Volontà di potenza
di Carlo Galli (la Repubblica, 17.10.2009)
Il nuovo discorso bulgaro di Berlusconi è solo apparentemente più conciliante del diktat che sette anni fa attuò una prima pulizia etnica del video. Anzi, contiene elementi per certi versi ancora più inquietanti.
Si ammette, certo, la facoltà della stampa, e dei media in generale, di criticare il potere politico; ma questo è immediatamente personalizzato nella figura del premier, e nella sua asserita volontà d’amore e di giustizia, una volontà talmente universalistica da consentirgli di accettare (viene da dire ‘tollerare’) anche le critiche, purché, naturalmente, restino "nei confini della moderazione"; in questo caso possono essere "usate per colmare le mancanze" dell’azione di governo. Se vanno oltre, però, se cioè non sono "moderate" - se non condividono le cose che il governo fa, anziché limitarsi a criticare il modo in cui le fa - allora diventano calunnie, che "non fanno piacere a chi è calunniato"; e che per di più si ritorcono provvidenzialmente contro il calunniatore, data l’istintiva simpatia che un popolo di grande intelligenza e saggezza come l’italiano prova per i perseguitati. La critica o è ‘costruttiva’, e accetta il terreno concettuale e valoriale del potere, o è una cattiveria, e lede il vincolo sentimentale che unisce la società, e che trova espressione nell’amore (ricambiato) del leader per la "gente".
A fronte di ciò, nel discorso bulgaro si parla di «preoccupazione per l’opposizione che ci ritroviamo in Italia», motivo non ultimo, insieme alla condivisione di valori e programmi, perché l’alleanza di governo sia salda. Il nemico è alle porte, insomma, e anzi sta per entrare: da qui l’esigenza di una compatta unità delle forze nostre. Improvvisamente l’immagine della società amorevole è sostituita da accenni di guerra e di oscuri fantasmi. Il che significa, anche se a Sofia non è stato detto esplicitamente, che le riforme - della giustizia, e forse della Costituzione - si hanno da fare da soli, e non dialogando con l’opposizione, tranne che questa non accetti obiettivi e metodi del governo, limitandosi a proporre qualche variante in uno schema già definito (da altri).
Da una parte, insomma, Berlusconi propone l’immagine di una società omogenea, coesa, sostanzialmente pacificata, perché condivide - grazie a un rapporto affettivo col capo - valori e stili di pensiero, senza voci dissonanti e fuori dal coro. Una società in cui il conflitto non esiste, né quello di classe né quello ideale, né quello - aperto e proclamato - degli interessi; una società in cui le voci della critica, dei media e delle altre istanze che costituiscono la pubblica opinione, non portano altro contributo che qualche variazione su un unico tema. Una società che si compiace delle stesse evidenze, che si turba per le stesse inquietudini; una sfera pubblico-sociale anestetizzata, e certamente assai diversa da quelle che storicamente sono state le società liberali e democratiche, caratterizzate da intensa e vivacissima dialettica di posizioni, dalla violenza della polemica nella stampa, nelle accademie, nelle case editrici, nei salotti intellettuali. Una società omogenea, insomma, e una stampa allineata o molto prudente.
A ciò si contrappone una visione della politica come combattimento contro estranei o nemici, come una lotta tanto aspra che non trova moderazione e neutralizzazione neppure nelle istituzioni, nei poteri dello Stato. Queste, anziché essere interpretate come sistemi di regole intrinsecamente neutrali, la cui finalità è di lasciare sussistere il conflitto fra le parti senza essere esse stesse ‘parte’ - tranne il caso del potere esecutivo, che può essere ‘parte’, ma soltanto secondo precisi limiti -, paiono a Berlusconi sempre attraversate dall’energia della polemica, dalla partigianeria. Una sorta di iper-politicismo per cui la politica esce dalle istituzioni, le eccede continuamente, le travolge come la piena inarrestabile di un fiume, gonfio di polemicità. Tutte le magistrature sono necessariamente parziali e mai neutrali, la politica è sempre faziosità, la dismisura non può non travalicare la misura.
Sembra a volte di avere a che fare con un’applicazione domestica e in tono minore del celebre ‘politico’ di Carl Schmitt, il teorico secondo il quale la politica consiste essenzialmente nel rapporto amico-nemico. Oppure possono venire alla mente interpretazioni della politica come volontà di potenza, come grandioso e tragico destino di conflitto; una visione terribile, certo, ma anche nobile, che sta fra Nietzsche e Lenin. Ma lo sembra soltanto. Infatti, queste concezioni della politica la vedono come un’energia pubblica, che emana da un popolo, come una forza collettiva rivoluzionaria che mobilita ogni ordine giuridico-istituzionale.
Berlusconi, invece, pensa alla politica come alla sua personale volontà di potenza, come a un eccesso privato che dilaga nel pubblico. In mano a lui, insomma, quello che in altri contesti è la rivoluzione che travolge le istituzioni, diventa più banalmente tentativo di prevaricazione, unito a un continuo sospetto della prevaricazione altrui.
Tutto ciò non è né rassicurante né innocuo, soprattutto se è diventata la nuova costituzione materiale del nostro Paese, e se diventerà - come sostengono e auspicano esponenti della maggioranza - la nuova costituzione formale. Infatti, lo scenario che prevede istituzioni politiche ‘calde’ percorse da spasimi di polemicità, e la società civile ‘fredda’, libera da conflitti e unificata semmai nel tepore pacificante dell’amore, è un’inversione quasi perfetta dell’Abc della moderna democrazia: è l’immagine, non rassicurante ma inquietante, di una democrazia autoritaria.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
UNA QUESTIONE DI ECO. L’orecchio disturbato degli intellettuali italiani
ABUSO ISTITUZIONALE DEL NOME "ITALIA" DA PARTE DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO: DIMISSIONI SUBITO.
IL REGNO DEL MENTITORE. L’ITALIA SOTTO L’EFFETTO LUCIFERO.
TEOLOGIA-POLITICA LUCIFERINA... A SILVIO BERLUSCONI UN "NOBEL"
Potere/Responsabilità
di Carlo Galli
Il concetto di Responsabilità - da cui dipende quello di Cura (si ha cura di colui del quale si è responsabili) - ha a che fare con il rispondere: implica cioè una capacità di domanda, e di risposta, dalla quale ha
origine il prendersi Cura: è uno sporgersi dei soggetti oltre sé, dapprima
nella parola e poi nell’azione, fino all’incontro. Non necessariamente,
però, responsabilità implica un diritto di domanda e un dovere di risposta (responsività). Perché tale diritto e tale dovere si diano, è necessario
che ci sia la mediazione del riconoscimento.
Ad esempio, quando in Genesi 4, 8 Dio chiede ragione a Caino di Abele, Caino si dichiara irresponsabile, non riconosce la propria responsabilità verso Dio, e si rifiuta di
rispondere (se non con la sfuggente domanda “sono forse il custode di
mio fratello?”). Dio, d’altra parte, in Genesi 9, 5 promette che chiederà
conto del sangue versato anche dagli animali (rende così tutto il creato,
in particolare l’uomo, responsabile verso di Lui), mentre al contrario si
dichiara irresponsabile - si sottrae cioè al dovere di rispondere, è irresponsivo - davanti a Giobbe che gli chiede conto delle proprie sventure;
alla sua domanda Dio offre, per tutta risposta, l’esaltazione della onnipotenza divina e la sottolineatura dell’impotenza umana, in un’ulteriore
domanda (come aveva fatto Caino, ma ben più diretta e intimidatoria):
ubi eras quando ponebam fundamenta terrae?
Caino avrebbe dovuto rispondere a Dio, ma non comprendeva il fon- damento della sua obbligazione: essere responsabile di Abele davanti a Dio implicava anche riconoscere la insopprimibile alterità, paritetica, di Abele. Al Tre (Dio, Abele, Caino), che sarebbe scaturito da un atto di riconoscimento, Caino si è sottratto, rifugiandosi nella logica dell’Uno, del solipsismo. D’altra parte, Dio avrebbe potuto ma non dovuto rispondere a Giobbe, perché chi gli poneva la domanda - Giobbe - non riconosceva, in quel momento, la Sua insopprimibile alterità, e lo riteneva responsabile secondo una logica di causa-effetto, remunerativa e punitiva, autocentrata, che nel caso concreto era del tutto fallace (è Satana che colpisce Giobbe). Se risponde, Dio risponde per Grazia, non per responsabilità.
Se responsabilità è così un dialogo al quale è necessaria la parità fra gli interlocutori (la responsabilità sta insieme alla responsività, da entrambe le parti); se le è pertanto necessario il riconoscimento, cioè quell’autotrascendimento (non però un auto-annullamento) del Sé che rende possibile la relazione con l’Altro, il prendersi Cura alla pari; allora responsabilità è un atto di libertà, un’apertura del solipsismo, dell’interesse rivolto esclusivamente verso di sé. Nel dominio dell’etica questa apertura si dà nella forma del diritto e del dovere, al di fuori delle relazioni di potere, mentre in politica il potere è sicuramente implicato. Se invece la risposta alla domanda accade in modo necessario - non come decisione di apertura - non si tratta di responsabilità bensì di un automatismo, di un riflesso condizionato. Se infine la risposta alla domanda non c’è, allora questa mancanza di relazione è la libertà dell’Anarca, o dello stato di natura.
La questione della responsabilità - la responsabilità come nesso, mediato dal riconoscimento, di questione e risposta, con la conseguente reciproca Cura - va quin- di posta così: a chi, e perché, possiamo fare domande? A chi, e perché, dobbiamo rispondere? Ovvero: chi è responsivo verso chi, e perché? Chi è responsabile di chi o di che cosa, perché? Chi, infine, si prende Cura di chi, a quali fini, con quali limiti e modalità?
È vero che sotto il profilo intellettuale già il mondo antico aveva elaborato la teoria di una responsabilità libera, coincidente con l’umanità; l’affermazione di Terenzio (Heautontimoroumenos, v. 77) homo sum, humani nihil a me alienum puto ne è la prova. Ma, dal punto di vista politico, la responsabilità premoderna si struttura essenzialmente come auctoritas: quella della famiglia, della gens, dell’Urbs, e poi quelle della respublica christiana; in età cristiana, particolarmente, il vertice di un legame sociale organicistico, superiore al singolo, è responsabile davanti a Dio del suo prendersi cura dei sudditi, per farli vivere e per farli crescere secondo la loro ‘vera’ natura. In parallelo a questo dovere di Cura del superiore, il singolo ha solo un dovere di risposta nella forma dell’obbedienza: il potere non può essere interrogato dal basso, e non ha il dovere di rispondere (è responsabile ma non responsivo). -Fino al XVIII secolo il termine polizey esprimeva la logica profonda di questa politica che vede il monarca responsabile per il suddito davanti a Dio; una politica, quindi, che implica la minorità dei sudditi e l’azione politica paternalistica (tanto aspramente criticata da Kant), la censura, ecc.
La modernità, nel suo versante proto-liberale e razionalistico, non è altro che - primariamente - l’idea (e la prassi che ne discende) che la responsabilità vada
ridefinita e molto ridimensionata: nessuno ha diritto di rivolgere domande e di ottenere risposta in via autoritativa. Anzi, l’uomo è immaginato autonomo, responsabile
di sé: si interroga e si risponde da sé, scegliendo a proprio rischio la propria via,
per nulla fissata a priori. Infatti, la modernità è caratterizzata dall’assenza di un
Ordine dell’Essere condiviso, di gerarchie riconosciute, di quell’orizzonte comune (e
cogente) di civiltà che era il fulcro della responsabilità premoderna. Un uomo solo
e isolato, quindi, è quello moderno; che in realtà è anti-Prometeico, poiché rifiuta
la grandiose visioni dell’Assalto al Cielo e della redenzione dell’umanità come anche
gli interrogativi ultimi che, privi di soluzione, sono solo portatori di angoscia (non
a caso nel Leviatano di Hobbes, al XII capitolo, intitolato Della religione, Prometeo,
legato al Caucaso, guarda troppo avanti ed è torturato quindi non solo nel corpo ma
anche dalla consapevolezza del suo triste futuro).
Un uomo attento a sé, alla propria contingenza, che gioca la propria autonomia e libertà contro il paternalismo e
l’autorità, ma che non riconosce l’Altro: lo incontra e lo teme, o ne ha fastidio, o ne
ha bisogno; ma se ne fa un problema solo esterno, non esistenziale né morale. Anche la filosofia politica moderna, quindi, conosce la responsabilità, ma la interpreta come un’obbligazione che il singolo impone a se stesso, col costruire egli stesso la
Legge (la rappresentanza hobbesiana ne è l’esempio più calzante) a cui rispondere.
Soprattutto, questa responsabilità è un’obbligazione giuridica che non consiste nel
render conto a una persona specifica, a un Altro: si risponde alla Legge, creata dal
potere politico sovrano, rappresentante dei soggetti, a sua volta responsivo verso i
cittadini - almeno perché da essi legittimato. Anzi, in generale il soggetto moderno
è tanto poco sollecitato a uscire dal proprio solipsismo metodologico che rischia di
cadere (e la tarda modernità ne è la prova), in quella negazione della responsabilità
che è l’informe narcisismo dei consumi.
Il potere politico moderno, da parte sua, non è, di conseguenza, paterno: anzi, è costruito dagli uomini - separati tra di loro (Hobbes) e incapaci di promessa efficace - per uscire dallo stato di natura e per essere protetti sotto il profilo dei diritti naturali (da trasformarsi in civili e politici), ma anche per essere lasciati liberi per ogni altro aspetto. Il potere corre piuttosto il rischio di essere un agire tecnico, che è responsabile tanto quanto un automa (cioè per nulla responsabile); che cioè è responsivo perché obbedisce alla programmazione ricevuta, e nulla più; e che quindi ha Cura dei cittadini nel senso che ne protegge meccanicamente la vita e i beni, come da loro gli è richiesto, sottomettendoli a un’unica legge. Un automa costruito per essere dispensatore di Cura non individualizzata ma universale a priori; e che chiede a sua volta di essere oggetto di una responsabilità solo tecnica, di ricevere cioè le dovute manutenzioni, e di essere utilizzato razionalmente. Questa è la responsabilità ‘verticale’ che esige lo Stato-macchina moderno; mentre la responsabilità ‘orizzontale’ è, all’interno di questa logica, che ciascuno sappia fare oculatamente i propri interessi individuali, ossia non infranga la legge nel rapportarsi agli altri, e sia capace di calcolare ragionevolmente all’interno dello spazio del mercato. L’etica della responsabilità, opposta da Weber (La politica come professione, 1919) a quella della convinzione, è anch’essa impersonale, è un’analisi delle compatibilità sistemiche delle conseguenze delle azioni individuali: è un interesse personale temperato da interesse per un’istanza superiore di valore strutturale (lo Stato e la sua potenza). In generale, nella modernità la responsabilità è personale, è una scommessa su se stessi, è un confrontarsi solitario con la Legge (umana); la responsabilità si estende ad altri soltanto in ambiti non politici (la famiglia) e in circostanze che implicano la incapacità di qualcuno (minore o minorato) di essere responsabile di sé.
Naturalmente, c’è anche un’altra autonarrazione della modernità, più complessa
di quella razionalistica, e ad essa alternativa: quella dialettica. Che vede gli uomini
non separati tra di loro (e uniti solo artificialmente nella legge) ma relazionalmente
interdipendenti in un riconoscimento (tematizzato esplicitamente come tale) che
si dà non nell’orizzonte aprioristico del Dio della metafisica, sì nella storia e segnatamente nel lavoro. È da questo e dal potere che scaturisce dalle sue connaturate asimmetrie (le figure fenomenologiche del servo e del signore) che è reso possibile il
legame sociale; il potere non è un artificio razionale ma una struttura - inevitabile e
al contempo determinata - che attende di essere resa trasparente e umanizzata nella
storia dello Spirito (Hegel). In quest’ottica in cui il riconoscimento è un progressivo farsi dei soggetti (un prendersi Cura di Sé e degli Altri) attraverso la dialettica, la contraddizione, la responsabilità è l’interrogarsi e il rispondersi concreto degli
uomini, ovvero il loro sfidarsi e confliggere, sempre più consapevole della umana
spiritualità del reale; e implica quindi un dovere di emancipazione e di progresso,
una responsabilità davanti allo Spirito (che è l’insieme delle relazioni dialettiche di
riconoscimento, rese consapevoli). E questo rispondere Sì alla necessità dello sviluppo dialettico dell’umanità, questa responsabilità verso l’avvenire, è, in Marx e nel pensiero che ne deriva, la responsabilità verso il comunismo, e verso la lotta per
realizzarlo.
Si tratta quindi di responsabilità del singolo verso dimensioni sovrapersonali e progressive, quali sono lo Spirito, la storia e il comunismo (a cui si affianca,
in ambito non dialettico, la responsabilità del singolo verso la Nazione - un’altra
entità sovraindividuale che però è spesso, anche se non necessariamente, regressiva
e arcaica -). Una responsabilità, in ogni caso, verso istanze che da parte loro non
sono responsive, che tendono a nullificare il soggetto, riportandolo alla dimensione
dell’obbedienza, o della conciliazione col corso del mondo.
L’età moderna nega quindi ogni responsabilità a priori; ma pare destinata a oscillare fra il solipsismo e la tecnica, oppure il riemergere di nuove dimensioni dell’autorità (Legge, Storia, Progresso, Nazione): un’autorità che divide (la legge della tradizione razionalistica) o che unisce (il pensiero dialettico e l’ideologia della nazione), ma che è impersonale e immanente, a differenza di quella della tradizione cristiana. Una responsabilità che non si manifesta verso l’Altro, ma, nel versante dialettico, verso un Assoluto (è qui, semmai, e non nel razionalismo, l’aspetto prometeico del Moderno: una responsabilità priva di concretezza che diviene facilmente un incentivo alla irresponsabilità, all’obbedienza al Partito o al Capo, anche alle estreme inumane conseguenze).
Infine, la modernità può interpretarsi - nel pensiero negativo - come estranea sia al calcolo sia al dialogo; come sottratta a qualsiasi riconoscimento. E come fondata sul rapporto abissale (cioè infondato) amico/nemico (Schmitt), un rapporto che mette in causa il soggetto, il quale non può chiudersi in se stesso e che anzi deve specchiarsi nell’Altro. Anche da questo punto di vista, il pensiero negativo ha l’andamento di un liberalismo rovesciato: là la responsabilità è negata da un individualismo che scivola nel narcisismo; qui è negata da un rispecchiamento, non in sé quanto piuttosto in un Altro che è il nemico, e che quindi non genera alcun legame. Infatti, in questo rispecchiamento nessuno dei due si costituisce come persona, nessuno dei due interroga l’altro, né lo riconosce; piuttosto, si tratta di un muto rispecchiarsi di due enigmi, di due incomprensioni radicali (Der Feind ist unsere Frage als Gestalt). E quindi nel rapporto amico/nemico è implicita un’incompletezza del soggetto che non è autotrascendimento, né apertura; un legame negativo e non razionale che - poiché nulla è in comune - non dà luogo ad alcuna responsabilità né ad alcuna responsività.
Potere/Responsabilità
di Carlo Galli *
Davanti a queste tre modalità della responsabilità nella politica moderna - tutte aporetiche, benché diversamente - si comprende perché Nietzsche (Genealogia della Morale, 1887, II, 2) parli della necessità di allevare un tipo d’uomo che sappia fare promesse, ma non “l’uomo necessario, uniforme, uguale fra gli eguali”, sì l’uomo concreto - “l’individuo sovrano”, non seriale, non calcolabile né calcolante - capace di assumersi responsabilità verso altri uomini concreti, in modo libero, cioè non sospinto dalla necessità, né dal dovere di rispondere a una qualche domanda. Un uomo - un’umanità, un sistema di relazioni - estraneo alla logica della domanda e della risposta, ma anche della Cura e dell’Autorità. Una provocazione intellettuale, quella di Nietzsche, che allude a un riconoscimento disinteressato e non servile (semmai signorile) dell’Altro come via d’uscita dalle aporie moderne della responsabilità.
Quella capacità di fare promesse è individuata da Hans Jonas (Il principio responsabilità, 1979) - che opera una sorta di ri-moralizzazione di Nietzsche e di Heidegger - nella stessa struttura ontologica del Mondo: l’essere responsabile deriva immediatamente dall’essere-nel-mondo. Per lui, infatti, il muto stupore davanti al mondo è già un’obbligazione: il mondo è costitutivamente un appello. La responsabilità è quindi
un dovere ontologico, non logico: contro la legge di Hume che vieta di dedurre un
dovere dal semplice essere, l’esserci della Vita è quindi già in sé una domanda, a cui il
soggetto può e deve liberamente rispondere, nelle più diverse modalità.
Naturalmente, la responsabilità archetipica è quella dell’uomo per l’uomo, che dà voce alla trama
relazionale dell’Esserci, alla responsabilità dell’Io per gli Enti nella forma della Cura:
alla responsabilità pertiene quindi la consapevolezza tanto del limite (senza la quale
c’è solipsismo, egolatria) quanto dello scopo, che non è un universale prometeismo
ma che consiste nel fatto che è Bene che la potenzialità relazionale del mondo trovi
attuazione. Al contrario, nemico della responsabilità è il nichilismo, ossia tanto la
pretesa (razionalistica) che oltre il soggetto non ci sia nulla, quanto la nullificazione
dialettica del soggetto davanti a un’Autorità universale e assoluta, quanto, ovviamente, la teorizzazione del ‘nulla in comune’ propria del pensiero negativo.
Ma c’è anche un altro modo di intendere la responsabilità, tanto quella verticale del potere verso di noi, e nostra verso il potere, quanto quella orizzontale di ciascuno di noi verso gli altri. Un modo concreto e personale - non assoluto e astratto - che passa attraverso la politica e non la morale, e che implica una re-interpretazione della modernità, e della sua origine a due lati: da una parte, infatti, è vero che nel Moderno il soggetto è tendenzialmente solipsistico e anomico, sordo alla responsabilità, e che quindi vede la politica in modo meccanico (oppure che, per converso, sovraccarica la politica di istanze tanto responsabilizzanti da essere deresponsabilizzanti, tanto assolute da schiacciare ogni singolarità); ma d’altra parte è anche vero che proprio l’età moderna pone come centro e obiettivo della politica il libero fiorire, in uguale dignità, dei diversi progetti di vita umana, nella loro piena e incoercibile diversità (C. Galli, Perché ancora destra e sinistra, 2010).
In quest’ottica, il soggetto immaginato dalla modernità è in se stesso un appello, una pretesa di fiorire rivolta a sé e a tutti (il soggetto moderno sa di non poter volere istituire supremazie o gerarchie qualitative fra gli umani); e poiché ciò vale per ogni soggetto, l’appello è tanto individualizzante quanto generalizzabile. Il soggetto moderno non può non volere la fioritura di tutti e di ciascuno, e non può quindi non sentirsi responsabile verso questo obiettivo, universale ma anche concreto e determinato. Insomma, i singoli sono l’un l’altro responsabili - moralmente e politicamente - di questo progetto, che non li trascende come un’autorità, che non li affratella forzosamente sotto un unico Padre, ma che è nell’origine stessa (troppo spesso dimenticata) e nella finalità (troppo spesso obliterata) della politica moderna. Che della modernità è la ragion d’essere, e al contempo l’energia propulsiva: l’essere e il dover essere. Analogamente, il potere moderno è responsabile, verso i cittadini, di una Cura non autoritaria, ma per dir così umanistica e liberale (appunto, rivolta al libero fiorire dei singoli, che non devono essere coltivati o allevati, ossia fatti fiorire secondo una loro ‘natura’ presunta ‘vera’, ma trattati gli uni come Altri rispetto a ogni altro, cioè come diversi in pari dignità). Ed è anche ‘responsivo’, ovvero può e deve essere chiamato a rispondere delle sue azioni politiche, se esse siano o non indirizzate a questo obiettivo (tutt’altro che facile e scontato, anzi, probabilmente irrealizzabile ma ugualmente cogente come orizzonte trascendentale dell’agire).
