APPELLO AL PRESIDENTE
DELLA REPUBBLICA ITALIANA
CARISSIMO PRESIDENTE
VOGLIA ACCOGLIERE BENEVOLMENTE QUESTE MIE POCHE SINTETICHE ANNOTAZIONI:
"FINALMENTE" - TUTTO IL PARLAMENTO CANTA ALLEGRAMENTE: "FORZA ITALIA"
L’INNO DI UN SOLO PARTITO!!!
DOVE STIAMO ANDANDO?!
A "REGIME LEGGERO", FINO ALLA CATASTROFE???!!!
ITALIA: LA PAROLA DELLA NOSTRA IDENTITA’ E DELLA NOSTRA REPUBBLICA E’ STATA RUBATA!!!
E IL PAESE IPNOTIZZATO E IMMOBILIZZATO E’ OFFESO E SCONCERTATO!!!
IL PARTITO DI "FORZA ITALIA" SI SCIOGLIE - E VA SCIOLTO -IMMEDIATAMENTE E FINALMENTE!!!
BERLUSCONI HA DECISO E NON HA DECISO, NON TORNA INDIETRO E TORNA INDIETRO. FORMIGONI CONDIVIDE, MA “AN” NO...
PER LA COSTITUZIONE E PER LA DEMOCRAZIA,
ROMPA GLI INDUGI.
CHE SI ESCA DAL SONNAMBULISMO
E CHE L’ITALIA VIVA!!!
FACCIA CHIAREZZA, QUANTO PRIMA, PER OGNI ITALIANO E OGNI ITALIANA,
PER TUTTI E PER TUTTE, IN ITALIA E NEL MONDO.
LA RINGRAZIO VIVAMENTE DELLA SUA ATTENZIONE.
CON TUTTA LA MIA PIU’ PROFONDA STIMA
LE AUGURO BUONA GIORNATA E BUON LAVORO
MOLTI AUGURI
VIVA L’ITALIA!!!
Federico La Sala
Sul tema, nel sito, si cfr.:
VIDEO. Di Pietro: ’’Non devo scusarmi io ma Berlusconi con gli italiani’’
Suicidio collettivo
di Antonio Padellaro (il Fatto, 20.04.2013)
L’unico consiglio che ci sentiamo di dare al Pd (o forse all’ex Pd) è quello di evitare con tutti i mezzi e in tutti i modi nuove elezioni, barricandosi magari tra le macerie di largo del Nazareno, poiché a questo punto per Berlusconi e per Grillo sarebbe un gioco da ragazzi spartirsi le spoglie di un partito tenacemente proiettato verso un suicidio politico collettivo. Con l’imperdonabile colpa di aver coinvolto nella propria autodissoluzione la passione e le speranze di milioni di elettori e militanti che da giorni assistono sgomenti a quella specie di vendetta tribale che è diventata l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Un “tutti contro tutti” dove killer e vittime si scambiano di ruolo a giorni alterni con il risultato condiviso di sputtanarsi (e sputtanarci) davanti al mondo intero.
Dopo aver affondato l’anziano e incolpevole Franco Marini, hanno coinvolto in una situazione umiliante che certo non meritava un altro padre fondatore, Romano Prodi, ormai da anni lontano dal maleodorante cortile italiano, mandato a schiantarsi mentre operava nel Mali come inviato speciale dell’Onu.
Non serve a nulla adesso domandarsi chi abbia armato la mano dei 101 cecchini irresponsabili: se il disinvolto Renzi, se l’astuto D’Alema, se gli obliqui margheriti o se addirittura il pugile suonato Bersani. Forse neppure loro sanno quello che fanno. Dio acceca chi vuole perdere.
La sparata di Asor Rosa
"Stato d’emergenza per salvare la democrazia"
Ferrara: è golpe. La replica: bisogna reagire
È eversivo invocare l’intervento di polizia e carabinieri? Lo sarei se invocassi la rivolta
Nessuna critica a Napolitano. Dobbiamo accettare o meno la fatalità di un bis del ’22
Berlusconi manda in frantumi le regole e l’assetto democratico e repubblicano
Certo, la mia è una forzatura. Serve a farsi capire meglio e a focalizzare l’attenzione
di Goffredo De Marchis (la Repubblica, 14.04.2011)
ROMA - Per evitare che la storia si ripeta, che l’Italia torni alle condizioni del 1922 (alba del fascismo) o precipiti nella deriva della Germania del ‘33 (avvento di Hitler) Alberto Asor Rosa propone una strada: dichiarare lo stato di emergenza, congelare le Camere, chiamare al governo Carabinieri, Polizia di stato e magistratura. Il professore, ex parlamentare del Pci, descrive il suo progetto in un editoriale sul manifesto di ieri. La democrazia è già collassata, scrive Asor Rosa citando i precedenti del Novecento. Per colpa «di Berlusconi e dei suoi più accaniti seguaci».
L’articolo scatena, com’era prevedibile, Giuliano Ferrara che a Qui Radio Londra attacca a testa bassa accostando impropriamente Eugenio Scalfari e la Repubblica ad Asor Rosa e alla sua tesi: «C’è chi propone il colpo di Stato contro il governo eletto dai cittadini. Asor Rosa spiega con chiarezza un progetto politico che è di Repubblica. Del resto il professore fa parte della cricca di Scalfari». Ribatte a muso duro Asor Rosa: «C’è un’unica cricca lobbistica ed è quella notoriamente guidata dal presidente del Consiglio, ed i pericoli che ha provocato per la democrazia italiana sono pesantissimi». Asor Rosa però conferma la sua assurda exit strategy al berlusconismo. Lui stesso la definisce paradossale: «Pensavo mi chiamasse uno psichiatra, non un giornalista», dice rispondendo al telefono.
Se anche lei sa che il paradosso ha aspetti eversivi perché lo ha scritto? Propone di reagire alle regole calpestate violando tutte le regole. E gli amici del Cavaliere, come Ferrara, ci sguazzano. Bel risultato.
«Da tempo immemorabile Ferrara non rappresenta più nulla. Ma l’alternativa quale sarebbe? Tacere? Il mio ragionamento è chiaro, soprattutto nelle premesse. C’è un’obiettiva frantumazione delle regole ed è opera del capo del governo. L’atteggiamento etico politico di Berlusconi mette in discussione l’assetto democratico e repubblicano. Se tutto questo è vero, e secondo me è vero, bisogna porsi il problema di come se ne esce».
Ma lei immagina una «prova di forza» che è l’opposto della democrazia.
«La mia proposta è una forzatura e le forzature servono a farsi capire meglio. A focalizzare l’attenzione sulle premesse».
Poteva fermarsi a quelle.
«No, anche perché non credo che lo stato d’eccezione sia contro la nostra Costituzione».
Congelare le Camere, affidare i poteri alle forze dell’ordine. Dove ha letto queste cose nella Carta?
«Non sono un costituzionalista ma invito tutti a valutare bene gli articoli 87 e 88 della Costituzione. E a vedere cosa se ne ricava in un momento di rischio della democrazia. Se qualcuno mi dimostra che la democrazia in Italia non è a rischio accetto la confutazione. Altrimenti dobbiamo fare tutto il possibile per evitare il peggio».
Quegli articoli riguardano i poteri del presidente della Repubblica. Napolitano non sta già facendo moltissimo per respingere leggi inaccettabili e comportamenti fuori controllo?
«Non ho nessuna critica da muovere a Napolitano. Ma tutti abbiamo di fronte una responsabilità storica: accettare o meno la fatalità di quello che accade come avvenne nel ‘22 e nel ‘33. La prospettiva politica si è enormemente aggravata. E chiede un impegno che va oltre il semplice accettare o respingere leggi».
Lei soffia sul fuoco, non è anche questo pericolo? Per fortuna sono parole isolate.
«È eversivo, è soffiare sul fuoco invocare l’intervento di Polizia e Carabinieri? Sono organi dello Stato. Sarei eversivo se invocassi la rivolta popolare. Ma non lo faccio. Chiedo solo che la democrazia e lo Stato si autodifendano».
Un uomo con la sua storia di sinistra che invoca i generali. Non è in imbarazzo?
«L’apprezzamento per la polizia e i carabinieri fa parte della maturazione quasi secolare di cui sono portatore».
Una commedia da tre soldi
di Franco Cordero (la Repubblica, 14.04.2011)
Ha dell’allucinatorio il voto con cui la Camera berlusconiana qualifica reato ministeriale l’oggetto della causa postribolare pendente a Milano e intima al Tribunale d’astenersene: vale uno zero giuridico, perché i trecentoventi o quanti siano non hanno il potere che s’illudono d’esercitare; è come se un questore emettesse condanne penali o, arrogandosi funzioni ultraterrene, l’Olonese presidente del Consiglio distribuisse indulgenze à valoir nell’ipotetico purgatorio.
