MA COME RAGIONANO GLI ITALIANI E LE ITALIANE?!
L’Italia e’ diventata la ’casa’ della menzogna... e della vergogna?!
di Federico La Sala *
Elementare!, Watson: Se, nel tempo della massima diffusione mediatica dellapropaganda loggika, l’ITALIA è ancora definita una repubblica democratica e "Forza Italia" (NB: ’coincidenza’ e sovrapposizione indebita con il Nome di tutti i cittadini e di tutte le cittadine d’ITALIA) è il nome di un partito della repubblica, e il presidente del partito "Forza Italia" è nello stesso tempo il presidente del consiglio dello Stato chiamato ITALIA (conflitto d’interesse), per FORZA (abuso di potere, logico e politico!) il presidente del partito, il presidente del consiglio, e il presidente dello Stato devono diventare la stessa persona.
E’ elementare: queste non sono ’le regole del gioco’ di una sana e viva democrazia, ma di un vero e proprio colpo di Stato! (Shemi EK O’KHOLMES).
La democrazia svanisce se diventa illiberale
di Sabino Cassese (Corriere della Sera, 29.0820.18)
Il vicepresidente del Consiglio dei ministri italiano ha incontrato a Milano il primo ministro ungherese Viktor Mihály Orbán. Quest’ultimo ha dichiarato già da tempo che «i valori liberali occidentali oggi includono la corruzione, il sesso, la violenza» e che «i valori conservatori della patria e dell’identità culturale prendono il sopravvento sull’identità della persona». Ispirato da questi orientamenti, ha poi trasformato la televisione pubblica in un mezzo di propaganda governativa, limitato la libertà di stampa, l’autonomia universitaria e l’indipendenza dell’ordine giudiziario.
Ha inoltre ridisegnato i collegi elettorali, fatto approvare una legge elettorale che gli consente di avere la maggioranza di due terzi dei seggi in Parlamento, con il 45 per cento dei voti, dato una svolta nazionalistica e anti-immigrazione al governo. Il maggiore esperto dei problemi ungheresi, la professoressa Kim Lane Scheppele, dell’Università di Princeton, ritiene che oggi l’Ungheria abbia una «costituzione incostituzionale» e il «Washington Post» qualche mese fa ha intitolato una sua analisi della situazione ungherese «la democrazia sta morendo in Ungheria e il resto del mondo dovrebbe preoccuparsi». Orbán, tuttavia, è stato eletto e rieletto, e gode quindi di un consenso popolare. Perché allora tante voci preoccupate? Basta il voto popolare per legittimare limitazioni delle libertà?
Il primo ministro ungherese ha dichiarato più volte di voler realizzare una «democrazia illiberale». Questo è un disegno impossibile perché la democrazia non può non essere liberale.
La democrazia non può fare a meno delle libertà perché essa non si esaurisce, come ritengono molti, nelle elezioni. Se non c’è libertà di parola, o i mezzi di comunicazione sono nelle mani del governo, non ci si può esprimere liberamente, e quindi non si può far parte di quello spazio pubblico nel quale si formano gli orientamenti collettivi. Se la libertà di associazione e quella di riunione sono impedite o limitate, non ci si può organizzare in partiti o movimenti, e la società civile può votare, ma non organizzare consenso o dissenso. Se i mezzi di produzione sono concentrati nelle mani dello Stato, non c’è libertà di impresa, e le risorse economiche possono prendere soltanto la strada che sarà indicata dal governo. Se l’ordine giudiziario non è indipendente, non c’è uno scudo per le libertà. Se la libertà personale può essere limitata per ordine del ministro dell’Interno (come è accaduto nei giorni scorsi in Italia), i diritti dei cittadini sono in pericolo. Insomma, come ha osservato già nel 1925 un grande studioso, Guido De Ruggiero, nella sua «Storia del liberalismo europeo», i principi democratici sono «la logica esplicazione delle premesse ideali del liberalismo»: estensione dei diritti individuali a tutti i membri della comunità e diritto del popolo di governarsi. Quindi, «una divisione di province tra liberalismo e democrazia non è possibile». Una «democrazia illiberale» non è una democrazia.
Tutto il patrimonio del liberalismo è parte essenziale della democrazia, così come oggi lo è quello del socialismo. Queste tre grandi istanze che si sono succedute negli ultimi due secoli in Europa e nel mondo, fanno ormai corpo. Il liberalismo con le libertà degli uomini e l’indipendenza dei giudici. L’ideale democratico, con l’eguaglianza e il diritto di tutti di partecipare alla vita collettiva (suffragio universale). Il socialismo con lo Stato del benessere e la libertà dal bisogno (sanità, istruzione, lavoro, protezione sociale). Questi tre grandi movimenti, pur essendosi affermati in età diverse, e pur essendo stati inizialmente in conflitto tra loro (come ha spiegato magistralmente, nel 1932, Benedetto Croce nella sua “Storia d’Europa nel secolo decimonono”) fanno ora parte di un patrimonio unitario e inalienabile come è dimostrato da due importanti documenti internazionali, il Trattato sull’Unione europea e la Dichiarazione del Millennio delle Nazioni Unite. Il primo dispone che l’Unione “si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto”. Il secondo che le Nazioni Unite si impegnano a «promuovere la democrazia e a rafforzare il rispetto per tutti i diritti umani e le libertà fondamentali».
L’Italia è ora in un punto di passaggio critico, nel quale si decide il futuro delle sue libertà e la sua collocazione internazionale, tra quelli che sono stati per secoli i nostri «compagni di strada» ed esempi (Francia, Germania, Regno Unito) o nuovi alleati. Che significato possiamo attribuire a un «incontro esclusivamente politico e non istituzionale o governativo», ma tenuto in Prefettura, tra il primo ministro ungherese e un vicepresidente del Consiglio dei ministri italiano?
CON DECENZA PARLANDO: LA PRIVATIZZAZIONE DEL NOME "ITALIA" E IL POPULISMO. "Ghe Pensi Mi"!
Una nota*
SICCOME QUI SI TOCCANO TEMI di tranquillizzazione politica (con tutti i suoi risvolti teologici e costituzionali) e di "superomismo" populistico ("stai sereno!" - "scuscitatu" vale come "senza pensieri, senza preoccupazioni": cioè, "Ghe Pensi Mi"), e c’è da svegliarsi e riappropriarsi della propria *dignità* (politica e *costituzionale*, e non solo economica) di cittadini e di cittadine, è bene ricordare che per "stare sereni" troppo e troppo a lungo, come cittadini italiani e cittadine italiane, abbiamo perso la stessa possibilità di "tifare" per noi stessi e stesse, per se stessi e per se stesse, sia sul piano sportivo sia sul piano *costituzionale*: non solo perché la nostra NAZIONALE è fuori dai MONDIALI DI CALCIO ma, anche e soprattutto, perché il NOME della NAZIONE (di tutti e di tutte) è diventato il "Logo" della "squadra" di un Partito e di un’Azienda.
IL LUNGO SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE CONTINUA ...
*
Il caso italiano
Una vicenda del tutto nuova, complessa e non priva di rischi: ma che conferma che la nostra Costituzione è ben presidiata
Il presidente garante
di Enzo Cheli (Il Mulino, 28.05.2018)
Nell’arco della nostra storia repubblicana nessun capo dello Stato si è trovato a dover gestire una vicenda istituzionale così difficile e complessa come quella che il presidente Mattarella ha dovuto affrontare nel corso dell’ultima settimana, conclusasi con la rinuncia da parte di Giuseppe Conte all’incarico di formare il nuovo governo. Una vicenda che sta suscitando polemiche e contrasti, ma che il Quirinale ha gestito con grande equilibrio e una forte attenzione al rispetto dei confini delle proprie prerogative costituzionali.
Ai sensi dell’articolo 92 della nostra Costituzione, tali prerogative affidano, com’è noto, al presidente della Repubblica il compito di nominare il presidente del Consiglio dei ministri su sua proposta (una proposta che la prassi non ha mai ritenuta vincolante) i ministri. Nella dichiarazione rilasciata dinanzi alle telecamere dopo la rinuncia del professor Conte, il presidente Mattarella ha ricostruito puntualmente i passaggi essenziali di questa vicenda che, dopo le elezioni del 4 marzo, ha preso l’avvio con il fallimento dei primi tentativi di trovare una maggioranza in grado di sostenere in Parlamento un governo politico; con l’incarico con riserva conferito a Giuseppe Conte su indicazione del Movimento 5 Stelle e della Lega che avevano raggiunto un accordo intorno a un inedito “contratto di governo”; con la condivisione da parte del presidente Mattarella di tutte le proposte per gli incarichi ministeriali formulata dal professor Conte, ad eccezione della proposta avanzata per il ministero dell’Economia, che veniva a investire un tecnico di sicura competenza e anche di antica fede europeista, ma oggi apertamente schierato a favore di una possibile uscita dall’euro del nostro Paese. Proposta che, trapelata nel corso delle trattative, non aveva mancato di allarmare i mercati europei e mondiali determinando una rischiosa e crescente pressione negativa sia sui titoli del debito pubblico sia sui titoli delle imprese quotate in borsa. Poteva il presidente Mattarella opporsi a questa designazione fino a determinare la rinuncia di Conte all’incarico ricevuto? È questo l’interrogativo che viene oggi a dividere l’opinione pubblica del nostro Paese.
A mio avviso è certo che, nell’opporsi alla proposta ricevuta, il capo dello Stato non ha invaso - come taluni affermano - la sfera dell’indirizzo politico di maggioranza, ma ha soltanto esercitato una competenza connessa alla sfera dei suoi poteri di controllo costituzionale su tale indirizzo, poteri che entrano in gioco - e che il capo dello Stato non solo è legittimato, ma anche tenuto a esercitare - ogni qualvolta l’azione del governo possa aprire la strada alla lesione di interessi di rilevanza costituzionale attinenti alla sfera dell’unità nazionale, come quelli afferenti, in particolare, alla politica estera, alla politica europea e alla politica della difesa, nonché alla politica di bilancio; tutte materie rispetto alle quali le competenze del capo dello Stato, ai sensi della Carta costituzionale, assumono un contenuto non solo formale, ma di sostanza.
Né va sottovalutato il fatto che il presidente Mattarella nel rifiutare la candidatura che gli veniva proposta non ha formulato una propria proposta, ma si è limitato a sollecitare le forze politiche impegnate nella definizione del nostro governo ad avanzare - attraverso il presidente del Consiglio incaricato - proposte alternative.
Cosa che non è avvenuta per l’irrigidimento di una delle forze in campo, particolarmente interessata a passare al più presto a nuove elezioni. Passaggio che viene, peraltro, anch’esso a collegarsi a una prerogativa fondamentale del presidente della Repubblica qual è lo scioglimento delle Camere e che il presidente Mattarella almeno sinora - e fino alla verifica parlamentare sull’assenza di qualunque maggioranza - non ha dato per scontato.
Siamo di fronte a una vicenda del tutto nuova, complessa e non priva di rischi. Ma che ha dato la conferma che la nostra Costituzione risulta ancora oggi ben presidiata.
VIVA LA PIZZA! L’Organizzazione delle Nazioni Unite ha premiato così il lungo lavoro del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali che nel 2009 aveva iniziato a redigere il dossier di candidatura con il supporto delle Associazioni dei pizzaioli e della Regione Campania, superando i pregiudizi di quanti vedevano in questa antica arte solo un fenomeno commerciale ....
