GIOVANNI FALCONE, PAOLO BORSELLINO, ANTONINO CAPONNETTO. UN URLO PER L’ITALIA E PER LA COSTITUZIONE
L’INNO DI MAMELI (Sito della Presidenza della Repubblica).
FLS
Il coraggio non cancella la paura
Per Nino Di Matteo la guerra si vince se non si scende a patti con il nemico (né con se stessi)
di Corrado Stajano (Corriere della Sera, 27.05.2015)
«Io resto al mio posto, non mi rassegno a questo stato di cose. Soffro tremendamente le limitazioni della mia libertà, nel tempo divenute sempre più pressanti, ma ho anche buoni motivi per reagire allo scoramento e alla stanchezza mentale». A esprimersi così è Nino Di Matteo, pubblico ministero del processo sulla trattativa Stato-mafia in corso a Palermo, l’uomo più odiato da Cosa nostra, il magistrato che Totò Riina vuole morto.
Con il giornalista Salvo Palazzolo, Nino Di Matteo è autore di Collusi. Perché politici, uomini delle istituzioni e manager continuano a trattare con la mafia, appena pubblicato dalla Bur (pagine 186, e 16,50). Il libro è un documento prezioso non soltanto per conoscere a fondo le pratiche della trattativa con i poteri criminali, comportamento devastante per uno Stato di diritto, anche se non sembra che il dibattimento in corso venga seguito con la dovuta attenzione dall’opinione pubblica. Collusi è anche una lezione di umiltà così com’è costruito, capace però di prendere alla gola per il dramma che raccontano le sue pagine, per le storie sanguinanti che hanno lacerato e seguitano a minacciare un Paese civile come il nostro.
Di Matteo ha mostrato di avere la schiena diritta, anche se il coraggio, confessa, non cancella la paura. Ma chi potrà ripagarlo di quel senso di solitudine, di isolamento e di spaesamento che tanti fedeli servitori dello Stato, prima di lui, soffrirono in quel Palazzo dei veleni di Palermo?
Non si contano le minacce, i propositi di ucciderlo, gli ossessivi ordini di morte di Totò Riina. Ne parlò in carcere, all’ora d’aria, registrato da una telecamera, con il boss pugliese Alberto Lorusso. Le testimonianze dei «pentiti», poi: Vito Galatolo, di una temibile famiglia stragista, ha confessato pochi mesi fa a Di Matteo che a Palermo era arrivato l’esplosivo, duecento chili di tritolo, tutti per lui (pare, speriamolo, che il magistrato sia ben protetto. Giovanni Bianconi ha scritto sul Corriere che, oltre alle normali misure di sicurezza per la sua tutela, è in funzione anche il bomb jammer che serve a rilevare gli ordigni attivati a distanza).
«Se si vuole vincere la guerra, e non semplicemente le battaglie, non si deve scendere a patti con il nemico. E nemmeno dargli la sensazione di scendere a patti»: è il leitmotiv di Collusi. Se Cosa nostra fosse soltanto una normale organizzazione criminale sarebbe stata ovviamente annientata, in un secolo e mezzo di esistenza, dalle forze di polizia. Sono state e sono proprio le sue connessioni con il potere politico e finanziario e con l’ambiguità di uomini corrotti delle istituzioni ad aver fatto della mafia il mostro che è.
I politici imputati davanti alla Corte d’Assise di Palermo non rispondono del «reato di trattativa», scrive Di Matteo. Quel che viene contestato agli uomini delle istituzioni è di aver «consapevolmente assunto il ruolo di cinghia di trasmissione tra Cosa nostra e il governo nel prospettare i desiderata dell’organizzazione mafiosa, così concorrendo al vero e proprio ricatto che i boss stavano portando avanti nei confronti delle istituzioni». È nata così la contestazione «del reato di concorso in violenza o minaccia al corpo politico dello Stato».
Di Matteo analizza gli anni focali dell’ultimo Novecento, il 1982, l’assassinio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa; il 1992, l’assassinio del dc Salvo Lima, gran luogotenente di Sicilia, punito perché non rispettò i patti con la mafia e, nello stesso anno, gli assassinii di Falcone e di Borsellino. Le zone d’ombra mai cadute, le domande senza risposta, i sospetti sulla trattativa sono ancorati a quegli anni. L’estate delle lenzuola bianche di Palermo - il popolo della città visse allora ribelle nelle strade - finì presto, per stanchezza, delusione. Poi la controffensiva della mafia, il 1993, e l’oscura stagione delle stragi-ricatto di quella primavera-estate a Roma, Firenze, Milano. Non sono stati sufficienti i processi, le indagini, le condanne di personaggi di rilievo a dire la verità su quanto accadde. E non ha certo contribuito alla chiarezza il conflitto tra la Procura di Palermo e il Quirinale, con le imbarazzanti telefonate tra Nicola Mancino e l’allora presidente della Repubblica, nel 2011-2012, di cui tutto si doveva sapere.
Collusi è una miniera di documenti, fatti, giudizi che fa capire il mondo della mafia anche a chi crede di conoscerlo. Qualche tema affrontato nel libro: la sottigliezza delle strategie criminali dell’organizzazione che non è più quella dei disegni di Bruno Caruso, coppola e lupara. I patti di scambio tra mafia e politica: elettorali, economici, imprenditoriali. Le mani sugli ingenti stanziamenti pubblici. La figura dell’intermediario insospettabile. I boss che non hanno più bisogno di farsi avanti, è lo Stato che li cerca. Il riscatto della Chiesa, l’importanza di papa Francesco. Le talpe nelle istituzioni. Il rischio delle fonti confidenziali. La prudenza e la pavidità di non pochi magistrati e i pericoli quotidiani che vivono invece coloro che «vanno troppo oltre». Il ruolo di certa massoneria. La troppo lunga latitanza di Matteo Messina Denaro che fa sospettare si voglia proteggere chi custodisce segreti inconfessabili sulle stragi. Un libro importante, Collusi. Soprattutto utile in un Paese senza memoria.
La trattativa
Il Codice piegato a misura di Colle
Se anche la Magistratura si allinea alla trasformazione della Repubblica in Reame, le speranze di resistere, resistere, resistere sono poche
di Bruno Tinti (il Fatto, 11.10.2014)
Le sentenze si emanano nel rispetto della legge. Che garantisce alle parti del processo la possibilità di far valere le proprie ragioni. Si chiama contraddittorio e, in uno con l’informazione fornita dai mass media, permette il controllo dei cittadini sui processi. Secondo la Corte d’Assise di Palermo il contraddittorio è variabile; pieno, parziale, anche inesistente. Lo decidono discrezionalmente i giudici, in base non alla legge ma a presunti principi generali astratti cui le leggi dovrebbero conformarsi; e, se conformi non sono, non si applicano. Che la legge ritenuta non conforme alla Costituzione debba esser rimessa alla Corte costituzionale per il relativo giudizio, questi giudici non lo sanno. E scrivono ordinanze inaccettabili.
La questione è nota. Napolitano ha “acconsentito” (non poteva fare diversamente, la legge lo obbligava) a rendere testimonianza nel processo per la trattativa Stato-mafia. Riina, Bagarella, Mancino e Parte civile hanno chiesto di essere presenti. E qui è nato il problema. Perché, a quanto pare (ma proprio non capisco perché), Napolitano non vuole trovarsi a tu per tu con i boss mafiosi. E ha opposto resistenza: testimonio, ma non voglio la presenza di questi imputati.
L’art. 205 c. p.p. prevede che il capo dello Stato sia interrogato presso il Quirinale. La Corte d’Assise si è arrampicata sui vetri con argomentazioni diverse: alcune più strettamente giuridiche, per interpretare le norme processuali in modo da giustificare la renitenza di Napolitano; altre extra-giuridiche, asseriti principi fondamentali che renderebbero il Quirinale e il capo dello Stato non sottomessi alle norme ordinarie.
LA LEGGE si limita a prevedere che la testimonianza del presidente della Repubblica deve avvenire presso “la sede in cui esercita la funzione di capo dello Stato”. Altro non dice. In particolare non detta specifiche regole che differenzino l’assunzione di questa testimonianza da tutte le altre. Così si deve applicare un principio ben noto ai giuristi, una frase latina di 2000 anni fa: ubi lex voluit, dixit; ubi noluit, tacuit; quando la legge prevede qualcosa, lo dice; quando non vuole prevederla, tace. Siccome eccezioni alle modalità di assunzione della testimonianza del capo dello Stato, a parte il luogo in cui essa è prevista, non sono previste da alcuna legge, tutte le norme processuali che regolano il dibattimento penale si applicano anche a questo caso particolare.
E qui sta il primo errore della Corte che ha ritenuto di natura analogica l’applicazione di queste norme alla testimonianza del capo dello Stato: “La norma non prevede nulla; dunque - per analogia - si dovrebbero applicare le altre norme processuali sulla testimonianza; ma non si può per via dei principi generali sull’immunità, etc”.
Solo che l’analogia non c’entra nulla: le norme generali sulla testimonianza si applicano a tutte le testimonianze, salvo le eccezioni previste dalla legge; una di queste è quella prevista dall’art. 205 (il Quirinale e non l’aula d’udienza). Per il resto non cambia niente.
E non potrebbe cambiare. Perché le norme processuali che la Corte vuole disinvoltamente “abrogare” sono, non a caso, assistite da una sanzione di nullità: se non rispettate, tutto il processo è nullo. Così l’art. 502 del codice di procedura prevede che, in caso di udienza che si tenga in luogo diverso dall’aula di Tribunale, “il giudice, quando ne è fatta richiesta, ammette l’intervento personale dell’imputato interessato all’esame”. “Ammette”, non “può ammettere”; ammissione obbligatoria. E l’art. 494 prevede che, l’imputato ha facoltà “di rendere in ogni stato del dibattimento le dichiarazioni che ritiene opportune, purché esse si riferiscano all’oggetto dell’imputazione”. Come può un imputato cui si impedisce di presenziare rendere “le dichiarazioni che ritiene opportune”? E qui entra in gioco l’art. 179: “Sono insanabili le nullità derivanti dalla omessa citazione dell’imputato”. E siccome non gli si può dire che non deve entrare nel posto dove, con obbligatoria citazione, gli è stato detto che può recarsi, il risultato di questa ordinanza è la nullità del processo.
Nell’ansia di difendere l’indifendibile, la Corte commette anche errori marchiani. Va bene, Riina e Bagarella al Quirinale non ci possono andare perché la legge non lo permette agli imputati per reati di mafia. Proprio per questo è prevista la videoconferenza. Ma - dice la Corte - l’art. 146 bis delle disposizioni di attuazione al codice di procedura la prevede solo per le attività svolte nell’aula di udienza; e il Quirinale è un luogo diverso. Non è vero. L’art. 146 bis prevede casi in cui la videoconferenza può essere attivata tra diversi istituti penitenziari, in modo da consentire a ogni imputato di interloquire con quanto avviene in questi luoghi. Dunque videoconferenza tra le carceri sì e con il Quirinale no? E perché poi?
ALLA FINE la Corte lo dice: esistono “speciali prerogative di un organo costituzionale qual è la Presidenza della Repubblica”; che vanno correlate all’“immunità della sede, all’ordine pubblico e alla sicurezza nazionale”. Siamo sempre lì. A questo presidente della Repubblica la legge comune non si applica. È già successo ai tempi della distruzione delle sue telefonate con Mancino. Ora succede di nuovo. Il grave è che succede a seguito di un provvedimento giudiziario. Se anche la Magistratura si allinea alla trasformazione della Repubblica in Reame, le speranze di resistere, resistere, resistere sono proprio poche.
Chi indebolisce le istituzioni
di Paolo Flores d’Arcais (il Fatto, 18.07.2012)
Domani si commemorano a Palermo i venti anni dall’eccidio di via D’Amelio, la strage in cui vengono trucidati Paolo Borsellino e gli uomini e donne della sua scorta. La strage con cui la mafia si libera di un uomo delle istituzioni, di un servitore integerrimo dello Stato che perciò si oppone a ogni trattativa tra Stato e mafia, trattativa che avvilisce lo Stato davanti a un anti-Stato che si farà ancora più tracotante.
Con che coscienza, domani, si potrà dire nei discorsi ufficiali che lo Stato vuole continuare nell’impegno contro la mafia con l’intransigenza che fu di Falcone e Borsellino? Con che coscienza si potrà domani riaffermare che lo Stato vuole davvero tutta la verità su quella trattativa ormai accertata, ed evidentemente indecente, se altissimi funzionari coinvolti continuano a negarla, e in ogni accenno di telegiornale viene pudicamente derubricata a “presunta”?
Qui vogliamo prescindere da ogni polemica sulla decisione del Quirinale di aprire un conflitto contro la Procura di Palermo presso la Corte costituzionale. Illustri giuristi hanno già spiegato perché sia improponibile, e altri che non vogliono rinunciare alla logica e al diritto lo faranno nei prossimi giorni.
Ma assumiamo come ipotetica del terzo tipo che la mossa di Napolitano sia giuridicamente difendibile, che cosa indebolirebbe di più la credibilità dell’istituzione più alta, la trasparenza su quanto è intercorso tra Mancino e il Presidente o la pervicace volontà che tutto resti piombato nel segreto? Lo domandiamo a Michele Ainis, Carlo Galli, Stefano Folli e Ugo Di Siervo, che sui quattro più diffusi quotidiani del paese (Corriere della Sera, Repubblica, Sole 24 Ore, Stampa) affermavano ieri all’unisono che il problema cruciale è impedire che il Colle sia indebolito come “punto di equilibrio del sistema”.
Benissimo. Ma è un fatto che Mancino ha parlato almeno otto volte col consigliere giuridico di Napolitano, il quale nelle registrazioni afferma costantemente di essersi consultato col Presidente nell’attivarsi secondo i desiderata del Mancino stesso. D’Ambrosio millantava e il Presidente era all’oscuro di tutto? O, messo al corrente, ha dato disposizioni che a un molesto Mancino venisse cortesemente messa giù la cornetta? E proprio questo magari si evincerebbe dalle due telefonate dirette tra Mancino e Napolitano? Non sarebbe meglio, proprio per non indebolire il Colle, una parola chiara del Presidente che ribadisca come, esattamente nella sua funzione di “punto di equilibrio del sistema”, ogni suo discorso con Mancino era ineccepibile, a prova di divulgazione?
“Patto con la mafia, il cedimento della sinistra”
L’inchiesta di Caltanisetta: “Ci fu una doppia morale, stagione ingloriosa per le istituzioni”
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza (il Fatto, 26.06.2012)
Tra mancate proroghe e decreti revocati, nella stagione delle bombe del ’93, il ministero della Giustizia cancella 520 provvedimenti di 41 bis, quasi il 50% di quelli deliberati l’anno precedente. C’è da chiedersi, scrive la Procura di Caltanissetta, “se questo non sia stato il prezzo della trattativa pagato dallo Stato per far cessare le stragi’’. Ecco perché, scrivono il procuratore nisseno Sergio Lari, gli aggiunti Nico Gozzo e Amedeo Bertone, i pm Nicola Marino, Gabriele Paci e Stefano Luciani, nella richiesta di custodia cautelare che riassume tre anni di indagine sulla strage di via D’Amelio, quella della trattativa è stata una “stagione ingloriosa per lo Stato italiano”.
In quella richiesta gli inquirenti ricostruiscono, in oltre trecento pagine, tutte le ombre sugli apparati delle istituzioni impegnati a fermare il tritolo, nei mesi della campagna stragista contro il patrimonio artistico. E se a differenza dei colleghi di Palermo, i pm nisseni non giungono a conclusioni penalmente rilevanti, chiedendo di archiviare le posizioni dei protagonisti istituzionali del dialogo con Cosa Nostra (come ha rivelato il procuratore Pietro Grasso nell’intervista al Fatto Quotidiano del 19 giugno scorso), mostrano di avere le idee chiare nella ricostruzione delle loro carte sull’identità politica di chi ha trattato.
“QUESTA TRATTATIVA - spiegano i pm di Caltanissetta - era stata letta da Cosa Nostra come un segnale di grande debolezza della controparte statale”, che “almeno nella prima parte della trattativa, pare appartenere a quella che Giovanni Brusca definisce la sinistra, in essa ricomprendendo la sinistra Dc e la sinistra vera e propria, proprio quella che apparentemente aveva più volte difeso le inchieste del dottor Falcone e del dottor Borsellino”. Ma anche quella sinistra che, come ha detto l’ex Guardasigilli Claudio Martelli, “in una sua parte aveva frapposto importanti ostacoli alla conversione del decreto dell’8 giugno ’92 (l’introduzione del 41 bis, ndr) e prima ancora all’istituzione della Procura nazionale Antimafia’’.
Ed è a questo punto che i pm di Caltanissetta precisano che “nessuna responsabilità penale è stata accertata a carico di personalità politiche e istituzionali in quella che può definirsi la strategia stragista di Cosa Nostra nel ’92’’. L’altra certezza raggiunta dalla procura nissena è che Paolo Borsellino abbia saputo della trattativa e che la sua posizione in merito “sia stata interpretata, o riportata da qualcuno anche in maniera colposa, in modo da farlo ritenere un ostacolo o un muro da abbattere per poter arrivare ad una conclusione soddisfacente per Cosa Nostra della trattativa”. Ecco, secondo i pm nisseni, la ragione della memoria a orologeria.
Nessuno dei protagonisti di quei giorni, né gli ex ministri Nicola Mancino, Giovanni Conso, Claudio Martelli, né i funzionari del Dap Nicolò Amato, Adalberto Capriotti, Edoardo Fazzioli, Francesco Di Maggio, Andrea Calabria, né gli ex presidenti del consiglio Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi, né il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, ha piacere di ammettere di essere stato “testimone silente di comportamenti che, seppure posti in essere da altre persone, possano aver spinto Cosa Nostra ad accelerare l’eliminazione di Borsellino”.
LA PROCURA di Lari disegna, insomma, il volto ambiguo di uno Stato dalla “doppia morale”. Se da una parte le istituzioni “a parole, e sui quotidiani, dispensavano lezioni di antimafia... nel chiuso delle stanze di alcuni membri del governo e di alcuni alti dirigenti della pubblica amministrazione si discusse approfonditamente cosa fare del regime del 41 bis, o meglio di come disfarsene a poco a poco, senza che la cosa venisse percepita all’esterno”. Davanti alle esplicite richieste provenienti dalle carceri di attenuare il regime di detenzione dura, e dopo l’uccisione di alcuni agenti carcerari, la situazione dei detenuti mafiosi viene rappresentata come “esplosiva”, al punto da temere che potesse “infiammare” anche l’ordine pubblico all’esterno. Per questo motivo, a solo un anno dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio, sottolinea la procura di Caltanissetta “lo Stato, nella specie alcuni dei suoi uomini più importanti, pensa di arretrare di fronte alla offensiva mafiosa”.
“Intervenire su Grasso”
Lo suggerisce a Mancino il consigliere del Colle, D’Ambrosio
E il Procuratore antimafia viene convocato in Cassazione
di Marco Lillo (il Fatto, 19.06.2012)
Il presidente ha preso a cuore la questione”, diceva il braccio destro di Napolitano, Loris D’Ambrosio, a Nicola Mancino. Poi aggiungeva: “Bisogna intervenire su Pietro Grasso”. Non erano millanterie. Alla fine le pressioni del Quirinale hanno prodotto un risultato: il procuratore nazionale antimafia il 19 aprile è stato convocato dal procuratore generale della Cassazione Gianfranco Ciani per sentirsi chiedere il coordinamento tra procure che piaceva a Mancino.
L’assedio è fallito solo grazie al gran rifiuto di Grasso, raccontato a Sandra Amurri sotto. Ogni giorno emergono particolari inquietanti sul comportamento della Presidenza della Repubblica nell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia a cavallo delle stragi del 1992-’93.
Sabato scorso il Colle era stato costretto a tirare fuori dal cassetto la lettera inviata al procuratore generale della Cassazione dal segretario generale della Presidenza del Consiglio, Donato Marra: “Il Capo dello Stato auspica - scriveva Marra allegando una lettera di Nicola Mancino in tal senso - che possano essere prontamente adottate iniziative che assicurino la conformità di indirizzo delle procedure (...) e ciò specie al fine di dissipare le perplessità che derivano dalla percezione di gestioni non unitarie delle indagini collegate”. Ora si scopre che - dopo quella lettera pg della Cassazione Gianfranco Ciani ha esaudito i voleri di Mancino e Napolitano convocando proprio Grasso. Per comprendere l’epilogo della manovra quirinalizia, bisogna leggere le telefonate dell’indagine coordinata dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia assieme ai sostituti Antonino Di Matteo, Francesco del Bene e Lia Sava, in particolare le nove intercettazioni dei colloqui tra D’Ambrosio e Mancino.
Il fidato collaboratore di Napolitano si offre senza risparmio e spende il nome del presidente. Il 25 novembre alle 21, D’Ambrosio e Mancino parlano di un possibile snodo della trattativa: la nomina del magistrato Francesco Di Maggio (poi deceduto) a numero due del Dipartimento amministrazione penitenziaria. “Perché è arrivato lì Di maggio? Chi ce lo ha mandato? Questo è il problema”, spiega D’Ambrosio a Mancino. Poi aggiunge: “C’erano due problemi: l’alleggerimento del 41 bis e i colloqui investigativi e lei (Mancino, ndr) non ne ha saputo niente perché per la parte 41 bis c’erano Mori, Polizia-Parisi, Scalfaro e compagnia. Per la parte dei colloqui investigativi... Di Maggio-Mori”.
CON IL PASSARE dei mesi i discorsi si concentrano sulle ansie di Mancino, che pensa di essere nel mirino del pm di Palermo Nino Di Matteo e invoca un intervento del capo della Dna Pietro Grasso sotto la veste del coordinamento. “Io ho visto Grasso in una cerimonia, stava davanti a me. Mi ha detto: ‘Quelli lì (probabilmente i pm della Procura di Palermo, ndr) danno solo fastidio. Ma lei lo sa che noi non abbiamo poteri di avocazione? ’” Mancino prosegue: “E io gli ho detto: ‘Ma poteri di coordinamento possono essere sempre esercitati’”. È quello l’obiettivo: spingere Grasso a intervenire sulle procure di Palermo e Caltanissetta per imporre un coordinamento che - nelle intenzioni di Mancino almeno - avrebbe potuto ridurre i danni. Si arriva al 24 febbraio. A Palermo Mancino è sentito come testimone nel processo a Mario Mori dove si parla sempre di trattativa Stato-mafia.