Scene d’una sgrammaticata commedia da due soldi, i cui attori improvvisano. Se la res iudicanda sia reato comune o ministeriale, lo diranno i giudici: data una condanna, l’appellante ripropone la questione; qualora soccomba anche lì, gli resta il ricorso in Cassazione. I cervelloni credono d’avere sferrato un colpo da maestri: «dichiariamo improcedibile l’accusa» (il clou esoterico sta nel predicato), «così il Tribunale, spalle al muro, deve ammettersi incompetente o sollevare un conflitto d’attribuzioni e tutto rimane sospeso». Ogni sillaba manda il suono delle monete false. Gli onorevoli straparlano, ossequenti al regime egomaniaco. Ipse dixit: è ai ferri corti col «brigatismo giudiziario», tale essendo nel suo universo deforme l’idea che la legge vincoli anche l’impunito ricchissimo; castigherà le toghe proterve, bisognose «d’una lezione»; e i famigli rabberciano norme à la carte.
La «sovranità del Parlamento» (i berluscones la vantano almeno due o tre volte pro die) è formula italiota d’una monarchia assoluta prima che s’installino gli embrioni del futuro Stato costituzionale: le attuali Camere sono cassa armonica dell’esecutivo; vi siedono persone ignote agli elettori; le nominano agenti del beneplacito sovrano.
Chiaro quale sia il modello: platee stupefatte dalla droga mediatica forniscono voti; lassù, accessibile soltanto alle baiadere, siede Dominus Berlusco, ogni mattina più ricco (quanto sia disinteressato, attento solo al bene collettivo, fuori della mischia d’affari, lo dicono sordi ringhi con cui accoglie l’estromissione dalle Generali della devota lunga mano Cesare Geronzi). Niente vieta che vecchi organi rimangano, anzi conviene tenerli in piedi, finti vivi, palcoscenico d’una troupe innocua: Sua Maestà ne prende uno o una qualunque nel mucchio e li addobba; voilà, diventano ministri o figure analoghe; gerarchie adoranti esercitano poteri subordinati in conflitto permanente; griglie selettive escludono i diversi.
Tale struttura subpolitica connota un Paese solo geograficamente europeo, dal futuro miserabile perché lo sviluppo economico richiede tensione psichica, cultura, lavoro duro, regole ferme, mentre qui regnano privilegi parassitari, variegato malaffare, gusti fraudolenti, mente corta, animule spente. Confessa una vocazione ministeriale, né punta basso aspirando alla Farnesina, la svelta figliola che, secondo l’accusa, sovrintendeva alle ospiti della reggia: nei dialoghi intercettati coltiva un argot dal percussivo registro turpiloquo; e sotto accusa d’avere gestito prostitute, conferma la candidatura.
Qui s’indigna uno che scrive in décor grammaticale, storpiando impetuosamente i concetti: non marchiamole con quel nome (nei Tre moschettieri Milady porta una P impressa a fuoco sulla spalla); sono damigelle intente allo scramble mondano; è risorsa anche il corpo. Lo stesso maestro pensatore sventola liberalismo sui generis e culto berlusconiano, classico ossimoro del genere «sole nero» o «ghiaccio bollente». Gli aneddoti dicono a che punto siamo nella corsa al Brave New World.
La malattia italiana non risponde più alla solita farmacopea. L’Unico squaglia gravi accuse in falsa ilarità turpiloqua, spaventando persino gli obbligati a ridere. Rebus sic stantibus, è imputato in quattro sedi. Da tre pendenze rognose lo liberano due leggi che le Camere votano sul tamburo, tagliando ancora la prescrizione e seppellendo d’un colpo l’intero processo, appena scadano dei termini. La terza toglie al giudice il vaglio del materiale probatorio offerto dalle parti: se la difesa indica mille testimoni, saranno escussi tutti, in mesi e anni, finché suoni la campana; l’aula chiude i battenti; non se ne parla più.
I giudizi diventano materia volatile: dibattimenti fluviali, processi brevi, larghe sacche d’oblio; fantasie carnevalesche da Nave dei matti? No, leggi italiane. L’ordinaria prassi politica risulta impotente contro l’abuso sistematico, tanto l’ha pervertita Re Lanterna. Temendo la sfiducia, compra degli oppositori (gesto automatico, gli viene naturale: cambiano uniforme, esigono i prezzi, li incassano; il transito non è finito, sappiamo dal coordinatore. La secessione nel Pdl inalberava insegne virtuose ma i bei giochi durano poco. Le anime transumano salmodiando motivi edificanti.
Di questo passo, la legislatura compie l’intero ciclo: tra due anni divus Berlusco s’insedia al Quirinale, portandovi i divertimenti che sappiamo (accadeva sotto Rodrigo Borgia, Sua Santità Alessandro VI; vedi monsignor Iohannes Burckardus, cerimoniere impeccabile e cronista meticoloso nel Liber notarum: domenica sera 31 ottobre 1501 danno spettacolo orgiastico «quinquaginta meretrices honestae»); presiede il consiglio l’attuale guardasigilli, viso spirituale; nella ratio studiorum dei licei appare una nuova materia, Arte dell’osceno. Tale essendo il presumibile futuro, è questione capitale come scongiurarlo: discutiamone perché i tempi stringono; tra poco il fuoco lambirà le polveri (scriveva Walter Benjamin, cultore d’allegorie e metafore).
IL CASO
Finisce in carcere per 50 giorni
per uno scambio di identità
Un giardiniere di Empoli finisce in carcere per 50 giorni per errore. Qualcuno ha rubato la sua identità e poi ha copmpiuto una serie di reati in Germania. Un caso che ha dell’incredibile
di Luciano Menconi *
EMPOLI. Gli hanno rubato l’identità, un pezzo di vita e la serenità delle persone perbene. Luca Cesaretti fino a due mesi fa era un padre di famiglia come tanti: quarant’anni, una moglie, tre figli, un lavoro da giardiniere, piccole e grandi preoccupazioni, piccole e grandi soddisfazioni. Poi il 9 luglio scorso tutto cambia improvvisamente.
Alle 23,20 il campanello di casa suona, all’ingresso ci sono i carabinieri, entrano, gli fanno leggere un foglio, lui impallidisce, non capisce, legge e rilegge quelle righe, poi, come se quello che sta avvenendo fosse un incubo, riesce solo a salutare la moglie e si avvia verso la porta insieme ai militari in borghese.
Meno di un’ora dopo viene rinchiuso in una cella di Sollicciano: secondo il mandato di cattura internazionale che i carabinieri hanno appena eseguito sarebbe il responsabile di una serie di furti commessi in giro per l’Europa. In particolare avrebbe compiuto un colpo al castello di Pullach in Germania l’11 agosto 2002, dove avrebbe sottratto dalla cassaforte scardinata a picconate orologi e preziosi per 50mila euro, poi un secondo colpo il 27 luglio 2003, in un appartamento di Villach in Austria, poi un altro ancora, tra il 28 e 29 agosto 2006 a Monaco di Baviera, dove avrebbe svaligiato una villetta. A inchiodarlo le impronte digitali e le tracce di dna sui luoghi dei delitti.
Ma Luca Cesaretti in Germania e in Austria non c’è mai stato, nei giorni in cui venivano commessi i furti stava lavorando tra Empoli e Fucecchio come dimostrano le fatture da lui consegnate ai clienti, non è pregiudicato e perciò nessuna banca dati può essere in possesso delle sue impronte digitali e tantomeno del suo dna.
Allora perché secondo la polizia tedesca è lui il ladro che nei giornali - qui in Toscana e in Baviera - era stato subito ribattezzato come il giardiniere Arsenio Lupin? La risposta è tanto semplice quanto agghiacciante: per un clamoroso scambio di persona. Qualcuno - a tutt’oggi libero e senza nome - si è impossessato della sua identità, ne ha trascritto i dati anagrafici su documenti sapientemente contraffatti, moduli rubati in un qualche municipio o riprodotti chissà come, poi è andato in giro per l’Europa a commettere reati. Quando è stato fermato, nel 2003 in Austria, il ladro è stato schedato negli archivi della polizia di Vallach come Luca Cesaretti, residente a Empoli, professione giardiniere, al cui nome sono stati associati volto, impronte digitali e dna del malvivente.
L’ultimo colpo, quello compiuto nel 2006, fa scattare la tagliola kafkiana che lo fa finire a Sollicciano. Gli inquirenti rilevano sul luogo del furto le impronte digitali e tracce del dna del ladro, le comparano con quelle contenute negli archivi della polizia, scoprono che corrispondono all’identità dell’autore del furto commesso anni prima in Austria e schedato come Luca Cesaretti. Da qui il mandato di arresto europeo che viene girato ai carabinieri di Firenze due mesi fa. Così il vero Cesaretti si ritrova in carcere con una condanna a 10 anni e 2 mesi di reclusione comminata dalla pretura di Rosenheim per furto aggravato e continuato.
