fatto di cui al capo “a” dell’imputazione come concussione per costrizione» (dando quindi al fatto «una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione», come consentito dalla legge), e «ritenuta la continuazione», lo hanno condannato «alla pena di anni sette di reclusione oltre al pagamento delle spese processuali». Hanno infine soggiunto che «visti gli artt. 317 bis sulle pene accessorie, 29 e 32 del c. p. (rispettivamente in tema di interdizione dai pubblici uffici e di interdizione legale) », si dichiara l’imputato «interdetto in perpetuo dai pubblici uffici, nonché in stato di interdizione legale durante l’espiazione della pena». Entrambi i profili così enunciati meritano una spiegazione tecnica.
Berlusconi era imputato di due reati: del delitto di concussione previsto dall’art. 317 c. p. per avere telefonato in Questura da Parigi la sera del fermo di Ruby pretendendo il suo rilascio (avvenuto secondo le modalità ormai ampiamente note), del delitto di prostituzione minorile nella forma meno grave prevista nel comma 2 dell’art. 600 bis c. p. («atti sessuali con un minore di età compresa fra i quattordici e i diciotto anni, in cambio di denaro o altra utilità»).
Il Tribunale ha giudicato il Presidente responsabile di entrambi i reati. Con riferimento alla concussione è interessante rilevare che il collegio ha ritenuto di dovere specificare di avere assegnato al fatto una definizione giuridica diversa da quella originaria, qualificandolo come «concussione per costrizione». Questa precisazione è conseguenza della circostanza che, nelle more del processo, la disciplina del delitto di concussione (oggetto dell’imputazione originaria) è cambiata, in quanto la riforma Severino della corruzione ha«spacchettato» tale delitto in due diversi reati: la «concussione per costrizione», mantenuta nell’art 317 c. p. con pena invariata, e la «induzione a dare o promettere» (sostitutiva della originaria «concussione per induzione»), spostata in un articolo autonomo e considerata reato meno grave assimilabile alla corruzione piuttosto che alla concussione (tanto che è stata prevista anche la punibilitàdel soggetto «indotto»). Il Tribunale avrebbe, a questo punto, potuto qualificare il fatto come concussione per costrizione, ovvero secondo la nuova, meno grave, configurazione di «induzione a dare o promettere».
L’avere optato per la prima configurazione significa, evidentemente, che ha ritenuto che nel comportamento dell’allora Presidente del Consiglio non fosse ravvisabile una mera«induzione», cioè una«spinta» più o meno forte della Questura ad agire in conformità ai propri desideri, bensì una pressione più intensa, qualificabile come una, sia pure implicita, minaccia. Il che, sul terreno della ricostruzione del fatto, mi sembra alquanto significativo.
Ma non solo. Nella configurazione giuridica del fatto come concussione per costrizione si ritrova anche la spiegazione della misura della pena concretamente inflitta. La concussione per costrizione continua ad essere punita dal codice penale con la pena della reclusione da quattro a dodici anni. Ebbene, a fronte di una pena edittale così elevata, sette anni di pena concretamente irrogata (che tiene oltre tutto conto anche della pena inflitta per la prostituzione minorile), appare assolutamente ragionevole, in linea con i criteri usualmente utilizzati nel commisurare in concreto la sanzione penale.
Come si è rilevato, il Tribunale ha altresì «ritenuto la continuazione» fra i due reati contestati (ha cioè ritenuto che essi sono stati commessi «in esecuzione di un medesimo disegno criminoso»). Il che, da unpuntodivistapratico, significache, anziché sommare materialmente le pene previste per i due reati, il giudice ha determinato la pena per il reato più grave (la concussione), aumentandola di una mera percentuale in ragione del secondo reato. A rigore, un vantaggio per il condannato.
Quanto, infine, all’applicazione della pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici ed all’interdizione legale, vi è poco da discutere: si tratta di conseguenze che seguono ex lege alla condanna pronunciata: l’art. 317 bis c. p. dispone infatti che la condanna per il reato di cui all’art 317 c. p. comporta automaticamente l’interdizione perpetua dai pubblici uffici (e l’art. 29 c. p. soggiunge che essa segue comunque di diritto ad ogni condanna non inferiore a cinque anni) ; l’art. 32 c. p. prevede a sua volta l’interdizione legale a chi è stato condannato per un tempo non inferiore a cinque anni.
Processo Ruby, condannato Silvio Berlusconi.
7 anni e interdizione perpetua dai pubblici uffici
Il tribunale di Milano ha riconosciuto l’ex premier responsabile del reato di concussione e prostituzione minorile. Le carte riguardanti una lunga serie di testi della difesa sono state rinviate al pm per valutare un eventuale falsa testimonianza *
MILANO - Il tribunale di Milano ha deciso, dopo sette ore di camera di consiglio, di condannare a 7 anni e alla interdizione perpetua dai pubblici uffici Silvio Berlusconi per il reato di concussione per costrizione nell’ambito del cosiddetto "processo Ruby". Il tribunale ha deciso anche di rinviare al pm le carte per valutare l’eventuale falsa testimonianza di una lunga serie di testimoni che hanno sfilato davanti alla corte.
Il Cavaliere è stato condannato anche per il reato di prostituzione minorile. I giudici della IV sezione penale del tribunale di Milano hanno quindi accolto tutte le richieste della procura portando la pena complessiva ad un anno in più delle richieste. Il pubblico ministero Ilda Boccassini aveva infatti chiesto sei anni.
L’avvocato dell’ex premier Niccolò Ghedini, intercettato dai cronisti fuori del tribunale, annuncia: "Faremo appello". E aggiunge: "La sentenza non mi sorprende affatto. Sono due anni e mezzo che diciamo che qui questo processo non si poteva fare. E’ una sentenza larghissimamente attesa, faremo appello, ricorso in Cassazione. E’ una sentenza che è completamente al di fuori della realtà, fuori da ogni logica, l’accusa di costrizione è allucinante. Un fatto estremamente grave: il tribunale non ha tenuto conto della realtà processuale".
La sentenza è stata accolta con applausi e grida di esultanza da un piccolo gruppo, composto da qualche decina di manifestanti, radunato davanti al Palazzo di Giustizia di Milano.
I giudici hanno disposto anche la confisca dei beni già sequestrati in passato a Karima El Maurogh, in arte Ruby, e al suo compagno Luca Risso. Come già accennato, rischiano di essere processati per falsa testimonianza circa una ventina di testimoni. Al momento della lettura della sentenza i giudici hanno infatti annunciato di aver trasmesso alla procura le dichiarazioni rese in aula da circa venti testi, destinate ora a essere analizzate e vagliate dalla magistratura inquirente. Tra loro, oltre alla maggior parte delle cosiddette ’olgettine’ ospitate ad Arcore da Berlusconi, che che ricevono un assegno mensile dal Cavaliere, c’è l’ex consigliere per la politica estera di Berlusconi, Valentino Valentini, l’europarlamentare Licia Ronzulli, la parlamentare Maria Rosaria Rossi, il cantante Mariano Apicella e la funzionaria della questura di Milano, Giorgia Iafrate.
* la Repubblica, 24 giugno 2013
La frase finale di Berlusconi
risponde Furio Colombo
(il Fatto, 14.05.2013)
CERTO, IL COMIZIO di Brescia in difesa di un imputato di reati gravi, condannato per reati gravi, in attesa di imminente sentenza per reati gravi, appena raggiunto da un rinvio a giudizio per reati gravi, non era né una festa né un evento politico. Il fine era chiaro e indiscutibile: creare una barriera insormontabile, tra un imputato e i suoi giudici. Lo ha fatto il capo di quello che, al momento, risulta il partito più grande.
E quel capo ha mobilitato per l’occorrenza il ministro dell’Interno e vice primo ministro, mentre sta governando in una presunta “grande coalizione” con un partito che dovrebbe essere il principale antagonista. Purtroppo non ci sono segnali dal governo di coalizione, non ci sono segnali dal partito antagonista, e i media trattano la materia come una notizia interessante, ma non meritevole di allarme, di denuncia e di condanna. Così i cittadini sono autorizzati a pensare che forse è normale che tutta la forza di un esecutivo (uno dei tre poteri della democrazia) venga lanciato contro la magistratura, ovvero un altro potere indipendente, nel silenzio del terzo potere, il Parlamento.
Per capire il rischio che stiamo correndo, si riveda la frase conclusiva del monologo di Berlusconi, nel suo comizio a due piazze (una gremita di sostenitori più o meno spontanei, l’altra di disciplinati obiettori).
La frase era: “Nessuna sentenza e nessuna prepotenza della magistratura potrà impedirmi di essere capo di un popolo che mi elegge con milioni di voti”. Non parlava di legame ideale o affettivo. Dichiarava la superiorità dei voti sulle sentenze, come se ci fossero democrazie in cui il votato non è più come tutti gli altri, ma qualcuno esente da ogni giurisdizione e giudizio. Ovvio che Berlusconi non parlava di democrazia, parlava di sé e del suo progetto di rivolta, in caso di altre condanne. E ci ha ricordato che non gli si può rimproverare il sotterfugio.
Berlusconi si comporta da fuorilegge e lo dice prima. Eppure, non vi sono risposte politiche o risposte istituzionali. E i segnali non sono buoni. La giudice Fiorillo ha visto segnato il fascicolo della sua carriera da una censura del Csm per avere smentito quanto detto da Berlusconi e quanto dai complici sulla vicenda Ruby. Berlusconi ha potuto tenere il suo comizio di minaccia alla Repubblica senza che seguisse, per decenza, almeno un “pacato” cenno di dissenso.
Piazza piena, tutti a Roma a spese di Silvio
Viaggio e pranzo pagati, gratis anche la metro
“E’ il migliore, l’unico che ci toglie le tasse”
di Caterina Perniconi (il Fatto, 24.03.2013)
Me lo sono anche tatuato: Silvio Berlusconi, vita mia” dice un ragazzo napoletano, prossimo ai quaranta, che scende dal pullman con la bandiera di Forza Italia. Alza la felpa, scopre l’avambraccio e spunta l’auto-grafo del Caimano inciso nella pelle. Doloroso? “Tutto per lui”. É mezzogiorno, a Cinecittà arrivano i primi mezzi dal sud Italia (Puglia e Campania la fanno da padrone). Con Silvio. “Sempre! ”. Fanno le foto all’ingresso della cittadella dei film: “Qui c’è Maria De Filippi vero? ”. Proseguiranno con la metro fino a Piazza del Popolo.
Non hanno dovuto tirare fuori un euro. “Mai, paga sempre tutto il partito”. Viaggio e pranzo al sacco (panino, acqua, succo di frutta, per i più fortunati anche insalata di riso e crackers). Nemmeno una moneta per la metropolitana, Gianni Alemanno la lascia aperta a tutti. Nel pomeriggio il sindaco sarà costretto a spiegare la sua scelta: “Copre le spese il Pdl, anche per la pulizia della piazza”.
Una manifestazione che a Berlusconi costa cara. Ma è necessaria, serve ad alzare la posta, a ricordare a tutti che la gente lo sostiene. “Veniamo da Bari - raccontano due militanti - siamo qui per Silvio, abbiamo bisogno di un governo, altrimenti a giugno l’Imu di Monti chi la paga? Verrano a prendersi la casa”.
Parlano solo di tasse e di crisi, ogni tanto, torna il leit motiv della giustizia. “Certi magistrati andrebbero ammazzati. Berlusconi è unico, il migliore”. Qualcuno si accanisce contro il Fatto quotidiano, ma non sono molti, “avversari, per carità, ma noi la stampa non la mandiamo affanculo”. Si divertono. I ragazzi cantano “menomale che Silvio c’è”. Dopo di lui? “Va bene chiunque, basta che porti avanti le sue idee”. Ma non vi ha delusi? “Mai”. Lo mandiamo in pensione? “Se solo quei magistrati comunisti lo lasciassero in pace”.
Metro, si parte. Continuano i cori. Qualcuno scende prima, “c’è il sole, facciamo un bel giro a Roma senza pagare, abbiamo colto l’occasione al volo”. I più a piazza di Spagna: “Vediamo la scalinata, quella delle sfilate, poi andiamo a manifestare”. Cercano le telecamere, gridano “Italia uno”. Sono cresciuti con Media-set. Gli anziani sono di più. In piazza suona “Oi vita mia”, è “dedicata a Silvio” dice il cantante. Come sul tatuaggio. Muoversi è difficile, c’è molta gente e spingono tutti verso il palco, vogliono i vip, cercano Berlusconi. Quando arriva cominciano a urlare “chi non salta comunista è”. I primi fischi sono per Bersani, anche se alla fine “va bene anche un governo con lui, basta che ci danno il Quirinale”. Appuntamento alle sette a Cinecittà. Si riparte, c’è chi viaggerà anche tutta la notte. Gratis.
Sotto il palco tra i figuranti arrivati in pullman
“Ci danno 10 euro, arrotondiamo la pensione”
di Alessandra Paolini (la Repubblica, 24.03.2013)
ROMA - Il look di Eleonora, sessant’anni o giù di lì, è quello delle trasmissioni del pomeriggio: golfini maculati, stivali sfrangiati da squaw, capelli cotonati biondo platino. È il look di una figurante, ovvero delle persone che riempiono gli studi di programmi Rai e Mediaset. E che ieri si è trovata a piazza del Popolo in uno spettacolo a suo modo speciale. Starring: Silvio Berlusconi.
Ce ne sono tanti come lei all’una davanti al teatro Brancaccio di Roma. Gente del mestiere, che si saluta con affabilità e risponde prontamente agli ordini di Armando, il capo claque. Probabilmente contattato nei giorni in cui non era chiaro che in tanti avrebbero risposto all’appello del Cavaliere. Armando, in total black e cravatta rossa lucida, invece, lavora per “Abavideo provini tv”, società che fa casting per film e pubblicità, e sceglie anche il pubblico per trasmissioni tv.
Venire arruolati come fan a pagamento di Berlusconi non è difficile. Certo, non si diventa ricchi: 10 euro la paga per restare un paio d’ore davanti al palco. «Una miseria», si lascia scappare uno dei figuranti, «ma ho una pensione da schifo e devo arrotondare». Armando ha una lista con le presenze dentro una cartellina col logo del programma “Così è la vita”.
Ma basta dire «un’amica mi ha detto di venire al posto suo perché sta male», che subito lui ti accoglie a braccia aperte. Prende nome e cognome e via, «Sei dei nostri». Il lavoro da fare è semplice. «Hai mai partecipato a un programma? - chiede il capo claque - No? Vabbé, non ti preoccupare, oggi stai un po’ lì in piazza in mezzo alla gente e poi te ne vai. Ma se hai voglia in futuro di partecipare a dei provini, cerca il sito e iscriviti». Lui, il “reclutatore”, da Silvio non viene: «Non ci penso nemmeno». E quando il pullman arriva, saluta il “gruppo vacanze Piemonte” con un elegantissimo «Mi raccomando, non pomiciate!».
Sul bus l’atmosfera è quella delle gite di scuola ai tempi delle medie, anche se la comitiva è un po’ agée. Una signora con i capelli rossi si mette il rossetto. «Attenzione che Berlusconi è sensibile alle donne», le fa il passeggero seduto al suo fianco. Risposta: «Vorrà dire che lo bacerò in bocca, chiaramente, dietro lauto compenso». Ilarità generale, commenti salaci. «Attenta però che quello c’ha la dentiera», grida uno dagli ultimi posti. Del resto, si sa, in fondo al pullman si siedono sempre quelli più indisciplinati. Nessuno però canta, come accade in ogni gita che si rispetti. E quando arriva la proposta «Ora tutti insieme intoniamo “E Silvio c’è”», si ride di nuovo.
Mancano dieci minuti alle tre. Il pullman, che si è unito ad altri tre bus al Circo Massimo con 150 persone a bordo raccolte a Testaccio, Tiburtina e piazza Bologna, scarica l’allegra brigata a un chilometro da piazzale Flaminio. «Ma che sono matti? C’è un sacco di strada da fare», grida una donna con le caviglie già gonfie. Qualcuno si mette ad aspettare l’autobus. «A furbi, non tornate a casa». Gli altri, accompagnati da un tutor in tuta azzurra della nazionale di calcio, conduce tutti a piazza del Popolo. Berlusconi ancora non c’è. La piazza è già gremita. E sulle note di “Azzurro” di Celentano stavolta anche le comparse cominciano a cantare.
Silvio il nostalgico
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 30 gennaio 2013)
Sarebbe stata una buona idea mantenere il sangue freddo davanti a Berlusconi, il giorno che a Milano ha parlato del fascismo, e chiedergli come mai Mussolini avesse «per tanti versi fatto bene», eccettuate le leggi razziali.
Fece bene quando uccise Matteotti, incarcerò gli oppositori? Quando inviò l’esercito in Etiopia, ordinandogli di usare i gas asfissianti a scopo di sterminio? Quando entrò in guerra accanto a Hitler, e non per evitare una vittoria tedesca troppo vasta ma convinto da sempre che urgeva vendicare l’oltraggio del ’14-18? Oppure fece bene perché seppe governare accentrando tutti i poteri, reintroducendo la pena di morte, soggiogando l’amministrazione della giustizia? Quando si incontra un politico provocatore, che consapevolmente sceglie il giorno in cui si ricorda la Shoah per inquinare il consenso antifascista da cui è scaturita la Costituzione, è sempre la seconda domanda quella che conta, che aiuta a capire, e la seconda domanda purtroppo è mancata.
Ma in fondo quel che vorremmo sapere lo sappiamo già, perché Berlusconi non è caduto dal cielo: né oggi né nel ’94. Perché quel consenso è stato gracile sempre, a dispetto delle commemorazioni, e lui quest’oscurità italiana la sa, l’attizza, ne fa tesoro. Non aveva mai parlato in questo modo del fascismo, ma sul Regime, e sulla Resistenza, ha già detto in passato cose sufficienti.
Ha già detto che Mussolini «non ha ammazzato nessuno; mandava la gente a far vacanza al confino» (settembre 2003). Ha già detto che la Costituzione fu scritta «sotto l’influsso di una fine di una dittatura, e con la presenza al tavolo di forze ideologizzate che hanno guardato alla Costituzione russa come un modello» (7-2-2009). Che è congegnata in modo da rallentare le decisioni dei governi, e dilatare proditoriamente il potere giudiziario.
Il suo giudizio sull’autonomia della magistratura non è senza rapporto con il suo sguardo su Mussolini ed è chiaro da tempo: l’autonomia è patologica, e i magistrati fedeli ai dettati della Carta sono «mentalmente disturbati, antropologicamente diversi».
Affinché non ci fossero equivoci sulle sue preferenze aveva decretato, il 26 gennaio 2004: «Il fascismo è stato meno odioso dell’odierna burocrazia dei magistrati che usano la violenza in nome della giustizia».
Berlusconi non è il primo né l’unico in Europa a rompere il consenso costituzionale che ha visto rinascere le democrazie nel continente, e le ha spinte a unirsi in una semi-federazione. Da quando quest’ultima si è allargata a Est, molti Stati che avevano patito l’impero sovietico sono giunti a conclusioni simili: il comunismo era il vero nemico, più delle dittature di destra.
Ricordo dissidenti di rilievo, negli anni del golpe di Jaruzelski in Polonia, che ne erano convinti. Alcuni erano sedotti da Pinochet: spietato con gli oppositori, ma paladino di dottrine liberiste, filo-occidentali, che avevano resuscitato l’economia cilena. Le attese dell’Est erano economiche più che politiche.
La regressione fascistoide di Viktor Orbán e del partito Fidesz in Ungheria (a suo tempo un partito di dissidenti libertari oltre che liberisti) mette in pratica quel fascino di Pinochet. Orbán è uno dei vicepresidenti del Partito popolare europeo: una formazione che è andata sempre più corrompendosi, da quando ha accolto - dimenticando De Gasperi o Adenauer - capi politici come il Premier ungherese o l’ex Premier italiano.
L’Europa unita non ha l’ardire di dare il nome di costituzione alle proprie leggi fondamentali, ma la sua Carta dei diritti e il Trattato di Lisbona hanno valore costituzionale (se costituzionali sono le leggi che tengono insieme i cittadini).
Quando l’articolo 2 del Trattato dice che «l’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani», comprese le minoranze, è evidente il riferimento alle dittature d’Europa.
Quando la Carta dei diritti, non meno vincolante giuridicamente del Trattato, afferma che saranno rispettati «i diritti derivanti in particolare dalle tradizioni costituzionali (...) e dalla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali », è lo spirito della Resistenza che convoca e suggella.
Berlusconi non riconosce le tradizioni costituzionali italiane, e di conseguenza neppure quelle dell’Unione europea. Si dice «migliore amico di Israele», e questa è per lui la patente antifascista decisiva: Israele dovrebbe essere il primo a negargliela.
Al pari di Orbán, e di molte destre europee, l’ex Premier usa far leva sulla democrazia, per sgretolarla dal di dentro. Un’operazione tanto più facile, in un paese dove il confine fra estrema destra e conservatori è sempre più labile. Non esiste da noi una forte destra repubblicana come in Germania, né esiste la tradizione gollista che per anni, in Francia, ha rifiutato ogni patto con Le Pen.
L’Italia politica onorò fino all’ultimo il generale Rodolfo Graziani, condottiero della guerra d’Etiopia, e negli anni ’80-90 giocò a riabilitare il fascismo e a declassare l’antifascismo, comunista o azionista. Disinformata, gran parte del suo popolo s’è confusa, smarrita. Una vera politica della memoria - così la chiamano in Germania - da noi non c’è mai stata. È mancata soprattutto a destra: l’unica forza in grado di capire e curare efficacemente le proprie escrescenze estremiste. Da sola, la sinistra non le placa: le attizza.
L’idea che Berlusconi si fa della democrazia ha acuito questa confusione. A suo parere è la sovranità del popolo, e lei sola, a garantire la democraticità di uno Stato. A che serve tutta un’impalcatura di leggi, di contrappesi? Se il popolo (in realtà non tutto: la maggioranza) premia partiti e persone che avversano la Carta o violano la legge, la Costituzione e la giustizia dovranno sottomettersi: tale è il verdetto delle urne. E assoluta è la sovranità dell’eletto; nessun potere può esistere accanto a lui o sopra. Precisamente contro questa perversione della sovranità democratica fu inventata l’Unione europea, dopo secoli di guerre tra assoluti sovrani nazionali. Sia detto per inciso: l’invenzione nacque proprio in quell’isola di detenzione, a Ventotene, ribattezzata dieci anni fa luogo di vacanza.
Da quando ha fatto irruzione nella vita politica italiana, Berlusconi ha scelto l’anticomunismo come arma prediletta. Era appena finita la guerra fredda, e non poche destre europee si ritrovarono d’un tratto orfane del nemico esistenziale. Meglio tenere in vita il morto, pensò il fondatore di Forza Italia: serviva a guadagnar voti, additando pericoli totalitari non esistenti, e a bloccare il doppio risanamento civile che Falcone e Borsellino avevano iniziato in Sicilia contro la mafia, e che Mani Pulite tentò a Nord. Fu rapido, il cortocircuito. Berlusconi associò magistrati e comunisti, e ambedue vennero accusati di sovversione antidemocratica.
I dispotismi europei del secolo scorso sono nati con gli stessi metodi, falsificando la storia e attizzando i risentimenti che le grandi crisi economiche, mal governate, suscitano sempre nei popoli immiseriti.
Berlusconi scimmiotta Mussolini in piena coscienza: nessuna delle sue parole è - come sembra credere Mario Monti - una malaccorta «battuta infelice». In cuor suo sa perfettamente che in tempi bui cresce la sete dell’uomo forte, delle dittature. Se la destra e il centro non vedono all’orizzonte nient’altro che sbadate follie, vuol dire che non sono del tutto preparate a un’argomentazione seria sul pericolo che incombe: in Grecia, o in Ungheria, o in Italia. Che hanno dimenticato come ci sia sempre del metodo nelle follie, e come la preparazione sia tutto, in politica come nella vita di ciascuno.
Le lodi tattiche di Berlusconi a Mussolini
di Philippe Ridet (Le Monde, 29 gennaio 2013 - traduzione: www.finesettimana.org)
Le “gaffe” di Silvio Berlusconi sono raramente dovute all’improvvisazione. Affermando, domenica 27 gennaio, Giornata della memoria dell’Olocausto, che Benito Mussolini “ha fatto molte cose buone”, a parte “le leggi razziali che rappresentano la peggiore colpa del leader”, si è assunto il rischio di scatenare una nuova polemica, ma sa che una parte dell’opinione pubblica italiana lo ha capito.
Mentre Angela Merkel, il giorno prima, dichiarava che la Germania ha “una responsabilità permanente per i crimini del nazionalsocialismo”, l’ex presidente del consiglio sostiene che “L’Italia non ha le stesse responsabilità”. “Il governo di allora, per il timore che la potenza tedesca si concretizzasse in una vittoria generale, preferì essere alleato alla Germania di Hitler piuttosto che contrapporsi. La connivenza con il nazismo, almeno all’inizio, non fu completamente consapevole.”
Non è la prima volta che Berlusconi minimizza il bilancio del regno di Mussolini, dal 1922 al 1943. Nel 2003 aveva sostenuto che “il fascismo non ha mai ucciso nessuno”. Il regime fascista ha adottato nel 1938 e del tutto liberamente, le leggi razziali, escludendo gli ebrei dall’esercito e dall’insegnamento e limitando il loro diritto di proprietà. Durante la seconda guerra mondiale, più di 7000 uomini, donne e bambini ebrei italiani furono sterminati nei campi della morte. Un bilancio a cui bisogna aggiungere gli assassini politici o l’esilio sistematico degli oppositori al regime.
Elettoralismo? Revisionismo? Impegnato in vista delle elezioni del 24 e 25 febbraio a capo di una coalizione che va dalla Lega Nord, favorevole alla secessione, a piccole formazioni neofasciste (La Destra, Fratelli d’Italia), nostalgiche di uno Stato forte, Berlusconi mirava domenica all’ala più nazionalista.
Ma, al di là del calcolo tattico, rafforza in molti italiani l’idea di un fascismo schizofrenico: uno efficiente (organizzazione dello Stato, lotta alla mafia, costruzione di infrastrutture, riorganizzazione dello Stato, instaurazione di un sistema pensionistico), l’altro cattivo (leggi razziali, privazione delle libertà civili), senza rapporto logico tra i due.
Il giornalista Massimo Giannini, autore del libro Lo Statista (Dalai), che sottolinea le analogie tra il Cavaliere e il Duce, analizza: “Berlusconi si rivolge a quella parte di opinione pubblica che crede ancora che si possa separare il buon grano dalla zizzania nel bilancio di Mussolini. Ma l’uno e l’altro hanno in comune la stessa fede nell’uomo della provvidenza, la stessa ricerca di un rapporto senza mediazione con il popolo, la stessa volontà di imporre la narrazione di una realtà virtuale con la propaganda. Ancora una volta, Berlusconi scommette sulla parte peggiore degli italiani”.
“Queste dichiarazioni non sono solo superficiali e inopportune, ma prive di senso morale e di fondamento storico, ha denunciato il presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, Renzo Gattegna. Dimostrano a qual punto l’Italia faccia ancora fatica ad accettare la propria storia e le proprie responsabilità”.
Fuori dall’Europa
di Gad Lerner (la Repubblica, 28 gennaio 2013)
Cosa aspetta il Ppe a liberarsi di questo impenitente ammiratore di Mussolini? Cos’altro manca per riconoscere che non è solo ignoranza storica se Berlusconi ha profanato col suo delirio revisionista la cerimonia milanese in ricordo della Shoah, prima di appisolarsi soddisfatto?
L’uomo che vent’anni fa sdoganò, con abile calcolo politico, il neofascismo italiano, ancor oggi alla presidenza della Regione Lazio ricandida quel Francesco Storace di cui ricordiamo le maledizioni contro Gianfranco Fini, colpevole di aver reso omaggio in Israele al memoriale degli ebrei sterminati dal nazifascismo. Mentre in Lombardia vorrebbe cedere il comando al segretario di un partito xenofobo e antieuropeo, Roberto Maroni, che da ministro dispose la raccolta delle impronte digitali dei bambini rom.
Prima di liquidarla come ennesima gaffe (con solita smentita), conviene ascoltarla e riascoltarla testualmente la dichiarazione rilasciata ieri di fianco al binario 21 da cui partirono verso Auschwitz i trenimerci dei deportati. Rivelatore è l’impulso di Berlusconi a comprendere le motivazioni del regime fascista: «È difficile adesso mettersi nei panni di chi decise allora...». Ancor più netta è l’identificazione con «un leader, Mussolini, che per tanti altri versi aveva fatto bene».
D’accordo, c’è il delirio personalistico di un uomo che si ricandida per la sesta volta consecutiva a capo dell’Italia, immedesimandosi nel mito del Ventennio. Ma proprio per questo Berlusconi avverte la necessità di addomesticare la storia. Quasi che assolvendo quel Mussolini che, prima delle leggi razziali, «aveva fatto bene», gli venisse più facile chiedere poi agli italiani di chiudere un occhio anche sulle proprie, di malefatte.
Per questo ci vengono nuovamente propinate, sfregiando la Giornata della Memoria, le favole su una «connivenza non completamente consapevole» del fascismo nella persecuzione degli ebrei.
Fino a pretendere indulgenza per il Duce che promulgò le leggi razziali e ordinò la deportazione nei campi di sterminio, cui sarebbero da addebitarsi «responsabilità assolutamente diverse» rispetto a quelle di Hitler. Provo un senso di vergogna a commentare simili affermazioni; pur sapendo che lo stereotipo degli “italiani brava gente” è duro a morire in un paese che per reticenza e pavidità culturale delle sue classi dirigenti (Chiesa compresa) non ha fatto con la dovuta severità i conti con le sue responsabilità storiche.
Ormai è dimostrato incontrovertibilmente che il regime fascista aveva sprigionato il suo antisemitismo già ben prima del 1938, l’anno delle leggi razziali. Così com’è risaputo che il nazionalsocialismo tedesco aveva tratto ispirazione dalla dittatura mussoliniana, di cui era un alleato naturale.
Ma la destra di Berlusconi si nutre di questa teoria giustificazionista dei due tempi, secondo cui sarebbe esistito un fascismo buono, prima, e un fascismo cattivo poi. Non a caso gli manifestava benevolenza già dieci anni fa, quando doveva pur essere più lucido: «Mussolini non ha mai ammazzato nessuno. Il Duce mandava la gente in vacanza al confino», affermava.
Dimenticati in una sola boutade gli assassinii politici, i Tribunali speciali, la soppressione delle libertà democratiche che avevano preceduto le leggi razziali. Altro che «Mussolini per tanti altri versi aveva fatto bene».
Ma più ancora che il falso storico, colpisce il degrado morale rivelato da Berlusconi quando ci invita a comprendere la scelta di Mussolini alle prese con la forza di quell’alleato tedesco che pareva destinato a conquistare l’Europa intera.
Ascoltiamolo di nuovo testualmente: «È difficile adesso mettersi nei panni di chi decise allora. Certamente il governo di allora, per il timore che la potenza tedesca si concretizzasse in una vittoria generale, preferì essere alleato alla Germania di Hitler piuttosto che contrapporsi. E dentro questa alleanza ci fu l’imposizione della lotta...» - qui Berlusconi esita un attimo sull’uso osceno della parola “lotta”, prima di aggiungere - «... e dello sterminio contro gli ebrei. Quindi il fatto delle leggi razziali è la peggiore colpa di un leader, Mussolini, che per tanti altri versi aveva fatto bene».
Dobbiamo ritenere che, date le circostanze, per necessità, per convenienza, anche lo “statista” Berlusconi potrebbe subire simile “imposizione” da dittatori criminali contemporanei? Noi sappiamo bene che il Duce era razzista e antisemita in proprio, senza bisogno dell’incoraggiamento di Hitler. Ma a Berlusconi che vuole ignorarlo, e si sforza di entrare nei panni di Mussolini, dovremmo forse concedere una tale infame esitazione?
Campagna elettorale in Italia
Piano strategico di Berlusconi per il potere
diHans-Jürgen Schlamp (Der Spiegel, 19 dicembre 2012)
L’uomo ha paura, ha molto denaro e possiede il comando su tre reti televisive e su centinaia di esperti nelle faccende della pubblica opinione. Questa è la situazione di partenza per la campagna elettorale di Silvio Berlusconi. Già adesso tutto il suo macchinario corre al massimo dei giri. Ciò che risulta parzialmente debole o pazzesco è elaborato in effetti da esperti mediatici, padroni di tutti i trucchi. Sondaggisti misurano giornalmente l’umore del popolo e comunicano al quartier generale di Berlusconi ciò che va a segno e ciò che non.
Al momento annunciano risultati positivi:il partito di Berlusconi Popolo della Libertà negli ultimi giorni ha guadagnato tre punti percentuali. Anche così finora è soltanto il 17% degli italiani che hanno veramente la volontà di votare ancora una volta per l’ex-premier. Ma il loro numero potrebbe crescere, se lo show di Berlusconi va al massimo.