Arte del pizzaiuolo napoletano è patrimonio dell’Unesco
Entra in lista patrimonio dell’umanità, dal Comitato voto unanime
di Redazione ANSA *
"L’arte del pizzaiolo napoletano è patrimonio culturale dell’Umanità Unesco". Lo annuncia il Ministro delle Politiche agricole, alimentari e forestali Maurizio Martina su Twitter. "Vittoria! Identità enogastronomica italiana sempre più tutelata nel mondo", sottolinea. Dopo 8 anni di negoziati internazionali, a Jeju, in Corea del Sud, voto unanime del Comitato di governo dell’Unesco per l’unica candidatura italiana, riconoscendo che la creatività alimentare della comunità napoletana è unica al mondo.
Per l’Unesco, si legge nella decisione finale, "il know-how culinario legato alla produzione della pizza, che comprende gesti, canzoni, espressioni visuali, gergo locale, capacità di maneggiare l’impasto della pizza, esibirsi e condividere è un indiscutibile patrimonio culturale. I pizzaioli e i loro ospiti si impegnano in un rito sociale, il cui bancone e il forno fungono da "palcoscenico" durante il processo di produzione della pizza. Ciò si verifica in un’atmosfera conviviale che comporta scambi costanti con gli ospiti. Partendo dai quartieri poveri di Napoli, la tradizione culinaria si è profondamente radicata nella vita quotidiana della comunità. Per molti giovani praticanti, diventare Pizzaiolo rappresenta anche un modo per evitare la marginalità sociale".
L’Organizzazione delle Nazioni Unite ha premiato così il lungo lavoro del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali che nel 2009 aveva iniziato a redigere il dossier di candidatura con il supporto delle Associazioni dei pizzaioli e della Regione Campania, superando i pregiudizi di quanti vedevano in questa antica arte solo un fenomeno commerciale e non una delle più alte espressioni identitarie della cultura partenopea. Il dossier della candidatura e la delegazione sono stati coordinati dal professor Pier Luigi Petrillo. Al termine dell’iscrizione della candidatura, l’ambasciatrice italiana all’Unesco, Vincenza Lomonaco, ha ringraziato tutti gli Stati che hanno votato a favore dell’Italia, sottolineando la centralità dell’Italia nel promuovere le tradizioni agroalimentare nel contesto dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura. Subito dopo la proclamazione, in sala è scoppiato un lungo e fragoroso applauso che ha festeggiato il successo italiano a lungo atteso, e molti dei delegati presenti sono venuti ad abbracciare i rappresentanti italiani che nella lunga notte del negoziato finale hanno stretto in mano un cornetto napoletano porta fortuna, rosso come tradizione impone.
Renzi, orgoglio per tradizione e stimolo per futuro - "L’arte del pizzaiolo napoletano riconosciuta come patrimonio Unesco è un simbolo bellissimo di quello che l’Italia è stata. Ma è simbolo anche di ciò che dovremo essere. La cura per la tradizione, la passione per il cibo, la capacità di farsi rappresentare all’estero dai nostri prodotti sono elementi essenziali del nostro futuro". Cosi’ Matteo Renzi su fb. "Andiamo verso un futuro di robot e innovazioni tecnologiche: proprio per questo - scrive il segretario dem - avremo sempre più bisogno di radici, di identità, di qualità, di gusto. Le più grandi catene al mondo di pizza non sono italiane così come pure è straniera la maggioranza dei prodotti che hanno il nome che suona italiano venduti nel mondo. Insomma: nel mondo globalizzato il Made in Italy - anche alimentare - ha tante opportunità davanti. Il riconoscimento alla pizza è un orgoglio per la tradizione ma anche uno stimolo per il futuro. Avanti".
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GLI APPRENDISTI STREGONI E L’EFFETTO "ITALIA". LA CLASSE DIRIGENTE (INCLUSI I GRANDI INTELLETTUALI) CEDE (1994) IL "NOME" DEL PAESE AL PARTITO DI UN IMPRENDITORE. Che male c’è?! - Materiali sul tema
L’ITALIA (1994-2016), TRE PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA SENZA "PAROLA", E I FURBASTRI CHE SANNO (COSA SIGNIFICA) GRIDARE "FORZA ITALIA". In memoria di Sandro Pertini e di Gioacchino da Fiore, alcuni appunti per i posteri
UNITÀ D’ITALIA E FOLLIA: EMERGENZA LOGICO-POLITICA EPOCALE. PER UN CONVEGNO E UNA RIFLESSIONE SUL CONCETTO DI ’UNITA’ E DI SOVRANITÀ (SOVRA-UNITÀ). Materiali sul tema
Federico La Sala
La politica non è per gli ignoranti
Per Carlo Azeglio Ciampi studiare Filologia classica o guidare la Banca d’Italia “è la stessa cosa”. Serve disciplina intellettuale, rispetto dei documenti e ricerca della verità. Valori e metodi di cui oggi i leader sono purtroppo privi
di Salvatore Settis (Il Fatto, 17.09.2017)
Normalista dal 1937 al 1941, Ciampi si laureò a Pisa in Filologia classica. Suoi maestri furono il grande filologo Giorgio Pasquali e la papirologa Medea Norsa; fra i suoi compagni di corso c’era Scevola Mariotti, altro grande filologo che sarebbe stato suo amico di una vita.
Della Norsa, Ciampi ricordava le sofferenze dovute alle leggi razziali, ma anche la generosità di Gentile, che nel 1939 pubblicò con lo stemma della Normale (di cui era allora direttore) un volume della Norsa che un editore fiorentino aveva bloccato in ultime bozze per ragioni di “razza”.
La tesi di Ciampi era dedicata a Favorino, un retore di lingua greca del II secolo d.C., amico di Plutarco e attivo anche alla corte dell’imperatore Adriano, con cui ebbe però un contrasto finendo poi in esilio. Favorino commentò allora : “È davvero stupido criticare qualcuno che ha al suo servizio trenta legioni”. Il testo a cui è dedicata la tesi di Ciampi è una sorta di auto-consolazione filosofica “sull’esilio”, dove tra l’altro viene affermata un’idea di “patria” non come luogo di nascita, ma d’elezione: per Favorino, nato ad Arles, la vera patria era Roma, con la sua vita culturale multilingue e incomparabile.
Dopo la formazione filologica e malgrado la passione per l’insegnamento, la guerra impresse alla vita di Ciampi tutt’altro corso. Ma l’imprinting filologico della Normale non fu mai dimenticato, e lo mostra un episodio del 6 dicembre 2000, quando, da Presidente, Ciampi venne in Normale in visita ufficiale.
Egli volle allora incontrare i normalisti, e per un’ora si intrattenne a colloquio con essi con grande cordialità, tanto che qualche allievo della Scuola si prese qualche confidenza forse eccessiva, a cui Ciampi reagiva divertito. Un normalista chiese al Presidente : “Ma come mai Lei, che ha studiato filologia classica, è poi passato alla Banca d’Italia?”. Ciampi, fattosi serio senza perdere il tono affabile di quella conversazione, rispose: “È la stessa cosa. Studiando filologia classica in Normale ho imparato una disciplina intellettuale, il rispetto dei documenti e la ricerca della verità: principî che mi hanno accompagnato alla Banca d’Italia, a Palazzo Chigi, al Quirinale”.
Ma che cosa intendeva Ciampi con quelle parole, che non erano una gratuita battuta, ma una professione di fede? Io credo che con quel suo “È la stessa cosa” Ciampi intendesse due valori diversi ma convergenti: la pienezza dell’impegno civile e la centralità della competenza specifica. Virtù, quando ci sono, ugualmente importanti per un filologo classico, per un Governatore della Banca d’Italia e per un Presidente del Consiglio o della Repubblica. La Normale, Ciampi lo ripeteva spesso, è scuola di vita anche perché il suo carattere competitivo impone ritmi di lavoro inconsueti, innescando abitudini fondate sull’intensità e la densità del lavoro, sulla serietà dell’impegno personale, su un’applicazione profonda ed esclusiva ai problemi che di volta in volta si studiano. Dal lavoro solitario del normalista in biblioteca al senso di responsabilità del cittadino che si mette al servizio della comunità, Ciampi vedeva una continuità necessaria, una comune esigenza morale.
Non meno importante era stata, nel contesto degli anni Trenta, l’orgogliosa rivendicazione che la filologia debba avere piena cittadinanza non solo come mera tecnica di costituzione dei testi, ma come strumento di interpretazione storica. Quando Pasquali aveva scritto sulla Nuova Antologia del 1931 un articolo sulla Paleografia quale scienza dello spirito, stava reagendo alla concezione crociana della filologia come “utile e servizievole”, ma “senza splendori”, poiché “la filologia non è la critica e non è la storia”, discipline che esigono, scrive Croce, “robustezza di coordinato pensiero”.
Riassumendo anni dopo i termini di quella polemica, un altro grande maestro della Normale, Augusto Campana, definiva la paleografia, e con essa la filologia, come discipline “non semplicemente classificatorie, descrittive, meccaniche”, ma “miranti alla visione e ricostruzione di uno sviluppo storico, specchio e fattore della cultura in organica connessione con ogni altra componente di essa”: una forma di conoscenza piena e non ancillare.
La filologia come strumento e strategia per accostarsi non solo ai testi, ma ai problemi; non solo alla storia, ma alla realtà amministrativa e politica; non solo al passato, ma al presente. Questa concezione di Ciampi dava continuità alla sua vita di studio e di lavoro; era un’etica della competenza della quale sentiamo oggi più che mai il bisogno. L’idea che anche per chi fa politica e ha responsabilità di governo sia necessaria la minuta conoscenza dei fatti, la precisione delle informazioni, l’accuratezza nel comunicare ai cittadini quel che si sta facendo o quel che occorrerebbe fare: virtù che troppo spesso appaiono tramontate (speriamo non per sempre).
Ci è toccato invece assistere, in questi anni, al trionfo dell’incompetenza, alla sagra delle chiacchiere. Non farò alcun nome ma citerò un solo episodio, per il suo valore esemplare: qualcuno, che ricopriva un’altissima carica di governo, pur essendo laureato in giurisprudenza scambiò impunemente un ordine del giorno in Costituente (l’odg Perassi, 4 settembre 1946) per una norma transitoria (inesistente) della Costituzione, e come tale la citò ripetutamente in pubbliche argomentazioni politiche, e a proposito di una proposta di riforma costituzionale.
Altri esempi, credo, non occorrono: tutti siamo bersagli e vittime di un imperversante storytelling, secondo cui la verità dei fatti è irrilevante, e quel che importa non è se un’affermazione sia vera o falsa, ma quale beneficio apporta a chi la fa. Perciò ci tocca subire litanie di statistiche inventate o truccate senza alcuno scrupolo, e sentirle cambiare, o meglio improvvisare, da un giorno all’altro a seconda di scadenze elettorali o altre contingenze, e senza alcun rispetto per la verità; ci tocca vedere al tempo stesso la mortificazione di chi è competente, ma costretto a emigrare per mancanza di lavoro, e il trionfo arrogante di chi, pur senza sufficienti competenze specifiche, occupa posizioni di rilievo nelle pubbliche amministrazioni.
Ci tocca, e davvero vien da chiedersi quousque tandem?, vedere sulla scena politica schieramenti basati sulle appartenenze e sulle convenienze, e non sull’analisi dei problemi e sulla competenza professionale; e in nome di meri giochi di potere abbiamo visto e vediamo sbriciolarsi i dati di fatto, sparire all’orizzonte la precisione e l’attendibilità delle analisi, svanire nel nulla il pubblico interesse.
