La questione morale ci riguarda
di Nando Dalla Chiesa *
La sparo grossa? Ebbene sì: resto dell’idea (finora espressa in privato) che il professor Galli della Loggia proprio torto non abbia. Che abbia ragione, care lettrici e cari lettori, a dire che non siamo - noi centrosinistra- «l’altra Italia». Non siamo nemmeno uguali al centrodestra, aggiungo io, su questo ci giurerei, perché facciamo riferimento - mediamente - a valori diversi. Quando ci mobilitiamo, crediamo in genere a quello che diciamo. Costituzione, libertà di stampa, uguaglianza. Ma certo anche tra i paladini della legge uguale per tutti ci sono quelli che nella vita di ogni giorno chiedono favori per questo o quel concorso pubblico. Ma certo anche tra chi evoca a ogni comizio il famoso editto bulgaro (Biagi-Santoro-Luttazzi) c’è chi applica volentieri la censura agli altri se appena gli serve o deve risolvere sbrigativamente le sue private inimicizie. Ma certo, ancora, tra chi denuncia ad alta voce il famigerato conflitto d’interessi c’è chi legifera a favore dei propri interessi personali o di partito al riparo dell’ombra lunga del conflitto più grande e smisurato del premier.
Lo so: il baricentro, i simboli, il codice morale che muove in genere i nostri comportamenti, non coincidono affatto con quelli del centrodestra. Epperò eccoci qua tutti insieme a interrogarci su quale sia la vera cifra morale del nostro personale politico. La questione abruzzese è arrivata infatti come una tramvata addosso agli elettori e ai militanti di quella che fu un giorno l’Unione. Notizie da lasciar di sale. Ottaviano Del Turco agli arresti. Il sindacalista che commuoveva il senato raccontando dei leader sindacali uccisi dalla mafia e che aveva fatto togliere il segreto dagli atti parlamentari su Portella della Ginestra. Il sindacalista che aveva sollevato la questione morale nel Psi di Bettino Craxi e che nobilitava il suo impegno politico con la passione per la pittura. Lui agli arresti per una storia collettiva di corruzione. Fatico tuttora a crederci, avendolo anche frequentato nel corso della mia attività istituzionale. E sospendo ogni giudizio, nulla avendo visto direttamente degli atti dell’inchiesta. Sta di fatto che è coinvolto, e non per complotto dei magistrati, in una brutta storia di tangenti spuntate nell’humus magno della sanità pubblica. Storia sua e di assessori e burocrati a lui d’intorno. Un accidente estemporaneo? Un evento unico, la classica "rara avis", come si dice, nel cielo della politica progressista? No purtroppo. Ne abbiamo dovute ingoiare tante, di queste delusioni. E non sono sempre docce fredde. A volte sono percezioni che ti conquistano lentamente, che iniettano nel tuo sistema di convinzioni quel piccolo dubbio che provi a tenere fuori dalla porta più che puoi ma che cresce fino a diventare maledetta certezza nell’arco di un anno o più anni.
Che dire, ad esempio, della Calabria? Di quella famosa inchiesta televisiva andata in onda una domenica sera su Rai3 sulla politica calabrese? Un’inchiesta al termine della quale ti mettevi le mani nei capelli per aver gioito della vittoria di quei rappresentanti del popolo che teorizzavano, anche dall’estrema sinistra, quanto fosse giusto assumere i propri parenti alla Regione? La Calabria, appunto. La terra in cui un consigliere regionale come Fortugno può essere ucciso per liberare il suo seggio e regalarlo al primo degli esclusi, traghettato fresco fresco nel centrosinistra dal centrodestra per ciucciarsi il suo prezioso (e un po’ sospetto...) pacchetto di voti. Che dire della Campania, dove assistiamo allibiti agli effetti di una gestione dei rifiuti della quale (camorra o meno) una cosa sola capiamo, e cioè che se l’avessero realizzata i nostri avversari, e non personaggi che abbiamo imparato in altri contesti ad apprezzare, ce li sbraneremmo vivi? O che dire del potere politico in Basilicata, la nostra "Umbria del sud", roccaforte dell’ex Ulivo, finito dentro fino al collo nelle inchieste giudiziarie, anticipando di poco, in questi poco onorevoli fasti, il capoluogo di regione dell’Umbria "vera"? Né solo del sud o del centro si tratta. Perché anche Genova, sì, la città della Resistenza, della rivolta contro Tambroni, della classe operaia che non si piega, anche Genova è finita nel tritacarne degli avvisi di garanzia. La sua giunta, il suo consiglio comunale; e la sua istituzione storica, il Porto. Ha scelto di reagire con il suo combattivo sindaco Marta Vincenzi, lancia anzi da oggi la sfida di "Genova città dei diritti", capitale dei diritti umani e civili, dando l’avvio a un fitto ciclo di eventi. Ma è chiamata a vincerla, questa sua sfida in nome del diritto, prima di tutto dentro di sé.