Showtime domenica pomeriggio
Inoltre tutto deve andare adesso molto in fretta. Già nei primi giorni di gennaio il nuovo bel mondo, che Berlusconi vuole descrivere agli italiani, dovrebbe essersi fissato nelle teste del maggior numero possibile di elettori. Infatti dopo, 45 giorni prima delle elezioni, la presenza dei politici in TV è limitata dalla legge. Berlusconi può alzare in pieno il volume adesso. E lo fa.
Nei notiziari delle sue emittenti vengono messi a confronto i “successi” del precedente governo, retto da Berlusconi, con gli errori e i lavori incompiuti del premier Mario Monti. Nel popolare show del pomeriggio domenicale sul suo Canale 5 il Grande Silvio è stato presente per quasi un’ora e mezza. “Intervista”, ha chiamato la moderatrice il format, durante il quale ha fornito spunti che si adattavano esattamente alla declamazione dell’Ospite dello studio. “La gente per strada si lamenta per il peso dell’imposta sugli immobili”, ha detto per esempio, e Berlusconi ha annuito con fare serioso. Le lagnanze sarebbero giustificate, molte famiglie sono state gettate in amara povertà, ma Lui abolirà subito queste tasse, così dice Berlusconi.
Già, e per il denaro che manca allo Stato? Nessun problema, per quello bastano piccoli aumenti delle tasse sulla birra e la grappa. E se la moderatrice - da 35 anni al servizio dell’emittente berlusconiana e amica di Sua figlia - eccezionalmente salta una battuta, l’Ospite dello Studio la rimette sui binari durante le pause per la pubblicità. Davanti allo schermo sedevano 2,5 milioni di telespettatori, la maggior parte non più giovani, con una cultura inferiore alla media, che vivono nel Sud sottosviluppato. Gli elettori di Berlusconi.
All’altra metà del Suo potenziale elettorato, gli italiani più anziani, per lo più dell’Italia settentrionale, per lo più donne, aveva provveduto giorni prima Rete 4. Anche lì ci fu una “intervista” con Silvio il Grande, registrata nel suo splendido salone della Villa di Arcore.
Il trauma di Berlusconi: gattabuia o esilio
Berlusconi non sale sul ring per divertimento. Lui lo deve fare. Oggi egli è di nuovo esattamente come era nel 1994 - in grande pericolo. A quel tempo, quando iniziò la sua carriera politica, il suo impero aziendale era sull’orlo della bancarotta e lui stesso con un piede in prigione. Entrò in politica per salvarsi. E questo l’hanno ammesso più tardi egli stesso e molti dei suoi compagni di viaggio.
Oggi il suo impero mediatico è di nuovo in caduta libera. Gli introiti pubblicitari precipitano, non solamente a causa della crisi. Quando Berlusconi governava il Paese gli era possibile, ovviamente per le dimensioni economiche dell’Italia, piazzare la sua pubblicità prima di tutto nel suo regno mediatico. In fondo, per risolvere i suoi problemi più vistosi, si era arrivati a contratti statali e alla copertura politica. Tutto questo è acqua passata da novembre dello scorso anno, quando Berlusconi dovette sgomberare dalla sede del governo, il Palazzo Chigi.
”Mi sento tanto solo”
La strategia di questa lotta per la sopravvivenza è stata sviluppata in molteplici riunioni di un team ampio e professionale. Si chiama: fare forza con la debolezza. Per esempio, gli scandali per i suoi festini con il “bunga-bunga” e dozzine di giovani donne. Nell’Italia rigorosamente cattolica e conservatrice tutto questo non ha trovato appoggio. Tanto più che il resto del mondo sfotteva la “Bella Italia”. No, diceva allora Berlusconi contrito alla televisione, non andava bene, di ciò doveva scusarsi. Ma ahimè, “mi sentivo tanto solo, separato da mia moglie, mia madre era morta, anche mia sorella e i miei figli sono sempre in giro per il mondo”.
Allora arrivava qualcuno e gli prometteva distrazioni serali. Un errore, adesso lui lo sa. Eppure adesso tutto va bene, ha trovato di nuovo una partner. Di quasi 50 anni gli è più giovane la fidanzata e lui la conosce già da sette anni. Era a capo di un club di fan di Silvio Berlusconi, che ha fatto ronzare sulla Sua villa in Sardegna aerei che trainavano striscioni con un “Silvio, sentiamo la Tua mancanza”. Più tardi ha personalizzato la sua iniziativa e ha cambiato la scritta in “Silvio, mi manchi”. Così è entrata nel Suo entourage.
Adesso è stata esaudita. E Berlusconi può nuovamente presentare una vita privata ordinata. Gli italiani, questo è il calcolo retrostante, devono perdonargli le sue scappatelle.
Tedeschi non solidali ed egoisti
Anche la debacle economica, che aveva provocato durante il suo ultimo periodo di governo, viene abilmente ribaltata. La situazione è seria, dice adesso il Grande Imprenditore. Colpevole sarebbe “la politica di austerità inflitta al Paese dai tedeschi non solidali ed egoisti”. Monti seguirebbe gli ordini di Berlino nel modo più servile. Ma lui, Berlusconi, la farà finita con tutto questo. Di nuovo mette in gioco l’uscita dell’Italia dall’eurozona, per accudire gli umori dei suoi seguaci. Tutta questa risparmiosità a carico dei vecchi e dei bambini, dei lavoratori e degli imprenditori, tutto questo non deve più esserci, promette Berlusconi. È sbagliato. È giusto ciò che non fa male! Marcia indietro con le imposte per tutti, deve suonare il nuovo motto, fare credito agli imprenditori, perché possano di nuovo mettersi sulla via della crescita.
La vita in Italia sarà nuovamente bella, solo che lui prenda il potere, dice Berlusconi. Chi non ascolta ciò volentieri? E se poi questa tesi ogni giorno è confermata da esperti economisti, in televisione, nelle televisioni di Berlusconi? Può mai essere errato eleggerlo ancora una volta, forse ed eventualmente?
Ogni giorno 72 flessioni
Berlusconi l’ha dunque promesso - egli salverà l’Italia. Deve soltanto avere il potere. In realtà lui non lo vuole proprio. Mio Dio, è ricco, potrebbe godersi i suoi ultimi anni, sulle spiagge della Sardegna o sul suo yacht, da qualche parte nei climi caldi.
Non ha forse offerto più volte a Monti di lasciargli il potere? Ma Monti l’ha rifiutato. Berlusconi già molti mesi fa ha scelto nel suo partito un successore, che potrebbe sostituirlo. Ma semplicemente non lo può. Berlusconi deve quindi veramente rientrare? Lui non ne è entusiasta, ma la gente lo chiama, lo incalza. Naturalmente lui è in forma, come un trentenne. Ogni giorno fa 72 flessioni, dice Berlusconi. Tutto secondo copione.
In realtà tutto questo, considerato realisticamente, è uno spettacolo dissennato e stupido: un vecchio uomo spinto dalla paura, “ossessionato dal sesso” lo definiscono alcuni, “confuso” appare ad altri, liftato e con capelli artificiali in testa, racconta storie orripilanti. Eppure nelle soap-opera delle sue emittenti televisive sono rappresentate ogni giorno storie di questo tipo - e molte persone se ne stanno sedute davanti alo schermo, si meravigliano e sognano, invece di sghignazzare e fare zapping altrove. Gli spettatori delle televisioni berlusconiane sono i suoi più fedeli elettori.
Lui non vincerà le elezioni. È senza speranze, sembra. Tuttavia egli ha bisogno anche soltanto di un pezzetto di potere. A lui serve causare intralcio e fastidio in quantità sufficiente ad assicurargli politicamente i suoi interessi [privati]. Nel sistema italiano multipartitico, in cui certi deputati nel corso di una legislatura cambiano volentieri il loro fronte politico con alleanze che possono riformarsi diverse a seconda delle situazioni, un politico con il 20, 25 % dei voti ha un peso considerevole. E se dovesse governare la sinistra lui guiderebbe giusto la destra. Quindi in caso di necessità potrebbe bloccare qualche provvedimento, tirarlo in lungo - o fare scambi contro una legge, ciò che lo salverebbe nuovamente dalle grinfie della giustizia.
Allora per l’Italia sarebbe emergenza ed è possibile lo sia perfino per tutta l’Europa.
*
Pericolo in Italia
di Guillaume Goubert
Le notizie arrivate sabato dall’Italia sono molto preoccupanti. Da un campo di calcio, Silvio Berlusconi ha annunciato l’intenzione di rimettersi alla testa della destra italiana nella prospettiva di elezioni nella primavera prossima. Immediatamente, Mario Monti ha comunicato la sua decisione “irrevocabile” di dare le dimissioni entro la fine dell’anno, appena la legge finanziaria per il 2013 sarà adottata. Tutto il lavoro di risanamento dell’Italia, sul piano finanziario, economico, ma anche morale, viene quindi rimesso in discussione. A rischio di far cadere la penisola, e con essa anche il resto della zona euro, in una nuova tormenta.
Potremmo capire che venisse dalla sinistra una contestazione della politica portata avanti da Mario Monti. La politica di austerità condotta dal presidente del Consiglio dei ministri da tredici mesi infatti non risparmia gli italiani meno abbienti. Ma che Silvio Berlusconi sia all’origine della crisi politica che si è appena aperta a Roma è decisamente stupefacente. Quell’uomo ha diretto l’Italia a tre riprese dal 1994, poi dal 2001 al 2006, e dal 2008 al 2011. Ha quindi una responsabilità non trascurabile nello stato di deperimento dello Stato e dell’economia del paese per il cui recupero si è impegnato Mario Monti. Inoltre, Silvio Berlusconi è coinvolto in malversazioni fiscali e scandali sessuali - con l’implicazione di minorenni - che hanno gravemente danneggiato l’immagine del paese. È per questo che, nel 2011, gli altri capi di Stato e di governo della zona euro hanno avuto un grosso peso per un’uscita di scena che credevamo definitiva.
Ebbene, no. A 76 anni, “il Cavaliere” mantiene tutta la sua capacità di nuocere, e Mario Monti si trova nella stessa difficoltà incontrata da altri prima di lui. Come Carlo Azeglio Ciampi, Lamberto Dini e Romano Prodi, anch’essi chiamati a capo di governi “tecnici” per salvare il paese da situazioni finanziarie pericolose, e che furono mandati a casa da un classe politica che voleva tornare a fare i propri interessi. Bisogna sperare che questa volta la società italiana si ribelli, sostenuta dal resto dell’Europa, e che così le dimissioni di Mario Monti cessino di essere “irrevocabili”.
Il cavalier
Rieccolo e il muro del Professore
di Ilvo Diamanti (la Repubblica, 10.12.2012)
ECCOLO di nuovo. Il Cavaliere. Ri-discende in campo. E sfida tutti. Il centrosinistra - che da qui tornerà ad essere riassunto nell’alveo dei “comunisti”. Il Terzo Polo di centro - gli “utili idioti”. E prima di tutto e di tutti: Monti. Il Professore. Il vero responsabile della crisi economica italiana. Che, ovviamente, quando c’era Lui, era molto meno pesante. Anche se i Nemici - i Comunisti Pessimisti - la agitavano ad arte, come argomento polemico contro di Lui.
Berlusconi. Non poteva essere diversamente. Impensabile che uscisse di scena spontaneamente. Ammettendo, in questo modo, la propria sconfitta. La fine del Berlusconismo. D’altronde, i sondaggi d’opinione spiegano e giustificano la sua decisione. Anche al di là dei motivi personali che lo muovono. L’esigenza di tutelare i propri interessi e di difendersi dai molteplici procedimenti giudiziari che lo riguardano. Al di là di tutto ciò, l’ultimo anno ha dimostrato l’incapacità del centrodestra di re-inventarsi. Di trovare un’identità e una leadership alternative. Senza Berlusconi. In meno di due anni, il PdL è sceso, nei sondaggi, dal 30% al 18%. Solo un anno fa era ancora al 25%. Il suo delfino, Angelino Alfano, si è dimostrato incapace di nuotare da solo. In un anno: il PdL si è diviso.
Il 44% dei suoi elettori sceglierebbe Berlusconi come candidato premier. Dunque, meno di metà. In ogni modo, però, quasi l’80% di essi preferirebbe che il candidato venisse scelto attraverso le primarie (Atlante Politico di Demos, dicembre 2012). Ma il PdL non è come il Pd. Come il centrosinistra. Non ha radici nel territorio. Solo An aveva legami di appartenenza con la società. Ma, dopo l’unificazione con il - o meglio, l’annessione al - PdL, è confluita anch’essa nel “partito personale” di Berlusconi. Dove i rapporti fra il leader e il suo popolo avvengono per identificazione personale e per via “mediale”. Impossibile per altri interpretare lo stesso ruolo. Ma difficile anche selezionare il gruppo dirigente, tanto più il candidato premier, dal basso. Così il PdL, insieme al centrodestra, ha perso terreno. E lo ha, parallelamente, ceduto ai concorrenti. Al centrosinistra, al Pd. Allo stesso M5S. All’area grigia dell’incertezza.
Per questo Berlusconi è ri-disceso in campo. Per opporsi alla scomparsa del PdL. Per ritardare, almeno, la fine della Seconda Repubblica. Fondata “da” e “su” Berlusconi. Sul “partito personale”. Sulla “democrazia del pubblico”.
Eccolo di nuovo. Il Cavaliere. Evoca la memoria del 2006 (come ha suggerito Roberto D’Alimonte sul Sole 24 Ore). Quando tutti lo davano per sconfitto e lui, da solo, riuscì a rimontare. Fino, quasi, a pareggiare, contro il centrosinistra guidato da Prodi. Ma i tempi sono cambiati, da allora. Il PdL, oggi, pesa molto meno di FI, da sola. La Lega: è alla ricerca del terreno perduto. Fiaccata dagli scandali interni. Ma anche dalle divisioni. Non sarà facile tornare con Berlusconi, dopo un lungo periodo di opposizione. Contro il governo. Ma anche contro Berlusconi. Il quale, peraltro, oggi è molto debole, dal punto di vista del consenso personale. La fiducia nei suoi confronti si è ridotta al 20%. Alla fine del 2005 era intorno al 32% e nei primi mesi del 2006 era risalita oltre il 35% (dati dell’Atlante Politico di Demos). D’altronde la Tv, sua tradizionale alleata, oggi conta meno.
Peraltro, la posizione dei concorrenti appare molto più solida di allora. I consensi del Pd si aggirano intorno al 38%. Una misura, certamente, accentuata dalle primarie e dal declino dell’Idv. Tuttavia, il divario rispetto al PdL appare enorme. Difficilmente colmabile. Certo, la legge elettorale può complicare la conquista di maggioranze stabili al Senato. Ma, a differenza del 2006, Berlusconi e il Centrodestra non potranno contare sull’alleanza con i Centristi. L’Udc e le altre formazioni del Terzo Polo correranno da sole. Per se stesse e, soprattutto, contro Berlusconi. Perché il Cavaliere ha annunciato il suo ritorno “contro” Monti. Dunque, contro il Pd e, ancor più, contro il Terzo Polo di Centro. Che a Monti ha giurato fedeltà.
Eccolo di nuovo. Berlusconi. Nel 2006 si era presentato come l’Imprenditore contro i Nemici del Mercato. Fiducioso che non vi fossero “tanti coglioni che votano sinistra”. Oggi, invece, è il leader dello schieramento “antipolitico”.
Farà campagna elettorale contro i comunisti del Pd, contro l’Euro e l’Europa. Contro Monti. Insieme alla Lega e in concorrenza con il M5S. Monti, da parte sua, ha annunciato le dimissioni, dopo la legge di stabilità. In questo modo, è divenuto l’attore protagonista. Della prossima campagna elettorale e, ancor più, della stagione dopo il voto. Anche se non è detto che “scenda in campo” direttamente. Che promuova una lista “personale”. O che accetti di venire candidato (premier) da uno schieramento. Il Terzo Polo: rischia di essere un soggetto limitato, rispetto alle ambizioni del Professore. Il centrosinistra: come potrebbe proporre il suo nome, dopo aver mobilitato milioni di elettori per scegliere il candidato premier? (E poi, come la prenderebbe Sel?).
Annunciando le dimissionI da premier, Monti ha rifiutato di diventare bersaglio della campagna elettorale di Berlusconi. E di altri soggetti politici. Ma, in questo modo, costringerà tutti a esprimersi e a “schierarsi” sulla sua esperienza di governo. Sulle riforme fatte e su quelle non fatte. Sul suo ruolo. In politica interna, ma anche in politica estera. Nei rapporti con la Ue, la Bce, l’Fmi. Con gli altri governi internazionali. Presso i quali il Professore gode di largo credito.
Monti, d’altronde, dispone ancora di un ampio consenso personale anche in Italia, superiore al 47%. Mentre il suo governo ha la fiducia di circa il 44% degli elettori (Dati Demos, dicembre 2012). Un sostegno ampio rispetto ai governi che l’hanno preceduto, in tempi assai meno difficili. Ma anche in confronto ai governi e ai premier degli altri paesi europei - in condizioni economiche migliori del nostro. Che si presenti come candidato premier (non come parlamentare, ovviamente, visto che è senatore a vita) oppure no, Monti è destinato ad essere il protagonista della prossima campagna elettorale. Il nuovo Muro che attraversa la politica italiana. E divide partiti ed elettori. Pro o contro.
Ciò rafforza l’idea che le prossime elezioni costituiscano una svolta. Perché offrono l’occasione per chiudere la Seconda Repubblica. Di andare oltre il Berlusconismo. Oltre Berlusconi. Definitivamente.
Chi paga il conto
di Massimo Franco (Corriere della Sera, 9.12.2012)
Il calcolo spregiudicato del Pdl di essere insieme partito di opposizione e di governo da ieri sera si sta rivelando per quello che è: un azzardo pericoloso. La decisione di Mario Monti di dimettersi dopo l’approvazione della legge di Stabilità mette Silvio Berlusconi e il suo partito di fronte alle loro responsabilità. Hanno destabilizzato la maggioranza in uno dei passaggi più delicati della legislatura. E il loro tentativo di rivendicare senso dello Stato fuori tempo massimo rivela la sorpresa di chi è stato colto in contropiede.
L’intervento di venerdì in Parlamento del segretario del Pdl, Angelino Alfano, che aveva attaccato frontalmente la politica economica dell’esecutivo, ha indotto il presidente del Consiglio a non accettare il ruolo di capro espiatorio delle tensioni e delle contraddizioni del centrodestra. La mossa di Monti è stata compiuta a mercati chiusi, per evitare riflessi immediati sulla situazione finanziaria dell’Italia. Ma è chiaro che il timore di conseguenze pesanti resta acuto: fin da domattina, alla riapertura delle Borse.
A questo punto non si può escludere neppure che Monti possa essere spinto a candidarsi lui a Palazzo Chigi. Se esisteva un accordo per riportare l’Italia fuori dall’emergenza, stipulato con Pdl, Pd e Udc, lo scarto berlusconiano ha rotto le regole tacite che questa intesa imponeva a tutti. E restituisce un Monti che di colpo sente di avere le mani libere: se non altro come riflesso di uno strappo che rischia di compromettere la credibilità italiana nella comunità internazionale dopo il discredito dell’ultimo governo Berlusconi.
Il comunicato durissimo diramato ieri sera dopo l’udienza dal capo dello Stato, Giorgio Napolitano, è esplicito. Il premier, accompagnato dal suo consigliere a Palazzo Chigi, Federico Toniato, ha spiegato di non poter proseguire la sua azione. Ha respinto le pressioni del Pdl sulla giustizia e non è disposto ad accettare il ruolo di bersaglio di una campagna elettorale berlusconiana giocata contro la moneta unica, l’Europa e le tasse: una strategia «facile» quanto avventurista, destinata ad allontanare il centrodestra da qualunque politica moderata; e ad accomunarlo al leghismo e al movimento del comico Beppe Grillo.
È un altolà al tentativo di giocare la carta del populismo più vieto in una fase di crisi acuta. Allo smarcamento furbesco di Berlusconi, Monti reagisce con un annuncio che parla all’opinione pubblica; e le offre una scelta trasparente, radicale, contro un’operazione che a suo avviso tenta di prendere in giro gli italiani e rende troppo rischiosi i prossimi mesi. La destabilizzazione è responsabilità di Berlusconi: questo lascia capire il capo del governo, raccogliendo la «comprensione» di Napolitano. Meglio bruciare i tempi e dare la parola agli elettori che veder bruciare sui mercati l’Italia.
Un gesto che mette a nudo i ricatti del cavaliere
Berlusconi vuole rappresentare i moderati ma la sua posizione non ha nulla di moderato
Ora si tratta di ricostruire lo Stato, di modernizzare il welfare, di accrescere la produttività
di Eugenio Scalfari (la Repubblica, 9.12.2012)
Le dimissioni di Monti sono arrivate come un fulmine. Non certo un fulmine a ciel sereno perché sereno non è affatto ed anzi è rigonfio di nubi nere e cariche di tempesta. Il redivivo Berlusconi ancora ieri aveva lanciato una serie di accuse contro il governo e contro gli altri due partiti della maggioranza che finora l’ha sostenuto e aveva preannunciato una serie di bombe a orologeria per intralciare e paralizzare Monti fino allo scioglimento delle Camere.
Tre mesi di continui agguati e trabocchetti che avrebbero impedito al governo di governare e costretto gli altri due partiti a sostenere Monti mentre il Pdl (o comunque si chiamerà) si sarebbe interamente dedicato ad una campagna elettorale con l’insegna del "tanto peggio tanto meglio", con i mercati in agguato e la finanza pubblica a rischio di grave pericolo. I decreti ancora in attesa di essere convertiti in legge sarebbero stati bloccati a cominciare da quello sulle Province e quello sullo sviluppo che infatti hanno già avuto il voto contrario del Pdl.
In questo condizioni Monti è salito al Quirinale ed ha preannunciato le dimissioni irrevocabili sue e del governo, condizionate soltanto all’approvazione della legge di stabilità finanziaria e all’approvazione del bilancio che potrebbero avvenire al più tardi entro Natale. Dopo di che le dimissioni di Monti, fin d’ora sostanzialmente date a Napolitano, saranno formalizzate dopo apposito Consiglio dei ministri e il governo resterà in carica - come d’uso - soltanto per l’ordinaria amministrazione.
Il Capo dello Stato ha dichiarato la sua piena comprensione delle decisioni di Monti e si voterà entro la seconda metà di febbraio anziché il 10 marzo come fino a ieri era previsto. Dunque: campagna elettorale ristretta al minimo previsto dalla legge e insediamento del nuovo Parlamento entro la fine di febbraio. Di fatto si tratta di un anticipo di 15 giorni su quanto era stato previsto, ma il fatto ha un rilievo politico molto più forte. Il governo cade perché sfiduciato da Berlusconi e dal partito di sua proprietà. La responsabilità è dunque del Cavaliere di fronte agli italiani e di fronte all’Europa.
Voleva rappresentare i moderati, ma quali moderati? I voti dei quali va in cerca non hanno nulla di moderato. La sua posizione si affianca a quella di Grillo: anti-Monti, anti - Europa, anti-tasse, anti-euro, anti-riforme. Ed anche anti-Napolitano che, pur restando rigorosamente "super partes", aveva garantito all’Europa il mantenimento degli impegni presi, affiancandoli con quell’equità sociale e quel rilancio degli investimenti e dell’occupazione che ora sono le stesse Autorità europee a chiederci, a cominciare dagli stimoli quasi giornalieri di Mario Draghi.
Ho detto che il neo-berlusconismo ha assunto gli stessi contorni del grillismo, ma debbo aggiungere che è peggio di Grillo che non ha clientele da difendere, bonifici da distribuire, ricatti da pagare, aziende proprie da sostenere, processi dai quali sottrarsi.
Grillo cerca di intercettare quella rabbia sociale che si sta diffondendo nel Paese a causa dei sacrifici che hanno colpito soprattutto i ceti medio-bassi. Il rapporto del Censis uscito l’altro giorno documenta quel disagio e lo quantifica: il ceto medio-basso rappresenta il 30 per cento della popolazione; un altro 30 per cento teme di precipitare anch’esso in una sorta di proletarizzazione.
Ma, scrive il Censis, questo diffuso disagio diminuirà gradualmente nei prossimi mesi, quando l’economia reale comincerà a registrare qualche consistente miglioramento.
Chi gioca però al «tanto peggio tanto meglio» rischia di alimentare gli aspetti eversivi e violenti di quel disagio, anzi se lo propone appoggiando al tempo stesso l’aumento delle diseguaglianze sociali. Ecciterà i poveri alla protesta proteggendo contemporaneamente le posizione dei ricchi, purché amici e sodali.
Non saranno certo i Briatore a rimetterci. Ecco perché il nichilismo berlusconiano è assai più insidioso e velenoso di quello grillino. Monti con la sua decisione di ieri ha strappato i veli che lo nascondevano. Ora appare in tutta la sua evidenza.
A questo punto saranno i cittadini elettori a chiudere la partita. Molti dicono che il popolo sovrano è dotato di un deposito di saggezza che vede più lontano e più lucidamente di quanto non accada alla classe dirigente. Lo spero anch’io, ma non lo darei per scontato. Una parte importante di cittadini ragiona con la propria testa e tiene a bada quella parte emozionale che c’è in ciascuno di noi e che si regola sull’immediato presente. Ma un’altra parte vive di emozioni e dà retta a false promesse e ad illusioni prive di qualunque riscontro con la realtà.
In ogni Paese esiste una massa di elettori che cade in preda a demagoghi e a venditori di paradisi artificiali, ma da noi purtroppo questa massa ha più consistenza che altrove. Chi pratica il gioco delle tre carte e chi vende San Pietro o il Colosseo ha sempre trovato compratori.
Berlusconi è un venditore formidabile, in questo non ha rivali ed è la ragione per cui è già stato votato per cinque volte di seguito da milioni di italiani che hanno creduto in lui anche quando il Paese stava precipitando.
E’ possibile che gli credano ancora? Il popolo sovrano chiamato tra poco alle urne darà la risposta. La previsione è che questa volta scelga responsabilmente i partiti della democrazia, del cambiamento, del realismo. Non si tratta soltanto di uscire dall’emergenza completando i compiti che l’Europa ci ha assegnato. Si tratta di molto di più. Si tratta di ricostruire lo Stato, di modernizzare il «welfare», di accrescere la produttività, di combattere le mafie e le clientele parassitarie, di distribuire equamente il reddito, di snellire la burocrazia, di ridare ai giovani e alle famiglie speranza e fiducia.
Problemi antichi, sempre discussi e mai risolti. Ora sono anch’essi diventati emergenza e con questo spirito vano affrontati senza dimenticarne un altro che tutti li condiziona: la costruzione dell’Europa come vera patria di tutti gli europei. Fuori da questo quadro saremo tutti condannati all’irrilevanza economica, politica, culturale.
Non dimenticatelo mai nei prossimi anni e non dimenticate che l’Italia non può far nulla senza l’Europa e l’Europa può fare ben poco senza l’Italia.
Cavour l’aveva capito e per fortuna anche la Francia, l’Inghilterra e la Prussia lo capirono. Solo così il movimento risorgimentale trovò il suo sbocco nella nascita dello Stato unitario. Talvolta la storia è maestra di vita e questo è l’obiettivo che ci sta dinanzi.
La corsa del Cav contro tutto e tutti
Ostaggio di una pattuglia di fedelissimi, Berlusconi non ascolta i sondaggi né i suoi consiglieri di un tempo. E c’è chi lo aspetta al varco...
di ugo magri (La Stampa, 06/12/2012)
Roma I veri amici l’hanno supplicato in tutte le lingue di non farlo, per il bene suo e anche quello del centrodestra. E’ stato un coro unanime, da parte di dirigenti Pdl sinceri e leali, ma anche di vecchi consiglieri come Gianni Letta. Probabile che qualche ultimo tentativo di farlo desistere venga messo nuovamente in campo, nelle ulteriori riunioni che si susseguiranno per tutta la giornata a Palazzo Grazioli. Ma ormai il destino sembra segnato, nulla ferma più il galoppo del Cavaliere verso la sua quinta discesa in campo.
Questa volta si può ben affermare che Berlusconi è in corsa contro tutto e contro tutti. Falso quanto ha sostenuto nella dichiarazione notturna, tutti mi vogliono per cui non posso esimermi... A reclamare il suo ritorno, in realtà, è una pattuglia di «ultras» dei quali Silvio sembra leader e prigioniero: una corte variopinta di «nominati» che a lui tutto debbono, e che resterebbero senza arte né parte nel caso in cui venissero abbandonati dal loro mentore. Per mesi l’hanno blandito, incitato, aizzato, sussurrandogli all’orecchio che «quello» (vale a dire il successore designato Alfano) non aveva il «quid» capace di trasformarlo in vero leader, dunque solo il Fondatore, poteva rifondare il partito e nessun altro. La goccia quotidiana ha ottenuto l’effetto desiderato.
Per la prima volta nella sua ormai lunga carriera politica, invece, Berlusconi non ha dato retta ai sondaggi. Se li avesse seguiti, tutto avrebbe fatto tranne che lasciarsi tentare da suppliche e lusinghe. Stando a certe chiacchiere di via dell’Umiltà, Alessandra Ghisleri (Euromedia Research) è stata assolutamente cristallina con il suo cliente: la vasta platea di «fan» è ridotta al lumicino, lo «zoccolo duro» del berlusconismo ormai frantumato, resta solo una claque di tifosi i quali però non rappresentano il popolo di centrodestra, composto fondamentalmente da moderati e non da estremisti. Non è esattamente la congiuntura migliore per lanciarsi nella nuova carica disperata.
Berlusconi ritorna non in quanto ha una vera speranza di convincere l’Italia, ma perché la voglia è più forte di lui. Ci riprova dal momento che non sembra capace di indossare la veste del «padre nobile» il quale fa crescere i figli e gode nel vederli adulti. Lui, come Crono, li divora dietro l’impulso coattivo di riproporsi al centro della scena, condannato a essere protagonista. Aveva sbranato Fini dopo uno scontro selvaggio, l’ha rifatto con il mite Angelino. Nulla di strano che un patriarca voglia battersi fino in fondo, e che i giovani leoni debbano lottare per strappargli lo scettro: l’umanità trabocca di vecchi «die hard», duri a morire. Stavolta, però, tutto congiura affinché sia davvero l’ultima. C’è chi, nel partito, sotto sotto è soddisfatto che Berlusconi torni al volante, nella certezza che nel voto andrà a sbattere e a quel punto «finalmente ce lo leveremo di torno». Aspettiamoci oggi un via libera, ipocrita, dei colonnelli assiepati in riva al fiume, per godersi l’epilogo.
Chi è Gianpiero Samorì? Primarie Pdl, ritratto dell’avvocato-banchiere di Modena
di Antonio Sansonetti *
MODENA - Non si sa se il Pdl farà le primarie, ma si sa che Gianpiero Samorì è in queste ore il candidato sulla bocca di tutti. Il giorno dopo la promessa/minaccia di Silvio Berlusconi “questa volta tirerò fuori un dinosauro dal cilindro”, più d’uno si chiede se il dinosauro non sia proprio lui, Gianpiero Samorì. Ma chi è Gianpiero Samorì? Avvocato, imprenditore, banchiere, è nato a Montese (Modena) il 25 maggio 1957.
Ha fondato un movimento con un nome che è un ossimoro, Mir, ovvero Moderati Italiani in Rivoluzione. Sul sito del Mir c’è il suo curriculum, dal quale apprendiamo che dal 1981 è entrato all’Università di Bologna dove è docente di diritto processuale civile. Ma sul sito dell’ateneo bolognese, www.giuri.unibo.it, non se ne trovano tracce né digitando il suo nome sul motore di ricerca né andando sulla materia specifica.
Samorì vanta anche una cattedra di Diritto Fallimentare, dal 1987, all’Università di Urbino. Cattedra che invece è confermata dal sito www.uniurb.it, dove alla voce “Samorì Gian Piero” troviamo corsi di studio in Diritto Commerciale e Diritto dell’Arbitrato.
Università a parte, ha un aereo personale e uno yacht da 5 milioni di euro. Vanta una disponibilità economica rara di questi tempi in Italia: “Ho un reddito di circa 3 milioni di euro l’anno e, avendo un tax rate del 55 per cento, ho pagato circa 1,5 milioni di imposte”, ha dichiarato a Libero. Ha una holding, Modena Capitale spa, che fra le tante partecipazioni ha una quota anche in Mediobanca e nel gruppo editoriale Monti Riffeser (Il Giorno, la Nazione, il Resto del Carlino). Ha una tv e un giornale, Modena Qui. È stato per 8 anni presidente della Banca di Modena, poi ha fondato Banca Modenese. Sempre tramite la sua holding è quotato al 4,9% in Banca Tercas. Il governo Andreotti gli affidò, nel 1990. l’incarico di commissario risanatore del Consorzio lattiero caseario italiano, del quale poi è rimasto presidente fino al 2000.
Lui a Libero si presenta così: ”Negli anni, ho promosso una serie di iniziative che hanno avuto un discreto successo e ho costruito una holding che gestisce diverse attività”. Massimo Bordin, nella sua rassegna stampa su Radio Radicale ha chiosato così questa presentazione un po’ vaga: “È l’equivalente finanziario di ‘Giro, vedo gente, faccio cose’”.