La deposizione non soddisfa il pm Di Matteo e il giorno dopo sui giornali esce la sua intervista: “Qualcuno nelle istituzioni mente” con l’anticipazione di un imminente confronto tra gli ex ministri Mancino e Martelli. L’ex presidente del Senato entra in fibrillazione: “Il pm Di Matteo ha detto che ci sono contraddizioni tra Mancino, Martelli e Scotti”, dice al telefono a D’Ambrosio, che replica: “Ma lui l’ha già chiesto il confronto? Io per adesso posso parlare con il presidente (con tutta probabilità Napolitano, ndr). Si è preso a cuore la questione ma non lo so. Francamente la ritengo difficile”.
D’Ambrosio e Mancino si interrogano al telefono su quale sia la persona o l’ufficio giudiziario sul quale intervenire: “Il collegio (del Tribunale di Palermo, ndr) lì è equilibrato. Come ha ritenuto inutile il confronto con Tavormina (generale ed ex capo della Dia) potrebbe rigettare per analogia”. Non è facile: “Intervenire sul collegio”, spiega D’Ambrosio, “è una cosa molto delicata. Più facile è parlare con il pm”. Qual è il pm giusto però? Mancino spiega: “L’unico che può dire qualcosa è il procuratore capo di Palermo Messineo e l’altro che può dire qualcosa è il Direttore nazionale antimafia Grasso. Io gli voglio parlare perché sono tormentato”. Povero Mancino. D’Ambrosio lo rincuora: “Ma non Messineo... in udienza Di Matteo è autonomo. Io direi che l’unica cosa è parlare con il procuratore nazionale Grasso”. Poi Mancino si lamenta di “Messineo che non fa più niente”.
MANCINO e D’Ambrosio si sentono il 5, il 7 e anche il 12 marzo quando l’ex presidente del Senato chiede a D’Ambrosio: “Veda se Grasso può ascoltare anche me in maniera riservatissima che nessuno sappia niente”. Loris D’Ambrosio non lo manda a quel paese ma anzi lo illude: “Lo devo vedere domani”. Si arriva così al 30 marzo. I pm Ingroia e Di Matteo chiedono il confronto in aula al processo Mori tra Mancino e Martelli. Il presidente del tribunale, per pura scelta tecnica, rigetta. Ma Mancino non si rilassa. Telefona il 27 marzo e poi ancora il 3 aprile a D’Ambrosio.
Il 4 aprile il Quirinale scrive al procuratore generale della Cassazione. Fiero di avere fatto il suo compito, il giorno dopo, il 5 aprile, il consigliere del capo dello Stato, Loris D’Ambrosio, legge al testimone (poi indagato per reticenza) la lettera del Quirinale al pg della Cassazione. Poi D’Ambrosio aggiunge: “Ho parlato sia con Ciccola (Pasquale Ciccolo, sostituto pg della Cassazione, ndr) che con Ciani (il pg della Cassazione, ndr), hanno voluto la lettera così fatta per sentirsi più forti”. Passano solo due settimane e Ciani, forte della lettera appunto, convoca Grasso.
L’intervista: Pietro Grasso difende i Pm di Palermo
— “La Suprema Corte mi chiese di relazionare, ma a voce”
di Sandra Amurri (il Fatto, 19.06.2012)
“Confermo l’incontro, ma non il contenuto della breve conversazione. Non ho assolutamente risposto ‘quelli lì riferendomi ai pm di Palermo danno solo fastidio’, non avrei mai potuto esprimere un tale giudizio perché non lo penso”
L’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, indagato per falsa testimonianza nell’inchiesta palermitana sulla trattativa Stato-mafia, a dicembre 2011 racconta al telefono a Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico del presidente della Repubblica: “Io ho visto Grasso in una cerimonia, stava davanti a me. Mi ha detto: ‘Quelli lì (Procura Palermo ndr.) danno solo fastidio. Ma lei lo sa che noi non abbiamo poteri di avocazione’ e io ho detto: ‘Ma poteri di coordinamento possono essere sempre esercitati’”. L’occasione è la cerimonia al Quirinale per lo scambio degli auguri natalizi. Mancino non è ancora indagato, ma teme di diventarlo.
Procuratore Grasso, conferma le parole di Mancino?
Confermo l’incontro, ma non il contenuto della breve conversazione. Non ho assolutamente risposto ‘quelli lì riferendomi ai Pm di Palermo danno solo fastidio’, non avrei mai potuto esprimere un tale giudizio perché non lo penso e la mia azione è funzionale a favorire la loro attività investigativa alla ricerca della verità. Mancino lamentava valutazioni diverse da parte di talune procure rispetto a relazioni e comportamenti e omissioni a lui attribuiti. Gli ho detto che il solo strumento che può ridurre a unità indagini pendenti in diversi uffici è l’istituto dell’avocazione che, però, è applicabile solo nel caso di ingiustificata e reiterata violazione delle direttive impartite dal Pna al fine del coordinamento delle indagini. Avocazione che è nei miei poteri, ma nel caso Mancino non vi erano i requisiti per poterla applicare.
Dunque Mancino lavora di fantasia?
Sono le parole di un uomo che dice di sentirsi perseguitato, accerchiato. Come risulta dai verbali, sono state fatte riunioni di coordinamento tra le varie Procure senza alcuna tensione come possono confermare tutti pm. Nessuno si è mai lamentato di una mia interferenza. Non vi è mai stato alcun accenno alla questione Mancino. Coordinamento significa che le informazioni di ogni procura debbono essere messe a disposizione delle altre procure affinché vi sia una circolazione di notizie. Ma, ripeto ogni Procura resta autonoma e indipendente come è avvenuto: Caltanissetta ha archiviato e Palermo, in presenza di altri elementi, ha proceduto anche nei confronti di Mancino per quello che ha detto al dibattimento.
Il 12 marzo Mancino chiama D’Ambrosio: “Veda se Grasso può ascoltare anche me in maniera riservatissima che nessuno sappia niente”. D’Ambrosio risponde: “Lo devo vedere domani”. Procuratore Grasso, lei il 13 marzo ha incontrato il consigliere D’Ambrosio?
Ecco la mia agenda alla pagina 13 marzo: in una giornata densa di riunioni e consultazioni non vi è traccia di appuntamenti con D’Ambrosio. Forse prevedeva di farlo, ma non lo ha fatto.
Allora D’Ambrosio mente?
Mah! Può averlo detto per tranquillizzare Mancino che, evidentemente non era rimasto soddisfatto dalla mia risposta tranciante in occasione della cerimonia al Quirinale.
Ma D’Ambrosio in altre occasioni le ha mai parlato del caso Mancino?
Sì. Mi ha espresso l’esigenza di Mancino. Il problema, per quanto mi riguarda, non è ciò che abbia fatto o abbiano tentato di fare, ma quello che io ho fatto. È mai arrivata una richiesta di Grasso ai Pm di Palermo? Grasso ha mai compiuto un solo atto per agevolare Mancino? La risposta è: no.
Conferma che l’attuale Pg di Cassazione Ciani l’ha convocata, lasciando intendere che Mancino riteneva di subire le conseguenze di un mancato coordinamento tra le procure?
Sì. Sono stato convocato dal Pg della Suprema Corte il 19 aprile. Mi è stata richiesta una relazione sul coordinamento tra le procure. Ho espresso la volontà che mi venisse messo per iscritto. Mi è stato fatto presente che era nei suoi poteri chiederlo verbalmente. Il 22 maggio ho risposto per iscritto specificando che nessun potere di coordinamento può consentire al Pna di dare indirizzi investigativi e ancor meno di influire sulle valutazioni degli elementi di accuse acquisiti dai singoli uffici giudiziari.
Perché Ciani non lo sapeva?
Io alle richieste del superiore ufficio rispondo per iscritto.
Alla luce delle responsabilità, alcune, per ora, sicuramente politiche, cosa auspica per il raggiungimento della verità sulla trattativa Stato-mafia e sulle stragi che ne sono seguite?
Che inizino a collaborare i rappresentanti delle istituzioni. I mafiosi, quelli che si sono pentiti, conoscono solo un certo livello, non sono i vertici, intendo Graviano, Riina, Provenzano. Finché avremo pentiti mafiosi di basso rango potremmo arrivare fino a un certo livello di conoscenza, per avere la verità compiuta abbiamo bisogno dei vertici di Cosa Nostra oppure di qualche apporto istituzionale che ha vissuto e sa. Io auspico la verità e credo umilmente di aver dato un contribuito determinante nel convincere Spatuzza a pentirsi, nell’aver raccolto le sue dichiarazioni sulle stragi e nell’averle messe a disposizione delle varie Procure.
A un comune cittadino indagato è dato chiedere “protezione” ad alte cariche dello Stato che prontamente si attivano?
No, ovviamente. La responsabilità è di chi chiede e di chi si attiva. Io non ho raccolto alcuna richiesta. La legge, ripeto, è e deve essere uguale per tutti.
Il Pg: “A sua disposizione” L’ex ministro: “Uè guagliò...”
Poi Esposito invita l’ex capo del Viminale:
“Se vuole venirmi a trovare, quando vuole”
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza (il Fatto, 19.06.2012)
Palermo Il dialogo è quello tra due vecchi amici, e uno parla tranquillamente in napoletano. “Sono chiaramente a sua disposizione - dice il Procuratore generale della Cassazione Vitaliano Esposito - adesso vedo questo provvedimento e poi ne parliamo. Se vuole venirmi a trovare, quando vuole”. E Nicola Mancino replica: “Guagliò come vengo, vado sui giornali”. “Ahahaha, ho capito”, commenta allegro il pg. Sono le 9.04 del 15 marzo 2012, l’ex presidente del Senato chiama per congratularsi con l’alto magistrato che ha appena ricevuto l’ordinanza del gip Alessandra Giunta su via D’Amelio.
MANCINO è contento: “Ho letto che hai chiesto gli atti a Caltanissetta”, dice al pg, e con lui parla a ruota libera della sua posizione giudiziaria, illudendosi di farla franca, almeno con i pm nisseni: “Resta la figura di una persona che è reticente, che non ha detto la verità ma non ci sono elementi per processarla”. Siamo a metà marzo, e le manovre di accerchiamento sul Quirinale entrano nel vivo: venti giorni dopo, il 4 aprile, sollecitato da Mancino, il capo dello Stato invia la sua lettera al pg della Suprema Corte, in quel momento quasi pensionato. Per questo il carteggio agli atti di piazza Cavour serve di fatto a spianare la strada al neo pg della Cassazione, Gianfranco Ciani, l’ultimo a muoversi in questa catena di Sant’Antonio di soccorso istituzionale. Ciani alla fine convoca il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, l’unico che ha poteri reali di coordinamento tra le procure di Palermo e Caltanissetta.
Ma il capo della Dna si sfila dall’intrigo istituzionale, rispondendo per iscritto di non avere le prerogative necessarie per intervenire nella vicenda. A rivelare la conclusione delle “grandi manovre” politiche per monitorare l’indagine sulla trattativa è una fonte molto vicina a Vitaliano Esposito, il quale in una lettera di precisazione inviata al Fatto Quotidiano parla di un’altra riunione, convocata a Roma in una data imprecisata, ma certamente oltre due anni fa, visto che destinatari della convocazione furono i pg di Palermo Luigi Croce e di Caltanissetta Giuseppe Barcellona. Una riunione, dice Esposito, organizzata con Piero Grasso per accertamenti “sulle indagini, apparentemente parallele, in corso alle procure di Palermo e Caltanissetta”.
I PARTECIPANTI, secondo quanto scrive il pg, avrebbero garantito “la più ampia collaborazione, riservando la trasmissione di atti rilevanti”. Ma di questo incontro non sanno nulla né Luigi Croce, pg a Palermo fino al 20 ottobre 2011, né tantomeno Grasso: entrambi sostengono di non avere mai partecipato ad alcun vertice sul tema. Cadono dalle nuvole anche i pm di Palermo, che non sono mai stati informati e che hanno appreso dell’interesse istituzionale sulle loro indagini dall’ascolto delle centinaia di ore di intercettazioni disposte sui telefoni dei protagonisti politici di quella stagione, Mancino in testa. Nella sua lettera il pg Esposito precisa di avere chiesto l’ordinanza del gip nisseno Alessandra Giunta su via D’Amelio “senza avere avuto contatti con alcuno”, prima, cioè, di ricevere la missiva del Quirinale. L’unico contatto con Nicola Mancino è quello del 15 marzo scorso, il giorno dopo la richiesta ufficiale dell’ordinanza.
“Nell’articolo si fa riferimento a una telefonata che mi fece il senatore Mancino per complimentarsi della mia iniziativa, telefonata da me ricevuta - dice oggi il pg Esposito - e dunque per quanto mi riguarda assolutamente neutra”. E questa è solo una delle centinaia di conversazioni al telefono intercettate dai pm tra la fine dell’anno scorso e la primavera di quest’anno, quando l’inchiesta sulla trattativa entra in dirittura d’arrivo catalizzando l’interesse istituzionale. E scatenando in Mancino un’escalation di angoscia, rivolta, in particolare, ad uno dei pm: “È sempre il solito Di Matteo. È lui il guaio... mi ha convocato... Fa le domande, io rispondo e lui... non dice niente, non parla, fa solo domande”.
È IL 25 novembre 2011. Alle ore 21.07, Nicola Mancino telefona a Loris D’Ambrosio, consulente giuridico del capo dello Stato Giorgio Napolitano, per segnalare che è stato nuovamente convocato a Palermo, e si lamenta del pm Nino Di Matteo, attribuendogli il ruolo dell’inquisitore più duro durante gli interrogatori. È la madre di tutte le intercettazioni, la prima e la più lunga di dieci telefonate - tutte partite dal cellulare dell’ex presidente del Senato - che secondo l’accusa rivelano, tra novembre 2011 e aprile 2012, l’aspettativa fortissima di Mancino di un “salvataggio” istituzionale da parte del Quirinale rispetto alle iniziative processuali della procura di Palermo, che appare intenzionata a scavare a fondo sul suo coinvolgimento nell’indagine.
Una raffica di telefonate che coinvolge, oltre a Esposito e D’Ambrosio, il procuratore aggiunto di Roma Nello Rossi, della corrente di Md, e il presidente dell’Unione giornalisti pensionati Guido Bossa. Mancino chiama Rossi mezz’ora dopo essersi complimentato con Esposito, il 15 marzo scorso. Quello stesso Nello Rossi che due giorni fa si è detto “incredulo e profondamente preoccupato” per il coinvolgimento nell’inchiesta dell’ex Guardasigilli Giovanni Conso. Fibrillazioni che attraversano anche altri indagati della trattativa: decine sono le telefonate tra gli ex ufficiali del Ros fedelissimi di Mario Mori. Giuseppe De Donno parla più volte con Mori e scambia frenetici sms (e numerose telefonate) con “Raf”, Raffaele Del Sole, l’ufficiale che a Roma, nel processo al pm Salvatore Leopardi (accusato di avere informato i servizi dei contenuti dei colloqui in carcere dei boss ristretti al 41 bis), si è trincerato dietro il segreto di Stato.
Indagine sulla trattativa Stato-Mafia
Il Quirinale è intervenuto
Il Colle definisce “risibili” e “irresponsabili illazioni” le rivelazioni del Fatto sulle pressioni di Mancino contro i pm di Palermo Ma poi tira fuori la lettera della Presidenza della Repubblica al Pg della Cassazione: la prova dell’interferenza
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza (il Fatto, 17.06.2012) Palermo E alla fine la lettera è saltata fuori. È firmata da Donato Marra, segretario generale della Presidenza della Repubblica, ed è datata 4 aprile 2012. Destinatario: il Procuratore generale della Cassazione, nella fase di passaggio di consegne tra Vitaliano Esposito e Gianfranco Ciani. La rende pubblica il Quirinale in una nota emessa poco prima delle 19 di ieri: “Per stroncare ogni irresponsabile illazione sul seguito dato dal capo dello Stato a delle telefonate e a una lettera del senatore Mancino in merito alle indagini che lo coinvolgono”. A nome di Napolitano, Marra “gira” al pg della Suprema Corte le lamentele di Mancino, indagato a Palermo per la trattativa che “si duole del fatto che non siano state fin qui adottate forme di coordinamento delle attività svolte da più uffici giudiziari sulla cosiddetta trattativa”.
Ma il Quirinale non si limita a una semplice trasmissione: Marra informa il pg che le preoccupazioni di Mancino, ex presidente del Senato e tuttora rispettabile cittadino italiano, sono condivise da Napolitano. “Conformemente a quanto da ultimo sostenuto nell’Adunanza plenaria del Csm del 15 febbraio scorso, il capo dello Stato - scrive Marra - auspica possano essere prontamente adottate iniziative che assicurino la conformità di indirizzo delle procedure ai sensi degli strumenti che il nostro ordinamento prevede, e quindi anche ai sensi delle attribuzioni del procuratore generale della Cassazione”. Spiega Marra alla fine della missiva che l’intervento del capo dello Stato è finalizzato a “dissipare le perplessità che derivano dalla percezione di gestioni non unitarie delle indagini collegate, i cui esiti possono anche incidere sulla coerenza dei successivi percorsi processuali”.
NAPOLITANO in prima persona, dunque, scavalca il capo della Dna Pietro Grasso cui compete il coordinamento tra le procure e su una materia delicata e scottante come l’indagine sulla trattativa Stato-mafia investe, in modo irrituale e insolito, direttamente il pg della Cassazione. Che non ha poteri di coordinamento tra procure, ma solo quello di decidere sui conflitti di competenza eventualmente sollevati sulle inchieste in corso. Le preoccupazioni di Mancino e Napolitano sono legate alle indagini parallele delle Procure di Caltanissetta e Firenze che, fino a questo momento, hanno ritenuto “penalmente non rilevanti” le condotte dei protagonisti di quella stagione di dialogo dello Stato con Cosa Nostra. E convergono nel senso di indirizzarle verso un unico sbocco: quello “minimalista” che salvi i politici da ogni coinvolgimento penale. La lettera di Marra si conclude con il capo dello Stato che resta in attesa di informazioni (“il presidente Napolitano le sarà grato di ogni consentita notizia”) dal Pg della Cassazione, per - spiega la nota del Quirinale - “pervenire tempestivamente all’accertamento della verità su questioni rilevanti, nel caso specifico ai fini della lotta contro la mafia e di un’obiettiva ricostruzione della condotta effettivamente tenuta, in tale ambito, da qualsiasi rappresentante dello Stato’’.
E se l’inchiesta di Palermo genera fibrillazioni sul Colle più alto, isolando di fatto i pm palermitani, lo stato maggiore di Magistratura democratica giura “a scatola chiusa” sull’innocenza dell’ex guardasigilli Giovanni Conso, spaccando la corrente: il procuratore aggiunto di Roma Nello Rossi si dice “incredulo e profondamente preoccupato”. L’ex segretario dell’Anm Giuseppe Cascini esterna il suo “sentimento di stima a Conso che a 90 anni si trova inquisito”. Giovanni Palombarini, tra i fondatori della corrente, “senza bisogno di conoscere il fascicolo” è pronto a giurare sulla sua innocenza. Come fa a saperlo? “Lo so”. Parole che scatenano il dibattito nella mailing list della corrente, con una stragrande maggioranza di interventi di segno opposto: cioè a favore dei pm di palermo.
Lo Stato, diceva Leonardo Sciascia, non può processare se stesso. Ma se proprio è costretto a farlo, perché i suoi più autorevoli esponenti sono accusati di avere dialogato con i boss stragisti Riina e Provenzano, il corto circuito istituzionale è assicurato.
Se a parole tutti condannarono Pietro Lunardi per il suo “con la mafia si deve convivere”, ora che un’inchiesta prospetta una vera trattativa con Cosa Nostra, tutti si chiedono: è legittimo considerare personalità come Mannino, Mancino, Conso, alla stregua di criminali comuni? Ma anche: è legittimo un comportamento sanzionato dal codice penale solo perché giustificato dalla ragion di Stato? “Ragion di Stato e ragioni di giustizia dovrebbero essere in sintonia - ha sempre sostenuto il pm Ingroia - ma spesso non lo sono. In caso di divorzio tra le due succede che la ragion di Stato può costituire movente di un reato’’. La levata di scudi che determina l’isolamento politico, giuridico e interno alle toghe di un pugno di pm illusi di poter scandagliare con un’indagine giudiziaria la cattiva coscienza della politica italiana ripropone la domanda centrale, scomoda e imbarazzante: la magistratura ha il diritto-dovere di far salire sul banco degli imputati la scelta politica di unoopiùgoverni, quandoquesta è suggerita dalla gravità del momento?
È LECITO, insomma, trattare sottotraccia con la mafia se l’intento è quello di salvare la vita di esponenti politici minacciati anche a costo di sacrificare Borsellino e la sua scorta, e poi tanti innocenti a Firenze e Milano)? Dal mondo accademico arrivano le prime soluzioni: il docente Giovanni Fiandaca, già capo della commissione di riforma del codice antimafia, è scettico sull’efficacia dell’azione penale. E propone un’exit strategyextra-giudiziale, ricordando le commissioni di verità istituite in Sudafrica per riconciliare le parti e chiudere i conti con il passato al di fuori delle aule giudiziarie: “I protagonisti direbbero la verità in un clima più sereno, non punitivo”. Ma Cosa Nostra può esser trattata alla stregua dell’apartheid? “Fino a che - è il parere di Ingroia - ciascuno non farà di tutto perché la verità venga a galla, la democrazia non potrà mai diventare matura perché resterà ostaggio dei poteri criminali che ne hanno condizionato le origini e la storia”.
I vertici dello Stato sapevano
“Paolo aveva capito tutto”
Agnese Borsellino. “Alcuni potenti non hanno salvato neppure la dignità”
intervista di Sandra Amurri (il Fatto, 17.06.2012)
Agnese Piraino Borsellino non è donna dalla parola leggera. È abituata a pesarle le parole prima di pronunciarle, ma non a calcolarne la convenienza. È una donna attraversata dal dolore che il dolore non ha avvizzito. I suoi occhi brillano ancora. E ancora hanno la forza per guardare in faccia una verità aberrante che non sfiora la politica e le istituzioni. Una donna che trascorre il suo tempo con i tre figli e i nipotini, uno dei quali si chiama Paolo Borsellino. Le siamo grati di aver accettato di incontrarci all’indomani delle ultime notizie sulla trattativa Stato-mafia iniziata nel 1992, che ha portato alla strage di via D’Amelio, di cui ricorre il ventennale il 19 luglio, e alle altre bombe. In un’intervista al Fatto l’11 ottobre 2009, Agnese disse: “Sono una vedova di guerra e non una vedova di mafia” e alla domanda: “Una guerra terminata con la strage di via D’Amelio? ”, rispose: “No. Non è finita. Si è trasformata in guerra fredda che finirà quando sarà scritta la verità”.