C’è qualcosa che non quadra nel corredo culturale del centrosinistra. Il quale in alcuni luoghi finisce nei guai per mancanza di alternanza -così si dice-, perché a furia di governare sempre gli stessi non c’è più ricambio, si producono le incrostazioni di potere e ci si fa più spregiudicati, ci si sente più impuniti. Ma finisce nei guai, in altri luoghi, per il motivo opposto: ossia per realizzare l’alternanza, per prendere un po’ di voti, quali che siano, pur di vincere e non stare più all’opposizione. Certo, si può agire sulle regole. Si possono pulire e moralizzare i tesseramenti, causa frequente di incetta illegale di fondi, e in tal senso è una buona notizia che Veltroni abbia deciso di portare il Pd sulla strada del rigore e della trasparenza proprio delle tessere. Certo, si possono separare meglio politica e burocrazia. Si possono regolamentare diversamente gli appalti. Ma alla fine, come sappiamo per lunga esperienza, l’inganno per la legge si trova sempre. Perché il problema è culturale. Di testa. Simile a quello del ragazzino dei quartieri degradati che decide di spacciare perché così guadagna di più e più in fretta. La rivoluzione culturale del centrosinistra, a dispetto delle sue illusioni e delle sue tante buone amministrazioni, passa anche per la questione morale. In fondo ci siamo dimenticati molto in fretta che Totò Cuffaro, prima di governare la Sicilia per il centrodestra, l’aveva governata con il centrosinistra...
l’Unità, Pubblicato il: 16.07.08, Modificato il: 16.07.08 alle ore 8.25
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’analisi.
La sconfitta in casa di Berlusconi
Seppelliti da una risata
di Nando Dalla Chiesa (il Fatto, 01.06.2011)
Li ha seppelliti una risata. Sferzante, giovanile, contagiosa. Esplosiva e incontenibile davanti al troppo, al troppo di tutto. Che ha allagato l’altra sera piazza Duomo trasformandola in un grandioso teatro di satira popolare. Il gruppo di giovani che dirige l’occhio verso l’alto inscenando la progettazione della “più grande moschea d’Europa”. L’ingegnere che spiega alle maestranze: “Ecco, intanto le guglie devono sparire, via anche quella statuina d’oro lì in alto, e tutt’intorno spazi per i kebab”. A cinquanta metri da loro campeggia su un terrazzo pubblico un grande striscione con su scritto “Moratti, una donna fuori dal Comune”. E poi quel “Zingaropoli”, mugghiato da Bossi e rimbalzato sui cartelloni di tutta Milano, ritmato ogni dieci minuti con la giocosa cantilena degli ultrà vittoriosi. O il “Gigi D’Alessio, vogliamo Gigi D’Alessio” diventato rapidamente il tormentone della notte, una canzonatura impietosa del giovedì prima, la più discussa musica dei quartieri napoletani chiamata a benedire il futuro della capitale padana, la rivolta della Lega, l’accusa alla sinistra violenta e comunista di avere minacciato il cantante, La Russa che fa promesse a telefono e microfono unificati, fino alla reazione rabbiosa dei fan fatti salire a vuoto dalla Campania: “Pisapia, Pisapia”.
AFFONDA sotto una risata liberatoria la più grande farsa politica della storia europea del dopoguerra. Ogni tabù annunciato, ogni incubo agitato, si sono trasformati grazie alla rete in un potente sberleffo. La sinistra triste? Forse quella che Berlusconi incontrò al suo apparire sulla pubblica scena. Questa ha ironia da vendere (ci risiamo: perché la satira è di sinistra?). Mentre dall’altra parte, soprattutto a corte, sembrano capaci di ridere solo di gnocca e dintorni.