Ciò che nel Moderno può diventare nichilistico solipsismo è qui libera contingenza; ciò che può diventare meccanismo è responsabilità e responsività; ciò che può essere astrattezza dell’ideale a cui obbedire diventa la consapevolezza che la responsabilità e la libertà coincidono, poiché sono due nomi delle stesse relazioni concrete fra individui che si riconoscono diversi ma pari in dignità; relazioni, quindi, di collaborazione, di contesa e anche di conflitto - con l’esclusione della violenza e del dominio: un’esclusione del tutto logica, che può e deve diventare politica - nelle quali consiste una coesistenza umana degna dell’uomo. Il riconoscimento, qui, non è infastidito incontro, e non è neppure mediato dal lavoro e dal potere: è ontologico (ossia immanente a questa interpretazione moderna del soggetto) e politico al contempo, perché nasce dalla singola, comune e concreta consapevolezza dell’esser uomo, e orienta il potere al fine del libero fiorire degli uomini, in uguale dignità. Il riconoscimento, qui, dà vita a una responsabilità immanente (anch’essa un’ontologia che è in sé politica) a cui non ci si può sottrarre: l’ontologia della libera fioritura del singolo, che implica la continua domanda e risposta a noi stessi, e simultaneamente a ogni altro, sul nostro essere capaci di vivere liberi in dignità, e di vivere fra liberi in uguale dignità. È, questa, come si vede, la responsabilità verso la democrazia: verso l’ideale concreto, umanistico, civile, istituzionale, potestativo, del reciproco riconoscimento come uguali e come diversi, che non può non accomunarci pur senza legarci, che non può non interpellarci pur senza comandarci. È la politica della fedeltà a noi stessi, del prenderci Cura (senza interferire) tanto dell’Io quanto dell’Altro, di tutti e di ciascuno.
*Doc. Regione Basilicata - Quaderni (FestivalFemminile)
“Forme della critica” di Carlo Galli
di Lorenzo Mesini (Pandora Rivista, 14 ottobre 2020)
Con il suo ultimo libro pubblicato presso il Mulino Carlo Galli consegna al pubblico la versione più matura e aggiornata del suo contributo filosofico nell’ambito della storia del pensiero politico occidentale. Il volume ha il pregio di riunire una selezione di testi dell’Autore precedentemente pubblicati altrove (volumi, riviste accademiche), offrendoli al lettore in una forma aggiornata entro un quadro teorico unitario e coerente.
Pur all’interno di una solida cornice di matrice filosofica, il libro si colloca all’incrocio di diverse aree tematiche e disciplinari: diritto, dottrina dello Stato, relazioni internazionali, storia della filosofia e dei concetti politici.
Oltre che con alcuni dei principali esponenti del pensiero politico dell’età moderna e contemporanea (Machiavelli, Hobbes, Hegel, Marx, Nietzsche, Schmitt e Benjamin) Galli si confronta con importanti nodi teorici della storia del pensiero e con le diverse interpretazioni che ne hanno segnato lo sviluppo fino ai giorni nostri. È un importante sforzo di sintesi quello compiuto da Galli per fare emergere quella «continuità tematica, metodologica, teoretica» che attraversa il suo lungo percorso di ricerca scientifica (p.7).
La specificità di questa sintesi può essere illustrata efficacemente richiamando l’attenzione sulle tre dimensioni, reciprocamente connesse, entro cui essa si articola: teorica, (auto)biografica, storiografica. La prima consente di mettere in luce lo specifico paradigma filosofico che emerge dai saggi raccolti nel volume; la seconda, quella (auto)biografica chiama in causa la fisionomia intellettuale dell’Autore e lo specifico percorso filosofico di cui essa è il frutto; infine la terza, quella storiografica, richiama l’attenzione sullo specifico paradigma storiografico che supporta e fornisce profondità storica alla prestazione filosofica dell’Autore.
È uno specifico paradigma filosofico quello che il libro consegna al lettore nelle sue articolazioni interne. Tale paradigma - di cui Galli nell’introduzione offre un’efficace panoramica per tesi - è riassumibile come segue. -L’esercizio della critica, secondo forme diverse, costituisce l’essenza della filosofia. La critica segna il perimetro dell’attività filosofica oltre la quale si colloca la prassi. L’obiettivo della critica - prosegue Galli - consiste nel fare emergere il rapporto irrisolto tra mediazione e immediatezza, il nichilismo presente all’origine della ragione moderna, della sua storia e delle istituzioni che ne discendono.
In quest’ottica la teologia politica si configura come una delle possibili forme - accanto alla critica dell’economia politica (il marxismo nelle sue diverse declinazioni) e alla biopolitica (una costellazione di posizioni comprese tra Foucault, Agamben, Esposito) - attraverso cui è possibile declinare la critica della ragione moderna e delle sue mediazioni. La teologia politica - con la sua specifica radicalità - rappresenta la declinazione filosofica della critica a cui Galli approda nel suo percorso.
La cifra metodologica del paradigma filosofico proposto nel volume consiste da un lato nella critica della storia del pensiero politico moderno (delle sue figure e delle questioni teoretiche di fondo), dall’altro in uno specifico modo di intendere e guardare alla politica e alla società che Galli definisce «realismo critico» (p.8).
All’interno della critica - come non manca di osservare Galli - si ripresenta l’origine nichilistica della ragione moderna. Nel suo intento di aderire «al reale senza legittimarlo» (p.9) la critica filosofica finisce nel corso del Novecento (nelle sue declinazioni decisioniste, francofortesi e decostruzioniste) per incorporare al suo interno lo stesso carattere aporetico del suo oggetto: soggetto e oggetto della critica condividono la stessa assenza di fondamento e sono entrambi aperti alla contingenza. Nel suo essere inevitabilmente condizionata (nella misura in cui è condizionato anche il soggetto che la esercita) la critica non può mancare di criticare se stessa, non può non essere autocritica, pena la perdita del suo costitutivo carattere radicale. Nella chiusura della critica su se stessa emerge il suo carattere ultimamente paradossale: l’esercizio della critica si trova continuamente esposto al rischio di esiti occasionalistici (quando la critica del carattere arbitrario dell’esistente si traduce in una prassi che afferma un’altra forma di arbitrarietà), paralizzanti (quando la critica si traduce in una piena autocritica e si preclude l’accesso alla prassi) o messianici (quando la critica, riconosciuta l’impotenza e/o l’impossibilità della prassi, si affida alla forma più estrema di contingenza contro l’arbitrarietà della realtà sociale).
Ripercorrendo le diverse «forme della critica» l’Autore ne traccia i confini e il loro possibile campo di azione. Nel paradigma definito da Galli la critica filosofica assume così una fisionomia eroica e umile al tempo stesso: per quanto priva di fondamento e aperta alla contingenza, la critica non può congedarsi completamente dall’orizzonte progettuale ed emancipatorio che è caratteristico della Modernità, di cui conserva l’ambizione costruttiva (pur con una diversa consapevolezza). Nella misura in cui riunisce al suo interno l’assenza di fondamento, la coazione all’ordine e un insopprimibile anelito all’emancipazione, la teologia politica delineata da Galli si configura come una delle espressioni più mature del nichilismo, di cui esibisce tutto il carattere contraddittorio.
Attraverso la lettura di questo paradigma filosofico emerge con forza la specifica fisionomia intellettuale dell’Autore, le cui coordinate di fondo meritano di essere brevemente illustrate. Quest’ultima deriva dall’approfondimento dei complessi teorici legati agli autori appartenenti alla costellazione del ‘pensiero negativo’ di lingua tedesca, letta all’interno della tradizione filosofica occidentale. Costellazione a cui Galli accede nel suo lungo percorso (prima di formazione e poi di ricerca) grazie alle coordinate fornite da Karl Löwith, dalla Scuola di Francoforte (in particolare da Theodor W. Adorno e H. Marcuse) e da Carl Schmitt. -Dall’insegnamento di Löwith (in particolare dal celebre libro Da Hegel a Nietzsche) proviene l’accento sul problema della mediazione (tra infinito e finito, universale e particolare, soggetto e oggetto, Stato e cittadini) come chiave filosofica di accesso alla storia del pensiero politico moderno e contemporaneo.
Dalla Scuola di Francoforte proviene il nesso particolare tra filosofia e critica, in cui convergono sia la potenza della filosofia classica tedesca (Kant, Hegel, Marx), sia lo sguardo radicale di Weber e Freud, di Heidegger e Lukács. L’accesso al pensiero dialettico e ai suoi due principali esponenti avviene mediante la lezione di Adorno (specialmente i Tre studi su Hegel) e di Marcuse (in particolare Ragione e rivoluzione - di cui il Mulino ha recentemente ristampato l’edizione italiana curata dallo stesso Galli nel 1997). L’eredità francofortese si configura all’interno di una lettura non idealista del pensiero dialettico, distante dalla tradizione idealista e storicista italiana.
Infine dal lungo e ripetuto studio di Carl Schmitt (della cui opera Galli si è affermato come uno dei principali studiosi nello scenario internazionale con la pubblicazione di Genealogia della politica nel 1996) proviene la concezione della teologia politica come genealogia critica dei concetti politici e giuridici dell’età moderna (opportunamente depurata dagli elementi ideologici degli anni Trenta), la consapevolezza dell’origine nichilistica degli ordinamenti politici (decisionismo) e con essa l’inevitabile coazione all’ordine.
Il paradigma filosofico al centro del libro corrisponde infine all’elaborazione di uno specifico paradigma storiografico a suo supporto. Paradigma incentrato sul pensiero moderno e contemporaneo di cui Galli ha offerto nel corso degli anni una lettura genealogica in chiave teologico-politica. Lettura che ha il merito non trascurabile di non prescindere mai dal rispetto filologico dei testi e della loro autonomia. La storia del pensiero politico moderno, dalla sua origine e alla sua conclusione novecentesca, viene ricostruita da Galli attraverso il prisma fornito dal problema della mediazione nelle sue tre principali tradizioni filosofiche: quella razionalistica (entro cui il liberalismo viene interpretato come un sottoinsieme), quella dialettica e quella del ‘pensiero negativo’.
L’attenzione dell’Autore verte su alcune figure e ne trascura inevitabilmente altre: Machiavelli e Hobbes, Grozio e Kant, Hegel e Marx, Nietzsche e Schmitt, Benjamin e Jünger. Ad Hobbes è dedicato in particolare uno dei capitoli centrali del libro: a partire dall’analisi di alcuni dettagli contenuti nel frontespizio del Leviatano (i due medici anti-peste collocati davanti alla chiesa presente nella città vuota) Galli fa emergere la distanza che separa la lettura bio-politica e quella teologico-politica della sovranità moderna.
Lungo il suo percorso Galli ha prestato una speciale attenzione alla tradizione del ‘pensiero negativo’ (categoria mutuata dai lavori compiuti da Massimo Cacciari negli anni Settanta e poi sviluppata autonomamente dall’Autore grazie all’eredità francofortese) senza tuttavia leggerla in maniera isolata rispetto alle precedenti. Al riguardo merita di essere segnalato l’importante saggio contenuto nel volume su Nietzsche e Schmitt, che costituisce un raffinato esempio di come l’analisi del dato filologico e il confronto filosofico debbano procedere di pari passo.
Di particolare interesse è inoltre l’attenzione (e la passione) mostrata da Galli nei confronti dell’opera saggistica e letteraria di Ernst Jünger di cui offre una pregnante lettura filosofica che è capace di lasciarsi alle spalle le polemiche ideologiche, per collocarla integralmente tra le espressioni più compiute del nichilismo occidentale. Da questo punto di vista l’attenzione e la lettura che Galli fornisce di Jünger rappresentano un caso più unico che raro nel panorama filosofico ed editoriale italiano (meriterebbero di essere maggiormente valorizzati) anche nell’anno che ha visto ricorrere il centenario della pubblicazione del più celebre romanzo dello scrittore tedesco (Nelle tempeste d’acciaio, 1920).
Non sono da trascurare infine gli affreschi contenuti nella terza parte del volume in cui la critica teologico-politica e il «realismo critico» sono messi alla prova su temi specifici non privi di rilievo attuale: la paura, di cui si mostra la produttività politica nel corso dell’età moderna e contemporanea, irriducibile ad ogni immediatezza di carattere antropologico; la guerra, che costituisce l’esperienza all’origine della pace e del diritto, sempre presente in ogni ordinamento come la possibilità latente del conflitto civile o come minaccia esterna.
Per via della ricchezza dei suoi contenuti il volume non si presta solo all’attenzione di un pubblico specialistico, che potrà apprezzare l’ultimo frutto delle ricerche condotte dall’Autore, ma anche a quella di tutti coloro che cercano una bussola per orientarsi nel labirinto ingannevole degli approcci critici che oggi proliferano sulla scena intellettuale italiana ed europea.
VOLONTA’ DI POTENZA E DEMOCRAZIA AUTORITARIA.... *
"Il Pci, oggi, verrebbe definito sovranista". Intervista al prof. Carlo Galli: "Condanna a Orban è controproducente"
Lo storico di dottrine politiche: "Il diavolo nega che il diavolo esista. Così tra destra e sinistra: la prima nega differenze, la seconda cade nel tranello"
di Nicola Mirenzi («Huffingtonpost.it», 13 settembre 2018)
«Il Pci, oggi, verrebbe definito sovranista, dai più accesi mondialisti». Storico delle dottrine politiche all’Università di Bologna, interprete del pensiero moderno e contemporaneo, il professor Carlo Galli sostiene che, dopo il crollo del muro di Berlino, l’adesione entusiastica alla globalizzazione dei partiti ex comunisti, socialisti e laburisti europei li abbia “impiccati” a un modello che si è “sfasciato”, facendogli perdere il senso dell’orientamento:
«La sovranità è un concetto talmente democratico che è richiamato nel primo articolo della nostra Costituzione. Oggi, invece, chiunque contesti la mondializzazione viene considerato un fascista. Storicamente, però, la sinistra ha, nei fatti, avversato il trasferimento del potere fuori dai confini dello Stato: basti pensare alla critica che i comunisti italiani opposero alla Nato e, per molti anni, al Mercato comune europeo».
Secondo Galli, la notizia della scomparsa della distinzione tra destra e sinistra è fortemente esagerata, e sabato 15 settembre, a Lecce, in occasione dele Giornate del Lavoro organizzate dalla Cgil, terrà una lectio magistralis - che anticipa ad HuffPost - per dimostrarlo: «Il diavolo per prima cosa nega che il diavolo esista. Così accade per la differenza tra destra e sinistra: la destra nega che esistano la destra e la sinistra. E la sinistra cade in questo tranello. Ci sarà sempre una differenza di potere tra chi controlla il capitale e chi dal capitale è controllato. Tra chi produce valore lavorando e chi di quel valore si appropria. Per questo la distinzione tra destra e sinistra non scomparirà mai, all’interno di questo paradigma economico e politico».
La contrapposizione tra popolo ed élite è falsa?
È vera, e si aggiunge alla tradizionale frattura tra destra e sinistra, attraversando entrambi i fronti. Ci sono movimenti cosiddetti populisti che, infatti, sono più di destra; e altri che sono più di sinistra.
Perché la sinistra è più in difficoltà allora?
Perché la sua pigrizia mentale le fa considerare la richiesta di protezione - che c’è nella società - come un istinto razzistico, o xenofobo.
Non ci sono queste pulsioni?
No, ci sono anche queste pulsioni nella società: ma è scellerato dare questo nome alle legittime richieste di sicurezza sociale che vengono da quelle persone le cui vite sono state sempre più esposte all’incertezza dalla crisi che è insita nel paradigma economico dominante.
Perché la sinistra non intercetta più queste domande?
Perché, soprattutto la sinistra italiana, ha smesso di analizzare la realtà: preferisce nascondersi dietro il vecchissimo copione dell’antifascismo moralistico e considerare più della metà dei cittadini italiani barbari che stanno assaltando le fondamenta della civiltà. Ma quello che sta accadendo - l’abbiamo visto alle elezioni del 4 marzo - non è una sventura inviataci dal cielo: è il prodotto di fenomeni che si sono verificati dentro la nostra società.
La destra è più capace di comprendere la realtà?
No, ma non ne ha bisogno, perché le basta essere spregiudicata. La destra politica riconosce e dà un nome alle inquietudini del nostro tempo, ma in realtà fornisce dei capri espiatori. Oggi sono gli immigrati, i complotti della finanza internazionale, il politicamente corretto. E se a volte la destra politica si spinge ad accusare il capitalismo finanziario, non giunge mai a una critica del capitalismo in quanto tale.
Perché il capitalismo dovrebbe essere considerato un nemico?
Il capitalismo, lasciato a se stesso, tende a distruggere la società. Compito della politica è costringerlo ad adattarsi alle esigenze della democrazia, regolandolo, mettendo dei limiti, tutelando gli interessi dei cittadini, lasciando che il conflitto sociale si manifesti.
A volte, però, gli Stati hanno meno forza delle multinazionali.
Ma spesso nemmeno provano a scontrarsi con questi colossi. Cedono preventivamente. Anche se non è detto che siano sempre destinati a perdere il duello.
Un’Europa più sovrana avrebbe più potere negoziale?
In teoria, sì.
E in pratica?
In pratica, nessuno Stato europeo ha veramente in agenda la costruzione di una sovranità europea. Anche perché la costruzione della sovranità è uno dei processi più distruttivi della storia umana. Le sovranità degli Stati si sono formate nel sangue della guerra civile o nel furore delle rivoluzioni. Mai una sovranità è nata perché qualcuno intorno a un tavolo ha trasferito pacificamente a un soggetto terzo il diritto di tassare, di formare un esercito, di detenere il monopolio della violenza, di individuare gli interessi strategici di una comunità.
Senza sangue l’Europa politica non nascerà mai?
È molto difficile che la formazione di una sovranità europea possa accadere senza conflitto; anzi, se si guarda alle carneficine che sono avvenute nella storia, è difficile augurarsi che ciò accada.
Eppure, il parlamento europeo ha condannato uno dei suoi membri, l’Ungheria di Viktor Orbán.
Orbán è un leader detestabile, degno erede della lunga tradizione autoritaria ungherese. Tuttavia, la condanna europea è controproducente, e perciò sbagliata. Ogni volta che un’entità sovranazionale ha giudicato e punito uno Stato - pensi alle sanzioni inferte dalla Società delle nazioni al regime fascista - non ha ottenuto altro risultato che compattare la nazione intorno al proprio capo. Anche nel caso del giudizio espresso dall’Onu sull’Italia («è un Paese razzista»), si deve evitare di cadere nel ridicolo.
Qualcuno l’ha mai accusata di essere un populista?
No, anzi sono stato spesso tacciato di élitismo. Ma le élites devono capire e guidare la società, non condannarla.
Nella scorsa legislatura è stato eletto con il Pd.
Ne sono uscito dopo due anni e mezzo per entrare prima nel gruppo di Sinistra italiana, poi di Articolo 1, dal momento che nel partito democratico è rimasto assai poco della tradizione di sinistra.
Lei, invece, che cosa conserva?
Il metodo di analisi della realtà che viene da Gramsci, benché in modo non dogmatico e arricchendolo di altri apporti.
In che cosa consiste?
Nel comprendere i fenomeni politici e sociali e le loro contraddizioni senza dare giudizi morali, poiché la politica non si fa con i padre nostri.
Sogni e realtà
di Carlo Galli (Ragioni politiche, 05.09.2018)
Se il Pd è un partito di sinistra, e se la sua rinascita è indispensabile alla rinascita di questa, allora c’è poco da stare allegri: il suo orizzonte è infatti diviso fra chi non ammette alcun errore e incolpa i cittadini di avere sbagliato a votare, chi vuole cambiare nome come se non si dovesse anche cambiare politica, e chi, come Veltroni non trova nulla di meglio che identificare la sinistra con il «sogno» e la «speranza».
Nel momento di più cupo smarrimento e di più evidente mancanza di strategia, si propone quindi come soluzione della crisi lo stile politico che l’ha generata: uno stile sovrastrutturale, centrato sulla comunicazione e sull’illusione mediatica - al più, corretto dall’ammissione che il Pd non ha saputo stare «vicino a chi soffre», detto con un linguaggio che ricorda più la beneficenza che la politica -; uno stile lontano da ciò che è veramente la sinistra: teoria e prassi, analisi e lotte, materialismo e realismo, disegno di una società futura che parte dall’assunto che la struttura economica, e la cultura che la esprime, è conflittuale e non neutrale, e che quindi la liberal-democrazia non è una universale panacea formalistica che realizza l’accordo di tutti i cittadini ma il risultato, in equilibrio dinamico e precario, di tensioni e di contraddizioni che non si possono togliere né superare in «narrazioni» e in «visioni».
Come lascia assai poco a sperare la decisione - che accomuna il Pd a molta opinione “progressista” - di cercare la via d’uscita dalla impasse politica nella sempre più acuta polemica “antifascista” contro il governo; una mossa che esprime una lettura “azionista” cioè moralistica - o, se si vuole, “liberal” - della politica, a cui la sinistra dovrebbe preferire la analisi storica ed economica sullo stile di Gramsci. Non lo sdegno ma la comprensione dei processi è il solo inizio possibile se la sinistra vuole avere qualche chance di non scomparire.
In realtà, quindi, il sogno e l’antifascismo, che sembrano l’uno opposto all’altro, sono le due facce di una medesima mancanza di analisi radicale, di un pensiero pigro, stereotipato, privo di spessore storico, che impedisce al Pd di comprendere se stesso, il proprio ruolo, i propri errori (non quelli occasionali ma quelli strategici), un pensiero che procede per slogan e che non afferra la realtà; e che si espone al rischio o della inefficacia o di innescare una reale dinamica amico/nemico - a ciò infatti si giunge se si prende l’antifascismo sul serio -. Infine, questa politica infondata, inerte e al contempo pericolosa, è tatticamente un errore: non pare infatti utile a (ri)trovare voti e consenso l’attitudine a definire «fascisti», «barbari» e «nemici» i cittadini che hanno votato per i partiti di governo. Criminalizzare la maggioranza degli italiani non è una buona politica: è vittimismo arrogante e subalterno, che unisce la pretesa di superiorità morale alla implicita denuncia della impotenza della sinistra.
Soprattutto, una sinistra liberal che mette insieme il capitalismo più spregiudicato e le sue vittime, i licenziati e i licenziatori, che si prefigge uno schieramento «da Macron a Tsipras», non vede le proprie interne contraddizioni e le rigetta sul “nemico” fascista: il cleavage fascismo/antifascismo serve a occultare la vera natura del Pd, ovvero che questo è il partito dell’establishment, e che quindi è stato travolto dalla crisi di questo, e non solo è incapace di mettere in campo un’alternativa di pensiero e di azione, ma anche di rendersi conto della propria situazione storica reale.
Che è di essere un partito che difende il neoliberismo e l’ordoliberalismo quando questi sono in crisi - o meglio, quando producono crisi sempre più acute -; che resta attaccato alla Ue quando questa è ormai solo il cozzo delle sovranità e il teatro dell’egemonia tedesca attraverso l’euro; che scommette sulla liberaldemocrazia dopo avere contribuito a svuotarne il senso materiale - lo Stato sociale, l’allargamento del ceto medio, la ragionevole gestione delle disuguaglianze sociali, la sicurezza (a tutto tondo, cioè come garanzia della pienezza delle aspettative di vita) per la grande maggioranza dei cittadini -; che non sa vedere il cambiamento politico e culturale che stiamo vivendo. L’Occidente privo della presenza dell’America; l’Europa priva di progetti che non siano gli utili degli Stati (delle élites economiche e politiche che vi si sono insediate) e i sacrifici per i popoli; la globalizzazione “povera”, ovvero la sovranazionalità dell’economia e al contempo l’assenza, il fallimento, della società aperta; il liberalismo nutrito di privatizzazioni oligarchiche, divenuto liberismo senza persone e senza popolo, che per di più si meraviglia se il popolo lo abbandona in cerca di protezione - probabilmente illusoria - presso i “populisti”.
No. Proprio non si possono definire “barbari” quelli che non credono più alla civiltà “atlantica” del dopoguerra; questa non è crollata per l’irruzione dei popoli delle steppe, ma sta morendo di propria mano, per le proprie contraddizioni. Le cure tecnocratiche e rigoriste, dopo l’euforia della new economy, hanno ferito le società, rescisso il legame sociale, le appartenenze collettive (non diciamo la coscienza di classe), e consegnato i singoli alla rabbia e al rancore, alla paura e al confinamento entro i recinti egoistici della famiglia.