Ci sono voluti 50 giorni e la grinta dell’avvocato Antonio D’Orzi di Empoli per chiarire che in realtà si è trattato di un madornale errore giudiziario. D’Orzi ha raccolto tutta la documentazione che dimostra l’estraneità del suo assistito alle accuse: agende e fatture della sua impresa di giardinaggio relative ai giorni dei furti, amici e conoscenti (compreso un carabiniere) pronti a testimoniare che nelle date dei furti avevano avuto con lui incontri e colloqui, e soprattutto le impronte digitali e il volto che sono completamente diversi da quelli che negli archivi della polizia tedesca corrispondeno all’autore dei delitti.
Così, mentre Cesaretti dopo 18 giorni di reclusione ottiene prima gli arresti domiciliari e poi una misura cautelare ancora più blanda, la direzione centrale della polizia criminale del Viminale e poi la Corte d’appello di Firenze devono prendere atto dell’e rrore e scagionano definitivamente il giardiniere. La stessa cosa che è costretta a fare - e riconoscere con tanto di telex inviato ai carabinieri di Firenze - la polizia tedesca.
«Non so come ho fatto a sopravvivere a tutto questo - commenta adesso il quarantenne empolese - se ci sono riuscito è solo grazie alle persone che mi vogliono bene e che mi sono state vicine durante questo incubo interminabile. Quando i carabinieri hanno bussato alla mia porta ho pensato che fosse uno scherzo di cattivo gusto orchestrato chissà da chi e chissà perché. Quando mi hanno detto perché mi stavano per rinchiudere a Sollicciano mi è sembrato di svenire. In carcere sono stati giorni molto duri, non ho quasi mai dormito e ho perso otto chili. Questa esperienza mi ha tolto moltissimo: oltre a un bel po’ di lavoro mi ha preso un pezzo di anima e mi ha portato via la fiducia che avevo nella giustizia. Senza contare che ogni volta che vedo carabinieri o poliziotti ho come un sussulto di paura. Mi sono molto preoccupato per i miei figli, avevo il timore che i compagni di scuola li prendessero in giro o li guardassero con sospetto per causa mia. Sono pensieri pesanti che mi hanno accompagnato in tutte queste settimane. Ma ancora una volta, grazie all’appoggio prezioso di parenti e amici, oltre a quello di mia moglie che è stata fortissima, i miei figli hanno capito che il loro papà non aveva fatto nulla di male e che possono continuare ad essere orgogliosi di lui».
* Il Tirreno 16 settembre 2009
USCIRE DAL SONNAMBULISMO - FARE CHIAREZZA LOGICA. POLITICA, E COSTITUZIONALE!!!
CONTRO UN PRESIDENTE (DI UN PARTITO) CHE GRIDA "FORZA ITALIA" DAL 1994 .... SOLO L’INTERVENTO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA E DELLA CORTE COSTITUZIONALE PUO’ ESSERE DECISVO!!!
"SE NON PUO’ COMPRARE" (COME HA SCRITTO CONCITA DE GREGORIO), BERLUSCONI - IL PRESIDENTE (DEL PARTITO ISTITUZIONALE CHIAMATO "FORZA ITALIA") - DEVE CHIUDERE L’UNITA’ ... D’ITALIA. PER "FORZA"!!!
PER TUTTI, PER L’ITALIA CHE SARA’ .... AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA L’INVITO A RIPRENDERSI LA "PAROLA" E A RIDARE ORGOGLIO E DIGNITA’ A TUTTO IL PAESE: VIVA L’ITALIA!!!
Federico La Sala
La strategia della menzogna
di Ezio Mauro (la Repubblica, 02.09.2o09)
Poiché la sua struttura privata di disinformazione è momentaneamente impegnata ad uccidere mediaticamente il direttore di "Avvenire", colpevole di avergli rivolto qualche critica in pubblico (lanciando così un doppio avvertimento alla Chiesa perché si allinei e ai direttori dei giornali perché righino dritto, tenendosi alla larga da certe questioni e dai guai che possono derivarne) il Presidente del Consiglio si è occupato personalmente ieri di "Repubblica": e lo ha fatto durante il vertice europeo di Danzica per ricordare l’inizio della Seconda guerra mondiale, dimostrando che l’ossessione per il nostro giornale e le sue inchieste lo insegue dovunque vada, anche all’estero, e lo sovrasta persino durante gli impegni internazionali di governo, rivelando un’ansia che sta diventando angoscia.
L’opinione pubblica europea (ben più di quella italiana, che vive immersa nella realtà artefatta di una televisione al guinzaglio, dove si nascondono le notizie) conosce l’ultima mossa del Cavaliere, cioè la decisione di portare in tribunale le dieci domande che "Repubblica" gli rivolge da mesi. Presentata come attacco, e attacco finale, questa mossa è in realtà un tentativo disperato di difesa.
Non potendo rispondere a queste domande, se non con menzogne patenti, il Capo del governo chiede ai giudici di cancellarle, fermando il lavoro d’inchiesta che le ha prodotte. È il primo caso al mondo di un leader che ha paura delle domande, al punto da denunciarle in tribunale.
Poiché l’eco internazionale di questo attacco alla funzione della stampa in democrazia lo ha frastornato, aggiungendo ad una battaglia di verità contro le menzogne del potere una battaglia di libertà, per il diritto dei giornali ad indagare e il diritto dei cittadini a conoscere, ieri il Premier ha provato a cambiare gioco. Lui sarebbe pronto a rispondere anche subito se le domande non fossero «insolenti, offensive e diffamanti» e fossero poste in altro modo e soprattutto da un altro giornale. Perché "Repubblica" è «un super partito politico di un editore svizzero e con un direttore dichiaratamente evasore fiscale».
Anche se bisognerebbe avere rispetto per la disperazione del Primo Ministro, l’insolenza, la falsità e la faccia tosta di quest’uomo meritano una risposta. Partiamo da Carlo De Benedetti, l’editore di "Repubblica": ha la cittadinanza svizzera, chiesta come ha spiegato per riconoscenza ad un Paese che ha ospitato lui e la sua famiglia durante le leggi razziali, ma non ha mai dismesso la cittadinanza italiana, cioè ha entrambi i passaporti, come gli consentono la legge e le convenzioni tra gli Stati. Soprattutto ha sempre mantenuto la residenza fiscale in Italia, dove paga le tasse. A questo punto e in questo quadro, cosa vuol dire "editore svizzero"? È un’allusione oscura? C’è qualcosa che non va? Si è meno editori se oltre a quello italiano si ha anche un passaporto svizzero? O è addirittura un insulto? Il Capo del governo può spiegare meglio, agli italiani, agli elvetici e già che ci siamo anche ai cittadini di Danzica che lo hanno ascoltato ieri?
E veniamo a me. Ho già spiegato pubblicamente, e i giornali lo hanno riportato, che non ho evaso in alcun modo le tasse nell’acquisto della mia casa che i giornali della destra tengono nel mirino: non solo non c’è stata evasione fiscale, ma ho pagato più di quanto la legge mi avrebbe permesso di pagare. Ho versato infatti all’erario tasse in più su 524 milioni di vecchie lire, e questo perché non mi sono avvalso di una norma (l’articolo 52 del D.P.R. 26 aprile 1986 numero 131, sull’imposta di registro) che, ai termini di legge, mi consentiva nel 2000 di realizzare un forte risparmio fiscale.
Capisco che il Premier non conosca le leggi, salvo quelle deformate a sua difesa o a suo privato e personale beneficio. Ma dovrebbe stare più attento nel pretendere che tutti siano come lui: un Capo del governo che ha praticato pubblicamente l’elogio dell’evasione fiscale, e poi si è premurato di darne plasticamente l’esempio più autorevole, con i quasi mille miliardi di lire in fondi neri transitati sul "Group B very discreet della Fininvest", sottratti naturalmente al fisco con danno per chi paga le tasse regolarmente, con i 21 miliardi a Bettino Craxi per l’approvazione della legge Mammì, con i 91 miliardi trasformati in Cct e destinati a non si sa chi, con le risorse utilizzate poi da Cesare Previti per corrompere i giudici di Roma e conquistare fraudolentemente il controllo della Mondadori. Si potrebbe andare avanti, ma da questi primi esempi il quadro emerge chiaro.