È una risata che viene da lontano quella che rimbalza tra gli annunci di vittoria che arrivano da Napoli e da Arcore, da Rho e da Trieste, da Cagliari e Gallarate. Nasce, dopo aver fatto a braccio di ferro con l’indignazione, dal repertorio di gag ineguagliabili che ci è stato rappresentato per anni. Il parlamento pronto a votare che Ruby era la nipote di Mubarak, esattamente come avrebbe potuto votare che Napoleone andò in ritiro a Lampedusa o Garibaldi a Formentera. Il palco attrezzato davanti al Palazzo di Giustizia di Milano perché l’imputato possa insultare i suoi giudici in mezzo a una folla di figuranti in estasi. I bunga bunga narrati come cene eleganti a base di coca cola light e di discussioni politiche con giovani apprendiste Cavour. Le prostitute riaccompagnate a casa con le auto della polizia. Satiri ottantenni e lenoni falliti che spuntano come spot nei luoghi più improbabili. Falsi attentati con incredibili sparatorie per le scale. Le rincorse a Obama per spiegargli come discoli pentiti che non è colpa mia, in Italia c’è una dittatura dei giudici. E quei capelli, santo cielo quei capelli. E gli strafalcioni a getto continuo, dal lontano Romolo e Remolo fino all’ultimo Goteborg al posto di Bad Godesberg.
UN GIORNO sembrerà di avere sognato, e i ragazzi ci diranno “ma non ridevate?” come dicevamo noi ai nostri genitori rivedendo il duce con le mani sui fianchi a piazza Venezia. Davvero la prima volta è tragedia e la seconda è farsa. Ora bisogna uscirne e dare il segno fulminante della differenza. Mai dimenticare che il secondo governo Prodi dilapidò il patrimonio accumulato in cinque anni di opposizione in poche settimane: i giochi miserabili (non del governo) per l’elezione del presidente del Senato; i cento ministri e sottosegretari, quasi tutti sconosciuti, lottizzati tra partiti e correnti, salvo accorgersi, dopo il giuramento, che mancava un sottosegretario in grado di reggere la Finanziaria in aula; l’indulto come prima e più assoluta urgenza. Si lavori alto per il Paese. E godiamoci questa riserva di ironia, pronti a usarla verso di noi. Come quella del giovane tifoso di Pisapia che l’altra sera ha chiesto agli amici di aspettarlo un attimo: “Vado a rubare un’auto e torno”.
Meglio Sabina dei moralisti super partes
di GIANNI VATTIMO (La Stampa, 19/7/2008
Ma ci saranno davvero due Italie, come suggerisce Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della sera del 13 luglio, oppure ce n’è anche un terza che ci costringe a rifare i nostri conti? Le due Italie diverse che Galli distingue e descrive sono, come si può immaginare, quella che, a torto o a ragione, vota Berlusconi e che se ne sente rappresentata; l’altra è quella degli intellettuali di sinistra con il loro corteo di comici, attori, nani e ballerine, politici trombati e nostalgici del comunismo.
Che, manco a dirlo, si sentono sempre i migliori, diversi da quella massa di persone che si lasciano abbindolare dalla propaganda berlusconesca e perdonano al cavaliere i tratti leggermente (?) furfanteschi che marcano la sua carriera, e che in fondo sono tanto «italiani», tanto espressivi delle nostre più profonde caratteristiche nazionali. I moralisti di sinistra si sono da ultimo espressi, si fa per dire, nel triste spettacolo di Piazza Navona (peraltro così unanimemente condannato; dunque non sono poi tanti...), mostrandosi per quello che sono, presuntuosi, antipatici, e fondamentalmente antidemocratici, perché disprezzano la volontà della maggioranza che oggi sostiene questo governo.
Ma Galli di quale Italia fa parte? Al di là del popolo bue e degli antipatici moralisti di sinistra, che credono di parlare in nome dei veri interessi dei cittadini ma si crogiolano solo nei loro pregiudizi ideologici, non dovremo riconoscere anche una terza categoria, quella che per l’appunto, in nome di una razionalità davvero super partes, giudica e valuta le altre due posizioni e le ammonisce a vincere finalmente i propri difetti? Si badi che non è un problema da poco, anche filosofico.