A Libero ha dichiarato anche che i pm non potrebbero mai saltargli addosso perché “non ho mai commesso un reato in vita mia”. Ma l’ultimo suo tentativo di scalare una roccaforte della finanza “rossa” come la Banca Popolare dell’Emilia Romagna, Bper per gli addetti ai lavori, è finita con un’indagine a suo carico aperta il 4 dicembre 2011 dalla procura di Bologna per “presunto accesso abusivo a sistemi informatici e furto di dati sensibili”.
Politicamente ha militato fino al 1986 nella Dc, nella corrente “Forze Nuove” di Carlo Donat Cattin. Ora lo accreditano come vicino a Marcello Dell’Utri, del quale è stato il vice nei Circoli del Buongoverno, articolazione sul territorio della primissima Forza Italia. È amico di Emilio Fede e Vittorio Sgarbi. Nel Pdl ha come referenti Denis Verdini a Roma e Carlo Giovanardi in Emilia Romagna. Fatto Quotidiano e Huffington Post rilanciano una storia della quale aveva parlato per prima La Gazzetta di Modena, con articoli di Giovanni Tizian. Risale a quando Samorì ha provato a “prendersi” il partito in Emilia Romagna:
Solo lo scandalo delle tessere in mano alla camorra ha frenato, in parte, la conquista. La denuncia, qualche settimana fa, è stata messa nero su bianco da Isabella Bertolini. E sollevata anche grazie ad alcuni articoli di Giovanni Tizian, sulla Gazzetta di Modena. In uno di questi - data: 19 aprile 2012 - un tesserato sospeso dopo che il Pdl ha aperto un’indagine sulle tessere in mano ai casalesi dichiara: “Eravamo stati invitati a fare le tessere dall’avvocato Samorì”. Sullo stesso filone, sempre sulla Gazzetta, il 25 aprile compare un’altra ricostruzione (Titolo: tessere e camorra), in base alla quale parecchi tesserati avrebbero indicato come referenti nel tesseramento tutti uomini di Samorì.
Chi è Gianpiero Samorì? Primarie Pdl, ritratto dell’avvocato di Modena
Sospetti a parte, Samorì ora si è fatto un suo partito, anzi, la sua “associazione culturale [...] È molto radicata [...] Abbiamo più di centomila iscritti e sedi in tutte le regioni, munite di personale di segreteria, telefoni, fax. La sede nazionale è a Roma e stiamo ultimando le location in Liguria e in Sardegna”, ha detto a Libero. Poi, alla domanda di Barbara Romano: “Raccontano che sia stato Denis Verdini a portarla a Palazzo Grazioli”, risponde: “Ma no, io non ho neanche un’amicizia con Berlusconi. L’ho incontrato al massimo un paio di volte”.
Cosa del resto confermata da Berlusconi, che, come riporta il Corriere della Sera ha detto di “di aver incontrato una sola volta un certo signor Samorì”. Forse allora il 10 ottobre scorso Marco Bucciantini dell’Unità aveva frainteso le sue parole quando ha riportato questo virgolettato: “Con Silvio mi incontro tutte le settimane”. Samorì aveva detto anche che il Mir, la sua “associazione culturale”, aveva “già 50 mila iscritti e sedi in tutti i capoluoghi di regione”. Iscritti che risultavano 40 mila in un ritratto di Samorì fatto da Libero l’8 novembre.
Meno spazio a dubbi lo lascia il suo programma, “l’opposto dell’agenda Monti, che ha messo in ginocchio il ceto medio”: prendere 250 miliardi di euro dalle riserve auree e non della Banca d’Italia e dalle fondazioni bancarie per abbattere il debito pubblico, patrimoniale sulle “persone molto ricche” e vendita di “una piccola parte del patrimonio dello Stato”. Allo stesso tempo una riduzione delle tasse, anche per i redditi più alti.
A Repubblica ha dichiarato: “Io sono nato e cresciuto molto povero. Ho avuto tanto dalla vita. Adesso ritengo sia giunto il momento di fare qualcosa per il mio Paese. Nell’area moderata, certo. Ma sono un moderato stanco, che sogna la rivoluzione.
LA SENTENZA
Processo Mediaset, Berlusconi condannato
4 anni di reclusione per frode fiscale
Il tribunale di Milano ha anche deciso per l’ex premier l’interdizione dai pubblici uffici per tre anni. Pena di 3 anni per l’intermediario Agrama. Assolto Confalonieri. La rabbia di Alfano: "Ennesima prova di un accanimento" *
MILANO - Silvio Berlusconi è stato condannato a 4 anni di reclusione per frode fiscale a conclusione del processo per l’acquisizione dei diritti tv di Mediaset. In particolare, i giudici milanesi hanno ritenuto prescritto il reato per il 2001, ma non per gli esercizi 2002-2003 nel corso dei quali - scrivono - è stata portata a termine "una evasione notevolissima". L’ex premier è stato anche condannato all’interdizione dai pubblici uffici per tre anni, provvedimento che non è immediatamente esecutivo essendo la sentenza di primo grado. La pena inflitta al Cavaliere è più dura di quella proposta nella requistoria dalla pubblica accusa, che aveva chiesto 3 anni e 8 mesi di carcere. Assolto invece Fedele Confalonieri.
DOSSIER: I PROCESSI DI BERLUSCONI
Gli altri imputati. Giudicato colpevole anche Frank Agrama, l’intermediario cinematografico indicato dalla Procura di Milano come il "socio occulto" del Cavaliere nella compravendita dei diritti televisivi e cinematografici all’estero. Per lui la pena è di tre anni di reclusione. Daniele Lorenzano produttore ed ex manager Fininvest è stato condannato a 3 anni e 8 mesi mentre la pena per Gabriella Galetto, ex manager del gruppo in Svizzera, è di 1 anno e 6 mesi. Alcuni degli imputati di riciclaggio, tra cui il banchiere Paolo Del Bue, si sono visti derubricare l’imputazione in appropriazione indebita con conseguente prescrizione. Altri invece sono stati assolti nel merito. I giudici hanno disposto inoltre un versamento a titolo di provvisionale di 10 milioni di euro da parte degli imputati condannati, tra i quali Silvio Berlusconi, all’Agenzia delle Entrate.
Sei anni di processo. La sentenza arriva dopo quasi 10 anni di indagini e 6 di processo ’a singhiozzo’ tra richieste di ricusazione avanzate dai legali e l’istanza di astensione presentata dal giudice. E ancora slittamenti dovuti al Lodo Alfano e al conseguente ricorso alla Consulta, richiesta di trasferimento del procedimento a Brescia, legittimi impedimenti dell’allora presidente del Consiglio Berlusconi e cambi di capi d’imputazione.
Una frode per creare fondi neri. Nel merito, secondo la ricostruzione della Procura, il sistema organizzato da Fininvest negli anni Novanta per acquisire i diritti dei film americani era finalizzato a frodare il fisco. Comprando i diritti non dalle major ma da una serie di intermediari e sottointermediari era possibile gonfiarne il prezzo così da poter poi stornare la "cresta" a beneficio della famiglia Berlusconi. Fininvest quindi, secondo la tesi del pm Fabio De Pasquale, avrebbe sistematicamente aumentato il prezzo dei diritti di trasmissione dei film delle major americane. Facendo così avrebbe aumentato le voci passive dei propri bilanci, con risparmi notevoli da un punto di vista dell’imposizione fiscale, riuscendo al tempo stesso a produrre fondi neri.
Secondo il pubblico ministero, Flavio De Pasquale, Fininvest avrebbe creato fondi neri con un valore che supererebbe i 270 milioni di euro. Soldi sottratti al fisco e agli altri azionisti della società, a solo beneficio di Berlusconi.
In attesa della Consulta. Sul procedimento è inoltre ancora pendente 2 la decisione della Corte Costituzionale su un conflitto di attribuzioni con la Camera: la presidenza di Montecitorio si era rivolta alla Consulta dopo che il tribunale di Milano, nel marzo 2010, aveva rifiutato il rinvio di una delle udienze nonostante che Berlusconi, all’epoca presidente del Consiglio, fosse impegnato in attività di governo. E’ rarissimo che un Tribunale emetta sentenza mentre la Consulta deve ancora decidere su un passaggio del procedimento che è stato celebrato. Non ci sono obblighi, ma la procedura diventata prassi consolidata vuole che i giudici, in attesa di una decisione che riguarda il ’loro’ processo da parte della Corte Costituzionale, proseguano i lavori fino a sentenza, ma a quella si fermino. Ma così non ha fatto il collegio della prima sezione penale del Tribunale milanese.
La questione è di sostanza: se la Consulta dovesse decidere che quel giorno del marzo 2010 il Tribunale doveva accogliere la richiesta di rinvio avanzata dai legali dell’ex premier tutto quanto fatto dopo quella data, sentenza compresa, dovrà essere rifatto. In altre parole, verrà tirata una riga su due anni di lavoro compreso il giudizio finale. ma, evidentemente, questo è un rischio che i giudici si sono sentiti di prendere.
No comment dalla difesa. La difesa dell’ex premier ha preferito non commentare il verdetto. "Non rilascio dichiarazioni, prima voglio leggere le motivazioni", ha detto l’avvocato Niccolò Ghedini uscendo dall’aula del processo. Anche l’altro legale Piero Longo ha preferito non rilasciare dichiarazioni.
Lo sdegno di Alfano. A parlare sono invece i politici. Secondo il segretario del Pdl Angelino Alfano il pronunciamento del tribunale di Milano "è l’ennesima prova di un accanimento giudiziario nei confronti di Silvio Berlusconi, una condanna inaspettata e incomprensibile con sanzioni principali e accessorie iperboliche". "Siamo certi - aggiunge Alfano - che i prossimi gradi di giudizio gli daranno ragione e speriamo che questi giudizi giungano in fretta".
Di Pietro difende la sentenza. Agli antipodi la reazione di Antonio Di Pietro: "Tutti i nodi vengono al pettine. Nonostante tutte le leggi ad personam che Berlusconi si è fatto e nonostante la continua delegittimazione e denigrazione dei magistrati, la verità è venuta a galla", dice il leader dell’Italia dei valori. "Da oggi - prosegue - gli italiani possono prendere atto che una sentenza di primo grado considera Berlusconi un delinquente".
La posizione del Pd. Diplomatico il commento del capogruppo del Pd alla Camera, Dario Franceschini: "Le sentenze non vanno commentate, solo rispettate. Berlusconi ha avuto sentenze positive, di prescrizione e di condanna. Ma questo non è oggetto di confronto politico. E comunque, per fortuna, non lo è più".
Berlusconi scappa. L’ultima barzelletta
di Antonio Padellaro (il Fatto, 25.10.2012)
Silvio Berlusconi ha tanti difetti, ma non è certo stupido. Da quando, proprio un anno fa, venne cacciato da Palazzo Chigi a furor di popolo e di spread, ha cercato in tutti i modi di rianimare un partito morto. Ha perfino messo in giro la voce di una sua ricandidatura a premier sperando in un sussulto dei sondaggi, ma la picchiata del Pdl non si è fermata.
Ora, mettetevi nei panni di colui che per quasi vent’anni si è sentito (ed è stato) il padrone dell’Italia, per tre volte presidente del Consiglio, ma in grado di gestire un potere assoluto anche dall’opposizione grazie a una sinistra compiacente, signore incontrastato delle tv, servito e riverito come neppure il duce ai suoi tempi, uno che ha fatto votare al Parlamento qualunque cosa (perfino Ruby nipote di Mubarak), un tipo che ha trasformato le istituzioni in un’orgia non soltanto metaforica.
Ecco, mettetelo davanti alla prospettiva di guidare ancora un’armata politica di sbandati rissosi e popolata dai Fiorito e dalle combriccole dedite al furto di pubblico denaro. Perché mai questo anziano viveur dovrebbe desiderare di trascorrere le giornate con Cicchitto e la Santanchè mentre il suo impero si sbriciola e i processi incalzano?
Insomma, ridotto com’è non gli restava altro che scappare velocemente dalle macerie del Pdl raccontandoci l’ultima barzelletta del passo indietro “per amore dell’Italia”. Quanto alle primarie, difficile pensare che non si risolvano in un regolamento di conti tra clan e fazioni accelerando la dissoluzione di un partito personale inventato sul predellino di un’auto e cementato dall’odio.
Lui era già finito da tempo. Forse il giorno in cui ai vertici europei cominciarono a ridergli dietro. Adesso non gli resta che garantirsi uno straccio d’immunità con un seggio al Senato e sperare nella clemenza di Monti. A sua imperitura memoria resta il disastro a cui ha condotto il Paese.
Il senso di B. per il Senato
Lo slalom tra immunità e prescrizione
di Antonella Mascali e Caterina Perniconi (il Fatto, 25.10.2012)
Chi conosce bene Silvio Berlusconi ci ha messo un attimo a capire che le sue parole non erano di certo un azzardo. Soprattutto processuale. “Guardate che Berlusconi ha detto che si dimette da premier, non da parlamentare”, chiarisce pochi minuti dopo l’annuncio la deputata pdl Jole Santelli in Transatlantico. “Andrà a Palazzo Madama come padre nobile del partito. Alla Camera resteranno i giovani, e fate attenzione a questa parola”.
Lo scenario è quello della rottamazione. Si può fare forse per tutti, nel Pdl, ma nessuno provi a farlo con lui. Perché a Berlusconi un seggio serve, e non soltanto per fargli indossare le vesti di senatore e padre nobile: gli serve soprattutto per conservare l’immunità. È sempre il palazzo di Giustizia di Milano a preoccupare di più Berlusconi. Tra oggi e domani è attesa la sentenza del processo sui diritti televisivi. L’ex presidente del Consiglio è accusato di frode fiscale, insieme al presidente di Mediaset, Fedele Confalonieri, e ad altri imputati. Secondo l’accusa, sono stati gonfiati per anni i costi della compravendita dei diritti televisivi, allo scopo di accantonare fondi neri all’estero.
NEL CORSO DEL TEMPO, la prescrizione ha azzerato una parte dei reati. Restano in piedi le presunti frodi fiscali per il 2001, 2002 e 2003. Secondo i pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, sono stati evasi 14 milioni di euro d’imposta. La procura ha chiesto una condanna a 3 anni e 8 mesi e Berlusconi rischia grosso, in caso di sentenza sfavorevole: l’eventuale pena, infatti, potrebbe diventare definitiva, prima che si apra il paracadute della prescrizione. In astratto, i tempi ci sono: la prescrizione scatta infatti nel-l’aprile 2014 e se si considera che questa settimana contestualmente al dispositivo della sentenza saranno presentate anche le motivazioni, si guadagnano 60-90 giorni. Restano dunque 18 mesi, che possono essere sufficienti per il processo d’appello e per arrivare al verdetto definitivo della Cassazione.
Entro dicembre, poi, potrebbe arrivare anche la sentenza sul caso che ha fatto il giro del mondo: le “cene eleganti” di Arcore, le feste del bunga-bunga e i suoi rapporti con la minorenne marocchina Karima El Mahroug, in arte Ruby Rubacuori. L’ex presidente del Consiglio è imputato di concussione (ha fatto pressioni sui funzionari della questura di Milano, chiedendo il rilascio della “nipote di Mubarak”, fermata per furto a Milano il 27 maggio 2010) e di prostituzione minorile (per averla inserita, minorenne, nel contesto sessuale delle feste di Arcore, pagandola).
SETTIMANA SCORSA, Berlusconi ha pronunciato dichiarazioni spontanee in tribunale, affermando di essere stato veramente convinto che Ruby, minorenne marocchina, fosse la nipote del presidente egiziano e di essersi “informato” presso i funzionari della questura per evitare un incidente diplomatico. Sempre a Milano, Berlusconi ha in corso un altro processo che potrebbe andare a sentenza entro l’anno: quello in cui è imputato di rivelazione di segreto d’ufficio per la diffusione dell’intercettazione segreta, del luglio 2005, tra il presidente di Unipol, Giovanni Consorte, e il segretario dei Ds, Piero Fassino, che esclama: “Allora abbiamo una banca? ”. Quella registrazione (neppure trascritta per i magistrati che indagavano sulle scalate bancarie dei “furbetti del quartierino”) fu ascoltata ad Arcore la vigilia di Natale e poi pubblicata dal Giornale il 31 dicembre 2005.
A Bari, invece, il leader del Pdl è accusato, assieme al faccendiere Valter Lavitola, di aver indotto a dichiarazioni mendaci l’imprenditore Gian-paolo Tarantini, procacciatore di escort per l’ex presidente del Consiglio. Quattro procedimenti penali, quattro buoni motivi per restare in Parlamento.
La mala rottamazione
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 24 ottobre 2012)
Rottamazione, dice il vocabolario, è l’azione che si compie quando si demoliscono oggetti fuori uso: specie automobili. Vengono triturati, per riutilizzare le parti metalliche. A volte, ottieni sconti sulla nuova vettura. Applicata alle persone e al ricambio di dirigenti politici, è una delle parole più maleducate e violente che esistano oggi in Italia. I rottamatori sono fieri di chiamarsi così, e quando l’operazione riesce esibiscono le spoglie del vinto: «La rottamazione comincia a produrre i primi frutti», ripeteva Matteo Renzi, domenica in un’intervista in tv.
La lotta per l’avvicendamento ai vertici della politica ha sue ragioni, e lo stile brutale risponde a un’ansia, enorme e autentica, di cambiamento: si vorrebbe azzerare l’esistente, e come nella poesia di Rimbaud ci si professa «assolutamente moderni». È un conflitto legittimo, anche necessario: che va portato alla luce perché nell’ombra degenera o ammutolisce. È il grande merito del sindaco di Firenze, come di Grillo. Impressionante è la campagna di quest’ultimo in Sicilia: lunga, martellante, è rifiuto del mutismo. Da due settimane è nell’isola; nessuno s’era messo per tanto tempo in ascolto delle sue collere.
Ma la parola rottamazione, anche se Renzi intende cambiamento, resta ustionante e parecchi la prendono alla lettera. L’avversario-rivale è trattato alla stregua di arnese metallico. Se l’idea della rottamazione non avesse alle spalle una storia lunga, di degradazione della persona a oggetto servibile, non susciterebbe tanto disagio. Non sveglierebbe fantasie di uomini «di troppo», di rottami. Forse chi la usa (non solo il sindaco di Firenze) non se ne rende conto, ma il termine alligna nelle terre della pubblicità ed è lessico della generazione Berlusconi. È nato con lui, con le sue disinvolture verbali. Non ingentilisce ma corrompe il discorso pubblico. È figlio della rivoluzione non solo politica ma linguistica, di stile, che Berlusconi inaugurò nel ‘94. Fu una rivoluzione della noncuranza, del «tutto è permesso»: non badava alle conseguenze di quel che veniva detto, ai tabù infranti.
È una parola del tutto anomala, inoltre. In Europa o America, nessun politico che magnifichi il Nuovo oserebbe condurre una campagna in cui gli anziani, i seniores, vengano definiti ferrivecchi. Nell’aprile 2002, quando il socialista Jospin alluse all’età del rivale Chirac, i sondaggi lo punirono, screditandolo. Aveva avuto l’impudenza e l’imprudenza di dire che il Presidente era «affaticato, invecchiato, vittima dell’usura». Gli elettori non amavano Chirac, ma la mancanza di gentile rispetto dell’anzianità, in Jospin, fu ritenuta intollerabile.
Una cosa è attaccare la linea dell’avversario: soffermandosi su di essa, senza censure. Altra cosa è assalire la persona. Se rottamazione scomparisse dal vocabolario giornalistico e politico non sarebbe male. Conterebbe più la sostanza: l’errore di Veltroni, quando affondò l’ultimo governo Prodi annunciando che il Pd, rompendo le catene della sinistra radicale, sarebbe «corso da solo» (come se non fosse stato il centro a silurare Prodi). O si potrebbe raccontare D’Alema: il suo rapporto sprezzante con giornalisti e magistrati, i piaceri che fece a Berlusconi, i dispiaceri che procurò a Prodi, l’influenza eccessiva esercitata su Bersani. Ci dedicheremmo a quel che Renzi vuol dire, e alla fiducia che riscuote in persone di prestigio come Pietro Ichino.
Rottamazione è un cartello stradale che depista: non dice quel che promette, né sull’Europa né sulla corruzione né sulla ‘ndrangheta che ci assilla. Vale la pena ripercorrere la storia di questo vocabolo, tanto più cruento in un paese fragile: dopo la Germania, siamo il popolo che più invecchia in Europa. Vale la pena tener viva la memoria, perché lo sgarbo non è episodico ma ha radici in una sistematica denigrazione dei più anziani: nei luoghi di lavoro e nella politica.
Il Parlamento si era appena insediato, nel ‘94, e fu subito offensiva contro un senior come Norberto Bobbio. Eletto alla Camera alta, Franco Zeffirelli giubilò: la Seconda repubblica aveva spazzato via «la triste sfilata dei senatori a vita, uno più cadaverico dell’altro, una vecchia Italia che non vogliamo più e che si è seppellita da sola».
Facendogli eco, Maurizio Gasparri diceva di Indro Montanelli: «Quello è arrivato al tramonto della vita e anche delle capacità intellettuali del suo cervello»
L’offensiva rottamatrice proseguì, più feroce, nel 2006-2008. Ricordiamo gli improperi riversati su Rita Levi Montalcini, e sulla sua tenace presenza in Senato per sostenere il governo di centro sinistra. Sul Giornale del 14-7-07, Paolo Guzzanti parlò di vecchi «scongelati, inchiavardati allo scranno e costretti a pigiare col ditino il pulsante guidato da una senatrice badante». Storace promise «un bel paio di stampelle da consegnare a domicilio. Si comincia dalla senatrice a vita Levi Montalcini ». Su Libero, diretto da Vittorio Feltri, apparve il titolo d’apertura: «La dittatura dei pannoloni».
Siamo dunque lontani dal vero, quando scriviamo che Berlusconi è finito, e con lui il lessico d’insulti della Lega. Il loro modo d’essere e di dire sgocciola come da una flebo nelle vene di un’intera generazione. È il suo marchio, così come le parole del ’68 intrisero due generazioni. I francesi faticano ancor oggi a uscire dalla generazione Mitterrand. Faticheremo anche noi, più di quel che si dica.
Il cambiamento è altra cosa. È la crisi non come decadenza ma trasformazione: un desiderio che Renzi intuisce, e vuol incarnare. È un conflitto ineluttabile: fra ieri, oggi, domani. È un progetto diverso di crescita, non nuovo tra l’altro, se già nel 1987 il rapporto Brundtland scriveva: «Lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni». È un orizzonte dato a giovani cui non si può dire, come il ministro Fornero: «Siete troppo choosy!» («schizzinosi » è mal tradotto, cancella il furto della scelta). E che volto devono avere le nostre città, i nostri pubblici spazi e servizi? Come congegnare pensioni che non tramutino gli anziani in gente bandita o - abbondano anche qui truci aggettivi - in esuberi o esodati? Dai tempi dei Viceré e del Gattopardo sappiamo che cambiar facce non basta alle Grandi Trasformazioni.
Rottamazione oltre che parola brutta è diseducativa, non prepara alcunché. Alla sua insegna non può svolgersi dibattito fra candidati alla guida del Paese. Eppure di discussioni dirette c’è bisogno: per districarsi da soli, senza mediatori nei giornali o in Tv. Nelle primarie americane e francesi è la norma, sebbene scabrosa.
Il rottamatore di professione, presente ovunque nei partiti, ti fruga, alla ricerca degli istinti più bassi, delle passioni più tristi. Viene in mente il Viaggio agli inferni del secolo di Buzzati: nei sotterranei milanesi, sotto la metro, c’è un mondo parallelo in cui i vecchi, inservibili, sono scaraventati dalle finestre nei marciapiedi.
Entrümpelung, parola che Buzzati prende dal lessico nazista, significa repulisti, sgombero: è una variante dell’igienica rottamazione. Anche quel repulisti viene celebrato come «festa della giovinezza, della rinascita, della speranza», del Mondo Nuovo.
Accade così che il diverso appaia come uomo di troppo: povero o vecchio, esodato o immigrato. Sono i disastri del moderno, non del barbarico. Una volta che te la prendi con classi d’età, quindi con la biologia, entri nella logica del capro espiatorio, dell’innocente che paga per il collettivo. Il rito è la ripetizione di un primo linciaggio spontaneo, secondo René Girard, che riporta ordine in seno alla comunità. Nel linciaggio, la violenza di tutti contro tutti sfocia in violenza di tutti contro uno. Sarebbe bello se a dirlo, con voce non bassa, fossero anche i giovani
Perché elogio l’antiberlusconismo
di Franco Monaco (l’Unità, 12 ottobre 2012)
Secondo un luogo comune invalso anche a sinistra non si deve indulgere all’antiberlusconismo. Mi è chiaro il senso di quella raccomandazione: le ossessioni, comprese quelle virtuose, accecano lo sguardo e inficiano la lucidità dell’analisi; non si devono demonizzare le persone che, in buona fede, sono incappate in quella fallace illusione; ci si deve meritare il consenso sulla base di una proposta declinata in positivo .... Sono perfettamente d’accordo. Ma a una precisa condizione: che quella lunga stagione, politica e non solo, segnata dalla ingombrante ipoteca di Berlusconi, non sia consegnata all’oblio. Che la lezione che dobbiamo ricavare da essa non sia precipitosamente archiviata.
Se ben inteso, a mio avviso, l’antiberlusconismo è una virtù. Per più ragioni. La prima è che l’uomo, con il suo smisurato sistema di potere, è ancora tra noi. Spesso ci si scorda che al Senato egli ancora dispone della maggioranza, che continua ad esercitare uno straordinario potere attivo o di interdizione, che ancora da lui, dalla sua iniziativa e persino dalle sue esitazioni, dipende la sorte della destra politica italiana, che il volume di fuoco dei suoi media tuttora non è minimamente intaccato, che il suo potere economico è ancora enorme e le sue disponibilità finanziarie pressoché infinite. Come attestano le indagini giudiziarie rosa e nere che lo riguardano. Ignorarlo sarebbe un errore ottico letale.
Seconda ragione: è d’obbligo tenere fermo il giudizio di valore ed esercitare l’arte della distinzione rispetto al ciclo berlusconiano. Taluni nuovisti anche a sinistra teorizzano che dovremmo metterci dietro le spalle la coppia berlusconismo-antiberlusconismo. Quasi fossero due mali equivalenti. Quasi che avere contrastato politicamente e culturalmente il Cavaliere fosse stato un errore o comunque un’esagerazione, un comportamento di stampo estremistico.
Sul punto, ricordo sempre la reazione insolitamente vivace e risentita di un uomo per indole mite e controllato come Leopoldo Elia, che respingeva l’accusa di antiberlusconismo come una sorta di ricatto dialettico irricevibile, come la più stupida e immotivata delle imputazioni: che colpa ne abbiamo, notava, se quel concentrato di anomalie che minano la democrazia e la vita morale e civile si condensa nominativamente in una persona, che porta un nome e un cognome? E’ un fatto, non una nostra costruzione artificiale.
Vi è una terza ragione: l’oblio e la rimozione delle distinzioni conduce a una narrazione fuorviante del passato politico recente che ha messo radici anche tra noi. Mi spiego: tutti i governi della cosiddetta seconda Repubblica andrebbero inscritti sotto la cifra del fallimento. Una falsificazione cui invece dovremmo reagire. Come si può onestamente sostenere che i governi nei quali figuravano Prodi, Ciampi, Amato, Napolitano, Padoa Schioppa, Bersani possano essere giudicati alla stessa stregua dei governi Berlusconi? Tale fuorviante narrazione non è priva di conseguenze per il presente e per il futuro. La sbrigativa e illusoria ricetta della rottamazione di tutto e di tutti affonda qui le sue radici. Ignora un paio di dettagli: grazie all’Ulivo la sinistra ha assunto per la prima volta la responsabilità del governo nazionale dopo mezzo secolo e ha portato l’Italia in Europa.
Ancora, la rimozione dell’antiberlusconismo e cioè della consapevolezza della marcata unicità del caso Berlusconi, non a caso osservato con un misto di curiosità, allarme e commiserazione fuori dei nostri confini, non è priva di conseguenze sul piano della visione del sistema politico. Si è inclini a decretare il fallimento del bipolarismo, cioè di una sana democrazia competitiva, anziché a considerare che appunto a quella gigantesca anomalia si deve il suo cattivo, concreto funzionamento.
E di conseguenza a rigettare il bipolarismo proprio quando esso, depurato dall’ipoteca di quell’anomalia, potrebbe dispiegarsi positivamente. O addirittura si è spinti a rinunciare alla politica democratica tout court per consegnarsi alla tecnocrazia, al mito del pensiero unico dal quale cavare la ricetta unica appaltata a chi dispone dei saperi specialistici.
Infine, smarrendo la precisa memoria della peculiarità del fenomeno Berlusconi, si può abbassare la guardia sui due profili di esso che possono perfettamente sopravvivere all’uomo e alla sua parabola politica. Cioè le tossine del berlusconismo che più o meno consapevolmente si sono depositate in noi. Due in particolare: il leaderismo, il cesarismo, le scorciatoie populiste che, pur sotto varie vesti, hanno preso corpo ben oltre i confini del suo partito e del suo campo; una concezione della vita prima e più che della politica ossessivamente mirata al successo, al denaro, al potere personale e di gruppo.
Può sembrare strano, ma, a mio avviso, non abbiamo riflettuto ancora abbastanza sulla devastazione prodotta dalla concretissima idea-forza inoculata da Berlusconi: quella che con il denaro ci si possa comprare tutto, tutti e tutte.
Giustamente ci siamo scandalizzati per i bunga bunga di un uomo di Stato, per le donne ridotte a merce e a tangente. Ma non ci scandalizziamo più abbastanza per la legione di uomini e donne che siedono in parlamento, cioè in una istituzione che riveste una sua sacralità, pronti a servire le cause più invereconde.
Il voto sulla nipote di Mubarak è solo la punta di un iceberg di diciotto anni di vita parlamentare ostaggio degli interessi materiali e delle spericolate vicissitudini di un uomo. Suscita sconcerto e irritazione lo spettacolo dei docili e spesso mediocri servitori da lui miracolati con posti, denaro e potere che oggi, a fronte della sua declinante parabola, cercano di mettersi in salvo. Così pure, lo confesso, mi lasciano basito i giovani «formattatori» del Pdl.
Di sicuro io sono all’antica e un po’ bacchettone, ma ancora non riesco a non provare sbigottimento di fronte a centinaia di parlamentari votati al servilismo e a giovani che tutt’ora guardano a Berlusconi come a un modello. Vi rilevo un che di mostruoso, l’ennesima testimonianza della profondità e dell’estensione di quelle tossine.
Superare le diseguaglianze
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 05.08.2012)
Preparandosi a riprendere in mano il timone del governo, la politica farebbe bene a riflettere sulle ragioni della sua Caporetto, nel novembre 2011. Ciò che ha atterrato l’onorabilità della politica non furono tanto gli scandali sessuali del premier o le diffusissime vicende di corruzione, ma l’impotenza a fare il suo lavoro: governare. L’incapacità, non la disonestà, ha mandato a casa il governo Berlusconi. Questa accusa è molto più grave di quella di corruzione. Poiché mentre la disonestà è l’esito di una deturpazione che non mette in discussione la politica ma alcuni suoi praticanti, l’inadeguatezza a prendere decisioni mette in luce un limite oggettivo della politica democratica. Infatti fu il sapere di dover andare di fronte agli elettori con programmi di rigore e sacrifici, e di rischiare di perdere il consenso, che ha reso il governo Berlusconi impotente. Con il governo dei tecnici è circolata un’idea perniciosa: che la forza di un governo sia in proporzione della sua non rispondenza agli elettori. Questo è il vulnus democratico contenuto nella filosofia di un governo tecnico. L’uscita dal quale deve necessariamente corrispondere alla rinascita della politica delle idee e della progettualità con la quale presentarsi agli elettori.
Difficile prevedere che cosa lascerà il governo Monti. Ma una cosa sembra chiara proprio in virtù di questa premessa: con l’avvento del governo dei “tecnici” la politica dei politici si trova di fonte a un compito impervio, che è quello di dimostrare di essere meglio di un governo senza politica partigiana; che un governo che deve rendere conto agli elettori è migliore e altrettanto capace di un governo tecnico. Ritornare a parlare di programmi e di idee è la via maestra. Ed è urgente. Un problema tra i più urgenti che una politica democratica dovrà affrontare sarà quello della crescente diseguaglianza della società italiana. La diseguaglianza è un problema per la democrazia, soprattutto quando si radica nelle generazioni, perché balcanizza la società e rompe la solidarietà tra cittadini, inducendo i pochi a secedere, se così si può dire, dall’obbligo di contribuire per chi non sente più come uguale.
La società italiana sta da alcuni anni percorrendo una strada a ritroso rispetto a quella nella quale si era immessa dopo la Seconda guerra mondiale: dall’eguaglianza alla diseguaglianza. Lo documentano ricerche effettuate dal 2009 al 2012 da istituti diversi come l’Ocse, la Banca d’Italia e l’Istat. Da circa quindici anni, si assiste a una progressiva disuguaglianza dei redditi e un aumento progressivo della povertà. Come osserva Giovanni d’Alessio in uno studio per la Banca d’Italia di qualche mese fa, il rapporto tra la ricchezza e il reddito è all’incirca raddoppiato negli ultimi decenni; insieme è aumentato il ruolo dei redditi da capitale rispetto a quelli da lavoro.