Chi non voglia inseguire ipotesi qualunquistiche e autoritarie - che sono più il sintomo che non la cura di questi mali - dovrà almeno riconoscere la verità; dovrà sapere da dove iniziare un nuovo corso culturale e politico; e non potrà fare opposizione con sermoni e prediche, con manifestazioni di piazza; chi come alternativa alla destra sa offrire solo l’elogio del vecchio mondo, o l’anatema delle nuove realtà che emergono, per quanto spiacevoli, pensando di esorcizzarle con qualche sdegnata narrazione, ignora che il grande passaggio storico in cui ci troviamo prenderà forma - dopo una fase di disorientamento, di comprensibile affannosa ricerca di protezione, dopo una lunga e ibrida transizione - grazie al combinarsi (come sempre è avvenuto) di idee e di interessi concreti: e che compito della sinistra è individuare gli interessi progressivi - cioè rivolti all’emancipazione dal bisogno dalla sofferenza dall’insicurezza -, e dare loro forza e idee. Soprattutto, l’idea che l’economia crea problemi che non sa risolvere, la cui soluzione sta nella politica “sovrana”. Ovvero nella politica capace di esprimere un comando legittimo davanti a cui anche la potenza dell’economia debba fermarsi. Gli Stati - e anche l’Europa sovrana, se mai ci sarà - non si governano con i padrenostri.
Finché la sinistra saprà opporre a Salvini soltanto i sogni e le speranze, il ribaltamento dei rapporti di forza resterà appunto un sogno - un informe, inconsapevole «sogno di una cosa» -. E Salvini la potrà lasciare sognare, e anzi augurarle «sogni d’oro». Si preoccuperà, invece, se e quando un leader di sinistra nuovo e credibile - portatore non di sogni ma di idee, nutrita di analisi cruda della realtà e non di edificanti narrazioni - saprà sfidarlo per dare all’Italia protezione dallo sfruttamento e non solo dai migranti.
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIÙ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIÙ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!! Un’inchiesta e una mappa
Federico La Sala
SENZA PIU’ PAROLA E SENZA PIU’ CARTA D’IDENTITA’. Alla ricerca della dignità perduta...
Le idee. Per una biopolitica illuminista
L’ultima lezione di Stefano Rodotà
di Roberto Esposito (la Repubblica, 31.03.2018)
«Per vivere occorre un’identità, ossia una dignità. Senza dignità l’identità è povera, diventa ambigua, può essere manipolata». Il nuovo libro, postumo, di Stefano Rodotà, Vivere la democrazia, appena pubblicato da Laterza, può essere letto come un ampio e appassionato commento a questa frase di Primo Levi. Tutti e tre i termini evocati da Levi - identità, dignità e vita - s’incrociano in una riflessione aperta ma anche problematica, che ha fatto di Rodotà uno dei maggiori analisti del nostro tempo.
Composto da saggi non tutti rivisti dall’autore, scomparso lo scorso giugno nel pieno del suo lavoro, il libro ci restituisce il nucleo profondo di una ricerca che definire giuridica è allo stesso tempo esatto e riduttivo. Esatto perché il diritto costituisce l’orizzonte all’interno del quale Rodotà ha collocato il proprio lavoro. Riduttivo perché ha sempre riempito la propria elaborazione giuridica di contenuti storici, filosofici, antropologici che ne eccedono il linguaggio. Rodotà ha posto il diritto, da altri irrigidito in formulazioni astratte, a contatto diretto con la vita. E non con la vita in generale, ma con ciò che è diventato oggi la vita umana nel tempo di una tecnica dispiegata al punto da penetrare al suo interno, modificandone profilo e contorni.
Ma cominciamo dalle tre parole prima evocate, a partire dall’identità. Come è noto a chi si occupa di filosofia, l’interrogazione sul significato della nostra identità attraversa l’intera storia del pensiero, trovando un punto di coagulo decisivo nell’opera di John Locke.
Cosa fa sì che il vecchio riconosca sé stesso nel ragazzo, e poi nell’adulto, che è stato nonostante i tanti cambiamenti che ne hanno segnato l’aspetto e il carattere? La risposta di Locke è che a consentire alla coscienza di sperimentarsi identica a se stessa in diversi momenti dell’esistenza è la memoria. Ma tale risposta bastava in una stagione in cui natura, storia e tecnica costituivano sfere distinte e reciprocamente autonome. Una condizione oggi venuta meno. Nel momento in cui politica e tecnica hanno assunto il corpo umano a oggetto del proprio operato tutto è cambiato. Sfidata dalle biotecnologie e immersa nel cyberspazio, l’identità umana si è andata dislocando su piani molteplici, scomponendosi e ricomponendosi in maniera inedita.
È precisamente a questa mutazione antropologica che Rodotà rivolge uno sguardo acuminato. A chi appartiene il nostro futuro? - egli si chiede con Jaron Lanier (La dignità ai tempi di internet, Il Saggiatore) - quando l’identità non è più forgiata da noi stessi, ma modificata, e anche manipolata, da altri? Si pensi a come è cambiato il ruolo del corpo in rapporto alla nostra identificazione. Dopo essere stato centrale, al punto che sulla carta d’identità comparivano, insieme alla foto, colore di occhi e capelli, il corpo è stato in qualche modo soppiantato dalle tecnologie informatiche - password, codici, algoritmi. Per poi tornare, una volta tecnologizzato, come oggetto di attenzione da parte delle agenzie di controllo.
Impronte digitali, geometrie della mano, iride, retina, per non parlare del dna.
Tutto ciò quando la chirurgia plastica è in grado di cambiare i nostri connotati.
E qui entra in gioco il secondo termine del libro, la dignità, assunta non in maniera generica, ma come un vero principio giuridico. Che ha già trovato spazio nella nostra Costituzione e poi nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Ma ciò non basta, se si vuol passare dal tempo dell’homo aequalis a quello dell’homo dignus. Il richiamo alla dignità, che è stato un lascito importante del costituzionalismo del Dopoguerra diventa, per Rodotà, un elemento costitutivo dell’identità personale.
Naturalmente a patto che il concetto stesso di “persona” spezzi il guscio giuridico di matrice romana, per incarnarsi nel corpo vivente di ogni essere umano, senza distinzione di etnia, religione, provenienza.
Anche la questione, largamente discussa, dei beni comuni va inquadrata in questo orizzonte storico, misurata alle drastiche trasformazioni che stiamo vivendo. Solo in questo modo anche il terzo termine in gioco - la vita - può diventare oggetto di una biopolitica affermativa. Rodotà ne offre un esempio illuminante.
Nel 2013 la Corte suprema dell’India ha stabilito che il diritto di una casa farmaceutica di fissare liberamente il prezzo di un farmaco di largo consumo è subordinato al diritto fondamentale alla salute di chi ne ha bisogno. Che prevale sull’interesse proprietario.
Come è noto, a partire dall’entrata in vigore del Codice civile napoleonico, il principio della proprietà è stato sostituito a quello, rivoluzionario, di fraternità, anteponendo la figura del proprietario a quella del cittadino. Che non sia arrivato il momento di riattivare la fraternità ricucendo il filo, spezzato dell’uguaglianza?
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIU’ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIU’ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!!
Federico La Sala
Uno spettro si aggira per l’Europa: Carl Schmitt
di Roberto Esposito (la Repubblica, 01.02.2018)
La traduzione del saggio di Carl Schmitt su Legalità e legittimità, curata e introdotta magistralmente da Carlo Galli per il Mulino, presenta più di un motivo di interesse. Pubblicato nel 1932, subito dopo le ultime elezioni tedesche, prelude al collasso della Repubblica di Weimar e alla vittoria nazista. Se non si può dire che prepari la svolta totalitaria - pure accettata di buon grado dall’autore l’anno successivo - coglie tutti gli elementi della crisi che avrebbe portato al crollo della democrazia in Germania. Il tramonto dello Stato legislativo apre un varco nell’ordinamento che spezza l’equilibrio costituzionale tra legalità e legittimità, norma e decisione, diritto e politica.
Schmitt, almeno in linea di principio, non contrappone i due termini. Anzi tenta di articolarli, collocando il potere costituente nella volontà del popolo tedesco. In questo modo resta all’interno del quadro democratico, ma lo spinge all’estremo limite arrivando a richiedere un Custode della Costituzione capace di incarnare la volontà popolare. Ciò che in sostanza Schmitt propone è una democrazia plebiscitaria che modifichi in senso autoritario il regime di Weimar. Il secondo motivo di interesse è l’attitudine camaleontica dell’autore a “ripulire” a ritroso la propria storia, ampiamente compromessa col nazismo.
Nella postfazione, scritta nel 1958, Schmitt individua in Legalità e legittimità il «tentativo disperato di salvare» la Costituzione di Weimar dall’attacco concentrico delle forze antisistema di destra e sinistra. Ora è vero che Schmitt non fuoriesce formalmente dalla cornice costituzionale. Ma schierandosi per un rafforzamento senza bilanciamento dei poteri del presidente, apre la strada allo strappo del 1933, quando si passa dalla possibile dittatura commissaria di Hindemburg alla reale dittatura sovrana di Hitler: la legge sul conferimento dei pieni poteri e l’abrogazione dei partiti sono l’esito controfattuale del tragico tentativo di stabilizzare la Repubblica, lacerandone il tessuto istituzionale.
Eppure l’interesse del saggio di Schmitt non è circoscrivibile a una vicenda storica fortunatamente chiusa. Nonostante la distanza che ci separa, sono troppi gli echi che risuonano in queste pagine.
A cos’altro richiamano la crisi di legalità e il deficit di legittimità, l’impotenza del Parlamento e il conflitto dei partiti, le forzature della costituzione e il rischio di ingovernabilità, se non alle ferite delle nostre democrazie?
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VOLONTA’ DI POTENZA E DEMOCRAZIA AUTORITARIA. CARLO GALLI NON HA ANCORA CAPITO CHE, NEL 1994, CON IL PARTITO "FORZA ITALIA", E’ NATO ANCHE IL "NUOVO" PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA.
LA BRUTTEZZA DI UNA DIPINTURA: "FABULA LEMURUM". In memoria di Giambattista Vico
STORIA DELLA QUESTIONE INFAME: COME L’ITALIA, UN PAESE E UN POPOLO LIBERO, ROVINO’ CON IL "GIOCO" DEI "DUE" PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA.
Io mostro, invece, come in Francia la lotta di classe creò delle circostanze e una situazione che resero possibile a un personaggio mediocre e grottesco di far la parte dell’eroe *:
"Degli scritti che,
quasi
contemporaneamente
al mio, si occuparono
dello stessa argomento
[5], solo due sono, degni
di
nota:
Napoléon le Petit
di
Victor Hugo
e il
Coup d’Etat
di Proudhon
[6].
Victor Hugò si limita a un’invettiva
amara e piena di sarcasmo,
contro l’autore
responsabile del
colpo di stato.
L’avvenimento
in sé gli appare come un fulmine a ciel sereno.
Egli non vede
in esso altro che
l’atto di violenza di un
individuo. Non si accorge che ingrandisce questo individuo invece di rimpicciolirlo, in quanto gli
attribuisce
una
potenza di iniziativa personale
che non avrebbe
esempi nella storia del
mondo.
Proudhon, dal canto
suo, cerca
di rappresentare il colpo di stato come il risultato di una
precedente
evoluzione storica;
ma la ricostruzione storica dei colpo
di stato si trasforma
in lui in una
apologia
storica dell’eroe del colpo di stato. Egli
cade nell’errore dei nostri cosiddetti storici
oggettivi.
Io mostro, invece,
come in Francia la
lotta d
i classe
creò delle
circostanze
e una situazione che
resero possibile a un personaggio mediocre
e grottesco
di far la parte
dell’eroe".
* K. Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte Prefazione dell’autore alla seconda edizione, [1869].
Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte
by Karl Marx, Giorgio Giorgetti (Editor), Palmiro Togliatti (Translator)
Vittorio Ducoli’s Reviews (Goodreads, 16 marzo 2013)
Attualità di Marx
L’altro giorno, 14 marzo, ricorreva il 130° anniversario della morte di Karl Marx.
Per puro caso, nello stesso giorno ho finito di leggere Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, che ritengo uno dei testi fondamentali per addentrarsi nelle idee di questo grandissimo pensatore e per apprezzarne appieno l’attualità, a dispetto della vulgata interessata che vorrebbe il pensiero marxiano solo un retaggio del passato.
Un primo elemento a favore di questo testo è il tema. Non si tratta di un trattato filosofico o di critica all’economia politica, la cui lettura spesso richiede un sostrato culturale molto solido, ma dell’analisi di Marx degli avvenimenti che tra il febbraio 1848 e il dicembre 1851 videro la Francia passare dalla fase rivoluzionaria che aveva portato alla caduta della monarchia di Luigi Filippo d’Orleans al trionfo della più bieca reazione con il colpo di stato attuato da Luigi Napoleone Bonaparte, il futuro Napoleone III. Si tratta quindi di un’analisi storica di fatti che hanno avuto conseguenze importantissime sull’intera storia europea, e non solo, dei decenni successivi.
Ho messo in corsivo l’aggettivo storica perché Marx scrive i testi che formano il libro pochissimo dopo, nel 1852: eppure la sua analisi è così compiuta, così lucida, così minuziosa e supportata da dati ed elementi oggettivi da assumere il carattere pieno dell’indagine storica.
Un altro elemento che caratterizza il 18 brumaio è la brillantezza della scrittura. A differenza di quanto si possa pensare, Marx non è affatto un autore pesante, ma una delle più brillanti penne del XIX secolo. Basta pensare a quante sue frasi, aforismi, paradossi facciano parte del nostro bagaglio culturale per rendersi conto di ciò; purtroppo, molti dei suoi testi riguardano argomenti ostici, trattati ed approfonditi con rigore, e questo ovviamente genera complessità: pregio di questo volume è di offrirci un Marx sicuramente non leggero ma scorrevole, per molti tratti appassionante, laddove gli avvenimenti si susseguono incalzanti e Marx ce ne disvela le ragioni vere e ultime.
Sì, perché il senso di questo libro è far capire, anche a noi oggi, la distanza che esiste tra le cause ideologiche dei conflitti e le loro cause vere che, ci dice Marx, vanno sempre ricercate nei conflitti tra le classi e i loro diversi interessi.
Marx, pagina dopo pagina, ci narra gli scontri di piazza e le lotte tra le diverse fazioni parlamentari che caratterizzarono il biennio, individuando oggettivamente le motivazioni vere che ne erano alla base. Così, l’acerrima lotta avvenuta nell’Assemblea legislativa tra Partito dell’Ordine (monarchici) e Montagna (repubblicani), lungi dall’essere una lotta sulla forma dello stato è una lotta tra gli interessi della grande borghesia e quelli dei borghesi medi e piccoli. Leggendo questo testo è quindi agevole comprendere in pratica la tesi marxiana per cui la storia è il risultato della lotta tra le varie classi sociali.
Forse però l’aspetto del libro che affascina di più è l’analisi delle motivazioni che portarono al colpo di stato di Luigi Napoleone. Marx parte dalla constatazione che la Repubblica è la forma di stato con cui la borghesia esercita direttamente il potere (come insegna la prima rivoluzione francese); eppure, favorendo oggettivamente ed anche attivamente il colpo di mano del Napoleone piccolo consegna questo potere ad altri, ai militari e ad una consorteria di avventurieri che aveva la sua base sociale nel lumpenproletariat rurale. Perché questa abdicazione?
La risposta di Marx è lucidissima, e si sarebbe purtroppo dimostrata vera molte altre volte nella storia. La borghesia si era accorta che la Repubblica borghese era il terreno di lotta ideale per il proletariato, che poteva progredire ed organizzarsi grazie alle libertà civili e politiche: aveva quindi preferito consegnare il potere a chi, pur non organico alla sua classe, potesse garantire ordine e tranquillità agli affari, piuttosto che rischiare una emancipazione proletaria. Quante volte, nel secolo successivo, questa logica avrebbe prevalso in varie parti dell’Europa e del mondo!
Quante volte la borghesia avrebbe consegnato interi popoli nelle mani di mascalzoni e di buffoni pur di salvaguardare la roba.
Fortunatamente Marx morì 130 anni fa, perché credo che altrimenti avrebbe dovuto nel tempo istituire una sezione d’analisi specificamente dedicata al nostro paese, dove la borghesia ha sempre assunto questo atteggiamento, sia pure in modi diversi, da Mussolini a Berlusconi.
Resta da spiegare il titolo, che è una delle grandi invenzioni di Marx: il 18 brumaio (9 novembre) 1799 Napoleone I abbatté il direttorio ed instaurò la sua dittatura, come farà il 2 dicembre 1851 il nipote Luigi Napoleone. Ma, ci avverte Marx nella prima pagina di questo libro, con una delle sue frasi fulminanti ”Hegel nota in un passo delle sue opere che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano, per così dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere: la prima come tragedia, la seconda come farsa”. Oggi noi sappiamo che i grandi fatti possono presentarsi più e più volte; sappiamo inoltre che anche quando si presentano come farsa spesso sono causa di grandi tragedie. Fortunatamente in Italia l’abbiamo imparato, e (almeno per ora) riusciamo a mantenerci sul terreno del burlesque.
In tragedia e in farsa, la storia che raddoppia e non conclude
Una nuova edizione de «Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte», per Editori Riuniti. Un’analisi del bonapartismo la cui lettura è utile anche per indagare i fenomeni politici contemporanei. In una nuova edizione l’opera del 1852
di Francesco Marchianò (il manifesto, 30.01.2016)
Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte (Editori Riuniti, pp. 248, euro 18,00) è, certamente, uno dei testi più originali di Marx nel quale l’analisi materialistica della storia è connessa a quella politica. In quest’opera, dedicata agli avvenimenti che dal 1848 al 1851 modificarono il sistema politico francese e lo fecero transitare da una repubblica all’impero, dopo il colpo di stato di Luigi Bonaparte, Marx si distinse per essere un attento studioso delle dinamiche giuridiche, politiche, economiche e sociali, compiendo una precisa analisi sistemica.
Scritto dal dicembre 1851 al marzo 1852, inizialmente per il settimanale Die Revolution, edito a New York dall’amico editore Weydemeyer, l’opera subì diverse vicissitudini e solo nel 1869 comparve ad Amburgo una seconda edizione europea, dopo che in passato in tentativi di darne diffusione nel continente erano falliti.
In Italia è da poco comparsa per Editori Riuniti una nuova edizione affidata alla cura di Michele Prospero che, in una densa e raffinata introduzione, non solo offre le necessarie chiavi di lettura per comprendere meglio l’opera, ma ne attualizza in maniera impeccabile la portata. Ne escono, così, fuori due testi in uno che è molto fruttuoso leggere insieme.
Il testo di Marx brilla da diversi punti di vista, non ultimo per lo stile letterario e la coniazione di alcune frasi rimaste poi celebri, come quella della storia che si ripete due volte, prima come tragedia, poi come farsa, con la quale si apre il volume. Oppure per il «cretinismo parlamentare», malattia diagnostica ai difensori della repubblica che abusando dei trucchi e delle imboscate in aula non facevano altro che screditare il parlamento che volevano difendere.
L’aspetto essenziale che caratterizza l’opera, tuttavia, è l’analisi contestuale che indaga tutti i fattori che intervengono in un cambio di regime o, diremmo oggi con un lessico più moderno, in una transizione. È cioè la spiegazione di come la repubblica, non riuscendo a trovare gli ancoraggi necessari al suo consolidamento nella società francese, produsse come esito il successo di una leadership personale che portò a un’altra forma di dominio politico.
Nella lettura compiuta da Marx si colgono perfettamente le cause di questo passaggio che non sono da attribuire al magismo del capo, al suo carisma, ma al concatenarsi di elementi esterni. Come spiega Prospero, «esistono condizioni politiche e sociali di fondo il cui degrado spiega anche l’emergere di tendenze carismatiche pronte a sfruttare le fragilità del sistema sottoposto allo stress della partecipazione politica di milioni di elettori».
Marx mette in luce tutti gli elementi essenziali che intervengono in questa dinamica. A cominciare da quelli giuridico-politici, dati dalle contraddizioni della costituzione, dal carattere limitativo della legge ordinaria rispetto ai diritti enunciati in essa, dal conflitto potenziale tra l’assemblea e il presidente della repubblica. In questa situazione di perenne incertezza veniva meno un elemento essenziale dato dalla legittimità che richiedeva il sistema, specialmente dopo l’allargamento del suffragio. -Occorreva cioè trovare nel sociale la base di sostegno del politico.
È ciò che è mancato alla repubblica che finì per non includere affatto le masse. Anzi, proprio questa «asimmetria tra forte apparato statale e debolezza della società civile», secondo Prospero, è l’espressione peculiare del bonapartismo. Luigi Bonaparte, invece, lungi dal non avere un radicamento sociale, si manifesta, secondo le parole di Marx, come il rappresentante di «una classe, anzi della classe più numerosa della società francese, i contadini piccoli proprietari», una «classe a metà» i cui appartenenti sono tra loro isolati, ma condividono situazioni di forte miseria che li mettono contro le altre classi sociali. Non avendo la capacità di far valere i propri interessi, essi hanno bisogno di farsi rappresentare da qualcuno che appare loro come un «padrone», «come un potere governativo illimitato, che li difende dalle altre classi»; ne consegue che «l’influenza politica del contadino piccolo proprietario trova quindi la sua ultima espressione nel fatto che il potere esecutivo subordina la società a se stesso».
L’analisi contenuta nel 18 brumaio rimane perennemente attuale per indagare i fenomeni politici contemporanei poiché fornisce tutte le categorie necessarie per comprendere cosa succede nei momenti di debolezza del sistema politico. Essa può essere utile anche per interpretare le dinamiche che coinvolgono il nostro Paese dove il continuo tentativo di riforma della costituzione, l’incertezza del sistema, la scarsa legittimazione sua e dei suoi attori, il consolidarsi di interessi e forze private, può sempre consentire, volendo usare le parole di Marx, «a un personaggio mediocre e grottesco di fare la parte dell’eroe».
L’avventurismo del senso comune
Il nuovo libro di Michele Prospero. Il «populismo mite» del potere è la cifra ideologica del capo. Che non è solo un produttore di annunci, ma un fattore di stabilità
di Carlo Galli (il manifesto, 20.10.2015)
Più di vent’anni di politica italiana sono ricondotti, nell’ultimo libro di Michele Prospero (Il nuovismo realizzato. L’antipolitica dalla Bolognina alla Leopolda, Roma, Bordeaux, 2015, pp. 418, euro 26) al filo conduttore dell’antipartitismo, e in generale dell’antipolitica che nei partiti ha avuto la propria testa di turco.
Un’antipolitica solo parzialmente spontanea - generata da una rivolta etica contro il sistema politico degenerato - e in gran parte indotta dall’alto, da agenzie di senso e da poteri mediatici (a loro volta riconducibili a forze economiche) interessati al risultato dell’antipolitica: non solo distruggere i partiti esistenti (un disegno di lungo periodo della storia d’Italia, prevalentemente connotato a destra, da Minghetti a Maranini a Miglio), realizzando una discontinuità radicale (un’idea a cui non si sottrassero però né il Pd di Occhetto né i Girotondi, e che fu il cavallo di battaglia del primo Berlusconi), ma screditare la forma partito in quanto tale (s’intende, il partito pesante, organizzato, che è spazio di confronto e di partecipazione dialettica, ovvero di mediazione). E aprire così la strada al Nuovo, che è un miscuglio di ideologia (la società liquida, l’individualismo postpolitico, l’immediatezza) e di solida realtà, tanto istituzionale (il partito leggero, la democrazia d’investitura, lo spostamento del potere verso l’esecutivo, il leaderismo pseudo-carismatico) quanto economica (la fine della politicità del lavoro, la sua precarizzazione e la sua subalternità) quanto infine sociale (l’aumento delle disuguaglianze, il declino - programmato - del ceto medio).
