[...] Ha detto una volta Giancarlo Caselli una cosa non dimenticabile: «Se essi sono morti (parlava di Falcone, Borsellino) è perché noi tutti non siamo stati vivi: non abbiamo vigilato, non ci siamo scandalizzati dell’ingiustizia; non lo abbiamo fatto abbastanza, nelle professioni, nella vita civile, in quella politica, religiosa». Per questo corriamo il rischio, sempre, di disimparare perfino la speranza [...]
Le parole per battere la mafia
L’intervento agli stati generali di Libera: è il momento di dire quello che conosciamo
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 26/10/2009
Da anni ci interroghiamo su questo male che non viene estirpato, la mafia: in particolare sulla lunga storia di trattative fra una parte dello Stato e la malavita, con poteri occulti che mediano fra due potenze facendone entità paragonabili. Anche per il potere della malavita, non solo per il potere legale, dovrebbero valere le parole di Montesquieu: «Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti. Perché non si possa abusare del potere occorre che il potere arresti il potere».
Forse però è venuto il momento di dire quello che sappiamo, e non solo di farci domande. Di dire, come fece Pasolini il 14 novembre 1974 a proposito delle trame eversive italiane, che in realtà: noi sappiamo. Sono anni che sappiamo, anche se non abbiamo tutte le prove e gli indizi. Sappiamo che le trattative sono esistite, prolungandosi fino al 2004. Sappiamo che viviamo ancor oggi - con le leggi che ostacolano la lotta alla mafia, con lo scudo fiscale che premia l’evasione - sotto l’ombra di un patto. Sappiamo il sangue che mafia, camorra, ’ndrangheta hanno versato lungo i decenni. Sappiamo il sacco di Palermo, e di tante città: sacco che continua. Sappiamo che l’Italia si va sgretolando davanti a noi come fosse un castello che abbiamo accettato di fare di carta, anziché di mattoni e di buon cemento non fornito dalla mafia - sì, noi l’abbiamo accettato, noi che eleggiamo chi ha il potere di favorire o frenare la malavita. Sappiamo che basta leggere le sentenze - anche quelle che assolvono gli imputati per mancanza di prove o, peggio, per prescrizione - per conoscere le responsabilità di politici che, per aver conquistato e mantenuto il potere grazie alla malavita, non dovrebbero essere chiamati coi nomi, nobili, di rappresentanti del popolo o di statisti.
Tutte queste cose, come avviene nei paesi che vivono sotto il giogo di un potere totalitario, le sappiamo grazie a persone che hanno deciso di denunciare, di testimoniare, e non solo di testimoniare ma di rimboccarsi le maniche e cominciare a costruire un’Italia diversa: tra i primi l’associazione Libera, e i giudici che hanno indagato su mafia e politica sapendo che avrebbero pagato con la vita, e uomini come Roberto Saviano, e giornalisti che esplorano le terre di mafia come Anna Politkovskaja esplorava, sapendo di essere mortalmente minacciata, gli orrori della guerra russa contro i ceceni.
Sono i medici dell’Italia. Ma medici che osservano un giuramento di Ippocrate speciale, di tipo nuovo: resta il dettato che comanda l’azione riparatrice, risanatrice. Nella sostanza, l’obbligo di non nuocere, di astenersi da ogni offesa e danno volontario. Ma cade il comandamento del segreto, vincolante in Ippocrate, che comanda: «Tutto ciò ch’io vedrò e ascolterò nell’esercizio della mia professione, o anche al di fuori della professione nei miei contatti con gli uomini, e che non dev’essere riferito ad altri, lo tacerò considerando la cosa segreta».
Il paragrafo del giuramento cade, perché troppo contiguo alla complicità, al delitto di omertà: questa parola che offende e storpia la radice da cui viene e che rimanda all’umiltà, all’umirtà. La vera umiltà consiste nell’infrangere il segreto, nel far letteralmente parlare le pietre e il cemento, le terre e i mari inquinati, poiché è denunciando il male che esso vien conosciuto e la guarigione può iniziare. Per questo l’informazione indipendente è così importante, in Italia: spesso lamentiamo un’opinione pubblica indifferente, ma, prima di esser aiutata a divenire civica, essa deve essere bene informata: con parole semplici, non specialiste, con esempi concreti. I medici di cui ho parlato - medici dell’Italia e delle sue parole e della sua natura malate - combattono proprio contro questo silenzio, che protegge i mafiosi, copre oscuri patti fra Stato e mafia, lascia senza protezione le loro vittime. I medici danno alle cose un nome, e su questa base agiscono.