In altri termini, la ricchezza sta assumendo un ruolo via via crescente tra le risorse economiche che definiscono la condizione di benessere di un individuo mentre declina il ruolo del lavoro. Un significativo aspetto della disuguaglianza riguarda la sua tendenza a trasferirsi da una generazione all’altra, legando sempre di più il destino dei figli a quello dei genitori. È questo un fattore tra i più devastanti e che documenta direttamente la stabilizzazione delle classi. Perché disuguaglianza non occasionale, non per personale responsabilità, ma di classe, un fatto che vanifica ogni più ragionevole discorso sul merito individuale.
Questo trend classista ci dice in sostanza che lavoro dipendente e lavoro autonomo sono divaricati (il reddito del secondo aumenta molto più in proporzione al reddito del primo) e che i punti di partenza (la famiglia) diventano sempre più determinanti e difficilmente neutralizzabili da parte degli individui. Non a caso, insieme alla divaricazione dei redditi autonomi e da lavoro si ha la divaricazione degli accoppiamenti: sempre più persone si sposano con persone con reddito simile. Insomma poveri sposano poveri, ricchi sposano ricchi - e per conseguenza, tendenza al trasferimento delle diseguaglianza e dei privilegi da una generazione all’altra.
La democrazia non ha mai promesso né perseguito l’obiettivo di rendere tutti i cittadini economicamente eguali, ma ha promesso con formale dichiarazione nelle costituzioni e nelle carte dei diritti, di “rimuovere gli ostacoli” che impediscono a uomini e donne, diversi tra loro sotto tanti punti di vista (dal genere al credo religioso alla ricchezza) di aspirare a una vita dignitosa. Vi è nella democrazia politica un invito assai esplicito a mai interrompere il lavoro di manutenzione sociale operando sulle condizioni di accesso o le “capacitazioni” per usare un termine coniato da Amartya Sen.
Ecco perché a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale le democrazie hanno dichiarato che i livelli di disuguaglianza nella ricchezza devono e possono essere mitigati agendo sui meccanismi che la determinano, ad esempio con politiche in grado di assicurare che il godimento di alcuni diritti fondamentali raggiunga più pienamente e uniformemente la popolazione.
Scrive d’Alessio, che “la scuola pubblica erogando un servizio a tutti, tende a ridurre la disuguaglianza tra i cittadini in termini di conoscenze e di abilità, presupposto di una quota rilevante di quella in termini di ricchezza, riducendo in particolare il divario che caratterizza coloro che provengono dalle classi sociali più svantaggiate”. Lo stesso vale per il servizio sanitario, che rimuove un ostacolo forse ancora più fatale per chi non ha altra ricchezza se non il proprio lavoro.
Eppure proprio queste “spese sociali” sono oggi messe in discussione e decurtate. I programmi politici sono quindi determinanti perché a consolidare le classi insieme al declino fortissimo dei matrimoni interclassisti interviene proprio lo smantellamento di quel fattore sul quale si era costruita la democrazia moderna: la politica sociale, che significa la ridistribuzione dei redditi attraverso i servizi destinati alla salute e all’istruzione; in questi due settori chiave che da sempre hanno contribuito a contenere il divario tra le classi lo Stato investe sempre di meno, dimostrando nei fatti di non essere in grado o di non volere più usare la spesa pubblica per obiettivi democratici, per rimuove gli ostacoli alla crescita della disuguaglianza, come promesso dalla Costituzione.
Quousque tandem abutere, Berlusko, patientia nostra?
di Rosario Amico Roxas
Non credo che l’ambasciatore degli USA a Roma abbia usato il latino ciceroniano, ma il succo del discorso deve essere stato il medesimo.
Con molta riservatezza, nel silenzio di un incontro che a nessuno conviene pubblicizzare, l’ambasciatore degli USA ha convocato Berlusconi, che si è precipitato, pressato dai tanti scheletri che giacciono in tutti i suoi armadi sparsi nelle sue regali dimore. Lo zerbino, normalmente utilizzato per rifare il look alla suola delle scarpe, è stato lasciato a casa mentre il più diplomatico Gianni Letta ha accompagnato l’ex premier ad quest’incontro che ha tutto il sapore di un “redde rationem”.
L’argomento affrontato è facile intuirlo, non può trattarsi che della melina cavalleresca: • mi presento... • forse NO... • probabilmente SI... • dipende dalla legge elettorale.... • sarebbe meglio candidarmi alla presidenza della Repubblica imponendo il semipresidenzialismo, profittando della maggioranza numerica che ancora c’è in parlamento, non ancora sostituita da una più democratica maggioranza politica... • ricominciare dagli imprenditori (almeno quelli non ancora in galera)... • è tutta colpa del tradimento di Fini... • la maggioranza del paese mi vuole... • riprendiamo l’alleanza con la Lega... • voglio le frequenze TV per mediaset a titolo gratuito... • voglio l’esclusivo controllo del gioco d’azzardo per Mondadori... • voglio una sanatoria per i segreti di Stato a La Certosa... • voglio la depenalizzazione della concussione.... • voglio... devo ancora pensarci, lo comunicherò al momento opportuno...
Questa giostra di dichiarazioni ha avuto come risultato l’andamento dello spread, vanificando l’attività del governo Monti, perché i mercati e gli investitori guardano all’immediato presente più che alle proiezioni sul futuro prossimo o remoto; così gli USA intervengono con riservatezza, ben sapendo che in Italia nulla viene pubblicizzato più degli avvenimenti riservati.
C’è un collegamento da fare... Negli USA l’immagine di Bush è sparita da tutte le scene politiche, in cambio • nessuno più parla delle contraddizioni sull’attacco dell’11 settembre alle due torri, • nessuno parla delle menzogne propinate al popolo americano per accettare le guerre in medio-oriente, • le forniture di armi autorizzate da Pentagono ed esportate, tali da costituire il 35% del PIL americano, • i costi proibitivi che hanno provocato la bolla economica trasformata in crisi mondiale; • si tace anche sui finanziamenti americani alla mediaset per 6,5 miliardi di dollari, proprio in coincidenza con la decisione di inviare il contingente italiano in Iraq, in “missione di pace”, ma sottoposto al “Codice militare di Guerra”.
Argomenti, questi che pesano tanto sulla figura di Bush, unanimemente definito un criminale di guerra, che su quella di Berlusconi, suo servo interessato, che di quella tragica situazione trasse profitti personali. In quel periodo l’Italia divenne la seconda nazione al mondo produttrice ed esportatrice di armi ed esplosivi, per cui sarebbe logico ipotizzare che molti dei caduti in quelle disgraziatissime guerre siano stati colpiti da armi o esplosivi “made in Italy”.
Di cosa parleranno i due ?
Penso proprio che a parlare sarà solamente l’ambasciatore americano; Berlusconi potrà solamente ascoltare . Che i temi saranno quelli accennati lo dimostra l’assenza di Al Fano, che è meglio che non sappia in quali pesti si trova il suo signore e padrone, e poi questi sono argomenti da “grandi”.
Se dopo quest’incontro Berlusconi farà dieci/dodici passi indietro, significherà che gli scheletri nei suoi armadi lo hanno obbligato a più modeste aspettative. Gli rimane solo la possibilità di ottenere un salvacondotto che gli eviti guai più pesanti e questo l’America ha tutto l’interesse a farlo per non scoprire i suoi di scheletri nell’armadio.
Rosario Amico Roxas
Il triste sequel del Cavaliere
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 18 luglio 2012)
Quasi nessuno, tra i politici italiani, e in particolare tra quanti sostengono Monti, sembra propenso a pensare che il declassamento notificato venerdì da Moody’s sia in connessione con l’annuncio di un ritorno di Berlusconi alla guida dell’Italia. Ritorno confermato da Alfano due giorni prima, ma da tempo evocato, invocato, dai fan dell’ex premier sui siti web. C’è stata invece un’unanime insurrezione, molto patriottica e risentita, e l’inaffidabilità delle agenzie di rating (Moody’s, Standard & Poor’s) è stata non senza valide ragioni denunciata: le stesse agenzie che sono all’origine della crisi scoppiata in America nel 2007, continuano infatti a dettar legge, fidando nell’oblio di cittadini, governi, istituzioni internazionali.
Ciononostante, quel che veramente conta resta nell’ombra: non in Italia, ma ovunque in Europa, il verdetto di Moody’s (che pure non nomina il fondatore di Forza Italia) viene d’istinto associato all’infida maggioranza di Monti, e più specialmente alla decisione di Berlusconi di tentare per la sesta volta la scalata del potere: per ridiventare premier o salire al Quirinale, ancora non è chiaro. Monti sarebbe insomma un interludio, non l’inizio di una rifondazione della Repubblica.
È quanto dicono le radio francesi, gli editoriali sulla che senza infingimenti adombra la possibilità di una ricomparsa in Italia del Der Pate, Teil IV, il Padrino parte IV: il nomignolo, si aggiunge, è da anni diffuso in Europa. Accade spesso che lo sguardo esterno dica verità sgradevoli a Paesi che da soli non osano guardarsi allo specchio: è successo nell’Italia postmussoliniana come nella Francia dopo il fascismo di Pétain. La Sueddeutsche chiede che l’Europa lanci «un segnale chiaro: con Berlusconi il Paese si riavvicinerà al baratro», e non a causa dei festini a Arcore.
Il commentatore Stefan Ulrich non sarà probabilmente ascoltato, perché purtroppo così stanno le cose nell’Europa della moneta unica: paradossalmente i governi autoritari godono di margini più ampi di libertà, da quando le loro economie sono tutelate da Bruxelles. I parametri finanziari vengono prima della democrazia. L’Unione s’allarma assai più del bilancio greco che dello Stato di diritto calpestato in Ungheria, Romania o Italia, ottusamente trascurando i costi immensi della non-democrazia, della corruzione, dell’impunità, della consegna alle mafie di territori e attività economiche. Resta lo sguardo severo, molto più del nostro, che da fuori cade su di noi.
Si pensi al candore con cui l’economista Nouriel Roubini dice, a Eugenio Occorsio su la Repubblicadel 15 luglio: «Sicuramente Monti ha molto credito presso la Merkel, infinitamente più del suo predecessore che si faceva notare solo per la buffoneria e i comportamenti personali diciamo eccentrici. Guardate che i mercati stanno cominciando a considerare con terrore l’ipotesi di un ritorno di Berlusconi al potere. Sarebbe un incubo per l’Italia, per il suo spread e per il suo rating. So per certo che la Merkel non vorrebbe neanche guardarlo in faccia».
C’è dunque qualcosa di malsano nella rabbia suscitata in Italia da Moody’s, quali che siano gli intrallazzi dell’agenzia. C’è una sorta di narcotizzata coscienza di sé. Una nube d’oblio ci avvolge, coprendo pericoli che altri vedono ma noi no: il rientro di Berlusconi è considerato dagli italiani o normale, o un incidente di percorso. Significa che da quell’esperienza non siamo usciti. Che questo governo, troppo concentrato sull’economia e troppo poco su democrazia e diritto, non incarna la rottura di continuità che pareva promettere.
Non ne sono usciti i partiti, se l’unico aggettivo forte è quello di Pier Luigi Bersani: «agghiacciante». Che vuol dire agghiacciante? Nulla: è il commento di un passante che s’acciglia e va oltre. Più allarmante ancora l’intervista che Enrico Letta (vice di Bersani) ha dato alCorriere della Serail 13 luglio, e non solo perché preferisce «che i voti vadano al Pdl piuttosto che disperdersi verso Grillo» (le accuse rivolte a Grillo possono esser rivolte a gran parte del Pdl e alla Lega).
La frase più sconcertante viene dopo: «Non vorrei che si tornasse alla logica dell’antiberlusconismo e delle ammucchiate contro il Cavaliere». Per la verità, di ammucchiate antiberlusconianese ne sono viste poche in 18 anni. Altro si è visto: la condiscendenza verso il Cavaliere, la rinuncia sistematica, quando governava la sinistra, a tagliare il nodo del conflitto d’interessi e delle leggi ad personam.
Non solo: l’ascesa di Berlusconi fu permessa, favorita, nonostante esistessero leggi che avrebbero potuto allontanare dal potere un grande magnate dei mezzi di comunicazione. Fu Violante, il 28 Febbraio 2002 alla Camera, a rivelare i servizi fatti dai Ds a Berlusconi: «Per certo gli è stata data la garanzia piena,non adesso ma nel 1994, che non sarebbero state toccate le televisioni, questo lo sa lui e lo sa Gianni Letta. Comunque la questione è un’altra: voi ci avete accusato di regime, nonostante non avessimo fatto il conflitto d’interessi, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni, avessimo aumentato di cinque volte durante il centrosinistra il fatturato di Mediaset». Morale (o meglio immorale) della storia: Berlusconi poté candidarsi nonostante un decreto (30 marzo 1957, n° 361) che dichiara ineleggibili i titolari di pubbliche concessioni.
Questo significa che il primordiale male italiano (l’assenza di anticorpi, che espellano da soli le cellule malate senza attendere i magistrati o la Corte costituzionale) resta non sanato. Che un esame del berlusconismo tuttora manca. Il conflitto di interessi è anzi diventato normale, da quando altri manager «scendono in campo». Montezemolo sarà forse candidato, e nessuno l’interroga sugli interessi in Ferrari, in Maserati, nel Corriere della Sera,nel Nuovo trasporto viaggiatori (Ntv). Il silenzio sul suo conflitto d’interessi banalizza una volta per tutte quello di Berlusconi. Non è antipolitica, la convinzione che i manager siano meglio dei politici?
Viene infine il governo. Un governo di competenti, che non sembrano attaccati alla poltrona. Una persona come Fabrizio Barca lavora senza pensare a carriere politiche. Dice addirittura che per fare riforme per la crescita servono «visioni del capitalismo che solo un mandato elettorale può attribuire», e solo un «governo nato da una competizione elettorale vera» può attuare (la Repubblica, ) 15 luglio.
Monti ha fatto molto per ridare credibilità all’Italia. Quando parla dell’Unione, è senza dubbio più preparato di Hollande e della Merkel. Ma a causa della maggioranza da cui dipende, molte cose le tralascia. Ha tentato di restituire indipendenza alla Rai, ma sulla giustizia i compromessi sono tanti: a cominciare dalla legge contro le intercettazioni che potrebbe passare que-st’estate, fino ai legami tuttora torbidi che conferiscono al clero un potere abnorme sulla politica.
L’ultimo episodio riguarda la Banca del Vaticano, lo Ior. Risale al 4 luglio l’ordine che il governo ha dato alle autorità antiriciclaggio della Banca d’Italia, invitate a dire quel che sapevano sui traffici illeciti dello Iot, affinché tenessero chiusa la bocca in una riunione degli ispettori di Moneyval, l’organismo antiriciclaggio del Consiglio d’Europa convocato a Strasburgo. Talmente chiusa che Giovanni Castaldi, capo dell’Unità di informazione finanziaria (Uif, organo di Bankitalia), ha ritirato i suoi due delegati dall’incontro.
Gli anticorpi restano inattivi, se certe abitudini persistono. Se il governo si piega a poteri non politici. Se lascia soli i magistrati che indagano sulla trattativa Stato-mafia. Se non garantisce che il vecchio non tornerà. Non solo il vecchio rappresentato dal debito pubblico. Anche il vecchio che per anni ha offeso lo Stato di diritto. Possibile che Il Padrino-Parte IVsia un film horror per i giornali tedeschi, e non per gli italiani?
“Peggio di Berlusconi nessuno mai” un italiano su due boccia il ritorno
E ora il Cavaliere è costretto a inseguire le novità della politica
di Ilvo Diamanti (la Repubblica, 16.07.2012)
CITAZIONE ironica, perché Berlusconi non se n’è mai andato. Abbandonare così: non gli è possibile. Non solo perché è “costretto” a difendersi. Dai magistrati, i nemici di sempre. E di fronte alle minacce contro i suoi interessi media-televisivi. Non se ne poteva andare così, soprattutto perché non gli è possibile immaginare la politica italiana - oltre che il centrodestra - altrimenti. Senza di lui. D’altronde, è difficile per tutti concepire l’ultimo scorcio della nostra storia. Senza di lui. Basta scorrere i dati del sondaggio di Demos- Coop per “la Repubblica delle Idee”.
Tra gli avvenimenti che hanno segnato positivamente l’Italia, negli ultimi trent’anni, il 55% degli intervistati indica “la fine del governo Berlusconi”. Il 25% “la discesa in campo del Cavaliere”. Secondo il 33% degli italiani, si tratta degli avvenimenti che - nel bene e nel male - hanno cambiato maggiormente la storia del Paese. In particolare, la (prima) discesa in campo. Berlusconi ha contribuito a scrivere la biografia della Nazione degli ultimi trent’anni, più di Tangentopoli, dell’immigrazione, della Padania. In misura minore, solamente, della crisi economica e dell’Euro. Certo, si tratta di opinioni espresse “oggi”. E, com’è noto, il presente orienta il nostro sguardo sul passato.
Tuttavia nell’autobiografia collettiva del Paese Berlusconi occupa uno spazio importante. Basti considerare le classifiche dei personaggi che hanno cambiato l’Italia negli ultimi trent’anni. Realizzate in base alle opinioni espresse dagli italiani liberamente, senza liste di nomi preconfezionate.
Nel bene come nel male, al primo posto c’è lui. Con misure ben diverse, certo. Il 13% degli intervistati indica Berlusconi come uno dei due personaggi che hanno caratterizzato positivamente la nostra storia recente. (Un punto in più rispetto al Presidente Napolitano). Mentre sono molto più numerosi quanti lo considerano l’uomo che ha cambiato “in peggio” il Paese. Oltre una persona su due. Per la precisione: il 54%. Mentre Monti, Prodi, Di Pietro, Bossi, perfino Craxi - unico sopravvissuto della Prima Repubblica, nella memoria - sono al di sotto del 10%. Berlusconi. Al tempo stesso, il più amato e il più odiato. Della Seconda Repubblica. Al punto da dilatarla nel tempo. Oltre la caduta del muro di Berlino. D’altronde, Berlusconi l’ha rimpiazzato con un nuovo muro. Il muro di Arcore. Tenendo vivo l’Anticomunismo senza il Comunismo. Oggi Berlusconi conta di risorgere di nuovo. Come dopo la sconfitta del 1996. Come nel 2006, quando tutti lo davano per finito, per primi i suoi alleati. E lui trasformò una sconfitta sicura in un quasi-pareggio. Cioè, viste le previsioni, in un grande successo. Conquistato, di larga misura, due anni dopo.
Come nelle precedenti resurrezioni, Berlusconi sottolinea la svolta cambiando il nome. Da Forza Italia alla Casa delle Libertà. E ancora, al Popolo delle Libertà. Domani si vedrà. Non Forza Italia. Significherebbe un “ritorno alle origini”. Mentre Berlusconi intende annunciare un “ritorno al futuro”. E poi, FI decreterebbe la fine senza appello di AN. Potrebbe sollevare ulteriori risentimenti, nel centrodestra. Berlusconi sceglierà un nome nuovo, che evochi il “suo” passato ma anche il cambiamento. Utilizzerà, come sempre, le tecniche del marketing - sondaggi, ricerche di mercato - per testare il marchio più efficiente. Lo slogan più efficace. Ma alla fine deciderà lui. Come sempre. Anche per quel che riguarda la squadra. Sceglierà persone fedeli e “significative”. Che “significhino” la nuova svolta.
La fine del Cavaliere Gaudente. Per questo la Minetti se ne deve andare. Subito. Per spezzare l’anello di congiunzione con le Olgettine, i Bunga Bunga, Ruby, Noemi, le Feste di Arcore e Villa Certosa. Una stagione finita. Berlusconi cercherà di scrivere una nuova “Storia Italiana”. Coerente con il sentimento del tempo. Sospeso fra paure economiche e insofferenza politica. Nonostante sia un’impresa impensabile, anche per lui, assumere un profilo misurato. Da “peccatore pentito”.
Berlusconi: cercherà la sintesi del Grillo-Montismo. Tendenze di successo di questa fase. La domanda di competenza e di democrazia diretta. Il Tecnico e il Blogger Predicatore. Berlusconi proverà a mixarli, a intercettarne il segno. (Una novità che altri soggetti, e non lui, annuncino le novità. E che lui sia costretto a inseguire.) Una missione complicata. Conquistare la credibilità dei mercati, il rispetto dei leader internazionali. Per primi, quelli europei. Che ne temono il ritorno più di molti italiani. E ancora, andare oltre la sua professionalità. Oggi retrò. Perché lui è il leader della democrazia mediale. Non digitale. Lui: sa controllare la televisione.
La Rete è estranea alla sua cultura. Perché perfino a Grillo risulta difficile governarla verticalmente. Personalizzarla. E poi è troppo diretta. Ve lo immaginate il Cavaliere comunicare in Rete e dunque “senza rete” con chiunque? Senza “mediazioni”? Ci proverà, Berlusconi, a risorgere di nuovo. Intanto, ha esibito un sondaggio. Come nel 2006, quando si affidò all’agenzia americana PSB. Serve a dire che è ancora competitivo. E tanto più gli altri lo inseguiranno, con altri sondaggi di segno opposto, tanto più la profezia demoscopica rischia di avverarsi. Perché la stessa “smentita” del dato con altri dati appare una conferma (lo osservato Nando Pagnoncelli).
E poi Berlusconi conta sui tradizionali alleati. La memoria corta degli italiani. La loro indulgenza. (Chi è senza peccato...) La vocazione del centrosinistra a farsi del male. (Ci sta provando il PD, proprio in questi giorni.) Dopo il 1996 e il 2006, d’altronde, non sono stati i leader e gli uomini del centrosinistra a metter fuori gioco Prodi? Berlusconi ritorna perché non ha e non può avere eredi. Senza di lui questo centrodestra rischia la dissoluzione. Spolpato da altri soggetti. Più o meno nuovi. Comunque ostili al Cavaliere. Liste ispirate da Monti e da Montezemolo. Perfino da Grillo.
Berlusconi ritorna per auto-difesa. Ma soprattutto perché non riesce a uscire di scena. Perché la scena, senza di lui, gli pare impossibile. Perché immagina il futuro come il passato. Berlusconi, insomma, è prigioniero del proprio passato. Che però è passato. Il berlusconismo è una storia chiusa, su cui la crisi degli ultimi anni ha posto la parola fine. Le dimissioni della Minetti, le strategie di marketing creativo, la nostalgia diffusa in molti ambienti, perfino nel centrosinistra: non basteranno a riaprirla.
Il Salone del libro di Torino vince la causa sul nome *
Il tribunale di Milano ha dato ragione al Salone internazionale del libro di Torino nel ricorso contro Mjm editore, colpevole di pubblicizzare una propria iniziativa nel capoluogo lombardo usurpando marchi e notorietà del Salone torinese e contraffacendone modulistica e sito Internet.
L’ ordinanza del giudice Paola Gandolfi ha condannato Mjm a cambiare nome alla propria manifestazione, a cancellare il dominio Internet, a distruggere e rimuovere ogni materiale che facesse riferimento in modo surrettizio al Salone di Torino.
* Corriere della Sera, 05 luglio 2012, Pagina 39
Classi dirigenti, immobilismo e declino
di Michele Ciliberto (l’Unità, 11.06.2012)
Nel nostro Paese manca una moderna classe dirigente. Ed è interessante come Ferruccio De Bortoli ha riconosciuto e affrontato ieri il problema nell’editoriale del Corriere della sera. Si tratta di una questione assai seria, che riguarda il destino dell’Italia. E non possiamo certo limitarci a descrivere questa situazione, e a deplorarla, senza cercare di capire le ragioni che stanno alla base della decadenza delle classi dirigenti italiane.
Anzitutto, siamo di fronte a una crisi dell’Italia nella sua generalità. In secondo luogo, è una crisi che viene da lontano. In terzo luogo, è determinata dal fatto che nel nostro Paese è venuta meno la mobilità sociale e, con essa, anche una seria e fisiologica circolazione delle classi dirigenti. Mobilità e circolazione, del resto, sono fondamentali perché una nazione possa avere le energie e la forza necessarie per guardare, con occhi nuovi, davanti a sé e progredire. Circolazione e ricambio, invece, stanno venendo meno perché in Italia, almeno dalla fine degli anni Ottanta, la politica vive una crisi da cui non è ancora riuscita a sollevarsi, generando una separazione tra «governanti» e «governati» quale mai si è avuta, per estensione e profondità, nella vita della Repubblica.
Si possono individuare molte ragioni di questa negativa dinamica, certo, resa ancora più grave dalla crisi internazionale, dalle nuove sfide che sono state poste alle nostre classi dirigenti, dalla loro incapacità, salvo poche e importanti eccezioni, nel reggere il confronto con la globalizzazione. Qui però mi limito ad indicarne una, tipica della storia italiana, che negli ultimi quarant’anni si è però potenziata in modo straordinario, sia a destra che a sinistra. Mi riferisco a quella vera e propria struttura della nostra vita nazionale, che è il «trasformismo». Viene da molto lontano e, certamente, è generato da una particolare morfologia delle nostre classi sociali, dalle modalità specifiche del nostro sviluppo. Ma non mi fermo, ora, su questo.
Mi interessa piuttosto rilevare che il trasformismo non è mai stato così forte nella vita della Repubblica come negli ultimi vent’anni, con la presa del potere e l’affermazione di Silvio Berlusconi quale figura centrale della vita politica italiana. Con un paradosso a prima vista inspiegabile: Berlusconi si è infatti presentato come profondo innovatore dei costumi politici nazionali e come sostenitore di un moderno bipolarismo, in grado di porre su nuovi basi la politica italiana, favorendo la costituzione di schieramenti alternativi, chiamati volta per volta al governo sulla base del consenso elettorale.
Tutte chiacchiere: all’ideologia del bipolarismo ha corrisposto una pratica politica di carattere strutturalmente trasformistico. E quando dico questo non penso agli Scilipoti o alla campagna acquisti degli ultimi mesi; mi riferisco a un tratto costitutivo del berlusconismo fin dalle origini e alla conformazione che, per suo impulso, la politica italiana ha assunto negli ultimi anni, incidendo a fondo, e direttamente, anche nella crisi e nella decadenza delle classi dirigenti nazionali.
Come ci è stato spiegato dai classici del pensiero politico, la circolazione, e il ricambio, delle élite richiedono infatti competizione, lotta, conflitto. Berlusconi ha proceduto invece in modo opposto: assorbendo, e integrando, nel proprio schieramento, a volte in modo molecolare, a volte in forma più larga (fino a coinvolgere interi partiti ), tutte le forze disponibili nell’arco politico italiano. Ed è riuscito in questo garantendo, in un momento di massima crisi dei soggetti politici tradizionali, continuità del loro potere, stabilità, staticità dei ruoli e delle gerarchie sociali. Mentre si cianciava di competizione, di merito, di primato dell’individuo, l’Italia è precipitata, progressivamente, in uno stato di progressiva stagnazione, di immobilismo e, di conseguenza, di forme di corruzione pubbliche e private mai viste prima, almeno in questa forma, con una crisi profondissima del ruolo della politica, della circolazione delle classi dirigenti, del mutamento e del ricambio sociale.
Il problema che De Bortoli solleva giustamente viene di qui, è un effetto diretto del ventennio trascorso. Ma se questo è vero appare anche chiara la via maestra da seguire per rimettere in moto la nazione. Bisogna costruire un ethos repubblicano che mantenendo intangibili, e anzi sviluppandoli, il principio dell’eguaglianza e il primato del lavoro affermi il valore del mutamento e del ricambio sociale, l’importanza decisiva della circolazione delle élite e, in questo quadro, anche il valore della competizione e del conflitto (se si può ancora usare un termine messo al bando) a patto, naturalmente, che, come prescrive la Costituzione, tutti siano messi in grado di competere e di farsi valere.
È solo in questo nuovo quadro generale che può essere posto, e affrontato, anche il problema della formazione delle nuove classi dirigenti . Ma nulla di tutto questo potrà essere, non dico fatto, ma iniziato se non si stabiliscono nuovi canali di comunicazione tra «governanti» e «governati» , cioè nuove forme di partecipazione. Questo è oggi, da ogni punto di vista, il problema decisivo perché coincide con il problema della democrazia italiana.
Bersani ha rilanciato recentemente le primarie come mezzo utile in questa prospettiva. Né è ora il caso di insistere sulla complessità, e anche sulle «ambiguità», di questo, pur importante, strumento. Alla luce di molte esperienze fatte esse vanno ripensate e predisposte in modi nuovi, se si vuole che generino un accrescimento della partecipazione e della democrazia, e non il contrario, come a volte è accaduto. In ogni caso bisogna dare atto al segretario del Pd di avere avvertito la profondità e l’urgenza del problema, avviando una riflessione importante anche in relazione al problema delle modalità di formazione, in Italia, di nuove classi dirigenti.
ITALIA PULITA?
di don Aldo antonelli
Roba da matti. Siamo punto e a capo. Berlusconi, dietro consiglio di Marcello Dell’Utri vuole fondare un nuovo (sic!) "suo" partito e lo chiamerà "Italia Pulita". Due condannati, due inquisiti, due mafiosi, due corrotti, due corruttori, due indecenti che più indecenti non si può, fondano «Italia Pulita»! Un maiale che parla di pulizia mi fa accapponare la pelle. Maiale e delinquente, ladro incallito, falso e mendace, non solo lui; ma ha riempito il parlamento di puttane e di ladri. Le due camere ridotte a porcilaie sono lo stigma della sua idea di "Pulizia". Ha fatto piazza pulita, questo sì, degli uomini onesti e corretti.
Ha vellicato e vellica gli istinti peggiori che ci sono in tutti gli esseri umani. "Impastando insieme illusorie promesse, munificenza, bugie elette a sistema, tentazioni corruttrici, potere mediatico. Una miscela esplosiva, capace di manipolare e modificare in peggio l’antropologia di un intero paese”, per dirla con le parole di Eugenio Scalfari.
Si è riflettuto troppo poco sulla devastazione portata avanti da questo mostro e troppo facilmente ci si è illusi di essercene liberati....
Rocco D’Ambrosio docente di etica politica presso la facoltà teologica pugliese di Bari e la Pontificia Università Gregoriana di Roma, su Adista 31/10 bene ha scritto di lui marchiandolo con queste parole: "...sete sfrenata di potere e denaro, vilipendio delle istituzioni democratiche,asservimento delle leggi a proprio favore, volgarità, arroganza, razzismo, tv spazzatura, utilizzo strumentale della religione cattolica, offesa della laicità dello stato, infedeltà personali, condotta morale, pubblica e privata, riprovevole, autoreferenzialità. Sono questi elementi che vanno compresi e studiati, a prescindere dalla scena politica: sono il cancro della nostra Italia attuale”.
Libera nos Domine!
Berlusconi e la mafia
Comunicato di Magistratura Democratica sulle dichiarazioni del procuratore Grasso
di Piergiorgio Morosini (segretario generale di Magistratura Democratica) *
Ecco di seguito il comunicato del segretario di MD , Morosini :
Sono sconcertanti le parole del Procuratore Grasso quando afferma che il governo Berlusconi meriterebbe un premio per quanto fatto sul piano della lotta alla mafia.
Sui sequestri ci sono leggi collaudate già da qualche decennio e gli esiti positivi degli ultimi anni, in materia di aggressione ai patrimoni mafiosi, sono dipesi dallo spirito di abnegazione e dalla capacità professionale delle forze dell’ordine e della magistratura.
Dobbiamo ricordarci, piuttosto, che la denigrazione sistematica del lavoro dei magistrati non può essere certo annoverata tra le azioni favorevoli alla lotta alla mafia.
Il Codice Antimafia, poi, varato nel biennio 2010-2011, a detta di esperti, a livello accademico e giudiziario, brilla per inadeguatezze e lacune.
Inoltre, il governo Berlusconi non ha fatto nulla in tema di evasione fiscale e lotta alla corruzione che sono i terreni su cui attualmente si stanno rafforzando ed espandendo i clan.
Per non parlare delle leggi che hanno agevolato il rientro in Italia di capitali mafiosi nascosti all’estero e della mancata introduzione di norme in grado di colpire le alleanze nell’ombra tra politici e boss. Si aggiunga che non c’è stata nessuna novità in tema di lotta al riciclaggio e ci sono stati reiterati tentativi per indebolire il decisivo strumento investigativo delle intercettazioni.
In altri termini, la politica antimafia del centrodestra ricorda molto il titolo di un noto brano del cantautore emiliano Ligabue “Tra palco e realtà”: tanti proclami e poca sostanza".