Prospero, per questa via, incontra (convocando un grande materiale analitico in chiave prevalentemente politologica) una contraddizione strutturale dell’intero processo storico-politico preso in esame, ossia le due crisi di sistema del 1993-94 e del 2013-14, tutta la seconda repubblica e l’inizio della terza: da una parte vi è in questa storia un dato di occasionalità, di contingenza, e quindi vi è preponderante l’agire di una persona (ovviamente, Renzi) e anche il suo dire, il suo narrare, il suo raffigurare per il popolo un altro mondo, ricco di speranza e di ottimismo e quindi ben diverso da quello di cui la maggior parte dei cittadini fa esperienza.
Questo livello è spiegato con frequenti riferimenti a Machiavelli, non tanto perché l’autore sostenga che Renzi incarna il “Principe nuovo” - anzi, spesso attraverso Machiavelli si mettono in rilievo debolezze e fallacie del suo agire, la sua propensione alla fuga nell’irrealtà, al «romanticismo politico», a un decisionismo fatto di annunci - quanto piuttosto per il peso inusuale («rinascimentale») che la figura del singolo ha nella vicenda politica contemporanea.
D’altra parte, nondimeno, questa figura di Principe immaginario e dopo tutto incapace di dare una forma alla repubblica, impegnato com’è a gestire continue emergenze in continue affabulazioni, è contraddetta dalla robustissima realtà delle profonde trasformazioni che il suo agire produce:
veramente il partito è sul punto di estinguersi e di divenire un corteo di obbedienti seguaci, in perenne lotta tra loro (soprattutto attraverso lo strumento delle primarie, che doveva essere di apertura alla società civile e che invece è una leva per i conflitti interni), mentre nei territori le cordate di potere prendono il posto della partecipazione;
veramente le istituzioni (e il parlamento in primo luogo) sono indebolite dalla personalizzazione della politica, e trovano energia politica solo in quelle che erano state pensate come posizioni di garanzia (Quirinale e Consulta);
veramente la politica è ormai competizione fra leader populisti extraparlamentari per la conquista di un elettorato sempre più passivo (anche se in parte estremizzato);
veramente questi processi si sono sviluppati coinvolgendo tanto la destra quanto la sinistra fino all’attuale formarsi, non casuale, di un partito di Centro la cui forza di gravità spappola ogni altra formazione politica;
veramente sono stati varati il jobs Act e la legge elettorale per la camera ed è in corso di approvazione la riforma della Costituzione;
veramente il sindacato è stretto nell’angolo e gli viene sottratta la contrattazione nazionale; veramente la sinistra fatica (ed è un eufemismo) a trovare una base sociale, una chiave di lettura del presente, una missione politica;
veramente l’astensione e il populismo assorbono e neutralizzano le energie che potrebbero essere di protesta;
veramente l’analisi strutturale della realtà passa in secondo piano rispetto alla traduzione emotiva dei problemi e alla questione della legalità.
L’occasionalismo produce un ordine, quindi; l’avventura personale costruisce forma politica, la chiacchiera è largamente performativa; l’immediatezza è anche mediazione. Un ordine, certo, non inclusivo ma escludente - che espelle da sé le contraddizioni, perché non le teme (e in ciò il Pd è ben diverso dalla Democrazia Cristiana, pur riprendendone il ruolo centrale di pivot e di diga) - e che cerca una base di consenso nel livello più semplice del senso comune (molto bene interpretato), eludendo o smorzando ogni tema controverso ed escludendo il pensiero critico (i «gufi», i «professoroni»); una forma contraddittoria, segnata dalla conflittualità fra quel che resta del vecchio partito e il nuovo leader, fra antichi professionismi e il nuovo «populismo mite» che è la cifra ideologica del Capo (tutt’altro che dilettante, in verità).
Eppure, con queste contraddizioni, Renzi è non solo un problema, ma anche una soluzione; non solo un coacervo di azzardi e di provvisorietà ma anche un fattore di stabilità; non solo un produttore d’annunci e d’irrealtà ma anche un fabbricante di realtà e di processi.
È una realtà condizionata dal populismo (Berlusconi è il populismo nichilistico-aziendalistico, Grillo è il populismo aggressivo dal basso, Renzi è il populismo mite del potere), funzionale, in quanto implica una società disgregata che non deve essere letta politicamente, alla presenza onnipervasiva di logiche e valori liberisti, rispetto ai quali la sinistra (il Pd) è, non certo da oggi, del tutto interna. Ma è realtà, o almeno fascio di potere efficace. È vano pensare che il tempo breve, l’attimo, dell’occasione e della decisione non abbiano la forza di reggere l’assetto della politica; anzi, ne sono capaci, si dilatano in un’eccezione permanente che è il tempo lungo in cui si presentano oggi il potere e la libertà che esso concede.
La risposta a ciò della sinistra, secondo Prospero, è il partito organizzato, capace di esprimere ripoliticizzazione della società, partecipazione popolare e leadership autorevole (non populista). Più facile a dirsi che a farsi, naturalmente. Certo è che la sinistra avrà un futuro solo se saprà pensarsi a questa altezza, e se a partire dalle contraddizioni del presente, ben identificate, saprà proporre un modello di società che combini in sé, con la stessa forza, un’analoga e opposta capacità di tenere insieme l’immaginario e il reale.
Scuola
Rodotà: «Dalla scuola all’Italicum la pedagogia del Capo mina la democrazia»
Riforma Scuola. Intervista. Stefano Rodotà a tutto campo su Matteo Renzi: «Con il preside manager trasferisce la sua visione del potere all’intera società». «La scuola dovrebbe impedire diseguaglianze, il Ddl spinge invece verso la segmentazione sociale». «Chi si oppone al renzismo dovrebbe creare forme di auto-organizzazione e di agire politico per riequilibrare la forte concentrazione di potere istituzionale»
di Roberto Ciccarelli (il manifesto, 21.05.2015)
«Fino ad oggi ci siamo concentrati sul modello di organizzazione istituzionale emerso dal combinarsi dell’Italicum e della riforma del Senato - afferma Stefano Rodotà - La riforma della scuola approvata ieri alla Camera mostra un elemento radicale: l’idea che Renzi ha della società».
Possiamo farne un profilo alla luce delle leggi sul lavoro, della riforma elettorale e di quella costituzionale?
La scuola è la parte più importante del Welfare tradizionale. In un momento in cui aumentano disoccupazione e povertà si dovrebbe investire sul suo ruolo di inclusione per impedire il riprodursi delle disuguaglianze. Invece la riforma disconosce che la scuola sia un corpo sociale composto da soggetti differenziati e ribadisce una fortissima spinta verso la segmentazione sociale. Attacca il contratto nazionale, esclude i corpi intermedi, e in particolare i sindacati, non riconosce la partecipazione democratica espressa dagli insegnanti e dagli studenti che si stanno opponendo. Sono gli elementi già emersi nel Jobs Act che ha portato l’abolizione dell’articolo 18 per i nuovi assunti. In questo modello di società non c’è spazio per la coesione sociale.
Nel Ddl scuola approvato dalla Camera c’è lo «School Bonus», un credito d’imposta al 65% per il biennio 2015 - 2016 e del 50% per 2017, riconosciuto a chi farà donazioni in denaro per le scuole pubbliche o private. Cosa ne pensa?
È una forte spinta verso l’outsourcing. Questa norma è un incentivo a far uscire la scuola dall’ipoteca del pubblico per affidarla ai privati che la gestiranno come meglio credono. È come incentivare a farsi una previdenza privata oppure una sanità privata.
Contrasta con l’articolo 33 della Costituzione che prevede l’esistenza di scuole private «senza oneri per lo Stato»?
Sono stato ostile alla legge sulle scuole paritarie approvata nel 2000. Ci vedevo l’escamotage per aggirare proprio questo articolo. Quando l’hanno scritto, i costituenti non avevano preclusioni ideologiche ma intendevano riconoscere la priorità degli investimenti nella scuola pubblica di ogni ordine e grado. Lo Stato deve in primo luogo permettere che la scuola pubblica funzioni al meglio. Solo quando questa condizione sarà soddisfatta, si potrà pensare di dare un euro anche ai privati. Nel Ddl di Renzi non c’è alcuna una risorsa aggiuntiva ai privati. I fondi a loro destinati sono sottratti alla scuola pubblica.
È stato detto che questa norma rispecchia il pluralismo e, in più, rappresenti la fine di un tabù ideologico della sinistra.
Altro che abbattere un tabù. Ne costruisce un altro: la distinzione tra scuole per abbienti e per non abbienti, di serie A e di serie B. Chi sostiene queste posizioni crede che il ruolo della scuola pubblica sia in contrapposizione con quella dei preti, come si diceva secoli fa quando ero un ragazzino. Il problema è un altro: la scuola pubblica, come spazio pubblico di riconoscimento e confronto, è irrinunciabile perché qui posso costituirmi come cittadino. Se invece dico che ognuno può farsi la propria scuola religiosa, etnica, territoriale o culturale innesco un conflitto. La scuola non è più un luogo dove si apprende a riconoscere l’altro in base alle sue diversità, ma un luogo dove si adempie una funzione pubblica per un numero tendenzialmente riducibile di persone. Tutto questo è in conflitto con l’idea di una società aperta e plurale dove l’uguaglianza esiste nella misura in cui viene riconosciuta la diversità delle opinioni.
Crede che Renzi abbia attribuito al «preside manager» un’importanza paragonabile alla leadership politica che lui intende svolgere in politica e nello Stato?
Certamente. È rivelatore di questo atteggiamento il fatto che abbia scelto di usare la lavagna e il gessetto: voi siete gli scolari e io il maestro che vi spiega la riforma. Dopo avere usato tweet e slide ha cambiato la sua comunicazione e si è messo nella posizione di chi parla dall’alto. È la rappresentazione tangibile della concentrazione dei poteri nella figura del presidente del consiglio, prima ancora che nell’esecutivo, che si vuole realizzare con le riforme istituzionali. Con questo disegno di legge Renzi tende a trasferire questa visione del potere a tutti i livelli della società. Alle figure apicali dei presidi affida la missione della scuola, quella di produrre buona cultura, uguaglianza e rispetto dell’altro. Sono d’accordo con chi ha definito questa politica come una «pedagogia del Capo».
Renzi sostiene invece che il preside-manager sarà libero di decidere e di rendere più efficiente la scuola.
Ma il problema della responsabilità dirigenziale non può tradursi nell’accentramento del potere e soprattutto nella possibilità di selezionare i docenti. È lo stesso meccanismo visto all’opera nel Jobs Act: all’imprenditore sono stati concessi sgravi fiscali, l’abolizione dell’articolo 18, per facilitare le assunzioni. In questo modo i diritti dei lavoratori sono stati subordinati al suo potere sociale. Con la riforma della scuola si crea un centro di potere per gestire un istituto con una logica tutta imprenditoriale e ad esso si subordina la partecipazione nella scuola.
Chi si oppone a questa politica è accusato di essere corporativo o un relitto della storia. Come si smonta questa retorica?
Dicendo che quella in atto non è un’opera di sburocratizzazione della società, ma di concentrazione del potere in una sola persona. Nei settori dove questo è accaduto, ad esempio nelle opere pubbliche, sono venuti meno i meccanismi di controllo, di partecipazione e trasparenza. Il potere è stato usato in maniera discrezionale e la corruzione si è moltiplicata.
In Italia è innegabile il problema della burocrazia, non crede?
Ma non lo si risolve aumentando diseguaglianze e ingiustizie. Man mano che si introduce la logica privatistica e l’accentramento della gestione si indeboliscono le possibilità di controllo e di partecipazione. Queste funzioni sono essenziali anche nella vita della scuola il cui scopo è garantire l’inclusione sociale, non la competizione tra le persone.
Perché, fino ad oggi, chi si richiama alla Costituzione non ha prodotto una politica capace di affrontare la sfida di Renzi?
Si è pensato che, tutto sommato, ci sarebbe stato il tempo necessario per aggiustare le cose. Quando poi si sono compresi gli effetti istituzionali e sociali della sua politica è stato troppo tardi. La politica ufficiale non è stata in grado di contrapporsi a Renzi. Questo vale per chi sta nel Pd, ma anche per chi oggi critica l’accentramento dei poteri nell’esecutivo. Questi elementi erano presenti sin dall’inizio e adesso le resistenze sono tardive. Non voglio dire che avevo ragione, quando ci chiamavano «professoroni», né voglio fare la parte della Cassandra. Per me è un elemento di autocritica.
Cosa è mancato a questa opposizione?
La visione alternativa di una società dove la politica è stata ridotta all’amministrazione e all’economia. Oggi chi si oppone a Renzi dovrebbe creare forme di auto-organizzazione e di agire politico per riequilibrare la forte concentrazione di potere che si sta realizzando a livello istituzionale. La società deve riconquistare il suo ruolo nel momento in cui lo spazio nelle istituzioni si restringe. Rimettere in movimento questi meccanismi oggi è un problema politico che si devono porre anche chi sta nelle istituzioni. Non si può fare politica solo attraverso gli emendamenti. Quella può permettere di salvarsi l’anima solo quando si discute una legge.
La democrazia autoritaria
di Marco Travaglio (il Fatto, 06.07.2014)
Ecco cosa accadrà se le “riforme” di Renzi, Berlusconi & C. entreranno in vigore: un regime da “uomo solo al comando” senza opposizioni né controlli né garanzie.
1. CAMERA. Con l’Italicum e le sue liste bloccate, sarà ancora composta da 630 deputati nominati dai segretari dei partiti più grandi. Quelli medio-piccoli saranno esclusi da soglie di accesso altissime. Il primo classificato (anche col 20%) avrà il 55% e potrà governare da solo, confiscando il potere legislativo, che di fatto coinciderà con l’esecutivo a colpi di decreti e fiducie.
2. SENATO. Con la riforma costituzionale, sarà formato da 100 senatori non eletti: 95 scelti dai consigli regionali (74 tra i consiglieri e 21 tra i sindaci) e 5 dal Quirinale. Sarà dominato dal primo partito e comunque non potrà più controllare il governo: niente fiducia né voto sulle leggi (solo pareri non vincolanti, salvo per le norme costituzionali).
3. OPPOSIZIONE. I partiti di opposizione saranno decimati dall’Italicum. I dissenzienti dei partiti governativi potranno essere espulsi e sostituiti in commissione (vedi Mauro e Mineo). La “ghigliottina” entra in Costituzione: corsia preferenziale per le leggi del governo da approvare in 2 mesi, con divieto di ostruzionismo e emendamenti strozzati.
4. CAPO DELLO STATO. Se lo sceglierà il capo del governo e del primo partito dopo il terzo scrutinio, quando la maggioranza dei 2/3 scende al 51%. Col 55% dei deputati, gli basteranno 33 senatori. Dopo il precedente presidenzialista di Napolitano, il Colle potrà arrogarsi enormi poteri d’interferenza in tutti i campi, giustizia in primis.
5. CORTE COSTITUZIONALE. Il governo controllerà 10 dei 15 “giudici delle leggi”: i 5 nominati dal Parlamento e i 5 scelti dal capo dello Stato (gli altri 5 li designano le supreme magistrature). Difficile che la Consulta possa ancora bocciare leggi incostituzionali o dar torto al potere politico nei conflitti con gli altri poteri dello Stato.
6. CSM E MAGISTRATI. Anticipando la pensione delle toghe da 75 a 70 anni, il governo decapita gli uffici giudiziari. I nuovi capi li nominerà il nuovo Csm, con 1/3 di laici vicini al governo e un presidente e un vice fedelissimi al governo, previo ok del Guardasigilli. Progetto di dirottare i giudizi disciplinari dal Csm a un’Alta Corte per 2/3 politica, cioè governativa.
7. PROCURATORI E PM. Dopo la lettera di Napolitano e il voto del Csm sul caso Bruti-Robledo, il procuratore capo diventa padre-padrone dei pm, privati dell’autonomia e dell’indipendenza “interne”. Per assoggettare Procure e Tribunali, basterà controllare un pugno di capi, senza più il bilanciamento del “potere diffuso” dei singoli pm.
8. IMMUNITÀ. Superata dai tempi e screditata dagli abusi, l’immunità parlamentare da arresti e intercettazioni rimane financo per i senatori non più eletti. Il voto a maggioranza semplice consente al governo di mettere in salvo i suoi uomini alla Camera e di nominare senatori “scudati” i sindaci e i consiglieri regionali nei guai con la giustizia.
9. INFORMAZIONE. Senza abolire la Gasparri né toccare i conflitti d’interessi, la tv rimane proprietà dei partiti: il governo domina la Rai (rapinata di 150 milioni e indebolita dall’evasione del canone) e B. controlla Mediaset. I giornali restano in mano a editori impuri: aziende perlopiù ricattabili dal governo e bisognose di aiuti pubblici per stati di crisi e prepensionamenti.
10. CITTADINI. Espropriati del diritto di scegliere i deputati e di eleggere i senatori, oltreché della sovranità nazionale (delegata a misteriose autorità europee), non avranno altre armi che i referendum abrogativi (sempre più spesso bocciati dalla Consulta) e le leggi d’iniziativa popolare: ma per queste la riforma costituzionale alza la soglia da 50 a 250 mila firme.
Costituzione, i veri nemici
«Il Pd: nessuno stupro, ma un atto d’amore per salvare e realizzare il nostro patrimonio di civiltà democratica che si esprime nella Carta»
di Carlo Galli (l’Unità, 13.10.2013)
LA COSTITUZIONE È ORA AL CENTRO DELLA POLITICA. Torna a unire e torna a dividere. Non è una cattiva notizia, di per sé: almeno, si parla di cose serie e non di escort. Del progetto di una vita civile improntata alla democrazia, e non di ridicole e tracotanti pretese di immunità dalla legge.
Tuttavia, si deve stare attenti a definire i fronti polemici, le linee d’amicizia e d’inimicizia: ci sono molti modi di difendere e di attaccare la Costituzione, che vanno distinti con accuratezza. C’è il modo della destra, di sostanziale estraneità storica, politica, valoriale rispetto alla Carta; il modo di chi ignora che cosa significhi «fondata sul lavoro», di chi critica come «bolscevica» l’indicazione della responsabilità sociale dell’impresa, di chi teorizza la disuguaglianza, di chi detesta la Resistenza. È un modo che conosciamo, purtroppo, da vent’anni; e contro di esso molti che oggi paiono divisi hanno a suo tempo combattuto uniti.
C’è poi il modo del movimento di Beppe Grillo; un finto amore per la Costituzione della quale in realtà non si condivide l’impianto di fondo, ovvero la centralità della democrazia rappresentativa che serve, strumentalmente, a fare dell’anti-politica qualunquistica, ad accusare «loro» di stuprare la Costituzione, difesa però dai valorosi scudieri della innocente pulzella. E deve invece essere chiaro che chi per difendere la Costituzione attacca e delegittima il Parlamento e i partiti in realtà la oltraggia.
C’è poi l’amore vero per la Costituzione, quello di chi ne vuole salvare lettera e spirito, e non per conservatorismo feticistico-accademico ma per realizzarla nelle sue molte potenzialità ancora inespresse. Non v’è dubbio che fra questi amanti della Costituzione vi siano gli organizzatori della manifestazione di ieri. Il cui limite che va menzionato, insieme all’apprezzamento per la loro passione civile e per il loro tentativo, in verità non sempre riuscito, di non dare toni antipolitici e antipartitici alla loro posizione è di rivolgere tutta la loro energia polemica verso altri amici della Costituzione.
Verso chi, come il Pd, l’ama di un amore parimenti intenso; verso chi, proprio sapendo, come loro, che la vera rivoluzione, in questo Paese, sarebbe applicarla e realizzarla, è anche preoccupato che essa sia travolta dalla crisi economica e sociale devastante che stiamo attraversando, che resti sepolta sotto le macerie del sistema politico sempre più fragile, che venga del tutto cancellata dalle forze antisistema che la crisi ha scatenato e dalle altre che potrebbero scatenarsi. È per questa preoccupazione che è ansia per la sussistenza del quadro democratico nel nostro Paese che le forze di governo, guidate dal Pd, hanno intrapreso la via di una riforma moderata e ponderata della Costituzione, volta a semplificare il processo legislativo e a rafforzare l’incisività dell’azione dell’esecutivo; nell’intento di conferire nuova energia e nuova credibilità al sistema istituzionale, e per questa via a tutto il sistema politico.
Nessuno stupro, dunque, ma un atto d’amore per salvare e realizzare il nostro patrimonio di civiltà democratica che si esprime nella Carta. Nessuno stravolgimento dei suoi principi, e neppure nessuna concessione alle tendenze autoritarie e decisionistiche della destra. E nessun grimaldello nella reinterpretazione, parziale, all’art. 138; né, infine, alcun plebiscitarismo nei referendum finali.
Centralità della Costituzione e centralità della politica democratica stanno insieme, condivise dalle due parti di una barricata che quindi non ha ragione di essere: dissidi marginali non possono infatti diventare solchi incolmabili, a meno che l’obiettivo degli amici della Costituzione non sia tanto difendere questa quanto piuttosto attaccare il Pd, abbassando così la Carta a un pretesto. Ma nessuno può davvero crederlo.
Il bisogno di equità sociale nell’epoca dei sacrifici
di Carlo Galli (la Repubblica, 8 dicembre 2011)
Il 13 maggio 1940, alla Camera dei Comuni, il nuovo premier e ministro della Difesa, Winston Churchill, presentando il suo governo e accingendosi a «guidare gli affari di Sua Maestà Britannica» nel momento più duro della storia inglese, disse: «non ho da offrirvi che sangue, sudore, fatica e lacrime. La nostra politica è fare la guerra: nostra mèta, la vittoria». La Camera gli diede unanimemente la fiducia, e anche tutta «la nazione fu unita e piena d’entusiasmo come non mai».
Dopo la battaglia di Canne (216 a. C.) anche un altro impero, quello romano, era stato in pericolo mortale; perduti almeno sessantamila soldati, un console morto in battaglia, il nemico più formidabile di Roma, Annibale, libero di agire nel cuore dell’Italia meridionale. Tuttavia, la città non si perse d’animo. Effettuò gli ultimi sacrifici umani della sua storia per placare gli dei, e il popolo si affidò alla dittatura informale del ceto senatorio. La Roma repubblicana non ebbe allora un leader capace di alta retorica come Churchill, ma un abile tattico della guerra di logoramento, Quinto Fabio Massimo. Alla fine, però, Cartagine fu vinta, come Berlino.
Lacrime e sangue, dunque - il dolore per la sconfitta, che però non annienta; la ferita aperta, che però non abbatte -, dicono di un caso d’emergenza, di una necessità che rafforza l’animo di chi la deve fronteggiare. E dicono anche che questa condizione eccezionale di pericolo produce l’emergere di una leadership, individuale o collettiva, per condurre la lotta all’esterno, e per imporre, al tempo stesso, la pace sociale e politica all’interno. Come dopo Canne s’interruppe il confronto fra patrizi e plebei, così nell’imminenza della battaglia di Francia Churchill formò un governo di unità nazionale e non accontentò coloro che chiedevano la testa dei politici conservatori che avevano voluto Monaco, nel settembre del 1938: «se il presente cercasse di erigersi a giudice del passato, perderebbe il futuro», rispose il premier.
Non sempre è andata così: la Francia rivoluzionaria, minacciata nel 1792 dal prussiano Brunswick, risponde con la guerra - la battaglia di Valmy -, ma al tempo stesso con le stragi di settembre, cioè con l’uccisione di qualche migliaio di aristocratici prigionieri. In questo caso, la logica amico-nemico che scatta nelle emergenze - serrare i ranghi per resistere all’ora difficile, e per passare al contrattacco - si manifesta anche all’interno, e non solo verso l’esterno. Una rivoluzione, infatti, contro il nemico che sta davanti alle porte trae forza dalla guerra civile contro il nemico che sta dentro le mura; i sacrifici umani con cui Roma aveva cercato di propiziarsi gli dei diventano atti sacrificali della nuova religione rivoluzionaria. Il sangue e le lacrime non sono solo quelle dei cittadini; anche i nemici del popolo piangono e muoiono, mentre l’esercito sanculotto - formato dalla leva in massa - corre alle frontiere.