Il fermo richiamo di Ciampi alla filologia (cioè alla competenza) nell’esercizio della politica è qualcosa di cui l’Italia non ha mai avuto tanto bisogno come oggi. Se vogliamo ricordarlo senza cadere in tentazioni agiografiche, è a questa sua lezione morale che dobbiamo con altrettanta fermezza richiamarci, ripetendo senza sosta che la politica ha davvero bisogno di competenza, ha bisogno di filologia. Ne ha bisogno, oggi, più che mai.
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIU’ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIU’ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!! Un’inchiesta e una mappa
IL DISCORSO DEL ’’NON CI STO!’’
Morto l’ex presidente Oscar Luigi Scalfaro Il cordoglio di Giorgio Napolitano
Capo dello Stato dal 1992 al 1999, il senatore a vita aderente al Pd si è spento nella notte a Roma *
ROMA - Oscar Luigi Scalfaro è morto questa notte a Roma. La notizia, trapelata via Twitter attraverso fonti giornalistiche molto vicine all’ex presidente della Repubblica, è stata confermata da fonti parlamentari. Nato a Novara il 9 settembre del 1918, Scalfaro fu eletto in Parlamento nel 1946, ininterrottamente deputato fino al 1992, quando, da presidente della Camera, fu eletto Capo dello Stato, carica ricoperta fino al 1999. Storico esponente della Democrazia Cristiana, attualmente era senatore a vita, aderente al Partito Democratico. Con Sandro Pertini ed Enrico De Nicola, Oscar Luigi Scalfaro ha ricoperto tutte le tre più alte cariche dello Stato, visto che fu anche provvisoriamente presidente del Senato all’inizio della XV Legislatura, fin quando non fu eletto Franco Marini. Il suo ultimo grande impegno è stata la difesa della Costituzione 1.
Appresa la notizia, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha reso omaggio alla figura di Scalfaro: "E’ con profonda commozione che rendo omaggio alla figura di Oscar Luigi Scalfaro nel momento della sua scomparsa, ricordando tutto quel che egli ha dato al servizio del Paese, e l’amicizia limpida e affettuosa che mi ha donato. E’ stato un protagonista della vita politica democratica nei decenni dell’Italia repubblicana, esempio di coerenza ideale e di integrità morale".
"Si è identificato - ha proseguito Napolitano - col Parlamento, cui ha dedicato con passione la più gran parte del suo impegno. Da uomo di governo, ha lasciato l’impronta più forte nella funzione da lui sentitissima di ministro dell’Interno. Da Presidente della Repubblica, ha fronteggiato con fermezza e linearità periodi tra i più difficili della nostra storia. Da uomo di fede, da antifascista e da costruttore dello Stato democratico, ha espresso al livello più alto la tradizione dell’impegno politico dei cattolici italiani, svolgendo un ruolo peculiare nel partito della Democrazia Cristiana".
"Mai dimenticando la sua giovanile scelta di magistrato - ha concluso il capo dello Stato -, Oscar Luigi Scalfaro ha avuto sempre per supremo riferimento la legge, la Costituzione, le istituzioni repubblicane. In questa luce sarà ricordato e onorato, innanzitutto da quanti come me hanno potuto conoscere da vicino anche il calore e la schiettezza della sua umanità. Alla figlia Marianna, che gli è stata amorevolmente, ininterrottamente vicina, la mia commossa solidarietà".
Il settennato al Quirinale di Scalfaro è stato uno dei più delicati e controversi. Successo a Cossiga, Scalfaro assistette allo sgretolamento della Prima Repubblica determinato dall’inchiesta su Tangentopoli, scontrandosi ripetutamente con Silvio Berlusconi dopo la vittoria elettorale del Polo delle Libertà nel 1994. Quando Berlusconi mise mano alla lista dei ministri del suo primo governo, Scalfaro ritenne sgraditi alcuni nomi. In particolare quello di Cesare Previti, avvocato del premier, indagato ma non ancora condannato, al Ministero della Giustizia, poi spostato alla Difesa e sostituito da Alfredo Biondi nel ruolo di Guardasigilli.
Dopo sei mesi, nel dicembre del 1994, il governo Berlusconi fu costretto alle dimissioni. Scalfaro, invece di sciogliere le Camere, come auspicato insistentemente da Berlusconi, tentò con successo di formare un nuovo governo. Nell’occasione, il presidente richiamò il suo operato al dettame costituzionale che vuole il Parlamento sovrano, una volta eletto dal popolo. E che la Costituzione prevede che la funzione di deputati e senatori della Repubblica sia esercitata senza vincoli di mandato, onde è consentito cambiare schieramento ed appoggiare formazioni politiche diverse dalla lista in cui si è stati eletti.
Quando Scalfaro svolse le consultazioni, ricevute rassicurazioni sulle possibilità di un governo tecnico, in un famoso discorso di fine anno invitò Berlusconi a un passo indietro, promettendo che il nuovo governo avrebbe avuto un incarico a termine e un presidente di fiducia dell’ormai ex premier. Il Cavaliere individuò il suo ex ministro del Tesoro Lamberto Dini, e assistette nell’anno successivo al progressivo spostamento dell’asse del governo così nato verso il centrosinistra, che con Prodi e l’Ulivo vinse le successive elezioni nel 1996.
Queste ed altre circostanze (tutte riconducibili al cosiddetto "ribaltone" del dicembre 1994) portarono nel centrodestra, alla nascita di una diffusa ostilità verso il Capo dello Stato, accentuata dalla sconfitta elettorale del 1996. In particolare, la legge sulla "par condicio", termine impiegato proprio da Scalfaro in più di una pubblica esternazione, per affermare l’esigenza della parità delle armi comunicative sulle reti televisive per tutti gli attori politici. Legge che fu vista come un modo per mitigare lo strapotere mediatico di Berlusconi.
* la Repubblica, 29 gennaio 2012
La metamorfosi dei Presidenti nell’Italia senza regole
di Carlo Galli (a Repubblica, 28. 10.2010
Tra gli effetti del lodo Alfano c’è quello di innalzare il rango costituzionale del presidente del Consiglio, e contemporaneamente - anche se verrà corretta la previsione che il blocco dei processi sia subordinato a un voto del parlamento - di abbassare quello del presidente della Repubblica, che viene parificato al premier per la temporanea immunità davanti ai reati comuni.
In realtà, si tratta di due figure assai diverse, per significato, per legittimità, e per finalità. Il presidente del Consiglio è l’espressione di una parte che resta tale - la maggioranza (quella reale o quella resa tale dalla legge elettorale) - , poiché governa legittimamente l’Italia secondo una linea che non deve essere condivisa da tutti (esiste, altrettanto legittima, l’opposizione); il presidente della Repubblica, invece, ha nell’unità la propria cifra caratterizzante.
Infatti, il legislativo - il parlamento, che concede la fiducia al governo - è composto da "membri", ciascuno dei quali "rappresenta la Nazione" (art. 67 della Costituzione); mentre il presidente della Repubblica è il "Capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale" (art. 87). L’Italia è quindi rappresentata sia da un corpo composto da membri (il parlamento) sia da un Capo al quale è associata l’idea di unità. Che il testo costituzionale, pur così moderno nelle forme e nei contenuti, utilizzi l’antichissima immagine (ecclesiastica, ma anche romana) delle membra e del capo di un corpo, significa che la compagine giuridico-politica del Paese - l’ingranarsi del potere legislativo, espressione della dialettica politica che è la vita della nazione, dell’esecutivo, che a quella dialettica dà una direzione specifica (di centro, di destra, di sinistra), del giudiziario, che amministra le norme che gli altri due poteri stabiliscono e mettono in pratica - richiede, per funzionare ordinatamente, una proiezione simbolica verticale. Ci deve essere autorità, perché ci siano i poteri legali.
Un’autorità non trascendente, e anzi democratica, che non nasce dal sangue e da Dio, come quella
che nello Statuto albertino era detenuta dal re e dalla sua "maestà".
Al contrario, la legittimità del
presidente della Repubblica, secondo la nostra Costituzione, deriva da un’elezione di secondo grado,
da parte del parlamento; questa procedura stacca il presidente dalla vita dei partiti e dalla loro
inevitabile conflittualità, e proprio per questo distacco - che non è una contrapposizione - gli
consente di simboleggiare, di rappresentare con autorità l’unità del popolo.
Di fatto, questa figura democratica dell’autorità è disegnata, nella Costituzione, come un potere neutro, come un’istituzione di garanzia che provvede a regolare - come il bilanciere di un orologio - il funzionamento della macchina delle istituzioni; a tal fine il presidente della Repubblica collabora alle dinamiche dei tre poteri dello Stato, curandone la rispondenza formale alle procedure costituzionali. È in questa distanza dai contenuti specifici dell’opera dei poteri statali la spiegazione della irresponsabilità del presidente, prevista dalla Costituzione.
Questo ruolo di garanzia, di autorità super partes, è stato interpretato - da De Nicola fino a Napolitano - da democristiani, socialisti, comunisti, socialdemocratici, laici. Vi sono stati presidenti conservatori e progressisti, notarili e interventisti; non tutti sono stati perfetti e impeccabili (basti ricordare le polemiche su Segni e il "piano Solo", nell’estate del 1964, o la richiesta comunista di mettere Cossiga in stato d’accusa nel 1991); alcuni hanno voluto imprimere alla politica certe direzioni piuttosto che altre (Gronchi favorì il centrosinistra); alcuni si sono dimessi (Leone e Cossiga), altri sono stati amatissimi e popolari (Pertini, Ciampi) o hanno ispirato molta fiducia (Napolitano).
Ma in generale, comunque si presenti, la garanzia che è fornita dal presidente della Repubblica non è formalismo; è anzi la custodia - autorevole ma non autoritaria - della democrazia, per la salvaguardia del significato autentico della Costituzione: il rispetto delle competenze e del decoro costituzionale, l’equilibrio fra le componenti storiche del Paese e fra le sensibilità e gli interessi che lo costituiscono, la pari dignità fra i cittadini e fra le forze politiche e sociali. E tutto ciò non è ipocrisia, né vuoto cerimoniale: è politica, sottratta alla politica quotidiana, e quindi più alta e più profonda di questa.
L’aspetto "politico" dell’autorità del presidente è meno evidente nei tempi "normali" della
Repubblica, mentre è molto rilevante quando, come ai nostri giorni, prevalgono le tentazioni di
forzatura costituzionale, le interpretazioni plebiscitarie della democrazia, i disegni di squilibrare i
poteri dello Stato a favore dell’esecutivo. Quando si cerca di deformare la Costituzione, il presidente
proprio per esserne custode - deve resistere, diventando così un attore, di fatto, della politica; ma
senz’altro contenuto e senz’altra finalità che di consentirne il normale funzionamento. La fiducia che
gli italiani oggi manifestano per Napolitano è quindi rivolta, oltre che alla persona, anche alla forma
democratica e istituzionale dell’autorità, e a una politica che sia rispettosa delle indicazioni della
Costituzione.
Il colpo di stato d’autunno
Nei prossimi mesi la maggioranza politica tenterà di attuare il più devastante disegno autoritario dal dopoguerra in poi
di Luigi De Magistris (l’Unità 30.8.2009)
Credo che il popolo italiano debba essere consapevole che la maggioranza politica di ispirazione piduista tenterà di utilizzare le Istituzioni per portare a compimento nei prossimi mesi il più devastante disegno autoritario mai concepito dal dopoguerra in poi. Un vero golpe d’autunno.