A distanza di tre anni quella verità, al di là degli esiti processuali, è divenuta patrimonio collettivo: la trattativa Stato-mafia c’è stata. Sono indagati, a vario titolo, ex ministri come Conso e Mancino, deputati in carica come Mannino e Dell’Utri. Lei che ha vissuto accanto a un uomo animato da un senso dello Stato così profondo da anteporlo alla sua stessa vita, cosa prova oggi?
Le rispondo cosa non provo: non provo meraviglia in quanto moglie di chi, da sempre, metteva in guardia dal rischio di una contiguità tra poteri criminali e pezzi dello Stato, contiguità della quale Cosa Nostra, ieri come oggi, non poteva fare a meno per esistere.
Non la meraviglia neppure che probabilmente anche alte cariche dello Stato sapessero della trattativa Stato-mafia, come si evince dalla telefonata di Nicola Mancino al consigliere giuridico del presidente della Repubblica, Loris D’Ambrosio, in cui chiede di parlare con Giorgio Napolitano e dice: “Non lasciatemi solo, possono uscire altri nomi” (tra cui Scalfaro)? Come dire: le persone sole parlano di altre persone?
Questo mi addolora profondamente, perché uno Stato popolato da ricattatori e ricattati non potrà mai avere e dare né pace né libertà ai suoi figli. Ma ripeto, non provo meraviglia: mio marito aveva capito tutto.
Lei descrive i cosiddetti smemorati istituzionali, coloro che hanno taciuto o che hanno ricordato a metà, come “uomini che tacciono perché la loro vita scorre ancora tutta dentro le maglie di un potere senza il quale sarebbero nudi” e disse di provare per loro “una certa tenerezza”. La prova ancora, o ritiene che abbiano responsabilità così grandi da non poter essere né compianti né perdonati?
Non perdono quei rappresentanti delle istituzioni che non hanno il senso della vergogna, ma sanno solo difendersi professandosi innocenti come normalmente si professa il criminale che si è macchiato di orrendi crimini. Alcuni cosiddetti “potenti”, ritenuti in passato intoccabili, hanno secondo me perso in questa storia un’occasione importante per salvare almeno la loro dignità e non mi meraviglierei se qualche comico li ridicolizzasse.
Paolo Borsellino ai figli ripeteva spesso: imparate a fare la differenza umanamente, non è il ruolo che fa grandi gli uomini, è la grandezza degli uomini che fa grande il ruolo. Mai parole appaiono più vere alla luce dell’oggi.
Il posto, il ruolo, non è importante, lo diventa secondo l’autorevolezza di chi lo ricopre. Oggi mio marito ripeterebbe la stessa espressione con il sorriso ironico che lo caratterizzava.
Signora, perché ha raccontato ai magistrati di Caltanissetta solo nel 2010, dopo 18 anni, che suo marito le aveva confidato che l’ex comandante del Ros, il generale Antonio Subranni, era in rapporto con ambienti mafiosi e che era stato “punciutu”?
Potrebbe apparire un silenzio anomalo, ma non lo è. I tempi sono maturati successivamente e gli attuali magistrati di Caltanissetta, cui ancora una volta desidero manifestare la mia stima e il mio affetto, sanno le ragioni per le quali ho riferito alcune confidenze di mio marito a loro e soltanto a loro.
Sta dicendo che ha ritenuto di non poter affidare quella confidenza così sconvolgente alla Procura di Caltanissetta fino a che è stata diretta da Giovanni Tinebra?
Il primo problema che mi sono posta all’indomani della strage è stato di proteggere i miei figli, le mie condotte e le mie decisioni sono state prevalentemente dettate, in tutti questi lunghi anni, da questa preoccupazione.
Il pm Nico Gozzo all’indomani della dichiarazione del generale Subranni, che l’ha definita non credibile con parole che per pudore non riportiamo, ha fondato su Facebook il gruppo: ”Fraterno sostegno ad Agnese Borsellino”. Un fiume di adesioni, lettere commoventi, fotografie, dediche struggenti. Come lo racconterebbe a suo marito in un dialogo ideale?
Caro Paolo, l’amore che hai sparso si è tradotto anche in tantissime lettere affettuose, prive di retorica e grondanti di profondi sentimenti, che ho avuto l’onore di ricevere perché moglie di un grande uomo buono.
Dove trova la forza una donna che ha toccato il dolore per la perdita del suo più grande amore e ora deve sopportare anche il dolore per una verità che fa rabbrividire?
Nel far convivere i sentimenti emotivi e la ragione, ho fatto prevalere quest’ultima in quanto mi ha dato la forza di sopportare il dolore per la perdita di un marito meraviglioso ed esemplare e per accettare una verità complessa, frutto di una società e di una politica in pieno degrado etico e istituzionale.
Da via D’Amelio alle stragi del ’93 fino all’indagine di Palermo
il Fatto 17.6.12
L’omicidio del magistrato antimafia Giovanni Falcone, il 23 maggio 1992, cambia per sempre la storia di Palermo e fa saltare tutti gli equilibri politici in Italia. Pochi giorni dopo la strage di Capaci, sarebbe partita la trattativa tra i vertici dello Stato e Cosa Nostra per far cessare la “strategia stragista”, in cambio di un’attenuazione dell’articolo 41 bis, che prevedeva misure carcerarie durissime contro i mafiosi. Due giorni dopo la strage, il Parlamento elegge Oscar Luigi Scalfaro presidente della Repubblica al sedicesimo scrutinio. Un’elezione a sorpresa, visto che prima di Capaci la partita al Quirinale era giocata da Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani. E la conferma che la strage aveva mutato per sempre anche la politica italiana. A portare avanti il dialogo segreto fra Stato e mafia sarebbero stati i carabinieri del Ros, tramite l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino. Secondo il figlio di questi, Massimo, al padre fu consegnato un “papello”, ovvero il documento in cui venivano espresse le dodici “volontà” di Cosa Nostra, con una lunga serie di richieste allo Stato. La prima era appunto l’attenuazione del 41 bis, rafforzato l’8 giugno 1992 con un decreto dal ministro dell’Interno Vincenzo Scotti e dal Guardasigilli, Claudio Martelli. A inizio luglio, proprio Scotti viene “dirottato” alla Farnesina. Al suo posto viene nominato Nicola Mancino. Il 19 luglio, la strage di via D’Amelio, a Palermo. Una 126 imbottita di esplosivo salta per aria, uccidendo il magistrato Paolo Borsellino e i cinque agenti della sua scorta. Pochi giorni prima, Borsellino aveva interrogato Mutolo, poi aveva incontrato Nicola Mancino. La trattativa segreta, intanto, sarebbe proseguita. Dopo il ‘93 i boss avrebbero avuto un altro referente nelle istituzioni, l’attuale senatore del Pdl Marcello Dell’Utri. La trattativa avrebbe avuto il suo culmine nel 1994: lo sostengono il procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, e i sostituti Nino Di Matteo, Lia Sava e Francesco Del Bene. Fu proprio allora che i capimafia Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca, secondo gli inquirenti, “prospettarono al capo del governo in carica, Silvio Berlusconi, per il tramite del suo stalliere Vittorio Mangano e di Dell’Utri, una serie di richieste finalizzate a ottenere benefici di varia natura”.
L’INCHIESTA
Trattativa Stato-mafia
indagato Giovanni Conso
False informazioni a pubblico ministero. E’ l’accusa rivolta all’ex Guardasigilli dai magistrati che si occupano della vicenda. Indagato anche il boss Giovanni Brusca. E’ il terzo ministro a entrare nell’indagine. Sono stati iscritti, infatti, anche l’ex ministro dell’Interno, Nicola Mancino per falsa testimonianza e Calogero Mannino per violenza o minaccia a corpo politico dello Stato *
L’ex ministro della Giustizia Giovanni Conso, 91 anni, è indagato per false informazioni a pubblico ministero nell’ambito dell’inchiesta condotta a Palermo sulla trattativa tra Stato e mafia. Sentito dai pm sulla revoca del carcere duro a oltre 300 mafiosi, disse di "avere agito in solitudine", versione che non ha convinto i magistrati. Oltre a Conso è indagato anche Giovanni Brusca. Il boss mafioso risponde dell’accusa di violenza o minaccia a corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato.
Giovanni Conso, guardasigilli dal febbraio del 1993 ad aprile del 1994, è stato sentito più volte dai pm di Palermo che indagano sulla trattativa. Il suo nome è entrato nell’inchiesta dopo una sua audizione alla commissione Antimafia dell’11 novembre del 2010 nel corso della quale affrontò il capitolo dei 41 bis fatti scadere o non rinnovati. Il 1 novembre del 1993 non vennero rinnovati 140 decreti di carcere duro e altrettanti vennero fatti scadere tra fine novembre dello stesso anno e gennaio del 1994. "Una scelta fatta in autonomia" ha sempre ripetuto l’ex Guardasigilli, sia all’Antimafia che ai pm di Palermo. Ma per la Procura, invece, proprio l’alleggerimento del carcere duro sarebbe stato uno dei punti al centro della trattativa Stato-mafia.
Conso è il terzo ministro a entrare nell’indagine: sono stati iscritti anche l’ex ministro dell’Interno, Nicola Mancino per falsa testimonianza e Calogero Mannino per violenza o minaccia a corpo politico dello Stato. Nei loro confronti e nei confronti degli altri indagati, in tutto una decina, si attende nelle prossime ore la notifica dell’avviso di conclusione dell’indagine. Nel caso del reato di false informazioni a pm contestato a Conso, prevede il codice penale, l’inchiesta si sospende fino alla definizione in primo grado del procedimento principale: in questo caso quello sulla trattativa.
Per quanto riguarda Mancino, l’ex ministro era stato ascoltato lo scorso febbraio come teste al processo Mori, e al termine dell’udienza i pm Antonio Ingroia e Nino Di Matteo avevano detto che "qualche uomo delle istituzioni mente". I pm, in sostanza, ritengono che Mancino insediatosi al Viminale il primo luglio 1992 sapesse della trattativa che prevedeva di cedere al ricatto dei boss in cambio della rinuncia all’aggressione terroristica e ai progetti di uccisione di altri uomini politici. E che ora l’ex presidente del Senato ed ex vicepresidente del Csm neghi l’evidenza per coprire "responsabilità proprie e di altri".
Nell’avviso di garanzia ricevuto da Mannino, ex ministro democristiano, oggi deputato, si parla genericamente di "pressioni" che il politico siciliano avrebbe esercitato su "appartenenti alle istituzioni", sulla "tematica del 41 bis", il carcere duro che i capimafia cercavano di far revocare.
Ma la Mafia non è un film di gangster
di Gian Carlo Caselli (il Fatto, 13.03.2012)
Un classico. Finché i magistrati si occupano di Riina e soci (cioè dell’ala militare, indifendibile della mafia) tutto bene. Ma non appena ci si affaccia al livello delle possibili complicità con politici, imprenditori, medici e professionisti vari (le cosiddette “relazioni esterne”) , la musica cambia. In un attimo ci si dimentica che la vera forza della mafia non è la sua struttura gangsteristica. Il suo autentico potere sta altrove, nelle complicità, collusioni e coperture. Non indagare anche su questo versante significa fare antimafia solo a metà, rinunziando alla possibilità stessa di vincere davvero la guerra alla mafia. E l’unico strumento investigativo-giudiziario che consente di intervenire anche su questo versante è il “concorso esterno”, che si concreta quando taluno concorre - appunto - ad attività del sodalizio criminale senza farne parte come affiliato.
SENONCHÉ, chi fa antimafia utilizzando anche questo decisivo strumento deve mettere in conto che si attirerà robuste antipatie. L’ex premier Berlusconi, al riguardo, è stato un precursore, quando nell’intervista al periodico inglese Spectator e alla Gazzetta di Rimini dell’11.9.03 ha sostenuto che “a Palermo la nostra magistratura comunista, di sinistra, ha creato un reato, un tipo di delitto che non è nel codice; è il concorso esterno in associazione mafiosa”. Questo concetto è stato poi ripetuto da una schiera di epigoni del “leader” e ha finito per diventare un ritornello della canzone sui teoremi giudiziari. Per cui, sostenendo - nella requisitoria sul caso Dell’Utri - che al “concorso esterno ” (se sono precise le cronache giornalistiche) ormai non crede più nessuno, il sostituto procuratore generale della Cassazione Iacoviello forse pensava di dire una cosa originale, mentre si è trattato della replica (magari inconsapevole) di un film già visto.
Un film, in verità, piuttosto surreale, perché tutti gli studiosi concordano con le parole della sociologa palermitana Alessandra Dino, secondo cui la mafia costituisce “un network potente e articolato, che comprende esponenti del mondo della politica, dell’economia e delle professioni”. Un riscontro alla teoria dello storico Salvatore Lupo, per il quale c’è una “richiesta di mafia” non solo in settori della società civile, ma anche dell’imprenditoria, della politica, del sistema economico-finanziario e di certi poteri costituiti. “Richiesta” o meno, chiunque studi l’evoluzione delle mafie constata che per realizzare i loro affari esse hanno bisogno di commercialisti, immobiliaristi, operatori finanziari e bancari, amministratori e politici, notai e giuristi. Un intreccio perverso che costituisce la spina dorsale del potere mafioso e che si può contrastare - ripeto - soltanto con la figura del “concorso esterno”.
Sul piano processuale, non occorrono chissà quali studi per sapere che questa figura risale addirittura al 1875, come provano le sentenze della magistratura palermitana sul brigantaggio - e che essa fu poi impiegata nei processi per terrorismo (Brigate rosse e Prima linea) e in quelli di mafia - finché la sua legittimità è stata ripetutamente riconosciuta dalla Corte di cassazione, che ha anche stabilito rigorosi paletti garantisti.
MA A SPAZZARE via ogni dubbio ci ha pensato il pool di Falcone e Borsellino, vale a dire il massimo dei massimi in tema di contrasto della mafia, sostenendo (pag. 429 dell’ordinanza/sentenza 17 luglio 1987 conclusiva del maxi-ter) che: “Manifestazioni di connivenza e di collusione da parte di persone inserite nelle pubbliche istituzioni possono - eventualmente - realizzare condotte di fiancheggiamento del potere mafioso, tanto più pericolose quanto più subdole e striscianti, sussumibili - a titolo concorsuale - nel delitto di associazione mafiosa. Ed è proprio questa ‘convergenza di interessi’ col potere mafioso... che costituisce una delle cause maggiormente rilevanti della crescita di Cosa Nostra e della sua natura di contropotere, nonché, correlativamente, delle difficoltà incontrate nel reprimerne le manifestazioni criminali”. A fronte di queste parole, ogni eventuale tentazione di riconoscere solo in teoria la pericolosità della mafia nelle sue connessioni col potere politico ed economico, per poi - nel momento di passare all’azione - limitarsi a colpirne l’ala militare, va contestata con fermezza. Anche a rischio di essere considerati come eretici o marziani. In un mondo in cui aliena - rispetto alla società - finirebbe così per diventare non la mafia, ma piuttosto l’antimafia.
La trattativa, il pianto. Così Borsellino diventò un ostacolo
Borsellino pianse: tradito da un amico
di Giovanni Bianconi (Corriere della Sera, 09.03.2012)
Secondo l’ultima ricostruzione della Procura di Caltanissetta, la fretta di eliminare Borsellino derivò dal fatto che il giudice era venuto a sapere dei contatti tra lo Stato e la mafia. Due magistrati a lui vicini lo videro piangere poche settimane prima dell’attentato. «Non posso pensare che un amico mi abbia tradito», disse Borsellino.
CALTANISSETTA - La fine adesso è nota: «Sia nel luglio del 1992, sia nell’anno 1993, la strategia di Cosa nostra è stata quella di trattare con lo Stato attraverso l’esecuzione di plurime stragi che hanno trasformato la trattativa in un vero e proprio ricatto alle istituzioni». Ricatto che ha prodotto i suoi effetti: «Alcuni significativi risultati Cosa nostra li ha ottenuti se si considera che l’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario (il carcere duro per i mafiosi, ndr) è stato di fatto depotenziato». I detenuti sottoposti al regime restrittivo si ridussero, in poco più di un anno, di circa due terzi. Poi è cominciata una nuova stagione politica.
La premura
Dall’ultima ricostruzione della Procura di Caltanissetta sulla bomba che il 19 luglio 1992 uccise Paolo Borsellino, emerge in maniera nitida come gli attentati mafiosi abbiano accompagnato - parallelamente all’inchiesta milanese Mani Pulite - il trapasso dalla prima alla seconda Repubblica. Attraverso un ricatto che prese le mosse quando si decise di eliminare il nemico giurato Giovanni Falcone non a Roma, con qualche colpo di pistola, ma facendo saltare in aria un pezzo di autostrada a Capaci, in Sicilia, nel regno di Cosa nostra. Nemmeno due mesi dopo l’altro attentato, oggi catalogato come «terroristico»: la morte di Paolo Borsellino che trasforma Palermo in un quartiere di Beirut al tempo della guerra. Eliminazione programmata da tempo, ma anticipata con una «premura incredibile», hanno rivelato alcuni pentiti. Perché erano in gioco altri interessi: «La tempistica della strage è stata certamente influenzata dall’esistenza e dalla evoluzione della cosiddetta trattativa tra uomini delle istituzioni e Cosa nostra», scrivono i pubblici ministeri nell’atto d’accusa che conclude quasi quattro anni di indagini nate dalle rilevazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza.
Le istituzioni coinvolte
La fretta di eliminare Borsellino derivò dal fatto che il magistrato, procuratore aggiunto di Palermo, era venuto a sapere dei contatti tra i carabinieri del Ros, guidati dall’allora colonnello Mario Mori, e l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino. Contatti diretti alla cattura dei latitanti, secondo gli investigatori dell’Arma, che però Cosa nostra percepì come occasione per imporre patti e condizioni: «Nella ricostruzione del generale Mori non convince l’ostinata negazione di una trattativa che invece è nelle stesse sue parole descrittive degli incontri con Ciancimino. Per Cosa nostra era certamente una trattativa», accusano i pm nisseni per i quali Mori, il suo superiore generale Subranni e il capitano De Donno che l’accompagnava negli incontri con l’ex sindaco «sono soltanto il livello statuale più basso di questa trattativa. Altri soggetti, politici, vi hanno verosimilmente partecipato anche dopo il 1992. Questa trattativa si svolse a più riprese e iniziò prima della strage di via D’Amelio». È il punto di svolta della nuova indagine. Borsellino scoprì i contatti tra la mafia e altri rappresentanti dello Stato, schierati ufficialmente al suo fianco.
«Tradito da un amico»
Due magistrati, Alessandra Camassa e Massimo Russo, un giorno di fine giugno lo videro piangere. «Essendo un uomo all’antica non l’aveva mai fatto - ha testimoniato Camassa -. Ricordo che Paolo, anche questo era insolito, si distese sul divano, e mentre gli sgorgavano delle lacrime dagli occhi disse: "Non posso pensare che un amico mi abbia tradito"». Non disse chi fosse quell’amico, né accennò a trattative. Ma la vedova del giudice ha raccontato che il marito, legato al generale Subranni, le confidò di essere sconvolto dopo aver saputo di sue presunte collusioni con la mafia. E le aveva testualmente riferito che «c’era un colloquio tra la mafia e parti infedeli dello Stato».
Borsellino venne a sapere dei contatti tra i carabinieri e Ciancimino il 28 giugno ’92. Glielo disse la sua amica magistrata Liliana Ferraro, non gli ufficiali coi quali stava collaborando. Tre giorni dopo, al Viminale, vide il neo-ministro dell’Interno Nicola Mancino, in un fugace incontro che Mancino continua a non ricordare. Ma quanto riferito dall’ex ministro, secondo la Procura di Caltanissetta, «appare illogico e non verosimile... V’è da chiedersi se il senatore Mancino sia vittima di una grave amnesia, ovvero sia stato indotto a negare un banale scambio di convenevoli per il timore di essere coinvolto, a suo avviso ingiustamente, nelle indagini. Non si può tuttavia negare che residua la possibilità teorica che egli possa aver mentito "perché ha qualcosa da nascondere"».
Ostacolo da eliminare
La conclusione è che pur essendosi raccolti nuovi e importanti elementi circa ombre inquietanti di apparati infedeli dello Stato», non sono state individuate ipotetiche «responsabilità penali». Tuttavia, «in quel momento storico ben era possibile una trattativa con Cosa nostra, e molteplici erano le figure, anche istituzionali, che giocavano partite complesse e spregiudicate con incursioni anche nel campo avverso».
In ogni caso, «si è raggiunta la certezza che Borsellino sapesse delle trattative in corso, e che la sua posizione era, chiaramente, negativa». Di qui la «premura» con cui Totò Riina decise di farlo fuori, giacché «era d’ostacolo alla loro riuscita». L’attentato all’ex ministro democristiano Calogero Mannino fu rinviato, e accelerato quello contro il giudice. Conclusione: «È possibile sia che la decisione di anticipare l’uccisione di Borsellino avesse, da parte di Cosa nostra, lo scopo di punire chi si opponeva alla trattativa, sia anche di riprendere la stessa da posizioni di maggiore vigore».
Dopo la strage di via D’Amelio si apre una nuova fase della trattativa, «in cui a poco a poco Riina da soggetto diventa oggetto della stessa». E si arriva alla cattura del boss, nel gennaio 1993. Da quel momento comincia un tira-e-molla sul 41 bis, inframmezzato dalle stragi sul continente: a Firenze e contro Maurizio Costanzo a maggio, a Roma e Milano a luglio. Proprio mentre i rinnovati vertici dell’amministrazione penitenziaria discutevano su come lanciare «segnali di distensione» sul «carcere duro».
Emergono «riserve» e prese di distanza che, accusano i procuratori, «offrono un quadro desolante del fronte antimafia a meno di un anno dalle stragi del ’92 e contemporaneamente alle nuove stragi continentali». E ancora: «Rimane accertato un quadro certamente fosco di quel periodo della vita democratica di questo Paese... Che poi vi fosse una diffusa "stanchezza" della politica per le iniziative legislative antimafia adottate negli anni 1990-92, purtroppo è parimenti certo. Stanchezza che lambirà, nei mesi successivi, anche il ministero retto dal senatore Mancino». Senza che ciò comporti, ribadiscono i pm fin quasi alla noia, «alcun tipo di responsabilità personale».