Ma quando non si va alla ricerca di un capro espiatorio, "lacrime e sangue" indica una situazione di necessità davanti alla quale tutti sono uniti e tutti sono uguali; senza che le differenze sociali e politiche vengano cancellate, sono tuttavia momentaneamente neutralizzate da una mobilitazione corale dei cittadini, chiamati alle armi per salvare la patria. Se è vero che le categorie di giusto e ingiusto spariscono davanti allo stato d’eccezione, in cui vale solo la logica dell’efficacia e dell’inefficacia, è anche vero che senza l’attenuazione dei privilegi, senza la consapevolezza che tutti sopportano gli stessi rischi e sacrifici, anche la risposta all’emergenza viene indebolita. Nei momenti di crisi, l’equità - il far sì che i piatti della bilancia siano pari, livellati, senza che uno penda a terra, gravato da oneri vessatori e l’altro salga al cielo, libero e leggero da ogni gravame - è una delle condizioni dell’efficacia. Si possono richiamare tutti al coraggio e al sacrificio solo se nessuno fa affari con l’emergenza.
Tutto ciò vale anche ai tempi nostri, anche se la guerra è solo economica e se non è neppure ben chiaro chi sia il nemico: esterno o interno? il nostro debito o chi ci specula sopra? Le logiche severissime su cui si fonda l’euro o quelle speculative dei mercati? La Bce con le sue lettere o la Germania con la sua riluttanza a una politica economica europea centralizzata?
La crisi finanziaria nata a Wall Street nel 2008 o, in ultima analisi, noi stessi e la politica, da noi voluta, che ha sempre rinviato la soluzione dei problemi? E vale ancor più nel momento in cui a gestire la cosa pubblica sono chiamati gli esponenti delle ultime élites che il Paese ha a disposizione, le ultime riserve della Repubblica: professori universitari e manager cattolici. Che devono trovare la forza di dare segnali chiari e forti di equità e di lotta ai privilegi; sia perché solo così la manovra può essere condivisa, e quindi sostenibile, sia perché la qualità e la legittimità delle élites - di quelle politiche e di quelle sociali - si rivela proprio quando a esse un Paese si affida, aspettandosi che diano l’esempio.
Dopo tutto, non si chiedono sacrifici umani, né guerre civili ideologiche; ma ragionevole uguaglianza nel portare il peso dell’emergenza. Forse le rispettabili lacrime di un ministro equivalgono simbolicamente al gesto d’espiazione delle matrone romane che, dopo Canne, spazzavano i pavimenti dei templi con le loro lunghe chiome sciolte. Ma oggi alle élites si chiedono altri segni, più tangibili, di partecipazione alle lacrime e al sangue di tutti.
La Costituzione, unica bussola
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 21.11.2011)
Avevano un suono diverso le parole pronunciate dal presidente del Consiglio e dai ministri del nuovo governo nel momento in cui giuravano di osservare "lealmente" Costituzione e leggi e di esercitare le loro funzioni nell’interesse "esclusivo" della Nazione. La formula apparentemente burocratica del giuramento rivelava un’assenza: la mancanza negli ultimi anni d’ogni lealtà governativa verso una Costituzione continuamente dileggiata e aggredita, l’abbandono dall’interesse esclusivo della Nazione a vantaggio di una folla di interessi privati e persino inconfessabili. Quelle parole scomparse e tradite sono ritornate nel momento in cui davanti al nuovo governo non è soltanto il compito assai difficile di affrontare i temi dell’economia riprendendo pure il cammino dell’equità e dell’eguaglianza, senza le quali la coesione sociale è perduta. L’insistita sottolineatura del nuovo stile di Mario Monti all’insegna di "sobrietà" e "serietà" non riguarda, infatti, segni esteriori. Ricorda un altro compito, forse persino più difficile e certamente bisognoso di molto impegno e di molto tempo, quello di far uscire il nostro Paese dalla regressione culturale e civile nella quale è sprofondato.
È questione che non si affida tanto a provvedimenti formali. Accontentiamoci, per il momento, d’una prima, non indifferente certezza. Il sapere che non vi saranno ministri della Repubblica che, di fronte alla domanda di un giornalista o di un cittadino, leveranno in alto il dito medio o risponderanno con una pernacchia (non il nobile e difficile "pernacchio" di Eduardo). Rispetto e lealtà non sono dovuti soltanto a Costituzione e leggi, ma a tutti coloro che nel mondo reale incarnano valori e principi che lì sono iscritti. In questi anni abbiamo assistito proprio al rifiuto dell’"altro", l’avversario politico o l’immigrato, lo zingaro o la persona omosessuale. L’indegna gazzarra scatenata alla Camera dai deputati della Lega contro la civilissima richiesta di avviare il riconoscimento degli immigrati come cittadini, e non come merce usa e getta, è stata la conferma evidente della difficoltà di invertire una tendenza che, mai contrastata efficacemente per convenienza politica e debolezza culturale, ha terribilmente inquinato l’ambiente civile.
Sarà la minuta sequenza degli atti concreti a dare sostanza all’abbandono di un perverso costume. Al governo spettano nomine importanti, sottosegretari e Rai per cominciare. Il rispetto della Costituzione, inoltre, muove dal rispetto degli istituti che la innervano, a cominciare dal referendum che ha ridato ai cittadini la possibilità di far sentire la loro voce, spenta da una legge elettorale indegna e venata da incostituzionalità. Proprio dal voto sui referendum di giugno vengono tre indicazioni che il governo non può in alcun modo eludere: il no al nucleare (lo ricordi qualche ministro che non deve avere bene appreso la lezione di sobrietà e umiltà invocata dal presidente del Consiglio); il rifiuto di ogni legislazione attributiva di privilegi; il nuovo ruolo attribuito ai beni comuni, all’acqua direttamente (non si segua il cattivo esempio delle furbizie nelle quali il governo precedente si stava esercitando). Se il governo vuole conservare la fiducia manifestata da una larga parte dell’opinione pubblica, e cercar di recuperare critici e scettici, deve essere consapevole che proprio questi sono i casi in cui massima dev’essere la sua lealtà verso la Costituzione. È bene aggiungere che, considerando i vari movimenti e indignati che occupano le piazze del mondo, in Italia il risveglio civile non solo si era manifestato prima che in altri Paesi, ma aveva trovato un fiducioso incontro con le istituzioni tramite i referendum. Sarebbe un grave errore politico mettere questa vicenda tra parentesi, poiché proprio da lì è cominciato quel rinnovamento che ha trovato nel governo Monti un suo approdo, sia pure controverso.
Come tutto questo incrocerà i sentieri parlamentari è questione tra le più aperte. A proposito della quale, tuttavia, è bene insistere su una banale verità, del tutto travisata da chi, gridando alla fine della democrazia, ha lamentato un ruolo marginale del Parlamento in una crisi tutta gestita tra presidente della Repubblica e presidente del Consiglio incaricato. Ma abbiamo già dimenticato o cancellato il fatto istituzionale più clamoroso di questi ultimi anni, appunto la scomparsa del Parlamento, dileggiato da Silvio Berlusconi come luogo di inutili e incomprensibili lungaggini, espropriato d’ogni potere dai voti di fiducia e dai maxiemendamenti blindati, ridotto a mercato quando v’erano da reclutare truppe mercenarie, rattrappito nei suoi lavori in un paio di giorni a settimana, addirittura chiuso per mancanza di questioni rilevanti da mettere all’ordine del giorno? Uno degli esiti, o paradossi, di questa crisi sta proprio nell’aver rimesso al centro dell’attenzione pubblica e della politica proprio il Parlamento, ricordando così, come molte volte aveva già fatto il presidente della Repubblica, che la nostra rimane una Repubblica parlamentare ed è lì che i governi ricevono investitura e legittimità.
Sul rapporto tra governo e Parlamento si è insistito molto in questi giorni, discutendo soprattutto della possibilità che qualcuno voglia prima o poi "staccare la spina", di possibili maggioranze variabili nell’approvare singoli provvedimenti. Ma vi è un altro aspetto del problema, particolarmente rilevante nella prospettiva ricordata all’inizio della "bonifica" politica e civile del nostro sistema istituzionale e della nostra società. Qualcuno, nel dibattito parlamentare, ha avuto l’impudenza di invocare la ripresa del cammino parlamentare del disegno di legge sulle intercettazioni. Qualcun altro ha adombrato i temi della difesa della vita, con un trasparente richiamo al disegno di legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (testamento biologico) attualmente in discussione al Senato, e dopo che s’era verificato il grave episodio di un governo che, in articulo mortis, aveva diffuso le nuove linee guida in materia di procreazione assistita. L’insistenza su questi temi rivela un intento strumentale, volto anche a creare frizioni parlamentari che possono insidiare la tenuta del governo. Ma, se appare davvero improbabile un rinnovato assalto a favore di una legge bavaglio, più serie preoccupazioni destano i temi legati alla bioetica e al biodiritto.
Per proteggere il governo, non si tratta di invocare una "tregua etica" o rivendicare l’autonomia del Parlamento in materie non comprese nel programma governativo, magari facendosi forti di qualche improvvida dichiarazione che ha associato la costituzione di questo governo con il "ritorno" dei cattolici in politica. Se alla lealtà verso la Costituzione dobbiamo continuare a rifarci, è appunto il percorso costituzionale che deve essere rigorosamente seguito tanto dal governo che dal Parlamento. E questo significa mettere da parte il testo sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, grondante di incostituzionalità, sgrammaticature e difficoltà applicative in ogni suo articolo. Significa riprendere il cammino verso una seria disciplina delle unioni di fatto, comprese quelle tra persone omosessuali, alle quali la Corte costituzionale ha riconosciuto un "diritto fondamentale" al riconoscimento giuridico della loro condizione, indicazione finora del tutto disattesa dal Parlamento. Significa riportare a ragione e Costituzione la materia della procreazione assistita.
Per non rimanere prigionieri dell’emergenza che ha segnato la nascita di questo governo, e per sfuggire alle perversioni che questa può produrre, bisogna imboccare senza esitazioni la via di una politica che sia tutta politica "costituzionale".
Cosa significa essere italiani
di Carlo Galli (la Repubblica, 14.09.2011)
«L’Italia è il Paese che amo». In questa dichiarazione - l’inizio della Grande Propaganda - c’era molta verità. Berlusconi ama veramente l’Italia perché ama veramente se stesso, avendo evidentemente operato una sintesi a priori fra l’Italia e la propria persona. Il suo amore non è un rapporto con l’oggetto amato; è il preventivo annullamento della sua autonomia, a cui segue l’identificazione con l’amante. Non è neppure un’inclusione: è un’illusione, un culto idolatrico.
Un culto il cui primo adepto, oltre che il primo beneficiario, è proprio Berlusconi. Il quale crede veramente di essere l’Italia. Non di rappresentarla - come nelle moderne dottrine della regalità il Re col proprio corpo concreto rappresentava l’intera complessità del regno - ma di coincidervi.
Una delle conseguenze di questa smisurata proiezione egolatrica è la indistinguibilità di pubblico e privato - l’annullamento del conflitto d’interessi, trasformato nella più perfetta identità d’interessi, passati presenti e futuri, fra Berlusconi e l’Italia - , ma anche la loro intercambiabilità (è Berlusconi che decide che cosa è pubblico, come per esempio la telefonata per Ruby, e che cosa è privato, come le serate con le escort). Un’altra è la coincidenza della parte col Tutto, del suo Partito con l’intero Popolo (il nome del Pdl è tutto un programma), e quindi l’esclusione degli avversari di Berlusconi dall’Italia - da questa Italia fittizia, fatta di proiezioni mentali, ma anche molto concreta nella sua configurazione di potere - . Quelli che lo criticano perdono ogni legittimità politica e morale, poiché non sono una parte che si contrappone, com’è normale in una democrazia, a un’altra parte, ma sono faziosi, traditori e sabotatori, che attaccando il Capo attaccano ipso facto il Paese. Nemici interni, dunque. Una terza conseguenza è che sovrana non è la legge, che vorrebbe considerare Berlusconi un cittadino fra gli altri; sovrano è lui, che è l’Italia, e che in quanto tale è il soggetto della legge e non è soggetto alla legge. Chi potrà mai voler processare l’Italia se non degli anti-italiani?
L’identificazione del governo con lo Stato, e dell’opposizione con l’attività anti-nazionale, è, certo, un’abusata strategia retorica, di ogni tempo e di molti Paesi - per lo più autoritari -; ma in concomitanza con la crisi finale della sua politica e della sua stessa avventura pubblica, Berlusconi sta toccando il grottesco. Il suo ricorso al tema-chiave della sua propoganda, alla radice della sua costruzione di legittimità, è ormai parossistico. Ora, è giunto il momento di squarciare il velo di Maya, di spezzare l’incantesimo, di dissipare le nebbie dell’illusione. E di spiegare a tutti (molti, in verità, lo stanno già comprendendo da soli, all’amara luce dell’esperienza), e in primis all’interessato, che Berlusconi non è l’Italia, che l’Italia non è Berlusconi, e che essere italiani non è essere berlusconiani. Che Berlusconi non è il destino dell’Italia e che lo si può attaccare senza essere anti-italiani.
Essere italiani non è una cosa soltanto, non significa realizzare un’essenza, un carattere, una vocazione unica. L’Italia non ha un’identità compatta, né nella nazione né nella razza, né nella religione né nell’ideologia. E quindi essere italiani vuol dire molte cose; essere portatori di interessi diversi, di ideali diversi, di visioni del mondo e della società differenziate. E questa pluralità, questa complessità - che hanno radici nella storia e nella geografia, nell’economia e nella politica -, non riconducibili a una unanimità, a un unico modello omologante, a un pensiero unico, possono essere una ricchezza, una riserva d’energie e di prospettive, se il punto d’unificazione del Paese, l’essenza dell’essere italiani, non sta nell’identificazione fra l’Italia e un Capo - che in realtà è stata superficiale ed episodica, e che ha avuto come effetto reale la più grave frantumazione della nostra società in mille linee di frattura disarticolate - ma al contrario nella sovranità della legge e nel più solenne dei vincoli: la Costituzione.
Essere italiani, oggi, può significare, in positivo, il riconoscersi in un’unità giuridica e politica, in un sistema di norme e in un’idea di democrazia pluralistica, che costituiscono, in realtà, un patto di uomini e di donne libere. Uniti dal rispetto delle leggi, e quindi dalla reciproca fiducia in se stessi, e dal riconoscersi nelle istituzioni: dall’identificarsi non in un uomo ma nella Repubblica e nei suoi ordinamenti. Essere italiani significa prendere sul serio la Costituzione, che è l’essenza dell’italianità, il progetto di una patria viva e libera perché consapevole della propria ricchezza plurale e della propria volontà di un destino civile comune. Una patria, un Paese, che non dipende dalle affabulazioni, dai rancori e dalle smanie narcisistiche di Uno - che dapprima ama, e che infine, quando l’incantesimo finisce, ingiuria -, ma dall’orgoglio civile di tutti. Dalla voglia, di tutti, di sciogliere il vincolo - tutt’altro che indissolubile - col Capo, e di riprendere, dopo tanti anni perduti, un cammino comune, libero dall’eccezione permanente, dall’anomalia in servizio perenne ed effettivo. Convinti che sia possibile, e magari anche bello, essere italiani.
Il doppio Stato
di Carlo Galli (la Repubblica, 23.o6.2011)
Gli italiani hanno scoperto di esser stati governati per anni da un esecutivo Berlusconi-Bisignani. Ci eravamo abituati a criticare con estrema durezza il potere pseudo-carismatico, mediatico, affabulatorio del premier. A criticare la sua prassi extra-istituzionale di rappresentare i cittadini - trasformati in popolo adorante che si identifica in una icona, in un corpo mistico virtuale -, il suo indirizzarsi contro gli avversari come contro dei ‘nemici’, il suo saper produrre prevalentemente immagini (sogni o incubi) a uso e consumo degli italiani, e il suo interessarsi solo a sé e ai suoi amici per quanto riguarda gli interessi concreti da salvaguardare. A opporci alla sua pretesa di essere sopra la legge, oltre la Costituzione, ai limiti della democrazia (e estraneo alla democrazia liberale parlamentare e alle sue garanzie).
Sembrava, tutto sommato, di avere a che fare con un potere eccezionale, con un concentrato di potenza difficilmente riconducibile alla misura costituzionale, con un’enormità e con un’anomalia che sovrasta (o cerca di farlo) l’ordinamento. Ora, si scopre che tutto ciò è certamente ancora vero, ma che c’è dell’altro: che questo potere - come le scatole cinesi - è a sua volta una maschera, che cela in sé un vuoto; e non solo perché è vuoto di ogni istanza pubblica ed è pieno di una sola istanza privata - quella di Berlusconi - ma perché è abitato da altri, da occulti manovratori, da tessitori di trame economiche, politiche, mediatiche, giudiziarie, dai soliti noti che costruiscono ignote reti di potere, più efficaci del potere ufficiale, dalle quali questo viene distorto, piegato, corrotto. Non soltanto, insomma, abbiamo a che fare col potere gigantesco e iper-visibile del premier, ma anche con il potere oscuro della P4 (e chissà di quante altre P, ancora, ci toccherà apprendere l’esistenza); non solo con un potere che sta (o pretende di stare) sopra la Costituzione, ma con uno, ramificato e pervasivo, che sta dietro e sotto le istituzioni, non visibile ma coperto.
Nel 1941 un esule tedesco, Ernst Fraenkel, scrisse in America un libro intitolato Il doppio Stato, in cui spiegava il funzionamento del potere nazista: secondo lui, allo "Stato normativo", lo Stato delle istituzioni legali, la Germania di Hitler affiancava un secondo Stato, lo "Stato discrezionale", che funzionava con l’arbitrio e la violenza, al di là di ogni norma e di ogni garanzia. La differenza rispetto alla nostra situazione - al di là, naturalmente, del fatto che nel nostro Paese non vi è nulla di neppure lontanamente paragonabile al delirio di violenza criminale che caratterizzò il regime nazista - è che oggi, in Italia, i sistemi di potere politico, compresenti, non sono due, ma tre: quello legale-costituzionale, quello carismatico-populistico, e quello occulto delle trame oscure e delle cricche d’affari. Il primo, l’unico che una democrazia liberale può e deve conoscere, ovvero l’unico legittimo, è sotto stress, logorato e minacciato; il secondo, che al primo ha voluto sovrapporsi, ha funzionato per almeno dieci anni come portatore di una legittimità alternativa alla costituzione - formalmente intatta, nonostante i numerosi progetti di manomissione, ma bypassata da un’altra immagine della politica, dallo splendore del carisma populistico -; e infine, ormai logorato anche questo secondo sistema di potere, emerge ora il terzo, un potere indiretto e manipolatorio che ha scavato, come un esercito di termiti o di tarli, all’interno delle strutture pubbliche, penetrandole, corrodendole, piegandole a fini di parte.
Questo terzo potere è l’antitesi del primo, come l’illegalità lo è della legalità, l’opacità della trasparenza; ma è anche la verità del secondo, la logica conseguenza dello svuotamento idolatrico della democrazia che questo ha operato. L’idolo luccicante con cui troppi italiani hanno voluto sostituire la prosa e la serietà dell’impegno civile, e anche la semplice legalità, è stato l’incuatrice - li ha allevati in sé, e li ha coperti - dei robusti, tenaci e voraci animaletti, che all’insaputa dei cittadini hanno scavato cunicoli e gallerie nelle istituzioni, e hanno così minato l’essenza della vita democratica. L’idolo che oggi si rivela pullulante di vite parassitarie, infatti, ha privato gli italiani del diritto di essere liberi cittadini, in grado di decifrare razionalmente la vita pubblica, e ne ha fatto degli ignari spettatori di innumerevoli arcana imperii, orditi da pochi, che li hanno avvolti nelle trame insidiose dei poteri distorti. A ulteriore e tardiva dimostrazione che è soprattutto l’assenza di potere autenticamente democratico a generare mostri e mostriciattoli.
La dignità istituzionale
di Carlo Galli (la Repubblica, 07.05.201)
Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano si è dimostrato ancora una volta l’autentico custode della Costituzione e delle regole, ovvero dell’interpretazione parlamentare - l’unica che la Carta consente - della politica italiana.
Con l’osservare che i nuovi sottosegretari appartengono a un gruppo politico che non esisteva al momento delle elezioni, e che quindi il premier devono presentarsi in Aula a riferirne, e che i presidenti delle Camere possono considerare se il Parlamento debba rilegittimare col voto di fiducia quello che a tutti gli effetti è un nuovo governo, il Capo dello Stato esercita la difesa attiva, non meramente notarile, della Costituzione.
Questa difesa consiste più o meno in questo ragionamento: se è vero che parecchi parlamentari - sulla base del principio costituzionale del mandato libero e dell’indipendenza dell’eletto dagli elettori - hanno maturato l’intimo convincimento di uscire dai partiti nelle cui liste sono stati eletti, lo possono certamente fare. Ma se danno vita a un nuovo gruppo parlamentare, e se ora questo gruppo, dopo avere ripetutamente votato insieme alla maggioranza, entra a far parte del governo, allora sarebbe necessario che il Parlamento tornasse a votare la fiducia al governo. Che è nuovo non perché ci sia stata una crisi formale, ma perché è politicamente non solo sorretto da una nuova maggioranza ma composto da nuovi partiti.
I numeri per il voto, se ci sarà, presumibilmente si troveranno: a questo, del resto, servono i Responsabili, che appunto così si guadagnano la ricompensa ministeriale. Ma il valore politico del gesto di Napolitano si misura in opposizione - implicita ma evidentissima - alla vera ideologia politica che anima Berlusconi. Che da sempre, oltre che ostile ai magistrati e alle istituzioni di garanzia come la Corte Costituzionale, è anti-parlamentare - si ricordino le proposte di ridurre il voto ai soli capigruppo, nonché la polemica ininterrotta verso "il teatrino della politica" - , ed è tutta spostata verso il rafforzamento dei poteri del governo e soprattutto verso la dimensione elettorale, interpretata in senso populistico-plebiscitario.
Ovvero, per Berlusconi le elezioni sono il momento della verità in cui un popolo - spaccato in due dalla sua propaganda - si conta, e conferisce al Capo eletto (l’Unto del Signore) tutto il potere, facendone il dominus delle istituzioni. Cioè non solo del governo - come se si fosse eletto direttamente il premier - ma anche del Parlamento: che in quest’ottica è uno spazio subalterno, di servizio, perché la "vera" espressione della sovranità non sono per Berlusconi i parlamentari ma colui che - come individuo singolo - è risultato vincitore delle elezioni. Il Parlamento, semmai, è una "spoglia", un insieme di "posti" con cui, a spese dei contribuenti, si compensano i seguaci (che una legge pessima vuole siano blindati in una lista decisa dal Capo).
Nessuna centralità del Parlamento, quindi, ma solo supremazia (sovranità) del leader vittorioso. La centralità del Parlamento - di cui l’indipendenza dell’eletto è il cuore, poiché quella indipendenza significa che il baricentro della politica è nell’istituzione-Parlamento e non negli interessi sociali in grado di far eleggere questo o quello - è sempre stata respinta da Berlusconi, che alla mediazione preferisce l’immediatezza, alla discussione la decisione. Solo in un caso quella centralità - con l’indipendenza del parlamentare che ne consegue - è stata difesa: cioè nella fase in cui si è proceduto al "recupero" dei parlamentari per ricostituire la maggioranza, vulnerata dall’uscita di Fini e dei suoi.
A quel punto, a giustificare i molti movimenti di molti parlamentari, si è fatto sentire un debole accenno al mandato libero e ai valori istituzionalmente fondanti del liberalismo: accenno incongruo, spaesato, strumentale al libero dispiegarsi della vera idea e della vera pratica del potere che ha Berlusconi: il dominio incontrastato, con ogni mezzo, per affermare la propria volontà. Si diceva "mandato libero" e si doveva intendere "compravendita" - almeno altro con le cariche nel governo che ora, a riprova, vengono elargite - .
Il capo dello Stato ha quindi fatto quello che era in suo potere per ridare dignità alle istituzioni, ovvero per ribadire che il Parlamento non è nella disponibilità del premier, non è lo spazio delle sue scorribande indisturbate; che è soggetto e non oggetto della politica. Che quindi il Parlamento deve prendersi la responsabilità dei responsabili, non limitarsi a registrarne l’ascesa agli ambìti posti di sottosegretari. Vedremo se altri si prenderanno a cuore quella dignità, che è anche la dignità di tutti i cittadini.