C’è un modo di servire lo Stato che chiamerei paradossale: si serve lo Stato, pur sapendo che esso è pervertito, che nella nostra storia c’è stato più volte un doppio Stato. Uomini come Falcone, Borsellino, il giudice Chinnici, don Giuseppe Puglisi, don Giuseppe Diana e i tanti uomini delle scorte avevano questa fedeltà paradossale allo Stato. Uomini così sono come esuli, come De Gaulle che lasciò la Francia quando fu invasa da Hitler e dall’esilio londinese disse: la Francia non coincide con la geografia; quel che rappresento è «una certa idea della Francia», che ha radici nella terra ma innanzitutto nella mente di chi decide di entrare in resistenza e sperare in un mutamento.
La riconquista del territorio e della legalità è come la speranza, anch’essa sempre paradossale. Prende il via da una perdita del territorio, dalla consapevolezza che se lo Stato non ha più presa su di esso, ciascuno di noi perde la terra sotto i piedi. E quando dico territorio perduto dico le case che franano non appena s’alza la tempesta, i terremoti che uccidono più che in altre nazioni, l’abitare che diventa aleatorio, brutto, perché la costruzione delle case avviene con cemento finto, fatto di sabbia più che di ferro, procurato dalle mafie. Come nella lettera di Paolo ai Romani, è dalla debolezza che si parte, altrimenti non ci sarebbe bisogno di sperare: «Ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza».
Ecco, per ora speriamo quel che non ancora vediamo: una cultura della legalità, una politica del territorio restituito a chi vuole abitarlo decentemente. Per ora abbiamo una certa idea dell’Italia, della lotta alla mafia. Ma se sappiamo quel che accade da tanto tempo, pur non avendo tutte le prove, già metà del cammino è percorsa e l’agire diventa non solo necessario ma possibile. Anche questo Paolo lo spiega bene, quando elenca le tappe della speranza. Prima viene l’afflizione, la conoscenza del dolore. L’afflizione produce la pazienza, e questa a sua volta la virtù provata. È sul suolo della virtù provata che nasce la speranza, e a questo punto la prospettiva cambia. A questo punto sappiamo una cosa in più, preziosa: non si comincia con lo sperare, per poi agire. Si comincia con la prova dell’azione, e solo dalla messa alla prova nascono la speranza, la sete di trovare l’insperato, l’anticipazione attiva - già qui, ora - di un futuro possibile. Ha detto una volta Giancarlo Caselli una cosa non dimenticabile: «Se essi sono morti (parlava di Falcone, Borsellino) è perché noi tutti non siamo stati vivi: non abbiamo vigilato, non ci siamo scandalizzati dell’ingiustizia; non lo abbiamo fatto abbastanza, nelle professioni, nella vita civile, in quella politica, religiosa». Per questo corriamo il rischio, sempre, di disimparare perfino la speranza.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"CONTROMAFIE": GLI STATI GENERALI
L’OCCUPAZIONE DELLA LINGUA ITALIANA: L’ITALIA E LA VERGOGNA. Un’analisi di Gianrico Carofiglio
La solitudine dell’Antimafia: «Certe leggi sono il vero papello»
di Claudia Fusani (l’Unità, 26 ottobre 2009)
E’ una riunione molto affollata che riuscirebbe a dare un po’ di ottimismo a Pier Paolo Pasolini. «Io so ma non ho le prove... parlo perché non sono compromesso col potere» scriveva l’intellettuale nel 1974. Oggi, ma non da oggi, quelli di Libera, 1500 associazioni in lotta permanente contro le mafie, sanno, hanno indizi, prove e, soprattutto, fanno i nomi. Chiamano le cose col loro nome.
Tano Grasso, presidente del Fondo antiracket, accusa di «ipocrisia le associazioni di categoria che nel sud organizzano convegni e passerelle ma poi non accompagnano un solo imprenditore a denunciare il racket». Francesco Forgione, ex presidente dell’Antimafia, quantifica che la «corruzione in Italia sottrae ancora oggi il3% del pil», decine di milioni di euro l’anno. Il procuratore Giancarlo Caselli denuncia «un sistema-giustizia che produce inefficienza mettendo in crisi la lotta alla criminalità».