Il «frutto avvelenato»
In questo quadro si arriva alla decisione dell’ex ministro della Giustizia Giovanni Conso, tra ottobre e novembre 1993, di non rinnovare oltre 300 decreti di «carcere duro». Decisione presa nel tentativo di «fermare le stragi», che il ministro dice di aver adottato «in assoluta solitudine»: affermazione «in contrasto con tutti gli altri elementi documentali acquisiti al procedimento», visti i documenti dell’amministrazione penitenziaria che da mesi suggerivano scelte di quel tipo.
«C’è da chiedersi se non sia stato il prezzo della trattativa pagato dallo Stato», sottolinea la Procura, e alla domanda «può rispondersi positivamente... La cosiddetta trattativa, iniziata nel 1992, trova compimento e dà il suo frutto avvelenato nel 1993». Ma tutto questo, con la strage di via D’Amelio, non c’entra più. È solo l’estensione di un possibile movente, che continuerà a produrre i suoi effetti anche nei mesi successivi. Quando il giudice Borsellino è morto da tempo. Celebrato e tradito al tempo stesso, accusano i magistrati che a vent’anni dall’eccidio ritengono di aver scoperto un altro pezzo di verità nascosta.
Giovanni Bianconi
di Francesco La Licata (La Stampa, 09.03.2012)
La nostra storia recente si caratterizza per l’assoluto deficit di verità nelle indagini sui più eclatanti e dolorosi lutti nazionali. Una procura non ha ancora finito di indagare (addirittura con la riesumazione del cadavere) sulla controversa morte (1950) di Salvatore Giuliano, la stessa ha riaperto - dopo averla chiusa con scarsi risultati - l’inchiesta sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro (1970). Ben due uffici giudiziari importanti - Palermo e Caltanissetta - puntano da anni le rispettive lenti di ingrandimento su quel «quadro certamente fosco», per usare le parole degli stessi magistrati indagatori, che è venuto fuori nell’ambito delle vicende dello stragismo mafioso dipanatesi tra il 1989 e il 1994: dall’attentato fallito all’Addaura contro il giudice Giovanni Falcone alle «mattanze» di Roma, Firenze e Milano (1993), passando per gli eccidi di Capaci e via D’Amelio e il torbido assassinio dell’eurodeputato Salvo Lima.
Ieri sono stati inchiodati alle loro responsabilità alcuni dei protagonisti dell’enorme depistaggio costruito per sabotare le inchieste sulla strage che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e ai cinque poliziotti che lo scortavano. Un successo reso possibile dal non preventivato pentimento di Gaspare Spatuzza, inaspettatamente disponibile a rispondere alle domande del procuratore Piero Grasso. Non si potrebbe che essere soddisfatti di un tal traguardo, se non fosse arrivato a vent’anni dalla strage e non si avesse la certezza che tutto quel tempo è stato sprecato ad inseguire false verità e falsi pentiti per precise responsabilità istituzionali degli apparati preposti alle indagini.
Davvero per vent’anni non è stato possibile disvelare la tragica «truffa» inscenata dai falsi collaboratori Scarantino e Candura? Davvero in vent’anni non è venuto in mente a nessuno di verificare le deposizioni dei due che si accusavano del furto della «126 bomba»? E soprattutto: se Spatuzza non si fosse deciso a parlare a che punto sarebbe la «verità» sulle stragi?
Ma queste potrebbero esser considerate recriminazioni sterili e persino ingenerose, specialmente nei confronti di chi ha lavorato per recuperare sul passato. Partiamo, dunque, dalle «novità confortanti», ma ancora debilitate dalle precisazioni dei magistrati che le inquadrano non come un punto d’arrivo ma come un punto di partenza, proprio alla vigilia della sentenza della Cassazione sul sen. Marcello Dell’Utri, coprotagonista del possibile seguito della storia, quella che riguarda le indagini sulla nascita del berlusconismo e della «Seconda Repubblica».
L’inizio, insomma, di una ennesima «telenovela» che si appalesa tra le diversità di vedute di due procure. Da un lato Caltanissetta, più propensa a «chiudere» l’inchiesta nell’ambito di responsabilità criminali dove si intravede la presenza politico-istituzionale ma senza il coinvolgimento e la collusione. Come dire: la politica ha favorito la cosiddetta trattativa ma senza sporcarsi le mani. Dall’altro Palermo che, invece, ha già indagato più di un parlamentare, nella ipotesi accusatoria che descrive la classe dirigente impegnata a fermare l’aggressione di Cosa nostra «in ogni modo» e con l’obiettivo di salvare la pelle a quei politici entrati nel mirino di Totò Riina dopo l’assassinio di Salvo Lima.
E, dunque, sembra trovare credito l’interpretazione che a suo tempo costò, invece, al procuratore Grasso più di una critica, quando sottolineò la coincidenza temporale fra l’inizio della «trattativa» e la sospensione dei progetti omicidiari in danno di alcuni uomini politici, siciliani e non. E sembra sensata l’interpretazione che, ancora Grasso, offre della trattativa tra Stato e mafia. Dice il magistrato che l’elemento di novità della nuove indagini sta nella possibilità di inquadrare i contatti tra politici e mafia non più nella ricerca del semplice scambio di favori per i detenuti, ma in un vero e proprio progetto tenuto in vita per impedire un traumatico cambio epocale negli assetti politico finanziari del Paese, già messi a dura prova dallo tsunami provocato dalle inchieste di Milano sulla corruzione.
Grasso parla di una vera e propria «strategia della tensione che non ha mai abbandonato l’Italia, una sorta di estorsione nei confronti delle istituzioni», perché «in quegli anni c’era il pericolo di mutamenti politici non graditi». Parole gravi, anche per la competenza e la riconosciuta serietà di chi le ha pronunciate. Per questo sarebbe utile che, per una volta, si rinunciasse alle reazioni esagitate, buone solo a confondere perché tutto rimanga immutato, per inaugurare un percorso di serena collaborazione alla ricerca di una verità passata, senza la quale il futuro potrebbe restare incompiuto. E se la magistratura dovesse esser costretta a fermarsi per inadeguatezza della via giudiziaria, dovrebbe essere il Parlamento ad intestarsi il proseguimento della ricerca di ricostruzione di un contesto che fu anche di natura politica.
PER L’ITALIA E PER LA COSTITUZIONE, CARO PRESIDENTE NAPOLITANO, CREDO CHE SIA ORA DI FARE CHIAREZZA. PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI ...
La manifestazione
Palasharp di Milano, il 5 febbraio: ingresso libero
Berlusconi dimettiti! *
Libertà e Giustizia raccoglie la domanda di mobilitazione che arriva dai commenti all’appello Resignation - DIMISSIONI. Il testo ha raccolto decine di migliaia di firme in Italia, in Europa e anche negli Usa. Rilanciato dai social network, dai blogger e dai siti d’informazione, porta le prime firme di Gustavo Zagrebelsky, Paul Ginsborg e Sandra Bonsanti. Ma migliaia sono stati i commenti di chi ha lasciato un messaggio: “firmare non basta”, “facciamo qualcosa”, “Berlusconi lasci il governo del paese”. Libertà e Giustizia risponde a questa richiesta con “una prima manifestazione - spiega Sandra Bonsanti, presidente dell’associazione - per testimoniare la storia, la voce di chi non ha accettato passivamente l’imbarbarimento prodotto dalla politica e dalla cultura di Silvio Berlusconi e per gridare un ‘Basta’ allo smantellamento dello Stato”. L’appuntamento è per sabato, 5 febbraio, a partire dalle 15 (cancelli aperti dalle 13 e 30), al Palasharp di Milano (via Sant’Elia, 33 - MM Lampugnano) con Umberto Eco, Paul Ginsborg, Roberto Saviano, Gustavo Zagrebelsky, e la partecipazione di molti testimoni della società civile (*).
L’ingresso è libero fino a esaurimento posti. La capienza del Palasharp è di 9 mila posti: si consiglia di arrivare con un certo anticipo.
Liberiamoci dalle macerie e cominciamo a ricostruire: come all’alba della Repubblica. La società civile chiede di partecipare attivamente e dare voce alle preoccupazioni sulla gravissima crisi politico-istituzionale scatenata dagli interessi privati di Berlusconi.
Troveremo insieme le parole per esigere le dimissioni prima di tutto e liberarci dal potere corrotto e corruttore di Silvio Berlusconi, dal fango, dagli attacchi alla Costituzione, alla magistratura tutta e in particolare alla Procura di Milano, all’informazione, alla dignità delle donne.
Con Zagrebelsky, Ginsborg, Eco e Saviano, tutti fortemente impegnati a fianco della società civile, mobilitiamoci allora per cominciare insieme a ricostruire l’Italia, il nostro Paese e per riappropriarci di parole che la storia e il sacrificio di milioni di italiani hanno reso eterne e inviolabili: libertà, giustizia, democrazia, repubblica, uguaglianza, lavoro, COSTITUZIONE. Troveremo insieme anche i modi per proseguire in questa mobilitazione per le dimissioni del presidente del Consiglio che sarà dopo questo primo appuntamento, l’impegno costante della società civile.
(*) Hanno confermato la loro partecipazione:
Giovanni Bachelet Bice Biagi Carla Biagi
Daria Bonfietti Susanna Camusso Lorenza Carlassare
Nando dalla Chiesa Concita De Gregorio
Beppino Englaro
Beppe Giulietti Irene Grandi
Maurizio Landini Gad Lerner
Milva Moni Ovadia Giuliano Pisapia
Maurizio Pollini Enrico Rossi
Elisabetta Rubini Oscar Luigi Scalfaro Salvatore Veca Lorella Zanardo
* LIBERTA’ E GIUSTIZIA: http://www.libertaegiustizia.it/2011/01/27/dimettiti-per-unitalia-libera-e-giusta-tutti-al-palasharp-di-milano-il-5-febbraio/
Trattavano, ma a loro insaputa
di Marco Travaglio *
L’ultimo in ordine di tempo è stato Giovanni Conso, ministro della Giustizia nei governi Amato e Ciampi dal febbraio ’93 al marzo ’94. Sentito in Antimafia, Conso ricorda all’improvviso ciò che non aveva mai rivelato in 17 anni: “Nel novembre ’93 decisi di non rinnovare il 41-bis a 140 mafiosi ed evitai così nuove stragi. Ma non c’è mai stato alcun barlume di trattativa. Decisi in piena solitudine senza informare nessuno: né i funzionari del ministero, né il Consiglio dei ministri, né il premier Ciampi, né il capo del Ros Mario Mori, né il Dap. Non fu per offrire una tregua, una trattativa, una pacificazione, ma per vedere di fermare la minaccia di altre stragi. Dopo le bombe del ’93 a Firenze, Milano e Roma, Cosa Nostra taceva. Riina era stato arrestato, il suo successore Provenzano era contrario alle stragi, dunque la mafia adottò una nuova strategia non stragista”.
Giustamente Luigi Li Gotti, avvocato di molti pentiti e deputato Idv, commenta: “Indirettamente Conso conferma la trattativa Stato-mafia”, ma rivela pure che “c’era stata una ‘comunicazione’ di Provenzano sull’abbandono della strategia stragista” e che “il governo sapeva che dietro le stragi c’era Cosa Nostra e il 41-bis”.
Checché Conso tenti di minimizzarle, sono notizie clamorose (infatti il Pompiere della Sera non vi dedica nemmeno mezza riga): lo Stato e l’Antistato si parlavano. Altrimenti, come faceva Conso a sapere che “Provenzano era contrario alle stragi”, visto che proprio nel novembre ’93 fallì per un guasto tecnico il mega-attentato all’Olimpico che doveva essere ripetuto (stavolta con successo per Cosa Nostra) nel gennaio ’94 e fu poi misteriosamente annullato in extremis? E come faceva Conso a sapere che proprio non rinnovando il 41-bis a 140 mafiosi si sarebbero “evitate nuove stragi”? Chi era dunque il trait d’union fra Stato e mafia? Se, in quei mesi, Vittorio Mangano faceva la spola fra Palermo e Milano2 per incontrare Dell’Utri negli uffici di Publitalia dove stava nascendo Forza Italia, resta da capire chi informasse il governo Ciampi, sostenuto da quel che restava del pentapartito, su richieste e scelte di Cosa Nostra. E comunque basta questo per parlare di trattativa. Altro che “nessun barlume”.
Conso non è credibile quando giura di aver fatto tutto da solo. Perché nel 2003, sentito dal pm fiorentino Chelazzi proprio sulla revoca di quel 41-bis, non disse nulla di quel che dice oggi? La storia del biennio nero 1992-’93 è piena di “servitori dello Stato” che fanno strane cose con la mafia, poi se le scordano per 17 anni e ritrovano la memoria solo quando un mafioso pentito, Gaspare Spatuzza e il figlio di un mafioso, Massimo Ciancimino, raccontano la trattativa. Nel giugno ’92, dopo Capaci, i capi del Ros Mori e De Donno incontrano Vito Ciancimino perché faccia da tramite con i boss. Il ministro Martelli, predecessore di Conso, manda la giudice Ferraro a informarne Borsellino. Questi incontra Mori e De Donno, che però dicono di non aver parlato di trattativa. Il 1° luglio, mentre incontra il pentito Mutolo, Borsellino viene convocato d’urgenza al Viminale dove s’è appena insediato Mancino e ne esce sconvolto, anche perché gli han fatto incontrare Contrada che Mutolo si accinge ad accusare. Diciotto giorni dopo salta in aria in via D’Amelio e dalla scena del delitto scompare la sua agenda rossa.
A fine anno Mori tenta di convincere Violante, presidente dell’Antimafia, a incontrare Ciancimino, invano. Anche Violante, come Martelli, Ferraro e Conso, impiega tre lustri per ricordare l’episodio. Ma tutti negano la trattativa e giurano di aver agito a titolo personale. E il papello che invocava la fine del 41-bis? Un falso. E la mancata perquisizione del covo di Riina nel ’93? Un disguido. E il mancato arresto di Provenzano nel ’95? Un equivoco. E il mancato ritrovamento del papello a casa Ciancimino nel 2005? Ops... Tutti trattavano con la mafia, ma a loro insaputa.
* Il Fatto quotidiano, 13.11.2010: http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/11/13/l%E2%80%99ultimo-in-ordine-di-tempo-e-stato-giovanni/76710/
L’ANALISI
Ribellarsi allo scandalo
di ROBERTO SAVIANO *
I giudici dicono che la ’ndrangheta è entrata in Parlamento. E’ un’affermazione terribile: proviamo a fermarci un momento e cerchiamo di capire cosa vuol dire. Significa che il potere mafioso ha messo piede direttamente nel luogo più importante, delicato dello Stato: quello dove il popolo si fa sovrano, dove la democrazia si realizza. E’ questa la vera emergenza di cui dovremmo discutere. E’ come un terremoto, una valanga, solo che la colpa non è del fato: non è stata una calamità.
ASCOLTA L’AUDIO DI ROBERTO SAVIANO
Sapevamo tutto. La criminalità organizzata prima crea zone dove il diritto non entra, poi si espande, pervade l’economia, si appropria del Paese, e infine entra lei stessa nello Stato. Ci sono anni di inchieste, prove raccolte, fiumi di denaro che testimoniano l’immenso potere delle mafie d’Italia. Prima le cosche siciliane, poi le calabresi e campane hanno tolto al sud ogni possibilità di sviluppo e avvelenano l’intera economia.
Ma la vera emergenza non è questa. L’emergenza è che tutto questo passi come l’ennesimo scandalo silenzioso, al quale siamo rassegnati. L’emergenza è che tutto ciò non faccia sentire nel cuore, nello stomaco, nella mente di ogni italiano (qualsiasi sia il suo credo e la sua posizione politica) un’indignazione che lo porti a ribellarsi, a dire: "Ora basta".
© la Repubblica, 25 febbraio 2010
VERBALI.
I rapporti tra Di Girolamo e i clan che l’avevano eletto "Se t’è venuta la senatorite problema tuo, ma stai attento..."
E il consigliori disse al senatore
"Devi pagare le tue cambiali"
"Puoi diventare pure il presidente della Repubblica, per me conti come il portiere mio"
di FRANCESCO VIVIANO *
La ’ndrangheta è entrata anche nel Parlamento italiano. Ha un suo autorevole rappresentante, il senatore del Pdl Nicola Di Girolamo per il quale la Procura di Roma ha chiesto l’arresto. La misura cautelare è stata chiesta per Di Girolamo perché il senatore "risulta organicamente inserito nell’associazione criminale con incarico di "consulente legale e finanziario"" sia con gli uomini della ’ndrangheta della cosca Arena di Isola di Capo Rizzuto, sia di altre ’ndrine sia con gli altri arrestati nella retata della grande truffa. I boss della ’ndrangheta lo chiamavano confidenzialmente "Nic" ed il suo amico fraterno, l’imprenditore romano Gennaro Mokbel (in passato legato ad Antonio D’Inzillo, l’ex esponente dei Nar e della banda della Magliana latitante da tempo in Africa), lo manovrava come un burattino.
Come emerge chiaramente dalle numerosissime conversazioni intercettate dai carabinieri del Ros, il senatore Di Girolamo eletto all’estero grazie all’appoggio fondamentale della ’ndrangheta, lavorava a tempo pieno per conto delle cosche calabresi. Faceva società con i boss, in Italia ed all’estero, viaggiava in lungo ed in largo per il mondo per andare ad "investire" i soldi della mega truffa delle telecomunicazioni. E i proventi delle cosche calabresi. Per ripulire quella montagna di denaro, operava su conti in banche estere di mezzo mondo "al fine di porre in essere - scrive il gip nell’ordinanza - attività di riciclaggio".
Di Girolamo non agiva mai d’iniziativa propria, erano sempre i boss della ’ndrangheta ed il suo amico Mobkel, con il quale aveva un vero e proprio rapporto di sudditanza, che gli dicevano cosa fare.
I CONTATTI TRA MOKBEL ED IL SENATORE DI GIROLAMO.
Mokbel comandava a bacchetta il senatore della Repubblica Nicola Di Girolamo e lo offendeva anche perché lo riteneva "una sua creatura e dei suoi amici della ’ndrangheta". In una intercettazione telefonica tra i due che parlano per motivi di interessi, Mokbel (M) apostrofa il senatore (S) "servo", contestandogli che vale meno del suo "portiere".
M: "Se t’è venuta la "candidite", se t’è venuta la "senatorite" è un problema tuo, però stai attento... ultimamente io sò stato zitto, ma oggi mi hai riempito proprio le palle Nicò, capito?" .
S: "Comunque, guarda, mi dispiace...". M: "Devo aprì bocca Nicò? devo aprì a bocca mia? Io quando apro a bocca faccio male, a secondo del male che si fa, Nicò, hai capito? Vuoi che parlo io?". Di Girolamo è impaurito e risponde: "Io ieri ho sbagliato". Più minacciosa la replica di Mobkel: "Non me ne frega un cazzo, a me di quello che dici tu, per me Nicò puoi diventà pure presidente della Repubblica, per me sei sempre il portiere mio, cioè nel mio cranio sei sempre il portiere, non nel senso che tu sei uno schiavo mio, per me conti come il portiere, capito Nicò? Ricordati che io per le sfumature mi faccio ammazzà e faccio del male". Ed in un altro passaggio Mokbel passa apertamente alle minacce.
M: "Oggi devo stare con la mia gente... sei una grandissima testa di cazzo... Nicò sei proprio sballato, sei una grande delusione lo sai Nicò, ha avuto comportamenti strani, fra te e "Pinocchio (Marco Toseroni socio di Mokbel e di Di Girolamo in alcune società, ndr).. qui stiamo lavorando visto che siamo, nonostante tutto, soci...".
Mokbel è un fiume in piena e ricorda al senatore Di Girolamo, come è stato "creato" ed "eletto" al Senato della Repubblica e gli dice che deve trovare posti di lavoro alle persone che Mobkel gli segnalava: "Mò ricordati che devi pagà tutte le cambiali che so state aperte e in più devi pagà lo scotto sulla tua vita, Nicò perché tu una vita non ce l’avrai più.. ricordati che dovrai fare tutte le tue segreterie tutta la gente sul territorio, chi te segue le Commissioni, il porta borse, l’addetto stampa, il cazzo che se ne frega... ma come ti funziona sto cervello Nicò?".
Mokbel parla di affari con altri indagati e della facilità con cui passa i controlli, anche a Fiumicino: "Io a Fiumicino non mi ferma nessuno, faccio passare quello che mi pare senza problemi, droga, brillanti...". Poi parlano di affidare un incarico al senatore Di Girolamo per portare soldi all’estero, anche ad Hong Kong.
I PROVENTI ILLECITI ED IL RUOLO DEL SENATORE DI GIROLAMO.
Radiografando i grandi affari di Mokbel e Di Girolamo, gli investigatori scrivono: "I programmi di investimento dei proventi illeciti del sodalizio venivano poi sviluppati da Di Girolamo e da Toseroni che cominciava pertanto ad adoperarsi con i suoi referenti asiatici nonché per le questioni relative alle pietre preziose con Massimo Massoli (altro indagato, ndr). I giorni successivi sono quindi caratterizzati dalla pianificazione del viaggio ad Hong Kong da parte dei tre". E di seguito gli inquirenti indicano le società straniere di cui sono titolari Marco Toseroni ed il senatore Di Girolamo. Si scopre così che il senatore ha conti alla Standard Charter Bank di Hong Kong, sul quale vengono accreditati milioni di euro e su altri conti in altre nazioni asiatiche.
I RAPPORTI DI DI GIROLAMO CON IL SENATORE DE GREGORIO.
Numerose pagine dell’ordinanza sono dedicate alla elezione del senatore Di Girolamo ed al ruolo attivo e concreto di Mobkel e della ’ndrangheta. Gennaro Mokbel, è scritto nell’ordinanza, aveva creato un movimento politico denominato "Alleanza Federalista". "Un movimento politico nato nell’ottobre del 2003 gravitante nell’area apolitica della Lega Nord, la cui sede è ubicata in Roma. L’attuale segretario, Giacomo Chiappori, è stato eletto nelle liste della Lega Nord, alla Camera dei Deputati nella circoscrizione Liguria. In tale movimento Gennaro Mokbel assumerà la carica di segretario regionale, con altre cariche distribuite anche ad altre persone". Alleanza federalista "sarà la vera e propria base logistica - scrivono i magistrati - per tutte le iniziative lecite/illecite sia economiche sia imprenditoriali, sia politiche. Poi a seguito di contrasti con i vertici di Alleanza Federalista, accusati di immobilismo ma soprattutto di non coinvolgere Gennaro Mokbel... maturerà la decisione di costituire un autonomo gruppo politico (a cui veniva dato il nome di partito Federalista Italiano) che culminerà nella candidatura alle elezione politiche del 13 e 14 aprile 2008 di Nicola Di Girolamo quale candidato al Senato".