La verità mediatica
di Carlo Galli (la Repubblica, 27 gennaio 2011)
La politica non è lo spazio né della Verità né della Menzogna. Non deve ospitare un Assoluto da custodire a ogni costo, né un Vuoto radicale di senso, in cui tutto è possibile; né un Bene né un Male. Perché spesso l’uno si rovescia nell’altro.
Un’illustre tradizione che, in età moderna, nasce in parte da Machiavelli e dalla Ragion di Stato, collega la politica al Male e teorizza anche la liceità, per il potente, di mentire; il potere politico è segreto, le sue vie e le sue ragioni sono nascoste al popolo, a cui la vera finalità dell’agire politico - la potenza - non va rivelata; anzi, la si deve schermare, dissimulare, rappresentare falsamente come fosse orientata al Bene. Il potere è opaco, e tale deve rimanere; non può essere indagato né criticato, perché trascende la comprensione della gente comune, dei cittadini.
La modernità politica si è affermata attraverso la lotta illuministica contro gli arcana imperii, contro il combinarsi di segreto, dissimulazione, menzogna, a cui ha opposto la luce della ragione pubblica, capace di indagare e rischiarare quelle tenebre. E ciò è avvenuto in nome della Libertà; che è anche la libertà dei cittadini di non essere ingannati dal potere, e di vivere in uno spazio politico trasparente, pubblico e condiviso.
Ciò non significa che la menzogna non abiti la politica moderna. E non solo perché spesso i politici mentono; ma per il motivo più radicale che anche la politica moderna si è creduta portatrice di Verità - di una Verità di liberazione contro l’antica oppressione - , e che in nome delle sue certezze assolute si è sentita legittimata a ogni comportamento - la menzogna, ma anche ben di più - per difenderle e affermarle: la spietatezza dei totalitarismi novecenteschi ne è testimonianza. Ma anche senza entrare negli inferni totalitari - in cui Verità e Menzogna si rovesciano continuamente l’una nell’altra - la menzogna ha contagiato perfino le democrazie: la politica moderna ha un nucleo di segreto - la difesa dello Stato, la sua potenza - a cui, nonostante sia in contraddizione con la democrazia, non sa rinunciare, anche a costo della menzogna di Stato, della falsa rappresentazione del reale. Lo si è visto nel contesto imperiale degli Usa - che dal Vietnam all’Iraq hanno mentito per giustificare le loro guerre - e anche nel più modesto spazio italiano, in cui la politica degli omissis rispondeva alla medesima logica di salvaguardia, attraverso la menzogna, del presunto Bene superiore dello Stato. La tragedia della politica sta proprio qui: nella dialettica fra segreto del potere e libertà dei cittadini.
L’età contemporanea ci mostra che la Menzogna si sposa alla politica anche nel fabbricare mediaticamente un mondo di favola e nell’elargirlo a platee di cittadini ridotti a spettatori, che non possono esercitare il diritto di critica, di fare domande, di avere risposte; è Menzogna anche l’illusionismo che trasforma il discorso pubblico in una fiction.
Ma oggi la cronaca ci rivela un nuovo rapporto fra politica e menzogna; quello delle bugie private, a proposito di reprensibili comportamenti personali, che assumono rilevanza politica proprio perché la politica è stata identificata con un uomo, un corpo, una vicenda personale. Questa privatizzazione della Menzogna, con effetti pubblici, unisce al tragico il farsesco; ma viola ugualmente l’unica Verità a cui la politica democratica possa aspirare: quella che nasce in una comunità politica dal libero confronto di cittadini liberi dall’inganno e dalla manipolazione.
di Carlo Galli (la Repubblica, 24.01.2011)
Perché "vergogna" è la prima reazione al nuovo scandalo Berlusconi? Vergogna di chi, di che cosa? Provare a rispondere a queste domande - tentativo doveroso, perché interpellano radicalmente la nostra coscienza civile e morale - ci porta alla radice dell’apparato categoriale della moderna politica democratica. In questo caso vergogna è il sentimento di umiliazione che nasce nei cittadini per alcuni comportamenti - non necessariamente per i reati, che devono ancora esser provati - del capo del governo.
I cittadini (alcuni, forse non tutti: ma questo è un diverso lato della questione) si sentono umiliati per fatti che non li riguardano direttamente e che nondimeno li toccano da vicino, intimamente. Quei comportamenti hanno a che fare con l’umiliazione di donne giovani e avvenenti (anche in questo caso, lasciamo impregiudicata la questione del reato specifico che si configurerebbe se fra di esse fosse stata coinvolta una minorenne), sistematicamente utilizzate, col loro consenso, come figuranti lascive in quadretti erotici, in tableaux vivants da Antico regime o da belle époque per quanto riguarda i riferimenti storici, ma soprattutto a favolosi e remoti (almeno si supponeva) sultanati orientali. E hanno a che fare anche con l’umiliazione di chi le umilia, di chi utilizzandole come giocattoli animati ne nega la qualità di persone, di chi abbassandole si abbassa.
Nell’umiliazione di quelle donne, e simultaneamente del loro padrone, vediamo in realtà umiliati i due beni più preziosi che la modernità politica - quella che ancora ci parla attraverso la Costituzione - ci ha consegnato: l’uguale dignità delle persone, di tutte; e la configurazione e la destinazione umanistica del potere, di ogni potere. Come il potere giudiziario non può comminare punizioni crudeli e inusuali, come il potere economico non può ridurre in schiavitù i più deboli, così il potere politico non può utilizzare le persone, divertirsi a consumarne corpi e anime.
Si dirà - è stato detto - che la prostituzione è sempre esistita, e che un po’ d’allegria non guasta; che, soprattutto atti sessuali fra adulti consenzienti, consumati nel privato - a prescindere da eventuali reati -, non devono interessare nessuno. E che il potere politico non c’entra nulla.
E invece - una volta resi pubblici perché la magistratura ha legittimamente indagato a partire da notizie di reato - quegli atti interessano e umiliano, non tanto per umana empatia, né per fame di gossip, ma perché sono intrinsecamente politici. Perché coinvolgono tutti e ciascuno; perché ferendo alcuni feriscono la dignità uguale e comune dei cittadini; perché trascinano tutti nella stessa vergogna; perché quello spettacolo ha noi tutti come destinatari, parla a noi e parla di noi - e anche perché si riflette, come un gioco di specchi, in mille stanze del potere, in mille alcove, al centro e alla periferia del Paese - . Ciò è tanto più vero nel caso di Berlusconi - che ha fatto di sé, del proprio corpo e della propria ricchezza personale, l’icona e il simbolo della politica, facendo coincidere il Tutto, l’Italia, con se stesso e con la propria privata dismisura -; ma sarebbe vero in generale per ogni primo ministro, presidente di partito e parlamentare (che rappresenta tutta la nazione) che si comportasse allo stesso modo.
È l’immagine universale dell’uomo (e della donna) a essere in gioco; e, insieme, l’immagine del potere politico, della forza che regola il nostro vivere civile. Se il portatore di quella forza è capace di umiliare, di non vedere l’umanità delle persone, di non relazionarsi agli altri con il doveroso rispetto - non importa se nel pubblico o nel privato, orizzonti e dimensioni che in determinate posizioni di potere sfumano l’uno nell’altro -, siamo umiliati tutti. Siamo in pericolo tutti.
La coscienza letteraria potrebbe vedere nell’intera vicenda la topica del Drago e delle fanciulle; la coscienza religiosa potrebbe scorgervi il volto benevolo e il potere corruttore dell’Anticristo; la coscienza di classe potrebbe individuarvi la potenza onnivora - veramente biopolitica - del capitale su corpi e menti reificate; la coscienza femminile potrebbe riconoscervi la quintessenza del potere maschile diffuso in tutta la società, che si concentra in una sola persona e nelle sue pratiche di dominio; la coscienza cinica potrebbe leggervi l’eterna storia del sesso e del potere, e chiedersi chi sottomette chi, se l’uomo le donne o le donne l’uomo - e concludere che non vi è nulla di straordinario o di allarmante nell’intera vicenda -. La coscienza civile, la coscienza moderna, si avvede - dopo lo sbalordimento iniziale - che una soglia è stata superata, e paventa in quella servitù volontaria, e in chi la incoraggia e la sollecita (e in chi, servizievole, la organizza), la negazione stessa, in radice, della democrazia. E spera che l’Italia si interroghi presto su se stessa e sulla propria sorte.
LE PAROLE PER RACCONTARE QUEL CHE RESTA DI UN’IDEA
di Carlo Galli *
Fine delle ideologie, crisi del riformismo, globalizzazione: eppure c’è ancora chi scommette sul futuro di un concetto. Abbiamo chiesto a celebri pensatori e intellettuali europei di spiegare la loro visione e le prospettive possibili
La sconfitta della sinistra comunista, e le trasformazioni politiche ed economiche che sono seguite - la globalizzazione -, hanno reso il capitale più aggressivo (perché più esposto alla competizione), e hanno causato la crisi del compromesso socialdemocratico, cioè delle conquiste della sinistra riformista: i diritti sociali oggi sono visti come un costo e non come un valore. Ecco perché ha senso interrogarsi sulle prospettive di un’idea. Oggi il centro della società è il mercato, l’impresa e le sue esigenze di sviluppo, l’individualismo aggressivo; la frantumazione del ceto medio creato dalle passate politiche di welfare è già in atto, e la società si polarizza tra pochi ricchi e molti poveri; anche le forme giuridiche dell’uguaglianza - la legalità, i diritti civili - sono minacciate dall’insicurezza e dalla paura, i nuovi messaggi biopolitici che vengono dallo Stato; la democrazia è sostituita dal populismo.
La sinistra deve quindi trovare la capacità di criticare il presente, e ne deve nominare apertamente le contraddizioni; deve essere convinta che a un problema non c’è solo la soluzione proposta da chi detiene il potere, ma almeno un’altra, alternativa, che ha come finalità l’emancipazione di chi non ha potere, e la liberazione delle sue capacità di sviluppo autonomo, di vitale spontaneità (e pertanto deve essere antiautoritaria e laica). Deve essere riconoscibile, cioè deve essere coerentemente "parte" - nel momento in cui la società si frantuma in parti, anche se non coincidenti con le "classi" tradizionali -, e deve quindi entrare decisamente nei conflitti reali; ma deve anche farsi carico delle questioni generali di uguaglianza formale e sostanziale - pur mettendo in conto che i conflitti non potranno mai cessare. Deve produrre una nuova idea di società, una nuova "egemonia", da contrapporre all’egemonia della destra. Ciò significa combattere la paura e la disuguaglianza con la legalità, la giustizia e la speranza; e lottare per un nuovo compromesso, molto meno squilibrato dell’attuale, oltre che meno burocratico che nel passato, tra economia e diritti di libertà, tra mercato e Stato, tra privato e pubblico.
QUELLE PAROLE CHE LA SINISTRA DEVE RISCOPRIRE
di Marc Lazar *
La crisi della sinistra riformista europea oggi è oramai un’idea condivisa. Essa non ha motivo di vergognarsi del proprio passato. Ha contribuito a forgiare la democrazia e il welfare e, dunque, un’ampia parte dell’identità europea. Ciò nonostante, il suo modello di cambiamento graduale delle società nel quadro degli Stati-nazione è in via di esaurimento. La sinistra, più della destra, soffre la globalizzazione, le trasformazioni del capitalismo mondiale, il processo di individualizzazione, la sensazione sempre più ossessiva del declino del vecchio continente, le tentazioni di ripiegamento identitario sfruttate dai movimenti populisti.
La Storia dimostra che ciò che ha fatto la forza della socialdemocrazia è stata la sua capacità di adattamento alle evoluzioni delle società, il più delle volte generate esse stesse dalle metamorfosi del capitalismo. Un aggiornamento spesso difficile, nutrito da vivaci dibattiti interni sulle proposte definite "revisioniste", da Eduard Berstein (fine del secolo XIX) a Anthony Giddens (fine del secolo XX), passando per tanti altri pensatori e responsabili politici. E, tuttavia, con una domanda ossessiva dei nostri giorni al socialismo: il suo avvenire si iscrive nella linea dell’ideologia e dei suoi punti di riferimento, oppure suppone di varcare le frontiere tradizionali della sinistra e di esplorare altri orizzonti?
Per pensare la sinistra oggi e domani bisogna, più che mai, tornare alla famosa affermazione di Norberto Bobbio, per il quale il valore dell’uguaglianza traccia la linea di separazione dalla destra. La crisi economica del 2008 ha ricordato la pertinenza di quest’idea, adattata al mondo di oggi, che non significa egualitarismo, ma un’uguaglianza delle opportunità, rispettosa dei percorsi e delle aspirazioni individuali. Un’uguaglianza che deve rendere possibili non tanto degli Stati-forti, divenuti impossibili, quanto degli Stati ammodernati, regolatori e animatori, coordinati a livello europeo. Uguaglianza nel mondo e in Europa. Uguaglianza sociale tra i diversi gruppi e individui. Uguaglianza tra i sessi, mentre le donne rimangono sempre discriminate. Uguaglianza tra le generazioni, in un’Europa che subisce il complesso di Cronos, il dio greco che divorava i propri figli. Uguaglianza tra i territori, mentre oggi si approfondisce la divaricazione tra le regioni ricche e le zone più in difficoltà. Uguaglianza tra i cittadini e gli immigrati in regola che fanno ormai parte integrante della nostra Europa. Uguaglianza, ancora, in rapporto all’ambiente.
Ma c’è l’altro Bobbio, quello che nel 1955 constatava come gli intellettuali italiani sapessero perfettamente che cosa avrebbe dovuto essere la società italiana, ma ignoravano che cosa fosse. Cinquantacinque anni dopo, la sua riflessione si può allargare all’insieme dei partiti della sinistra europea, troppo chiusi su se stessi, in mano a oligarchie che stanno invecchiando, più che mai preoccupate di difendere i loro piccoli interessi. Conoscere la società nella sua complessità attuale, segnata da tendenze contraddittorie e antagonistiche, per ritrovare il popolo e, così, non lasciare più questa parola e ciò che comporta alle forze populistiche. La sinistra deve unirsi a lui in questo grido di dolore e di rabbia di cui parlava il sociologo Durkheim per definire il socialismo, ma anche in un grido di speranza, non per creare sogni che si trasformano generalmente in incubi, ma per ridare un senso alla politica. Per esempio, nell’accettare la forza della leadership nelle nostre democrazie, ma combinandola con l’estensione della partecipazione dei cittadini alla vita democratica. (traduzione di Luis E. Moriones)
LA LIBERTÀ È UN VALORE SOCIALE
di Anthony Giddens *
Nella politica di oggi la divisione tra sinistra e destra è assai meno netta che in passato, perché al capitalismo non si contrappone più un’alternativa socialista ben definita. Per di più, alcuni dei maggiori problemi che ci troviamo ad affrontare - ad esempio il cambiamento climatico, al centro di molti dibattiti contemporanei - trascendono la divisione classica tra sinistra e destra.
Eppure la distinzione ha ancora un senso. Essere di sinistra vuol dire avere a cuore alcuni valori essenziali; credere nell’importanza della solidarietà sociale, dell’uguaglianza, della tutela dei più vulnerabili, e nella «libertà sostanziale»: non solo quella economica, o la libertà davanti alla legge, ma una libertà reale per tutti i cittadini.
E significa anche attenersi a un certo quadro politico, in cui si conferisca grande importanza all’attivismo e alla capacità di intervento dei governi, necessaria a controbilanciare la tendenza dei mercati incontrollati di produrre instabilità economica e macroscopiche sperequazioni sociali, sostituendo ai valori sociali parametri puramente economici. (Traduzione di Elisabetta Horvat)
L’UGUAGLIANZA COME DIRITTO CULTURALE
di Gianni Vattimo *
La distinzione tra destra e sinistra è ancora ben viva e consiste, come sempre, nell’opposizione tra chi prende le differenze - di ricchezza, di salute, di forza, di capacità - come differenze "naturali", e parte di lì per costruire un progetto di sviluppo, proprio utilizzandole ed esasperandole; e chi invece vuole garantire una competizione non truccata, correggendo le differenze "di natura". Di qui il darwinismo sociale che ha sempre caratterizzato la destra, fino al razzismo fascista; e quello che si può chiamare il "culturalismo" della sinistra, che va oltre il dato "naturale". Il problema della sinistra è sempre stato quello di riconoscersi francamente per quel che è, come "cultura vs. natura": quando ha creduto di essere più fedele alla natura (come difesa dei diritti "naturali" o come scienza economica "vera") è sempre diventata totalitarismo. La forza della sinistra sta nel difendere il diritto di chi non ha "diritti", di chi non è "legittimato" né dalla natura (quella che sempre anche il Papa invoca) né della scienza (per lo più al servizio del potere). Il proletariato di Marx non è l’uomo "vero", è solo la classe generale, la grande massa degli espropriati che merita di farsi valere anche solo in nome del (borghese) principio democratico.
SE LA SOLIDARIETÀ NON È MAI FUORI MODA
di Jürgen Habermas *
Chi crede tuttora nella forza rivoluzionaria di autoguarigione delle crisi economiche gravita in nebulose profondità attorno al concetto del «politico», o soffia sulla «sollevazione prossima ventura». Il resto è disfattismo.
La «sinistra» deve il suo nome all’ordine degli scanni parlamentari all’Assemblea nazionale francese del 1789. Quanto al termine «socialismo», il suo significato era e rimane nient’altro che la messa in atto delle parole d’ordine della Rivoluzione francese. La libertà non può essere ridotta alla mera possibilità, per i soggetti partecipi di un sistema di mercato, di esprimere individualmente il proprio voto. Solo l’inclusione egualitaria di tutti i cittadini come co-legislatori, in un contesto di formazione di opinioni e volontà politiche informate, può assicurare a ciascuno gli spazi e i mezzi per determinare e plasmare autonomamente la propria personale esistenza.
L’uguaglianza non può essere solo quella formale davanti alla legge, ma deve comportare l’equa ripartizione dei diritti, che devono avere eguale valore per ciascuno, indipendentemente dalla sua posizione sociale. La solidarietà non deve degenerare in paternalistica assistenza agli emarginati; la partecipazione alla comunità politica con pari diritti non è conciliabile con la privatizzazione, che scarica i rischi e i costi originati a livello sociale complessivo su singoli gruppi o persone, senza indennità o risarcimenti di sorta.
E’ questo il modo in cui la sinistra intende i principi costituzionali, non certo spettacolari, che nelle nostre società democratiche informano il diritto vigente. La sinistra recluta i suoi aderenti tra i cittadini tuttora sensibili alle stridenti dissonanze tra questi principi di fondo e la realtà, da tempo accettata, di una società sempre meno solidale. Una società nella quale le élite si barricano, anche moralmente, nelle loro gated communities è fetida. I mali della sinistra rispecchiano il generale ottundimento di questo spirito normativo, e la crescente tendenza ad accettare come normale e ovvio un egoismo razionalista, che con gli imperativi del mercato è penetrato oramai fin dentro i pori di un ambiente di vita colonizzato.
Naturalmente il deficit della sinistra non è solo di tipo motivazionale, ma riguarda anche il piano cognitivo, ove si è mancato di affrontare tutta la complessità delle sfide reali - ad esempio, i rischi che corre oggi la moneta europea. Altrimenti la sinistra non si limiterebbe a lamentare la distruttività dei mercati finanziari incontrollati, ma ravviserebbe nella speculazione contro la moneta europea un’astuzia politica della ragione economica. Si attiverebbe contro l’asimmetria dell’UE, che a una completa unificazione economica affianca l’incompletezza di quella politica. E comprenderebbe infine che un’Europa democratica e solidale è un progetto di sinistra. (Traduzione di Elisabetta Horvat)
LA SFIDA DELLA SCUOLA, UN’EDUCAZIONE PER TUTTI
di Fernando Savater *
Oggi, la sinistra non può essere altro che quella che difende il concetto di società. Vale a dire, qualcosa di diverso dalla semplice giustapposizione di individui atomizzati e di interessi contrapposti in lizza. I membri di una società vedono se stessi come soci degli altri, vale a dire come collaboratori e complici di un beneficio che in qualche misura deve raggiungere tutti. La sinistra deve ricordare che la democrazia, in qualsiasi luogo del mondo, ha due nemici fondamentali: la miseria e l’ignoranza. Dove la miseria è tollerata, dove l’ignoranza non è combattuta, la democrazia si trasforma in una caricatura di se stessa. Pertanto, la sinistra - che ha già imparato che non può essere che democratica in un modo deciso e scrupoloso - deve tentare di mettere fuori legge le condizioni di povertà estrema - come a suo tempo si mise fuori legge la schiavitù - e deve far sì che l’educazione per tutti, pubblica, laica e senza esclusioni maliziose diventi il suo compito prioritario. Un’altra questione molto attuale che la sinistra deve affrontare è la crescita della corruzione sia politica che finanziaria (che normalmente agiscono insieme) e che minaccia di pervertire la democrazia in "cleptocrazia", mettendo le istituzioni o la sfera pubblica al servizio dei depredatori. (traduzione di Luis E. Moriones)
* la Repubblica, 27.12.2010
Un comitato di liberazione nazionale per sconfiggere il Cavaliere
di Carlo Galli (la Repubblica, 19.12.2010)
Il primo risultato del voto di fiducia a favore del governo è che quando si andrà alle elezioni - anticipate o meno che siano - a Palazzo Chigi ci sarà Berlusconi, e si voterà con questa legge elettorale. Che era appunto il principale obiettivo del premier, dimostratosi ancora una volta un duro e spregiudicato combattente. Ma il secondo risultato è che i suoi margini di maggioranza, e quindi di manovra, si sono paurosamente assottigliati a tre deputati (forse dieci, se i suoi ultimi proclami di vittoria si riveleranno fondati), mentre, specularmente, l’opposizione, pur restando minoranza, si è molto rafforzata. Non solo nei numeri, ma anche nella qualità. Il Terzo Polo, infatti - la convergenza tra Fini, Casini, Rutelli - può introdurre grossi elementi di novità nella dinamica politica. Prima di tutto per il suo potere di coalizione - la capacità di allearsi sia con la destra sia con la sinistra, che è propria di tutti i Centri - ; e poi perché questo è, in una prima fase, limitato. La violenza del conflitto tra Fini e Berlusconi, non rende infatti immediatamente verosimile una loro collaborazione di governo. Il Terzo Polo, almeno in una prima fase, dovrà correre da solo, o avere come unico possibile alleato il centrosinistra.
Se seguisse la sua vocazione e si presentasse in piena autonomia agli elettori, e ottenesse un accettabile successo - la quantificazione è ora del tutto prematura, ma dovrebbe collocarsi verso il 15%, o almeno con grande margine sopra il 10 - , vorrebbe dire che avrebbe intercettato un settore di elettorato moderato ma non reazionario, stanco dell’inconcludenza di Berlusconi e di Bossi, e dello sfascio sociale e istituzionale prodotto dalla destra al governo. Anche solo per questa via la presenza del Terzo Polo alle elezioni potrebbe far perdere alla destra la maggioranza al Senato. Naturalmente, contro questa ipotesi le armi di Berlusconi sono le solite: per impedire il formarsi di quel clima di normalità che rende possibile l’emergere anche di un’opinione moderata, cercherà di esasperare i toni della campagna elettorale, di trasformarla in uno scontro di civiltà per la difesa della libertà, e insomma di accentuare la polarizzazione dell’elettorato. Fra i dogmi berlusconiani c’è la convinzione che l’Italia sia un Paese strutturalmente di destra, e che sia sufficiente alzare la voce per fare emergere questa verità. Il che, finora, gli è riuscito.
