LA SVOLTA DEL GOVERNO
Dal 2010 impronte digitali per tutti
L’accordo raggiunto dopo una votazione notturna
Sulla carta d’identità. E dal
prossimo anno test-anti droga
e alcol per avere la patente
di RAFFAELLO MASCI (La Stampa, 17/7/2008)
ROMA. Due misure sulla sicurezza: impronte digitali non più prelevate solo ai rom,maa tutti e, per giunta, riportate sulla carta d’identità a iniziare dal 2010, e un test antidroga e antialcol per ottenere la patente. La decisione sulle impronte è stata presa, con accordo trasversale tra le parti, nel corso di una votazione notturna nella commissione Bilancio e Finanze della Camera, come emendamento alla manovra finanziaria. Dato il plauso condiviso, la decisione aveva tutte le caratteristiche per essere giudicata salomonica e pacificatrice, in grado cioè di stemperare le polemiche suscitate dal provvedimento del governo in materia di sicurezza, che prevedeva la rilevazione delle impronte ai bambini rom.
Invece non è stato così, perché se le impronte verranno prese a chiunque voglia rinnovare la carta d’identità dal 2010 in poi, di questa scelta ciascuno ha voluto sottolineare un’angolazione particolare. La maggioranza, per esempio, saluta questa misuracome la fine della diatriba delle ultime settimane sulla «presunta schedatura » dei bambini rom. Il ministro Andrea Ronchi (confortato anche dall’opinione del sindaco Alemanno) parla di «un provvedimento che è la giusta risposta alle accuse di razzismo », mentre il suo collegaRoberto Calderoli sottolina come la nuova normativa sulle carte d’identità costituisca una svolta anche amministrativa, che «consente di fornire ai cittadini importanti servizi, come l’assistenza sanitaria».
E l’opposizione? Concorda sulla linea «impronte a tutti» ma dissente - è l’istanza di Walter Veltroni - sull’opportunità di mantenere ancora in vita il provvedimento su quelle prelevate ai rom «e quindi chiediamo - dice il leader del pd - che quella misura sia sospesa ». Quanto a Di Pietro, nel merito è della stessa opinione, nel tono no: «E’ una proposta scioccante e provocatoria per attenuare altre scelte razziste e xenofobe fatte dal governo». Ma il governo, per amor di pace, farà il passo indietro di ritirare la schedatura dei bambini rom tramite prelievo delle impronte? No, non lo farà. Lo ha detto chiaramente Maroni. «Perché dovremmo ritirare questa misura - dice il ministro dell’Interno - bisogna leggere bene i documenti prima di parlare - aggiunge con riferimento all’istanza di Veltroni - la nostra è un’ordinanza che riguarda i censimenti nei campo nomadi e non contro i rom. E prevede che i censimenti si facciano attraverso rilievi fotosegnaletici, tra cui le impronte digitali».
Quindi le due cose - censimenti nei campi rom e impronte sulle carte d’identità - hanno genesi e percorsi diversi e continueranno queste loro duplici e parallele vie. Su tutti arriva però l’indicazione del garante della privacy, Francesco Pizzetti che, proprio illustrando il rapporto al Parlamento, ha fatto riferimento a queste ipotesi in discussione: «L’uso delle impronte - avverte il professore - non può essere discriminatorio » anche se, ammette, «è diverso il discorso se il prelievo riguarda tutti». Infine, nel 2009 sarà necessario effettuare il test anti droga e alcol per ottenere la patente o il patentino: da settembre partirà una sperimentazione in quattro città (Cagliari, Verona, Perugia, Foggia) e dal prossimo anno la misura sarà estesa all’intero territorio nazionale.