Mokbel fa le scelte e le strategie politiche da seguire e contatta esponenti della ’ndrangheta per sostenere Di Girolamo. E partono, aspiranti politici e ’ndranghetisti, tutti per la Germania "per il procacciamento di voti, e delle schede elettorali in bianco nell’area di Stoccarda". Gli sforzi dell’organizzazione e del suo coordinatore "trovavano concretezza con l’effettiva elezione di Nicola Di Girolamo al Senato della Repubblica con 22.875 voti validi". E dopo l’elezione quel gruppo riparte di nuovo per i "ringraziamenti" alle comunità calabresi della Germania.
Ad un certo punto, però, i rapporti tra Mokbel ed il senatore Di Girolamo si guastano: "Dovendo trovare una collocazione per Di Girolamo, Mobkel diceva al neo-senatore, "dobbiamo trovare un altro partito dove infilarci perché ieri sera è venuto il senatore De Gregorio, l’onorevole Bezzi, tutti quanti si sono messi a tarantella, siccome De Gregorio è l’unico che l’ha l’accordo blindato con Berlusconi... cioè si presenta in una delle liste... e poi fanno la segreteria nazionale... io adesso preferisco vedere se trovo la strada sempre per Forza Italia che sarebbe ancora meglio..."". Con il tempo i rapporti tra Mokbel ed il senatore degenerano perché Di Girolamo non farebbe "esattamente" quello che gli consiglia Mokbel. Che, in una telefonata, lo aggredisce: "Nicò, non stai facendo un cazzo, perdendoti nelle tue elucubrazioni, ti ho avvisato una, due, tre volte ed io con un coglione come te non me ce ammazzo... vuoi far il senatore, prendi i tuoi sette mila euro al mese, vattene affanculo a non me rompè se no ti metto le mani addosso". Ma Di Girolamo, preoccupandosi del ruolo di riciclatore per Mokbel e per la cosca, si schernisce: "Non mi va a finire come Coppola e Fiorani".
IL COMMENTO
Le rivelazioni di Massimo Ciancimino
Se fondate, sono accuse catastrofiche per la nostra democrazia
L’obbligo di chiarire quella leggenda nera
di GIUSEPPE D’AVANZO *
I MORTI non si possono smentire e i vivi hanno difficoltà a difendersi dalle parole di morti. È una condizione che crea inestricabili ambiguità. Si ascoltano con disagio le rivelazioni di Massimo Ciancimino. Le ragioni sono due. La prima può avere come titolo: il morto che parla. Perché a parlare con la voce di Massimo, il figlio, è Vito Ciancimino, il padre, il mafioso corleonese, il confidente di uno Stato debole e compromesso, il consigliere politico di Bernardo Provenzano. Anche se Massimo Ciancimino mostra di tanto in tanto una lettera o un pizzino, sono soprattutto i ricordi delle sue conversazioni con il padre la fonte delle accuse contro Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri.
Ricordiamole perché, se fondate, quelle accuse sono catastrofiche per la nostra democrazia (un uomo, che si è fatto imprenditore con il denaro della mafia e politico con la sua protezione, governa il Paese). Se menzognere e maligne, indicano che contro il capo del governo è in atto un’aggressione ricattatoria che fa leva su alcune oscurità della sua avventura umana e professionale. La mafia, dice Ciancimino, finanziò le iniziative imprenditoriali del "primo Berlusconi" (Milano2). Marcello Dell’Utri sostituì Vito Ciancimino nella trattativa tra lo Stato e Cosa Nostra innescata dopo la morte di Giovanni Falcone (23 maggio 1992) e la nascita di Forza Italia, nel 1993, è stata il frutto di quel pactum sceleris.
I ricordi del giovane Ciancimino inverano, con la concretezza di una testimonianza "diretta", la cattiva leggenda che accompagna da decenni il racconto mitologico della parabola imprenditoriale del presidente del Consiglio. Si può dire così: quelle dichiarazioni riordinano in un resoconto esaustivo e "chiuso" l’intera gamma delle incoerenze che Berlusconi e i suoi collaboratori nella fondazione dell’impero hanno lasciato nel tempo incancrenire per non volerle mai affrontare. Come già è accaduto quando in un’aula giudiziaria è apparso Gaspare Spatuzza, si deve ricordare che Cosa Nostra è tra gli anni settanta e ottanta molto vicina alle "cose" di Silvio Berlusconi e ricompare ancora nel 1994 quando il ministro dell’Interno dell’epoca, Nicola Mancino, dice chiaro che "Cosa Nostra garantirà il suo appoggio a Forza Italia".
I legami tra Marcello Dell’Utri e i mafiosi di Palermo non sono una novità. Come non sono sconosciuti gli incontri tra Silvio Berlusconi e la crème de la crème di Cosa Nostra (Stefano Bontate, Mimmo Teresi, Tanino Cinà, Francesco Di Carlo). Né sono inedite le rivelazioni sulla latitanza di Gaetano e Antonino Grado nella tenuta di Villa San Martino ad Arcore, protetta dalla presenza di Vittorio Mangano, capo del mandamento di Porta Nuova. Con quali capitali Berlusconi abbia preso il volo, a metà degli settanta, ancora oggi è mistero inglorioso.
Molto si è ragionato sulle fidejussioni concessegli da una boutique del credito come la Banca Rasini; sul flusso di denaro che gli consente di tenere a battesimo Edilnord e i primi ambiziosi progetti immobiliari, quando ancora Berlusconi non si dice proprietario dell’impresa, ma soltanto "socio d’opera" o "consulente". Quei capitali erano "neri" soltanto perché sottratti al fisco, espatriati e rientrati in condizioni più favorevoli o erano "sporchi" perché patrimonio riciclato delle ricchezze mafiose, come ha suggerito qualche mese fa Gaspare Spatuzza quando disse: "La Fininvest era un terreno di pertinenza di Filippo Graviano, come se fosse un suo investimento, come se fossero soldi messi di tasca sua"? Le parole di Massimo Ciancimino riportano alla luce anche un’ultima e antica contraddizione di Berlusconi e dei suoi cronisti disciplinati, la più bizzarra: la datazione della nascita di Forza Italia nel 1994 e l’ostinato rifiuto a ricordare che le doglie di quel parto cominciarono nella primavera del 1993 da un’idea covata da Marcello Dell’Utri fin dal 1992.
È una rosa di "vuoti" e antinomie che apre spazi al ricatto mafioso. E’ uno stato che dovrebbe preoccupare tutti. Cosa Nostra minaccia in un regolamento di conti il presidente del Consiglio. Ne conosce qualche segreto. Ha con lui delle cointeressenze antiche e inconfessabili. Le agita per condizionarne le scelte, ottenerne utili legislativi, regole carcerarie più favorevoli, minore pressione poliziesca e soprattutto la disponibilità di ricchezze che (lascia intuire) le sono state trafugate. Lo ripetiamo. In questo conflitto - da un lato, una banda di assassini; dall’altro un capo di governo liberamente eletto dal popolo, nonostante le sue opacità - non c’è dubbio con chi bisogna stare. E tuttavia il capo del governo (per sottrarre se stesso a quel ricatto rovinoso) e la magistratura (per evitare che un governo legittimo sia schiacciato da una coercizione criminale che ne condiziona le decisioni) sono chiamati a fare finalmente luce sull’inizio di una storia imprenditoriale e sull’incipit di un romanzo politico.
È la seconda ragione di disagio, l’assenza di iniziative politiche e giudiziarie a fronte di denunzie così gravi. Ogni cosa sembra risolversi in una "tempesta mediatica", in una rumorosa e breve baruffa che scatena per qualche giorno sospetti, furori e controsospetti e controfurori senza che si intraveda non un’evidenza in più che scacci i cattivi pensieri o li renda più fondati, ma addirittura non si scorge alcuna attività in grado di spiegare finalmente come stanno le cose. Il risultato è che ce ne stiamo qui stretti tra la possibilità di avere al governo un paramafioso, un riciclatore di soldi che puzzano di morte e la probabilità che l’uomo che ci governa sia ricattato da Cosa Nostra per qualche passo storto del passato. È un circuito che va interrotto nell’interesse di Berlusconi, del suo governo e del Paese, della sua credibilità internazionale.
I modi per chiudere questa storia sono certo laboriosi, forse dolorosi, ma agevoli. La magistratura (per quel che se ne sa, ancora non è stata aperta un’istruttoria) accerti la fondatezza delle testimonianze di Massimo Ciancimino e Gaspare Spatuzza - magari evitando di rovesciarle in un’aula di tribunale, prima di una loro verifica. Berlusconi rinunci a scatenare, come d’abitudine, i suoi cani da guardia e faccia finalmente i conti con il suo passato. Non in un’aula di giustizia, ma dinanzi all’opinione pubblica. Prima che sia Cosa Nostra a intrappolarlo e, con lui, il legittimo governo del Paese. È giunto il tempo che questo conflitto sia affrontato all’aperto e non risolto nel segreto con un gioco manipolato e incomprensibile che nasconde alla vista il ricatto, i ricattatori, la punizione minacciata, ciò che si può compromettere, un nuovo accordo salvifico.
CITTADINI SOVRANI. NÉ DI PIÙ NÉ DI MENO
di Paolo Farinella, prete
Manifestazione del 5 dicembre 2009, ore 16,00 Largo Lanfranco (Davanti alla Prefettura) Genova *
Sono qui come cittadino sovrano orgoglioso di esserlo e senza paura di difendere questa mia dignità che non mi deriva dal potere, ma ce l’ho per nascita ed è un diritto inalienabile riconosciuto dalla Costituzione alla quale deve essere sottomesso ogni potere e ogni parlamento. Anche a costo della morte, anche a costo di andare sulle montagne non rinuncerò mai a questa libertà e a questa sovranità che è colorata dal rosso del sangue dei martiri della Resistenza a cui si aggiunge il sangue dei magistrati e degli avvocati e dei cittadini che per difendere la legalità sono stati ammazzati come cani.
La loro memoria grida davanti alla nostra coscienza. O stiamo dalla loro parte o stiamo dall’altra. Non c’è via di scampo. Una nuova tirannia oggi sovrasta l’Italia e noi non possiamo permetterlo. A coloro che scrivono lettere anonime con minacce anche di morte, dico apertamente: non ho paura di voi che vi nascondete sempre dietro l’anonimato, dietro la vostra vergogna. Io ci sono e ci sarò sempre e nessuno riuscirà a farmi tacere in difesa della giustizia, del diritto, della libertà e della libertà di coscienza. Nessuno. Fino a tre giorni dopo la morte, io parlerò.
Parlo anche come prete perché lo sono e sono orgoglioso di esserlo e nessuno né vescovi né papi riusciranno a non farmelo essere. Poiché qualcuno mi accusa di essere eretico, voglio tranquillizzare i cattolici presenti: le cose che dico sono dottrina tradizionale della Chiesa. Se gli altri, compresi i vescovi, se le dimenticano, gli eretici sono loro, non io.
Nel vangelo di Lc si dice che alcuni farisei simpatizzanti misero in guardia Gesù da Erode che voleva farlo uccidere («Erode ti cerca») e Gesù rispose: «Andate a dire a quella volpe che io scaccio gli spiriti maligni» (13,31-32). Con la complicità e il sostegno della mafia uno spirito maligno si è impossessato del nostro Paese e noi come laici in nome della Costituzione e come credenti in nome del Vangelo abbiamo il dovere e il diritto di scacciarlo: «La difesa del bene comune esige che si ponga l’ingiusto aggressore in stato di non nuocere» (CCC 2265).
Diciamo a Bertone, che va a braccetto come un fidanzatino con Berlusconi ad inaugurare mostre, che Paolo VI nella Populorum progressio del 26 marzo del 1967 al n. 31 prevede come lecita «l’insurrezione rivoluzionaria nel caso di una tirannia evidente e prolungata che attenti gravemente ai diritti fondamentali di una persona e nuoccia in modo pericoloso al bene comune del paese» (cf anche Giovanni Paolo II, L’Istruzione Libertatis conscientia (Libertà cristiana e liberazione, 22.3.1986).
Non ci troviamo forse di fronte alle prove generali di una tirannia? Lo Stato democratico e le Istituzioni repubblicane sono state invase dai barbari e da mafiosi, che di ogni principio morale e democratico hanno fatto e stanno facendo scempio immondo. Il barbaro per eccellenza, lo spirito immondo, la volpe di oggi, che fa i gargarismi con l’acqua benedetta, mentre fa accordi con la mafia, si chiama Silvio Berlusconi anzi Berluskonijad perché è un misto tra il comunista Putin del kgb e il reazionario iraniano Ahmadinejad. E’ lui l’ultimo sovietico rimasto in Italia. Infatti la Russia del dittatore Putin e i paesi arabi più retrivi dove non esiste democrazia, sono i posti più prediletti da lui Addirittura dorme anche nel letto di Putin. Rifiutato dalle cancellerie democratiche del mondo, avete un presidente del consiglio che si rifugia in Bielorussia, dove ha osannato il dittatore Lukashenko che il mondo civile non ha mai riconosciuto. Tra dittatori si capiscono. Oggi è partito per Panama, mentre sarebbe ora che partisse per san Vittore. Dico vostro presidente del consiglio perché io l’ho ripudiato pubblicamente il 6 luglio 2009.
Per lui parole come democrazia, verità, eguaglianza, diritti, serietà, legalità, ecc. sono bestemmie perché l’uomo è abituato fin dalla nascita a vivere di falsità, a nutrirsi di illegalità, ad architettare soprusi, a complottare con la mafia, a mettere in atto ogni sorta di prevaricazione con un unico e solo scopo: l’interesse privato e l’ingordigia del suo super ego. Ora siamo all’attacco finale: lo chiamano «processo breve», ma è un solo l’abolizione del processo per annullare la giustizia perché c’è un’emergenza: bisogna impedire i processi che lo vedono imputato per reati gravissimi commessi prima di entrare in politica. Per capire di che si tratta e per divulgare in modo semplice, leggete la pagina che oggi sul Secolo pubblicano il Comitato per lo Stato di Diritto e Giustizia e Libertà hanno pubblicato, a pagamento, una pagina bella oggi sul Secolo XIX, dove potete vedere le conseguenze.
Io credo però che l’obiettivo non sia però il processo breve, ma il totale affossamento della giustizia: in questi giorni ne abbiamo le prove: Cosentino è indagato per Mafia e la maggioranza nega l’arresto; Dell’Utri è stato condannato in primo grado, Schifani (il nome stesso è un programma) frequentava e difendeva mafiosi e ora i pentiti parlano di Berluskonijad e del parto scellerato che sta alla base della fondazione del partito-azienda. I rapporti con la mafia sono naturali e quanto pare i mafiosi gli ha fatto da padrini nella sua nascita come imprenditore-truffatore. Sono motivi sufficienti perché il governo voglia dichiarare illegale ogni indagine per delitti di mafia, pagando così il pedaggio che egli e la sua famiglia e i suoi compari devono a «cosa loro» perché quella cosa non è e non sarà ma i «cosa nostra».
Tutti sanno che questa frenesia di interrompere il processo è condannata dal diritto e anche dalla morale tradizionale della Chiesa che esigono una giusta proporzione tra le parti in giudizio e la ricerca della verità morale. Noi sappiamo che la Corte Suprema lo bollerà ancora una volta, ma a lorsignori basta guadagnare tempo per andare in prescrizione. Lo sanno e proprio perché sono esperti in depistaggio, lo hanno usato per fare venire la diarrea al PD che c’è cascato. Ora aspettiamo i dossier arrivati dalla Bielorussia.
Bersani è la bella addormentata nel bosco che aspetta il bacio del principe che non arriva nemmeno travestito da rospo. Enrico Letta, il nipote del cardinal Mazzarino-Gianni Letta, Gentiluomo di Sua Santità, ha detto che è un diritto di B. difendersi «dal processo». Dovrebbe dimettersi non perché ha detto questo, ma perché è ignorante in fatto di giurisprudenza. Bocciato senza appello, all’ergastolo anche oltre la morte. Da quando ha cominciato a frequentare cattivi cattolici il PD è diventato come la maionese: si monta e si sgonfia in un baleno. Ora hanno la fregola delle riforme e di sedersi al tavolo del dialogo. Con questa gente non si può dialogare. Devono andare a casa, anzi in galera. Mafia e P2 sono al governo e stanno preparando le condizioni per impadronirsi definitivamente del Paese e delle nostre coscienze.
Le nostre coscienze non le avranno mai, perché noi saremo pronti ad andare anche sulle montagne a resistere perché non accettiamo e non accetteremo di essere governati da mafiosi, corrotti, frequentatori di minorenni e utilizzatori finali di prostitute e dall’avvocato Ghedini che paghiamo noi, mentre difende il ladro che ci ha rubato non solo una parte considerevole di denaro sottratto a noi (è fresca la notizia che la finanziaria taglia 103 milioni sui libri di scuola), ma ci deruba anche l’onore all’estero, la dignità sociale e la nostra sovranità di cittadini in casa.
Non possiamo rassegnarci. Non possiamo rassegnarci al luogo comune che la «politica è cosa sporca». E’ una trappola! Non è la Politica ad essere sporca, ma alcuni uomini e donne sporchi che la insozzano e coloro che li hanno votati sono correi e dovrebbero prendere un ergastolo per uno. Per noi Politica è il modo più nobile e diretto di servire il nostro popolo, senza servirsi di esso.
Vogliamo che Berlusconi e chiunque delinque, sia processato secondo lo statuto della nostra Costituzione. Vogliamo conoscere la verità sulla corruzione dei giudizi e dei testimoni. Vogliamo conoscere la verità sulle stragi della mafia. Vogliamo conoscere quanto la mafia sia dentro gli affari di Berlusconi. Vogliamo sapere con inequivocabile certezza se il presidente del consiglio sia un capobastone, un ricattato o una vittima.
Pretendiamo una magistratura libera, indipendente, senza condizionamenti di sorta. Vogliamo vivere in un Paese democratico, in un Paese civile, in un Paese dignitoso. Vogliamo riappropriarci del nostro orgoglio di cittadini sovrani e non permettiamo ad una manica di mafiosi di sottomerci come schiavi. Costi quel che costi, anche a costo della vita. Ai cattolici presenti io, Paolo prete cattolico tradizionalista dico: è parte della nostra missione nel mondo compiere e rendere attuale il programma politico del Magnificat della Madonna che celebreremo il giorno 8 dicembre: non ha senso andare in chiesa l’8 dicembre, se poi vanifichiamo le parole di Maria di Nàzaret, donna rivoluzionaria:
«51 Ha spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
52 ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
53 ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato i ricchi a mani vuote.
54 Ha soccorso Israele, suo servo,
ricordandosi della sua misericordia,
55 come aveva detto ai nostri padri,
per Abramo e la sua discendenza, per sempre» (Lc 1,51-55).
Queste parole hanno una traduzione laica, rivolta a tutti, credenti e non credenti che abitano, anzi che sognano un Paese autenticamente laico, dove la separazione tra Religione e Stato debba essere rigorosissima. Ecco a voi come parola d’ordine di questa sera, le parole di Pier Paolo Pasolini a 37 anni dalla morte: «E noi abbiamo una vera missione, in questa spaventosa miseria italiana, una missione non di potenza o di ricchezza, ma di educazione, di civiltà» (P. P. Pasolini). Nulla di più, nulla di meno.
Genova, dal palazzo della Prefettura, sabato 5 dicembre 2009, ore 16,00-18,00
*Il Dialogo, Mercoledì 09 Dicembre,2009 Ore: 16:13
Spatuzza: «Così ci misero in mano il paese»
di Mariagrazia Gerina *
Un brusio accompagna l’ingresso nell’aula del pentito che accusa Berlusconi e Dell’Utri. Gli occhi di tutti sono puntati su di lui, Gaspare Spatuzza, «u tignusu». Le telecamere sono voltate dall’altra parte. «Per motivi di protezione, non potete riprenderlo», ricorda il giudice, aprendo l’udienza straordinaria, richiesta dalla Procura di Palermo, nell’ambito del processo d’appello al senatore dell’Utri. Per ascoltarlo, difesa, accusa, giudice, si sono trasferiti a Torino, nella maxi-aula, bonificata prima dell’inizio dell’udienza. A sentire la sua deposizione sono accorsi giornali e tv di mezzo mondo. «Innazitutto, buongiorno. Accetto di rispondere», esordisce, con un pizzico di ironia, l’autore «sei o sette stragi, omicidi, sequestri di persona e altro».
Una prima assoluta. Anche se almeno tre procure fin qui - Caltanissetta, Palermo stessa, Firenze - lo avevano già sentito. Ma mai in un’Aula. Spatuzza dissimula perfettamente la tensione. E da come indugia su certi sicilianismi sembra persino compiaciuto. Parla di tutto. Anche della sua conversione. Quando decise «di abbracciare Dio e rinnegare Mammona». Della sua «missione»: «Restituire verità alla storia». Dei timori: «Bisogna vedere le date, nel momento in cui inizio i colloqui mi trovo come primo ministro Berlusconi e come ministro della Giustizia uno che io vedevo come un vice di Dell’Utri».
Ci vogliono quattro ore perché il racconto del pentito si dipani tutto. Dalla strage di Capaci - «per cui, me ne vergogno, ma abbiamo gioito» - al fallito attentato allo Stadio Olimpico. Dall’appoggio ai socialisti: «Nell’87 Giuseppe Graviano mi disse che dovevamo sostenere i candidati socialisti alle elezioni, il capolista era Claudio Martelli. A Brancaccio facemmo di tutto per farli eleggere e i risultati si videro: facemmo bingo». Ai rapporti della famiglia Graviano con Berlusconi e dell’Utri. Il pentito li cita esplicitamente. A parlargli di loro è il boss di Brancaccio, Gisueppe Graviano, «un padre per me». È l’inizio della famosa «trattativa» di cui parla Spatuzza. Sullo sfondo, una scia di sangue e di morti da far rabbrividire: San Giorgio al Velabro, via dei Georgofili, via Palestro...