Da un punto di vista istituzionale si cercherà di rafforzare il progetto presidenzialista di tipo peronista disegnato su misura dell’attuale Premier. Poteri assoluti al Capo dello Stato eletto dal popolo. Elezioni supportate dalla propaganda di regime costruita attraverso il controllo quasi totale dei mezzi di comunicazione. Il Parlamento coerentemente ad un assetto autoritario e verticistico del potere ridotto ad organo di ratifica dei desiderata dell’esecutivo con le opposizioni democratiche messe in condizione di esercitare mera testimonianza. La distruzione dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura attraverso la sottoposizione del pubblico ministero al potere esecutivo con modifiche costituzionali realizzate illegittimamente con legge ordinaria (quale quella che subordina il Pm all’iniziativa della polizia giudiziaria e, quindi, del governo), nonché attraverso la mortificazione del suo ruolo attraverso leggi quale quella che elimina di fatto le intercettazioni (rafforzando quindi la cd. microcriminalità in modo, poi, da invocare poteri straordinari per combatterla).
La revisione della Corte Costituzionale e del Consiglio Superiore della Magistratura - non però nella direzione di liberare tali fondamentali organi dalle influenze partitiche e di poteri che pure sono presenti - ma attraverso il rafforzamento della componente politica e partitocratica. La soppressione della libertà di stampa e del pluralismo dell’informazione formalizzando normativamente la scomparsa dei fatti. La disintegrazione della scuola pubblica, dell’università e della ricerca, in modo da favorire il consolidamento della sub-cultura di regime, quella per intenderci che ha realizzato il mito del «papi», ossia del padrone che dispensa posti e prebende.
Il prossimo Presidente della Repubblica - il desiderio dei nuovi peronisti è ovviamente quello che Berlusconi diventi il Capo, il Capo di tutto e di tutti dovrà avere ampi poteri e con questi anche il comando delle forze armate (dopo aver già ottenuto la gestione della sicurezza attraverso la sua privatizzazione con l’utilizzo delle ronde da lanciare magari a caccia di immigrati e omosessuali) in modo da poter governare anche eventuali conflitti sociali con la forza.
Sul piano economico e del lavoro la maggioranza prepara la repressione al dissenso ed al conflitto sociale causato da un disegno che punta a rafforzare le disuguaglianze attraverso una politica economica che consolida sempre più i poteri forti e squilibra fortemente il Paese come nei regimi (chi ha già tanto deve avere di più, mentre sempre di più saranno quelli che non riescono ad arrivare alla fine del mese), con l’assenza del contrasto all’evasione fiscale e l’approvazione di norme che rafforzano il riciclaggio del denaro sporco. Il furto delle risorse pubbliche che vanno a finire nelle tasche dei soliti comitati d’affari. Il mancato adeguamento dei salari al costo della vita. L’incapacità di favorire l’iniziativa economica privata fondata sulla libera concorrenza supportando, invece, la rapacità dei soliti prenditori. L’assenza di strategia che possa rilanciare il lavoro pubblico e privato fondandolo sulla meritocrazia e non sul privilegio e sull’occupazione della cosa pubblica (come, per fare un esempio, nella sanità). Assenza di politiche economiche fondate su sviluppo e lavoro, tutela delle risorse e rispetto della natura e della vita. Il saccheggio, in definitiva, della nostra «Storia».
Un progetto contro il nostro futuro. Il colpo di Stato apparentemente indolore ed a tratti invisibile reso possibile dall’istituzionalizzazione delle mafie, dalla loro penetrazione nelle articolazioni economiche e pubbliche del Paese, dal loro controllo del territorio, dalla capacità di neutralizzare la resistenza costituzionale. Un golpe senza armi ma intriso di violenza morale con l’utilizzo del diritto illegittimo,della creazione di norme in violazione della Costituzione. L’eversione attraverso l’uso di uno schermo legale. L’uccisione della democrazia dal suo interno. È necessario, quindi, che si realizzino subito le condizioni per una grande mobilitazione civile, sociale e politica che si opponga a questo disegno autoritario che stravolge gli equilibri costituzionali e l’assetto democratico del nostro Paese.
Spezzatino d’Italia
di MICHELE AINIS (La Stampa, 29/8/2009)
L’Italia ha le traveggole, verrebbe da pensare. Perché i due temi che campeggiano nel nostro dibattito pubblico, anzi la doppia polemica che ci avvolge come una nuvola di smog reca in sé un ossimoro, una contraddizione. Eppure in entrambi i casi a darle corpo sono i fatti, non una chiacchiera sotto l’ombrellone.
È un fatto, in primo luogo, che il Belpaese è ormai uno spezzatino. Nei suoi simboli identitari, dato che la Costituzione rimane un oggetto misterioso, dato che l’inno nazionale è stato messo in discussione, dato che c’è chi vuol affiancare al tricolore le bandiere regionali, dato infine che persino la lingua ci divide, con l’idea dei dialetti obbligatori nelle scuole. Nei valori della fede, benzina per la guerra in corso tra guelfi e ghibellini, ora per la pillola abortiva Ru486, ora per l’insegnamento della religione, ora per il testamento biologico. Nelle disparità economiche, che il federalismo fiscale promette d’accentuare, mentre nel frattempo incalza la proposta delle gabbie salariali. Nella rappresentanza nazionale in Parlamento, con un partito del Nord che rastrella il 10 per cento dei consensi, sicché l’antico Regno dei Borboni sta per opporgli un partito del Sud. Insomma l’unità d’Italia è diventata un’impostura, o al più un ricordo dell’infanzia. Ovvio che le celebrazioni per i suoi 150 anni di carriera siano ferme al palo, nonostante moniti ed allarmi.
È un fatto, in secondo luogo, che questa marmellata nazionale alimenta tuttavia una politica dura come il ferro, permeata da istinti muscolari, incline a derive autoritarie. Può sembrare l’opinione di qualche intellettuale pallido, magari abbagliato dalle tante ordinanze dei sindaci sceriffi, che per esempio a Sanremo vietano a chiunque di sedersi fuori dalle panchine comunali, a Voghera vietano invece le panchine, quando ci s’accomoda in più di tre persone. Ma le prove sono ben maggiori, e soprattutto è ormai corale la denuncia. Il segretario del Pd, Franceschini, ha appena messo in guardia gli italiani dal pericolo d’un nuovo autoritarismo, e intanto prepara una mobilitazione straordinaria per la libertà d’informazione. Il presidente della Camera, Fini, punta l’indice contro le politiche razziste del governo. I radicali di Pannella presentano un dossier per dimostrare che le patrie galere sono peggiorate anche rispetto ai tempi del fascismo. I valdesi digiunano per solidarietà con gli immigrati. La Chiesa cattolica si schiera senza mezzi termini contro il reato d’immigrazione clandestina, aprendo un incidente con la Lega. Perfino Lippi, ct della Nazionale, protesta dopo il sistema poliziesco deciso da Maroni, ossia la schedatura in massa dei tifosi.
Da qui una contraddizione, un bisticcio logico. Perché se il cemento che ci univa gli uni agli altri si va spappolando, allora significa che siamo rimasti orfani dello Stato, la nostra casa comune. Ma se al contempo va consumandosi una stretta autoritaria, vuol dire che di Stato ce n’è troppo, ed è così potente da prosciugare i diritti individuali. Insomma: almeno all’apparenza, il primo fenomeno suona come la negazione del secondo. A meno che non ne sia la scaturigine, ed è precisamente questa la domanda che reclama oggi una risposta. Quando l’unità d’un popolo viene messa a repentaglio, chi lo governa tende sempre a rinsaldarlo fabbricandogli un nemico. Può trattarsi d’un nemico esterno, come la perfida Albione su cui farneticava Mussolini. Oppure d’un nemico interno: i clandestini, e poi gli zingari, i lavavetri, i clochard sui quali da un mese pende l’obbligo di registrazione, perfino i tifosi. Se c’è davvero un nesso fra l’unità del popolo italiano e il suo patrimonio di diritti, faremmo meglio a darci una regolata. Senza amor di Patria, corriamo il rischio di diventare schiavi.
michele.ainis@uniroma3.it
L’attacco a "Repubblica", di cui la citazione in giudizio per diffamazione è solo l’ultimo episodio, è interpretabile soltanto come un tentativo di ridurre al silenzio la libera stampa, di anestetizzare l’opinione pubblica, di isolarci dalla circolazione internazionale delle informazioni, in definitiva di fare del nostro Paese un’eccezione della democrazia. Le domande poste al Presidente del Consiglio sono domande vere, che hanno suscitato interesse non solo in Italia ma nella stampa di tutto il mondo. Se le si considera "retoriche", perché suggerirebbero risposte non gradite a colui al quale sono rivolte, c’è un solo, facile, modo per smontarle: non tacitare chi le fa, ma rispondere.
Invece, si batte la strada dell’intimidazione di chi esercita il diritto-dovere di "cercare, ricevere e diffondere con qualsiasi mezzo di espressione, senza considerazioni di frontiere, le informazioni e le idee", come vuole la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, approvata dal consesso delle Nazioni quando era vivo il ricordo della degenerazione dell’informazione in propaganda, sotto i regimi illiberali e antidemocratici del secolo scorso.
Stupisce e preoccupa che queste iniziative non siano non solo stigmatizzate concordemente, ma nemmeno riferite, dagli organi d’informazione e che vi siano giuristi disposti a dare loro forma giuridica, senza considerare il danno che ne viene alla stessa serietà e credibilità del diritto.
Franco Cordero
Stefano Rodotà
Gustavo Zagrebelsky
* la Repubblica, 28.08.2009
Sul tema, nel sito, si cfr.:
ATTENTATO ALLA COSTITUZIONE? GIA’ FATTO!!! Un appello al Presidente della Repubblica
IL COMMENTO
Si riaccende lo scontro tra Guelfi e Ghibellini
di EUGENIO SCALFARI *
Si è riacceso in questi giorni che coincidono con la grande vacanza nazionale di agosto l’antico dibattito tra guelfi e ghibellini, vecchio ormai di otto secoli. Vecchio ma sempre latente e attuale. Il dibattito riguarda il rapporto teorico tra la Chiesa e lo Stato democratico e quello più concreto tra il Vaticano di papa Ratzinger e il governo di Silvio Berlusconi. Non ci sono molte novità da segnalare per quanto riguarda il rapporto teorico tra lo Stato e la Chiesa: si tratta di due entità che agiscono su terreni ben distinti e che come tali si riconoscono. Lo Stato democratico è laico per definizione e come tale riconosce alla Chiesa (anzi a tutte le Chiese e alle associazioni di qualunque genere) il diritto di usare lo spazio pubblico per diffondere le loro dottrine e tutelare i loro legittimi interessi.
La Chiesa a sua volta riconosce la laicità dello Stato con una sorta però di nota aggiuntiva che si concentra su un solo aggettivo: laicità purché sia buona. Se non è buona, la Chiesa di papa Ratzinger si riserva il diritto-dovere di emendarla raccomandando ai suoi fedeli nonché ai politici cattolici di sostenere e tradurre in norme di legge l’emendamento da lei sostenuto.
Questa è la novità e non è da poco. Si tratta di una novità tipicamente italiana che si spiega con il fatto che l’Italia è considerata dalla Chiesa come il giardino del Papa, luogo privilegiato dove il Vaticano si permette interventi, pressioni, forzature che in altre democrazie dell’Occidente cristiano sarebbero impensabili, non avrebbero alcuna risonanza e cadrebbero nell’indifferenza generale. Ma a questa eccezionalità del caso italiano siamo purtroppo abituati anche se noi "ghibellini" continuiamo a protestarne il carattere democraticamente abusivo.
Ho letto su qualche giornale (mi pare su un recente numero di "24 Ore") che la vecchia questione tra guelfi e ghibellini non rispecchia più la realtà e quindi non merita d’esser ripresa. Sarei felice se fosse così ma purtroppo non lo è affatto; ma se volete possiamo anche cambiare il lessico usando le parole di Chiesa militante e di laici impegnati. Va meglio così?