Lo ha deciso il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Carlo Giovanardi, secondo il quale «con la sperimentazione verrà anticipata una normativa europea che prevede entro il 2011 l’introduzione obbligatoria di questo test fra i paesi membri». Il test sarà obbligatorio nell’ambito della visita medica, per chi chiede il patentino per guidare un motorino (quattordicenni), per i sedicenni che vogliono prendere la patente per la moto e infine per la patente vera e propria.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
La svolta di Salerno ... e la lotta per la libertà e la democrazia, oggi!(IL DIALOGO, Lunedì, 18 ottobre 2004)
L’ATTENTATO DI LUGLIO
È ancora giallo sui colpi sparati da Pallante al segretario del Pci? Oggi conta di più questa verità storica e politica: partito e sindacato, da un lato, e De Gasperi, dall’altro, seppero fare diga
L’ultimo mistero quello della borsa è stato sciolto: conteneva una lettera di Stalin sulla Jugoslavia
L’argomento sul piatto quindi non era un piano di insurrezione nella penisola ma Tito
Il rischio fu grande: ci fu guerriglia urbana. Di questo non si è ancora detto abbastanza
Togliatti ’48, l’Italia che non tradì se stessa
di Adriano Guerra (l’Unità, 17.07.2008)
Sono le 12 del 14 luglio 1948. Togliatti, al quale un giovane siciliano, Antonio Pallante, ha sparato quattro colpi di pistola, esce in barella dall’infermeria di Montecitorio per essere traportato all’ospedale. Accanto a lui c’è Nilde Iotti ed è a lei che il segretario del Pci chiede con un fil di voce di cercare Pietro Secchia, vicesegretario del partito insieme a Luigi Longo e capo della Commissione d’organizzazione. Ma Secchia non c’è. C’è invece Mauro Scoccimarro, e c’è la moglie, Rita Montagnana. A chi dunque Togliatti ha detto quelle parole, «State calmi, non perdete la testa», che nei giorni successivi centinaia e poi migliaia di comunisti ripeteranno bloccando un’ondata di protesta che aveva assunto in più punti caratteri insurrezionali? C’è da tempo il dubbio che Togliatti quelle parole non le abbia pronunciate. O comunque - la testimonianza è di Longo raccolta da Giorgio Bocca - le abbia pronunciate più tardi nello studio del professor Valdoni che lo aveva operato. È invece certo che, appena ferito, Togliatti abbia invitato la Iotti a raccogliere da terra la borsa che all’uscita da Montecitorio teneva tra le mani. Che ci poteva essere in quella borsa da spingere un uomo tanto gravemente ferito a usare le poche forze rimastegli perché le sue carte non cadessero nelle mani di estranei? Forse i piani di insurrezione di cui tanto si era parlato nei giorni precedenti quando aveva detto alla Camera che ad una «guerra imperialista» si sarebbe risposto «con la rivolta, con l’insurrezione per la difesa della pace e dell’indipendenza»? Alle parole di Togliatti il quotidiano socialdemocratico rispose con un editoriale che, dopo l’attentato, potè essere letto come un’istigazione all’omicidio: qualora si dovesse arrivare alla rivolta scatenata dal «russo Togliatti» - si poteva leggere infatti sulla prima pagina dell’Umanità - «Il governo della repubblica e la maggioranza degli italiani avranno il coraggio, l’energia, la decisione sufficiente per inchiodare al muro del loro tradimento Togliatti e i suoi complici. E non solo metaforicamente».
Sulla «rivolta» evocata da Togliatti e bollata come tradimento dai socialdemocratici, la discussione - come si sa - non si è ancora chiusa. Ma forse un contributo ad una lettura più tranquilla di quei giorni può venire se utilizzando le carte oggi disponibili si cerca di individuare quel che poteva esserci nella borsa raccolta dalla Iotti. Alla domanda è possibile infatti fornire una risposta che, con tutte le cautele del caso, può essere accolta. Perché proprio quel mattino il segretario del Pci aveva ricevuto «per conoscenza», come oggi sappiamo, copia di una lettera che Stalin aveva inviato al segretario del partito cecoslovacco Klement Gottwald sulla questione di Tito (nel giugno 1948 si era - va tenuto presente - nel pieno della campagna scatenata dal Cominform contro la Jugoslavia). Maurizio Zuccari che in un libro appena uscito sul Pci e la rottura fra Stalin e Tito (Il dito sulla piaga, Mursia, 2008) ha pubblicato il testo del documento, ha aggiunto che proprio per via dell’attentato Togliatti non aveva avuto modo di leggere quella lettera. Cosa che potrà fare solo successivamente, al Policlinico. Quel che si può aggiungere è che la lettera di Stalin non era certo destinata alla pubblicazione. Del tutto comprensibile dunque la preoccupazione di Togliatti: il documento conteneva infatti un invito a Gottwald a non farsi illusioni su una possibile sconfitta di Tito al congresso della Lega jugoslava e a non rendere pubblici materiali compromettenti sui dirigenti jugoslavi.