La democrazia sarà davvero la lotta tra parti e interessi diversi che a un certo punto si accordano per amore di pace e sopravvivenza, oppure dovrà essere sancita da una istanza superiore - Galli della Loggia e affini - che distribuisce colpe e meriti e distingue i «veri» democratici dai democratici spurii? Sembra che qui si finisca ancora una volta nel vicolo cieco della scomunica papale del relativismo, che però non può nascondere le proprie radici autoritarie. Galli, e quelli come lui, ammettono di essere solo interlocutori del (famigerato ormai) «dialogo», oppure si riservano la, moralistica, parte del giudice? Ma se è così, davvero preferiamo Sabina Guzzanti e il suo irresistibile turpiloquio.
Dopo gli annunci del premier e del Guardasigilli, la Lega frena
"Il 2008 è pieno, se ne può parlare ma solo in futuro"
Giustizia, duello Lega-Berlusconi
Il Carroccio frena, il premier insiste
Il Cavaliere: "Separazione carriere e riforma Csm sono priorità nazionale"
Disaccordi anche sulla legge elettorale per le Europee del prossimo anno
ROMA - La Lega frena: "C’è tempo, prima di riformare la giustizia serve il federalismo fiscale". Berlusconi accellera: "Adesso, e sono più determinato che mai". Oggetto del contendere è la riforma della giustizia. Dopo gli annunci di ieri del premier e del suo ministro Guardasigilli sulle necessità di una riforma "radicale" del sistema giustizia e dei poteri dei magistrati, stamani Il Carroccio ha puntato i piedi. Non se ne parla, c’è altro da fare prima, ovverosia - come dice il programma del Pdl - il federalismo fiscale. Ma nel primo pomeriggio Berlusconi fa finta di nulla. E riunito con gli eurodeputati del Pdl e dice: "Mai stato determinato come adesso. Serve una riforma della giustizia dalle fondamenta".
L’altolà della Lega. A Berlusconi che spinge sull’acceleratore e chiede di dare via alla riforma della giustizia già "da settembre", il Carroccio mette un freno. "Abbiamo fatto una tabella temporale delle riforme e in quella tabella la riforma della giustizia non c’è. Questo non vuol dire che non si farà, ma viene dopo" dice Roberto Calderoli, ministro della Semplificazione. Diversa la scala delle priorità del Carroccio: "In autunno abbiamo il federalismo fiscale, il codice delle autonomie e poi la finanziaria. A seguire, la riforma costituzionale. Una riforma della giustizia ci può anche stare, ma il 2008 è piuttosto pieno".
"Evitare altre tensioni con le opposizioni". E dire che solo ieri il premier e il Guardasigilli Angelino Alfano davano per fatta "la riforma organica della giustizia" a settembre. Il fatto è che la Lega è preoccupata che nuove tensioni con l’opposizione rappresentino un ostacolo sul cammino verso il federalismo. Il Carroccio lo sa, come sa che uno scontro sulla giustizia, genererebbe un muro contro muro che sarebbe impossibile da evitare. E, con l’opposizione sulle barricate, il federalismo tanto voluto da Bossi e seguaci rischierebbe di essere solo una chimera.
Il Cavaliere tira dritto. Incurante di tutto, forte dei suoi sondaggi ("solo il 6 per cento degli elettori del Pdl ha ancora fiducia nella magistratura"), agli eurodeputati riuniti in un albergo della Capitale dice: "Non sono mai stato più determinato di adesso. Ci vuole una riforma giusta per il Paese. E’ una priorità nazionale". Il premier non vuole parlare con i giornalisti al di fuori delle conferenze stampa. Alcuni presenti all’incontro riferiscono così che "il primo punto della riforma della giustizia sarà l’immunità parlamentare". A seguire poi la riforma del Csm, la separazione delle carriere tra giudici e pm e la riforma dei codici penali e di procedura.
Litigio anche su legge elettorale europea. Punti di vista diversi tra Lega e Berlusconi anche sulla legge elettorale per le elezioni europee nel 2009. Il premier vorrebbe uno sbarramento del 5% e liste bloccate, senza preferenze, con un collegio unico nazionale. La sua è una proposta trattabile: la soglia di sbarramento potrebbe scendere al 4%; possiiblità di mantenere le preferenze a condizione però di mantenere gli attuali cinque collegi. "La proposta di Calderoli non mi convince" aggiunge il premier che si riferisce alla proposta del Carroccio di inserire la preferenza unica.