* * *
Il rapporto tra il Vaticano di papa Ratzinger e il governo di Silvio Berlusconi è invece molto complesso e si sta sviluppando su diversi piani gestiti per la parte cattolica dal segretario di Stato, cardinal Bertone, dal presidente della Cei, cardinal Bagnasco, dal cardinale Ruini sempre vigile malgrado l’apparente pensionamento e, naturalmente, dal papa in prima persona. Per il governo Gianni Letta in veste di gentiluomo vaticano, il ministro del Walfare Sacconi e direttamente dal presidente del Consiglio.
Il Vaticano agisce su due pedali. Il primo potremmo definirlo il pedale dei rimproveri: il dissenso della Chiesa sulla politica dell’immigrazione, sui respingimenti in mare, sulle ronde, sul reato di clandestinità e su ciò che ne consegue. Su tutti questi temi il rimprovero cattolico è stato ed è vibrante e netto, fortemente appoggiato dal clero parrocchiale e dalla stampa cattolica che ad esso fa capo. Fa parte del tema del rimprovero anche la spinosa questione dei comportamenti licenziosi del premier, più volte denunciati con crudezza da "Famiglia cristiana" e con più prudente fermezza dall’"Avvenire". Lo stesso cardinal Bagnasco è intervenuto in proposito manifestando rincrescimento e disapprovazione per "certi comportamenti" di personalità che non danno "buon esempio e tanto meno esempio di virtù cristiana".
Il secondo pedale è invece quello delle richieste, tanto più perentorie quanto più si estenda minacciosamente nelle coscienze cattoliche il rimprovero e la censura. Esiste tra questi due pedali un nesso molto visibile che non mette affatto in dubbio né la sincerità dei rimproveri né la fermezza delle richieste, ma che dà a queste ultime una forza che proviene dalla debolezza del governo e dalla sua ricattabilità politica. Si è spesso parlato in questi mesi della ricattabilità internazionale del presidente del Consiglio e anche della maggior forza acquisita dalla Lega nei suoi confronti; ma esiste anche una soverchiante pressione del Vaticano dovuta ai comportamenti "morali" del premier e al suo urgente bisogno di riguadagnarsi una nuova legittimazione sul versante cattolico.
Il ventaglio delle richieste vaticane è vario e ampio: la revisione delle procedure della legge sull’aborto e sulla procreazione medicalmente assistita, una rigorosa limitazione nell’uso della pillola abortiva; un’attentissima sorveglianza sul testamento biologico che di fatto ne vanifichi ogni più liberale disposizione; il finanziamento esplicito delle scuole cattoliche. Da ultimo è sopraggiunta la sentenza del Tar che esclude l’insegnamento della religione dai "crediti scolastici" riaprendo così il tema estremamente controverso dell’immissione in ruolo dei docenti indicati dai vescovi, avvenuto tre anni fa ad opera del governo Prodi.
Su questa sentenza, contro la quale ha già fatto ricordo il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, la disputa tra Chiesa militante e laici impegnati si è vivacemente riaccesa. La senatrice Binetti ha reindossato il cilicio e affianca la Gelmini, la pubblicistica laica lamenta la debolezza congenita del laicismo, il cardinal Bagnasco sentenzia che la morale non può esser decisa dalla pubblica opinione, Angelo Panebianco distingue moralità e moralismo con il solo evidente intento di proteggere il premier dalle critiche che gli piovono addosso da più parti. A lui ha risposto giovedì scorso Mario Pirani sicché mi astengo dal maramaldeggiare.
* * * La questione dell’insegnamento della religione nella scuola pubblica merita qualche precisazione; si tratta infatti di un tema capitale per la laicità dello Stato e non può essere liquidato sulla base delle convenienze di parte.
1. La religione non può essere un insegnamento facoltativo. Dev’essere obbligatorio come debbono esserlo la storia della letteratura, la storia degli avvenimenti politici, la storia dell’arte, quella della filosofia, quella della musica.
2. L’insegnamento della religione non ha nulla a che fare con il catechismo, che viene invece insegnato nelle parrocchie o nelle scuole private cattoliche. Quell’insegnamento non può che consistere in una storia comparata delle religioni e in particolare delle tre religioni monoteistiche che hanno in Abramo il loro ceppo comune.
3. Gli insegnanti debbono essere scelti attraverso pubblico concorso come avviene per tutte le materie in questione.
4. Il "placet" del vescovo rappresenta una latente violazione della laicità, raffigura una discriminazione inaccettabile rispetto agli altri insegnanti e una lesione del diritto degli studenti ad una corretta istruzione.
5. Da questo punto di vista il ricorso del ministro Gelmini contro la sentenza del Tar è un atto molto grave perché lesivo d’un diritto costituzionalmente garantito. Esso difende infatti uno stato di fatto discriminatorio in vigore nella scuola pubblica, che cozza contro le norme di reclutamento dei docenti e contro i diritti degli studenti.
6. Il fatto che la maggioranza degli studenti abbia aderito all’attuale insegnamento facoltativo della religione cattolica non ha alcun peso in una discussione che coinvolge principi costituzionali che (ha ragione il cardinal Bagnasco) non possono essere affidati al computo delle maggioranze.
7. La popolazione di fede musulmana è ormai presente in forze in Europa e in Italia ed è destinata a crescere ancora nel prossimo futuro. Dovremo dunque aprire corsi facoltativi di quella religione, affidati anch’essi al "placet" di qualche autorità religiosa che possa designare docenti coranici?
8. Il ministro dell’Istruzione che ha firmato il ricorso contro la sentenza di un tribunale amministrativo ha agito a nome del governo che si è pronunciato in proposito oppure di propria iniziativa? Ha i poteri per farlo quando si tratta di materia di questa delicatezza? L’opposizione di centrosinistra si è già pronunciata in proposito ma non ha ancora, ch’io sappia, dato luogo ad una mozione o interpellanza capaci di promuovere un dibattito parlamentare. Eppure se c’è un luogo deputato ad affrontare una questione di tale genere è per l’appunto il Parlamento. E’ perciò auspicabile che questa mozione sia presentata fin d’ora e iscritta dalle Camere per la ripresa settembrina. Da vecchio ghibellino (scusate, da laico impegnato) sarei stupito che tutto finisse qui.
* la Repubblica, 15 agosto 2009
L’Italia frantumata
di MICHELE SERRA *
Esiste una bandiera marchigiana? Qualcuno di voi conosce il vessillo della Calabria? E come sarà l’inno regionale del Lazio? E l’inno del Trentino? Avete mai sventolato il drappo della Liguria? Da qualche parte esisteranno già.
Magari a cura di qualche eccentrico di paese, o di qualche maestro di banda. Ma se anche non esistessero, la bandiera e l’inno di tutte e venti le Regioni italiane, non ha importanza. Li si inventa. La storia italiana recente lo ha dimostrato in modo lampante: la tradizione è una contraffazione di successo.
La Lega ha proposto, con tanto di riforma della Costituzione (articolo 12), di introdurre ufficialmente, accanto al Tricolore e all’inno di Mameli, la bandiera e l’inno di ciascuna regione. La mossa fa parte, insieme a infinite altre, di quella laboriosa costruzione mitica, oramai ventennale, di un’Italia Federale destinata a fare le scarpe all’odiata Repubblica centralista, e a Roma ladrona e padrona. Trasformando confini puramente amministrativi in Patrie e in altrettante Identità Popolari, spremendo e centrifugando ben bene il vecchio localismo italiano, laddove ha ragioni storiche (Veneto, Sicilia) ma anche laddove non è mai esistito: proprio la Lombardia è un caso clamoroso di autonomismo artificiale, inventato di sana pianta, e nella costruzione nazionale fu la regione più vicina, non solo geograficamente, al disegno annessionista dei Savoia.
Di tutto questo, come già detto, alla Lega importa nulla. Per sperimentare quanto fragile sia l’identità nazionale, ha potuto saggiare il grado zero, o quasi, di reattività istituzionale e politica alle sue continue sortite anti-italiane. Dal Parlamento padano alle sparate sediziose di Bossi, dal tasso di xenofobia altamente anticostituzionale (e ciò che è anticostituzionale è anche anti-italiano) alla rimasticazione insieme ottusa e aggressiva dei dialetti come "lingue locali", il partito di Bossi ha messo l’Italia (compresa la maggioranza di italiani che non la sopportano) di fronte a un fatto compiuto. Vent’anni fa, la proposta di bandiere e inni regionali che "correggessero" la presenza dell’odiato Tricolore avrebbe fatto ridere, tal quale gli esami di "cultura locale" ai professori extra-regionali e dunque stranieri.
Oggi queste vere e proprie truffe identitarie sono nell’agenda politica, e come vedete siamo qui a parlarne tutti quanti insieme, gli umbri a domandarsi come diavolo sia l’inno umbro, i campani in cerca sul web dei loro colori regionali, i sardi (i soli ad avercela davvero, una bandiera nazionale, i Quattro mori) a meditare sulla fine ingloriosa del loro autonomismo, grazie alla furba Lega ormai confuso nel corteo posticcio degli autonomismi inventati. Già: perché il risultato di tutto questo agitare bandierine, canzoncine, dialetti, "tradizioni" sortite da bauli fortunatamente dimenticati oppure inventate ex novo, è alla fine la cancellazione delle differenze vere, delle radici autentiche. La minoranza tedesca di Alto Adige (vera) tal quale i finti celti di Calderoli, la complicata ricerca di un’identità sarda (vera) tal quale la fandonia del Dio Eridanio. Frantumi di Italia, briciole di identità, schegge di storia da spargere, come sale, sulle rovine di Roma. Balle locali, balle regionali, balle spaziali.
L’obiettivo (dichiarato) della Lega era puntare a un secessione impossibile, quella della piccola borghesia benestante e riottosa del Nord (ribattezzata da Bossi "popolo padano", non si sa a quale titolo,) per poi ripiegare su una separazione strisciante, senza professori terrori e senza immigrati tra le scatole, camuffata da "federalismo". Tirare in ballo un inno marchigiano o una bandiera molisana, dei quali nessun marchigiano o molisano ha mai avvertito l’esigenza, serve solo a creare quella confusione simbolica e quel caos identitario che stanno avvelenando la Repubblica e ingrassando la Lega e, attraverso di lei, il governo più anti-repubblicano della nostra storia. I professori e i sapienti che stanno lavorando al Centocinquantenario dell’Unità d’Italia sono avvertiti: la Lega è al governo di questo paese. Loro no.
* la Repubblica, 6 agosto 2009
La memoria perduta dell’Unità d’Italia
di Mario Pirani (la Repubblica, 04.08.2009)
LE LAMENTAZIONI sulle sorti d’Italia rappresentano quasi un genere letterario da molto prima che si realizzasse l’unità della Penisola. Da Dante a Petrarca, da Leopardi a Manzoni è un inseguirsi di appassionate strofe: da «Ahi serva Italia, di dolore ostello» a «Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno», da «O patria mia, vedo le mura e gli archi/e le colonne, ma la gloria non vedo» fino alla breve speranza di «O giornate del nostro riscatto!»: è tutto un disperato anelito all’inveramento della nazione lacerata.