Piergiorgio Morosini (segretario generale di Magistratura Democratica)
* Il Dialogo, Lunedì 14 Maggio,2012
La perdita dell’olfatto
di Barbara Spinelli *
Quando il fascismo stava per finire, nel novembre 1944, un giornalista americano che conosceva bene l’Italia, Herbert Matthews, scrisse un articolo molto scomodo, sul mensile Mercurio diretto da Alba De Céspedes. S’intitolava "Non lo avete ucciso", e ci ritraeva, noi italiani e i nostri nuovi politici, incapaci di uccidere la bestia da cui in massa eravamo stati sedotti. Una vera epurazione era impossibile, soprattutto delle menti, dei costumi.
Troppo vasti i consensi dati al tiranno, i trasformismi dell’ultima ora. Matthews racconta un episodio significativo di quegli anni. Quando il governo militare alleato volle epurare l’Università di Roma, una delegazione del Comitato di liberazione nazionale (Cln) chiese che la riorganizzazione fosse compiuta da due membri di ciascun partito: "In altre parole, una politica di partito doveva essere introdotta nel dominio dell’alta cultura: il che, mi sembra, è fascismo bello e buono". Il giornalista conclude che la lotta al fascismo doveva durare tutta la vita: "È un mostro col capo d’idra, dai molti aspetti, ma con un unico corpo. Non crediate di averlo ucciso".
L’idra è tra noi, anche oggi. Nasce allo stesso modo, è il frutto amaro e terribile di mali che tendono a ripetersi eguali a se stessi e non vengono curati: come se non si volesse curarli, come se si preferisse sempre di nuovo nasconderli, lasciarli imputridire, poi dimenticarli. È uno dei lati più scuri dell’Italia, questo barcollare imbambolato lungo un baratro, dentro il quale non si guarda perché guardarlo significa conoscere e capire quel che racchiude: la politica che non vuol rigenerarsi; i partiti che non apprendono dai propri errori e si trasformano in cerchie chiuse, a null’altro interessate se non alla perpetuazione del proprio potere; la carenza spaventosa di una classe dirigente meno irresponsabile, meno immemore di quel che è accaduto in Italia in più di mezzo secolo.
E tuttavia distinguere si può, si deve: altrimenti prepariamoci alle esequie della politica. Ci sono uomini e partiti che si sono opposti e s’oppongono alla degenerazione, e ce ne sono che coscientemente hanno scommesso sul degrado. C’è la Costituzione, che protegge la politica e chi ne ha vocazione: compresi i partiti, che al caos oppongono l’organizzazione. Il molle non è equiparabile al colluso con la mafia, il mediocre non è un criminale. La politica è oggi invisa, ma a lei spetta ricominciare la Storia. I movimenti antipolitici denunciano una malattia che senz’altro corrode dal di dentro la democrazia, ma non hanno la forza e neanche il desiderio di governare. Chi voglia governare non può che rinobilitarla, la politica.
Se questo non avviene, se i partiti si limitano a denunciare l’antipolitica, avranno mancato per indolenza e autoconservazione l’appuntamento con la verità. Non avranno compreso in tempo l’essenziale: sono le loro malattie a suscitare i pifferai-taumaturghi (l’ultimo è stato Berlusconi). Il paese rischia di morire di demagogia, dice Bersani, ma questa morte è un remake: vale la pena rifletterci sopra. Guardiamola allora, questa politica sempre tentata dai remake. Non è solo questione di corruzione finanziaria, o del denaro pubblico dato perché i partiti non siano prede di lobby e che tuttavia è solo in piccola parte speso per opere indispensabili (il resto andrebbe restituito ai cittadini: questo è depurarsi). La corruzione è più antica, ha radici nelle menti e in memorie striminzite. Matthews denuncia lottizzazioni partitiche già nel ’44. Un’altra cosa che smaschera è il ruolo della mafia nella Liberazione. Anche quest’idra è tra noi.
È lunga, la lista dei mali via via occultati, e spesso scordati. L’Anti-Stato che presto cominciò a crearsi accanto a quello ufficiale, e divenne il marchio comune a tante eversioni: mafiose, brigatiste, della politica quando si fa sommersa. Un Anti-Stato raramente ammesso, combattuto debolmente. E le stragi, a Portella della Ginestra nel ’47 e a partire dal ’69: restate impunite, anonime. L’ultima infamia risale alla sentenza sull’eccidio di Brescia del ’74, sabato scorso: tutti assolti. È un conforto che Monti abbia deciso che spetta allo Stato e non alle vittime pagare 38 anni di inchieste e processi: l’ammissione di responsabilità gli fa onore. Poi la P2: una "trasversale sacca di resistenza alla democrazia", secondo Tina Anselmi. Berlusconi, tessera 1816 della Loggia, entrò in politica per attuare il controllo dell’informazione e della magistratura previsto nel Piano di Rinascita democratica di Gelli. Le mazzette a politici e giornalisti si chiamano, nel Piano, "sollecitazioni".
È corruzione anche la sordità a quel che i cittadini invocano da decenni, nei referendum. Nel ’91 votarono contro una legge elettorale che consentiva ai partiti di piazzare nelle liste i propri preferiti. Nel ’93 chiesero l’abbandono del sistema proporzionale, che in Italia aveva dilatato la partitocrazia. Il 90.3 per cento votò nel ’93 contro il finanziamento pubblico dei partiti. I referendum sono stati sprezzati, con sfacciataggine. Il finanziamento è ripreso sostituendo il vocabolo: ora si dice rimborso. Da noi si cambia così: migliorando i sinonimi, non le leggi e i costumi.
Ma soprattutto, sono spesso svilite le battaglie dell’Italia migliore (antimafia, anticorruzione). Bisogna cadere ammazzati come Ambrosoli, Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino, per non finire nel niente. Le commemorazioni stesse sono subdole forme di oblio. Si celebra Ambrosoli, non la sua lotta contro Sindona, mafia, P2. Disse di lui Andreotti, legato a Sindona: "È una persona che se l’andava cercando". Fu ascoltato in silenzio, e non possiamo stupirci se l’ex democristiano Scajola, nel 2002, dirà parole quasi identiche su Marco Biagi, reo d’aver chiesto la scorta prima d’essere ucciso: "Era un rompicoglioni che voleva il rinnovo del contratto di consulenza". Ci sono cose che, una volta dette, ti tolgono il diritto di rappresentare l’Italia.
Viene infine la dimenticanza pura, che dissolve come in un acido persone italiane eccelse. Tina Anselmi è un esempio. Gli italiani sanno qualcosa della straordinaria donna che guidò la commissione parlamentare sulla P2? È come fosse già morta, ed è commovente che alcuni amici la ricordino. Tra essi Anna Vinci, autrice di un libro di Chiarelettere sulla P2. Con Giuseppe Amari, la scrittrice ha appena pubblicato Le notti della democrazia, in cui la tenacia di Tina è paragonata a quella di Aung San Suu Kyi. Altro esempio: Federico Caffè, fautore solitario di un’economia alternativa ai trionfi liberisti, di rado nominato. Un mattino, il 15-4-87, si tolse di mezzo, scomparve come il fisico Majorana nel ’38. Anosognosia è la condizione di chi soffre un male ma ne nega l’esistenza: è la patologia delle nostre teste senza memoria.
La letteratura è spesso più precisa dei cronisti. Nel numero citato di Mercurio è evocato il racconto che Moravia scrisse nel ’44: L’Epidemia. Una malattia strana affligge il villaggio: gli abitanti cominciano a puzzare orribilmente, ma in assenza di cura l’odorato si corrompe e il puzzo vien presentato come profumo. Quindici anni dopo, Ionesco proporrà lo stesso apologo nei Rinoceronti. La malattia svanisce non perché sanata, ma perché negata: "Possiamo additare una particolarità di quella nazione come un effetto indubbio della pandemia: gli individui di quella nazione, tutti senza distinzione, mancano di olfatto". Non fanno più "differenza tra le immondizie e il resto".
Ecco cosa urge: ritrovare l’olfatto, anche se "è davvero un vantaggio" vivere senza. Altrimenti dovremo ammettere che preferiamo la melma e i pifferai che secerne, alla "bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità, e quindi della complicità". Il profumo che Borsellino si augurò e ci augurò il 23 giugno ’92, a Palermo, pochi giorni prima d’essere assassinato.
* la Repubblica, 18 aprile 2012
IL DISCORSO DEL ’’NON CI STO!’’
Capo dello Stato dal 1992 al 1999, il senatore a vita aderente al Pd si è spento nella notte a Roma *
ROMA - Oscar Luigi Scalfaro è morto questa notte a Roma. La notizia, trapelata via Twitter attraverso fonti giornalistiche molto vicine all’ex presidente della Repubblica, è stata confermata da fonti parlamentari. Nato a Novara il 9 settembre del 1918, Scalfaro fu eletto in Parlamento nel 1946, ininterrottamente deputato fino al 1992, quando, da presidente della Camera, fu eletto Capo dello Stato, carica ricoperta fino al 1999. Storico esponente della Democrazia Cristiana, attualmente era senatore a vita, aderente al Partito Democratico. Con Sandro Pertini ed Enrico De Nicola, Oscar Luigi Scalfaro ha ricoperto tutte le tre più alte cariche dello Stato, visto che fu anche provvisoriamente presidente del Senato all’inizio della XV Legislatura, fin quando non fu eletto Franco Marini. Il suo ultimo grande impegno è stata la difesa della Costituzione 1.
Appresa la notizia, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha reso omaggio alla figura di Scalfaro: "E’ con profonda commozione che rendo omaggio alla figura di Oscar Luigi Scalfaro nel momento della sua scomparsa, ricordando tutto quel che egli ha dato al servizio del Paese, e l’amicizia limpida e affettuosa che mi ha donato. E’ stato un protagonista della vita politica democratica nei decenni dell’Italia repubblicana, esempio di coerenza ideale e di integrità morale".
"Si è identificato - ha proseguito Napolitano - col Parlamento, cui ha dedicato con passione la più gran parte del suo impegno. Da uomo di governo, ha lasciato l’impronta più forte nella funzione da lui sentitissima di ministro dell’Interno. Da Presidente della Repubblica, ha fronteggiato con fermezza e linearità periodi tra i più difficili della nostra storia. Da uomo di fede, da antifascista e da costruttore dello Stato democratico, ha espresso al livello più alto la tradizione dell’impegno politico dei cattolici italiani, svolgendo un ruolo peculiare nel partito della Democrazia Cristiana".
"Mai dimenticando la sua giovanile scelta di magistrato - ha concluso il capo dello Stato -, Oscar Luigi Scalfaro ha avuto sempre per supremo riferimento la legge, la Costituzione, le istituzioni repubblicane. In questa luce sarà ricordato e onorato, innanzitutto da quanti come me hanno potuto conoscere da vicino anche il calore e la schiettezza della sua umanità. Alla figlia Marianna, che gli è stata amorevolmente, ininterrottamente vicina, la mia commossa solidarietà".
Il settennato al Quirinale di Scalfaro è stato uno dei più delicati e controversi. Successo a Cossiga, Scalfaro assistette allo sgretolamento della Prima Repubblica determinato dall’inchiesta su Tangentopoli, scontrandosi ripetutamente con Silvio Berlusconi dopo la vittoria elettorale del Polo delle Libertà nel 1994. Quando Berlusconi mise mano alla lista dei ministri del suo primo governo, Scalfaro ritenne sgraditi alcuni nomi. In particolare quello di Cesare Previti, avvocato del premier, indagato ma non ancora condannato, al Ministero della Giustizia, poi spostato alla Difesa e sostituito da Alfredo Biondi nel ruolo di Guardasigilli.
Dopo sei mesi, nel dicembre del 1994, il governo Berlusconi fu costretto alle dimissioni. Scalfaro, invece di sciogliere le Camere, come auspicato insistentemente da Berlusconi, tentò con successo di formare un nuovo governo. Nell’occasione, il presidente richiamò il suo operato al dettame costituzionale che vuole il Parlamento sovrano, una volta eletto dal popolo. E che la Costituzione prevede che la funzione di deputati e senatori della Repubblica sia esercitata senza vincoli di mandato, onde è consentito cambiare schieramento ed appoggiare formazioni politiche diverse dalla lista in cui si è stati eletti.
Quando Scalfaro svolse le consultazioni, ricevute rassicurazioni sulle possibilità di un governo tecnico, in un famoso discorso di fine anno invitò Berlusconi a un passo indietro, promettendo che il nuovo governo avrebbe avuto un incarico a termine e un presidente di fiducia dell’ormai ex premier. Il Cavaliere individuò il suo ex ministro del Tesoro Lamberto Dini, e assistette nell’anno successivo al progressivo spostamento dell’asse del governo così nato verso il centrosinistra, che con Prodi e l’Ulivo vinse le successive elezioni nel 1996.
Queste ed altre circostanze (tutte riconducibili al cosiddetto "ribaltone" del dicembre 1994) portarono nel centrodestra, alla nascita di una diffusa ostilità verso il Capo dello Stato, accentuata dalla sconfitta elettorale del 1996. In particolare, la legge sulla "par condicio", termine impiegato proprio da Scalfaro in più di una pubblica esternazione, per affermare l’esigenza della parità delle armi comunicative sulle reti televisive per tutti gli attori politici. Legge che fu vista come un modo per mitigare lo strapotere mediatico di Berlusconi.
* la Repubblica, 29 gennaio 2012
Il «chirurgo di Caporetto» e il vuoto della politica
di Ida Dominijanni (il manifesto, 31 gennaio 2012)
Non sarebbe piaciuto, a Oscar Luigi Scalfaro, essere definito come il Presidente a cavallo fra due Repubbliche, prima e seconda, come accade in molti dei commenti che gli sono stati dedicati. Non per il passaggio, s’intende, di cui egli fu effettivamente protagonista e guida, ma per la numerazione delle Repubbliche. La Repubblica, per lui, era una sola, quella della Costituzione; e non pronunciava mai il lemma "seconda Repubblica" senza premettere un "cosiddetta" o simili ("maldefinita", disse una volta in un’intervista al manifesto).
La pignoleria linguistica, va da sé, aveva una ragione politica: non solo per il fatto che soltanto una nuova Costituzione può dare luogo a una seconda Repubblica, ma perché Scalfaro non si piegò mai all’idea - e all’ideologia - dell’"eccezionalismo" di Berlusconi, ovvero al racconto della sua "discesa in campo" come inizio di un’era nuova e come riscrittura fattuale, anche se non formale, delle regole del gioco politico.
Questo spiega perfettamente la sua decisione che resta tutt’ora oggetto di controversia (e astio, da parte di Berlusconi e del Pdl), quella che lo portò nel ’94 a cercare una soluzione parlamentare della crisi del primo governo del Cavaliere (provocata dall’uscita della Lega dalla maggioranza), senza ricorrere alle elezioni come invece Berlusconi - convinto allora come adesso che l’unica legittimazione che conta sia quella popolare, e che i vincoli costituzionali non esistano - riteneva ovvio.
Del resto, non siamo ancora e sempre allo stesso punto, sospesi fra le norme del parlamentarismo scritto in Costituzione e la prassi di una quasi-investitura diretta del premier? Se due mesi fa Berlusconi ha ingoiato la soluzione Monti con minor riottosità di quanto fece allora con Dini non è solo perché allora Dini fu sostenuto da una maggioranza diversa da quella uscita dalle urne (il famoso "ribaltone") e Monti oggi è sostenuto da tutti; è anche e banalmente perché stavolta un ritorno alle urne non l’avrebbe premiato, e la sua baldanza del 94 non c’è più.
La correttezza della procedura seguita allora dal Presidente nulla toglie, ovviamente, alla sua acclarata allergia politica al Cavaliere, quanto di più lontano e marziano potesse piombare sulla scena per uno che avesse la biografia di Scalfaro, e quanto di più insidioso per uno che, da costituente, la Carta del ’48 la sentiva come una creatura da difendere.
Non smise di farlo, del resto, dopo il settennato, come dimostra il suo impegno militante al referendum del 2006 contro la riforma costituzionale voluta dal centrodestra.
«Io ho dovuto fare il chirurgo a Caporetto, non in una Asl modello», disse una volta in risposta a chi lo accusava di aver favorito una deriva presidenzialista interpretando in modo troppo "interventista" la figura del Capo dello Stato. Quell’interventismo, in verità, non avrebbe fatto difetto ai suoi successori, ma non va dimenticato soprattutto che era stato ben più marcato nel suo predecessore Francesco Cossiga. Quanto alla Caporetto, come non ricordare, e come restituire a chi non può ricordare, che cosa fu la stagione che va dal ’92, anno dell’insediamento di Scalfaro, al ’94?
Non c’erano solo Tangentopoli e Mani pulite a far crollare uno dopo l’altro come birilli i pezzi del sistema politico; c’era stata Capaci, ci fu via D’Amelio, ci furono suicidi eccellenti e meno eccellenti per le inchieste anticorruzione, scoppiarono le ultime bombe non firmate. C’era, alle spalle, il sisma mondiale dell’89 con i suoi riflessi interni.
C’era, emergente, una "nuova destra" a cui nel frattempo abbiamo fatto l’abitudine, ma che allora pareva un alieno spuntato non si sa come da non si sa dove, e che nella rottura del patto fondamentale trovava il suo cemento e la sua ragion d’essere. E c’era un centrosinistra in perenne trasformazione interna, che fra il 96 e il ’99 riuscì a consumare tre presidenti del Consiglio, Prodi D’Alema Amato, uno dopo l’altro.
Scalfaro tenne la barra. Lo si accusa di essere stato troppo tenero con i magistrati e in particolare con il protagonismo della Procura milanese, quando si rifiutò di firmare i decreti Conso e Biondi schierandosi di fatto a fianco della protesta della magistratura; ma sono agli atti alcune sue dichiarazioni contro «l’esaltazione soggettiva della propria funzione da parte di alcuni magistrati che si sono sentiti gli attori principali in scena, e in un certo senso lo erano».
Ma lo erano, aggiungeva, non tanto per un loro eccesso di zelo, quanto per il difetto di moralità e di capacitàdella classe politica. Il vuoto della politica, e l’illusione ingegneristica di risolvere i problemi politici con riforme istituzionali, costituzionali ed elettorali estemporanee lo tormentavano.
"C’è un vuoto enorme di politica- disse al manifesto subito dopo la scadenza del suo mandato - e la politica non sopporta vuoti: qualcuno li occupa, varie forze e molteplici, quelli che siamo soliti chiamare ’i poteri forti’...C’è anche una rinuncia a far politica, che più che alla pace assomiglia a un mortorio». Vedeva lontano, il Presidente.
Scalfaro, tre volte padre della patria
di Domenico Gallo (il manifesto, 1 febbraio 2012)
Adesso che è stata consegnata all’eternità, risplende la bellezza dell’avventura umana di Oscar Luigi Scalfaro, un uomo a cui spetta di diritto il riconoscimento di padre della patria.
Molti grandi uomini hanno dato il loro contributo nell’Assemblea costituente per definire i caratteri universali di quel progetto di democrazia che si è incarnato nella Costituzione ed ha definito il volto ed i caratteri della Patria repubblicana. Scalfaro, giovanissimo magistrato, proiettato nel ruolo di costituente ha respirato, assieme a Calamandrei, Dossetti, Basso, La Pira, Togliatti, Bozzi, Terracini, quell’aria di libertà, di pulizia morale, di risorgimento civile che spirava dalle montagne dove la resistenza aveva testimoniato la fede nell’avvento di un mondo nuovo, liberato per sempre dalle tirannie e dal ricatto della violenza e del terrore.
A differenza di altri, Scalfaro non ha mai perduto la fede nei valori repubblicani che i padri costituenti hanno donato al popolo italiano ed il destino gli ha dato la possibilità e l’opportunità di difenderli come un leone. Scalfaro è stato padre della patria in quanto ha contribuito ad edificare quella Costituzione che ha dato sostanza e contenuto di patria alla comunità politica degli italiani.
Dopo aver contribuito al parto della Costituzione, Scalfaro ha svolto un ruolo fondamentale, in due occasioni, per impedire che il patrimonio della democrazia, così faticosamente conquistato, venisse disperso dalle tempeste di vento nero che hanno attraversato l’Italia. La prima è stata quando, da presidente della Repubblica, nel 1994/1995, affrontò la crisi conseguente alla caduta del primo governo Berlusconi, che, sebbene dimissionario, in quanto sfiduciato dalle camere, non aveva alcuna intenzione di abbandonare il potere e pretendeva di punire, mediante lo scioglimento anticipato, il Parlamento che gli aveva tolto la fiducia, impedendo che potesse succedergli ogni altro governo.
Scalfaro difese in modo fermissimo ed intransigente le prerogative del Parlamento ed avvertì la necessità di un riequilibrio della competizione politica, chiedendo che si ristabilisse la «par condicio» prima di affidarsi nuovamente alle urne. Per questo fu accusato di golpismo da Berlusconi e fu oggetto di una campagna durissima di ingiurie, minacce e pressioni di ogni tipo, con esclusione soltanto dell’aggressione fisica e della defenestrazione. Però il cancro del berlusconismo fu estirpato dalla testa delle istituzioni e le elezioni del 1996 diedero la possibilità alle forze democratiche di mantenere aperti gli spazi della democrazia, soffocata dai tentacoli del partitoazienda.
Ma di fronte alla ignavia dei leader del centro-sinistra e di Rifondazione neanche Scalfaro poteva farci nulla. Così nel 2001 Berlusconi riuscì ad impadronirsi del governo e a portare avanti il suo progetto di fare la pelle alla Costituzione. Fino al punto che il 16 novembre del 2005 una maggioranza parlamentare, dominata da Forza italia e dalla Lega, decretò la morte della Costituzione, introducendo un nuovo ordinamento che trasformava la Repubblica democratica in un sultanato.
Nel silenzio della politica e degli sventurati partiti del centro sinistra, Scalfaro si ribellò. Non poteva accettare che il frutto dei sogni e delle passioni che avevano guidato la mano dei costituenti, che avevano deposto i sovrani ed avevano consegnato al popolo italiano una promessa perenne di libertà e di giustizia, venisse spazzato via dal vento nero di Arcore.
Fu a capo del comitato «salviamo la Costituzione» che chiamò a raccolta migliaia di persone. Persone che professavano diverse fedi, che appartenevano a diversi ceti sociali ed esprimevano diversi orientamenti politici, ma tutti si mobilitarono ed accorsero per esercitare l’estrema possibilità di salvare la Repubblica costituzionale costruita in Italia come alternativa al fascismo. Il referendum di giugno del 2006 cancellò l’ignobile riforma e salvò la Costituzione.
Dopo averla fatta nascere, la sorte ha assegnato a Scalfaro il compito di salvare, quaranta anni dopo, quella creatura preziosa - la democrazia costituzionale - per la quale la migliore gioventù europea aveva dato la vita, testimoniando nella resistenza il valore della dignità umana.
Scalfaro ha portato a termine la sua missione con onore e coraggio indomabile. A noi è rimasto ilcompito di fare tesoro della sua testimonianza e di trasmetterla alle generazioni future.
STORIA D’ITALIA, 1994-2011: LA COSTITUZIONE, LE REGOLE DEL GIOCO, E IL "MENTITORE" ISTITUZIONALIZZATO ... CHE GIOCA DA "PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA" CON IL LOGO - PARTITO DI "FORZA ITALIA" E DI "POPOLO DELLA LIBERTA’"!!!
(...) I margini di successo sono tanto più ridotti, come ha rilevato il Presidente della Repubblica, dopo anni di contrapposizione e di scontri nella politica nazionale" (...)
GOVERNO
Berlusconi: "Con Monti democrazia sospesa"
E su Napolitano: "Ci trattava come bambini"
Davanti ai senatori del Pdl l’ex premier non usa mezzi termini e attacca il nuovo esecutivo: "La decisione finale ci è stata praticamente imposta. Durerà finché vorremo noi". E sulle elezioni e l’incognita Casini: "Faremo ragionare il ragazzo al momento giusto, con le buone o le cattive" *
ROMA - Il governo di Mario Monti rappresenta una "sospensione certamente negativa della democrazia". Sono le parole che Silvio Berlusconi ha usato, parlando ai senatori del Pdl, davanti ai quali ha parlato del nuovo governo, dei punti del programma che non gradisce e di elezioni: "Non possiamo lasciare il paese alla sinistra. E poi a chi? a Di Pietro, Vendola e Bersani. Gli italiani non sono così cretini da dare il voto a questi qua".
Attacco a Monti e Napolitano. L’ex premier non usa mezzi termini e attacca duramente il nuovo esecutivo: "la decisione finale ci è stata praticamente imposta, con i tempi voluti dal presidente della Repubblica". Ce n’è anche per il capo dello Stato: "Come presidente del consiglio mi sentivo impotente, potevo solo suggerire disegni di legge. Anche i decreti, quando arrivavano al Quirinale, il presidente della Repubblica diceva no a 2 su 3 - sottolinea Berlusconi -. Ci correggeva con la matita rossa, come una maestra con i bambini delle elementari".
No alla patrimoniale. Davanti ai senatori del suo partito, l’ex presidente del Consiglio sottolinea che la durata del nuovo esecutivo dipende anche dal Pdl, decisivo anche nella nuova maggioranza e insiste perché il nuovo premier chiarisca il suo programa: "Monti ha parlato di sviluppo e crescita, ma non ci ha detto nulla di preciso sul suo progamma. Abbiamo parlato a grandi linee degli impegni presi con l’Europa - ha detto Berlusconi, che ha ribadito il no del Pdl alla patrimoniale perché sarebbe una misura depressiva.
Legge elettorale e regime intercettazioni. L’ex primo ministro non ha tralasciato l’argomento elezioni: se si andasse al voto oggi, ha detto, ci sarebbe "L’incognita del Terzo Polo, l’incognita di Casini. Ma non vi preoccupate: faremo ragionare il ragazzo al momento giusto, con le buone o le cattive...". Poi, sulla legge elettorale: "Monti non cambierà la legge elettorale, ma siamo d’accordo che va cambiata. Abbiamo un gruppo di esperti che sta valutando quella migliore, va modificata prima delle prossime elezioni", ha spiegato, ribadendo il suo no per ora al voto anticipato: "Affrontare ora una campagna elettorale, sotto la pressione negativa e l’assedio dei media, sarebbe stato un errore". L’ex premier, poi, ha affrontato anche il tema delle intercettazioni: "Quella delle intercettazioni è una vergogna. Io ho deciso che di non avere più il cellulare", ha detto e ha sottolineato la necessità entro la fine della legislatura di mettere mano al regime delle intercettazioni e alla giustizia.
* la Repubblica, 17 novembre 2011
Il Presidente della Repubblica grida: Forza Italia.
Il Presidente del Partito "Forza italia" grida: Forza Italia....
Chi è il vero Presidente della Repubblica?!!!
Il Presidente della Repubblica o il "Presidente della Repubblica"?!!!
IL "QUIZ" CONTINUA ....E L’ITALIA LENTAMENTE MUORE !!!
Buongiorno Buonanotte
di Massimo Gramellini (La Stampa, 12 novembre 2011)
Oggi è il giorno che chiude un ventennio, uno dei tanti della nostra storia. E il pensiero va al momento in cui tutto cominciò. Era il 26 gennaio 1994, un mercoledì. Quando, alle cinque e mezzo del pomeriggio, il Tg4 di Emilio Fede trasmise in anteprima la videocassetta della Discesa In Campo. La mossa geniale fu di presentarsi alla Nazione non come un candidato agli esordi, ma come un presidente già in carica. La libreria finta, i fogli bianchi fra le mani (in realtà leggeva da un rullo), il collant sopra la cinepresa per scaldare l’immagine, la scrivania con gli argenti lucidati e le foto dei familiari girate a favore di telecamera, nemmeno un centimetro lasciato al caso o al buongusto.
E poi il discorso, limato fino alla nausea per ottenere un senso rassicurante di vuoto: «Crediamo in un’Italia più prospera e serena, più moderna ed efficiente... Vi dico che possiamo, vi dico che dobbiamo costruire insieme, per noi e per i nostri figli, un nuovo miracolo italiano». Era la televendita di un sogno a cui molti italiani hanno creduto in buona fede per mancanza di filtri critici o semplicemente di alternative. Allora nessuno poteva sapere che il set era stato allestito in un angolo del parco di Macherio, durante i lavori di ristrutturazione della villa. C’erano ruspe, sacchi di cemento e tanta polvere, intorno a quel sipario di cartone. Se la telecamera avesse allargato il campo, avrebbe inquadrato delle macerie.
Oggi è il giorno in cui il set viene smontato. Restano le macerie. La pausa pubblicitaria è finita. È tempo di costruire davvero
Una nuova legge elettorale per un nuovo bipolarismo
Un esecutivo nato in Parlamento potrebbe chiudere l’era berlusconiana del «presidenzialismo di fatto» e permettere il ritorno alla Costituzione
di Francesco Cundari (l’Unità, 11.11.2011)
La Seconda Repubblica è stata fondata sul principio secondo cui i governi non nascono in Parlamento, ma nelle urne. In molti, da ultimo in occasione della recente campagna per il referendum, hanno sostenuto il diritto degli elettori a scegliere direttamente il capo del governo e la sua maggioranza. Come è evidente, se il governo Monti nascerà, né il presidente del Consiglio né la sua maggioranza saranno il frutto di una scelta degli elettori.
Questo non significa, naturalmente, che si tratterebbe di un golpe. L’Italia è una Repubblica parlamentare. La nostra Costituzione prevede che i governi nascano in Parlamento e che la nomina del presidente del Consiglio spetti al Capo dello Stato. Semmai, come ha spiegato all’Unità Piero Alberto Capotosti, presidente emerito della Corte costituzionale, lo strappo al nostro impianto costituzionale è venuto dalla prassi di inserire il nome del candidato premier nel simbolo elettorale prima e poi dall’introduzione, con la legge Calderoli, della figura del capo della coalizione. Forzature tese a modificare in modo surrettizio la nostra forma di governo, regalandoci quel presidenzialismo di fatto (cioè senza i contrappesi e le garanzie che equilibrano tale sistema) che è stato non per caso l’ambiente ideale in cui il berlusconismo ha potuto svilupparsi.
Da questo punto di vista, Mario Monti ha mostrato nei suoi interventi di questi anni piena consapevolezza del problema, ad esempio quando sul Corriere della sera del 2 gennaio scorso si scagliava contro quei «corposi interessi privilegiati che, pur di non lasciar toccare le loro rendite, manovrano un polo contro l’altro: veri beneficiari del bipolarismo italiano!». Si tratta di un’analisi controcorrente, ma certo non liquidabile come frutto di nostalgie per la Prima Repubblica. Il fatto è che la divisione artificiale dell’intero spettro politico in due blocchi incomunicanti ha prodotto in questi vent’anni una stabilità più simile alla paralisi che al (dubbio) mito della «democrazia governante».
Abbiamo avuto certamente governi più stabili l’ultimo talmente stabile che c’è voluto il rischio della bancarotta per mandarlo via ma sempre esposti al ricatto di forze minori, in campagna elettorale come al governo. La necessità di tenere insieme tutto, indotta dal meccanismo del bipolarismo di coalizione, ha reso quindi entrambi i poli ostaggio non solo dei partiti minori, ma innanzi tutto, come notava Monti, dei referenti sociali minori, e persino minimi, cioè di tutte le lobby, corporazioni e gruppi di interesse detentori di una quota marginale di consenso decisiva per vincere.
L’emergenza che ha reso necessaio il governo Monti è figlia della paralisi indotta da questo genere di stabilità artificiale. Pertanto, la nuova maggioranza che in Parlamento prenderà forma per sostenerlo non potrà certo proporre al Paese un’altra legge elettorale fondata sul divieto a governi nati in Parlamento, a meno di non volersi autodelegittimare. Dovrà piuttosto rendere agli elettori il potere di scegliere i parlamentari attraverso collegi uninominali, come nella maggior parte dei sistemi elettorali d’Europa (inglese, francese, tedesco). E all’Italia un sistema in cui finalmente ciascuna forza politica possa presentarsi con il proprio simbolo davanti agli elettori, e dove di conseguenza il candidato premier sia naturalmente il leader del partito più votato, come in tutti i paesi democratici del mondo (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania, Spagna...).
Non si tratta di un compito facile. D’altra parte, un governo appoggiato da tutti i principali partiti appare il solo che possa raggiungere un compromesso ragionevole sulle regole del gioco, superando le forzature e gli strappi di questi anni, prima di restituire la parola ai cittadini.
L’ALTRO FOGLIETTO MOSTRATO AI MALPANCISTI: «PRENDO LA FIDUCIA? LASCIO»
E su un foglio spuntano le parole «traditori» e «dimissioni»
Il premier e gli appunti in Aula dopo il voto:
«ribaltone», «voto», «presidente della Repubblica».... *
MILANO - «Prenda atto, rassegni le dimissioni». È l’invito che Pier Luigi Bersani rivolge in Aula a Silvio Berlusconi dopo il voto sul rendiconto generale dello Stato. Il premier lo annota su un foglietto di carta, fotografato da diversi reporter a Montecitorio. Sul foglio ci sono anche appuntate le parole «ribaltone», «voto», «presidente Repubblica» e «una soluzione». In alto, come primo punto, «308, meno 8 traditori». Quello scritto in Aula dopo il voto non è l’unico foglietto di Berlusconi che esprime la momentanea incertezza del capo del governo. I malpancisti del Pdl recatisi a Palazzo Grazioli prima del voto hanno trovato il Cavaliere che maneggiava uno schema a tutta pagina con in bella mostra alcuni punti interrogativi. «Prendo la fiducia? Lascio? Governo tecnico? Reincarico?».