* la Repubblica, 16 luglio 2008
Etica e politica. La strada obbligata del Pd
Se non si affronta la questione morale il rischio sarà quello di una caduta libera dei consensi dei Democratici
di Nando Dalla Chiesa (l’Unità 9.12.2008)
È un paese un po’ cialtrone questo, lo sappiamo. Intriso di trasformismi e di soccorsi ai vincitori. Che scrive spesso la sua autobiografia nei demagoghi politici di cui si innamora. Che prova l’orticaria verso la parola «legalità». Ma, appunto, «un po’», non del tutto cialtrone. E nemmeno sempre nella stessa misura.
Sicché capita che anche in un paese così la questione morale decreti la fine, il declino o, al contrario, la tenuta dei partiti. Perché c’è sempre un’ampia minoranza di cittadini che alla qualità dei rapporti civili, al pubblico decoro, al senso delle istituzioni tiene e crede. Un pezzo importante del paese che non sta, politicamente, tutto di qua o di là; ma che certo tende a collocarsi in modo significativo in quello che oggi chiamiamo centrosinistra. Un popolo paziente ma disposto alla rivolta soprattutto quando sente che l’immoralità di governo lo colpisce nei suoi interessi materali.
Il crollo della prima repubblica ha suggellato in fondo un’etica pubblica che offendeva il decoro delle istituzioni, salassava le finanze dello Stato e ingessava la vitalità della società civile. E infatti non i magistrati, ma il voto del ’92 e ancor prima il referendum del ’91 hanno affondato Dc e Psi, simboli di una specifica idea di governo e di politica.
E, per converso, il Pci ha scavalcato le macerie del Muro (autentico paradosso della storia) grazie all’immagine alternativa che aveva. Conservando un patrimonio di consensi cresciuto non certo in nome dell’ideale comunista, ma per accumulazione multiforme intorno a un’idea di buon governo. Come cantava Gaber, la gente era diventata comunista perché la Dc era il partito degli scandali. O perché qui c’era il peggiore partito socialista d’Europa. O perché Berlinguer «era una brava persona».
Insomma, nonostante quel che si crede, la questione morale in politica conta, tanto più che in genere essa è intreccio, sintesi di molte questioni. E se è vero che a volte «più rubi e più prendi voti», arriva sempre il momento in cui paghi la perdita della reputazione e del prestigio, anche in modi ingiusti e spietati. Di più: senza un elettorato pronto a difenderti, poiché di norma lo smarrimento della bussola etica si accompagna a una sonnolenza progressiva su tutti i temi ideali che danno senso a un partito. Da qui la domanda: quale demone, quale virus della ragione ha portato a pensare nel centrosinistra che la questione morale faccia perdere voti, che l’etica pubblica sia una materia complementare, un optional, nella formazione e nella identità di un gruppo dirigente politico? La prima risposta è: senz’altro la perdita del senso della realtà. Ossia la convinzione che la realtà sia fatta del proprio mondo partitico-mediatico-clientelare.
Che si possa diventare solida maggioranza annettendo, con disutilità marginali crescenti, i Mastella e i Villari, anziché offrendo buoni progetti sostenuti da un’alta e riconoscibile serietà di partito o schieramento. Escogitando operazioni di ceto politico, che - a livello centrale come a livello locale (si ricordi la vicenda Fortugno in Calabria) - diventano inevitabilmente corollario e legittimazione di micidiali pratiche clientelari e corruttive.
Naturalmente questa perdita di senso della realtà ha alle sue spalle processi storici. La crisi del partito di massa, anzitutto. Ma ancor più l’esaurimento dell’onda lunga in cui si sono formate le classi dirigenti politiche della prima Repubblica. Ossia dello spirito fondativo della Resistenza e della Costituzione. E la conseguente sostituzione di leadership nate nel fuoco di grandi battaglie sociali, sindacali, politiche, culturali con leadership nate prevalentemente negli accordi interni di partito, e alle quali le liste bloccate hanno reciso ogni cordone ombelicale con sentimenti e domande popolari. Grande, oggi, è il compito del Pd. Grande e difficile.
Denunciare l’immoralità dell’avversario al governo e, al tempo stesso, costruire la propria moralità di partito nuovo. Ma deve svolgerlo, sapendo che dovrà pagare duri prezzi. Altrimenti sarà condannato a pagare il prezzo più duro. Ossia la caduta libera dei suoi consensi, l’implosione del progetto per le tante promesse non mantenute. Ancora una volta la questione morale si presenta - anziché come addentellato - come riassunto della politica. Sarà una strada lunga e spinosa. Ma forse sarà l’unica strada possibile per realizzare finalmente il Pd promesso agli italiani.