Anelito, peraltro, sofferto da minoranze che sognavano una patria, da ristrette aristocrazie del pensiero e del lignaggio, da spiriti liberi indipendenti e rari; la maggioranza, in gran parte analfabeta e sepolta nel duro lavoro dei campi e nel servaggio, non potendo che riconoscersi, invece, nel cinico «Franza o Spagna, purché se magna». Motto seicentesco degli italiani soggiogati e divisi, ma che potrebbe esser stato scritto da Alberto Sordi e lasciato a perenne eredità per quei più, che sprezzano ogni poetico idealismo (o altro “ismo” che sia) in nome dei prosaici interessi, misurabili su scala individuale o familistica.
Tale preambolo può essere utile per rammentare come la poetica sulle peculiari sorti del nostro Paese, accompagnata, lungo tutto l’Ottocento, dal trionfo popolare del melodramma verdiano, che a essa si affiancava e a una letteratura formativa del carattere, dei valori e della lingua, dai Promessi sposi al Cuore, declinò quel “racconto italiano” scandito dalla formazione scolastica universale.
Quel “racconto italiano” che servì, almeno fino agli anni del secondo dopoguerra, a plasmare, in continuità con quel loro passato, finalmente riscattato, il profilo dei cittadini di una Nazione ritrovata.
Delineata nel 1861, coronata con Roma capitale nel 1870, completata nel 1918 con Trento e Trieste, esaltata nel ventennio fascista, che la dilatò in un nazionalismo catastrofico e in un vacuo quanto magniloquente richiamo augusteo, l’unità d’Italia, salvata dalla Resistenza, sembrò recuperata e messa in sicurezza dall’avvento repubblicano e costituzionale del 1947.
Storia e geografia parvero comporsi lungo la dorsale appenninica e l’arco alpino. La lingua unica si diffuse e radicò, accanto ai vecchi dialetti, grazie alla formazione di base universale e, soprattutto, alla tv. Tutto questo patrimonio culturale ed emotivo, riferimento primario che ha forgiato per generazioni l’auto identificazione degli italiani, sembra improvvisamente dissolversi, uscire dalla memoria collettiva e individuale di milioni di persone, regredite da cittadini ad abitanti di una penisola lobotomizzata. Molti commentatori, sollecitati dalle traversie celebrative del 150° anniversario e dall’esplodere del malcontento siciliano hanno affrontato il fenomeno. Gli ottimisti di natura, come Giuseppe De Rita, giurano che tutto andrà per il meglio: l’Italia sarebbe «una nazione in corso d’essere, un semenzaio di nazioni che continuano a cercare faticose convergenze». Altri, come Angelo Panebianco, vedono «il riacutizzarsi delle storiche fratture» di cui solo la Dc aveva impedito il dispiegarsi.
Giorgio Ruffolo, invece, riconduce la crisi al venir meno di ogni attenzione alla pur irrisolta questione meridionale, giustamente vista come «la questione critica dell’unità nazionale, oggi praticamente uscita dall’agenda politica e sostituita da una questione settentrionale che punta piuttosto alle divergenze che all’unità».
Sono contributi che denotano la sensibilità verso un tema che tutti sentiamo incombere. Il sottoscritto, ad esempio, reputa che il disgregarsi dei principi che ressero per quasi un secolo l’unità della nazione italiana sia di natura politica ma non corrisponda affatto a un preciso disegno. Come quasi sempre accade è il risultato di errori, sedimentatisi nel tempo, di coincidenze casuali, di esiti eterogenei rispetto ai fini, di nefandezze culturali concimate per insipienza che hanno fecondato uova di serpente. È pur vero che l’intelaiatura del nostro Paese si reggeva su un sistema partitocratico e che la Dc vi svolgeva un ruolo decisivo, finalizzato in primo luogo a legittimare l’apporto cattolico alla gestione dello Stato, ma questo non era affatto esclusivo. Anche più incisivo, ai fini di far vestire ai ceti popolari gli abiti della storia patria e della Costituzione unitaria, fu l’apporto della sinistra e principalmente del Pci.
Collocati dalla genialità del Togliatti 1944-1948 in un prospettiva atemporale, sia il vecchio internazionalismo socialista che il legame con l’Urss, il motore propulsivo del partito fu attivato in ogni sua potenzialità per raggiungere la identificazione della sinistra con la storia d’Italia. I partigiani si chiamarono nona caso garibaldini, Gramsci fu declinato come inventore dell’alleanza permanente tra contadini del Sud e operai del Nord, Togliatti si spese per allargare l’alleanza ai ceti medi (teorizzata in un celebre discorso, “Ceti medi e Emilia rossa”). Non si trattò mai di una edificazione di facciata ma di una costruzione a tutto tondo con solide fondamenta per allineare il recepimento di una politica nazionale a un impianto sociale che tendesse a rendere, quanto meno sul piano dei principi, gli italiani eguali, dalle Alpi alla Sicilia. Le leggi,i salari, le riforme, la scuola e in genere il Welfare state si svilupparono con questa impronta egualitaria e nazionale a un tempo.
Ancor più intrinseca alla storia d’Italia fu l’elaborazione di quella che si chiamò l’egemonia culturale, imperniata sulla triade De Sanctis-Labriola-Gramsci, affiancata in dialettico rapporto al duo Croce-Gentile. Migliaia di intellettuali, di riviste, di centri studi vi apportarono arricchimenti continui.
Mentre scandirono i tempi della questione meridionale, concepita come centrale questione nazionale, uomini come Fortunato e Salvemini, Dorso e De Martino, Amendola e Rossi Doria, Compagna e Saraceno.
Non era scritto da nessuna parte che tutto ciò dovesse venir meno con il crollo del vecchio sistema partitocratico. Non era scritto che il Pci dovesse tentare il proprio rinnovamento gettando alle ortiche non solo Stalin ma anche Cavour e Garibaldi, riducendosi a soggetto immemore dalla incerta identità.
Non stava scritto che alla Dc dovesse subentrare non un altro movimento di centro, orientato o menoa destra, liberaleo populista che fosse, ma un partito-azienda, partorito da Mediaset e guidato da un personaggio la cui filosofia politica e di vita è priva di retroterra storico come di prospettive future, ma tutta appiattita sul presente, sull’ hic et nunc misurabili in termini massmediatici e di potere. Non stava scritto che anche la destra nazionale abdicasse all’unica parte valida del proprio passato per un piatto di lenticchie berlusconiano, da cui rifugge il solo Fini, rassegnato a sbandierare le sue buone ragioni dalla presidenza di Montecitorio.
Un assieme di eventi che sarebbero stati probabilmente metabolizzati col tempo se non si fossero incrociati in un punto di coincidenza del tutto casuale: la comparsa della Lega. Fenomeno di per sé nient’affatto eccezionale ma apparentabile ad altri simili, ispirati al localismo e alle “piccole patrie”, in Austria, in Catalogna, in Belgio, in Slovacchia e, con effetti sanguinosi e dirompenti, in Jugoslavia.
Da noi la Lega poteva restare nell’ambito della Padania, recependo e realizzando concreti miglioramenti regionali per il suo elettorato. Invece, come quei virus che diventano mortali quando passano dall’animale all’uomo, così la Lega incrociando un Pd senza memoria e un PdL privo di radici storiche, ha infettato gli uni e gli altri. Da un lato la deplorevole riforma del Titolo V della Costituzione, con la cancellazione del principio prioritario dell’interesse nazionale, dall’altra il recepimento di dosi massicce di velenosità anti nazionali, atte a produrre esplosioni incontrollate di fronte alla crisi economica e alla appropriazione da parte del Nord delle scarse risorse a disposizione. Così quella di Bossi si è trovata a essere l’unica ideologia che ispira il PdL e ha finito per condizionare il Pd.
Non basta il pessimismo leopardiano per lamentarne gli esiti.
"Quella mano della P2 e i mandanti mai trovati"
Ciampi: "Dimenticata la relazione Anselmi"
di Giorgio Battistini (la Repubblica, 03.08.2009)
ROMA - «Ricordo perfettamente», dice Carlo Azeglio Ciampi, presidente della Repubblica nel settennato precedente a quello di Giorgio Napolitano. «Ricordo quei giorni del ‘93. Ero da poco stato eletto presidente del Consiglio in un momento non facile. C’era un clima molto teso dopo le bombe di Firenze, Milano, Roma. Quando presi la parola sul palco per ricordare la bomba alla stazione di Bologna di oltre un decennio prima cominciò la contestazione».
Fischi, grida, che cos’altro?
«Ostilità varie, diffuse. Che però si placarono quasi subito. E partì un applauso non a me ma all’istituzione che rappresentavo: la presidenza del Consiglio».
Ieri però a Bologna il clima era ben diverso. Spazientito dal rito delle celebrazioni, dalla passerella delle autorità che sfilano davanti alla tv. Un’insofferenza che ricordava i cupi funerali all’indomani della strage, poche bare sul sagrato di san Petronio, Pertini che appoggia il braccio su quello del sindaco Zangheri, i fischi in piazza per Craxi e Cossiga. Stesso clima?
«No, qualcosa è cambiato. La gente che protesta chiede la verità su una vicenda che tanto dolore ha provocato. Io capisco quel desiderio di conoscere la verità»
Per quella strage tra gli altri è stato condannato in tribunale a Bologna un alto funzionario dello Stato imputato di depistaggio delle indagini. Lo Stato depistava lo Stato? Ma allora hanno ragione quelli che hanno parlato, per la lunga tragedia italiana che ha insanguinato parte del dopoguerra, di "guerra civile a bassa intensità"?
«Non sono in grado di entrare nei particolari delle indagini. Quella cerimonia è capitata in un periodo davvero speciale. Ricordo l’entusiasmo del ‘93 per l’accordo sul costo del lavoro. Poi la lunga serie di attentati in nottata. Ero a Santa Severa, rientrai con urgenza a Roma, di notte. Accadevano strane cose. Io parlavo al telefono con un mio collaboratore a Roma e cadeva la linea. Poi trovarono a Palazzo Chigi il mio apparecchio manomesso, mancava una piastra. Al largo dalla mia casa di Santa Severa, a pochi chilometri da Roma incrociavano strane imbarcazioni. Mi fu detto che erano mafiosi allarmati dalla legge che istituiva per loro il carcere duro. Chissà, forse lo volevano morbido, il carcere».
C’era uno strano clima in quei giorni, strane voci, timori diffusi...
«E forse anche qualcosa di più. Alle otto di mattina del giorno dopo il ministro dell’Interno Nicola Mancino e io riferivamo in Parlamento. Poco dopo ci fu l’anniversario della strage di Bologna. Una celebrazione sotto la canicola. Quando cominciai a parlare la piazza iniziò a rumoreggiare. Poi ci fu l’applauso per gli scomparsi. Più tardi incontrai i familiari delle vittime».
Avvertiva anche lei l’ombra di qualcosa, di qualcuno nei palazzi del potere che remava contro l’Italia?
«Certo anch’io mi chiedo come mai la grande, lunga complessa inchiesta della commissione parlamentare sulla loggia P2 guidata da Tina Anselmi a Palazzo San Macuto abbia avuto così poco seguito. Ricordo quei giorni, ricordo che l’onorevole Anselmi era davvero sconvolta. Mi chiamò alla Banca d’Italia (ero ancora governatore) e mi disse "lei non sa quel che sta venendo a galla". Lei, la Anselmi, il suo dovere lo compì. Non credo però che molti uomini della comunicazione siano andati a fondo a leggere quelle carte. Il procuratore Vigna sapeva quel che faceva».
In quasi trent’anni ancora non si sa nulla dei mandanti. Né si sospetta nulla?
«La violenza purtroppo era ed è diffusa in Europa. Penso alla Spagna, alla Grecia. Anche adesso la violenza continua a manifestarsi, talvolta si prendono gli esecutori, quasi mai i mandanti nell’ombra. Penso all’indagine dei giudici Vigna e Chelazzi (purtroppo scomparso) nel ‘93-’94: avevano trovato gli esecutori, ma non i mandanti. Ricordo però che di mezzo c’era spesso la mafia che si batteva per modificare la legge sul carcere duro».