Il Presidente del Consiglio ha detto dunque ancora una volta il falso, e come al solito ha infilato altre bugie annunciando che chi lo attacca perde copie (si rassicuri, "Repubblica" guadagna lettori) e ricostruendo a suo comodo l’estate delle minorenni e delle escort, negando infine di essere malato, come ha rivelato a maggio la moglie. Siamo felici per lui se si sente in forze («Superman mi fa ridere»). Ma vorremmo chiedergli in conclusione, almeno per oggi: se è così forte, così sicuro, così robusto politicamente, perché non provare a dire almeno per una volta la verità agli italiani, da uno qualunque dei sei canali televisivi che controlla, se possibile con qualche vera domanda e qualche vero giornalista davanti? Perché far colpire con allusioni sessuali a nove colonne privati cittadini inermi come il direttore di "Avvenire", soltanto perché lo ha criticato? Perché lasciare il dubbio che siano pezzi oscuri di apparati di sicurezza che hanno fabbricato quella velina spacciata falsamente dai suoi giornali per documento paragiudiziario?
Se Dino Boffo salverà la pelle, dopo questo killeraggio, ciò accadrà perché la Chiesa si è sentita offesa dall’attacco contro di lui, e si è mossa da potenza a potenza. Ma la prossima preda, la prossima vittima (un magistrato che indaga, una testimone che parla, un giornalista che scrive, e fa domande) non avendo uno Stato straniero alle spalle, da chi sarà difeso? L’uomo politico passato alla storia come il più feroce nemico della stampa, Richard Nixon, non ha usato per difendersi un decimo dei mezzi che Berlusconi impiega contro i giornali considerati "nemici". Se vogliamo cercare un paragone, dobbiamo piuttosto ricorrere a Vladimir Putin, di cui non a caso il Premier è il più grande amico.
LA SVOLTA DEL GOVERNO
Dal 2010 impronte digitali per tutti
L’accordo raggiunto dopo una votazione notturna
Sulla carta d’identità. E dal
prossimo anno test-anti droga
e alcol per avere la patente
di RAFFAELLO MASCI (La Stampa, 17/7/2008)
ROMA. Due misure sulla sicurezza: impronte digitali non più prelevate solo ai rom,maa tutti e, per giunta, riportate sulla carta d’identità a iniziare dal 2010, e un test antidroga e antialcol per ottenere la patente. La decisione sulle impronte è stata presa, con accordo trasversale tra le parti, nel corso di una votazione notturna nella commissione Bilancio e Finanze della Camera, come emendamento alla manovra finanziaria. Dato il plauso condiviso, la decisione aveva tutte le caratteristiche per essere giudicata salomonica e pacificatrice, in grado cioè di stemperare le polemiche suscitate dal provvedimento del governo in materia di sicurezza, che prevedeva la rilevazione delle impronte ai bambini rom.
Invece non è stato così, perché se le impronte verranno prese a chiunque voglia rinnovare la carta d’identità dal 2010 in poi, di questa scelta ciascuno ha voluto sottolineare un’angolazione particolare. La maggioranza, per esempio, saluta questa misuracome la fine della diatriba delle ultime settimane sulla «presunta schedatura » dei bambini rom. Il ministro Andrea Ronchi (confortato anche dall’opinione del sindaco Alemanno) parla di «un provvedimento che è la giusta risposta alle accuse di razzismo », mentre il suo collegaRoberto Calderoli sottolina come la nuova normativa sulle carte d’identità costituisca una svolta anche amministrativa, che «consente di fornire ai cittadini importanti servizi, come l’assistenza sanitaria».
E l’opposizione? Concorda sulla linea «impronte a tutti» ma dissente - è l’istanza di Walter Veltroni - sull’opportunità di mantenere ancora in vita il provvedimento su quelle prelevate ai rom «e quindi chiediamo - dice il leader del pd - che quella misura sia sospesa ». Quanto a Di Pietro, nel merito è della stessa opinione, nel tono no: «E’ una proposta scioccante e provocatoria per attenuare altre scelte razziste e xenofobe fatte dal governo». Mail governo, per amor di pace, farà il passo indietro di ritirare la schedatura dei bambini rom tramite prelievo delle impronte? No, non lo farà. Lo ha detto chiaramente Maroni. «Perché dovremmo ritirare questa misura - dice il ministro dell’Interno - bisogna leggere bene i documenti prima di parlare - aggiunge con riferimento all’istanza di Veltroni - la nostra è un’ordinanza che riguarda i censimenti nei campo nomadi e non contro i rom. E prevede che i censimenti si facciano attraverso rilievi fotosegnaletici, tra cui le impronte digitali».
Quindi le due cose - censimenti nei campi rom e impronte sulle carte d’identità - hanno genesi e percorsi diversi e continueranno queste loro duplici e parallele vie. Su tutti arriva però l’indicazione del garante della privacy, Francesco Pizzetti che, proprio illustrando il rapporto al Parlamento, ha fatto riferimento a queste ipotesi in discussione: «L’uso delle impronte - avverte il professore - non può essere discriminatorio » anche se, ammette, «è diverso il discorso se il prelievo riguarda tutti». Infine, nel 2009 sarà necessario effettuare il test anti droga e alcol per ottenere la patente o il patentino: da settembre partirà una sperimentazione in quattro città (Cagliari, Verona, Perugia, Foggia) e dal prossimo anno la misura sarà estesa all’intero territorio nazionale.
Lo ha deciso il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Carlo Giovanardi, secondo il quale «con la sperimentazione verrà anticipata una normativa europea che prevede entro il 2011 l’introduzione obbligatoria di questo test fra i paesi membri». Il test sarà obbligatorio nell’ambito della visita medica, per chi chiede il patentino per guidare un motorino (quattordicenni), per i sedicenni che vogliono prendere la patente per la moto e infine per la patente vera e propria.
Quello che Nanni non sa
di Paolo Flores d’Arcais *
Ho evitato ogni polemica, nei giorni precedenti la manifestazione di Piazza Navona - benché non mancassero le falsità, le manipolazioni, le insinuazioni (e perfino gli insulti) cui replicare -, per non offrire pretesti a chi questa manifestazione voleva ostacolare. Eviterò ogni polemica ora, dopo che una partecipazione di cittadini andata al di là delle più temerarie speranze ha dato vita a una giornata di straordinaria risposta democratica e di resistenza civile al gorgo di «putinizzazione» nel quale Berlusconi, a forza di leggi-vergogna, sta trascinando l’Italia.
Una partecipazione di cittadini clamorosa per numero, almeno centomila, con la piazza stipata modello «sardine» e le vie circostanti piazza Navona colme di persone che non riuscivano a entrare. Ed emozionante per generosità, passione politica, indomita volontà di non assuefarsi alle sirene confortevoli del conformismo e della passività. Alla grande tentazione che sempre minaccia le democrazia, quella della «servitù volontaria». Molti cittadini sono venuti da città lontane, perfino dalle isole, sacrificando un giorno di ferie, spendendo tempo e denaro, pur di non rimandare a quando potrebbe essere troppo tardi, il loro grido di libertà e di dignità. Poiché mi sono imposto di evitare polemiche, per rispetto dei centomila cittadini che hanno manifestato a piazza Navona, registro e accantono acriticamente le affermazioni di Nanni. Ma visto che, contro la putinizza-zione dell’Italia, sarebbe necessario scendere in piazza ogni giorno, sono certo che la prossima grande manifestazione democratica sarà Nanni - generosamente - a organizzarla.
Nessuna polemica, dunque. Qualche riflessione tuttavia si impone, «sine ira et studio». Quanti sono i mass-media che hanno riferito in modo onesto della manifestazione? Ce ne sono stati certamente, e non parlo solo dell’Unità, ma quanti? E stando alla Tv-Unica sembra invece che in quella piazza siano risuonate solo alcune frasi di due o tre interventi. E tutto il resto? E le altre tre ore e oltre? E le straordinarie poesie incivili di Camilleri? E le vere lezioni di democrazia «poetica» di Moni Ovadia e Ascanio Celestini? E il collegamento di commovente lucidità di Rita Borsellino? Tutti gli interventi, uno per uno, andrebbero citati, per la ricchezza di spunti che hanno offerto. E non doveva forse essere il silenzio dei media su tutto questo il principale motivo di indignazione? Non voglio però evitare di affrontare i temi che sono stati presi a pretesto per un linciaggio della manifestazione spesso precostituito in anticipo. Dunque, Beppe Grillo avrebbe offeso il capo dello Stato. Non ripeterò le argomentazioni sulla differenza tra offesa e critica, già svolte ieri analiticamente da Marco Travaglio. Voglio solo ricordare una circostanza di fatto. Una settimana fa il quotidiano Il Manifesto è uscito con una prima pagina dove campeggiava una foto enorme di Giorgio Napolitano e, a mo’ di unico titolo, una grande e inequivoca scritta: «L’ammorbidente». È più pesante il Napolitano-Morfeo evocato da Grillo o il perfido strale satirico delManifesto? Eppure nessuno dei media, per fortuna, si è stracciato le vesti per quella prima pagina assolutamente eloquente. A cosa è dovuto questo ennesimo «due pesi e due misure»?