Ma la legge elettorale vigente vuole che alla Camera si corra per vincere, e quindi per accaparrarsi il premio di maggioranza su scala nazionale. E qui l’alleanza del Terzo Polo con il centrosinistra si rende necessaria. Si tratta di capire se è anche possibile politicamente. A questo riguardo, un importante effetto del Terzo Polo è appunto di rendere Fini - proprio in quanto federato con Casini e Rutelli - una risorsa spendibile anche in un patto elettorale con il Pd, al quale un’alleanza solo con il leader di Fli avrebbe potuto creare non pochi problemi. Naturalmente, il Pd dovrebbe chiarire che con il Terzo Polo si tratta di stipulare un patto di carattere emergenziale, dettato non solo dalla legge elettorale ma anche e soprattutto dall’esigenza di mettere in sicurezza la democrazia in Italia con una legislatura costituente, capace di riformare profondamente la scuola, il lavoro, la pubblica amministrazione, per dare respiro e prospettive ai giovani - oggi disperati - e alle famiglie, ormai allo stremo. E anche per modificare, naturalmente, la legge elettorale, proprio per consentire, dopo l’emergenza, una più libera e normale espressione delle forze e delle dialettiche che appartengono alla storia d’Italia.
Questa prospettiva politica, per reggersi davanti agli elettorati di centrodestra e di centrosinistra che la dovrebbero avallare e premiare, deve essere animata da fortissima carica riformista, da potente afflato etico, da spiccato spirito repubblicano; e presentarsi come un nuovo Cln, come l’ultima spiaggia della salvezza nazionale. Ma può incontrare due difficoltà. La prima è data dall’evidente sua vulnerabilità da parte di coloro che, a sinistra - da Vendola a Di Pietro - , vi si sottraessero e, tenendo le mani libere, denunciassero il compromesso tra i due Poli come innaturale e sterile, come una cinica alleanza di potere, come un tradimento del bipolarismo e, ben più importante, delle stesse ragioni della esistenza di una sinistra. Un’obiezione che sarà opportuno il Pd tenga ben presente, se non altro per elaborare un’adeguata e credibile narrazione legittimante.
La seconda difficoltà sta, ovviamente, nella contro-strategia di Berlusconi - che potrebbe avere come alleate le gerarchie ecclesiastiche - di garantire una governabilità di lungo periodo riunendo i moderati (com’egli dice) in un nuovo partito Popolare, e portando Casini nell’area di governo (la Lega non fa più obiezioni) magari per garantirgli il premierato, quando il Cavaliere si farà eleggere al Quirinale. Sarebbe la fine del Terzo Polo, e la sconfitta radicale per Fini (oltre che l’inizio di un indispensabile ripensamento profondo della linea del Pd). C’è da scommettere che, nonostante le sue ultime affermazioni, se questa iniziativa verso Casini fallisse Berlusconi preferirebbe le elezioni anticipate - la seduzione in massa del popolo italiano - all’unica alternativa che gli rimarrebbe, se il Terzo Polo avesse invece successo: l’acquisto alla spicciolata di qualche deputato.
L’ANALISI
Sovranità popolare in salsa di destra
I politici del Pdl guardano alla Costituzione come ad una varia ed eventuale da mettere all’ultimo posto. Al primo, naturalmente, c’è l’elettorato. Sostenere che c’è in Italia una situazione rivoluzionaria è risibile. Semmai a dominare sono lo sfinimento e il disgusto per la politica
di CARLO GALLI *
"Troppe cose mi ricordano il ’93, la stagione dei governi tecnici. Dovremo stare attenti prima di aprire una crisi. Stanno facendo di tutto per rendermi ogni cosa difficile". Allarga le braccia, sbuffa. Silvio Berlusconi si sente accerchiato da un nemico invisibile. Chi lo ha visto o anche chi lo ha ascoltato al telefono, ha colto nel premier lo stato d’animo di chi si sente sotto assedio: pronto alla battaglia ma cosciente dei tanti ostacoli che si frappongono da qui alle elezioni anticipate. Mentre i politici di destra, anzi il popolo della libertà, guardano alla Costituzione come si conviene: come a una varia ed eventuale, da mettere all’ultimo posto nell’ordine del giorno della politica. Al primo, naturalmente, la sovranità del popolo.
Questa è la nuova linea che emerge dai comunicati con cui i capigruppo parlamentari della maggioranza hanno risposto alla durissima e ultimativa nota del Quirinale; una linea che consiste nell’ammettere a denti stretti che il potere di scioglimento delle Camere è del Capo dello Stato e non del Presidente del Consiglio, e al tempo stesso nel ribadire che egli se ne deve servire come vuole la destra, cioè nell’eventualità di una crisi di governo deve ricorrervi in pratica automaticamente. E ciò per non tradire e per non vanificare il nuovo assetto politico generato dalle leggi elettorali susseguitesi dal 1993 a oggi; che avrebbe dato vita a una democrazia presidenziale e non parlamentare, e a una nuova modalità d’espressione della sovranità popolare: non più rappresentata nel Parlamento ma incarnata in un leader e in un Verbo: il programma.
Questa ennesima contrapposizione tra popolo (con la sua voce univoca e tonante) e Palazzo (con i suoi intrighi), tra forma e sostanza - indice di una sbrigativa e qualunquistica idiosincrasia per regole e istituzioni, la stessa che proclama la ‘politica del fare’ (ma, appunto, la proclama soltanto) -, si presenta insomma come un pensiero politico, in quanto tale legittimo, che pretende però di avere efficacia costituzionale fin da subito. Il che legittimo non è, perché fra le procedure di riforma della Costituzione non è prevista la legge elettorale. Che infatti non innova proprio nulla per quanto riguarda la forma della repubblica, che continua a essere - anche se sulla scheda con cui si vota è indicato il nome di un politico - una democrazia parlamentare, e non una democrazia elettorale o plebiscitaria.
Il che significa - occorre ricordarlo perché non si tratta di forma, ma di sostanza - che con le elezioni si eleggono le Camere, non il governo; che questo non è un organo sovrano che tragga legittimazione dal popolo, ma un organo esecutivo legittimato, col voto di fiducia, dal parlamento; che rappresenta, questo sì, la sovranità popolare, e che ne è l’unica espressione legale. E quindi chi ha vinto le elezioni è un partito che ha la maggioranza alla Camera e al Senato, e non un uomo politico nominato premier a furor di popolo; e che se il partito maggioritario perde pezzi - evento anch’esso legittimo, perché i deputati e i senatori sono eletti senza vincolo di mandato, e quindi non sono tenuti, finché sono in carica, ad alcuna ‘fedeltà’ - il Capo dello Stato ha la piena e totale libertà di esplorare se ci sono nelle Camere maggioranze alternative a quella che ha vinto le elezioni, e che non c’è più: la questione non è di legittimità, ma solo di praticabilità politica dell’operazione. Ora, contrapporre a questa che è l’unica interpretazione possibile della Costituzione la volontà del popolo sovrano, che, ove non fosse riconosciuta si dovrebbe manifestare nelle piazze, non è altro che invocare la rivoluzione, cioè evocare la suprema energia politica che un popolo può esprimere, per travolgere l’ordinamento costituito con la forza irresistibile del suo potere costituente - senza ricorrere a esempi lontani e sanguinosi, qualcosa di simile ai movimenti di massa che hanno provocato il crollo del Muro di Berlino -. Ma sostenere che c’è in Italia una situazione rivoluzionaria, al di là della retorica leghista (peraltro subito rientrata), è quanto meno risibile: semmai, a dominare, non a caso, sono l’apatia politica, lo sfinimento, lo sgomento, il disgusto per la politica.
Dunque, se né la Costituzione né la situazione politica reale supportano le posizioni della destra, queste vanno considerate momenti tattici di spregiudicata intimidazione istituzionale - presumibilmente arginata, almeno per ora, - e, ancor più, forme di un discorso politico demagogico, volto a far passare nell’opinione pubblica la tesi che l’Italia è già ora una repubblica presidenziale-plebiscitaria, per poter presentare esplicitamente questo tema nel programma elettorale delle elezioni anticipate (auspicate come prossime). Questa finalità mediatico-manipolatoria - che solletica l’antiparlamentarismo qualunquistico dei cittadini, agitando fantasmi di congiure di Palazzo - la dice lunga su che cosa sia la sovranità popolare in salsa di destra: il popolo che dovrebbe imporre la propria volontà è in verità una sorta di sovrano immaginario, un corpo scosso da manipolazioni mediatiche e da una overdose ideologica di propaganda populistica; o, se si vuole, un fantasma polemico da utilizzare in tempi agitati, destinato a esprimere la propria sovranità non nella dialettica del parlamento ma nella voce e negli atti di un Capo che, solo, la rappresenta.
Sostituire le istituzioni con la propaganda, la democrazia col populismo, il parlamento col governo, è - questo sì - un sommovimento di vertice che avviene nella stagnazione e nella strumentalizzazione dei cittadini. Assomiglia anzi a quella che si definiva, un tempo, ‘rivoluzione passiva’, di cui costituisce la variante post-moderna.
* la Repubblica, 19 agosto 2010
La sovranità privata
di Carlo Galli (la Repubblica, 10.06.2010)
«Fare leggi rispettando questa Costituzione è un inferno». Certamente, alle molte e anche contrastanti definizioni di "Costituzione" mancava ancora questa: ma c’è da sperare che d’ora in poi i manuali di diritto costituzionale tengano conto anche della Costituzione come inferno, ultima delle esternazioni di Berlusconi in questi giorni.
D’accordo. Si tratta del solito espediente grazie al quale una sostanziale vittoria (il provvedimento sulle intercettazioni) viene fatta passare, in perfetto stile democristiano, per un compromesso di cui non si è soddisfatti: a ciò Berlusconi è spinto anche dal timore di esser poi travolto nella sconfitta nel caso che dal Quirinale venga uno stop alla legge. La prova di forza della "blindatura" - e a maggior ragione il pugno sul tavolo del voto di fiducia - è venata da debolezza, come ha scritto ieri Ezio Mauro. Al tempo stesso si tratta di una mossa diversiva, per aprire una polemica che distolga l’opinione pubblica sia dalla legge-bavaglio sia dalla manovra economica, due provvedimenti fortemente impopolari. E per incolpare qualcuno o qualcosa - la Costituzione, chi l’ha voluta in passato, chi la difende ora - come responsabile delle debolezze e delle contraddizioni dell’azione di governo, che vanno imputate invece alle divisioni nella maggioranza e all’uso distorto delle istituzioni, che non sono state pensate per essere utilizzate come ora avviene.
Il discorso pubblico che proviene da Berlusconi - esplicitamente post-costituzionale, e ormai anti-costituzionale - è infatti consapevolmente centrato sul trasferimento nel campo politico delle logiche imprenditoriali del "comando efficace", libero da ogni contropotere costituito, anche da quello delle norme e delle procedure. La funzione pubblica è quindi concepita come qualcosa di discrezionale, che dipende dalla volontà del Capo: non a caso egli afferma che la Protezione Civile dovrebbe astenersi dal suo dovere, in Abruzzo; e che la Rai non dovrebbe vedersi rinnovare il contratto di concessione, se non si piega ai suoi voleri.
Questo prevalere del Privato sul Pubblico viene definito da Berlusconi "sovranità": quel Privato ha infatti vinto le elezioni, e ha quindi ricevuto un presunto mandato dal popolo sovrano a governare senza limiti né controlli. A questa aberrante conclusione egli giunge poiché concepisce la sovranità come la titolarità e l’esercizio di una volontà monolitica e irresistibile (in un certo senso, come facevano i giacobini, che concentravano nelle loro mani la sovranità del popolo). È questo modo di pensare che gli fa dire che i pm e la Corte Costituzionale, esercitando le loro funzioni giurisdizionali, attentano alla sovranità; che cioè lo colloca al di fuori della dimensione costituzionalistica che la nostra democrazia si è consapevolmente data nel secondo dopoguerra. Infatti, la nostra Costituzione (non senza suscitare a suo tempo qualche perplessità, anche a sinistra) ha impiantato sul corpo della sovranità popolare l’elemento - che proviene dalla civiltà politica e giuridica del costituzionalismo inglese e americano - del controllo di legalità, da parte della magistratura, sulle azioni dei membri del ceto politico in generale, e del controllo di legittimità, a opera della Corte Costituzionale, sugli atti del Legislativo (e sui decreti dell’Esecutivo). Nessuno, nemmeno la sovranità popolare, è onnipotente: la politica si manifesta attraverso il diritto che limita, con la legge, ogni potere; e garantisce così i diritti di tutti. Se Berlusconi afferma che agire secondo la Costituzione è un inferno, evidentemente pensa che il paradiso sia il potere senza limiti: il potere privato di un padrone (in greco, despòtes), reso onnipotente dall’investitura popolare. Insomma, la sua idea di sovranità è privata e al tempo stesso assoluta: è, tecnicamente, un’autocrazia plebiscitaria. La quale oggi si manifesta con chiarezza programmatica, ma forse anche epigrammatica: come annuncio di linee d’azione "riformistiche" per l’avvenire (secondo le parole di commento di Bossi, e secondo le proposte recentissime di Tremonti sull’articolo 41), ma anche come commento conclusivo di un ciclo politico, reso "infernale" proprio dalla sopravvivenza ostinata della Costituzione.
In ogni caso, questo "discorso" - che, certamente, cela la concreta finalità di coprire specifiche persone rispetto a specifiche responsabilità in specifiche inchieste giudiziarie: una finalità parziale alla quale si sacrificano beni collettivi come l’efficacia delle indagini e la libertà dei cittadini - fa passare come ovvia la tesi che la politica consista in un comando senza controlli, purché efficace. Ed è questa tesi a distaccare gli italiani dalle radici del loro passato democratico e costituzionale (recente, ma anche ormai remoto: o almeno così pare), e a generare, proprio col suo apparente tono iperpolitico, uno specifico atteggiamento antipolitico, cioè quell’analfabetismo civile che afferma qualunquisticamente che solo i fatti contano, e che le regole sono soltanto pastoie che frenano l’agire dei governanti. Una tesi, quella espressa da Berlusconi, che ha almeno il merito della chiarezza; e che individua un fronte di conflitto politico dal quale sarà difficile sottrarsi, anche per chi lo volesse: il fronte che vede da una parte chi lotta apertamente contro la forma e la sostanza della Costituzione, e dall’altra chi la difende, consapevole che in questa difesa - si spera non rassegnata, né di maniera - consiste ormai la sostanza della nostra democrazia.
Zagrebelsky: potere, stato e chiesa
L’ultimo libro del giurista affronta il rapporto fra politica e fede nel governo dell’uomo
La ricostruzione storica mostra quando si spezza l’alleanza tra trono e altare
Il saggio rivela l’esigenza di una riscoperta delle caratteristiche della laicità
Nelle democrazie moderne le due entità non possono venire sovrapposte e serve un pluralismo
di Carlo Galli (la Repubblica, 18.03.2010)
Merito del libro di Gustavo Zagrebelsky (Scambiarsi la veste. Stato e Chiesa al governo dell’uomo, edito da Laterza, pagg. 160, euro 16) è di afferrare il bandolo di quella complicata matassa che è il ritorno politico della religione - in cui si intrecciano la crisi dello Stato democratico, l’emergere di una diffusa indifferenza verso la religione, ma al tempo stesso anche la ricerca di un supplemento d’anima per una politica sempre più spezzettata, irrazionale, instabile - , e di ricostruire in una sintesi agile, informata, incisiva, la tormentata vicenda del dualismo occidentale fra potere e religione, misurando così le ragioni strutturali del problema.
Quel dualismo fra Stato e Chiesa nacque con l’affermazione - risalente a papa Gelasio, alla fine del V secolo - che la Chiesa, originariamente capace di politica (Cristo ha salvato l’umanità intera nel mondo, non i singoli uomini nel chiuso delle loro coscienze), è altra e superiore rispetto al potere politico mondano: nel disegno della Chiesa il dualismo serviva a creare una gerarchia, a proprio favore; il cristianesimo era la precondizione dell’esistenza politica - essere cristiano e essere cittadino erano la medesima cosa - , e quindi anche della legittimità dei poteri civili. La laicità, quindi, nasce nel mondo cristiano, ma indirettamente; non è una concessione della Chiesa né un esito immediato della religione, ma il risultato di una lotta di lungo periodo contro la pretesa di supremazia che la caratterizza da sempre.
Una pretesa che Zagrebelsky ripercorre nelle sue varie forme - la ierocrazia medievale, e la teoria moderna di Bellarmino della potestas indirecta, ossia l’offerta di sostegno ai re e la parallela affermazione che i cattolici possono essere chiamati dal papa a disobbedire ai loro governanti - . La modernità politica spezza proprio questa alleanza fra trono e altare, e la Chiesa entra in conflitto frontale con il mondo moderno e la sua politica: l’Ottocento è così segnato dal rifiuto del liberalismo e della libertà che questo offriva alla religione (libera Chiesa in libero Stato). Ma nonostante questo arroccamento politico e dottrinario la Chiesa si aprì verso la società, per mobilitare masse cattoliche tendenzialmente antistatali, e per non lasciarle al socialismo; alla fede ormai non più coincidente con la cittadinanza sostituì, con la Rerum Novarum di Leone XIII, la propria dottrina sociale quale centro di una strategia di riappropriazione della politica. La Chiesa inizia così a proporsi come indispensabile non solo per la salvezza ma anche per tenere unita la società che l’insipienza e l’ingiustizia dei laici compromette alle radici.
La conciliazione, brevissima, col Moderno è vista da Zagrebelsky nel Concilio Vaticano II, in cui la Chiesa si rivolge a tutti gli uomini di buona volontà, e chiede di potere servire l’umanità, di difenderne la dignità e i diritti alla luce dell’insegnamento evangelico; il pluralismo delle opinioni politiche e sociali è accettato, e ci si apre anche all’idea della libertà religiosa. Ma, nota Zagrebelsky, il problema sta nel mai allentato rapporto della Chiesa con la Verità: un rapporto che la rende un ospite assai ingombrante nella democrazia, che può facilmente apparire alla Chiesa come nichilismo e instabilità, e destinata alla dissoluzione, se non interviene la Chiesa stessa, come una teologia civile o politica, a sostenerla.
Nell’ormai matura crisi dello Stato moderno, ecco quindi, da Giovanni Paolo II in poi, lo scambio di veste fra Chiesa e Stato - entrambi in gara per governare razionalmente gli uomini - , a cui allude il titolo del libro. Non più ostile in linea di principio alla politica della ragione, la Chiesa con Benedetto XVI (il discorso di Ratisbona) pretende di incarnare in sé la ragione umana al suo grado più alto, di essere l’erede della filosofia greca (intellettualmente preferita alla radice ebraica) e della riflessione filosofica non corrotta (cioè non protestante, non individualistica, non razionalistica): di essere insomma veramente razionale (non razionalistica), veramente laica (non laicista), veramente politica, oltre che veramente salvifica. Verità e ragione si unificano, nella teologia politica cattolica, contro la "dittatura del relativismo", a riaffermare un protettorato cattolico sulla società, della quale la Chiesa rivendica di essere l’origine e la sintesi, sempre operante e vigilante: ancora una volta, extra Ecclesiam nulla salus, fuori dalla Chiesa non c’è salvezza.
Questa struttura pedagogica agisce in nome della Verità (come anche l’ultima enciclica mostra già nel titolo), e quindi potenzialmente relega nell’errore chi non è d’accordo (costringendolo a vivere, appena tollerato, in un mondo dai cui principi è escluso, o nei quali è assimilato); il papa chiede che tutti si comportino come se Dio esistesse, e fosse il fondamento della società. Dopo la stagione conciliare di "credere senza appartenere", oggi i religiosi e anche parecchi laici (gli "atei devoti") vogliono che la politica si svolga all’insegna di un appartenere senza credere, che trasforma la cittadinanza democratica in una sorta di comunità a sfondo confessionale.
Zagrebelsky con forza non settaria pone in evidenza la difficoltà del dialogo fra laici e cattolici, su queste basi; la religione di cui la democrazia ha bisogno accetta infatti il relativismo, il pluralismo, mirando all’unica verità che la democrazia riconosce, l’umanistica affermazione della libertà, dell’uguaglianza, della responsabilità e dell’autonomia. Insomma, la democrazia chiede che gli uomini si comportino politicamente come se Dio non esistesse, e che trovino in se stessi - e non in fondamenti autoritari - la forza di essere liberi e giusti. La democrazia non ha paura di essere priva di fondazioni metafisiche; questo vuoto, infatti, è la condizione stessa della sua missione, che consiste nel far fiorire le contingenze particolari, i progetti di vita degli uomini e delle donne, in uguale dignità e libertà.
Dobbiamo quindi essere grati a Zagrebelsky per la chiarezza e la serenità con cui mostra la distanza - il non possumus laico, speculare ai diktat della Chiesa su tanti aspetti della vita sociale e politica - fra l’attuale posizione della Chiesa e la democrazia. Una distanza - il vero volto del dualismo occidentale - che, mentre indica l’esigenza di una radicale riscoperta delle caratteristiche imprescindibili della laicità, enfatizza la non sovrapponibilità fra politica e fede, fra sfera mondana e sacro, e mette in tensione libertà e obbedienza, rifiutando vecchi e nuovi fondamentalismi.
La controversia sulle elezioni regionali porta alla
luce due concezioni opposte della politica e del diritto
Porre in contrasto il diritto al voto con l’ordinamento vigente non è filosofia politica, ma la solita emergenza quotidiana
La teoria "contenutistica" che vede nel popolo il "sovrano assoluto" è in concorrenza con il costituzionalismo
di Carlo Galli (la Repubblica, 11.03.2010)
Un triste destino ha colpito le due categorie centrali della metafisica occidentale, sostanza e forma. Dal loro significato originario - elaborato da Platone e Aristotele - , che indicava rispettivamente il fondamento di tutto ciò che è, e gli schemi razionali del suo configurarsi, sono giunte a essere sinonimo, nell’attuale discorso pubblico italiano, di "contenuto reale" e di "apparenza superficiale". Un impoverimento che ha anche un forte valore polemico, e che riprende, semplificandola e distorcendola, una dialettica autentica che si è storicamente manifestata - con altri nomi e altri concetti - all’interno della teoria politica. Infatti, la politica non si esaurisce certo nelle forme giuridiche, nella norma, nella procedura, nelle istituzioni. E soprattutto la democrazia è anche sostanza: implica infatti, alla radice, la pienezza del popolo, la sua presenza sulla scena politica come identità, come fonte della sovranità, come origine e fondamento del potere.
C’è, nella teoria democratica moderna l’esigenza che il popolo sia una unità politica originaria, immanente, autonoma e autosufficiente, che precede ogni forma istituzionale e giuridica: questa democrazia sostanziale si presenta come potenza della moltitudine in Spinoza, come rinnovamento morale dell’uomo e della società in Rousseau, come emergere di una forte conflittualità in Sorel, e come radicale avversione per le istituzioni nel marxismo rivoluzionario: in questi casi, pur così lontani tra di loro, la forza del popolo non conosce se non quei limiti e quelle forme che pone da sé, in via provvisoria e transitoria, sempre pronta superarli, a travolgerli. Il popolo, qui, è potere costituente, energia che non si neutralizza mai del tutto; è legittimità, sempre in grado di forzare la legalità; è un Bene che si impone assolutamente, un Valore che si afferma, con una voce corale e collettiva.
Questo modo sostanziale e radicale di pensare la democrazia è in concorrenza per tutto il corso della modernità - e nel XX secolo alimentò il confronto fra due giuristi come Schmitt e Kelsen - con la democrazia liberale e costituzionale, che differisce dalla prima su due punti. Innanzi tutto, è intrinsecamente limitata, poiché valuta come Bene fondamentale i diritti dei singoli, in regime di uguaglianza; e al fine di salvarli e promuoverli incanala il potere entro le forme e le procedure delle istituzioni repubblicane. Inoltre, questa democrazia riconosce sì al popolo la titolarità originaria della sovranità, ma non gliene consente l’esercizio diretto. La democrazia liberale è quindi rappresentativa, non identitaria, e prevede che la voce del popolo si articoli in una pluralità di opinioni, all’interno di un’istituzione che nel dialogo trova la propria ragion d’essere: il parlamento - contro il quale si rivolgono le polemiche di Rousseau, di Sorel, di Marx e di Lenin - . In questa democrazia il potere del popolo, la sostanza, non si dà senza la forma, e soprattutto non può mai trascenderla. Il che significa che la legittimità deve farsi legalità, che il potere costituente non può non istituzionalizzarsi in potere costituito. Non esiste alcun potere assoluto, neppure quello del popolo - meno che mai quello dei suoi rappresentanti, o del governo - .