Che cosa le è rimasto di quei giorni, a distanza di tanto tempo?
«E’ una materia vissuta molto dolorosamente e con grande partecipazione, mentre resta forte il desiderio di conoscere tutta la verità. In quelle settimane davvero si temeva anche un colpo di Stato. I treni non funzionavano, i telefoni erano spesso scollegati. Lo ammetto: io temetti il peggio dopo tre o quattro ore a Palazzo Chigi col telefono isolato. Di quelle giornate, quel che ricordo ancora molto bene furono i sospetti diffusi di collegamento con la P2».
Democrazia zoppa d’Italia
di MICHELE AINIS (La Stampa, 31/7/2009)
Ancora qualche giorno, poi il Parlamento andrà in vacanza. Ma in realtà le vacanze dei parlamentari durano dall’avvio della legislatura. Anzi: i nostri rappresentanti non sono in ferie, sono già in pensione. Pensionamento anticipato, come succede nelle aziende in crisi. Perché le due Camere hanno ormai una funzione puramente ornamentale. Non dettano più l’agenda del Paese, semmai la scrivono sotto dettatura. I dati sono fin troppo eloquenti. Per esempio quelli diffusi il mese scorso dall’Osservatorio civico sul Parlamento italiano. Su 4.016 proposte legislative depositate alla Camera e al Senato, soltanto 68 si sono trasformate in legge. Neanche poche, giacché fra i nostri guai c’è il gran numero di leggi e di leggine che abbiamo sul groppone. Ma il guaio maggiore dipende dalla circostanza che fra queste 68 leggi, 61 sono nate su iniziativa del governo: il 90%. Dunque l’officina del diritto ha traslocato, il suo nuovo indirizzo è a palazzo Chigi.
Per conseguenza i parlamentari della maggioranza sono i più assidui nelle votazioni (83% di presenze), quando c’è da mettere un timbro sugli ordini del Capo; diventano altrettanti desaparecidos se si tratta di prendere parola in aula, o d’imbastire a propria volta qualche iniziativa (il Pdl ha il più basso grado d’efficienza: 2,01 in una scala da 0 a 10). Ma in generale solo 24 onorevoli su un migliaio lavorano a pieno ritmo. Colpa loro? Forse. Ma sta di fatto che in Parlamento non c’è più lavoro. Perfino il sindacato ispettivo sul governo è via via sfumato come un ricordo dell’infanzia, se è vero che attualmente sono appena 2 le commissioni bicamerali d’inchiesta: quella sulla mafia e quella sui rifiuti. L’asservimento delle Camere al governo dipende da tre cause. Una originaria: la legge elettorale, che ha trasformato gli eletti in nominati, privandoli d’indipendenza e dignità. Due successive: l’abuso dei decreti legge e dei voti di fiducia. I primi sono ormai una quarantina in questo scorcio di legislatura, benché i costituenti ne avessero immaginato l’adozione soltanto dopo un terremoto. Quanto alle fiducie, fin qui ne abbiamo contate 23, per lo più imposte dall’esecutivo durante la conversione dei decreti, com’è appena accaduto sul decreto anticrisi. Una tenaglia perfetta, stretta alla gola delle assemblee parlamentari in nome dell’urgenza. Ma che cos’è la questione di fiducia? Uno strumento estraneo alla Costituzione, che però il governo sfodera come una sorta di ricatto: o fai come ti dico o tutti a casa. Sicché i parlamentari non votano più misure normative, bensì continue dichiarazioni d’amore verso la carovana dei ministri. Hai fiducia, mi vuoi bene? Dimmelo di nuovo, dimmelo una volta a settimana. Tutto questo sarebbe perfino ridicolo, se non fosse viceversa tragico. In primo luogo perché la smobilitazione delle Camere implica uno sfratto per l’opposizione, dato che quest’ultima ha casa proprio lì, non certo nelle stanze dell’esecutivo. Quando si chiede alle minoranze di collaborare, o almeno d’evitare grida e strepiti, bisognerebbe almeno dire dove si trovi la sede del confronto, quale edificio abbia rimpiazzato il Parlamento.
In secondo luogo perché il nuovo andazzo nega l’attributo basilare delle democrazie: il principio di pubblicità. Le discussioni parlamentari sono per definizione pubbliche, ma chi mai viene a sapere quale mano ha scritto il decreto del governo o il maxiemendamento? E chi potrà appurare di quali occulte trattative siano figli questi testi? In terzo luogo - e soprattutto - perché l’eclissi delle Camere ci restituisce un sistema sbilanciato, dove il potere non ha contropoteri, dove la separazione cara al vecchio Montesquieu gira in subordinazione, in accentramento verticale del comando. No, non c’è da rallegrarsi del nuovo abito che indossano le nostre istituzioni. In quest’ultimo anno è andata in crisi la democrazia rappresentativa, ma altresì quella diretta, dopo il fiasco del referendum elettorale, con un misero 23 per cento di votanti. Significa che la democrazia italiana è zoppa di ambedue le gambe. O chiamiamo di corsa un ortopedico, o altrimenti dovremo rassegnarci alla sedia a rotelle.
michele.ainis@uniroma3.it
Lo Stato d’eccezione
di Massimo Giannini (la Repubblica, 30.07.2009)
Il miserabile spettacolo del decreto anti-crisi è un misto tra il teatro di Ionesco e l’opera dei pupi. C’è l’assurdo: il governo impone con una mano la conversione di un primo «provvedimento urgente» infarcito di errori ed orrori, con l’altra ne presenta un secondo che riscrive quello appena approvato. C’è la farsa siciliana: il Parlamento svilito nella quinta di un’opera buffa, dove gli eletti del popolo, povere marionette, si scambiano legnate fragorose ma inutili.
Il decreto anti-crisi è discutibile nel merito. L’ennesimo patchwork di ben 25 articoli scombinati e incorenti, l’ennesimo pacchetto di oltre 100 commi di norme palesemente «tossiche» insaccate insieme a norme apparentemente virtuose: come i «titoli salsiccia» che hanno fatto crollare i mercati finanziari mondiali. Da una parte qualche piccola pietra per arginare l’onda d’urto della crisi recessiva: dagli aiuti fiscali per le imprese che ripatrimonializzano alla detassazione degli utili reinvestiti in nuovi macchinari, dal «premio di occupazione» per le aziende che non licenziano all’aumento delle dotazioni infrastrutturali. Ma dall’altra parte una pioggia di interventi che, con la strategia di contrasto alla crisi, non hanno proprio nulla a che vedere: dalla modifica degli automatismi per chi andrà in pensione dopo il 2015 alla tassazione delle riserve auree della Banca d’Italia. In mezzo, un’altra insopportabile legge-bavaglio, stavolta ai danni della Corte dei conti, e una raffica indecente di condoni, dallo scudo fiscale per il rimpatrio dei capitali alla sanatoria per le multe automobilistiche. Sarà anche vero che «il Paese non è in declino», come sostiene Giulio Tremonti: ma se la «exit strategy» dal «declinismo» passa attraverso questa accozzaglia di buone intenzioni e di pessime diversioni non c’è da essere così ottimisti.
Ma il decreto anti-crisi è soprattutto intollerabile nel metodo. Le numerose nefandezze che contiene sono state veicolate con la solita prassi del maxi-emendamento, propinato all’ultimo minuto ad un’assemblea ridotta a muto votificio e imposto all’aula sorda e grigia con il diktat dell’ennesimo voto di fiducia. Il ventitreesimo in poco più di un anno: un record assoluto, per un governo che gode della maggioranza più solida della storia repubblicana. Ma proprio questa attitudine alla sottomissione sistematica del potere legislativo, ad esclusivo beneficio di quello esecutivo, è la cifra politica del berlusconismo come forma tecnica del moderno totalitarismo. Come si può imporre al Senato di approvare un decreto, quando lo stesso presidente del Consiglio avverte che la Camera poi lo modificherà radicalmente? Per fortuna, combinando insensatezze di merito e scorrettezze di metodo, il presidente della Repubblica si è impuntato, e ha spiegato al governo che questa formula non può contare sull’avallo del Quirinale. Ma la toppa, a questo punto, rischia di diventare peggiore del buco. Come si può annunciare adesso «un decreto che corregge il decreto»? Dove finiscono, in questo surreale cortocircuito, il primato del Parlamento e la dialettica tra le istituzioni? Quale torsione costituzionale è mai questa, in uno Stato che ha ancora la pretesa di definirsi «di diritto»?
Più che «Stato di diritto», questo è ormai uno schmittiano «Stato di eccezione». Dove la sospensione dell’ordine giuridico per volontà del sovrano, da misura provvisoria e straordinaria imposta da uno stato di necessità, sta diventando un normale «paradigma di governo». Dettato ora da un’urgenza personale del governante: evitare condanne nei processi, com’è il caso del lodo Alfano. Ora da un’urgenza politica della rissosa maggioranza che lo sostiene: evitare defaillances nel voto parlamentare o rinvii delle vacanze estive, come nel caso del decreto anti-crisi, che a questo punto si trasforma in decreto salva-destra (perché riequilibra le tensioni sempre più destabilizzanti tra Lega e Pdl e tra Pdl del Nord e Pdl del Sud) e in decreto salva-ferie (perché scongiura una proroga agostana dei lavori delle Camere).
In tutti i casi, questo «Stato di eccezione» tende ormai a confondersi o a coincidere con la regola. Quando questo succede, gli equilibri costituzionali si alterano. E la democrazia, fatalmente, ne soffre. Fino a snaturare se stessa.
La bandiera ammainata dell’Unità d’Italia
di Marc Lazar (la Repubblica, 28.07.2009)
A due anni dalla commemorazione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, le polemiche sono già incominciate. A denunciare il silenzio del governo su questa ricorrenza sono stati alcuni membri del Comitato per le celebrazioni, e il suo presidente, Carlo Azeglio Ciampi, ha minacciato addirittura di dimettersi. Sul Corriere del 20 luglio, Ernesto Galli della Loggia ha fustigato una classe politica che ha dell’Italia «un’immagine a brandelli, di fatto inesistente», suscitando reazioni molteplici. In verità, si tratta di controversie gravide di significati, a dimostrare - se ancora ve ne fosse bisogno - che come ha detto Giuseppe Galasso, l’Italia è una nazione difficile. Non può dunque sorprendere che le celebrazioni per la ricorrenza della sua formazione appaiano alquanto problematiche.
Nel 1911 gli organizzatori del cinquantenario dell’Unità vollero dimostrare agli italiani, ma anche all’Europa e al resto del mondo, che l’Italia era davvero unita, e si presentava oramai come un grande Paese in pieno sviluppo, con dichiarate ambizioni internazionali. L’anno 1911 segnò una tappa nell’affermazione dell’Unità nazionale intorno alla monarchia, ma registrò al tempo stesso l’affermazione crescente del nazionalismo italiano.