Detto questo, a me lo stile e la logica politica di Beppe Grillo non piacciono. Non ho partecipato ai suo «V-day». Non considero il «vaffa» una conquista nella storia dell’eloquenza democratica. Ma abbiamo accettato, tutti noi promotori, che portasse in diretta il suo saluto alla manifestazione. Che Grillo porti un saluto alla Grillo mi sembra una tautologia, era del tutto immaginabile. Rispetto al suo standard di «vaffa» si è anzi contenuto, basta visitare il suo blog quotidiano per rendersene conto. Fargli portare il saluto è stato un erro-re, una concessione allo show-business, come scrive Curzio Maltese su Repubblica? È possibile, come tutte le cose controverse. Se non lo volevamo, però, dovevamo deciderlo prima e non invitarlo.
Quanto alla satira di Sabina Guzzanti, il suo stile attuale appartiene ad un genere «cattivissimo» che negli Usa (e non solo) ha pieno riconoscimento di legittimità, grandissimo spazio e milioni di spettatori, e nessuna «unanime indignazione». Durante la recente visita di Ratzinger negli Stati Uniti, oltretutto, si sono dette e scritte - in quella democrazia da tutti ipocritamente proclamata a modello - contro il Romano Pontefice cose infinitamente più pesanti della «condanna all’inferno» pronunciata da Sabina. Ma di quegli attacchi, il regime di Tg-Unico nulla ha mai fatto sapere ai telespettatori italiani. Del resto, chi dissente in genere fischia, lo hanno fatto perfino i commercianti con Berlusconi. A piazza Navona fischi non ce ne sono stati. Resta però, cosa di cui si preferisce non parlare ma di cui è doveroso parlare - col nostro linguaggio e il nostro stile - il problema della firma del Presidente della Repubblica al lodo-Alfano. Io voglio attenermi allo stile inderogabile della logica. E allora: cento costituzionalisti, a partire da numerosi presidenti emeriti della suprema corte, hanno alcuni giorni fa stilato un appello che dimostra al di là di ogni ragionevole dubbio come il lodo-Alfano sia anticostituzionale. Di più: nello stesso appello hanno dimostrato analoga anticostituzionalità della norma cosiddetta blocca-processi. Tale appello è stato controfirmato sul sito web di Repubblica, al momento in cui scrivo, da oltre 136 mila cittadini. Saranno molti di più quando leggerete questo articolo.
Ora, delle due l’una. Posto che il Capo dello Stato è, secondo una definizione da tutti ripetuta, il «custode della Costituzione», o hanno ragione i cento costituzionalisti (la stragrande maggioranza della comunità degli studiosi della disciplina) e allora il presidente Napolitano non deve firmare le due leggi anticostituzionali in questione. Oppure non è censurabile che le firmi, anzi il suo è un atto dovuto, e allora hanno torto marcio quasi tutti i costituzionalisti italiani, e poiché tra loro ci sono numerosi ex-presidenti della Consulta, vorrebbe dire che la più alta corte della Repubblica è stata per anni in mano ad incompetenti. La logica non lascia scampo. Si scelga il corno dell’alternativa che si preferisce, ma non possono essere entrambi veri. Personalmente, gli argomenti dei cento costituzionalisti mi hanno convinto al centouno per cento.
* l’Unità, Pubblicato il: 12.07.08, Modificato il: 12.07.08 alle ore 14.12
l Cavaliere scrive ai Giovani per la Libertà-Forza Italia riuniti a Napoli
"Fango su di me e sui ministri". Duro con le toghe: "Non li temo, pettegolezzi inutili"
Berlusconi: "Patto scellerato
tra riformisti e giustizialisti"
Come anticipato, il governo ha rinunciato a discutere il decreto legge
Scelti i vertici Inps, Inail e Inpdap. Marrazzo commissario per il deficit del Lazio
ROMA - "La sinistra riformista ha siglato un patto scellerato con l’ala giacobina e giustizialista della società italiana che propugna il dominio della magistratura sullo Stato, sulle istituzioni, sulla politica e sulla società". Lo scrive il premier Silvio Berlusconi in un messaggio inviato all’incontro dei Giovani per la Libertà-Forza Italia in corso a Napoli. "Questa deriva giustizialista va assolutamente fermata", aggiunge Berlusconi, mentre il Pd annuncia la raccolta di 5 milioni di firme per tutelare "la democrazia a rischio". "E’ inconcepibile che la sinistra, invece di difendere il diritto del popolo sovrano a scegliersi i suoi governanti, si schieri con chi cerca con ogni mezzo di deviare il corso della democrazia sovvertendo il voto degli elettori".
Rinviato il provvedimento intercettazioni. Il premier non si ferma. Impegnato da giorni in una durissima battaglia contro quella magistratura che considera il nemico pubblico numero uno, Berlusconi torna ad alzare i toni. Soltanto poche ore dopo il mancato esame del provvedimento sulle intercettazioni, il premier è tornato ad attaccare le toghe: "I giudici non ci impressionano". Ostenta sicurezza il premier; è convinto che quella che lui ritiene essere una persecuzione nei suoi confronti non ha fatto breccia nell’opinione pubblica: "I sondaggi dimostrano che il fango senza fondamento dei pettegolezzi non hanno scalfito la fiducia degli italiani nel governo e nella sua attività".
"Rinuncio ai vantaggi". Rispondendo alle critiche dei giorni scorsi, Berlusconi ha ripetuto che è pronto a rinunciare "a ogni vantaggio. Non ho bisogno di nuove norme giudiziarie", ha detto. "Mi sono sempre difeso nei processi e sono il recordman dei processi con 2.500 udienze". Il lodo Alfano, ha aggiunto, non è una legge ’ad personam’. I "nostri avversari - ha lamentato - stanno cercando di farla passare per una norma ad personam e invece è una norma salvatutti".
"Vogliono sovvertire il voto popolare". "L’attenzione si concentra su fatti che nulla hanno a che vedere con il programma di governo e portano in primo piano l’attacco continuo di certa magistratura a chi deve governare scelto dal Paese, mentre si vuole sovvertire il voto popolare". Un tentativo, ha aggiunto Berlusconi, "riuscito nel 1994, ma che non riuscirà nel 2008’’.
"Manovra economica innovativa". Rivendicando i successi del suo governo, Berlusconi ha definito la manovra economica "un’assoluta innovazione" e ha annunciato che "nei prossimi 15 giorni rimuoveremo i rifiuti da tutte le strade di Napoli e della Campania e ipotizziamo che alla data del 20 di luglio non ci saranno più cumuli in strada".
Nomine Inps, Inail e Inpdap. Il Consiglio dei ministri odierno, oltre al tema intercettazioni rimandato, non ha affrontato neppure la vicenda Alitalia. Deciso invece il ricambio ai vertici degli istituti previdenziali e assistenziali con la scelta dei nuovi dirigenti di Inps, Inail e Inpdap. Antonio Mastrapasqua è stato indicato come nuovo presidente dell’Inps al posto di Gian Paolo Sassi. Ai vertici dell’Inail va Marco Sartori, che succede a Vincenzo Mungari. All’Inpdap, invece, sale Paolo Crescimbeni, al posto di Marco Staderini. Le indicazioni di nomina sono state accolte su proposta del ministro del Welfare Maurizio Sacconi.
Marrazzo commissario all’economia. Palazzo Chigi ha ratificato anche la nomina del presidente della Regione Lazio, Piero Marrazzo, a commissario ad acta per la realizzazione degli obiettivi di risanamento finanziario previsti nel piano di rientro dai disavanzi nel settore sanitario.
* la Repubblica, 4 luglio 2008.
L’APPELLO / Cento costituzionalisti contro il lodo Alfano Una raccolta di firme in difesa della Costituzione
Lodo e processi rinviati
strappo all’uguaglianza *
Cento costituzionalisti in campo contro il lodo-Alfano che sospende i processi delle quattro più alte cariche istituzionali e contro la norma blocca-processi. Il documento è intitolato "In difesa della Costituzione" ed è firmato da ordinari di diritto costituzionale e discipline equivalenti: tra essi gli ex presidenti della Consulta Valerio Onida, Gustavo Zagrebelsky e Leopoldo Elia. A coordinare la raccolta di firme è stato Alessandro Pace, presidente dell’Associazione italiana costituzionalisti.