Barbara Spinelli, intellettuale e giornalista, si mette in gioco di persona e dice, citando la lettera di San Paolo: «Speriamo in ciò che ancora non vediamo». La sua è un’orazione civile lunga venti minuti sul «senso della legge che si sfibra» e che prende il via da un dato antico quanto assoluto: «Solo il potere può fermare il potere perché chiunque ha potere è portato ad abusarne ». Parole che fanno spellare le mani ai presenti. In qualche modo, da qualche parte, danno coraggio.
Stati generali dell’Antimafia, auditorium della Conciliazione, giornata finale. Organizza Libera, il motore è don Luigi Ciotti, la benzina sono tutte «le antenne» di Libera sparse nel territorio, da Niscemi a L’Aquila passando per Caserta e Fondi e su al nord. Cosa fare in concreto sul fronte della lotta alle mafie è nei 12 punti del Manifesto e nel lavoro dei 17 gruppi di lavoro.
Ma la sensazione è che si voglia andare oltre. «Qui oggi si sta scaricando un fortissimo disagio nei confronti della politica» osserva Nando Dalla Chiesa che modera sul palco.
Libera si candida a diventare partito? Guai, dice don Ciotti, «noi muoviamo rilievi non contro la politica ma per amore della politica». Il fatto è che rispetto alla politica, ai partiti, la lotta alla mafia non ha più referenti certi «né da una parte né dall’altra» precisa Grasso. «Quando parliamo di antimafia, a chi parliamo?» chiede il responsabile del Fai. «Fuori da qui la percezione del problema è debolissima. Nel sud ancora oggi è impossibile fare libera impresa, eppure è 1/4 dell’Italia e siamo nel cuore del G8». Don Ciotti cita Bobbio e i «democratici in allarme quali siamo noi oggi».
La crisi prima ancora che economica è «etica e politica», è la crisi di «diritti calpestati da leggi anticostituzionali». A cominciare dal reato di immigrazione clandestina, «un mostro giuridico che colpisce la persona e non il crimine». Si fa un gran parlare di papello in questo periodo, dice don Ciotti alludendo alla presunta trattativa stato-mafia denunciata da Ciancimino jr. «Io non voglio sottovalutare nulla ma scusate, cosa sono norme che aboliscono le intercettazioni come strumento di indagine, il fatto che non vengono sciolti comuni infiltrati dalla mafia come Fondi, misure come lo scudo fiscale se non frutto di una trattativa? La mafia esulta per questo moderno e gigantesco papello». Sono troppi i pozzi della politica avvelenati, «allora tocca cambiare falda, cercare acqua nuova e pulita».
Sotto scacco, di fronte al «potere che ha sfondato il muro delle buone regole», Dalla Chiesa usa metafore militari: «La società civile ha il dovere di organizzare presidi di qualità nei retroterra della scuola e della cultura, dell’informazione e della legalità, pensare ad un accerchiamento e poi contrattaccare ». Se non è l’atto di nascita di un partito, assomiglia molto a un programma politico.
Le dodici richieste di Libera alle forze politiche
1) Testo unico delle leggi antimafia
2) Agenzia nazionale per la gestione trasparente di beni sottratti alle mafie
3) Colpire i legami mafia-politica rivedendo i reati di voto di scambio e dello scioglimento dei comuni
4) Codice etico per impedire elezione di condannati o rinviati a giudizio
5) Stop ai condoni, più concreto il contrasto all’abusivismo edilizio
6)Le persone oggetto della tratta di esseri umani sono “vittime”
7) Diritto di cittadinanza ai migranti
8) Nuova legge antidroga con al centro la tutela della salute delle persone
9) Nuova legge antidoping
10) Authority contro il riciclaggio
11) Reato di intermediazione contro traffico d’armi
12) 21 marzo giornata vittime di mafia
Ancora prima di Gramsci
In Italia le basi del potere repubblicano sono messe a dura prova. -Per questo, oltre ai Quaderni, bisogna rileggere Tocqueville
di Michele Ciliberto, Università Normale di Pisa (l’Unità, 28.10.2009)
In Italia, sono toccate in questi giorni le fondamenta stesse del potere repubblicano. La sentenza della Corte costituzionale sul Lodo Alfano ha fatto esplodere tensioni e contrasti che riguardano il problema di chi sia il sovrano in Italia. Problema radicale, nel senso letterale della parola: esso riguarda le radici ultime dell’esistenza della Repubblica. Di questo si tratta: e bisogna averne lucidissima coscienza. Il Presidente del Consiglio rivendica la sua primazia sostenendo di essere stato eletto dal popolo e di avere per questo funzioni e diritti che travolgono funzioni, equilibri e reciproci bilanciamenti dei poteri. Una posizione di carattere populistico, è stato detto; di una nuova forma populismo, aggiungo io, che stravolge le fondamenta della democrazia rappresentativa italiana.