Il centesimo anniversario della Repubblica fu celebrato fin dal 1959, con manifestazioni ripartite su tre anni, per commemorare la seconda guerra d’indipendenza del 1859, la spedizione dei Mille del 1860 e la proclamazione del Regno d’Italia del 1861. Le iniziative di maggior rilievo ebbero luogo in quest’ultimo anno, in particolare con l’Esposizione internazionale «Italia ‘61», concepita per onorare i padri della Patria e celebrare i successi di un Paese in pieno miracolo economico, il cui tenore di vita progrediva rapidamente, suscitando un indubitabile ottimismo. Ma le iniziative ufficiali venivano recepite solo limitatamente, tranne nei casi in cui si associavano a comme- morazioni della prima guerra mondiale e della Resistenza. Pur non ignorando la nazione, la Repubblica nata nel segno dell’antifascismo stenta a rivendicarla e a darne una definizione precisa, dopo l’uso che ne avevano fatto Mussolini e il suo partito. Inoltre, la costruzione europea è considerata come una priorità. Perciò il 1961 non dà luogo ad eccessi, né in un senso né nell’altro. Poiché si rivela sinonimo di miglioramento delle condizioni di vita, la Nazione è ben vista dagli italiani, ma non riveste un significato politico di grande rilievo. Così, una volta passata la data dell’anniversario, si torna a una forma di indifferenza nei riguardi della nazione, sempre più confinata alla sua dimensione di patrimonio culturale.
Qual è ora il contesto in cui si prepara il 150° anniversario dell’unità d’Italia? Da quasi due decenni questo Paese è scosso da un duplice processo, complementare e antagonistico. Da un lato si ripropongono gli interrogativi sul significato da dare a ciò che l’Italia rappresenta come nazione, mentre dall’altro si sta facendo strada una domanda proteiforme di nazione. Gli interrogativi nascono peraltro da fenomeni che interessano molti Paesi europei. Innanzitutto, la crescente europeizzazione, e la conseguente rinuncia a interi settori della sovranità nazionale. In secondo luogo, la globalizzazione dell’economia, dei rapporti sociali, della cultura e della vita quotidiana, che restringe gli spazi possibili della nazione. Infine, la reazione a questi due elementi porta ad accentuare la ricerca identitaria nell’ambito della prossimità: un fenomeno che spiega le crescenti rivendicazioni locali e regionali quasi ovunque in Europa. In Italia, la questione della nazione è inoltre acutizzata da due fattori specifici: l’ascesa della Lega Nord, che almeno in un primo tempo proclamava una volontà secessionista, provocando reazioni diametralmente opposte di difesa dell’integrità della Penisola; e lo shock migratorio, dovuto all’arrivo massiccio e pressoché improvviso di popolazioni straniere, con tutto il coacervo di problemi che ne derivano. Tutto ciò ha rilanciato un gran numero di interrogativi, in buona parte anche tradizionali. Su cosa si fonda la nazione? Su un passato comune, su valori comuni? E in questo caso quali: della Costituzione, della Chiesa, o altri ancora da ripensare? Un modo di essere? Un insieme di prassi identificabili? Si sono organizzati numerosi colloqui e trasmissioni radiofoniche o televisive, e sono usciti vari libri - ad esempio «Se cessiamo di essere una nazione» di Gian Enrico Rusconi (1993), o «La morte della Patria» di Galli della Loggia (1996) - che hanno suscitato a volte vivaci dibattiti.
D’altra parte, in Italia sta progressivamente emergendo una domanda di nazione, tanto maggiore quanto più aumenta la distanza dall’esperienza storica del fascismo. La modernizzazione accelerata del dopoguerra ha accentuato l’unificazione già intrapresa - in senso sia geografico che materiale, linguistico e culturale - della penisola. Dagli Anni ‘90 in poi, l’Italia non esiste più solo in occasione delle partite di calcio giocate dagli Azzurri. L’identità nazionale si traduce in una sensibilità a fior di pelle nei riguardi degli altri, delle emozioni collettive condivise, e nella coscienza di un «noi» italiano. A quanto emerge dai sondaggi, è in aumento anche la fierezza dell’italianità, identificata innanzitutto con l’«arte di arrangiarsi». E c’è un fatto nuovo, che non si registrava dal 1945: la politica tenta di rispondere a quest’aspirazione. È con chiara intenzione simbolica che Silvio Berlusconi crea Forza Italia, e Gianfranco Fini lancia Alleanza Nazionale. Su un registro diverso, il Presidente Ciampi riafferma con le parole e con gli atti le virtù politiche e civiche della nazione italiana. Ma tutto questo sembra scontrarsi con certi limiti. Come ha dimostrato Ilvo Diamanti (su Repubblica del 26 luglio) si sta nuovamente rafforzando la diffidenza tra italiani del Nord e del Sud.
La commemorazione del 2011 fa dunque sorgere un interrogativo: l’Italia è in grado di proporre una narrativa comune, la rivendicazione di un passato a un tempo unitario e plurale, contrassegnato da invarianti, ma anche da lacerazioni? Un vivere insieme nel presente, non ripiegato su se stesso ma aperto e capace di integrare, in vista del progetto di un futuro comune? Se non saprà cogliere questa ricorrenza del 2011, l’Italia perderà un’occasione per costruire una nazione non illusoriamente nostalgica, ma adeguata al nostro tempo, capace di arricchire l’Europa e il mondo della sua storia e della sua cultura, certo, ma anche dei suoi valori.
MAPPE
Il Paese delle leghe e la nazione impossibile
di ILVO DIAMANTI *
Esiste l’Italia? E, soprattutto, è una nazione? È una questione vecchia quanto l’Italia. Tornata attuale all’avvicinarsi del 2011, anniversario dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Carlo Azeglio Ciampi, non a caso, ha minacciato di lasciare il Comitato per le celebrazioni, "se non cambia nulla". Se, cioè, non viene colmato - o almeno nascosto - il "vuoto di idee" in merito, denunciato da Ernesto Galli della Loggia.
Ciampi, d’altronde, aveva restituito dignità al 2 giugno, festa della Repubblica. Ha valorizzato un’idea dell’Italia come "nazione di città e di regioni". Dove la molteplicità e le differenze sono un elemento di unità. Un distintivo. Il che significava dare cittadinanza anche alla Lega e alle sue rivendicazioni "riformiste".
Anzitutto il federalismo. Nel corso della prima metà degli anni Novanta, d’altronde, la minaccia della secessione del Nord, lanciata dalla Lega, aveva reso esplicita la questione: che succede "se cessiamo di essere una nazione?" (titolo di un noto saggio Gian Enrico Rusconi del 1993). Favorendo, per reazione, un ritorno prepotente dell’identità nazionale (certificata da numerosi sondaggi).
Oltre 15 anni dopo, la questione riappare. Molto meno lacerante, però. E per questo più preoccupante. La nazione. Fondata su un comune nucleo civico. Un’identità condivisa. Non suscita grande passione. Semmai, vi sono segnali che vanno in senso diverso e divergente.
Anzitutto, gli orientamenti dei cittadini in questo senso, si sono raffreddati sensibilmente. All’inizio del 2000 (indagine LaPolis-liMes), l’Italia costituiva uno dei due principali riferimenti dell’appartenenza territoriale per il 42% delle persone. Alla fine del 2008 per il 35%. Oltre 8 punti in meno. Nello stesso periodo, però, si è ridimensionato anche l’attaccamento per le città (dal 41 al 26 %) e le regioni (dal 34 al 23%).
Mentre è cresciuta, soprattutto, l’identificazione nelle macroregioni. In particolare, nel Nord. Era espressa dal 9% dei cittadini nel 2000, oggi dal 14%. Che però sale al 26% fra i cittadini del Nord "padano" (senza l’Emilia Romagna). In altri termini, l’Italia non riesce più a tenere insieme i diversi pezzi di questo paese. Dove, anzi, si riaprono le fratture antiche. Prima fra tutte: fra Nord e Sud.
Negli ultimi 3 anni, infatti, la quota degli italiani che esprime "distacco" nei confronti del Nord o del Sud sale, infatti, dal 20 al 31% (indagini LaPolis-liMes). Segno di un reciproco risentimento, che cresce vistosamente. Oggi il 26% di coloro che risiedono nel Nord "padano" e il 20% di chi abita nelle regione "rosse" (oggi "rosa") dichiara la propria "distanza" dal Mezzogiorno. Viceversa, il 29% dei cittadini del Mezzogiorno si dice lontano dal Nord.
Ancora: oltre un terzo dei cittadini del Nord (più del 40% nel Nord-Est) ma anche delle regioni "rosse" del Centro ritiene che il Mezzogiorno sia "un peso per lo sviluppo del paese".
La divisione fra Nord e Sud, mai risolta, oggi appare una frattura. Resa più drammatica dalla crisi economica e finanziaria, che alimenta il conflitto fra interessi territoriali. Divenuti, a loro volta, argomento di consenso e antagonismo politico. I partiti della prima Repubblica erano anch’essi federazioni di interessi e di comitati territoriali. La DC ma anche il PCI. Tuttavia le differenze e le domande locali erano integrate e mediate all’interno del partito su base nazionale.
Oggi, invece, le forze politiche usano sempre più spesso il riferimento territoriale come un’arma di lotta politica. Nel Nord, ovviamente, la Lega. Ma anche i governatori del PdL. Nel Sud, l’MpA guidato da Raffaele Lombardo, in nome degli interessi della Sicilia ha rotto l’alleanza con il PdL. Mentre Bassolino propone apertamente un nuovo "movimento del Sud". E altri governatori di Centrosinistra, come il presidente della Puglia, Nichi Vendola, polemizzano apertamente con il governo "nordista", guidato dall’asse padano Bossi-Tremonti.
D’altra parte, il risultato del PdL e Berlusconi, a livello nazionale, come si è visto alle recenti elezioni europee, dipende sempre più dalle alleanze "territoriali". Al Nord con la Lega, al Sud con MpA e con altre liste. Mentre il Pd continua ad essere confinato nelle regioni rosse. Quasi una "Lega del Centro", come ebbe a dire anni fa Marc Lazar. E per questo fatica a imporsi.
Da ciò la differenza profonda, rispetto agli anni Novanta. Allora le tensioni territoriali erano agitate dalla Lega nel Nord. Un soggetto politicamente periferico. Oggi, invece, la Lega governa ed è in grande ascesa. Mentre al Sud crescono altre leghe. Così l’Italia rischia di venire lacerata dalle crescenti tensioni fra nordisti e sudisti. Mentre la pluralità delle "patrie locali", su cui puntava Ciampi, non riesce più ad alimentare senso di appartenenza. Le città, le province e le regioni stentano a offrire identità ai cittadini. Oppure lo fanno alimentando le spinte localiste e anticentraliste. Tutti contro tutti. Ciascuno per proprio conto. Le province, dal 1980, quando se ne propose l’abolizione, sono aumentate da circa 90 a 110. Mentre sono centinaia i comuni che vorrebbero a scavalcare i confini regionali. Aggregandosi alle regioni più ricche e favorite dallo stato (perlopiù, le Regioni a statuto speciale).
Per questo, celebrare l’Unità della Nazione oggi è un’impresa difficile, se non impossibile. Perché non ci sentiamo uniti. E neppure una nazione. D’altronde, il carattere specifico degli italiani, secondo gli italiani stessi, è definito anzitutto dall’arte di arrangiarsi e dall’attaccamento alla famiglia. Un popolo di persone ingegnose e familiste. Capaci di inventare e di adattarsi alle difficoltà. Ciascuno per conto proprio. Si ricordano di avere un Casa Comune solo quando si tratta di chiudere le porte. Agli stranieri. Alzando - ovunque - muri per difenderci da loro. Dovremmo, semmai, difenderci da noi stessi. In questo mondo sempre più grande e aperto. L’Europa, sempre più debole. Senza un senso di appartenenza comune. Siamo destinati a perderci. A divenire marginali. Più ancora di oggi.
La Nazione. Forse non c’è. Comunque, l’abbiamo rimossa. Ma la dovremmo (ri)costruire. Per legittima difesa.
* la Repubblica, 26 luglio 2009