Tutto ha inizio con un incontro al Bar Doney, a via Veneto. È il ’94. «Giuseppe Graviano (il boss di Brancaccio ndr) indossava un cappotto blu, aveva un atteggiamento gioioso, come se gli fosse nato un figlio», racconta Spatuzza: «Mi dice che avevamo chiuso tutto e ottenuto quello che cercavamo, grazie alla serietà delle persone che portavano avanti questa cosa e che non erano come quei quattro crasti dei socialisti che si erano presi i voti e poi ci avevano fatto la guerra». Chi erano quelle persone? In quella occasione, spiega Spatuzza «Graviano mi parla di Berlusconi. Quello del Canale 5? Sì mi rispose Graviano. Mi disse che c’era anche un nostro compaesano Dell’Utri e che grazie alla serietà di queste persone ci avevano messo il paese nelle mani».
Prima ancora, però, c’era stato un altro incontro tra Graviano e Spatuzza. Località Campo Felice di Roccella. Siamo alla fine del ’93, dopo gli attentati di Roma, Firenze e Milano. «Ci stiamo portando appresso morti che non ci appartengono», racconta di aver detto a Giuseppe Graviano Gaspare Spatuzza, in quell’occasione. La risposta di Graviano fu: «È bene che ce li portiamo dietro, così chi si deve muovere si dà una smossa». Se gli attentati vanno a buon fine «ne avremo tutti dei benefici, compresi i carcerati». Chi era questa entità che si doveva dare una smossa?, gli domanda il procuratore di Palermo Nino Gatto. «Graviano allora non me lo disse».
«È solo a Campo Felice che apprendo dell’esistenza di una trattativa», spiega Spatuzza. «Ed è solo al Bar Doney che apprendo i nomi di Berlusconi e Dell’Utri», ribadisce agli avvocati della difesa, che cercano di inchiodarlo alle contraddizioni. E con i giudici quei nomi non li fa prima del giugno 2009, ribandisce. «Non in relazione alle stragi, prima avevo solo disseminato degli indizi».
Indizi. Come la Standa a via Brancaccio. O la storia del cartelli pubblicitari, che - secondo Spatuzza - portano dritti a Berlusconi e Dell’Utri. «Non parlo per un sentito dire al mercato ortofrutticolo, per Graviano è un padre».
Poi trasformati in vere e proprie accuse contro Berlusconi e dell’Utri. «Voglio contribuire alla verità storica», assicura Spatuzza.
Menzogne, accuse folli, spazzatura, attacchi mafiosi, dice il coro che si leva a difesa del Cavaliere. Intanto però anche Palazzo Chigi trema. E l’affaire Spatuzza finisce dritto-dritto in Consiglio dei ministri. «È folle quello di cui mi accusano, sono cose incredibili: il nostro è il governo che ha fatto di più contro la mafia», tuona Berlusconi, spronando i suoi alla reazioni. Maroni, in particolare. A cui chiede per l’ennesima volta di elencare i risultati dell’esecutivo nella lotta alla criminalità. Intanto parte il fuoco di fila delle dichiarazioni. Capezzone e Gasparri fanno a gara. «Un circo che sputtana il paese», dice l’ex radicale. «Altro che Spatuzza spazzatura», tenta il gioco di parole l’ex colonnello di An. Bonaiuti assicura: «La mafia attacca Berlusconi perché lui l’ha combattuta più di chiunque altro».
Seduta aggiornata al prossimo 11 dicembre, quando al processo Dell’Utri, che per quel giorno avrà fatto ritorno a Palermo, saranno sentiti i boss tirati in ballo da Spatuzza. Dai fratelli Graviano a Cosimo Lo Nigro. E il suo racconto sarà verificato con le loro testimonianze.
* l’Unità, 05 dicembre 2009
L’analisi.
Nel ’94 l’annuncio, ma il progetto partì nel ’92. Il premier lamenta
di essere accusato di "cose mai viste" a proposito delle stragi di mafia del 1993
La nascita di Forza Italia e le bugie del Cavaliere
Ma ci sono anche documenti notarili che retrodatano la creazione del partito
di GIUSEPPE D’AVANZO *
FORZA ITALIA nasce nel 1993, da un’idea covata fin dal 1992. Non c’è dubbio che già nell’aprile del 1993 - quindi alla vigilia della prima ondata delle stragi di mafia di via Fauro, Roma (14 maggio), via dei Georgofili, Firenze (27 maggio) - è matura la volontà di Berlusconi di "mettersi alla testa di un nuovo partito".
In luglio - in parallelo con la seconda ondata di bombe, via Palestro, Milano, 27 luglio; S. Giorgio al Velabro, S. Giovanni in Laterano, Roma, 28 luglio - si mette a punto il progetto politico che diventa visibile in settembre e concretissimo in autunno. E’ una cronologia pubblica, quasi familiare, documentata da testimoni al di sopra di ogni sospetto. Dagli stessi protagonisti. Addirittura da atti notarili. Se è necessario ricordarla, dopo sedici anni, è per le sorprendenti parole di Silvio Berlusconi. Dice il presidente del Consiglio a Olbia: "Mi accusano di cose mai viste. Dicono che io sia il mandante delle stragi di mafia del ’92 e ’93; che avrei orchestrato insieme a Dell’Utri per destabilizzare il Paese. E’ una bufala visto che Forza Italia non era ancora nata e nacque solo un anno dopo quando diversi sondaggi mi avevano detto che c’era un spazio politico per evitare che finissimo in mano ai comunisti" (il Giornale, 29 novembre).
"La pianificazione dell’operazione politica di Berlusconi cominciò nel giugno 1993, subito dopo la vittoria dei partiti di sinistra alle elezioni amministrative, e già a fine luglio se ne cominciarono a scorgere le prime, anche deboli, avvisaglie pubbliche", scrive Emanuele Poli (Forza Italia, strutture, leadership e radicamento territoriale, il Mulino).
Il 28 luglio, intervistato da Repubblica, Berlusconi invoca "la necessità di una nuova classe dirigente" e rivela che, in quelle settimane, "sta incontrando in varie città d’Italia chiunque condividesse i "valori liberaldemocratici" e credesse nella libera impresa". Nello stesso giorno, intervistato dal Corriere della Sera, Giuliano Urbani, docente di Scienza della politica alla Bocconi, svela i suoi incontri con intellettuali, opinionisti, imprenditori di Confindustria che condividono le preoccupazioni "per una replica su scala nazionale della vittoria delle sinistre alle amministrative". In segreto, Berlusconi e Urbani già lavorano insieme.
Il loro progetto politico diventa pubblico il 29 giugno, quando molti uomini vicini a Berlusconi (Marcello Dell’Utri, Cesare Previti, Antonio Martino, Mario Valducci) costituiscono l’"Associazione per il buon governo" presso lo studio del notaio Roveda a Milano. Le nove sezioni tematiche dell’Associazione raccolte in un libretto ("Alla Ricerca del Buongoverno") diventano il "riferimento ideologico" dei nascenti club di Forza Italia. Il 6 settembre, Berlusconi ne inaugura il primo. Il 25 novembre viene fondata a Milano da Angelo Codignoni, ex direttore di La Cinq, il network francese di Fininvest, l’"Associazione nazionale del Club di Forza Italia".
Questa è la storia ufficiale, verificata dai politologi. Se ne può mettere insieme un’altra con le testimonianze dirette, che sono mille e una. Ne scegliamo qui soltanto tre. La prima è di Indro Montanelli (L’Italia di Berlusconi, Rizzoli). "Il 22 giugno del 1993, Urbani espone le sue tesi a Gianni Agnelli, che ascoltò con attenzione limitandosi a dire: "Ne ha parlato con Berlusconi?". Il 30 del mese Urbani si trattenne alcune ore a villa San Martino ad Arcore. Le idee che espose erano idee che il Cavaliere già rimuginava. Sta di fatto che, a distanza di un paio di giorni, Berlusconi convocò Gianni Pilo, direttore del marketing in casa Fininvest. Pilo doveva accertare quali fossero i "sogni" degli italiani: il che fu fatto tramite due istituti specializzati in sondaggi d’opinione. Qualche settimana più tardi Pilo ebbe un istituto demoscopico tutto suo mentre Marcello Dell’Utri gettava le fondamenta d’una struttura organizzativa su scala nazionale". Quindi, i primi sondaggi sono del ’93 e non del ’94.
Il secondo testimone diretto è Enrico Mentana, che retrodata al 30 marzo "il primo indizio chiaro della volontà di Berlusconi" di creare un partito. Quel giorno, consueta riunione mensile ad Arcore dei responsabili della comunicazione del gruppo. Ci sono Berlusconi, il fratello Paolo, Letta, Confalonieri, Dell’Utri e Del Debbio di Publitalia, l’amministratore delegato Tatò, i direttori dei periodici, Monti (Panorama), Briglia e Donelli (Epoca), la Bernasconi e la Vanni dei femminili, Orlando il condirettore de il Giornale, Vesigna (Sorrisi e Canzoni). E poi i televisivi, Costanzo, Ferrara, Fede, Gori, Mentana, direttore del Tg5. Che cita (Passionaccia, Rizzoli) il verbale della riunione: "Ad avviso di Silvio Berlusconi, l’attuale situazione è favorevole come non mai per chi provenendo da successi imprenditoriali voglia dedicare i propri talenti al governo della cosa pubblica. Non nasconde che gli viene una gran voglia di mettersi alla testa di un nuovo partito". Cinque giorni dopo, la decisione è presa. Lo racconta il terzo testimone, Enzo Cartotto, ghost writer di Giovanni Marcora e Piero Bassetti, prima di diventare consigliere politico di Berlusconi e Dell’Utri.
I ricordi di Cartotto si possono ricavare dall’interrogatorio reso alla Procura di Palermo il 20 giugno 1997 e da un suo libro Operazione Botticelli.
"Nel maggio-giugno 1992 sono contattato da Marcello Dell’Utri perché vuole coinvolgermi in un progetto. Dell’Utri sostiene la necessità che, di fronte al crollo degli ordinari referenti politici del gruppo, Fininvest "entri in politica" per evitare che un’affermazione delle sinistre possa portare il gruppo Berlusconi prima a un ostracismo e poi a gravi difficoltà. Dell’Utri mi fa presente che questo suo progetto incontra molte difficoltà nel gruppo e, utilizzando una metafora, mi dice che dobbiamo operare come sotto il servizio militare, e cioè preparare i piani, chiuderli in un cassetto e tirarli fuori in caso di necessità. Dell’Utri mi invita anche a sostenere questa sua tesi presso Berlusconi, con il quale io coltivo da tempo un rapporto di amicizia. Successivamente a questo discorso, comincio a lavorare presso gli uffici della Publitalia. (...) Partecipo a un incontro tra Berlusconi e Dell’Utri, nel corso del quale Berlusconi dice espressamente a Dell’Utri e a me di non mettere a conoscenza di questo progetto né Fedele Confalonieri, né Gianni Letta. Dall’ottobre 1992 in poi, mi occupo di contattare associazioni di categoria ed esponenti del mondo politico dell’area di centro e il risultato del sondaggio fu che tutte queste forze sentono fortemente la mancanza di un referente politico. Si arriva quindi all’aprile del 1993, quando Berlusconi mi dice che aveva la necessità di prendere una decisione definitiva su ciò che si deve fare perché le posizioni di Dell’Utri e Confalonieri gli sembrano entrambe logiche e giuste, e lui non è mai stato così a lungo in una situazione di incertezza. Che devo fare?, mi chiede Berlusconi. Confessa: "A volte mi capita perfino di mettermi a piangere, quando sono sotto la doccia e sono solo con me stesso. Non so veramente come venirne fuori". Mi dice che, per prendere una decisione, quella sera ad Arcore, ha chiamato Bettino Craxi. Alla riunione partecipiamo soltanto noi: io, Craxi e Berlusconi. (...) Dice Craxi: "Bisogna trovare un’etichetta, un nome nuovo, un simbolo che possa unire gli elettori che un tempo votavano per il pentapartito. Io sono convinto che, se tu - Silvio - trovi una sigla giusta, con le televisioni e con le strutture aziendali di cui disponi puoi riuscire a recuperare quella parte di elettorato che è sconvolto, confuso ma anche deciso a non farsi governare dai comunisti e dagli ex comunisti". (...) "Bene - dice Silvio - so quello che devo fare. E’ deciso. Adesso bisogna agire da imprenditori. Chiamare gli uomini, comunicare la decisione. Adesso bisogna dirlo a Marcello (Dell’Utri), perché mi metta attorno persone che mi possano accompagnare. Bisogna fare quest’operazione di marketing sociale e politico. Va bene, allora andiamo avanti, procediamo su questa strada, ormai la decisione è presa".
E’ il 4 aprile 1993. Quel giorno - è domenica, piove, fa freddo come in inverno - può essere considerato il giorno di nascita di Forza Italia. Perché il Cavaliere vuole farlo dimenticare?
Non è una novità, in Berlusconi, l’uso politico e sistematico della menzogna. In questo caso egli nega la realtà, la sostituisce con una menzogna per liberarsi di un sospetto - fino a prova contraria, soltanto una coincidenza - sollecitato dal sincronismo tra le sue mosse politiche e la strategia terroristica di Cosa Nostra. E’ una contemporaneità che i mafiosi disertori dicono combinata. Se c’è stata intesa o collaborazione, non ha trovato per il momento alcun attendibile, concreto conforto. Confondere le cose, eclissare fatti da tutti conosciuti, appare a Berlusconi la migliore via d’uscita dall’imbarazzante angolo. E’ la peggiore perché destinata a rinvigorire, e non a sciogliere, i dubbi. Un atteggiamento di disprezzo per la realtà già non è mai moralmente innocente. In questi casi, la negazione della realtà - al di là di ogni moralistica condanna - finisce per mostrare il bugiardo corresponsabile di una colpa. Che bisogno ne ha Berlusconi, quando raccontando la verità dei fatti può liberarsi di quella nebbia? Perché non lo fa? Qual è la ragione di questa fragorosa ultima menzogna, in un momento così delicato per il Cavaliere?
© la Repubblica, 1 dicembre 2009
Appello
Alziamo le nostre coscienze e tiriamo su la nostra schiena
di Paolo Farinella, prete *
Il governo e la maggioranza hanno valicato ogni ritegno: ormai delinquono in pubblico e in tv apertamente al grido minaccioso di «Salvare Berlusconi ad ogni costo». Il parlamento chiuso si riapre per approvare una leggina che metta al sicuro Berlusconi dai «suoi processi» e non importa se questa leggina non solo annienta gli scandali di truffa, falso in bilancio, bancarotta, ecc. ma annulla il diritto di milioni di cittadini che hanno diritto ad una sentenza ed eventualmente ad un risarcimento. Con questa legge che riduce solo i tempi dei processi, senza dare personale, strumenti e mezzi per accelerarli, si consuma la supremazia definitiva del sopruso sul diritto, della mafiosità sulla legalità, dell’impudenza sulla dignità e la sconfitta definitiva dello stato di diritto.
Berlusconi, dopo il lodo Alfano torna ad essere, almeno teoricamente, un cittadino come gli altri e come tutti deve essere processato e assolto o condannato con una sentenza inappellabile. Non possiamo tollerare ancora una volta una legge che lo salvi impunemente, anche in presenza di sentenze in corso. Non possiamo assistere inattivi, inermi e complici di una immoralità e indegnità di questa portata.
Usiamo la rete non solo per resistere, ma per reagire, per impedire che ancora una volta il corrotto, corruttore, compratore di giudici, di sentenze e di testimoni, il predatore fiscale che con le sue evasioni e i suoi conti esteri ha rubato a tutti noi e a ciascuno di noi. Una leggina riguarda Mediaset che deve al fisco circa 200 milioni di euro e se la caverà con un misero 5%. Come è possibile che i pensionati, i lavoratori a stipendio fisso, i precari, i cassintegrati, le donne, i senza lavoro, possano ancora votarlo e vederlo come un modello?
Come è possibile che assistiamo rassegnati alla vivisezione della Costituzione e della sopravvivenza di uno scampolo di dignità? Siamo calpestati ogni giorno nei nostri diritti e derisi nella nostra dignità e non siamo in grado di reagire come si conviene ad un popolo di gente che ogni giorno si ammazza per vivere onestamente del proprio lavoro e nel rispetto della Legge.
Non possiamo tollerare più che un uomo disponga dello Stato, delle sue Istituzioni, che ordini alla Rai di firmare un contratto di 6 milioni di euro al suo maggiordomo Bruno Vespa perché è bravo a fargli il bidet. Non possiamo tollerare che un suo dipendente, Minzolini, pontifichi a suo nome dalla tv di Stato; non possiamo più tollerare che sia smantellata Rai anche se aumenta ascolti e fatturato solo perché indigesta al satrapo senza statura. Non possiamo più tollerare che ci domini a suo piacimento e a suo uso e consumo. Se lui è l’utilizzatore finale delle prostitute a pagamento, noi vogliamo essere le sue mignotte «a gratis»?
Mettiamo in moto una rivoluzione e riportiamo il treno dentro i binari della Legge, delle Istituzioni, della Legalità, della Giustizia, della Dignità e del nostro Onore. E’ ora il tempo di scendere in piazza non per rivendicare un aumento di stipendio, ma per rivendicare un sussulto di dignità e di orgoglio di essere Italiani e Italiane che non vogliono essere scaricati come spazzatura. Berlusconi sta imperando e sta distruggendo tutto perché noi lo permettiamo o quanto meno lo tolleriamo.
Alziamoci in piedi e non pieghiamo la testa, chiedendo a gran voce, se necessario con uno sciopero generale ad oltranza, le dimissioni di Berlusconi, dei suoi avvocati pagati da noi e la conclusione dei suoi processi perché in Italia nessuno può essere più uguale degli altri e tutti, nessuno escluso, devono sottostare alla Maestà del Diritto.
Mi appello alle organizzazioni sindacali, ai partiti, alle associazioni nazionali e internazionali, ai gruppi organizzati, all’Onda lunga della scuola, ai blogger, alle singole persone di buona volontà con ancora una coscienza integra perché «el pueblo unido jamás será vencido».
LETTERA Al Sig. Presidente della Repubblica On.
Giorgio Napolitano
di Paolo Farinella, prete
Ho appena inviato la seguente e-mail al Presidente della Repubblica
Se ritenete, fate lo stesso: inondiamo il Quirinale di e-mail, uno tsunami di e-mail, lettere, cartoline, telegrammi, piccioni viaggiatori, mosche cocchiere, tutto ciò che occorre perché si veda e si senta lo sdegno di tutti noi.
Paolo Farinella, prete
Al Sig. Presidente della Repubblica
On. Giorgio Napolitano
Palazzo del Quirinale
00100 Roma
Via e-mail: presidenza.repubblica@quirinale.it
Sig. Presidente,
Con orrore prendiamo atto che il parlamento, chiuso da settimane per irresponsabilità del governo, riprende freneticamente l’attività per porre rimedio alla sentenza della Consulta che, bocciando il «lodo Alfano» (che pure Lei aveva firmato), ha dichiarato l’uguaglianza assoluta tra tutti i cittadini, compreso il presidente del consiglio dei ministri.
Il governo, la maggioranza, il parlamento e il Paese sono bloccati sulle vicende giudiziarie del presidente del consiglio che continua a pretendere leggi su misura per salvarsi dai processi dove è inquisito di reati gravissimi per i quali alcuni suoi complici sono stati condannati definitivamente (Previti) o in primo grado (Mills). La pretesa di leggi su misura viene fatta in pubblico, alla luce del sole, nella certezza dell’impunità assoluta, anche a costo di annullare migliaia e migliaia di processi gravissimi (Parlat, Cirio, Antonveneta, Eternit, rifiuti a Napoli, ecc.), lasciando centinaia di migliaia di cittadini vittime di ingiustizia senza risposte, senza risarcimenti, senza una sentenza con attribuzione di responsabilità. Sig. Presidente, il Paese è stufo di questo andazzo e in molti siamo pronti alla rivoluzione perché non possiamo tollerare più che le nefandezze di un uomo che si è servito sempre dello Stato distruggano lo Stato stesso per salvare lui e mettere al sicuro il suo patrimonio, frutto di evasione fiscale, riciclaggio, falso in bilancio e corruzione. Non tolleriamo più che un sistema mafioso condizioni lo stato di diritto e calpesti la dignità e la laboriosa onestà della maggior parte delle cittadine e cittadini che hanno sempre avuto il sommo rispetto per la Legalità, anche contro i propri interessi pratici.
Sig. Presidente, lei è l’ultimo baluardo del Diritto, il garante supremo della Carta Costituzionale, il rappresentante della unità nazionale. A nome di migliaia di persone oneste, la supplico di non fermarsi alla pura forma dei suoi compiti, ma di fare tutto il necessario perché il governo e il parlamento tornino ad essere esempio specchiato di trasparenza di vita, di legalità e di esempio morale. Non diventi, anche indirettamente, complice di norme e leggi improvvisate sulle necessità e sui tempi del presidente del consiglio, anche se mascherate con qualche pennellata di «esigenza generale» perché lei sa che così non è. Noi vogliamo che il sig. Berlusconi Silvio si sottoponga la giudizio dei tribunali della Repubblica, come un qualsiasi cittadino. Sig. Presidente stia dalla parte dei cittadini onesti, del Diritto e della Dignità dell’Italia che in questo momento è mortificata proprio da quel governo che dovrebbe condurla fuori dalla crisi economica e sociale e invece la sta infognando e annegando nella melma dell’indecenza. Se necessario, sciolga le Camere per ingovernabilità mafiosa.
Con flebile speranza,
Paolo Farinella, prete
RETROSCENA
Stato, mafia e quel patto mai firmato
Lo scenario riaperto dalla testimonianza di Luciano Violante
di GUIDO RUOTOLO (La Stampa, 25/7/2009)
ROMA La «testimonianza» di Luciano Violante, arrivata dopo ben diciassette anni, offre implicitamente una conferma alla «trattativa», intavolata nell’estate-autunno del 1992, dal Ros dei carabinieri e Vito Ciancimino, per tentare di bloccare l’offensiva stragista ed eversiva di Cosa nostra. Violante, che dal settembre di quell’anno aveva assunto la presidenza dell’Antimafia, incontrò l’allora colonnello Mario Mori, che gli chiese se fosse disposto a incontrare Vito Ciancimino, l’ex sindaco di Palermo condannato per associazione mafiosa.