Ad ogni domanda il Cavaliere aveva inserito sul foglio una risposta, un percorso, evidenziando - riferisce chi è stato in via del Plebiscito - i pro e i contro delle ipotesi in campo. Dal Pdl riferiscono che lunedì sono state affrontati tutti gli scenari possibili e il presidente del Consiglio ha continuato a ripetere di avere intenzione di andare avanti. Anche oggi il premier ha ribadito di voler andare alla conta: devono avere la forza per buttarmi giù, mi devono far cadere, non sono uno che si arrende dall’oggi al domani, è il ragionamento del Capo dell’esecutivo che in questi giorni sta ascoltando tutti i ’fedelissimì per poi trarre le conclusioni. I vertici di via dell’Umiltà sono convinti che si supererà l’asticella dei 310 voti. Il timore, però, a questo punto è che il Quirinale possa tornare ad invocare garanzie di governabilità. Berlusconi agli ospiti ricevuti dice di fidarsi ancora di Giorgio Napolitano che, a suo dire, si è comportato sempre correttamente. L’obiettivo è sempre quello di superare lo scoglio della Camera e porre poi la fiducia al Senato sulla lettera della Bce. Lunedì a confortare il premier è stato in particolar modo la figlia Marina, mentre - sostengono fonti ben informate - gli altri figli, e soprattutto Eleonora, Barbara e Luigi, avrebbero chiesto al premier di evitare lo scontro a tutti i costi. In ogni caso il Cavaliere è ancora convinto di farcela.
Lunedì ad Arcore c’è stata anche una prima riunione sull’eventualità di un voto anticipato: sono stati prenotati gli spazi elettorali, sono spuntati i primi bozzetti con la scritta «Italia sempre» e «Italia viva», con logo e colori che si ispirano a quelli della vecchia Fi. La prima data utile per le elezioni è quella del 20 febbraio, sostengono fonti parlamentari del Pdl. «Questi malpancisti - dicono alcuni parlamentari di via dell’Umiltà - non hanno capito che così facendo accelerano il voto anticipato».
Redazione Online
* Corriere della Sera, 08 novembre 2011 18:09
Il vuoto che affonda il Paese
di MARIO DEAGLIO (La Stampa, 8/11/2011)
Non c’è forse mai stata nel mondo, tanta attenzione per l’Italia come nella giornata di ieri. Non l’attenzione benevola che si riserva a un Paese curioso, noto per non rispettare sempre fino in fondo le regole ma dotato di inventiva e flessibilità, con i suoi paesaggi e i suoi musei; ma l’attenzione fredda e ostile di chi considera l’Italia come un rischio per tutti, di chi sa che da quel che succede in Italia può dipendere il futuro del sistema globale e anche il proprio.
L’attenzione di chi ha visto il disastro greco e sa che un analogo disastro italiano sarebbe molte volte maggiore, sconvolgerebbe gli equilibri economici, già precari, di tutto il pianeta; e che, se questo dovesse succedere, subito dopo sarebbe la volta della Francia - che non a caso ieri ha varato il suo piano di austerità con aumento dell’Iva - e dopo la Francia, forse, degli Stati Uniti.
I mercati pensano che l’Italia possa fare la differenza tra il collasso mondiale e la ripresa globale. In queste circostanze, Silvio Berlusconi ha smesso di essere considerato all’estero un signore un po’ strano che spesso fa battute imbarazzanti.
Uno vicino al quale da un paio d’anni i capi di Stato e di governo degli altri Paesi non si fanno fotografare volentieri. E’ diventato una fonte, quasi «la» fonte di rischio, una mina vagante nel mare tempestoso di una crisi mondiale dalle dimensioni sempre maggiori. Ecco allora i media mondiali, la «Reuters» e il «New York Times», domandarsi se questo sia il «finale di partita» per l’Italia, ecco «Wall Street Journal» e «Financial Times» scoprire quanto stereotipata sia l’immagine dell’Italia e quanto poco il resto del mondo sappia di questo anello della catena mondiale divenuto improvvisamente debole.
Mentre il resto del mondo si pone interrogativi così gravi, il presidente del Consiglio, assai prima di occuparsi degli affari di Stato, è in riunione, nella sua villa di Arcore, con i figli e con Fedele Confalonieri, il presidente di Mediaset che siede nel consiglio di amministrazione delle principali aziende di famiglia, con le Borse che esultano prematuramente per le dimissioni ormai ritenute questione di ore. Poi vede i vertici della Lega, forse su come avviare le «riforme» (di cui Umberto Bossi è il ministro responsabile), quelle riforme che l’estero interpreta in maniera così diversa da noi, che molti in Italia, opposizione compresa, sperano di fare soprattutto a parole. Solo più tardi parte per Roma, per andare a fare (ancora) il presidente del Consiglio.
Il piano degli interessi personali di Silvio Berlusconi si contrappone così al piano dei problemi europei e dell’economia mondiale. Forse è sempre stato così ma il mondo non se ne era curato, così come non se ne erano curati molti italiani. Tra questi due piani, quello globale e quello personale, si colloca l’Italia, un’Italia costretta a farsi dettare le politiche e controllare i conti dai mercati globali perché ha difficoltà a pagare i debiti. Con il resto del mondo interessato soprattutto al programma, indipendentemente dal governo e il mondo politico italiano interessato soprattutto al governo, quasi indipendentemente dal programma. Quest’Italia si configura come un vuoto; un vuoto politico, con le dimissioni-non dimissioni del premier e con le forze politiche dell’opposizione incapaci di posizioni sufficientemente chiare. L’Italia purtroppo si configura anche, e forse è questo l’aspetto più preoccupante, come un terribile vuoto sociale, con quasi un giovane su quattro più di due milioni di persone in tutto - tra i 15 e i 29 anni che non lavora né studia, come ha messo in luce ieri una ricerca della Banca d’Italia, mentre di quel lavoro e di quello studio il Paese avrebbe grandissimo bisogno.
In questo vuoto l’Italia rischia di affondare. Prima di tutto perché si tratta di un vuoto che costa. E’ possibile, anche se complicato, calcolare quanto costa al Tesoro un giorno in più di permanenza, in queste condizioni, di Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi. Questo costo si misura in termini di maggiori interessi sul debito italiano che viene via via rinnovato a tassi fortemente crescenti, così che il beneficio che dovrebbe derivare all’erario dall’aumento dell’Iva viene divorato dall’aumento dei tassi. Oggi si misura in 500 punti base, cinque punti percentuali in più che il mercato pretende, come «premio per il rischio Italia» per sottoscrivere titoli italiani invece di titoli tedeschi. Vi è poi il costo occulto, dato dalla perdita di prestigio e di credibilità dell’Italia nel mondo della finanza, e non solo; un costo che gli imprenditori conoscono benissimo e il resto del Paese comincia a intuire in tutta la sua gravità.
E’ con questo vuoto che il Paese deve fare i conti. Tutte le conquiste del passato, dalle posizioni sui mercati internazionali al peso politico all’interno dell’Unione Europea, ai diritti «acquisiti» di lavoratori e pensionati, tutto sembra essere risucchiato in un gorgo dal quale cominceremo a uscire soltanto con un cambiamento dell’esecutivo. L’errore più grave è, però, illudersi che basti questo cambiamento a risolvere miracolosamente tutto. Se tutto andrà bene, avremo davanti qualche lustro di cammino difficile e faticoso.
Colpevole di alto tradimento
di Roberta De Monticelli (“il Fatto Quotidiano”, 20 ottobre 2011)
Raccolgo la poca speranza residua che un riscatto morale e civile degli italiani sia ancora possibile, per scrivere questa lettera aperta agli esperti di Diritto costituzionale. Mi rivolgo a tutti loro e a chiunque, nelle istituzioni di questa Repubblica, abbia titolo a suggerire una via per sanare le profondissime ferite che sono in questi giorni inferte alla nostra coscienza civile. O sia, almeno, in grado di dare risposta allo sconcerto di molti semplici cittadini come me, dei quali mi faccio portavoce. Siamo noi che abbiamo perduto il senso della misura, o è l’opinione pubblica che ha perduto, per abitudine e rassegnazione, la capacità di percepire quando la misura è colma?
IO CREDO che il voto di scambio sia un reato, e che se non si procede a denunciarlo e a esigere che chi se ne è reso colpevole ne paghi le conseguenze, sia in generale perché è difficile trovare le prove che il mercato abbia avuto luogo. Ma nel caso che abbiamo sotto gli occhi, le prove ci sono. Il presidente del Consiglio ha ripetuto di aver "dovuto" ripagare con un posto di viceministro la signora Polidori per via di promesse già fatte, in cambio di favori pregressi, ha anche aggiunto che precedeva altri nella lista, e che c’era un documento scritto a provarlo. Lo ha detto, ed è stato riportato dai giornali di ieri e di sabato. In quelli di oggi, con le intercettazioni delle telefonate con Lavitola, emergono numerosi altri casi del genere, con personaggi che dicono "io sono prima di lui nella lista", eccetera.
Io credo che un capo di governo che dica "facciamo la rivoluzione vera... facciamo fuori il Palazzo di Giustizia di Milano" si renda semplicemente colpevole di tradimento nei confronti della Repubblica, e della sua Costituzione, sulla quale ha giurato. Credevo che, se fino ad ora non si è proceduto a denunciarlo e a procedere con una qualche - immagino prevista - forma di impeachment per alto tradimento, fosse perché non era dimostrabile che questo fosse il pensiero del capo del governo. Ora è dimostrato. Nero su bianco, voce e sua riproduzione scritta, comparsa sui giornali del 17 ottobre. Io credo che quando un presidente del Consiglio dichiara che nessuno che non sia un suo "pari" - cioè, immagino, un parlamentare, o un ministro - non ha il diritto di giudicarlo, fa una dichiarazione eversiva, in quanto lesiva dell’articolo 3 della Costituzione. E questa dichiarazione il suddetto presidente l’ha fatta in numerose occasioni, già molti anni fa. È oggi uno dei temi ricorrenti delle conversazioni con Lavitola, anche queste oggi di pubblico dominio .
IO CREDO che se un presidente del Consiglio dimostra di avere ogni genere di rapporti, che lo rendono ricattabile, con un indagato per reati di vario genere, peraltro dichiaratosi latitante; se addirittura ha istigato il suddetto latitante a restare tale; se infine pare all’origine del fatto che costui non viene arrestato, nonostante sia perfettamente reperibile, avendo concesso a una televisione nazionale una pubblica intervista: ebbene questo presidente del Consiglio si rende come sopra colpevole di eversione e tradimento della Costituzione su cui ha giurato, nonché di insulto alla coscienza morale e civile di tutti i suoi concittadini.
Se queste mie credenze sono fondate, allora mi chiedo e vi chiedo se le migliori intelligenze delle discipline giuridiche pertinenti non possano e non debbano farsi autrici di un documento di pubblica accusa, che se anche fosse destinato all’inefficacia pratica, avrebbe comunque una forte efficacia morale, come specchio e riferimento ideale di tutti i cittadini italiani che nella Costituzione si riconoscono, e che l’occupazione del potere da parte di chi la spregia ferisce nel fondamento stesso della loro coscienza e fedeltà alla Repubblica.
NON CI si obietti che questo capo di governo e la sua maggioranza sono al tramonto. Qualunque sia la maggioranza che gli succederà, considerare semplicemente “politica” la differenza fra la fedeltà alla Costituzione e il suo disprezzo, è rendersi complici del massacro, che si sta svolgendo sotto i nostri occhi, della nostra dignità di cittadini, oltre che di quella delle istituzioni di questa Repubblica. Ed è soffocare per sempre la speranza di quel riscatto a partire dal quale soltanto una civiltà nazionale e politica può ricominciare a esistere.
IL PALLOTTOLIERE DELLA MAGGIORANZA
Governo, sì della Camera alla fiducia Berlusconi: "Figuraccia della sinistra" L’opposizione: è la fine, perde i pezzi
Il governo si salva: 316 sì, 301 no
Il premier: da oggi mi trasferisco
in Parlamento per fare le riforme
Il governo guidato da Silvio Berlusconi ottiene la fiducia della Camera. Su 617 votanti, e di fronte ad una maggioranza richiesta di 309, ci sono stati 316 sì 301 no. Al momento della lettura dei voti da parte del presidente della Camera Gianfranco Fini, la maggioranza ha esultato applaudendo e acclamando il premier Silvio Berlusconi, che ha accolto la votazione con un largo sorriso.
I deputati di opposizione, nel tentativo di far mancare il numero legale, non hanno partecipato alla prima "chiama" (i deputati che non votano al primo appello vengono chiamati nuovamente). Ma, quando si stavano per concludere le operazioni, i deputati radicali e della svp sono entrati in aula e hanno votato. Questo ha assicurato con più larghezza il numero legale alla maggioranza, che aveva ottenuto comunque ottenuto 315 voti favorevoli.
* La Stampa, 14/10/2011 )ripresa parziale)
La coscienza dello Stato
di Ezio Mauro (la Repubblica, o1.10.2011)
Ieri Giorgio Napolitano ha rotto un pezzo dell’incantesimo che blocca il Paese in questa lunga agonia del berlusconismo. Spazzando via false credenze, mitologie e leggende politiche che pure hanno imprigionato e condizionato l’attività di questo governo, il Capo dello Stato ha detto chiaramente quel che la politica (anche di opposizione) non riesce a spiegare: non esiste un popolo padano, pensare ad uno Stato lombardo-veneto che competa nella sfida della globalizzazione mondiale è semplicemente grottesco, e una via democratica alla secessione è fuori dalla realtà.
Dopo queste parole, vivere nella finzione non sarà più possibile. Ci vuole coraggio istituzionale - quindi responsabilità - nel pronunciarle, perché l’Italia politica ha accettato per anni che crescesse dentro la cultura della destra berlusconiana questa leggenda nera della secessione possibile, della Padania immaginaria, fino alla buffonata delle false sedi ministeriali al Nord, col ritratto di Bossi appeso ai muri. Oggi, semplicemente e finalmente, lo Stato dimostra di avere coscienza e nozione di sé, e dice di essere uno e indivisibile, frutto di una vicenda nazionale e di una storia riconosciuta.
È una frustata alla politica, Lega, governo e maggioranza in primo luogo: ma anche all’opposizione. Napolitano infatti denuncia la rottura del rapporto tra eletti ed elettori, come se la politica si sentisse irresponsabile. E proprio nel giorno in cui le firme per il referendum abrogativo hanno raggiunto un milione e duecentomila, chiama in causa per questo il Porcellum: voluto e votato da Berlusconi e dalla Lega, colpevole di aver spostato la scelta dei parlamentari nelle mani dei capi-partito, spezzando il collegamento tra i cittadini e i loro rappresentanti. Per questo il Presidente chiede espressamente una nuova legge elettorale per ripristinare la fiducia nelle istituzioni.
Guai se le parole del Quirinale restassero inascoltate, al punto in cui è giunta la disaffezione dei cittadini verso il sistema politico-istituzionale. È un invito a dire la verità, a farla finita con gli inganni, a restituire la parola ai cittadini, a "cambiare aria" nel Palazzo. Se accadrà, anche la finzione di governo che si arrocca a Palazzo Chigi avrà vita breve.
Il premier e la Chiesa, amici per forza
di Mattia Feltri (La Stampa, 27 settembre 2011)
È trascorso un anno esatto dall’uscita del libro dell’arcivescovo di Trieste, Giampaolo Crepaldi, nel quale l’autore illustrava con precisione i motivi per cui le gerarchie ecclesiastiche tolleravano il libertinaggio berlusconiano: «È (...) più grave la presenza di principi non accettabili nel programma che non nella pratica di qualche militante, in quanto il programma è strategico ed ha un chiaro valore di cambiamento politico della realtà più che le incoerenze personali» (il libro si intitola “Il cattolico in politica. Manuale per la ripresa”).
Il parere, di per sé molto autorevole, ebbe nella prefazione del cardinale Angelo Bagnasco un insuperabile sigillo di qualità: non restava che alzare le mani. Soltanto pochi mesi più tardi, in occasione della dura prolusione del gennaio 2011, Bagnasco segnalò «un evidente disagio morale». E adesso saranno gli esegeti dei documenti episcopali a indicare quale punto di non ritorno sia stato raggiunto, ma ripensando all’avvento di Silvio Berlusconi nella disputa politica, diciotto anni fa, non si può negare che le cose siano molto cambiate.
Era un Berlusconi, quello, che cercava di accreditarsi in Vaticano coi suoi modi da dopocena, per il tramite delle zie suore o ricordando gli studi dai salesiani o nel collegio dell’Opus Dei, e siccome l’aspirante leader aveva i suoi talenti, andò al nocciolo della questione ricordando sé ragazzino, seduto al convitto Sant’Ambrogio ad abbeverarsi ai racconti dei sacerdoti fuggiti in Italia dai comunisti russi e polacchi. E offrì il trait d’union raccontando d’aver esordito tredicenne alla politica, nel 1948, quando attaccava i manifesti della Democrazia cristiana intanto che qualche ragazzaccio comunista scrollava la scala per farlo cascare giù, e dargli quel che gli spettava. Primi passi eroici (fidarsi sulla parola non è mai stato un problema), praticamente una marcia al rullo di tamburi per una Chiesa che, perduta la Dc, non sapeva a che santo votarsi. A proposito del Partito popolare di Mino Martinazzoli, il vaticanista Sandro Magister avrebbe poi scritto che «mai il grosso dell’elettorato democristiano, modernizzante, pragmatico, soprattutto del Nord, avrebbe potuto continuare a votare un gruppo dirigente fattosi all’improvviso puritano, pauperista, giacobino, satellite di comunisti e postcomunisti».
Per Berlusconi è già un grande successo che in pubblico il presidente della Conferenza episcopale italiana, Camillo Ruini, lo accolga senza manifesti pregiudizi, a differenza del resto del mondo, e tenga la celebre linea dell’equidistanza nel 1996, quando a capo del centrosinistra c’è Romano Prodi, cattolico dossettiano di cui Ruini ha celebrato il matrimonio.
Durante il quinquennio dell’Ulivo, la Chiesa sottolinea le sue aspettative sulla scuola, sulla famiglia, sulla difesa della vita, ma trova molti più interlocutori all’opposizione che al governo e prende posizione senza infingimenti (tanto che il segretario dei popolari, Franco Marini, sostiene che l’Avvenire sembra l’house organ di Forza Italia). Eh sì, è nato un fruttuoso sodalizio.
Da lì in poi per Berlusconi è stata una cavalcata al fianco dei porporati d’Italia (e difatti si racconta della premonizione offerta da Ruini a Prodi, che sarà usato «dai comunisti» e poi gettato come un cencio). Dopo le leggi ad personam, la produzione più massiccia dei governi di centrodestra riguarda le norme care al Vaticano, quelle varate e quelle bloccate. Sono i famosi «principi non negoziabili» attorno i cui si stringe un’alleanza ferrea. E nemmeno tanto campata in aria visto che nel 2005, ai referendum sulla procreazione assistita e sulla produzione degli embrioni, ottiene l’annullamento della consultazione per mancanza di quorum: un successo evidente.
E due anni dopo il trionfo è del Family Day a piazza San Giovanni a Roma, una manifestazione contro i Dico, cioè le unioni di fatto sia fra eterosessuali che fra omosessuali. Lo straordinario è che si tratta di un corteo di cattolici contro la cattolica Rosi Bindi (che ha firmato la legge insieme con la ex comunistaBarbara Pollastrini), ed è un corteo che ottiene il risultato di imbarazzare il centrosinistra, visto che in strada, insieme con Berlusconi, scendono cattolici vicini a Prodi come Savino Pezzotta, Clemente Mastella e Giuseppe Fioroni: la rivendicazione di un cattolicesimo adulto avanzata dal premier viene bruscamente ed efficacemente respinta.
E dunque niente procreazione assistita, niente Dico (o Pacs o altro), sì alle agevolazioni fiscali, finanziamenti alle scuole, qualche sterile ma gradito distinguo sull’aborto: il centrodestra non molla l’osso ed è una falange nel caso di Eluana Englaro e nei pasticci successivi che impantanano una legge annunciata in quarantotto ore, e ancora oggi in studiata fase di pre-elaborazione.
Quello raccolto da Silvio Berlusconi è un credito inestimabile al punto che, quando racconta una barzelletta contenente una rotonda bestemmia, monsignor Rino Fisichella si immola e sostiene che il nome di Dio si può pronunciare invano: talvolta dipende dal contesto. Ed è proprio il problema del contesto, ora, a vanificare tanti meriti conquistati in battaglia.
Il golpe di Berlusconi
di Raniero La Valle *
Gli uomini contano. Alla conferenza di pace di Parigi De Gasperi salvò l’Italia: era, in quel consesso, un Paese nemico, distrutto dalla guerra, gravido di miseria; tutto, tranne l’enorme prestigio del presidente del Consiglio italiano e la dignità con cui difese l’Italia, era contro di lui. Ma De Gasperi colpì gli Alleati, apparve credibile, e l’Italia rientrò ben presto a pieno titolo nella comunità internazionale, e cominciò la sua ricostruzione, prima della Germania, prima del Giappone, suoi alleati di guerra, prima della Cina.
Nell’agosto angoscioso appena trascorso, Berlusconi ha portato l’Italia fino all’orlo dell’abisso: l’ha considerata lui stesso un Paese spregevole, l’ha mostrata senza dignità, con un governo indifferente e cinico in ogni sua scelta, fino al punto di poter decidere in poche ore tutto e il contrario di tutto; un Paese giudicato inaffidabile eticamente, e non solo finanziariamente, perfino dai mercati; un potere politico interno irriso dalla stampa internazionale, incapace, per le sue false analisi, di affrontare la crisi, impossibilitato, per le sue contraddizioni, a governarla e indegno, per i suoi comportamenti, di fare appello alle risorse materiali e morali dei cittadini.
Eppure all’Italia non mancherebbe nulla; è un Paese ancora ricco, seppure di una ricchezza ignorata dal fisco, lavora, produce e risparmia, si dà da fare nell’aiuto reciproco, e ai giovani, se è matrigna la società, resta madre la famiglia. Certo, da quando è finito il “caso italiano” e l’Italia ha cessato di essere un grande laboratorio politico per un diverso futuro, essa è ridiventata politicamente bambina e arrendevole (altrimenti non si farebbe guidare così), ma è un Paese straordinario che ha pur sempre grandi risorse di intelligenza, di creatività, di lavoro.
Ora dobbiamo trarre le lezioni che ci ha impartito quest’agosto (agosto è sempre un mese pericoloso, fu il 15 agosto 1972 che Nixon distrusse l’ordine monetario del dopoguerra sancito a Bretton Woods, aprendo la strada all’attuale cataclisma). Il nostro agosto 2011 ci ha insegnato come una crisi economica possa diventare il momento e l’alibi di un grande tentativo reazionario, fino ai limiti di un sovvertimento del sistema.
Questi sono i colpi di mano che il governo ha tentato col pretesto della crisi:
1) Liquidare l’art. 41 della Costituzione che unisce la libertà economica all’utilità - o almeno non dannosità - sociale, per rendere discrezionale ai privati tutto ciò che non è proibito.
2) Mettere nell’art. 81 il vincolo del pareggio del bilancio, il che toglierebbe allo Stato ogni margine di manovra economica e renderebbe incostituzionale anche il pagamento degli stipendi pubblici quando il limite fosse raggiunto (come stava succedendo disastrosamente ad Obama).
3) Demolire un’intera branca del diritto, quello del lavoro, distruggere la contrattazione collettiva e il ruolo dei grandi sindacati, rimuovere l’obbligo della giusta causa e con esso lo stesso Statuto dei lavoratori, tornare ai rapporti tra “padroni” e operai dell’età preindustriale.
4) Revocare i diritti acquisiti in tema di riscatto della leva e della laurea per il calcolo dell’età pensionabile, in tema di tredicesime e liquidazioni, introdurre nuove disuguaglianze tra dipendenti pubblici e privati, residenti e immigrati, ricchi evasori e poveri tartassati.
5) Mortificare il valore simbolico della Repubblica nata dalla Resistenza impedendo la celebrazione festiva del 25 aprile, del 1 maggio e del 2 giugno.
6) Cavalcare il risentimento verso la politica, tagliando demagogicamente quelli che vengono chiamati i costi della politica e che sono invece i costi della corruzione e i costi della democrazia; attaccare al cuore il principio rappresentativo riducendo drasticamente la rappresentanza popolare dai comuni alle province al Parlamento fuori di qualsiasi piano organico e razionale di riordinamento dello Stato.
Non tutte queste cose sono riuscite, per la debolezza e la confusione della leadership, la difesa corporativa dei propri interessi elettorali da parte della Lega, la resistenza degli Enti locali, i veti incrociati nell’ambito della stessa maggioranza e la reazione vigorosa delle classi attaccate e umiliate; mentre un minimo di continuità istituzionale è stato assicurato da quanto resta della divisione dei poteri, che ha permesso il dispiegarsi di un ruolo di supplenza da parte del Presidente della Repubblica e di controllo di legalità da parte dei magistrati.
Ma resta da chiedersi come tutto ciò sia potuto accadere. È accaduto perché il sistema, grazie agli apprendisti stregoni dei patiti della “Seconda Repubblica”, era stato privato di tutte le sue difese, al Parlamento era stata tolta ogni autonomia mentre un’artificiale, esorbitante maggioranza parlamentare era stata messa per legge nelle mani di un padre padrone, e a quest’ultimo era stato permesso di difendere ossessivamente il potere e di mantenerlo con ogni artificio, mentre tutto il resto era abbandonato alla rovina. La tanto agognata “governabilità” è stata realizzata nel modo peggiore, senza un governo che potesse veramente governare e una democrazia che potesse difendersi; per di più senza che si potesse dare una vera, efficace e giusta risposta alla crisi economica. Perciò, per uscirne, bisogna ora ripartire da qui, cioè dall’idea stessa di cosa debba essere una Repubblica parlamentare e rappresentativa, contro la cecità di chi, anche a sinistra, insiste nel dire che “non si può tornare indietro”.
Non confondete berlusconismo con populismo
di Michele Ciliberto (l’Unità, 21 luglio 2011)
Il concetto di populismo non è a mio giudizio in grado di interpretare in modo adeguato la vicenda italiana degli ultimi venti anni e, in modo specifico, le posizioni di cui è stato massimo artefice e protagonista Silvio Berlusconi. Quello su cui i classici insistono quando si parla del popolo è la dimensione della totalità, del tutto sulle parti, della comunità sugli individui. (...) Berlusconi non si è mai mosso in una prospettiva comunitaria e organicistica, cioè populistica (come invece ha fatto, almeno in parte, Bossi); ma, anzi, ha accentuato - fino a stravolgerli in senso dispotico - il carattere e la dimensione strutturalmente individualistica della «democrazia dei moderni».
Con il suo messaggio ha proposto, e fatto diventare modello di vita e senso comune, una sorta di bellum omnium contra omnes; per riprendere la distinzione di Hobbes, ha sostenuto, e anche realizzato, una regressione dalla «società politica» alla «società naturale». Da questo punto di vista, rispetto al movimento della società moderna, e al significato in esso assunto appunto dalla politica, Berlusconi si è mosso come il granchio: è retrocesso dalla storia alla natura; dalla legge al primato degli spiriti animali.
Nel suo messaggio Berlusconi non si è mai rivolto né alla massa, né al popolo inteso come un totum ma sempre e soltanto agli individui, ai singoli individui: individui isolati, privi ormai di identità comune, chiusi nei loro interessi e pronti, nella crisi, a dislocarsi a destra o a sinistra a seconda delle loro convenienze. È vero: ha usato il termine «popolo» per definire il suo movimento, ma precisando subito che non si trattava di un «partito» tradizionale di massa (cioè di tipo novecentesco), e connotandolo come «popolo della libertà». Ed è, ovviamente, al secondo lemma che ha assegnato maggior rilievo. Il popolo cui Berlusconi si è rivolto fin dall’inizio della sua avventura politica non ha nulla di totalitario o di organicistico. (...) L’individualismo è stato l’architrave di questa posizione, in accordo su questo punto con la Lega che però, a differenza del berlusconismo, declina motivi comunitari e nuove identità collettive estranee, come tali, all’ideologia del Popolo della libertà. In sintesi nel berlusconismo si sono espressi anche sul piano simbolico, e hanno avuto a lungo successo, nuovi modelli antropologici e culturali, incardinati sul primato degli «spiriti animali», della «società naturale» sulla legge e sulla «società politica». (...)
Qualunque sia il giudizio sulla sua opera, il berlusconismo si è sforzato di dare una risposta a esigenze che, in modo complesso e anche contraddittorio, si erano cominciate liana, inclinandole - attraverso un’ampia e capillare «rivoluzione ideologica» imperniata sui media - verso un individualismo egoistico e autoreferenziale, chiuso in se stesso, imperniato sull’esaltazione degli spiriti animali.
Quali siano stati i risultati di questa stagione è oggi sotto gli occhi di tutti: il primato dell’individuo invece di esprimersi in una più ampia e articolata affermazione dell’uomo e delle sue facoltà si è risolto in nuove e più profonde forme di separazione e di contrapposizione tra gli uni e gli altri; e in nuove forme di sottomissione servile, acuite dal venir meno e dalla crisi delle vecchie strutture politiche e sociali a cominciare dal sindacato. (...) Non credo che oggi il problema sia quello di insistere, anzitutto, sul valore e sul significato dell’individuo. Nel ventennio passato questa musica è stata suonata in forma addirittura assordante; e, almeno alle origini, poteva avere un senso sintonizzarsi su queste onde. Oggi appaiono però chiari gli esiti intrinsecamente autoritari e dispotici dell’individualismo di cui si è fatto promotore e artefice il berlusconismo.
Per riprendere la coppia usata da Kant e prima da Machiavelli, in questo ventennio il popolo si è disgregato ed è diventato plebe, moltitudine priva di leggi. Ma come Machiavelli ci ha insegnato nei Discorsi una moltitudine senza religione e senza leggi, cioè senza vincoli, non può mai essere uno stato, una repubblica; e sarà sempre superata, come coesione e capacità di azione e di organizzazione, dal regno, dal Principato - in una parola - dal dispotismo.
Il problema di un partito riformatore, che voglia stabilire nuove relazioni tra governanti e governanti, oggi è precisamente quello di ristabilire nuovi vincoli, nuovi legami tra i singoli individui considerati come tali, come individui. La democrazia vive di legami, a cominciare da quello costituito dal lavoro, come il dispotismo si nutre di isolamento, divisione, contrapposizione. Legami nuovi, legami che devono essere capaci di toccare la pluralità di cerchi entro cui si esprime la vita umana. (...) È questa esigenza, questo rinnovato bisogno di solidarietà, di socialità, anche di condivisione di valori comuni - prepolitici, prepartitici - che un partito riformatore oggi deve sapere intercettare, mettendoli al centro di un nuovo rapporto tra governanti e governati.
Senza politica, ne sono convinto, non ci sono né libertà né democrazia. La politica, il partito sono una effettiva risorsa; ma né l’una né l’altro potranno mai più essere quello che sono stati nell’epoca della politicizzazione di massa. Sono, l’una e l’altro, un momento fondamentale, ma un momento, di un vivere che si articola in una pluralità di campi, di cerchi, tutti degni, tutti autonomi, tutti irriducibili a un minimo comun denominatore. Lo spazio del rapporto tra governanti e governati si è esteso enormemente oltre le barriere del XX secolo, sia sul piano delle forme che dei contenuti. E questo incide anche sul carattere e sulla funzione del partito, il quale oggi deve essere al centro di una vasta costellazione di istituti, capace di corrispondere alla pluralità di cerchi in cui si esprime l’esperienza civile e politica.
Tocqueville nella Democrazia in America insiste sulla necessità delle associazioni (diventate poi i moderni partiti); oggi, occorre individuare, e valorizzare, nuove forme di cooperazione e di aggregazione - nuovi istituti appunto - aprendosi in tutte le direzioni, imparando, se necessario, anche da quello che avviene nella sfera religiosa. Bisogna passare dal mondo chiuso della politicizzazione di massa all’universo delle nuove forme di associazione, di relazione, di comunicazione.
BUFERA GIUDIZIARIA SUL PREMIER
Scandalo Ruby, il gip di Milano:
"Berlusconi a giudizio immediato"
Il Cavaliere a processo il 6 aprile
per concussione e prostituzione.
Il Viminale e la ragazza parti lese
Bersani: dimissioni e voto subito
MILANO Il Gip di Milano ha disposto il giudizio immediato nei confronti di Silvio Berlusconi per i reati di concussione e prostituzione minorile. Il processo si aprirà il 6 aprile davanti alla quarta sezione penale composta da 3 donne: Giulia Turri, Carmen D’Elia e Orsola De Cristofaro. La decisione ha immediatamente fatto esplodere la polemica tra i partiti con la maggioranza che parla di «uso politico della giustizia» e l’opposizione, col segretario del Pd Pierluigi Bersani in testa, che chiede le «dimissioni» del premier e le «elezioni anticipate».