I sottoscritti professori ordinari di diritto costituzionale e di discipline equivalenti, vivamente preoccupati per le recenti iniziative legislative intese: 1) a bloccare per un anno i procedimenti penali in corso per fatti commessi prima del 30 giugno 2002, con esclusione dei reati puniti con la pena della reclusione superiore a dieci anni; 2) a reintrodurre nel nostro ordinamento l’immunità temporanea per reati comuni commessi dal Presidente della Repubblica, dal Presidente del Consiglio dei Ministri e dai Presidenti di Camera e Senato anche prima dell’assunzione della carica, già prevista dall’art. 1 comma 2 della legge n. 140 del 2003, dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 24 del 2004, premesso che l’art. 1, comma 2 della Costituzione, nell’affermare che "La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione", esclude che il popolo possa, col suo voto, rendere giudiziariamente immuni i titolari di cariche elettive e che questi, per il solo fatto di ricoprire cariche istituzionali, siano esentati dal doveroso rispetto della Carta costituzionale, rilevano, con riferimento alla legge di conversione del decreto legge n. 92 del 2008, che gli artt. 2 bis e 2 ter introdotti con emendamento a tale decreto, sollevano insuperabili perplessità di legittimità costituzionale perché: a) essendo del tutto estranei alla logica del cosiddetto decreto-sicurezza, difettano dei requisiti di straordinaria necessità ed urgenza richiesti dall’art. 77, comma 2 Cost. (Corte cost., sentenze n. 171 del 2007 e n. 128 del 2008); b) violano il principio della ragionevole durata dei processi (art. 111, comma 1 Cost., art. 6 Convenzione europea dei diritti dell’uomo); c) pregiudicano l’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.), in conseguenza della quale il legislatore non ha il potere di sospendere il corso dei processi, ma solo, e tutt’al più, di prevedere criteri - flessibili - cui gli uffici giudiziari debbano ispirarsi nella formazione dei ruoli d’udienza; d) la data del 30 giugno 2002 non presenta alcuna giustificazione obiettiva e razionale; e) non sussiste alcuna ragionevole giustificazione per una così generalizzata sospensione che, alla sua scadenza, produrrebbe ulteriori devastanti effetti di disfunzione della giustizia venendosi a sommare il carico dei processi sospesi a quello dei processi nel frattempo sopravvenuti; rilevano, con riferimento al cosiddetto lodo Alfano, che la sospensione temporanea ivi prevista, concernendo genericamente i reati comuni commessi dai titolari delle sopra indicate quattro alte cariche, viola, oltre alla ragionevole durata dei processi e all’obbligatorietà dell’azione penale, anche e soprattutto l’art. 3, comma 1 Cost., secondo il quale tutti i cittadini "sono eguali davanti alla legge".
Osservano, a tal proposito, che le vigenti deroghe a tale principio in favore di titolari di cariche istituzionali, tutte previste da norme di rango costituzionale o fondate su precisi obblighi costituzionali, riguardano sempre ed esclusivamente atti o fatti compiuti nell’esercizio delle proprie funzioni. Per contro, nel cosiddetto lodo Alfano la titolarità della carica istituzionale viene assunta non già come fondamento e limite dell’immunità "funzionale", bensì come mero pretesto per sospendere l’ordinario corso della giustizia con riferimento a reati "comuni".
Per ciò che attiene all’analogo art. 1, comma 2 della legge n. 140 del 2003, i sottoscritti rilevano che, nel dichiararne l’incostituzionalità con la citata sentenza n. 24 del 2004, la Corte costituzionale si limitò a constatare che la previsione legislativa in questione difettava di tanti requisiti e condizioni (tra cui la doverosa indicazione del presupposto - e cioè dei reati a cui l’immunità andrebbe applicata - e l’altrettanto doveroso pari trattamento dei ministri e dei parlamentari nell’ipotesi dell’immunità, rispettivamente, del Premier e dei Presidenti delle due Camere), tali da renderla inevitabilmente contrastante con i principi dello Stato di diritto.
Ma ciò la Corte fece senza con ciò pregiudicare la questione di fondo, qui sottolineata, della necessità che qualsiasi forma di prerogativa comportante deroghe al principio di eguale sottoposizione di tutti alla giurisdizione penale debba essere introdotta necessariamente ed esclusivamente con una legge costituzionale.
Infine, date le inesatte notizie diffuse al riguardo, i sottoscritti ritengono opportuno ricordare che l’immunità temporanea per reati comuni è prevista solo nelle Costituzioni greca, portoghese, israeliana e francese con riferimento però al solo Presidente della Repubblica, mentre analoga immunità non è prevista per il Presidente del Consiglio e per i Ministri in alcun ordinamento di democrazia parlamentare analogo al nostro, tanto meno nell’ordinamento spagnolo più volte evocato, ma sempre inesattamente.
* la Repubblica, 4 luglio 2008.
Il principe senza legge
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 03.07.2008)
È un’amara estate per chi contempla il panorama costituzionale, sconvolto da iniziative, mosse, parole che ne stanno alterando la fisionomia. La riforma del sistema politico, con il risultato delle elezioni, è stata compiuta senza atti formali, senza bisogno di cambiamenti della legge elettorale. E mentre si discute di un dialogo bipartisan come condizione indispensabile della riforma costituzionale, questa viene implacabilmente realizzata da un quotidiano e unilaterale esercizio del potere.
La forza delle cose si impone, gli equilibri democratici vacillano. Stanno cambiando gli assetti al vertice dello Stato, con una lotta tra poteri costituzionali che non ha precedenti nella storia della Repubblica. Vengono travolti principi fondativi come quelli dell’eguaglianza e della solidarietà. Cambia così l’assetto della società, non più fatta di liberi ed eguali, rispettati nella loro autonomia e nella loro dignità, ma di nuovo ordinata gerarchicamente, con gli ultimi, con i dannati della terra posti in fondo alla scala sociale-immigrati, rom, poveri.
Non è un fulmine a ciel sereno. Da anni, molte forze lavoravano per questo risultato, molti apprendisti stregoni davano il loro contributo. Si pubblicavano libelli contro la solidarietà; si ridimensionava, fin quasi ad azzerarla, la portata del principio di eguaglianza; si accettava senza batter ciglio che la Costituzione fosse definita "ferrovecchio" o "minestra riscaldata"; la difesa dei princìpi si faceva sempre più tiepida; si diffondeva in ambienti altrimenti insospettabili la convinzione che la logica del mercato imponesse la riscrittura dell’articolo 41 della Costituzione, apparendo evidentemente eccessivo che la libertà dell’iniziativa economica avesse un limite invalicabile addirittura nel rispetto della sicurezza (e le morti sul lavoro?), della libertà, della dignità umana.; si accettava che le commissioni bicamerali mettessero allegramente le mani sulla delicatissima materia della giustizia. Gli anticorpi democratici si indebolivano e i difensori della logica complessiva della Costituzione venivano definiti "nobilmente conservatori", con una formula apparentemente rispettosa, ma in realtà liquidatoria. È una storia che comincia ai tempi della "Grande riforma" craxiana, e che oggi sembra giungere a compimento.
È come se si fosse aperta una voragine nella quale precipitano masse di detriti accumulate negli anni. Tutta la Costituzione è sotto scacco, a cominciare proprio dalla sua prima parte, quella dei princìpi e dei diritti, che pure, a parole, si dichiara intoccabile. Tutto è rimesso in discussione. La dignità sociale e l’eguaglianza tra le persone, a cominciare da ogni forma di discriminazione fondata sulla razza e sulla condizione personale. La libertà d’informazione, considerata non solo sul versante dei giornalisti, ma in primo luogo dalla parte dei cittadini, titolari del fondamentale diritto di controllare in modo capillare e diffuso tutti i detentori di poteri: "la luce del sole è il miglior disinfettante", diceva un grande giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, Louis Brandeis, riferendosi non solo alla corruzione, ma a tutti gli usi distorti del potere pubblico e privato. La libertà personale e quella di circolazione, sulle quali incidono fortemente le diverse tecniche di sorveglianza. La libertà di comunicazione, colpita non solo e non tanto dalle intercettazioni, per la cui diffusione lo scandalo è massimo, ma dalla implacabile, continua raccolta e conservazione per anni dei dati riguardanti telefonate, sms, accessi a internet, che davvero configurano una società del controllo e di cui nessuno sembra preoccuparsi.
Può una democrazia sopravvivere bordeggiando sempre più ai margini estremi della legalità costituzionale, sempre alla ricerca di qualche aggiustamento che non la maltratti troppo, e così perdendo progressivamente il senso stesso di quella legalità che dovrebbe da tutti essere vissuta come limite invalicabile? Chi si prende cura di questa democrazia che, di giorno in giorno, si presenta con i tratti delle sue pericolose degenerazioni, che la fanno definire come autoritaria o plebiscitaria, che conosce quegli intrecci perversi tra politica e uso delle tecnologie della comunicazione che sono la versione più aggiornata del populismo?