La questione sul tappeto all’interno del movimento comunista era insomma non l’insurrezione in Italia ma la campagna contro Tito. Può però succedere che quattro colpi di pistola aprano la via a processi del tutto imprevisti. Di fatto nel pomeriggio del 14 luglio si giunse, come ha scritto Aldo Agosti nella sua biografia di Togliatti, «ad un passo dall’insurrezione» e dunque due questioni si pongono: quelle relative alle ragioni della rivolta e all’atteggiamento del Pci. Su entrambe le questioni le testimonianze a disposizione - ultime quelle raccolte da Carlo Maria Lomartire, in una documentata ricostruzione di quei giorni (Insurrezione. 14 luglio 1948. L’attentato a Togliatti e la tentazione rivoluzionaria, Mondadori, Milano 2006) sono imponenti. Esse intanto dicono che le spinte alla protesta avevano la loro origine da una parte nella drammatica situazione economica e sociale del paese e dall’altra nell’esistenza all’interno della sinistra di un malessere antico che si manifestava come confusa aspirazione ad una rivincita che veniva dalla visione della Resistenza come «rivoluzione tradita» e dalla sconfitta elettorale del 18 aprile 1948. Così mentre la Cgil, nel tentativo di controllare e gestire l’ondata di rivolte, proclamava uno sciopero generale (che veniva a spezzare quel che era rimasto in piedi della vecchia unità sindacale) in vari punti del paese le iniziali manifestazioni di protesta tendevano a mutare di segno. Questo soprattutto a Genova, Torino (ove operai armati di mitra entrarono nell’ufficio di Vittorio Valletta per informarlo dell’avvenuta occupazione della Fiat...), Napoli, Taranto, ma anche in molte aree agricole, e in primo luogo ad Abbadia san Salvatore, teatro dei «fatti» più gravi e sanguinosi. Per una serie di ragioni, forse non tutte giustificabili, nel dibattito politico-culturale, ma anche negli studi sull’Italia repubblicana, si è di fatto steso un velo su quel che è avvenuto dopo l’attentato a Togliatti in un’Italia ove si sono susseguiti momenti di vera e propria guerriglia urbana con la nascita di barricate e posti di blocco, assalti alle prefetture e a depositi di carburante e anche a caserme e a depositi di armi. Sono stati quelli i giorni - si pensi alle decine di vittime degli scontri a fuoco, alle centinaia di feriti, e poi alle migliaia di arrestati - più tragici della storia della nuova Italia. Ma come è stato che nel giro di pochi giorni la strada dell’insurrezione e della guerra civile sia stata abbandonata? A chi darne il merito?
Sicuramente - come è stato detto - alla decisione, ma anche alla saggezza, di De Gasperi che nonostante venisse da più parti invitato a usare maniere sempre più forti per far fronte alla «insurrezione comunista», operò , pur scegliendo la via della repressione del movimento, perché non venisse imboccata la via della guerra civile. E un merito va certamente attribuito, come è stato fatto, alla straordinaria impresa portata a termine in quei giorni di fuoco da Gino Bartali al Tour di Francia. Non da oggi sappiamo che le vittorie, e le sconfitte, sportive, possono avere un grosso peso nella vita degli uomini. Non si può però mettere in secondo piano il ruolo giocato sin dal primo momento («State calmi. Non perdete la testa») dal Pci. E questo va detto nel momento in cui c’è ancora chi continua a mantener viva l’idea di un Pci fermo nell’attesa dell’«ora X» . Certo non era assente nelle fila comunista quella che Lomartire ha chiamato la «tentazione rivoluzionaria». Ed è altrettanto vero che coll’attentato a Togliatti siano scattati e per qualche tempo siano poi sfuggiti di mano - lo ha rilevato Agosti - quei meccanismi di difesa che il partito aveva predisposto nella prospettiva di dover far fronte ad un colpo di stato. D’altro canto era inevitabile chiedersi in quelle prime ore se dietro all’attentato vi fosse soltanto un giovane siciliano convinto che «per il risorgere della patria» fosse bene assassinare il capo dei comunisti. Naturale che si pensasse all’ipotesi di un complotto anche internazionale. Si aggiunga ancora che all’interno del gruppo dirigente del Pci c’erano, insieme alle debolezze e alle contraddizioni che porteranno nei decenni successivi alla crisi e alla sua uscita di scena, valutazioni diverse sulla situazione politica. C’era in particolare chi pensava di poter utilizzare la protesta per ottenere se non la caduta del governo almeno l’uscita di scena del ministro degli Interni Mario Scelba. Sin dal primo momento però già col comunicato della Direzione del Pci diffuso nello stesso pomeriggio del 14 luglio la grande scelta era compiuta. Si chiedevano le dimissioni del governo «della discordia, della fame e della guerra civile», ma per difendere la «pace interna» e la «legalità repubblicana». Nell’ora della verità insomma (e - si può aggiungere - prima ancora di sentire gli orientamenti, del resto noti, di Mosca, ove, così come a New York, si seguivano con apprensione le notizie che giungevano dall’Italia) - il Pci ribadiva che la sua linea continuava ad essere quella che lo aveva portato a respingere la «prospettiva greca» e a diventare coautore della Costituzione repubblicana.
l’Unità 19.07.2008
Comunicato dell’assemblea dell’Unità
Le redattrici ed i redattori de l’Unità
Alle ore 13, 28 di oggi venerdì 18 luglio l’agenzia Adn-Kronos lancia l’anticipazione di un’intervista della collega Concita De Gregorio a Prima Comunicazione con la quale si preannuncia come prossimo direttore dell’Unità ed entra nei particolari di ciò che ha in mente di fare. Ma a quale titolo? Al Cdr non risulta che sino ad oggi vi sia stato alcun atto formale o informale d’incarico della proprietà a favore di Concita De Gregorio. Siamo all’annuncio del cambio di direzione "via intervista"?