Tutto inizia con una nota firmata dal presidente dell’ufficio Gip, Gabriella Manfrin: «In data odierna il giudice per le indagini preliminari Cristina Di Censo, ha depositato il decreto con cui si dispone giudizio immediato a carico dell’onorevole Silvio Berlusconi». La procura gli contesta di aver abusato della qualità di presidente del Consiglio per indurre i funzionari della questura di Milano, la notte tra il 27 e il 28 maggio dell’anno scorso, ad affidare Ruby alla consigliera regionale Nicole Minetti e per avere avuto rapporti sessuali con la minorenne ad Arcore tra il 14 febbraio e il 2 maggio. Parti offese vengono indicati il ministero dell’interno, la giovane marocchina e i tre funzionari della Questura presenti quella notte, Pietro Ostuni, Giorgia Iafrate e Ivo Morelli. «Ora andremo in udienza», si limita a dire il capo dei Pm Edmondo Bruti Liberati. L’accusa sarà sostenuta dagli stessi Pm che hanno svolto le indagini: Ilda Boccassini, Antonio Sangermano e Pietro Forno. «Ce lo aspettavamo», ha dichiarato Piero Longo, uno dei legali del premier.
Sul fronte politico, tra i primi a intervenire il capogruppo Pdl alla Camera Fabrizio Cicchitto: «Il governo va avanti resistendo a questi tentativi di manomettere l’equilibrio politico del Paese». «Mai nella storia d’Italia vi è stato un uso della giustizia così finalizzato alla lotta politica. È inevitabile un intervento del Capo dello Stato». Sollecita il ministro per l’Attuazione del Programma Gianfranco Rotondi. E a scendere in campo è anche il ministro della giustizia Angelino Alfano: «Evidentemente il Gip non ha tenuto conto del voto della Camera», dice aggiungendo che il tema «attiene alla sovranità e all’indipendenza del Parlamento» sulle quali non è il governo «che deve intervenire». Non c’è però nessun motivo per le dimissioni del premier: «E la presunzione d’innocenza?».
Il capogruppo del Pd alla Camera Dario Franceschini invita invece Berlusconi «a difendersi davanti ai giudici» e risparmiare «al Paese la figura di un presidente del Consiglio processato per prostituzione minorile». No comment infine da parte della Lega: «Non rispondo a questa domanda». Taglia corto il ministro dell’Interno, Roberto Maroni.
* La Stampa, 15/02/2011
PER L’ITALIA E PER LA COSTITUZIONE, CARO PRESIDENTE NAPOLITANO, CREDO CHE SIA ORA DI FARE CHIAREZZA. PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI ...
La prima intervista di mister B.
Alla vigilia della decisione della Consulta sul Legittimo impedimento, Ecco una chicca d’autore: l’incontro tra Camilla Cederna e il Cavaliere nel 1977. Dove c’è già tutto: dalle bugie alla corruzione, da don Verzé alla politica (l’Espresso, 11 gennaio 2011) *
Nel centenario della nascita di Camilla Cederna (21 gennaio 1911 - 5 novembre 1997) è in uscita per Rizzoli "Il mio Novecento", una raccolta della grande giornalista e scrittrice che per molti anni fu una prestigiosa firma de "L’espresso".
Tra gli articoli che compongono il volume ce n’è uno uscito sul nostro settimanale nell’aprile del 1977: un’intervista ritratto del giovane ed emergente imprenditore edile milanese Silvio Berlusconi. Come nota la stessa Cederna nel suo pezzo, è la prima intervista rilasciata da Berlusconi, che fino ad allora aveva deciso di tenere un profilo molto basso nei suoi rapporti con la stampa.
Il sito de "L’espresso" ripubblica qui di seguito l’articolo in questione, alla vigilia della decisione della Corte Costituzionale sul Legittimo impedimento. Come vedrete, nell’intervista-ritratto della Cederna c’era già quasi tutto di quello che sarebbe diventato, anni dopo, il fenomeno politico-mediatico Silvio Berlusconi.
Serve una città? Chiama il Berlusconi .
Approfittando della vicinanza di un ospedale, il San Raffaele, diretto da un prete trafficone e sospeso a divinis, manda ai vari ministeri una piantina in cui la sua Milano 2 risulta zona ospedaliera. E la cartina falsa verrà distribuita ai piloti: così gli aerei cambiano rotte e non disturbano i residenti del complesso
di Camilla Cederna *
In un ambiente di lusso, saloni uno via l’altro, prati di moquette, sculture che si muovono, pelle, mogano e palissandro, continua a parlare un uomo non tanto alto, con un faccino tondo da bambino coi baffi, nemmeno una ruga, e un nasetto da bambola. Completo da grande sarto, leggero profumo maschio al limone. Mentre il suo aspetto curato, i suoi modini gentili, la sua continua esplosione di idee piacerebbero a un organizzatore di festini e congressi, il suo nome sarebbe piaciuto molto a Carlo Emilio Gadda. Si chiama infatti Silvio Berlusconi.
Un milanese che vale miliardi, costruttore di smisurati centri residenziali, ora proprietario della stupenda villa di Arcore dove vissero Gabrio Casati e Teresa Confalonieri (con collezione di pittori lombardi del Cinquecento, e mai nessun nudo per non offendere la moglie, religiosissima), quindi della villa ex Borletti ai margini del parco di Milano.
Allergico alle fotografie («magari anche per via dei rapimenti» spiega con un sorriso ironico solo a metà) è soddisfattissimo che nessuno lo riconosca né a Milano né in quella sua gemma che considera Milano 2. Siccome è la sua prima intervista, è contento di raccontarmi la sua vita felice. Media borghesia, il papà direttore di banca che, a liceo finito, non gli dà più la mancia settimanale; ma lui non si dispera, perché, mentre studia Legge, lavora in vari modi: suonando Gershwin o cantando le canzoni francesi alle feste studentesche. Non solo, ma fra un trenta e lode e l’altro, fa il venditore di elettrodomestici, e la sua strada è in salita: da venditore a venditore capo a direttore commerciale. Dopo la sua tesi di laurea sulla pubblicità (il massimo dei voti) inizia la sua vera attività entrando successivamente in due importanti imprese di costruzione.
A venticinque anni crea un complesso di case intorno a piazza Piemonte, ecco quindi la fortunatissima operazione di Brugherio, una lottizzazione destinata al ceto medio basso, mille appartamenti che van via subito; e preso dal piacere di raccontare, ogni tanto va nel difficile, dice «congesto», macrourbanistica, architettura corale, la connotazione del mio carattere è la positività, «natura non facit saltus». Il suo sogno sarebbe esser ricercato in tutto il mondo per fare città, e «chiamiamo il Berlusconi» dovrebbe essere l’invocazione di terre desiderose di espandersi. Di Milano 2, l’enorme quartiere residenziale nel comune di Segrate, parla come di una donna che ama, completo com’è di ogni bellezza e comfort, e centomila abitanti, che a dir che sono soddisfatti è dir poco. Lui legge tutte le novità di architettura e urbanistica, qualche best-seller ogni tanto, rilegge spesso l’Utopia di Tommaso Moro (infatti, lo ’scrisse’.. leggi l’articolo seguente-solleviamoci), sul quale vorrebbe scrivere un saggio. Si ritiene l’antitesi del palazzinaro, si ritiene un progressista, è cattolico e praticante, ha votato Dc; e «se l’urbanistica è quella che si contratta fra costruttori e potere politico, la mia allora non è urbanistica». Grazie, e vediamo cosa dicono gli altri di lui.
Lo considerano uno dei maggiori speculatori edilizi del nostro tempo che, valendosi di grosse protezioni vaticane e bancarie, vende le case e prende i soldi prima ancora di costruirle, lucrando in proprio miliardi di interessi. Si lega prima con la base Dc (Marcora e Bassetti), poi col centro, così che il segretario provinciale Mazzotta è il suo uomo. Altro suo punto di riferimento è il Psi, cioè Craxi, che vuol dire Tognoli, cioè il sindaco. E qui viene contraddetta la sua avversione verso l’urbanistica come compromesso tra politici e costruttori.
La società di Berlusconi è la Edilnord, fondata nel ’63 da lui e da Renzo Rezzonico, direttore di una società finanziaria con base a Lugano, liquidata nel ’71 per segrete ragioni. Viene fondata allora la Edilnord centri residenziali con le stesse condizioni della compagnia di prima: lo stesso capitale sociale (circa diecimila dollari), la stessa banca svizzera che fa i prestiti (la International Bank di Zurigo), ed ecco Berlusconi procuratore generale per l’Italia.
Nel ’71 il Consiglio dei Lavori Pubblici dichiara ufficialmente residenziale la terra di Berlusconi (comprata per 500 lire al metro quadrato nel ’63 e venduta all’Edilnord per 4250). Da Segrate (amministrazione di sinistra prima, poi socialista e Dc) vengono concesse all’Edilnord licenze edilizie in cambio di sostanziose somme di danaro. Umberto Dragone, allora capo del gruppo socialista nel consiglio comunale di Milano, pensa che l’Edilnord abbia pagato ai partiti coinvolti il cinque-dieci per cento dei profitti (diciottodiciannove miliardi) che si aspettava da Milano 2. (Qualche appartamento arredato pare sia stato dato gratis ad assessori e tecnici Dc e socialisti. Certo è che questo regalo lo ha avuto un tecnico socialista che vive lì con una fotomodella.)
«Il silenzio non ha prezzo, ecco il paradiso del silenzio» era scritto sulla pubblicità di questa residenza per alta e media borghesia. Ma il silenzio non c’è. L’aeroporto di Linate è lì a un passo, ogni novanta secondi decolla un aereo, intollerabili le onde sonore, superiori a 100 decibel. Così l’Edilnord si muove a Roma, manovrando i ministeri, per ottenere il cambio delle rotte degli aerei. (In quattro anni la Civilavia aveva già ordinato sei cambiamenti delle rotte degli apparecchi di Linate.) Approfittando della vicinanza di un ospedale, il San Raffaele, diretto da un prete trafficone e sospeso a divinis, don Luigi Maria Verzé, manda ai vari ministeri una piantina in cui la sua Milano 2 risulta zona ospedaliera e la cartina falsa verrà distribuita ai piloti (con su la croce, simbolo internazionale della zona di rispetto), così la Civilavia cambia rotte, ancora una volta.
Quanto a don Verzé, ottiene in cinque giorni, con decreto firmato dal ministro della Sanità Gui, la sostituzione del suo istituto privato e ancora in disarmo in istituto di ricerca a carattere scientifico (un titolo onorifico che viene dato solo in casi eccezionali), con annessa possibilità di avere finanziamenti. Lo Stato manda subito seicento milioni, mentre un miliardo e mezzo sarebbe stato versato dalla Regione. Di qui una polemica con Rivolta finché, due settimane fa, l’ex prete è stato condannato a un anno e quattro mesi per tentativo di corruzione ai danni dell’assessore Rivolta; l’istituto è ora frequentato da studenti e medici dell’università che lamentano la mancanza di strutture e strumenti validi.
Altre notizie. Berlusconi sta mettendo in cantiere la sua nuova Milano 3 nel comune di Basiglio a sud della città, con appartamenti di tipo «flessibile», cioè con pareti che si spostano secondo le esigenze familiari. In settembre comincerà a trasmettere dal grattacielo Pirelli la sua Telemilano, una televisione locale con dibattiti sui problemi della città, un’ora al giorno offerta ai giornali (egli possiede il quindici per cento del «Giornale» di Montanelli).
«Troppi sono oggi i fattori ansiogeni,» dice «la mia sarà una tv ottimista.» Staff di otto redattori, più tecnici e cameramen, quaranta persone in tutto. E pare che in questo suo progetto sia stato aiutato dall’amico Vittorino Colombo, ministro delle Poste e telecomunicazioni. Berlusconi aveva anche pensato di fondare un circolo di cultura diretto da Roberto Gervaso; la sua idea preferita però era quella di creare un movimento interpartitico puntato sui giovani emergenti, ma per adesso vi ha soprasseduto. Gli sarebbe piaciuto anche diventare presidente del Milan, ma la paura della pubblicità lo ha trattenuto. Massima sua aspirazione sarebbe infine quella di candidarsi al Parlamento europeo.
Ci tiene anche a coltivare al meglio la sua figura di padre, cercando di avere frequenti contatti coi suoi figlioletti. Quel che deplora è che dalle elementari di adesso sia stato esiliato il nozionismo: a lui le nozioni, in qualsiasi campo, hanno giovato moltissimo.
aprile 1977
fonte: http://espresso.repubblica.it/dettaglio/la-prima-intervista-di-mister-b/2142005
CHE MISERIA!!! IL POPOLO D’ITALIA, IL POPOLO DELLA LIBERTA’, IPNOTIZZATO, GIORGIO NAPOLITANO CHE GRIDA "FORZA ITALIA", E SILVIO BERLUSCONI CHE RIDE E RIDE A CREPAPELLE!!!
Gheddafi, un circo che ci umilia
Nessun’altra diplomazia occidentale tollera e incoraggia gli eccessi pittoreschi di un dittatorello e degrada la propria capitale a circo. Ci dispiace anche per il presidente del Consiglio, la cui maschera italiana si sovrappone ormai a quella libica, indistinguibili nel pittoresco, nell’eccesso, nella vanità, nel farsi soggiogare dalle donne che pensano di dominare
di FRANCESCO MERLO *
ANCHE ieri c’era il picchetto in alta uniforme ai piedi della scaletta dalla quale sono scese due amazzoni nerborute e in mezzo a loro, come nell’avanspettacolo, l’omino tozzo e inadeguato, la caricatura del feroce Saladino. Scortato appunto da massaie rurali nel ruolo di mammifere in assetto di guerra. E va bene che alla fine ci si abitua a tutto, anche alla pagliacciata islamico-beduina che Gheddafi mette in scena ogni volta che viene a Roma, ma ancora ci umilia e davvero ci fa soffrire vedere quel reparto d’onore e sentire quelle fanfare patriottiche e osservare il nostro povero ministro degli Esteri ridotto al ruolo del servo di scena che si aggira tra le quinte, pronto ad aggiustare i pennacchi ai cavalli berberi o a slacciare un bottone alle pettorute o a dare l’ultimo tocco di brillantina al primo attore.
È vero che ormai Roma, specie quella sonnolente di fine estate, accoglie Gheddafi come uno spettacolo del Sistina, con i trecento puledri che sembrano selezionati da Garinei e Giovannini, la tenda, la grottesca auto bianca, le divise che ricordano i vigili urbani azzimati a festa, e tutta la solita paccottiglia sempre uguale e sempre più noiosa ma, proprio perché ripetuta e consacrata, sempre più umiliante per il Paese, per i nostri carabinieri, per le istituzioni e per le grandi aziende, private e pubbliche, che pur legittimamente vogliono fare i loro affari con la Libia.
Nessun’altra diplomazia occidentale tollera e incoraggia gli eccessi pittoreschi di un dittatorello e degrada la propria capitale a circo. Ci dispiace - e lo diciamo sinceramente - anche per il presidente del Consiglio, la cui maschera italiana si sovrappone ormai a quella libica, indistinguibili nel pittoresco, nell’eccesso, nella vanità, nel vagheggiare l’epica dell’immortalità, nel farsi soggiogare dalle donne che pensano di dominare.
Di nuovo ieri Gheddafi si è esibito davanti a 500 ragazze, reclutate da un’agenzia di hostess, che hanno ascoltato i suoi gorgoglii gutturali tradotti da un interprete, le solite banalità sulla teologia e sulla libertà delle donne in Libia, il Corano regalato proprio come Berlusconi regala "L’amore vince sempre sull’odio", quel libro agiografico e sepolcrale edito da Mondadori. È fuffa senza interesse anche per gli islamici ma è roba confezionata per andare in onda nella televisione di Tripoli. Il capotribù vuol far credere alla sua gente di avere sedotto, nientemeno, le donne italiane e di averle folgorate recitando il messaggio del profeta. Addirittura, con la regia dell’amico Berlusconi, tre di queste donne ieri si sono subito convertite, a gloria della mascolinità petrolchimica libica: "Italiane, convertitevi. Venite a Tripoli e sposate i miei uomini". E di nuovo ci mortifica tutta questa organizzazione, il cerimoniale approntato dalla nostra diplomazia, con Gheddafi serio ed assorto che suggella la fulminea conversione di tre italiane libere e belle: un gesto di compunzione, gli occhi chiusi per un attimo, il capo piegato come un officiante sul calice. "L’Islam deve diventare la religione di tutta l’Europa" ha osato dire nella capitale del cattolicesimo, mentre l’Europa (con l’America) si mobilita per salvare la vita di una donna che rischia la lapidazione per avere fatto un figlio fuori dal matrimonio. Certo, l’Islam non è tutto fanatismo ma nello sguardo di Gheddafi c’è condensata la sua lunga vita di dittatore, di stratega del terrorismo, di tiranno che dal 1° settembre del 1969 opprime il suo popolo.
Ebbene, è a lui che oggi Berlusconi di nuovo bacerà la mano, come ha già fatto a Tripoli. Berlusconi, lasciandosi andare con i suoi amici fidati, ha più volte detto di invidiare Muammar perché comanda e non ha lacci, non combatte con il giornalismo del proprio paese, non ha bisogno di fare leggi ad personam ma gli basta un solo editto tribale, non ha né Fini né Napolitano, non ha neppure bisogno di pagare le donne... È vero che gli esperti di Orientalistica sostengono che la tribù in Libia è matriarcale e che dunque la moglie di Gheddafi sarebbe la generalessa del colonnello, ma questo Berlusconi non lo sa, la sua Orientalistica è ferma a quella dell’avanspettacolo, al revival di Petrolini: "Vieni con Abdul che ti faccio vedere il tukul".
E infatti ogni volta che Berlusconi va a Tripoli Gheddafi fa di tutto per stupirlo con gli effetti speciali del potere assoluto, gli fa indossare la galabìa e lo fa assistere alle parate militari delle amazzoni, organizza il caravanserraglio di Mercedes piene di farina, orzo e datteri da distribuire agli affamati recitando il ruolo del salvatore, proprio come Berlusconi all’Aquila... E ha pure imposto nei passaporti libici la foto di Berlusconi. Se lo porta nel deserto di notte per mostrargli la magia del freddo glaciale, tutti e due ad aspettare l’alba e il sole che torni ad arroventare la tenda. E ogni volta alla tv libica il viso di Berlusconi diventa in dissolvenza il viso di Gheddafi, e va in onda Berlusconi contrito nel museo degli orrori commessi dagli italiani, e c’è sempre il solito Frattini accovacciato fuori dalla tenda ad aspettare, aspettare, aspettare. E poi il tramonto, la luna...
Gheddafi a Roma fa quello che vuole non soltanto in cambio delle galere e dei campi di concentramento dove la polizia libica trattiene gli africani che vorrebbero fuggire verso l’Italia, e non solo perché i due fanno affari privati, come da tempo sospetta la stampa internazionale, e ora anche italiana. Il punto è che Berlusconi gli mette a disposizione tutto quello di cui ha bisogno l’eccentricità beduina perché con Gheddafi ha un patto antropologico. È una somiglianza tra capi che la storia conosce già, sono identità che finiscono con il confondersi: Trujllo e Franco, Pinochet e Videla, Ceausescu ed Enver Hoxha, Pol Pot e Kim il Sung... Non è l’ideologia a renderli somiglianti ma l’idea del potere, quello stesso che oggi lega Berlusconi e Gheddafi, Berlusconi e Chavez, Berlusconi e Putin. Ecco cosa offende e degrada l’Italia: l’Asse internazionale della Satrapia.
* la Repubblica, 30 agosto 2010
INTERCETTAZIONI
P3, "Berlusconi è Cesare"
L’Idv: "Deve dimettersi"
Dopo le rivelazioni sulla deposizione di Martino scoppia la polemica. Orlando: "Istituzioni in pericolo". Cicchitto: "Gli arresti servono per forzare gli indagati a parlare" *
ROMA - "Cesare-Berlusconi, il vice-Cesare dell’Utri e la sua cricca piduista vadano a casa", così il portavoce dell’Idv Leoluca Orlando commenta la deposizione di Arcangelo Martino che ha detto ai pm che il "Cesare" venuto fuori nelle intercettazioni sui loschi affari della P3 sarebbe proprio il premier. "Le istituzioni democratiche - ha continuato Orlando - e la stessa Costituzione sono in pericolo. Dalle ultime rivelazioni di alcuni organi di stampa sull’inchiesta della nuova P2 emerge, infatti, un quadro gravissimo, eversivo e inquietante. Il presidente del Consiglio, il senatore Dell’Utri, l’ispettore del ministero Miller, il sottosegretario alla giustizia Caliendo, il coordinatore Verdini e l’ex sottosegretario Cosentino, con affaristi e imprenditori senza scrupoli, non solo avrebbero fatto pressioni sulla Consulta per il lodo Alfano, ma anche sulla Cassazione per sistemare la causa da 450 milioni di euro fra la Mondadori e lo Stato. In un paese normale - conclude orlando - si sarebbero già dovuti dimettere tutti".
La polemica nasce dalla notizia secondo cui il nome in codice 1 Cesare usato al telefono dai componenti della "cricca" era effettivamente rivolto al premier. Arcangelo Martino, arrestato assieme a Flavio Carboni e Pasquale Lombardi per la presunta associazione segreta P3, avrebbe spiegato ai pm il suo ruolo nel ’gruppo di potere occulto’ e rivelato che il nome in codice si riferirebbe a Silvio Berlusconi e che il "vice-Cesare" delle intercettazioni sarebbe il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri.
Martino avrebbe inoltre ammesso che, nelle riunioni a casa del coordinatore del Pdl, Denis Verdini, si sarebbe discusso effettivamente del destino del lodo Alfano alla Corte Costituzionale e della causa milionaria tra la Mondadori e lo Stato. E avrebbe riferito anche di compravendite di voti che si sarebbero svolte in senato per far cadere il governo Prodi nella scorsa legislatura.
Per l’avvocato Renato Borzone, difensore di Flabio Carboni, le dichiarazioni di Martino fanno invece parte di un "circo mediatico" molto prevedibile. "Come ampiamente prevedibile - ha detto - dopo che la Cassazione ha annullato l’ordinanza del Tribunale della Libertà, riprendono le indiscrezioni sull’inchiesta nel tentativo di stampellarla in qualche modo. La notizia del cosiddetto "pentimento" dell’ imprenditore Martino, fatta filtrare ad arte all’indomani della decisione della Cassazione, conferma, al di là del gioco di specchi tra procura e gip, che la vera ragione della custodia cautelare degli indagati contrasta con le norme del codice di procedura penale, che vietano che il carcere preventivo sia contemplato per esercitare pressioni sugli indagati a rendere dichiarazioni".
Una dichiarazione alla quale si è attaccato subito il capogruppo del Pdl Fabrizio Cicchitto. "A proposito della inchiesta sulla cosiddetta P3 - ha detto Cicchitto - le dichiarazioni dell’avvocato su Arcangelo Martino sono molto inquietanti perché oramai è evidente che c’è una ulteriore ipotesi che riguarda l’arresto ed è quella di forzare le dichiarazioni dell’imputato".
* la Repubblica, 11 settembre 2010
GOVERNO
I berlusconiani attaccano Napolitano Il Pd: "Il premier rispetti la Costituzione"
"Meglio il voto che la paralisi politica" dice il coordinatore Bondi e Cicchitto annuncia "manifestazioni di piazza" contro l’ipotesi del governo tecnico. I finiani con il capo dello Stato
ROMA - "No alla corsa al voto e stop alla campagna contro il presidente della Camera" 1, il messaggio recapitato da Giorgio Napolitano al mondo politico non è piaciuto per nulla al Pdl ed i big del partito sono scesi in campo per puntualizzare e mettere paletti a partire dalla contrarietà all’ipotesi di governi tecnici. Fabrizio Cicchitto si spinge a prefigurare " incisive manifestazioni di piazza" qualora venissero messe in pratica "manovre di Palazzo". Apprezzamento per il messaggio del Capo dello Stato arriva invece dal gruppo di "Futuro e Libertà": basta con gli attacchi al presidente della Camera, dicono i finiani. Nell’opposizioni è critico con i berlusconiani il segretario del Pd, Pierluigi Bersani. "Berlusconi rispetti la Costituzione", dice Bersani, "le minacce dei suoi non impressionano nessuno". Mentre Di Pietro pur condividendo le valutazioni del Capo dello Stato, ritiene che il suo messaggio "sia in anticipo e possa generare equivoci e malumori".
Pdl su Napolitano. Il messaggio del Capo dello Stato resta al centro della giornata politica. In casa Pdl un governo tecnico è un’eventualità non contemplata. "L’intervista del presidente della Repubblica pone questioni al mondo politico che non possono essere eluse e che dovranno trovare un chiarimento nell’interesse del paese", dice il ministro dei Beni culturali Sandro Bondi. "Vi sono tuttavia aspetti dell’attuale situazione politica - prosegue Bondi - che risultano già evidenti, a partire dalla constatazione che, maggiormente in una situazione di perduranti difficoltà economiche, sia meglio il ricorso al voto piuttosto che la paralisi politica".
No a governi tecnici. Fabrizio Cicchitto, presidente dei deputati del Pdl ribadisce il suo no all’ipotesi di esecutivi tecnici. "Non sono per niente condivisibili le ipotesi di governi tecnici e di governi di transizione. Si tratterebbe, infatti, di manovre di Palazzo, volte ad evitare che si ascolti quello che pensano gli elettori cioè la volontà effettiva del popolo. Qualora decollassero operazioni di questo tipo, sarebbe legittimo sviluppare - è la conclusione di Cicchitto - le più’ incisive manifestazioni politiche, in Parlamento e nel Paese". "E’ giusto", aggiunge Gasparri, "il tono misurato usato dal presidente Napolitano in una intervista rilasciata a un giornale di partito, noto per le sue campagne di odio contro Berlusconi che non corrispondono alle critiche di Napolitano alle campagne di delegittimazione delle istituzioni". "Non c’è nessuno spazio in questo Parlamento", conclude Gasparri, "per cambiare la legge elettorale. Napolitano lo sa benissimo. Le alternative sono solo due: o Berlusconi o il voto".
Fli: accogliere l’appello di Napolitano. Futuro e libertà rilancia invece l’appello del presidente della Repubblica e invita a far cessare gli attacchi contro il presidente della Camera, Gianfranco Fini. "Tutti dovrebbero riflettere sulle parole del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano secondo cui è ora che cessi la campagna gravemente destabilizzante sul piano istituzionale qual è quella volta a delegittimare il presidente di un ramo del Parlamento e la stessa funzione essenziale che egli è chiamato ad assolvere per la continuità dell’attività legislativa". E’ quanto hanno dichiarato i parlamentari di Fli, Italo Bocchino, Silvano Moffa e Pasquale Viespoli.
"Poichè ad alimentare questa irresponsabile campagna sono alcuni esponenti del Pdl e del governo oltre che il continuo delirio calunniatorio del giornale della famiglia Berlusconi è facile capire chi gioca allo sfascio e vuol trascinare il paese in una ulteriore avventura elettorale nel più assoluto disprezzo dell’interesse nazionale. Noi non ci stiamo e sentiamo il dovere di denunciarlo con chiarezza", concludono.
Bersani: Berlusconi rispetti la Costituzione. Condivisione per il messaggio del presidente della Repubblica dall’opposizione. "Le parole del presidente Napolitano sono un richiamo forte e chiaro alla responsabilità politica e ai principi costituzionali". Lo afferma il Segretario nazionale del Pd Pier Luigi Bersani. "E’ inutile negare che la discussione che si è aperta tocca ormai un punto di fondo". "Si vuole interpretare la Costituzione come un involucro formale", nota il segretario del Pd, "cui dare sostanza con un consenso interpretato come un plebiscito e, se occorre, come ha detto Cicchitto, anche con la piazza. Se la destra pensa con idee del genere di camminare sul velluto, si sbaglia di grosso". "Finchè Berlusconi non avrà fatto la Costituzione di Arcore", conclude Bersani, "volente o nolente rispetterà quella su cui ha giurato. Sappia che le minacce esplicite o velate non impressionano nessuno".
La precisazione di Di Pietro. Apprezzamento, ma con un distinguo dall’Idv. "Il presidente della Repubblica ha detto una cosa giusta, anzi giustissima", dichiara Antonio Di Pietro, "ma ritengo che il suo messaggio sia in anticipo e possa generare equivoci e malumori. Lui è l’arbitro, e non può muoversi come un giocatore perchè così rischia di condizionare il gioco".
I centristi. L’Udc condivide "in pieno il prezioso invito del presidente Napolitano alla moderazione dei toni e alla sobrietà". Lo dice il segretario centrista Lorenzo Cesa, che avverte: "Nel caso in cui questa maggioranza venisse meno c’è la costituzione a fare la massima chiarezza sui percorsi e sui soggetti cui compete esprimersi: tutto il resto, compresi i commenti stizziti di alcuni esponenti politici alle parole del Capo dello Stato, denota solo il livello di degrado cui è arrivato lo scontro politico in questo paese".
* la Repubblica, 13 agosto 2010 (ripresa parziale)
Il cavaliere impunito e la regola del silenzio
di Giorgio Bocca (la Repubblica, 12.06.2010)
Giù la maschera. Quello che vuole, che pretende la maggioranza al potere è l’impunità totale, il silenzio sui suoi furti e malversazioni. Ai tempi di tangentopoli la maggioranza al potere si accontentava di far passare i suoi furti per legittima pubblica amministrazione. Ricordate la tesi del craxiano Biffi Gentili? Se i politici sono chiamati ad amministrare grandi città, grandi problemi con competenze da tecnocrati perché non devono essere pagati come tali? E se non lo sono perché si vuole impedire che si autofinanzino? Oggi la maggioranza al potere non ha più bisogno di questi sofismi. Rivendica il diritto di rubare attraverso la politica come un normale, dovuto diritto di preda. Al tempo di tangentopoli i socialisti craxiani ma anche quelli di altri partiti avevano nascosto i furti per mezzo della politica nei conti «protetti» cioè segreti in Svizzera a Singapore a Hong Kong. E avendo messo il bottino al sicuro si erano tolti anche il gusto di prendere per i fondelli i loro concittadini con la tesi assurda che l’autofinanziamento dei partiti non era solo una necessità ma un dovere di chi si faceva carico di amministrare lo Stato e la democrazia.
Oggi nella Italia berlusconiana il furto attraverso la politica è scoperto, normale. Appena si può si ruba e viene il sospetto che sia avvenuta una mutazione antropologica, che la maggioranza al potere sia convinta che l’uso della politica per rubare sia non solo normale ma lodevole e che le istituzioni abbiano il dovere di proteggerlo. L’Italia un tempo paese dei misteri, delle società segrete, delle congiure massoniche sotto l’egida del cavaliere di Arcore sta diventando una democrazia autoritaria dichiarata e compatta a difesa dei suoi vizi e dei suoi furti. Perché opporsi al bavaglio che viene imposto all’informazione? Non aveva ragione Mussolini ad abolire la cronaca nera e a coprire gli scandali del regime? Esiste un modo più efficace di lavare i panni sporchi in gran segreto senza che le gazzette li mettano in piazza?
L’imprenditore Anemone che si rifiuta di rispondere ai magistrati che indagano sui suoi affari non è la pecora nera, l’eccezione ma la norma della società berlusconiana del fare tutto ciò che comoda ai padroni, senza pagare dazio.
La conferma della mutazione antropologica viene dal fatto che i politici presi con la mano nella marmellata mostrano più stupore che vergogna. La loro corruzione era normalissima, candida, da buon padre ladro di famiglia. A uno era bastato pagare una garconnière al centro di Roma, un altro aveva lasciato mano libera agli impresari edili dopo il terremoto in cambio di una revisione in casa sua dei servizi igienici, diciamo del funzionamento del cesso e del bagno. Ad altri ancora la possibilità di avere a spese dello Stato qualche mignotta, insomma la grande crisi della politica italiana, il grande rischio di una democrazia autoritaria, di una dittatura mascherata, morbida starebbe nella banalità del male, nei piccoli vizi nelle piccole tentazioni della cosiddetta classe dirigente.
Un’Italia senza misteri con un capo del governo schietto, schiettissimo. Che vuole? Che pretende? Il minimo di un uomo del fare più che del pensare: di non avere controlli, di non avere intralci e se gli viene in testa di allevare un cavallo nessuno si permetta di obbligarlo a tirar su una mucca. Che cosa ha scoperto il Cavaliere? Quello che avevano scoperto prima di lui tutti gli uomini autoritari del fare, che i controlli sono fastidiosi e a volte insopportabili. In una parola: che la democrazia è più complicata e faticosa della dittatura.
di don Aldo Antonelli
Siamo sotto una grandinata di bombardamenti senza sosta e senza misura e senza ritegno. Dalle prediche blasfeme di don Berlusconi alle false esecrazioni morali del Papa, passando per i comizi fascisti dell’onorevole Bagnasco.
A ruoli invertiti il puttaniere pluridivorziato fa omelie sull’amore e il papa che da cardinale per 24 anni, dal 1981 al 2005, ha visto passare sotto le sue mani tutti i casi gravi di devianza sessuale commessi da sacerdoti senza che movesse un dito. E’ sua la lettera solenne del maggio 2001 (Epistula de delictis gravioribus) che poneva sotto segreto pontificio tali delitti.