Gli incontri tra Mori e Violante avvennero presumibilmente tra ottobre e novembre di quell’anno. Il figlio dell’ex sindaco, Massimo Ciancimino, ha messo a verbale ai pm palermitani che il colonnello Mori disse a suo padre che l’allora ministro dell’Interno, Nicola Mancino, era informato della trattativa. Non solo, ma ha aggiunto: «Mio padre voleva che del “patto” fosse informato Luciano Violante».
Il patto, ovvero la trattativa. Violante venerdì è sceso a Palermo, per testimoniare. Rivelando che effettivamente il colonnello Mori gli chiese la sua disponibilità a incontrare Vito Ciancimino. E lui declinò l’invito. Ma se Mori si rivolse a un esponente della minoranza politica che aveva appena ottenuto la presidenza dell’Antimafia, evidentemente aveva ottenuto la copertura anche dal governo in carica.
C’è un passaggio delle motivazioni della sentenza di primo grado per le stragi di Firenze, Roma e Milano (1993) che vale la pena riprendere, a proposito delle trattative Mori-Ciancimino: «L’iniziativa del Ros aveva tutte le caratteristiche per apparire come una trattativa; l’effetto che ebbe sui capi mafiosi fu quello di convincerli, definitivamente, che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione».
Insomma, al di là delle giustificazioni di Mori e del capitano De Donno - prendere tempo, costringere Cosa nostra a svelare quali obiettivi si poneva con l’attacco eversivo allo Stato - il risultato fu quello di implicitamente alimentare la spirale stragista. Scrivono sempre i giudici di Firenze: «Non si comprende come sia potuto accadere che lo Stato, “in ginocchio” nel 1992, si sia potuto presentare a Cosa nostra per chiederne la resa; non si comprende come Ciancimino, controparte in una trattativa fino al 18 ottobre del ‘92, si sia trasformato in confidente dei carabinieri».
Ma quante furono le trattative tra uomini dello Stato e ambasciatori di Cosa nostra? «Una, due, tre, forse quattro», ha spiegato alla Stampa il procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia. C’è quella che intavola Giovanni Brusca, l’uomo che spinse il pulsante di Capaci, attraverso Antonino Gioé, con Paolo Bellini, ovvero con i carabinieri.
Bellini, un trafficante d’opere d’arte, un ex estremista di destra che Gioé conobbe in carcere e che ritenne essere un uomo degli apparati dello Stato per il semplice fatto che era detenuto sotto falso nome (Da Silva). L’oggetto della trattativa non erano le stragi: in cambio del ritrovamento di opere d’arte rubate, Brusca chiedeva per il padre un diverso trattamento carcerario. E il killer di Capaci ottenne da Riina il via libera ad andare avanti.
Probabilmente c’è poi una terza trattativa che va avanti con Totò Riina ormai in carcere (fu arrestato il 15 gennaio del 1993). E che dovrebbe avere avuto come interlocutore Bernardo Provenzano. Lo racconta il pentito Giuffré, che chiama in causa Marcello Dell’Utri. E che accenna anche a un canale agrigentino della trattativa.
Dopo diciassette anni di silenzio totale parla il boss di Corleone
E sulla strage di via d’Amelio accusa i servizi e lo Stato
Riina sul delitto Borsellino
"L’hanno ammazzato loro"
di ATTILIO BOLZONI, FRANCESCO VIVIANO
TOTÒ RIINA, l’uomo delle stragi mafiose, per la prima volta parla delle stragi mafiose. Sull’uccisione di Paolo Borsellino dice: "L’ammazzarono loro". E poi - riferendosi agli uomini dello Stato - aggiunge: "Non guardate sempre e solo me, guardatevi dentro anche voi". Dopo diciassette anni di silenzio totale il capo dei capi di Cosa Nostra esce allo scoperto.
Riina lo fa ad appena due giorni dalla svolta delle indagini sui massacri siciliani - il patto fra cosche e servizi segreti che i magistrati della procura di Caltanissetta stanno esplorando. Ha incaricato il suo avvocato di far sapere all’esterno quale è il suo pensiero sugli attentati avvenuti in Sicilia nel 1992, su quelli avvenuti in Italia nel 1993. Una mossa a sorpresa del vecchio Padrino di Corleone che non aveva mai aperto bocca su niente e nessuno fin dal giorno della sua cattura, il 15 gennaio del 1993. Un’"uscita" clamorosa sull’affaire stragi, che da certi indizi non sembrano più solo di mafia ma anche di Stato.
Ecco quello che ci ha raccontato ieri sera l’avvocato Luca Cianferoni, fiorentino, da dodici anni legale di Totò Riina, da quando il più spietato mafioso della storia di Cosa Nostra è imputato non solo per Capaci e via Mariano D’Amelio, ma anche per le bombe di Firenze, Milano e Roma.
Avvocato, quali sono le esatte parole pronunciate da Totò Riina? Sono proprio queste: "L’ammazzarono loro"?
"Sì, sono andato a trovarlo al carcere di Opera questa mattina e l’ho trovato che stava leggendo alcuni giornali. Neanche ho fatto in tempo a salutarlo e lui, alludendo al caso Borsellino, mi ha detto quelle parole... L’ammazzarono loro...".
E poi, che altro ha le ha detto Totò Riina?
"Mi ha dato incarico di far sapere fuori, senza messaggi e senza segnali da decifrare, cosa pensa. Lui è stato molto chiaro. Mi ha detto: "Avvocato, dico questo senza chiedere niente, non rivendico niente, non voglio trovare mediazioni con nessuno, non voglio che si pensi ad altro". Insomma, il mio cliente sa che starà in carcere e non vuole niente. Ha solo manifestato il suo pensiero sulla vicenda stragi".
Ma Totò Riina è stato condannato in Cassazione per l’omicidio di Borsellino, per l’omicidio di Falcone, per le stragi in Continente e per decine di altri delitti: che interesse ha a dire soltanto adesso quello che ha detto?
"Io mi limito a riportare le sue parole come mi ha chiesto. Mi ha ripetuto più volte: avvocato parlo sapendo bene che la mia situazione processuale nell’inchiesta Borsellino non cambierà, fra l’altro adesso c’è anche Gaspare Spatuzza che sta collaborando con i magistrati quindi...".
Le ha raccontato altro?
"Abbiamo parlato della trattativa. Riina sostiene che è stato oggetto e non soggetto di quella trattativa di cui tanto si è discusso in questi anni. Lui sostiene che la trattativa è passata sopra di lui, che l’ha fatta Vito Ciancimino per conto suo e per i suoi affari e insieme ai carabinieri: e che lui, Totò Riina, era al di fuori. Non a caso io, come suo difensore, proprio al processo per le stragi di Firenze già quattro anni fa ho chiesto che venisse ascoltato Massimo Ciancimino in aula proprio sulla trattativa. Riina voleva che Ciancimino deponesse, purtroppo la Corte ha respinto la mia istanza".
E poi, che altro le ha detto Totò Riina nel carcere di Opera?
"E’ tornato a parlare della vicenda Mancino, come aveva fatto nell’udienza del 24 gennaio 1998. Sempre al processo di Firenze, quel giorno Riina chiese alla Corte di chiedere a Mancino, ai tempi del suo arresto ministro dell’Interno, come fosse a conoscenza - una settimana prima - della sua cattura".
E questo cosa significa, avvocato?
"Significa che per lui sono invenzioni tutte quelle voci secondo le quali sarebbe stato venduto dall’altro boss di Corleone, Bernardo Provenzano. Come suo difensore, ho chiesto al processo di Firenze di sentire come testimone il senatore Mancino, ma la Corte ha respinto anche quest’altra istanza".
Le ha mai detto qualcosa, il suo cliente, sui servizi segreti?
"Spesso, molto spesso mi ha parlato della vicenda di quelli che stavano al castello Utvegio, su a Montepellegrino. Leggendo e rileggendo le carte processuali mi ha trasmesso le sue perplessità, mi ha detto che non ha mai capito perché, dopo l’esplosione dell’autobomba che ha ucciso il procuratore Borsellino, sia sparito tutto il traffico telefonico in entrata e in uscita da Castel Utvegio".
Insomma, Totò Riina in sostanza cosa pensa delle stragi?
"Pensa che la sua posizione rimarrà quella che è e che è sempre stata, non si sposterà di un millimetro. Ma questa mattina ha voluto dire anche il resto. E cioè: non guardate solo me, guardatevi dentro anche voi".
Berlusconi III, già 100 giorni a difesa degli interessi. Suoi *
Chi, se non il Giornale (quello di famiglia, s’intende), poteva dedicare un’esaltante intervista a piena pagina al cavalier Silvio per festeggiare il ferragosto e i primi cento giorni di Berlusconi III? E così il direttore Mario Giordano è volato a Porto Cervo per farci sapere che il presidente del Consiglio quest’anno ancora non si è fatto vedere al Bar del Molo, la sua gelateria preferita. È impegnatissimo con i nipotini, ci riferisce lo stesso Giordano.
D’altronde lo ha spiegato lo stesso Cavaliere qualche giorno fa. Adesso ha un sacco di tempo libero, non passa più il sabato con i suoi avvocati a preparate memorie e trappole per i magistrati che lo indagano. Merito di una leggina che ha tenuto banco per due mesi, bloccando il Parlamento e il dibattito politico. Una leggina che, per salvare Berlusconi dai suoi processi, avrebbe bloccato decine di migliaia di processi pendenti. Alla fine il ministro Angelo Alfano (era assistente di Berlusconi in una delle sue aziende, adesso è ministro della Giustizia) si è inventato il "lodo" che porta il suo nome e Berlusconi ha la sua perfetta leggina ad personam (estesa, tanto per non incorrere nella Corte costituzionale, al Presidente della Repubblica e a quelli di Camera e Senato) che lo tiene al riparo da qualsiasi processo, passato, presente e futuro.
Naturalmente della leggina di Angelino (Alfano) non c’è traccia nell’intervista di Giordano, anche se Berlusconi si lancia in uno sperticato elogio dello stesso ministro, opportunamente servito da una domanda del direttore del Giornale. «Alla riforma della Giustizia sta lavorando il ministro Alfano. Qualcuno dice che, insieme con la Gelmini, è una delle migliori sorprese di questo governo», suggerisce Giordano ad un Berlusconi che non vede l’ora di rispondere: «Angelino Alfano non è una sorpresa, e non lo sono neppure la Gelmini, la Carfagna, Raffaele Fitto e gli altri "giovani". Nel governo con i ministri di esperienza e competenza ci sono questi giovani capaci, entusiasti, appassionati che si stanno mettendo in luce».
Naturalmente Berlusconi si fa grandi elogi per Napoli, per l’Alitalia e per la politica della sicurezza. Peccato che nessuno gli abbia detto che per tutte e tre queste cose la Commissione europea abbia avviato delle procedure di infrazione e che non abbia nessuna intenzione di accontentarsi delle parole di Berlusconi per fermarle. Per Napoli resta aperta la procedura davanti alla Corte di giustizia, per l’Alitalia è in corso l’indagine sul prestito ponte (senza parlare dei settemila licenziamenti ai quali dovrebbe portare i piano del Governo, contro i meno dei duemila dell’ipotesi Air France che era stata percorsa da Romano Prodi e sabotata dallo stesso Berlusconi). Mentre per la politica della sicurezza e per le impronte ai rom, anche ai bambini, oltre all’indagine europea per verificare che non vi siano politiche razziste o discriminatorie vi è una risoluzione di condanna del Parlamento europeo. Dei bellissimi cento giorni.
Noi, per aiutarvi a farvi un’idea più precisa di che cosa sia stato fatto e non fatto nei cento giorni di Berlusconi, abbiamo preparato un e-book che potete scaricare sul vostro computer e se volete stampare: in 64 pagine c’è tutto quello che avreste voluto sapere su Berlusconi III ma nessuno vi ha mai voluto raccontare (a parte noi de l’Unità).
* l’Unità, Pubblicato il: 15.08.08, Modificato il: 16.08.08 alle ore 12.40
Tolleranza zero Mafia esclusa
di Roberto Cotroneo *
Il degrado morale e culturale di questo Paese ha un nuovo punto critico, un nuovo traguardo, tutt’altro che invidiabile, naturalmente. Si tratta del «decreto sicurezza», fortemente voluto da tutto il centro destra e in particolare dal ministro leghista Roberto Maroni. Proprio Maroni, ieri, ha detto una cosa interessante: «I primi cittadini saranno protagonisti e non comprimari della sicurezza: ora vediamo se hanno creatività». È una frase a metà tra l’agghiacciante e il ridicolo. E probabilmente riesce a essere entrambe le cose. Ma con questo decreto, finalmente, siamo diventati veramente il Paese delle banane.
Una sorta di propaganda strombazzata ai quattro venti, fatta di militari usati per l’ordine pubblico e di misure che finalmente calmeranno un Paese sempre più di stivaloni e mascelle volitive. Perché è così. Purtroppo. Uno non ci crede, e dice: la storia passata è storia passata, non usiamo termini a sproposito, cerchiamo di capire, la sicurezza è uno dei temi più sentiti dai cittadini, che siano di destra o di sinistra. Forse è proprio su un argomento come questo che si vincono o si perdono le elezioni. Cerchiamo di capire che in fondo un giro di vite sarebbe importante, un segnale di serietà.
E invece? Ecco la creatività sulla sicurezza di cui parla Maroni, applicata nel concreto. È vietato chiedere l’elemosina. Ovvero, un’ordinanza contro l’accattonaggio. È partita la lotta contro i lavavetri, con sequestro dell’attrezzatura. Di quale attrezzatura si tratti è facile immaginarlo. Sequestro di secchio, acqua insaponata e tergivetro da euro 1,00 con gomma morbida e manico in plastica. Divieto agli ambulanti di insidiare la sicurezza della nazione con discese sulla spiaggia, e vendita di pericolosi elefantini di finta giada e calzettoni da tennis. Divieto di bivacco, di schiamazzo e di canti nelle aree storiche. L’esercito, armato di tutto punto potrà controllare il cestino del picnic in piazza del Pantheon, del turista bivaccoso, e mettere al bando «La canzone del sole» di Lucio Battisti. Non si può andare in più di due in un parco di notte, per cui se si è in tre, basta dividersi, due da una parte, e un altro a dieci metri di distanza che fa finta di non conoscerti, se finisci sotto l’occhio attento dei nuovi angeli della sicurezza. Naturalmente non potevano mancare le multe ai clienti dele prostitute, che dovranno pagare fino a 500 euro, e che in Romagna vengono già fotografati, e questa passi.
Ora non sai se ridere o se piangere. Visto che tutte queste misure sono fantastiche. Colpiscono, in tema di sicurezza, i poveracci che chiedono l’elemosina, quelli che lavano i vetri (con sequestro dell’attrezzatura, va ribadito, perché è degna di un film di Alberto Sordi), i senegalesi che vendono sulla spiaggia, quelli che cantano con la chitarra e quelli che vanno in tre o quattro al parco, e nel frattempo il Financial Times ci indica come, secondo una graduatoria assai rigorosa, il Paese più corrotto d’Europa, con un testa a testa tra noi e la Grecia e il quarantesimo Paese più corrotto del mondo.
Curioso davvero che in tutte queste misure sulla sicurezza, le impronte digitali ai rom, e schifezze razziste di vario genere, nessuno ricorda che siamo un Paese dove la malavita organizzata, ovvero la Camorra, la Mafia, la ‘ndrangheta, e altro ancora, controllano in modo spietato e criminale estese parti del territorio italiano, e investono ormai buona parte dei loro introiti, in attività apparentemente lecite. E invece noi mettiamo in campo una parata da Stato libero di Bananas, con mezzi dell’esercito, carabinieri, e polizia, a controllare mutilati che fanno accattonaggio, lavavetri che muoiono sotto il sole di agosto per 20 centesimi a parabrezza, ambulanti che ti vendono tre ciondoli per cinque chilometri di spiaggia, studentelli che mangiano tramezzini sotto qualche monumento, e gente che ha il vizio di intonare qualche coro, o ha voglia di passare un po’ di tempo in un parco. Gente pericolosa, inquietante, gente che dà la sensazione del pericolo e della precarietà di questo paese, povera gente che non è bello vedere in giro, perché non è carino il mutilato sotto casa, o vicino al negozio preferito che ti chiede l’elemosina, non è elegante, diamine che un lavavetri ti stia a un angolo di semaforo, è fastidioso il senegalese che gira con la sua merce mentre stai sorseggiando in spiaggia qualche cocktail di frutta. Molto meglio essere assediati da mafiosi, camorristi, picciotti, gregari, ceffi e bulli pericolosi che proliferano, fanno affari, vendono cocaina ai ragazzini di quattordici anni, aprono locali all’apparenza ineccepibili: gente pericolosa davvero, che non ha niente di creativo, e ha molto di consolidato. Sono sempre quelli, sempre gli stessi. Ed è sempre la stessa storia, sempre la storia tragica e indecente di questo Paese.
Il sindaco di Verona, leghista, che di nome fa Flavio Tosi, dice che da fine agosto arruolerà ex carabinieri, militari in congedo, alpini, uomini della protezione civile, «ingaggiati con funzione di controllo». Ma nessuno in questo Paese vuole davvero controllare nulla. Eccetto i poveracci, eccetto i protagonisti di un fondale sociale che non conta nulla, che non disturba più di tanto. E che tranquillizza soltanto una parte di questo Paese, egoista, volgare, qualunquista e fondamentalmente ignorante, ma soprattutto cattiva. Una guerra tra poverissimi stranieri e impoveriti italiani. Dove gli impoveriti italiani fanno la guerra ai disgraziati stranieri in nome di una finta sicurezza. E sono contenti dell’esercito che chiede i documenti a pakistani o a cingalesi, e toglie qualche bancarella. Non so dire se è più vergognoso, o più ridicolo. Ma il risultato è esattamente questo. E hanno anche il coraggio di chiamarla “sicurezza creativa”.
*l’Unità, Pubblicato il: 07.08.08, Modificato il: 07.08.08 alle ore 14.50
P2 e la memoria che non c’è
di Maurizio Chierici *
A volte il giornalista deve fare il postino lasciando ai lettori l’impegno di testimoniare la loro realtà. «La generazione di chi tace e nasconde non può essere una generazione innocente», scrive Giovanni Battista Righetto, Genova: è una delle 43 lettere che raccontano la delusione che avvilisce i protagonisti biologicamente nuovi nella vita del paese. Si sentono chiusi in un limbo artificiale: i nostri ultimi quarantanni affogano nei segreti che non tutelano la sicurezza dello stato, solo la vanità di un certo tipo di personaggi di una politica che vuol dire affari. «Votiamo senza sapere chi sono e con quali virtù si presentano».
«Chi è nato attorno agli anni 80 deve fare i salti mortali per scoprire in quale modo si cominciava a disegnare la società della quale oggi paghiamo i conti», Sandra Losio, Brescia. «Le giovani generazioni non hanno soldi e tempo per recuperare certe notizie», G.R., Cremona. «Mio nipote di 17 anni ripete che se non avesse avuto la sottoscritta, né lui, né i suoi amici delle periferie romane avrebbero saputo e non avrebbero capito cosa è successo a Genova durante il G8, 2001». Doriana Goraci sfuma la rabbia in riflessioni di malinconia: «Non si vive il presente con coscienza individuale e collettiva se non si sa cosa è successo nel passato prossimo». «Le colpe di chi ha messo il lucchetto all’informazione non sono forse tanto gravi, ma impedire che cronache e storia ci spieghino da dove veniamo, suscita sospetti insopportabili», Gualtiero Riccio, Napoli. «Si sono riaccese le luci ed ho guardato il mio ragazzo con la perplessità di chi ha capito quasi niente. Anche lui non aveva capito, ma un po’ sapeva. E mi ha spiegato qualcosa. Sono d’accordo con la proposta di commentare a scuola, ore di storia, ’ Il divo ’, film su Andreotti e i misteri d’Italia. Nessuno ci ha mai detto chi manovrava le stragi e anche delle stragi sappiamo per caso. Niente di chi ha giocato col rapimento Moro, per non parlare di protagonisti a noi sconosciuti come Michele Sindona, Licio Gelli, ombre di un passato che condiziona il nostro futuro», Mirella Galeotti, Massa Carrara.
Il risentimento è il filo che lega meraviglia e curiosità di coloro che si dichiarano «ragazzi» dopo aver compiuto trent’anni. Bisogna dire la verità: lettere che sono la reazione corale (inattesa) alla cronaca dei bisbigli raccolti fra gli spettatori under quaranta davanti al film di Paolo Sorrentino. «L’hanno premiato a Cannes, vuol dire che i francesi sapevano. Perché noi no ?», avvocato Renzo Giudici, Milano. «Sono figlio di un funzionario di banca in pensione e certe cose mio padre le racconta da anni con l’ostinazione dell’anziano che non vuole dimenticare. Conserva libri e ritagli. Ogni volta che Silvio Berlusconi appare sui giornali nell’elenco dei più ricchi del mondo, ripete le stesse parole: so come è nata questa ricchezza. Nessuna informazione speciale: sa solo ciò che un funzionario di banca poteva sapere. Dal 1975, quando a Roma comincia l’impero Fininvest, al 1981, quando la P2 di Gelli viene scoperta, il sistema creditizio italiano ha messo a disposizione di Berlusconi fidi per quasi 200 miliardi di lire ed erano anni nei quali imprenditori e commercianti sudavano sette camice per strappare prestiti da ridere. Mio padre spiega il privilegio con l’appartenenza di Berlusconi alla loggia segreta P2. La Banca Nazionale del Lavoro si era impegnata a mantenere nell’ombra proprietari e soci della società che nasce da quasi niente. Direttore generale della Banca era Alberto Ferrari, amministratore delegato Gianfranco Graziadei, responsabile servizio titoli Mario Diana: tutti fratelli P2. Dopo la scoperta della lista di Gelli, anche il collegio sindacale del Monte dei Paschi di Siena si preoccupa: “l’esposizione di rischio del gruppo Berlusconi ha dimensioni eccezionali grazie ad un atteggiamento molto referenziato”. Non credo sia un caso che un’inchiesta del Ministero del Tesoro concluda: “Pur mancando alcune prove di una formale iscrizione, riteniamo il direttore generale della Banca, Giovanni Cresti, legato all’associazione segreta denominata Loggia P2. Appare più che probabile la sua concreta disponibilità alle sollecitazioni rivoltegli dal fondatore e Venerabile maestro della Loggia Licio Gelli col quale intrattiene rapporti amichevoli”. Io so queste cose da quando andavo all’università, ma come posso a spiegare ai miei due figli cos’è, cos’ha fatto e chi militava nella P2 ? Nessuno ne parla, a scuola e in Tv... ».