Il liberalismo seicentesco di Locke e quello ottocentesco di Mill, oltre alla tradizione del costituzionalismo inglese e nord-americano, stanno alla base di questa accezione della democrazia, che ispira anche le costituzioni contemporanee. Ma non è una democrazia inerte, apatica e relativistica, non persegue la piena giuridificazione tecnica, formalistica e procedurale della politica, non esclude passioni e sentimenti, valori e speranze; vive anzi della dialettica tra le dimensioni del diritto e del potere, tra forma e sostanza, fra legalità e legittimità. E nel nostro tempo la sostanza della democrazia, del potere del popolo, sono i valori dell’umanesimo laico e cristiano, liberale e socialista, incorporati nella Costituzione. Sono lo sforzo all’inclusione, alla partecipazione (anche in senso elettorale), all’uguaglianza reale. Sono gli interessi legittimi e i loro conflitti, la dignità del lavoro e delle professioni, le fatiche e le speranze dei cittadini. Ma tutto ciò può valere e essere difeso nelle forme del diritto, che sono ormai pienamente democratiche.
La contrapposizione tra sostanza e forma, infatti, è stata risolta in quell’autentico caso d’eccezione che fu l’instaurazione dell’attuale ordinamento giuridico-politico, fra il 1943 e il 1948; lì c’è stata la decisione sovrana del popolo, che ha affermato come legittimo il proprio potere e gli ha dato la forma costituzionale attuale.
Quindi mettere oggi in contrapposizione forma e sostanza - come se la prima fosse nulla, senza capire che è invece il modo d’essere della sostanza - è usare il caso d’eccezione non per creare ma per distruggere: nessuna sostanza politica, oggi, può affermarsi contro la forma costituzionale, o fuori di essa; neppure il diritto di voto può essere contrapposto all’ordinamento (come si è tentato di fare, poiché non si sono volute perseguire altre vie). La democrazia della sostanza, oggi, è una democrazia informe e illegale; non potere del popolo ma conato di populismo; non ordine, ma la solita emergenza quotidiana.
Intervista a Carlo Galli: tre libri per spiegare cosa resta della politica
Destra sinistra e il demone Carl Schmitt
"Il criterio per distinguerle non può più essere la contrapposizione libertà-autorità" Ordine e disordine sono categorie che vanno ripensate alla luce di quello che è accaduto
di Antonio Gnoli (la Repubblica, 04.02.2010)
Sono ben tre i libri che parzialmente o interamente rimandano a Carlo Galli, filosofo della politica che insegna all’Università di Bologna.
Il primo è Genealogia della politica che il Mulino ristampa a distanza di 15 anni. Si tratta di un lavoro monumentale su Carl Schmitt, un’opera imprescindibile per chiunque intenda mettere le mani su questo controverso giurista che appoggiò la causa del nazismo, ma la cui esperienza teorica non può ridursi alle nefandezze di quel regime.
Il secondo è un volumetto proprio di Carl Schmitt su Cattolicesimo romano e forma politica, edito sempre dal Mulino con una postfazione di Carlo Galli. Pubblicato nel 1923, l’opera è un grande omaggio alla Chiesa cattolica, alla sua capacità di adattamento, restando fondamentalmente se stessa. Ma è altresì un’analisi del suo potere che non può, spiega Schmitt, fondarsi su mezzi economici ma su di una esperienza giuridica che ne fanno la vera erede della giurisprudenza romana.
Infine un terzo libro, in uscita dall’editore Laterza, che Carlo Galli ha scritto sul concetto di destra e sinistra.
Mi chiedo se c’è un filo che unisca questi tre lavori: «Direi», risponde Galli, «la passione per la radicalità del ragionamento politico, per il gesto teorico che ha la capacità di ricondurre la complessa fenomenologia della politica alle sue origini. In certi momenti, penso, sia più importante sparigliare saperi consueti e consunti che seguire opinioni tramandate e ricevute».
Le sue analisi hanno poco di conformistico. Ma è ancora attuale riproporre oggi quel testo di Schmitt dai toni trionfalistici sulla missione della Chiesa?
«Certamente quel trionfalismo non credo interessi più le gerarchie, benché queste non siano particolarmente devote al concilio Vaticano II. Per Schmitt la politica è creare forma - sempre transitoria e minacciata - a partire dal disordine del mondo. Ora la "burocrazia dei celibi", come Schmitt chiama la Chiesa, è la maestra di questa creazione d’ordine, molto prima e molto meglio dello Stato moderno».
La Chiesa, agli occhi del giurista, era la sola che potesse arginare la catastrofe che la civiltà moderna aveva innescato. Ma in che modo sarebbe stato possibile?
«Per Schmitt senza rappresentazione dall’alto (come d’altro canto senza conflitto) non c’è politica. E lui era convinto che la civiltà moderna, sebbene tutta centrata sulle immagini, e sull’immagine dell’uomo, non sa rappresentare».
Il Parlamento è una forma di rappresentazione.
«Non per Schmitt, il quale riduceva la rappresentazione del parlamento a chiacchiera e vedeva solo nella Chiesa la forza per frenare quella catastrofe cui lei alludeva».
Date queste premesse, perché a un certo punto a sinistra ci si è innamorati di questo pensatore che è difficile non collocare a destra?
«Schmitt, più di ogni altro, coglie la radicale indeterminatezza della politica moderna. Il "politico" è appunto la politica come energia che opera nel disordine e mai definitivamente racchiudibile in una forma giuridica. Una potenza che può essere trattata solo con la decisione e non con la ragione. Schmitt era convinto che il mondo mai e poi mai sarebbe stato a misura d’uomo. Ai suoi occhi contava solo ciò che i rapporti di potenza di volta in volta disegnano. È chiaro che per non avere neppure tentato di riflettere su una politica umanistica egli va ascritto ai pensatori di destra. Il che non toglie che sia stato doveroso conoscerlo, senza farsene una bandiera, anche a sinistra. La sfida che egli ha portato all’umanesimo - ingenuo o sofisticato - che è o dovrebbe essere l’emblema della sinistra, è tutt’altro che banale. Quindi fu giusto misurarsi col suo pensiero, aprirsi alle sue vertiginose prospettive e alle sue tragiche durezze. L’importante fu non aderirvi oltre che condannarne le aberrazioni».
Su destra e sinistra lei aggiunge un nuovo libro. In che misura il suo lavoro si distacca da quello che Bobbio dedicò parecchi anni fa all’argomento?
«La mia tesi è che sinistra e destra sono due modalità in cui necessariamente si presenta la politica moderna. Il criterio per distinguerle non può essere quello consueto che contrapponeva la libertà all’autorità, o la tradizione al progresso, o la collettività all’individuo (dove i primi termini sarebbero riferiti alle sinistre e i secondi alle destre). Queste antitesi sono tutte perfettamente rovesciabili: ci sono destre progressiste che puntano sullo sviluppo e sinistre che teorizzano la decrescita; ci sono destre comunitarie e sinistre liberali, concentrate sull’autonomia dell’individuo; destre che esaltano la libertà e sinistre che credono, o hanno creduto, in una qualche autorità. Quanto alla proposta di Bobbio - che sia l’eguaglianza a costituire il discrimine tra la sinistra che la propugna e la destra che la nega - è parecchio più attuale e comprensiva. Io ho cercato di andare oltre questa asserzione e di individuarne la causa nel modo stesso con cui la politica moderna originariamente si presenta. Ossia nella sua indeterminatezza».
In che senso intende che la politica alla sua origine è indeterminata?
«Intendo che la novità davvero epocale del pensiero politico moderno, nelle sue versioni più consapevoli, consiste nel non fare più ricorso a una idea di Ordine dato, rispetto al quale misurare il bene e il male, il giusto e l’ingiusto. La verità è che la politica non ha nessuna misura intrinseca e che il suo ambiente è il grande caos del mondo, lo stato di natura in cui tutto è possibile. Nondimeno in questo caos c’è un seme di ragione, di libertà, di uguaglianza, ossia l’uomo, che deve essere salvaguardato e sviluppato nell’ordine politico».
Lei rovescia l’opinione abbastanza diffusa che è la destra ad amare l’ordine e la sinistra il disordine. Come è giunto a questa conclusione?
«L’amore della destra per l’ordine è proporzionale alla percezione che esso sia continuamente minacciato, che sia cioè instabile e infondato. E, aggiungerei, la destra sa anche presentarsi come la potenza che più radicalmente assume questa infondatezza. Mentre la sinistra deve il suo pedagogismo e il suo costruttivismo, e anche la propria tendenza a modificare radicalmente le condizioni del mondo storico, proprio all’idea che si debba liberare e sviluppare un dato di valore normativo: l’uomo nella sua complessità e pluralità»
Ma ha ancora senso la coppia destra/sinistra, o è una sopravvivenza lessicale senza più contenuto specifico?
«La sua efficacia sta nel fatto che anche in un contesto politico per molti versi post-moderno la posta in gioco sembra essere sempre la medesima: da una parte la destra resta attaccata alla consapevolezza che il reale è un caos infinitamente plasmabile, un disordine che impone di adattarsi in ogni modo ai rischi e ai pericoli sempre insorgenti. Mentre la sinistra - quando è all’altezza del proprio compito e della propria storia - vorrebbe sviluppare il lato normativo della modernità, ossia vorrebbe centrare la politica su un set di valori inderogabili che hanno come riferimento l’umanesimo moderno».
All’attuale crisi della sinistra corrisponde il tentativo della destra di creare una nuova egemonia. È possibile che la destra si doti di una cultura all’altezza delle sue ambizioni?
«La destra ha già creato una nuova egemonia, non grazie ai partiti ma all’uso combinato delle televisioni e alla capacità di azzerare - nello spazio virtuale della rappresentazione televisiva - ogni riferimento politico diffuso a linee di continuità, a brusche fratture, a lotte ideali per costruire la democrazia. Voglio dire che la dimensione storica è sostituita dai casi personali, dagli aneddoti privati schiacciati sul presente nel quale il mondo è percepito come una sorta di giungla pericolosa in cui tutto è permesso per difendersi e affermarsi. Un mondo che non è a misura d’uomo, ma di altre entità che lo sovrastano e gli dettano legge a cui si deve adattare: il mercato, la competizione geopolitica, l’identità culturale e religiosa. Sì, la destra la sua egemonia l’ha costruita, tanto quanto la sinistra l’ha perduta».
L’assedio al Pd tra il Bene e il Male
di Carlo Galli (la Repubblica, 19.12.2009)
Una nuova, elementare teologia politica sembra stia sostituendo il discorso pubblico democratico nel nostro Paese. Tutte le forme del conflitto politico e dell’antagonismo sociale sono in via di sparizione. Non ci sono più il concorrente, l’avversario, il nemico esterno, ovvero i simboli in cui prendono corpo le tipologie di lotta (economica e politica) che possono trovare posto e legittimazione nella moderna civiltà liberale, e nella nostra Costituzione. È in via di trasformazione anche la figura novecentesca del nemico interno, ideologico, da osteggiare perché portatore di una visione del mondo che non può trovare collocazione nel nostro stesso spazio politico. Ormai, la politica viene spiegata attraverso un apparato categoriale estremo e rudimentale al contempo, come il confronto mortale tra Amore e Odio.
Questa suprema semplificazione - che ha in realtà radici tanto nelle fiabe e nel repertorio popolare antico e moderno quanto nelle cupe fantasie del pensiero controrivoluzionario, o nella bruciante denuncia del totalitarismo di Orwell in 1984 - non appare oggi nella politica italiana, ma ne è diventata l’epicentro dopo l’aggressione milanese a Berlusconi. Il crimine di uno squilibrato - un atto che è ovvio punire penalmente, come è ovvio solidarizzare umanamente con la vittima - è stato ed è utilizzato per bollare come criminale l’opposizione al premier; una immotivata e folle avversione personale è stata promossa a emblema della lotta politica contro le politiche della maggioranza, il cui potere è stato definito Bene, e Male ciò che vi si oppone.
Oltre la criminalizzazione dell’avversario, siamo alla sua demonizzazione, alla squalificazione non solo etica ma anche ontologica. La dimensione giuridica - che fa sì che un reato sia un reato, mentre una critica è una critica: illecito il primo, lecita la seconda - è risucchiata e annichilita in una teologia manichea che si propone come chiave di lettura onnicomprensiva della dinamiche politiche: tutto si confonde con tutto, tutto deriva da tutto, tutto conduce a tutto; il pensiero e l’azione si trovano sul medesimo piano, inesorabilmente inclinato verso l’abisso: verso il sangue, la violenza, il terrorismo anarchico. Non ci sono distinzioni ma solo gradazioni nel Male: è Male il semplice opporsi al Bene, in qualunque forma ciò avvenga. La metafora del clima (il "clima di odio"), oggi vincente, lo dice: il clima è appunto l’insieme dei fenomeni atmosferici e anche la generica predisposizione verso una certa loro tipologia (clima buono o cattivo). Con una simile concettualità si può rendere chiunque responsabile di qualunque cosa, o almeno si può sostenere la possibile pericolosità, diretta o indiretta, di ogni comportamento non conforme.
Le leggi che limitano la libertà di espressione, i provvedimenti speciali, pendono minacciosi sugli oppositori. Ma tutto ciò è Bene, è la forza dell’Amore. Del Male c’è però una speranza di perdono: si chiama dialogo, collaborazione parlamentare per rifare la Costituzione. Dissolve il clima di odio e assolve da molti peccati. Il piccolo prezzo da pagare per l’indulgenza, la penitenza dopo tutto mite a cui l’opposizione si deve assoggettare, è di collaborare (o almeno di non ostacolarle efficacemente) ad alcune leggi volte a garantire l’impunità personale al premier (dal legittimo impedimento al Lodo Alfano costituzionalizzato) e il controllo della magistratura all’esecutivo (la separazione delle carriere e la "riforma della giustizia"). Se ciò non avverrà, se il Pd non saprà essere "autonomo" e presterà ancora orecchio alle lusinghe di Satana (Di Pietro, Repubblica), la reazione sarà durissima: il Male sarà condannato senza remissione, e l’intero sistema giudiziario sarà spazzato via dal "processo breve", che non sarà difficile, per chi controlla tutte le televisioni, presentare come giusta risposta all’esigenza di rapida giustizia che accomuna tutti gli italiani.
Non si è tratteggiata una caricatura; e del resto non c’è nulla da ridere. La situazione italiana è davvero questa: la costruzione mediatica di un’egemonia culturale pressoché incontrastata, o comunque subìta, dispiega tutta la propria potenza per creare un mondo artificiale che deve far velo a quello reale, che deve negare l’evidenza, ossia l’esistenza di un’Italia non di destra e non berlusconiana, e neppure terrorista o incline alla violenza, di una società che si sforza di essere libera e che dispiega le proprie capacità critiche in un pubblico dibattito, e quindi anche attraverso i giornali (alcuni) e le case editrici (alcune). L’obiettivo è evidente: delegittimare la base sociale e intellettuale dell’opposizione, tagliare i ponti fra la società e il palazzo, intimidire le forze che costituiscono la linfa vitale del Pd, in modo che questo, nella sua attività politica, sia sempre più isolato nella sua condizione di minoranza parlamentare. E questo isolamento, questo allontanamento dall’opinione della sua base, dovrebbe essere chiamato "autonomia".
Certo, la pressione sul Pd è davvero enorme: se cede verrà punito alle elezioni regionali, in favore di Di Pietro; se resiste rischia di produrre gravi lacerazioni al proprio interno. Eppure è in questo crinale che si deve dispiegare un’azione politica forte: che è non cercare di parlare d’altro (dei "veri problemi degli italiani", come se rifare la Costituzione in queste condizioni e con questi prezzi non fosse un problema di tutti), ma appunto parlare delle medesime cose di cui parla la destra, criticandole e demistificandole senza timidezze. Di fornire una contro-interpretazione della vulgata corrente sul Bene e sul Male, e di provare a inserirsi nuovamente nel discorso pubblico, senza rassegnazioni e anzi con la volontà di rovesciarne i termini. Di affermare la critica contro i miti, la ragione contro le fiabe, la forza della democrazia liberale contro la paura e contro i rischi di una democrazia "protetta".
La sovranità ad personam
di Carlo Galli (la Repubblica, 24 novembre 2009)
L’accorato appello di Carlo Azeglio Ciampi ci porta - con la sua altissima risonanza emotiva - a una stagione morale della politica che sembra ormai remota: la stagione della democrazia costituzionale e della repubblica parlamentare. Ci riporta al suo pathos per la libertà e al suo ethos di rispetto delle istituzioni, presidi della vita collettiva e del suo ordinato svolgimento secondo l’uguaglianza e il diritto (per non parlare della decenza). Una stagione che si pretende trascorsa e ormai finita, sostituita da un’altra, nuova e ormai alle porte, di cui si celebra l’avvento; una stagione che andrebbe riconosciuta nella sua ineluttabilità, e che meriterebbe il sacrificio della costituzione formale, ormai obsoleta, che dovrebbe essere adeguata alla splendida aurora della nuova costituzione materiale. Il cui contenuto fondamentale sarebbe un innovativo esercizio - libero, diretto e costituente - della sovranità popolare, che potrebbe oggi finalmente esprimersi senza la mediazione soffocante delle istituzioni, senza il vincolo della Legge, senza l’ossessione per l’ordine costituito.
E l’occasione per questo spontaneo manifestarsi del popolo e della sua volontà sovrana sarebbe data dalla persona empirica e singolare di Silvio Berlusconi, il presidente del Consiglio che appellandosi a essa intende sottrarsi - con tutti i mezzi che la fantasia dei suoi avvocati e dei suoi ministri può escogitare - alla legge ordinaria, alla comune uguaglianza giuridica che lega tutti i cittadini di una nazione democratica. Una eccezionalità, una straordinarietà, che gli sarebbero dovute in virtù del suo essere primus super pares fra i ministri (qualunque cosa ciò significhi), nonché direttamente votato dal popolo non come deputato - che rappresenta tutta la Nazione, come ogni altro parlamentare eletto - ma direttamente come capo del governo. Un cortocircuito fra potere esecutivo e popolo, dunque, che taglia fuori il potere legislativo, il Parlamento, spodestandolo, nella gerarchia dei poteri dello Stato, dal primo posto che gli compete nelle costituzioni moderne. Un cortocircuito, soprattutto, che dovrebbe sollevare il primus, l’Eletto, oltre l’ordinamento giuridico normale, garantendogli un’esenzione speciale dalla Legge; non importa se con norma ordinaria o costituzionale, se agendo sulla durata dei processi o sulla prescrizione: l’importante è che il cittadino Berlusconi, l’imprenditore privato di enorme successo e di immensa ricchezza, non venga toccato da processi.
Insomma, il potere del popolo - terribile e irresistibile fondamento di ogni legittimità politica - si condensa in un’unica epifania, in una manifestazione gloriosa strettamente individuale; il potere costituente, che rade al suolo gli ordinamenti costituiti e ne crea di nuovi, deve incaricarsi di ridisegnare l’equilibrio dei poteri dello Stato per il vantaggio di una sola persona; il caso d’eccezione deve diventare permanente, quotidiano e al contempo perenne, e garantire lo sfondamento dell’ordinamento a beneficio di uno solo. C’è, evidentemente, una sproporzione grottesca tra la causa e l’effetto, fra i principi e la realtà. Da una parte si evocano le categorie più forti della filosofia politica e della scienza giuridico-costituzionale moderna - appunto, la sovranità popolare, il potere costituente, il caso d’eccezione; chissà, la stessa rivoluzione - ; dall’altra l’obiettivo è tutto sommato modesto: una vicenda personale che il rilassarsi della democrazia e lo spregiudicato populismo di Berlusconi stanno trasformando in una tragedia repubblicana.
È questo squilibrio a mostrare, da solo, l’inconsistenza delle tesi che intendono nobilitare con motivazioni storico-politiche i frenetici tentativi di parte della maggioranza di salvare Berlusconi dai suoi processi (che non sono più di cento, ma meno di venti) che da anni subisce come imprenditore e che da anni contrasta con innumerevoli leggi a proprio vantaggio (come questo giornale ha documentato inoppugnabilmente). Tutti i superamenti dell’ordinamento formale e del potere liberale di cui si parla, tutte le potenze concrete, i momenti materiali della politica, hanno senso se hanno a che fare con obiettivi pubblici, universali: se anche la destra vuole diventare rousseauiana e mostrare un improvviso amore - forse sospetto e certamente pericoloso - per la sovranità popolare nella sua forma assoluta, non sarebbe male si ricordasse che la Volontà generale è tale perché vuole solo ciò che è generale, non perché vuole gli interessi particolari; che il caso d’eccezione è una violazione della Legge per un Valore pubblico supremo (la salvezza dello Stato, la salus populi, o qualche altra motivazione d’emergenza di carattere generale) e non per una vicenda di corruzione in atti giudiziari; che le rivoluzioni sono l’evento più pubblico e politico che ci sia, e che non si fanno per vicende personali.
E infatti nessuno ha inteso rivoluzionare alcunché col votare Berlusconi, ma soltanto eleggere un deputato che in seguito è stato incaricato dal Capo dello Stato di formare un governo, che ha avuto bisogno del voto di fiducia del Parlamento. Si deve contrastare la pretesa che l’on. Berlusconi sia stato eletto dal popolo capo del governo, e che goda perciò di uno status privilegiato: ciò non è vero.
La mitizzazione dei momenti forti in cui si fondano gli ordinamenti è un’evocazione equivoca e
fuori posto: la sovranità popolare - valore supremo della democrazia, che nessuno intende discutere
non è a favore di un singolo ma di tutti i cittadini in regime di uguaglianza; non è una coperta da
tirare da una parte, ma il presidio della libertà di tutti; non è un fantasma da evocare a piacimento
ma un bene da difendere e da garantire attraverso le libere istituzioni della democrazia
repubblicana. E la salvezza dello Stato e del popolo non sta nell’infrangere le norme, e nell’inventare
modi per sottrarsi ai processi, ma, al contrario, nella determinazione costante di restituire il Paese
all’ordine della legalità, che coincide, anziché esservi contrapposto, con l’ordine della legittimità, e
di ritornare alla sana distinzione fra privato e pubblico, fra diritto penale e diritto costituzionale, che
distingue uno Stato libero da uno Stato patrimoniale, e una nazione di cittadini da una di sudditi.
Per il presidente della Camera "si tratterebbe di una questione
di rispetto dell’esecutivo nei confronti del parlamento"
Finanziaria, Fini: "No alla fiducia
su maxiemendamento governo"
E respinge il ’presidenzialismo di fatto’: "Lusso che non possiamo permetterci"
"Serve equilibrio tra i poteri dello Stato, senza mortificare alcun ruolo" *
ROMA - No del presidente della Camera Gianfranco Fini a una eventuale fiducia alla legge finanziaria utilizzando il solito meccanismo del maxiemendamento: "Il presidente della Camera sarebbe in grossa difficoltà se la fiducia non fosse posta su un testo che esce dalla commissione ma su un maxiemendamento del governo", afferma la terza carica dello Stato.
Presentando un libro nella Sala del Mappamondo alla Camera, in vista dell’imminente esame della manovra finanziaria, Fini ha spiegato che se il governo ponesse la fiducia su un maxiemendamento questo significherebbe "per il Parlamento non poter svolgere il suo compito. Non tutte le fiducie hanno lo stesso impatto politico, in questo caso si tratterebbe di una questione di rispetto del governo nei confronti del parlamento".
Riforme. Fini respinge dunque qualunque ipotesi di "presidenzialismo di fatto": "E’ vero, da qualche tempo c’è una sottolineatura del ruolo dell’esecutivo: io non considero questo negativo, non sono un cultore dell’assemblearismo, ma se si accentua il ruolo dell’esecutivo dobbiamo anche rafforzare il controllo parlamentare e il ruolo del parlamento".
"Non possiamo stare così come siamo adesso, è un lusso che non ci possiamo permettere - ha concluso Fini -. Io non inorridisco davanti alla parola presidenzialismo, una democrazia deve essere rappresentantiva ma anche governante, mi rifiuto di mettere in contrapposizione questi due termini. A un capo dell’esecutivo forte deve corrispondere un Parlamento forte, non si stabilisce un equilibrio se si mortifica il ruolo dell’uno o dell’altro".
* la Repubblica, 25 novembre 2009