L’Unità è un giornale che si misura ogni giorno in edicola, con una redazione orgogliosa della sua professionalità ed autonomia, garantita anche in questi tempi difficili, dalla direzione di Antonio Padellaro. A nome della redazione chiediamo rispetto e chiarezza. Se vi sono decisioni da prendere le si prendano nel rispetto rigoroso delle forme e soprattutto delle persone, assumendosene in modo chiaro tutte le eventuali responsabilità. Perché la vita del giornale non può più essere segnata dall’incertezza sul suo presente e sulle sue prospettive. Da tempo chiediamo al nuovo editore Renato Soru un piano preciso di rilancio dell’Unità.
Alla collega Concita De Gregorio siamo costretti a ricordare cosa prescrive il contratto di lavoro a proposito dei diritti e dei doveri di redattori e direttori anche in rapporto con le organizzazioni sindacali. In particolare il punto che impone alla proprietà l’obbligo di comunicare al Cdr prima di qualsiasi altro soggetto e comunque almeno 48 ore prima del conferimento dell’incarico, eventuali cambi di direzione.
Non solo. Il contratto prevede che il futuro direttore e l’azienda presentino un piano editoriale e industriale al confronto con la rappresentanza sindacale sul quale il direttore si gioca il gradimento della redazione. Siamo all’intollerabile paradosso.
Solo ieri in un incontro ufficiale con il Cdr l’attuale presidente nonché amministratore delegato della Nie, la società editrice dell’Unità, Giorgio Poidomani ha assicurato, e confermato anche oggi, che non vi è all’ordine del giorno degli organi della società alcun mutamento della direzione giornalistica de l’Unità. Ma poco dopo arriva l’anticipazione "annuncio" della collega. Alle 14,41 Concita De Gregorio chiarisce - all’agenzia Ansa - che nulla di formale ci sarebbe. Che il nuovo editore Renato Soru le avrebbe proposto la direzione de l’Unità, il giornale fondato da Antonio Gramsci, e che la trattativa sarebbe ancora in corso. C’è da chiedersi allora la ragione dell’intervista a Prima Comunicazione con la quale si prospetterebbe un preciso modello di giornale a prescindere non solo da ogni formale incarico, ma anche da ogni confronto con la redazione.
Le forme sono sostanza. Il precedente suona come inammissibile mancanza di rispetto verso l’intera redazione e verso il direttore Antonio Padellaro cui va tutta la solidarietà dei giornalisti e verso la rappresentanza sindacale.
Alla proprietà, nella figura del presidente e amministratore delegato della Nie, Giorgio Poidomani e dell’editore Renato Soru, chiediamo non solo trasparenza e rispetto delle regole, ma un’immediata chiarificazione.
Comunicati del Cdr, delle redattrici e dei redattori dell’Unità e del Cda Nie
Comunicato del Comitato di redazione (19 luglio 2008)
Prima Comunicazione prosegue la pratica dell’insulto volgare e gratuito contro l’Unità. Nel numero in edicola si supera ogni tollerabile limite e si attacca, ancora una volta, l’onorabilità e la professionalità della redazione e della rappresentanza sindacale. Che, nel corso di questi mesi, si sono impegnate a fondo per favorire il rilancio della testata e contrastare scelte proprietarie che avrebbero contraddetto la storia e il radicamento del quotidiano.
La nostra battaglia ha incontrato molte solidarietà e, insieme, la preconcetta avversione di Prima comunicazione. Vorremmo ricordare, a chi mette all’indice l’Unità perché vi “si sente odore di sindacato”, che il sindacato, appunto, è una cosa seria da trattare con rispetto. Per il livore e i toni offensivi che ci vengono riservati, a tutela della onorabilità di chi a l’Unità lavora, ci rivolgeremo immediatamente ai nostri legali per dar corso alle iniziative del caso e per le stesse ragioni presenteremo un esposto all’Ordine dei Giornalisti della Lombardia.
Il Cdr de l’Unità