Di fronte a tutto questo da alcune parti si è parlato del tradizionale “sovversivismo” delle nostre classi dirigenti, frutto diretto del tradizionale distacco - anzi separazione - tra “governanti” e “governati” nel nostro paese. È l’analisi di Gramsci nei Quaderni che individua nel sovversivismo delle nostre classi dirigenti un punto caratteristico, e rivelatore, della storia nazionale italiana.
Senza alcun dubbio, è un’interpretazione interessante, con la quale continuare a fare i conti; ma non coglie appieno il dato nuovo della situazione italiana. Quello che abbiamo di fronte è una generale patologia della democrazia rappresentativa che non riguarda, in quanto tale, solo il nostro Paese. Non tenderei ad interpretare ciò che sta accadendo in termini di arretratezza della società italiana. Penso invece che da noi siano esplosi, in maniera precoce e più violenta, anche per fragilità - questa sì della nostra struttura istituzionale e sociale, dei fenomeni che riguardano il destino della democrazia rappresentativa nei prossimi anni. È per questo motivo, credo, che la crisi italiana e le iniziative del presidente del Consiglio sono diventate oggetto di attenta analisi da parte dei giornali stranieri, sia europei che americani. Essi intuiscono che il problema non concerne solo l’Italia, ma che la favola riguarda, o potrebbe riguardare, anche loro, e non in un futuro lontano.
Da questo punto di vista sono persuaso che oggi sarebbe utile rileggere, oltre che Gramsci, Tocqueville, e , in modo particolare, la seconda Democrazia in America un testo classico che come tutti i grandi classici ha la capacità di sporgere oltre il proprio tempo storico.
In quelle pagine Tocqueville dimostra come la democrazia si possa risolvere nella costituzione di un potere statale dispotico, da un lato; in una forte “passivizzazione”, dall’altro, delle masse, le quali rinunciando alla propria individuale responsabilità affidano la loro sorte ad un potere che progressivamente si impadronisce e domina l’intera realtà politica e sociale.
Ovviamente, l’analisi di Tocqueville va riattualizzata alla luce del potere che oggi hanno assunto i mezzi di comunicazione di massa, e specialmente la televisione, quali strumenti prioritari delle nuove forme di dispotismo attraverso un generale processo di “passivizzazione” degli individui, il dato più inquietante della situazione in cui ci troviamo.
Ma, precisato questo, quell’analisi resta un punto di riferimento indispensabile. «Volesse il cielo che ci fossero delle rivoluzioni!» - esclama Tocqueville nella seconda Democrazia sottolineando la situazione di apatia, di staticità, di perdita di autonoma iniziativa, nella quale possono precipitare i popoli democratici. Ma non si arrende a questa situazione. Proprio nelle pagine finali della Democrazia in America fa l’elogio dell’insopprimibile esigenza di libertà dell’uomo, un ostacolo insuperabile per qualunque forma di vecchio o nuovo dispotismo. Quella di Tocqueville, però, prima di essere una constatazione, era soprattutto un auspicio, un’ultima speranza.
Per riuscire a contenere i processi patologici delle democrazie ci vuole ben altro e soprattutto è necessario individuare nuove forme di comunicazione fra “governanti” e “governati” e nuove relazioni fra democrazia diretta e democrazia rappresentativa attivando nuovi contrafforti nei confronti delle dinamiche dispotiche e nuove forme di equilibrio e di bilanciamento dei poteri.
Come diceva Montesquieu, si può essere tutti uguali e tutti servi; per poter essere tutti uguali e tutti liberi bisogna impegnare una grande battaglia; ed è precisamente questa che bisogna combattere oggi in Italia. ❖