Se facciamo un piccolo, e confortante, esercizio di memoria e riandiamo a due anni fa, al giugno del 2006, ci imbattiamo nel referendum con il quale i cittadini italiani respinsero una riforma costituzionale che andava proprio in quella direzione. Rilegittimata dal voto popolare, la Costituzione del 1948 sembrava avviata al più ragionevole destino di una sua buona "manutenzione". Ma, da allora, sembra passato un secolo. La Costituzione è stata messa in un angolo, le file dei suoi difensori si assottigliano e sono in difficoltà. La legalità, costituzionale e ordinaria, non è più un valore in sé. Viene ormai presentata come una variabile dipendente dal voto. Le elezioni non sono più un esercizio di democrazia. Diventano un lavacro, l’unto dal voto popolare deve essere considerato intoccabile. Torna tra noi il principe sciolto dall’osservanza delle leggi, e quindi legittimato a liberarsi di quelle che contraddicono questa sua ritrovata natura. È qui il vero senso del cambiamento: non nel fastidio per questo o quel tipo di controllo, ma nel radicale rifiuto di correre i rischi della democrazia.
Delle telefonate del Presidente del consiglio mi inquietano molte cose, ma soprattutto il fatto di essersi posto al centro di un sistema di feudalità dal quale nasce, quasi come una conseguenza inevitabile, la pretesa dell’immunità. Un corteo lo accompagna nel tradurre in fatti questa sua pretesa. Scompare il governo, integralmente sostituito dagli scatti d’umore del suo Presidente, che ne muta le deliberazioni a suo piacimento, che lo vede come puro luogo di registrazione. La tanto pubblicizzata approvazione in soli 9 minuti dell’intera manovra economico-finanziaria del prossimo triennio è stata presentata come un miracolo di efficienza, mentre era la prova della scomparsa della collegialità della decisione, della discussione come sale della democrazia: non un segno di vitalità, ma di morte, come i 21 grammi che si perdono appunto nel morire, raccontati nel film di Alejandro Gonzalez Inarritu. Il Parlamento ha clamorosamente rinunciato ad esercitare la sua funzione di controllo e di filtro, sembra ignorare il fatto che il procedimento legislativo non è cosa di cui il Presidente del consiglio possa disporre secondo la sua volontà.
I controlli scompaiono. Vecchia aspirazione d’ogni potere. La magistratura non deve essere liberata dai suoi problemi, responsabilizzata nel modo giusto. Deve essere presentata come il vero demone che attenta alla democrazia, aggressiva e inefficiente, quasi che i suoi molti limiti non dipendessero da una lunghissima disattenzione del potere politico che l’ha fatta marcire nelle sue obiettive difficoltà, che ha progressivamente azzerato la propria responsabilità appunto politica e ha preteso di sciogliersi dal controllo di legalità in quanto tale. Gli anni di Mani pulite sono rappresentati come un golpe, azzerando la memoria degli abissi di illegalità che furono disvelati. E la totale normalizzazione della magistratura diventa la via attraverso la quale passa, con la minacciata disciplina autoritaria della diffusione delle intercettazioni, anche la normalizzazione del sistema della comunicazione. Poco e male informati, i cittadini sono pronti ad essere usati come docile "carne da sondaggio", per applaudire le decisioni del principe secondo la più classica delle tecniche plebiscitarie.
A custodire Costituzione e legalità rimangono il presidente della Repubblica e la Corte costituzionale. Ma questo non è un residuo segno di buona salute, è anch’esso il sintomo d’una patologia. La democrazia non può ritirarsi dal sistema in generale, rifugiandosi in alcuni luoghi soltanto. Ma da qui si può e si deve comunque ripartire, soprattutto se la voce dei cittadini e dell’opposizione riuscirà a trovare i toni forti e giusti di cui abbiamo bisogno.
Il capo dello Stato firma il provvedimento per l’immunità delle alte cariche
L’aula di Montecitorio respinge le pregiudiziali di costituzionalità
Il Colle autorizza il lodo Alfano
Camera, il dl sicurezza va avanti
Antonio Di Pietro attacca Berlusconi: "La dittatura è vicina"
ROMA - Doppio parziale via libera ai provvedimenti che riguardano la giustizia. Nel giorno in cui Giorgio Napolitano autorizza la presentazione alle camere del disegno di legge in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello stato, il cosidetto "lodo Alfano" (riedizione riveduta e corretta del vecchio lodo Schifani), l’aula di Montecitorio boccia le pregiudiziali di costituzionalità presentate dall’opposizione sul dl sicurezza che comprende la norma cosidetta ’blocca-processi’.
La maggioranza, con 302 voti contrari e 265 favorevoli, non ha avuto cedimenti. Massiccia la presenza del governo alla votazione: i banchi ad esso riservato in Aula erano gremiti di ministri e sottosegretari. Polemico Antonio Di Pietro: "Berlusconi fa l’incallito furbacchione, la dittatura è vicina". Mentre il Pd annuncia la presentazione di circa 100 emendamenti. L’esame nel merito del provvedimento, ora nelle commissioni bilancio e finanze, inizierà in aula martedì 15 luglio.
L’affondo di Di Pietro. Toni accesi per l’ex pm che, intervenendo sulle pregiudiziali, ha attaccato frontalmente sia il provvedimento, sia Berlusconi che "utilizza lo strumento del decreto per farsi i cavoli suoi". Ben sapendo, tra l’altro, che "questa furbata non si può fare". Ed ecco l’escamotage: "La norma ’blocca processi’ non l’ha messa il premier, ma l’ha fatta introdurre da qualche suo dipendente", e così "ha raggirato il capo dello Stato".
Gli emendamenti del Pd. Il Pd presenterà un centinaio di emendamenti al decreto sicurezza ora all’esame delle commissioni affari costituzionali e giustizia della camera. Il partito di Veltroni ha deciso di riproporre gli emendamenti già presentati al Senato (praticamente quasi tutti respinti dalla maggioranza) più alcune novità. Il termine scade venerdì alle 13.
* la Repubblica, 2 luglio 2008.
LA LETTERA
Umberto Eco: "La minoranza
ha il dovere di manifestare"
Umberto Eco ha inviato questa lettera a Furio Colombo, Paolo Flores d’Arcais, Pancho Pardi, promotori della manifestazione dell’8 luglio in Piazza Navona.
Cari Amici,
mentre esprimo la mia solidarietà per la vostra manifestazione, vorrei che essa servisse a ricordare a tutti due punti che si è sovente tentati di dimenticare:
1) Democrazia non significa che la maggioranza ha ragione. Significa che la maggioranza ha il diritto di governare.
2) Democrazia non significa pertanto che la minoranza ha torto. Significa che, mentre rispetta il governo della maggioranza, essa si esprime a voce alta ogni volta che pensa che la maggioranza abbia torto (o addirittura faccia cose contrarie alla legge, alla morale e ai principi stessi della democrazia), e deve farlo sempre e con la massima energia perché questo è il mandato che ha ricevuto dai cittadini. Quando la maggioranza sostiene di aver sempre ragione e la minoranza non osa reagire, allora è in pericolo la democrazia.
Umberto Eco
* la Repubblica, 2 luglio 2008.
I leader di Pd e Udc hanno mandato una lettera al presidente
della Camera in cui fanno dure accuse all’esecutivo di Berlusconi
Veltroni e Casini scrivono a Fini
"Governo espropria il Parlamento"
ROMA - Preoccupazione per la dignità del Parlamento, per la necessità di tempi adeguati all’esame dei provvedimenti: il governo "comprime" i tempi della discussione" fino al punto "di espropriare di fatto il parlamento delle sue prerogative". Pd e Udc non vogliono tornare al passato e a un clima rissoso, intendono tutelare la dignità del Parlamento. Fanno una richiesta, esplicita, di ritornare ai temi cari agli italiani e di ristabilire la gerarchia delle priorità.
E’ questo, in sintesi, il contenuto di una lunga lettera che Walter Veltroni e Pierferdinando Casini hanno inviato al presidente della Camera Gianfranco Fini, in cui fanno dure accuse all’esecutivo.
"Signor Presidente, le scriviamo per esprimerle la nostra preoccupazione e per sottoporle una questione di estrema rilevanza, che ha immediatamente a che fare con la difficile situazione economica e sociale in cui si trova oggi il nostro paese e che ha dirette ricadute sull’organizzazione dei lavori della camera dei deputati".
In questi giorni, si legge nella missiva firmata anche da Antonello Soro e Michele Vietti, "la Camera è impegnata nell’esame di un complesso di provvedimenti di grande rilievo, sia sul piano dell’ordinamento costituzionale, sia sul piano dei conti pubblici. Provvedimenti sui quali, come è stato sottolineato nel modo più alto e autorevole, è fondamentale che i parlamentari possano esprimere compiutamente i loro giudizi ed esercitare responsabilmente la funzione che la costituzione assegna loro".