Il Falso per antonomasia e il falsificatore di professione fonda il Movimento dei Missionari della Verità e il cardinale chiude gli occhi e allunga la mano per benedire. Anzi allunga tutte e due le mani: una per prendere e l’altra per benedire.
Da ladri professionisti ben si intendono: ambedue ladri di cosciena e di buona fede. Ladri di libertà e di dignità.
C’è un tribunale internazionale cui deferirli?
L’uno con il suo sorriso a gremagliera e l’altro con il pastorale a mò di scimitarra!
Il primo che rifonda il Fascismo del nuovo millennio e il secondo che riscrive il Sillabo in lingua moderna.
Ambedue ladri e ambedue assassini: uccisori di democrazia e affossatori del Concilio.
Disobbedir loro è ormai un dovere morale, urgente e improcrastinabile.
Aldo Antonelli parroco
Cav. che abbaia
di Massimo Gramellini (La Stampa, 18 marzo 2010)
Nei Paesi normali, un capo del governo che urla a un’autorità dello Stato «fate schifo», «siete una barzelletta» e ordina di chiudere un programma del servizio pubblico sarebbe costretto ad andarsene nel giro di un’ora. Sempre in quei famosi Paesi, quando un’autorità dello Stato viene trattata dal capo del governo alla stregua di una cameriera, si dimette in un sussulto d’orgoglio oppure esegue l’ordine.
Ma noi siamo nella terra degli arlecchini: più servili che servi. Tutti inchini e promesse, niente sostanza. Attraverso il sipario trasparente delle intercettazioni osserviamo questi funzionari mentre si sorbiscono le reprimende del Capo in silenzio (il silenzio degli Innocenzi). Cercano di ammansirlo con parole vaghe, alzano fumo, ma alla fine che fanno? Niente. Lasciano Santoro al suo posto (per fermarlo un misero mese hanno dovuto appiedare pure Vespa) e il Cav. in preda a un delirio di onni-impotenza. Poi, passata la tempesta telefonica, si sfogano con gli amici: «Aho’, quello me manda a fare in c. ogni tre ore!». E lo dicono senza dignità, ma anche senza paura, come se la loro essenza millenaria di burocrati li mettesse al riparo persino dalle ire del padrone.
Montanelli sosteneva che durante il ventennio l’unica resistenza al fascismo la fecero gli impiegati pubblici, contro l’abolizione della pausa cappuccino. Chinavano il capo, allargavano le braccia. E continuavano ad andare al bar. Fu pensando a loro che Mussolini ammise: «Governare gli italiani non è difficile, è inutile». Una grave iattura, certo, ma talvolta consente di evitarne di peggiori.
La crisi di regime
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 22.01.2010)
È bene chiamare le cose con il loro nome: stiamo vivendo una crisi di regime. Dalla quale si esce con una rifondazione della Repubblica secondo una lettura dinamica dei principi della Costituzione o, al contrario, abbandonando quei principi, con una rottura che porta, appunto, a un mutamento di regime. Negli ultimi tempi, infatti, si sono moltiplicate le dichiarazioni di chi esplicitamente sostiene la necessità di mutare i fondamenti della Costituzione, a cominciare dal suo articolo 1. Non bisogna sottovalutare questi atteggiamenti, considerandoli esuberanze personali: si commetterebbe lo stesso errore fatto quando si è derubricato il linguaggio razzista di molti politici a folklore.
Ma vi sono anche prese di posizioni apparentemente più moderate, che prospettano aggiramenti dei principi costituzionali che possono rivelarsi ancor più insidiosi degli attacchi diretti. Molti continuano a dire che la prima parte della Costituzione non si tocca, che principi e diritti fondamentali non sono in discussione. Ma la Costituzione affida la garanzia dei diritti alla libera valutazione del Parlamento e al controllo di una magistratura indipendente. Nel momento in cui la voce del Parlamento viene spenta (lo abbiamo visto con il processo breve) e si prospettano radicali riforme costituzionali della magistratura, ecco che l’apparenza è quella di un rispetto della prima parte della Costituzione, la sostanza è quella di una sua erosione. La riforma costituzionale è già in atto, nel modo più inquietante.
Parlando di modifiche costituzionali, bisogna partire da alcuni punti fermi. Il primo dei quali riguarda il fatto che la Costituzione non è tutta "disponibile" per qualsiasi scorreria di interessati riformatori. Nel 1988 la Corte costituzionale lo ha detto esplicitamente: «La Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali», perché «appartengono all’essenza dei valori sui quali si fonda la Costituzione». Siamo di fronte all’indecidibile, a un limite che non può essere superato «neanche dalla maggioranza e neanche dall’unanimità dei consociati». Una considerazione, questa, da tenere ben presente in un tempo in cui l’appello alla maggioranza viene continuamente adoperato per legittimare qualsiasi iniziativa. E si deve aggiungere che tutto questo trova il suo fondamento profondo nell’articolo 139 della Costituzione, dove si stabilisce che «la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale». Questo non vuol solo dire, banalmente, che non si ammette il ritorno ad un regime monarchico. Poiché la forma repubblicana del nostro Stato risulta dall’insieme dei principi contenuti nella Costituzione, tutto quel che altera questo quadro porta con sé una violazione radicale della Costituzione, e un conseguente passaggio da regime politico ad un altro.
Intraprendendo un cammino di riforma in un clima culturale e politico degradato com’è quello attuale, bisogna anzitutto individuare gli ambiti legittimi di una eventuale revisione. Gli studiosi sottolineano proprio questa necessità, ricordando ad esempio che la riforma del Parlamento non può trasformare la nostra Repubblica da parlamentare in presidenziale o negare l’effettiva rappresentatività della democrazia italiana (lo ha fatto Gianni Ferrara). Allo stesso modo, e più radicalmente, non si può mettere in discussione «il valore del lavoro come base della Repubblica democratica» (sono parole del Presidente della Repubblica), perché questa non è una affermazione a sé stante, ma individua un principio sul quale s’innesta una tutela forte della persona, per quanto riguarda la sua «esistenza libera e dignitosa» (articolo 36) e l’inviolabilità della sicurezza, della libertà e della dignità umana. Queste sono parole dell’articolo 41, che in questi fondamentali principi individua un limite all’iniziativa economica privata, limite da tempo ritenuto inaccettabile da una critica che vuole sovvertire la gerarchia costituzionale, mettendo mercato e concorrenza al posto del lavoro. Ma proprio le drammatiche vicende di Rosarno dovrebbero dimostrare la straordinaria attualità della linea indicata da quell’articolo. Infatti siamo di fronte a una impressionante storia di sfruttamento e di negazione dell’umano, che conferma la necessità di mantenere, e eventualmente di rafforzare, il principio che fa prevalere sulle ragioni del mercato il rispetto della persona del lavoratore, della sua libertà, dignità, sicurezza.
Continue, poi, sono le prese di posizione che, alterando la gerarchia costituzionale, negano il fondamentale principio di eguaglianza. Di nuovo la questione degli immigrati è un buon terreno di verifica. Molti giudici hanno sollevato la questione di legittimità delle nuove norme sull’immigrazione clandestina. Reagendo a questa iniziativa, si è sostenuto che, qualora la Corte le dichiarasse incostituzionali, si avrebbe una sorte di estinzione della Repubblica italiana come Stato, poiché essa perderebbe una prerogativa fondante della statualità, cioè il diritto di regolare quel che avviene sul proprio territorio. Questo atteggiamento è rappresentativo della revisione "strisciante" della Costituzione. Ricordiamo, allora, che il Presidente della Repubblica, in una lettera a Maroni e Alfano nello stesso giorno in cui emanava la legge sulla sicurezza, esprimeva «perplessità e preoccupazione» per alcune norme di «dubbia coerenza con i principi dell’ordinamento», riferendosi specificamente anche alle norme sull’immigrazione clandestina. Le eccezioni di costituzionalità avanzate dai magistrati riguardano la ragionevolezza di quelle norme e il loro rispetto del principio di eguaglianza. La cittadinanza, infatti, è ormai vista come l’insieme dei diritti che accompagnano la persona quale che sia il luogo del mondo in cui si trova, superando proprio le angustie del criterio della territorialità. Non si può ammettere quindi, che una repubblica democratica neghi il principio di eguaglianza e il rispetto dei diritti fondamentali in relazione al modo in cui si è entrati sul suo territorio.
Esplicite o striscianti, dunque, sono molte le mosse che incitano a revisioni costituzionali che incidono sui principi, fornendo così la testimonianza di un cambiamento di regime che si vuole imporre, o almeno secondare. Quanto, poi, al presunto invecchiamento d’una Costituzione votata sessant’anni fa, vorrei ricordare una recentissima sentenza del Conseil Constitutionnel francese, che ha dichiarato incostituzionale una legge per la sua scarsa comprensibilità (quante leggi italiane reggerebbero a un simile controllo?) richiamando gli articoli 4, 5, 6 e 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789.
L’obbligo di una esplicita riflessione culturale e politica sugli intoccabili fondamenti costituzionali è oggi ancor più ineludibile perché siamo di fronte a quello che si può definire un vero "risveglio costituzionale". Molti cittadini cercano e realizzano forme di organizzazione e di azione partendo appunto dalla Costituzione. Questo riconoscimento ci parla di vitalità della Costituzione, quella che ha nel sentire dei cittadini il suo più solido fondamento. Qui può radicarsi una vera opposizione al mutamento di regime. Vogliamo tenerne conto?
Lo afferma un documento, votato all’unanimità, della Prima Commissione
del Consiglio Superiore della Magistratura che dovrà essere ratificato dal plenum
Il Csm: "Il premier denigra la magistratura
è a rischio l’equilibrio fra i poteri dello Stato" *
ROMA - Il Csm reagisce ai ripeturi pronunciamenti di discredito, da parte di Silvio Berlusconi, nei confronti dei giudici e dice: "Episodi di denigrazione e di condizionamento della magistratura e di singoli magistrati" sono "del tutto inaccettabili" perchè cosi si mette "a rischio l’equilibrio stesso tra poteri e ordini dello Stato, sul quale è fondato l’ordinamento democratico di questo Paese". E’ quanto scrive la Prima Commissione del Csm nella pratica a tutela di diversi magistrati accusati da Silvio Berlusconi di agire per finalità politiche.
Il giudizio unanime. Il documento, approvato all’unanimità e che sarà discusso domani pomeriggio dal plenum, contiene anche un "un pressante appello a tutte le Istituzioni perché, sia ristabilito un clima di rispetto dei singoli magistrati e dell’intera magistratura, che è condizione imprescindibile di un’ordinata vita democratica". La pratica aperta in Commissione si è arricchita di mese in mese dei vari attacchi del premier alle varie toghe, da quelle del processo Mills a quelle di Napoli e Milano.
Delegittimati. "L’assunto di una magistratura requirente e giudicante che persegue finalità diverse da quelle sue proprie e, per di più, volte a sovvertire l’assetto istituzionale democraticamente voluto dai cittadini costituisce la più grave delle accuse - scrive la Commissione - ed integra, anche per il livello istituzionale da cui tali affermazioni provengono, una obiettiva e incisiva delegittimazione della funzione giudiziaria nel suo complesso e dei singoli magistrati".
Rispetto tra organi istituzionali. E il "discredito" gettato "sulla funzione giudiziaria nel suo complesso e sui singoli magistrati", può produrre, "oggettivamente, nell’opinione pubblica la convinzione che la magistratura non svolga la funzione di garanzia che le è propria, così determinando una grave lesione del prestigio e dell’indipendente esercizio della giurisdizione". Facendo proprie le preoccupazioni espresse in più occasioni dal Capo dello Stato, da ultimo nella sua lettera al vice presidente del Csm, i consiglieri affermano che per affrontare "serenamente le auspicate riforme in tema di giustizia è necessario il rispetto tra gli organi Istituzionali, che devono contribuire a garantire un clima sereno e costruttivo".
Episodi che non devono ripetersi. "Non è ammissibile una delegittimazione di una Istituzione nei confronti dell’altra, pena - avverte la Commissione - la caduta di credibilità dell’intero assetto costituzionale". Ed "è indispensabile che non si ripetano episodi di denigrazione e di condizionamento della magistratura e di singoli magistrati", perché "lo spirito di leale collaborazione Istituzionale - implica necessariamente che nessun organo Istituzionale denigri liberamente altra funzione di rilevanza costituzionale".
Il silenzio dei "Pm comunisti". Le toghe accusate da Berlusconi hanno dimostrato "la compostezza del corpo giudiziario, in generale, e dei singoli magistrati. Giudici che hanno continuato a svolgere in silenzio il proprio dovere, senza replicare alle generiche ed ingiuste accuse", nei loro confronti. In particolare, i consiglieri si riferiscono ad accuse precise: quella di "pm comunisti" fatta dal premier durante la trasmissione Ballarò o quella di "Pm talebani" fatta all’indomani della pronuncia della Cassazione sul caso Mills. E tra le altre, le accuse formulate in occasione del congresso del Partito Popolare europeo di Bonn, quando il premier parlò di un partito dei giudici nella sinistra, attaccando la Corte costituzionale. E ancora la definizione di "plotone di esecuzione" destinata ai giudici di Milano.
* la Repubbblica, 09 marzo 2010
Il presidente della Repubblica reagisce con una nota ufficiale alle parole del premier
"Sono rammaricato e preoccupato, serve leale collaborazione tra i poteri dello Stato"
L’ira di Napolitano contro Berlusconi
"Attacco violento alle istituzioni" *
ROMA - Il presidente della Repubblica reagisce. Con parole gravi, e inusuali per l’inquilino del Colle. Napolitano è preoccupato e rammaricato per le frasi pronunciate da Berlusconi a Bonn contro giudici, Consulta e i tre ultimi capi dello Stato. Parla di "attacco violento alle istituzioni". Torna ad invocare "leale collaborazione" tra i poteri dello Stato.
La nota del Colle parla chiaro. "In relazione alle espressioni pronunciate dal presidente del Consiglio in una importante sede politica internazionale, di violento attacco contro fondamentali istituzioni di garanzia volute dalla costituzione italiana, il presidente della repubblica esprime profondo rammarico e preoccupazione".
Nel comunicato si precisa che "il capo dello Stato continua a ritenere che, specie per poter affrontare delicati problemi di carattere istituzionale, l’Italia abbia bisogno di quello "spirito di leale collaborazione" e di quell’impegno di condivisione che pochi giorni fa il senato ha concordemente auspicato".
* la Repubblica, 10 dicembre 2009
Per il presidente della Camera "si tratterebbe di una questione
di rispetto dell’esecutivo nei confronti del parlamento"
Finanziaria, Fini: "No alla fiducia
su maxiemendamento governo"
E respinge il ’presidenzialismo di fatto’: "Lusso che non possiamo permetterci"
"Serve equilibrio tra i poteri dello Stato, senza mortificare alcun ruolo" *
ROMA - No del presidente della Camera Gianfranco Fini a una eventuale fiducia alla legge finanziaria utilizzando il solito meccanismo del maxiemendamento: "Il presidente della Camera sarebbe in grossa difficoltà se la fiducia non fosse posta su un testo che esce dalla commissione ma su un maxiemendamento del governo", afferma la terza carica dello Stato.
Presentando un libro nella Sala del Mappamondo alla Camera, in vista dell’imminente esame della manovra finanziaria, Fini ha spiegato che se il governo ponesse la fiducia su un maxiemendamento questo significherebbe "per il Parlamento non poter svolgere il suo compito. Non tutte le fiducie hanno lo stesso impatto politico, in questo caso si tratterebbe di una questione di rispetto del governo nei confronti del parlamento".
Riforme. Fini respinge dunque qualunque ipotesi di "presidenzialismo di fatto": "E’ vero, da qualche tempo c’è una sottolineatura del ruolo dell’esecutivo: io non considero questo negativo, non sono un cultore dell’assemblearismo, ma se si accentua il ruolo dell’esecutivo dobbiamo anche rafforzare il controllo parlamentare e il ruolo del parlamento".
"Non possiamo stare così come siamo adesso, è un lusso che non ci possiamo permettere - ha concluso Fini -. Io non inorridisco davanti alla parola presidenzialismo, una democrazia deve essere rappresentantiva ma anche governante, mi rifiuto di mettere in contrapposizione questi due termini. A un capo dell’esecutivo forte deve corrispondere un Parlamento forte, non si stabilisce un equilibrio se si mortifica il ruolo dell’uno o dell’altro".
* la Repubblica, 25 novembre 2009
Appello
Alziamo le nostre coscienze e tiriamo su la nostra schiena
di Paolo Farinella, prete *
Il governo e la maggioranza hanno valicato ogni ritegno: ormai delinquono in pubblico e in tv apertamente al grido minaccioso di «Salvare Berlusconi ad ogni costo». Il parlamento chiuso si riapre per approvare una leggina che metta al sicuro Berlusconi dai «suoi processi» e non importa se questa leggina non solo annienta gli scandali di truffa, falso in bilancio, bancarotta, ecc. ma annulla il diritto di milioni di cittadini che hanno diritto ad una sentenza ed eventualmente ad un risarcimento. Con questa legge che riduce solo i tempi dei processi, senza dare personale, strumenti e mezzi per accelerarli, si consuma la supremazia definitiva del sopruso sul diritto, della mafiosità sulla legalità, dell’impudenza sulla dignità e la sconfitta definitiva dello stato di diritto.
Berlusconi, dopo il lodo Alfano torna ad essere, almeno teoricamente, un cittadino come gli altri e come tutti deve essere processato e assolto o condannato con una sentenza inappellabile. Non possiamo tollerare ancora una volta una legge che lo salvi impunemente, anche in presenza di sentenze in corso. Non possiamo assistere inattivi, inermi e complici di una immoralità e indegnità di questa portata.
Usiamo la rete non solo per resistere, ma per reagire, per impedire che ancora una volta il corrotto, corruttore, compratore di giudici, di sentenze e di testimoni, il predatore fiscale che con le sue evasioni e i suoi conti esteri ha rubato a tutti noi e a ciascuno di noi. Una leggina riguarda Mediaset che deve al fisco circa 200 milioni di euro e se la caverà con un misero 5%. Come è possibile che i pensionati, i lavoratori a stipendio fisso, i precari, i cassintegrati, le donne, i senza lavoro, possano ancora votarlo e vederlo come un modello?
Come è possibile che assistiamo rassegnati alla vivisezione della Costituzione e della sopravvivenza di uno scampolo di dignità? Siamo calpestati ogni giorno nei nostri diritti e derisi nella nostra dignità e non siamo in grado di reagire come si conviene ad un popolo di gente che ogni giorno si ammazza per vivere onestamente del proprio lavoro e nel rispetto della Legge.
Non possiamo tollerare più che un uomo disponga dello Stato, delle sue Istituzioni, che ordini alla Rai di firmare un contratto di 6 milioni di euro al suo maggiordomo Bruno Vespa perché è bravo a fargli il bidet. Non possiamo tollerare che un suo dipendente, Minzolini, pontifichi a suo nome dalla tv di Stato; non possiamo più tollerare che sia smantellata Rai anche se aumenta ascolti e fatturato solo perché indigesta al satrapo senza statura. Non possiamo più tollerare che ci domini a suo piacimento e a suo uso e consumo. Se lui è l’utilizzatore finale delle prostitute a pagamento, noi vogliamo essere le sue mignotte «a gratis»?
Mettiamo in moto una rivoluzione e riportiamo il treno dentro i binari della Legge, delle Istituzioni, della Legalità, della Giustizia, della Dignità e del nostro Onore. E’ ora il tempo di scendere in piazza non per rivendicare un aumento di stipendio, ma per rivendicare un sussulto di dignità e di orgoglio di essere Italiani e Italiane che non vogliono essere scaricati come spazzatura. Berlusconi sta imperando e sta distruggendo tutto perché noi lo permettiamo o quanto meno lo tolleriamo.
Alziamoci in piedi e non pieghiamo la testa, chiedendo a gran voce, se necessario con uno sciopero generale ad oltranza, le dimissioni di Berlusconi, dei suoi avvocati pagati da noi e la conclusione dei suoi processi perché in Italia nessuno può essere più uguale degli altri e tutti, nessuno escluso, devono sottostare alla Maestà del Diritto.
Mi appello alle organizzazioni sindacali, ai partiti, alle associazioni nazionali e internazionali, ai gruppi organizzati, all’Onda lunga della scuola, ai blogger, alle singole persone di buona volontà con ancora una coscienza integra perché «el pueblo unido jamás será vencido».
LETTERA Al Sig. Presidente della Repubblica On.
Giorgio Napolitano
di Paolo Farinella, prete
Ho appena inviato la seguente e-mail al Presidente della Repubblica
Se ritenete, fate lo stesso: inondiamo il Quirinale di e-mail, uno tsunami di e-mail, lettere, cartoline, telegrammi, piccioni viaggiatori, mosche cocchiere, tutto ciò che occorre perché si veda e si senta lo sdegno di tutti noi.
Paolo Farinella, prete
Al Sig. Presidente della Repubblica
On. Giorgio Napolitano
Palazzo del Quirinale
00100 Roma
Via e-mail: presidenza.repubblica@quirinale.it
Sig. Presidente,
Con orrore prendiamo atto che il parlamento, chiuso da settimane per irresponsabilità del governo, riprende freneticamente l’attività per porre rimedio alla sentenza della Consulta che, bocciando il «lodo Alfano» (che pure Lei aveva firmato), ha dichiarato l’uguaglianza assoluta tra tutti i cittadini, compreso il presidente del consiglio dei ministri.
Il governo, la maggioranza, il parlamento e il Paese sono bloccati sulle vicende giudiziarie del presidente del consiglio che continua a pretendere leggi su misura per salvarsi dai processi dove è inquisito di reati gravissimi per i quali alcuni suoi complici sono stati condannati definitivamente (Previti) o in primo grado (Mills). La pretesa di leggi su misura viene fatta in pubblico, alla luce del sole, nella certezza dell’impunità assoluta, anche a costo di annullare migliaia e migliaia di processi gravissimi (Parlat, Cirio, Antonveneta, Eternit, rifiuti a Napoli, ecc.), lasciando centinaia di migliaia di cittadini vittime di ingiustizia senza risposte, senza risarcimenti, senza una sentenza con attribuzione di responsabilità. Sig. Presidente, il Paese è stufo di questo andazzo e in molti siamo pronti alla rivoluzione perché non possiamo tollerare più che le nefandezze di un uomo che si è servito sempre dello Stato distruggano lo Stato stesso per salvare lui e mettere al sicuro il suo patrimonio, frutto di evasione fiscale, riciclaggio, falso in bilancio e corruzione. Non tolleriamo più che un sistema mafioso condizioni lo stato di diritto e calpesti la dignità e la laboriosa onestà della maggior parte delle cittadine e cittadini che hanno sempre avuto il sommo rispetto per la Legalità, anche contro i propri interessi pratici.
Sig. Presidente, lei è l’ultimo baluardo del Diritto, il garante supremo della Carta Costituzionale, il rappresentante della unità nazionale. A nome di migliaia di persone oneste, la supplico di non fermarsi alla pura forma dei suoi compiti, ma di fare tutto il necessario perché il governo e il parlamento tornino ad essere esempio specchiato di trasparenza di vita, di legalità e di esempio morale. Non diventi, anche indirettamente, complice di norme e leggi improvvisate sulle necessità e sui tempi del presidente del consiglio, anche se mascherate con qualche pennellata di «esigenza generale» perché lei sa che così non è. Noi vogliamo che il sig. Berlusconi Silvio si sottoponga la giudizio dei tribunali della Repubblica, come un qualsiasi cittadino. Sig. Presidente stia dalla parte dei cittadini onesti, del Diritto e della Dignità dell’Italia che in questo momento è mortificata proprio da quel governo che dovrebbe condurla fuori dalla crisi economica e sociale e invece la sta infognando e annegando nella melma dell’indecenza. Se necessario, sciolga le Camere per ingovernabilità mafiosa.
Con flebile speranza,
Paolo Farinella, prete
IN ITALIA L’UNICO LEGITTIMO PRESIDENTE DEGNO DI GRIDARE "FORZA ITALIA" E’ IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA, GIORGIO NAPOLITANO. Chi lo ha fatto e continua a farlo illegalmente è solo un mentitore e un golpista!!!
Il colpo di stato d’autunno
Nei prossimi mesi la maggioranza politica tenterà di attuare il più devastante disegno autoritario dal dopoguerra in poi
di Luigi De Magistris (l’Unità 30.8.2009)
Credo che il popolo italiano debba essere consapevole che la maggioranza politica di ispirazione piduista tenterà di utilizzare le Istituzioni per portare a compimento nei prossimi mesi il più devastante disegno autoritario mai concepito dal dopoguerra in poi. Un vero golpe d’autunno.
Da un punto di vista istituzionale si cercherà di rafforzare il progetto presidenzialista di tipo peronista disegnato su misura dell’attuale Premier. Poteri assoluti al Capo dello Stato eletto dal popolo. Elezioni supportate dalla propaganda di regime costruita attraverso il controllo quasi totale dei mezzi di comunicazione. Il Parlamento coerentemente ad un assetto autoritario e verticistico del potere ridotto ad organo di ratifica dei desiderata dell’esecutivo con le opposizioni democratiche messe in condizione di esercitare mera testimonianza. La distruzione dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura attraverso la sottoposizione del pubblico ministero al potere esecutivo con modifiche costituzionali realizzate illegittimamente con legge ordinaria (quale quella che subordina il Pm all’iniziativa della polizia giudiziaria e, quindi, del governo), nonché attraverso la mortificazione del suo ruolo attraverso leggi quale quella che elimina di fatto le intercettazioni (rafforzando quindi la cd. microcriminalità in modo, poi, da invocare poteri straordinari per combatterla).
La revisione della Corte Costituzionale e del Consiglio Superiore della Magistratura - non però nella direzione di liberare tali fondamentali organi dalle influenze partitiche e di poteri che pure sono presenti - ma attraverso il rafforzamento della componente politica e partitocratica. La soppressione della libertà di stampa e del pluralismo dell’informazione formalizzando normativamente la scomparsa dei fatti. La disintegrazione della scuola pubblica, dell’università e della ricerca, in modo da favorire il consolidamento della sub-cultura di regime, quella per intenderci che ha realizzato il mito del «papi», ossia del padrone che dispensa posti e prebende.
Il prossimo Presidente della Repubblica - il desiderio dei nuovi peronisti è ovviamente quello che Berlusconi diventi il Capo, il Capo di tutto e di tutti dovrà avere ampi poteri e con questi anche il comando delle forze armate (dopo aver già ottenuto la gestione della sicurezza attraverso la sua privatizzazione con l’utilizzo delle ronde da lanciare magari a caccia di immigrati e omosessuali) in modo da poter governare anche eventuali conflitti sociali con la forza.
Sul piano economico e del lavoro la maggioranza prepara la repressione al dissenso ed al conflitto sociale causato da un disegno che punta a rafforzare le disuguaglianze attraverso una politica economica che consolida sempre più i poteri forti e squilibra fortemente il Paese come nei regimi (chi ha già tanto deve avere di più, mentre sempre di più saranno quelli che non riescono ad arrivare alla fine del mese), con l’assenza del contrasto all’evasione fiscale e l’approvazione di norme che rafforzano il riciclaggio del denaro sporco. Il furto delle risorse pubbliche che vanno a finire nelle tasche dei soliti comitati d’affari. Il mancato adeguamento dei salari al costo della vita. L’incapacità di favorire l’iniziativa economica privata fondata sulla libera concorrenza supportando, invece, la rapacità dei soliti prenditori. L’assenza di strategia che possa rilanciare il lavoro pubblico e privato fondandolo sulla meritocrazia e non sul privilegio e sull’occupazione della cosa pubblica (come, per fare un esempio, nella sanità). Assenza di politiche economiche fondate su sviluppo e lavoro, tutela delle risorse e rispetto della natura e della vita. Il saccheggio, in definitiva, della nostra «Storia».
Un progetto contro il nostro futuro. Il colpo di Stato apparentemente indolore ed a tratti invisibile reso possibile dall’istituzionalizzazione delle mafie, dalla loro penetrazione nelle articolazioni economiche e pubbliche del Paese, dal loro controllo del territorio, dalla capacità di neutralizzare la resistenza costituzionale. Un golpe senza armi ma intriso di violenza morale con l’utilizzo del diritto illegittimo,della creazione di norme in violazione della Costituzione. L’eversione attraverso l’uso di uno schermo legale. L’uccisione della democrazia dal suo interno. È necessario, quindi, che si realizzino subito le condizioni per una grande mobilitazione civile, sociale e politica che si opponga a questo disegno autoritario che stravolge gli equilibri costituzionali e l’assetto democratico del nostro Paese.
LIBRI: “PERCHÈ LA SINISTRA NON HA VINTO. DAL PAREGGIO ELETTORALE ALL’OCCUPAZIONE DELLE ISTITUZIONI” - Di Vittorio Feltri e Renato Brunetta
Da martedì 23 maggio 2006 potrai acquistare in edicola il terzo volume, curato da Vittorio Feltri e Renato Brunetta, "Perchè la sinistra non ha vinto. Dal pareggio elettorale all’occupazione delle istituzioni." Il volume di circa 280 pagine verrà venduto a 2,80 euro, mentre per ordinativi superiori alle 5.000 copie, Libero lo mette a disposizione al prezzo di costo di 1,50 euro, franco/spedizione.
L’eventuale tuo ordine dovrà essere comunicato direttamente al Dr. Daniele Cavaglia ai seguenti numeri telefonici: 02/999.66.298 - 02/999.66.295 - 02/999.66.211, o via e-mail: daniele.cavaglia@libero-news.it
Come per i due precedenti volumi, editi da Libero-Free, "Tutte le balle su Berlusconi" e "I peccati di Prodi", compralo e fallo comprare.
Un caro saluto, Renato Brunetta
(dal sito: www.forzaitalia.it)
VIVA LA COSTITUZIONE, VIVA IL PARLAMENTO, VIVA IL PRESIDENTE NAPOLITANO, VIVA L’ITALIA!!!!
Sul cavaliere della I - THAILANDIA....
Caro Direttore A mio parere, in tutte le discussioni e le analisi che sono portate avanti sulla situazione italiana è proprio l’analisi del berlusconismo che va approfondita e chiarita. Io non posso concepire, nemmeno in THAILANDIA (cfr. Piero Ottone, IL CAVALIERE DELLA THAILANDIA, La repubblica del 26.04.2002: "Thaksin ha fondato un partito, Thai Rak Thai, il cui nome significa, a quanto sembra: I thailandesi amano i thailandesi") che in una nazione che si chiama ITALIA, ci possa essere un PARTITO che si chiama forza ITALIA... Il trucco del NOME (Forza ITALIA) è da manualetto del... piccolo ipnotizzatore e da gioco da baraccone ...politico! E penso che aver lasciato fare questa operazione, io la ritengo la cosa più incredibile e pazzesca che mai un popolo (e sopratutto le sue Istituzioni e partiti) abbia potuto fare con se stesso e con i propri cittadini e le proprie cittadine: è vero che stiamo diventando tutti vecchi e vecchie, ma questa è roba da suicidio collettivo! Questa la mia opinione, se si vuole, da semplice e analfabeta vecchio cittadino italiano e non da "sovietico" comunista della "fattoria degli animali" orwelliana. Mi trovo a condividere e sono più vicino alle opinioni e alla posizione della "mosca bianca" Franco Cordero, che non a quella di molti altri. LA LEGGE E’ UGUALE PER TUTTI: si tratta solo e sopratutto di non de-ragliare e, umanamente e politicamente, mantenerci (e possibilmente avanzare) sul filo e nel campo della democrazia. Non c’è nessuna demonizzazione da fare: si tratta solo di capire, e, anzi, io trovo la situazione - pur nella sua grande ambiguità e pericolosità - incredibilmente sollecitante nel senso di svegliarsi e reagire creativamente (come sembra che stia avvenendo) alla situazione determinatasi. Il cavaliere ha lanciato la sua operazione e la sua sfida: possiamo leggere la cosa come una cartina di tornasole per tutta la nostra società. Vogliamo vivere o vogliamo morire: una cosa del genere più o meno, con altre parole, ci sta dicendo il Presidente CIAMPI da tempo. Se ci facciamo togliere da sotto i piedi il fondamento costituzionale e si rompe la bilancia dei poteri della democrazia non ci sono più cittadini e cittadine ma pecore e lupi e riprende il gioco mai interrotto, come dice il vecchio saggio della giungla, del "chi pecora si fa il lupo se la mangia". Dentro questo clima, chiedere da anonimo stupido ingenuo e illuso e ’idealistico’ cittadino italiano di fare chiarezza e fermare il gioco (truccato, e pericolosamente surriscaldato e non lontano da clima di scontro civile) è solo un invito a tutte e due le parti e non a una sola a riconoscersi come parte della UNA e STESSA Italia.... e a ripristinare le regole del gioco! M. cordiali saluti Federico La Sala. (www.ildialogo.org, Venerdì, 30 maggio 2003)