Tormentone di ogni lettera: i ragazzi vogliono controllare quale tipo di credito stiamo affidando alla loro memoria. Non si rassegnano a diventare discariche che accolgono ( più o meno clandestinamente) i rifiuti tossici della storia fatti passare per immondizie innocenti. «Sono un ragazzo di 29 anni», scrive da Milano Edmondo Bottini, laureato di primo livello in ingegneria elettronica. «Voglio fare qualche considerazione sulla generazione alla quale si nega la memoria. Il problema è serio. Nasce, prima di tutto, da un problema scolastico. La storia di questo paese si studia nelle scuole - quando va bene - fino alla seconda guerra mondiale. Chi volesse sapere cosa è successo dopo, l’unica possibilità è iscriversi a un corso di laurea in Storia, (ndr: rispettosamente evocata con la S maiuscola). La stragrande maggioranza dei cittadini italiani non ha un’idea chiara di cosa si parli quando vengono citate strategia della tensione, Ordine nuovo, Brigate Rosse, piazza Fontana. Non parlo di analfabeti; parlo di laureati come me. Abbiamo seguito un percorso ordinario di studi nelle scuole pubbliche. Personalmente sto provando a ricostruire tutta la parte che manca alla mia cultura. Non è facile, come sembra. In televisione certe informazioni non si trovano (ndr: ed è facile capire perché). Fin qui poco male, c’é internet. Il problema è che se un ragazzo della mia età vuole leggere la Relazione della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulle Stragi, non può, come sarebbe ovvio, andare sul sito del Parlamento Italiano». Negli Stati Uniti tutti possono sapere tutto. Nessun mistero copre gli ordini partiti dagli uffici del segretario di stato Kissinger sul come eliminare Allende. Succedeva tredici anni dopo Piazza Fontana e Piazza Fontana reste avvolta nelle nebbie che i processi non hanno svaporato. Negli Usa basta un clic. Ecco il rapporto sulle torture di Abu Ghraib e Guantamano. L’ Italia é davvero lontana: «Non si può scaricare niente semplicemente perché il sito non esiste», continua l’ingegnere di Milano. «Comincia un lavoro di ricerca on line per scoprire in altri siti il documento che può far capire tante cose a noi che non c’eravamo».
Miracolosamente lo trova, non in uno spazio istituzionale: «http://clarence.dada.net\contes società\memoria stragi». Il gruppo Rcs ne possiede il 46,54 per cento. Lo stesso discorso per la Commissione d’Inchiesta sulla P2, presieduta da Tina Anselmi. Nessuna distribuzione ufficiale. Restiamo nel privato: «http://w.w.w.strano.net\stragi\relimp2\index. html». Superata l’iniziale diffidenza nei confronti di siti sulla cui gestione, creazione, proprietà nulla o poco si sa, è finalmente possibile leggere due documenti che dovrebbero essere parte integrante dell’insegnamento scolastico». Irraggiungibile l’Anselmi nella sua campagna di Treviso, chiedo a Giovanni Pellegrino, che ha presieduto per due legislature la raccolta di documenti e testimonianze sulle stragi dal dopoguerra al 2001, come mai il risultato del lungo scavo non sia allargato nell’internet dei ragazzi. Lasciato il Senato, Pellegrino presiede l’Amministrazione Provinciale di Lecce. Per l’editore Piero Manni ha sintetizzato conclusioni ed analisi nel libro «Strage di Stato». Alla vigilia del governo del Berlusconi, ultima seduta della Commissione, Pellegrino crea un ufficio (approvato all’unanimità dalla Commissione) con l’incarico di inserire tutti i documenti «in un supporto informatico». Insomma, internet. L’ufficio è ancora aperto, un funzionario dovrebbe esserne responsabile, ma il sito non c’é. Dal 2001 nessuno ha fatto niente. Perché ? «Bisognerebbe chiederlo al segretario generale del Senato. È un problema grave. La commissione bicamerale aveva acquisito gli atti di altre commissioni, dalla P2 al caso Moro. Inchiesta organica. Raccoglie la storia sotterranea di un’Italia che nessuno conosce. Il senatore Paolo Guzzanti, Forza Italia, ottiene certi documenti per l’ inchiesta della commissione Mitrokhin, ma tutto finisce secretato, perlomeno non aperto ai giovani ricercatori di internet». Dal ’96 al 2002 le commissioni di Pellegrino avevano accumulato e analizzando informazioni con la consulenza di Elisabetta Cesqui, pubblico ministero nel processo a Gelli e ad altri piduisti. Ma i documenti non escono da chissà quali sotterranei. «Mentre dovrebbero essere accessibili nelle sedi istituzionali preposte», insiste Edmondo Bottini, l’ingegnere di Milano, «visto che tali commissioni vengono pagate dai cittadini ai quali devono spiegare cosa è successo negli anni in cui persone innocenti sono morte andando in treno, o in banca, oppure manifestando pacificamente nelle strade. Non parliamo poi della relazione della Commissione Moro. On line utopia. Qui a Milano, i verbali sono disponibili solo alla biblioteca Sormani e solo per consultazioni. Ogni commissione delinea realtà complesse e non è facile capire. Non sono ancora riuscito a trovare il filo che cercavo: identificare un percorso storico dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi».
Il postino non ha facoltà di rispondere può dare solo qualche informazione. Chi cerca può rivolgersi a. Sergio Flamigni, vecchio senatore Pci: ha fatto parte delle Commissioni P2, Caso Moro e Antimafia. Ha scritto per l’edizioni Kaos libri che danno ordine alle carte delle inchieste. Da anni allarga le informazioni con testimonianze conservate in un Centro di Documentazione trasformato in una fondazione disponibile su internet: info@archivioflamigni.org.
All’università di Padova, scienze delle comunicazioni, insegna Raffaele Fiengo, sindacalista storico del Corriere della Sera. Ha regalato all’archivio della facoltà i documenti della commissione P2: raccontano come Gelli sia riuscito a mettere le mani sul grande giornale imponendo un’informazione che fa vergogna rileggere. Il Corriere è rinato con la direzione di Alberto Cavallari, ma impossibile dimenticare la ferita della quale nessuno ha voglia di parlare. Ecco perché restano anni nascosti.
mchierici2@libero.it
* l’Unità, Pubblicato il: 21.07.08, Modificato il: 21.07.08 alle ore 8.13
La spazzatura di Napoli e quella del governo
di EUGENIO SCALFARI *
NAPOLI restituita all’Occidente è uno slogan enfatico che Berlusconi ha usato per celebrare lo sgombero dei rifiuti dopo 56 giorni dall’inizio dell’operazione. Un po’ enfatico ma tuttavia adatto alla circostanza. Erano infatti sette od otto anni che il problema dei rifiuti, con alti e bassi, affliggeva la città e la provincia. I responsabili sono molti: il governo di centrodestra 2001-2006, il governo Prodi 2006-2008, il sindaco Russo Jervolino, il presidente della Regione Bassolino, la società Impregilo, alcuni dei commissari che si sono succeduti, Pecoraro Scanio ministro dell’Ambiente. E soprattutto la camorra.
Ma il culmine del disastro è avvenuto nel biennio prodiano e il centrosinistra ne porta la responsabilità. Berlusconi da quel grande comunicatore che è l’ha capito al volo, ci ha impostato la campagna elettorale e poi i primi atti del suo governo. Dopo due mesi ha risolto il problema. Non era poi così difficile ma segna la linea di confine tra chi privilegia il fare sul mediare, tra chi ha carisma e chi non ce l’ha.
Dopodiché Berlusconi resta quello che è, un venditore al quale il successo ha dato alla testa, un egocentrico, un populista, un demagogo. Ma se non gli riconosciamo i pochi meriti che ha e soprattutto i demeriti dei suoi avversari su questo specifico tema diventa difficile criticarlo come merita di esserlo e con la durezza che la situazione richiede.
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Quanto a tutto il resto, dare consigli al nostro presidente del Consiglio su come dovrebbe governare è tempo perso: lui, come scrisse Montanelli quando lasciò la direzione del "Giornale", si ritiene un incrocio tra Churchill e De Gaulle. Dare consigli a Tremonti è addirittura patetico: il pro-dittatore della nostra economia pensa e dice che Berlusconi gli è spesso d’impaccio.
Tra i due s’è aperta negli ultimi tempi una gara di megalomania di dimensioni patologiche che dovrebbe seriamente preoccupare i loro collaboratori, i loro alleati e soprattutto i cittadini da loro sgovernati. Personalmente credo che la cosa più utile sia quella di filmare, fotografare, raccontare alcuni passaggi significativi dei due "statisti" con l’intento di risvegliare la pubblica opinione; tentativo che ha già avuto qualche successo se è vero che i più recenti sondaggi registrano un calo di dieci punti nei consensi del capo del governo tra giugno e luglio.
Per quanto riguarda il pro-dittatore dell’economia non si hanno ancora dati ma il mugugno cresce e si diffonde. La polizia di Stato scende in piazza, famiglie e lavoratori sono sempre più incattiviti, tra gli imprenditori grandi e piccoli preoccupazione e malcontento si tagliano a fette, i leghisti scalpitano, Regioni e Comuni sono sul piede di guerra. Non è propriamente un bel clima e molti segnali dicono che peggiorerà.
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La fotografia più tragica di Berlusconi (tragica per il Paese da lui rappresentato) ci è arrivata dal G8 di Tokyo. Terminate le riunioni di quell’ormai inutile convegno di impotenti, il nostro "premier" ha dato pubblicamente le pagelle agli altri sette protagonisti come fanno i giornali sportivi dopo le partite di Coppa e di Campionato. Con i voti e le motivazioni. Il nostro ha dato le pagelle sul serio. Poi, con appena un pizzico di ironia, l’ha data anche a se stesso concludendo che il migliore era lui.
Tre giorni dopo, parlando ai parlamentari del suo partito, ha ricordato che quello di Tokyo era il terzo G8 cui partecipava e saranno quattro l’anno prossimo. "Non merito un applauso?" ha detto ai suoi deputati. Naturalmente l’ha avuto.
Come si fa a giudicare un uomo così, che arriva al punto di tirare in ballo Maria Goretti quando parla della Carfagna? Che ha immobilizzato la politica per sfuggire ad un suo processo? Che per bloccare il prezzo del petrolio propone una riunione dei paesi consumatori per determinarne il livello massimo? Che accusa di disfattismo tutti quelli sono pessimisti sull’andamento dell’economia internazionale e italiana? E il pessimismo di Tremonti allora? Non è il suo superministro dell’economia? Siamo nel più esilarante e tragico farnetico.
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Di Giulio Tremonti, tanto per cominciare, voglio ricordare tre recentissimi passaggi. Il primo riguarda i condoni da lui effettuati durante la legislatura 2001-2006. Qualche giorno fa la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha condannato l’Italia per il condono sull’Iva del 2002 e per il condono "tombale" del 2004. La motivazione è durissima: "Richiedendo il pagamento di un’imposta assai modesto rispetto a quello effettivamente dovuto, la misura in questione ha consentito ai soggetti interessati di sottrarsi agli obblighi ad essi incombenti.
Ciò rimette in discussone la responsabilità che grava su ogni Stato membro di garantire l’esatta riscossione dell’imposta. Per questa ragione la Corte dichiara che la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi degli articoli..." eccetera eccetera. Stupefacente il commento di Tremonti con una nota ufficiale del suo ministero: "Messaggio ricevuto. Per il futuro c’è un esplicito impegno del governo ad evitare nuovi condoni".
Bene. I lettori ricorderanno che in tutto quel quinquennio la politica economica di Tremonti fece dei condoni lo strumento principale insieme ad altri trucchi della cosiddetta finanza creativa. La ragione di questa bizzarra e bislacca strategia fu quella di invogliare i contribuenti disonesti a patteggiare su una base minimale che procurasse tuttavia entrate capaci di far cassa fino al mutamento congiunturale che Tremonti dava per imminente.
Ma poiché quel mutamento tardava, l’evasione aumentava e il debito pubblico anche, il risultato fu che nel 2006 Tremonti consegnò a Padoa-Schioppa un’economia a crescita zero, un deficit del 4,6 del Pil, l’Italia sotto inchiesta europea per infrazione degli accordi di stabilità e l’avanzo primario tra spese e entrate annullato. Spettò a Padoa-Schioppa e a Visco di raddrizzare quella catastrofe, cosa che riuscirono a fare in meno di un biennio senza imporre alcuna nuova tassa né aumentare alcuna aliquota ed anzi abbassando di 5 punti le imposte sulle imprese e sul lavoro. Messaggio ricevuto, dice oggi Tremonti. Il quale ovviamente sapeva di violare con i suoi condoni le regole della Comunità europea e di fare contemporaneamente un enorme favore agli evasori.
Secondo passaggio. Tremonti ha presentato lo sgravio dell’Ici indicando una copertura di 2.600 miliardi. Successive analisi della Commissione bilancio e del servizio studi del Senato hanno accertato che il costo di quella misura era di un miliardo e mezzo in più. Un ministro-statista del calibro di Tremonti non dovrebbe presentare provvedimenti scoperti per oltre un terzo. Adesso comunque la copertura è saltata fuori. Da dove non è chiaro. Perciò domando: da dove? Mi si dice: nelle pieghe del bilancio c’è sempre qualche riserva. Qualche tesoretto? O che cosa?
Terzo passaggio. Polizia e Carabinieri stanno facendo il diavolo a quattro per i tagli al ministero dell’Interno e della Difesa. Hanno ragione. Anche Berlusconi, anche Maroni, anche La Russa stanno strepitando. Ed ecco la brillante idea: ci sono caserme e immobili del demanio da vendere. Vendiamole e col ricavato diamo un po’ di soldi alla Polizia e ai Carabinieri. In realtà quando si vende un bene del demanio, cioè del patrimonio dello Stato, il ricavato dovrebbe andare a diminuzione del debito pubblico.
Non è così, onorevole ministro? Non a spese correnti, tanto più che i ricavi di una vendita sono "una tantum" e allora? Tre passaggi, tre fotogrammi, un personaggio. Un po’ bugiardino. Con poca coerenza e molta "volagerie" negli atti e nelle opinioni. A lui sono affidati i nostri destini economici, mi viene la pelle d’oca al solo pensiero.
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Tralascerei il capitolo che i giornali hanno intitolato: "Brunetta e i fannulloni". Se non per dire che gran parte delle regole sulle visite fiscali e le sanzioni contro gli assenteisti risalgono al 1998. Non furono applicate perché per effettuare seriamente i controlli previsti ci voleva (e ci vorrà) un apparato organizzativo più costoso dei vantaggi di efficienza da conseguire.
Brunetta però ha ragione: lo sconcio dell’assenteismo e ancor più del doppio lavoro dovrebbe esser represso. Ma la faccia feroce serve a poco. Ci vuole un approccio appropriato. Per esempio la responsabilità dei dirigenti. Basterebbe controllarli da vicino e stabilire per loro premi o sanzioni sulla base dei risultati. Quanto all’idea di azzerare i premi esistenti incorporati negli stipendi, tutto si può fare salvo schierare un ministro contro al categoria da lui amministrata. Si finisce con lo sbatterci il muso e farsi male.
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Scusatemi se torno su Tremonti ma il personaggio merita attenzione. Dice che quella che stiamo attraversando è la crisi internazionale più grave dal 1929 e forse peggio di allora. Dice che fu il solo ad averlo capito fin dal giugno 2007. Veramente in quegli stessi giorni lo scrisse anche Stiglitz, premio Nobel per l’economia, lo scrisse anche Nouriel Roubini, docente alla New York University e, assai più modestamente, anche il sottoscritto.
Comunque Tremonti capì e me ne rallegrai a suo tempo con lui. Ma visto che aveva capito, sapeva fin da allora che soldi da buttar via non ci sarebbero stati. Perciò avrebbe dovuto fermare la mano di Berlusconi quando promise in campagna elettorale l’abolizione dell’Ici e l’effettuò nel suo primo Consiglio dei ministri. Avrebbe risparmiato 4 miliardi di euro, un vero tesoretto da destinare alla detassazione dei salari. Invece non l’ha fatto.
Quattro miliardi buttati al vento. Non va bene, onorevole Tremonti. So che lei ha in mente di utilizzare la Cassa depositi e prestiti, il risparmio postale e le Fondazioni bancarie per finanziare le infrastrutture. E’ un progetto ardito, soprattutto ardito usare il risparmio postale.
Comunque, di quali infrastrutture si parla? Quelle disegnate col gesso da Berlusconi nel 2001 sulla lavagna di Vespa e rimaste al palo? Vorremmo un elenco, le priorità, il rendimento e l’ammontare delle risorse. Si tratta comunque di progetti ad almeno tre anni. Nel frattempo dovranno intervenire le banche. Sempre le banche. Per Alitalia, per le infrastrutture, per gli "swap", per i mutui immobiliari. Intanto i tassi salgono, gli oneri per il Tesoro aumentano, la pressione fiscale non diminuirà. La sua Finanziaria è piena di buchi e dove non ci sono buchi ci sono errori di strategia. Lei ha gratificato D’Alema con l’appellativo di statista.
D’Alema se lo merita immagino l’avrà ringraziata. Ma non s’illuda con questo di averne fatto un suo "supporter". D’Alema è amabile ma molto mobile, cambia spesso scenario. E poi, se lei ha bisogno dell’opposizione per discutere di federalismo fiscale, non le basterà D’Alema. Ci vorrà tutto il Partito democratico, ci vorranno le Regioni e Comuni, ci vorranno le parti sociali. Non credo che il vostro federalismo diventerà legge in nove minuti e mezzo.
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Giorni fa ho rivisto dopo cinquant’anni sulla tv "La7" il film "Accattone" di Pier Paolo Pasolini che fu presentato a Venezia suscitando allora vivaci discussioni. E’ un film di un’attualità sorprendente e sconcertante. Racconta di un "magnaccia" che ne fa di tutti i colori fino al punto di rubare la catenina d’oro dal collo di suo figlio, un bambinetto di quattro anni, per sedurre una ragazza e poi avviarla sulla strada della prostituzione.
Il tutto sullo sfondo delle baraccopoli della Roma degli anni Cinquanta, una desolazione e un degrado senza limiti tornato oggi di tremenda attualità, campi nomadi e povertà straniera e nostrana.
Il ministro Maroni dovrebbe vederlo quel film, ne trarrebbe grande profitto. Fa bene a preoccuparsi dei bambini "rom", che rappresentano tuttavia una goccia nel mare delle violenze contro bambini e donne all’interno delle famiglie. Delle famiglie italiane, quelle degradate ma anche quelle apparentemente non degradate.
Comunque, prendere impronte a bambini è violenza. Magari a fin di bene ma sempre violenza. Uno stupro dell’innocenza. Maroni l’ha promesso ai suoi elettori ma questo non lo assolve perché uno stupro è pur sempre uno stupro. Stuprare l’innocenza d’un bambino è un fatto gravissimo. Questo sì, è un tema che vale una piazza, cento piazze, mille piazze.
* la Repubblica, 20 luglio 2008
Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano parla alle alte cariche dello Stato
"Serve massima condivisione per fare le riforme. Ma il clima non è buono"
"Nessun complotto contro il governo
ma il Parlamento è stato compresso"
ROMA - "Bisogna guardare con ragionevolezza allo svolgimento di questa legislatura ancora nella fase iniziale, non si paventino complotti che la Costituzione e le sue regole rendono impraticabili contro un governo che goda della fiducia della maggioranza in Parlamento". Giorgio Napolitano pronuncia parole chiare sulle tensioni politiche che agitano l’Italia. Ricordando la funzione di salvaguardia della Costituzione che impedisce "scorciatoie", rilanciando la necessità delle riforme e tirando una bacchettata, indiretta, all’esecutivo. Parlando con le alte cariche dello Stato al Quirinale, infatti, il presidente definisce il Parlamento "compresso", critica l’uso di "fiducie e maxiemendamenti", il "continuo succedersi di decreti legge" (47 in questa legislatura) e sottolinea come si tratti "di fenomeni che tendono a consolidarsi e ad aggravarsi".
Parlando con le alte cariche dello stato al Quirinale, il presidente invita "alla più larga condivisione, strada maestra per realizzare le riforme istituzionali, strada percorribile". Cosa non facile, però. Soprattutto oggi: "Il clima non è ancora favorevole. Proprio per questo è necessario fermare il degenerare della violenza e nessuno si deve sottrarre". Ricorda l’aggressione a Berlusconi, Napolitano. Definendola "un fatto assai grave, di abnorme inconsulta violenza, che ha costituito motivo non solo di profondo turbamento ma anche di possibile (ne abbiamo visto i primi segni) ripensamento collettivo".
Certo Napolitano non sottovaluta l’esasperazione che segna il mondo della politica ("una conflittualità che va ben oltre il tasso fisiologico delle democrazie mature"), ma sottoliena come l’Italia non sia "un paese ’diviso su tutto. Stiamo attenti a non lacerare quel fondo di tessuto unitario vitale e condizione essenziale per affrontare i problemi".
Poi tocca alla giustizia. Napolitano non nasconde i problemi. "I problemi vanno affrontati nella loro oggettività - dice il capo dello Stato - Ci sono buoni motivi per ritenere che occorrano per stabilire un più corretto rapporto tra politica e giustizia insieme a comportamenti più moderati e costruttivi modifiche sia di leggi ordinarie sia di clausole costituzionali".
Il Capo dello Stato ribandisce poi l’importanza del mantenimento degli impegni assunti, a cominciare da quello della guerra in Afghanistan: non si tratta infatti di "una missione o una guerra americana, ma un impegno della comunità internazionale e dell’Onu con l’unico scopo di proteggere il mondo dal terrorismo internazionale". "Per quanto serie siano le difficoltà di carattere finanziario non possiamo in nessun modo venir meno agli impegni presi - spiega il presidente - perché il ruolo che l’Italia svolge è fondamentale per la sua reputazione internazionale".
Le reazioni. "Un monito chiarissimo che non si presta a interpretazioni divergenti. Le riforme della Costituzione si devono fare per un preciso interesse nazionale ed è doveroso ricercare la più larga convergenza possibile" commenta il presidente della Camera, Gianfranco Fini. "Forte e chiaro come al solito. Ora lavoriamo tutti su questa traccia" dice il leader del Pd, Pierluigi Bersani. mentre per il presidente della Fiat, Luca Cordero di Montezemolo si tratta di "musica per le orecchie di chi spera che poi quanto il presidente della Repubblica ha detto si avveri".
* la Repubblica, 21 dicembre 2009