Pd e Udc denunciano assieme "il rischio, estremamente grave, è che questo possa non accadere". E il motivo, accusano, "è nella evidente volontà del governo di comprimere, con le procedure scelte, i tempi della discussione, fino al punto di cambiare in corsa le regole del gioco e di espropriare di fatto il parlamento delle sue prerogative".
"Se si manca di rispetto al parlamento - scrivono i due leader - si colpisce il primo diritto che in democrazia è dato alla minoranza: quello di veder discusse le sue ragioni. Un diritto inviolabile quanto quello del rispetto della legittimità della maggioranza". Per questo, spiegano, "siamo profondamente preoccupati e per questo ci rivolgiamo a lei: per chiederle di salvaguardare in questo difficile passaggio il ruolo e la dignità del parlamento, garantendo i tempi e le modalità necessarie ad affrontare alla Camera, come è giusto e doveroso, temi e concrete questioni che riguardano da vicino la vita di milioni di famiglie italiane. Perché di questo si tratta", insistono Veltroni e Casini. "Mai come in questo caso la forma diviene sostanza, una sostanza che va al cuore del buon funzionamento delle istituzioni democratiche e insieme della vita stessa degli italiani".
La manovra economica del governo di cui in queste ore si sta discutendo alla Camera, scrivono ancora nella lettera, "si configura, con i suoi ottantacinque articoli, come una vera e propria legge finanziaria, cosa peraltro riconosciuta dallo stesso governo nel dpef. L’opposizione da noi rappresentata ritiene che questa manovra debba essere fortemente corretta. Ritiene che non sia adeguata ad affrontare la crisi in cui versa il paese e a rispondere alle domande e ai bisogni degli italiani. Non lo è perché agli annunci in senso contrario di queste settimane è seguito in realtà un aumento delle tasse dello 0,2% nel 2010. Non lo è perché non garantisce il presente e mortifica il futuro con i tagli alla sicurezza e alla scuola".
Non basta. Veltroni e Casini insistono: "Non lo è, non è adeguata, perchè mentre le spese delle famiglie aumentano, nulla viene fatto di concreto per tutelare i risparmi e il potere d’acquisto di salari e stipendi. Non è certo una risposta al crescente impoverimento introdurre misure come la ’social card’, finanziata per soli 200 milioni ed esclusivamente per il 2009, a fronte di maggiori entrate tributarie, con la cosiddetta "’robin tax’, pari a circa 5 miliardi".
Poi i due leader rivendicano: "Da parte nostra, signor presidente, c’è la volontà di svolgere il ruolo di opposizione che l’esito delle elezioni ci ha assegnato in un modo netto e incalzante, entrando sempre nel merito delle questioni, privilegiando il dibattito, la critica e la definizione di proposte alternative. Non saremo noi a tornare al passato, a ricadere nel clima rissoso e sterile di questi ultimi quindici anni, a guardare troppo indietro o troppo a se stessi per occuparsi delle riforme e delle scelte di innovazione necessarie al nostro paese come l’aria che respiriamo".
E concludono così: "Noi crediamo che esattamente di questo l’Italia abbia bisogno. Si ristabilisca dunque la giusta gerarchia delle priorità, mettendo al primo posto i problemi degli italiani, e si garantisca che su di essi si possa svolgere, nelle istituzioni e in ogni ambito politico, quel confronto aperto e approfondito che è l’unico modo per assicurare al paese crescita ed equità sociale".
* la Repubblica, 2 luglio 2008.
Corte Ue condanna il condono fiscale di Tremonti: è frode
Nuova condanna europea per l’Italia, questa volta sul vecchio condono fiscale di Tremonti, quello che con la Finanziaria 2003 condonava l’Iva non pagata per gli anni 1998-2001. Una misura molto propagandata dall’allora governo Berlusconi, molto contrastata dall’allora opposizione e che ora si scopre effettivamente in violazione delle norme che presiedono al buongoverno. La Corte di giustizia europea ha condannato infatti l’Italia perchè «la rinuncia generale e indiscriminata all’accertamento delle operazioni imponibili favorisce i contribuenti di frode». Insomma era una frode al fisco, una ruberia legalizzata alle casse dello Stato. In pratica a entrare nel mirino della Corte europea è la legge del 27 dicembre 2002 che prevede per gli anni 1998-2001 la possibilità per i soggetti passivi per l’Iva di rettificare le dichiarazioni presentate attraverso una «dichiarazione integrativa». La procedura di «definizione automatica» inventata da Tremonti consentiva ai soggetti passivi, che non avevano presentato la dichiarazione, di versare un importo corrispondente (o inferiore) al 2% dell’Iva dovuta sulle cessioni di beni e sulle prestazioni di servizi, ed un importo pari al 2% dell’Iva detratta nel medesimo periodo. Insomma una autoriduzione massiccia.
Attraverso il meccanismo non si pagava nessuna "multa", anzi c’era l’estinzione delle sanzioni amministrative tributarie, l’esclusione dell’applicazione al contribuente di sanzioni penali e come se non bastasse l’esclusione di ogni accertamento tributario, anche se fino al doppio dell’importo Iva che risultava nella dichiarazione integrativa riguardo a questa procedura. Una specie di invito a non pagarla.
La Corte europea fa notare che ogni stato membro ha l’obbligo di adottare tutte le misure legislative e amministrative necessarie al fine di garantire che l’Iva dovuta nel suo territorio «sia interamente riscossa, verificando le dichiarazioni fiscali, calcolando l’imposta dovuta e garantendone la riscossione». Se è vero che gli stati membri beneficiano di una certa libertà nell’applicazione dei mezzi a loro disposizione, essi sono «tuttavia tenuti a garantire una riscossione effettiva delle risorse proprie della comunità e a non creare differenze significative nel modo di trattare i contribuenti». Mentre la legge italiana induce «fortemente» i contribuenti o a dichiarare soltanto una parte del debito effettivamente dovuto o a versare una somma forfettaria «invece di un importo proporzionale al fatturato realizzato, evitando in tal modo qualunque accertamento o sanzione».
Lo dimostra «lo squilibrio significativo esistente tra gli importi effettivamente dovuti e quelli corrisposti dai contribuenti che beneficiano del condono fiscale conduce ad una quasi-esenzione fiscale». In base alle cifre fornite dall’Italia circa il 15% dei soggetti passivi, ossia quasi 800.000 di loro, avrebbero richiesto il beneficio del condono fiscale nel corso dell’anno 2001. L’entità di tale quasi-esenzione «pregiudica seriamente il corretto funzionamento del sistema comune dell’iva e danneggia il mercato comune poiché i contribuenti in Italia possono sperare di non dovere versare una considerevole parte degli oneri fiscali».
La Corte respinge anche la giustificazione avanzata dall’Italia - o meglio da Tremonti - che attribuisce al condono fiscale il merito di avere consentito all’erario di recuperare immediatamente e senza la necessità di avviare lunghi procedimenti giudiziari, una parte dell’Iva non dichiarata inizialmente: le famose misure "una tantum" che all’Europa hanno sempre fatto storcere il naso.
Questa in particolare, si fa presente, «introdotta appena dopo la scadenza dei termini entro cui i soggetti passivi avrebbero dovuto pagare l’Iva e implicante il pagamento di un importo assai modesto rispetto a quello effettivamente dovuto, consente ai soggetti passivi di sottrarsi definitivamente agli obblighi in materia di Iva perfino quando le autorità fiscali nazionali avrebbero potuto individuare le irregolarità». Cioè è proprio un invito a non pagare le tasse.
Di qui la condanna della «rinuncia generale e indiscriminata all’accertamento delle operazioni imponibili relative all’Iva effettuate nel corso di una serie di periodi di imposta, tramite la quale la Repubblica italiana viola gli obblighi derivanti dalla sesta direttiva Iva e l’obbligo di leale cooperazione».
Commenta la notizia il ministro ombra dell’Economia, Pierluigi Bersani, secondo il quale si tratta di una «drammatica sconfessione delle politiche fiscali del centrodestra: viene contestato al governo Berlusconi - continua Bersani - di aver venduto la pelle di un orso che non era suo, ma soprattutto si condanna senza appello la pratica distruttiva e iniqua dei condoni. Adesso siamo di fronte a un problema che riguarda più di 900mila contribuenti e che pesa per 3 miliardi e mezzo di euro». Ora, conclude Bersani, il governo «dica subito cosa intende fare per ristabilire la legalità, come la Corte impone, senza danneggiare i contribuenti coinvolti in una scelta dissennata».
* l’Unità, Pubblicato il: 17.07.08, Modificato il: 17.07.08 alle ore 15.36