PER COMMENTARE L’IMMANE DISASTRO DI MESSINA, CHIAMANDO IN CAMPO LEOPARDI, BARBARA SPINELLI PARLA DI "STATO MATRIGNO" E DI "AMMINISTRATORI MATRIGNI". A BEN RIFLETTERCI, E’ UN ERRORE CREATIVO CHE SVELA LA NATURA NASCOSTA DEL PROBLEMA: OGGI, LO STATO ITALIANO E’ UNO STATO DI FIGLI DI "MAMMASANTISSIMA", DI "PAPI" ATEI E DEVOTI - "PADRINI" E "SANTI PADRI". LA NOVITA’ E’ RADICALE ED EPOCALE: PORTA ALLA LUCE DEL SOLE E METTE IN EVIDENZA L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, DELL’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO - CODIFICATO DAL CATTOLICESIMO-ROMANO!!! IL "GRANDE RACCONTO" DELLA CULTURA CATTOLICO-ROMANA E’ FINITO: A FREUD, GLORIA ETERNA *
Per riflettere, sul tema, si riportano vari articoli (per leggere, cliccare sul titolo), presenti nel sito:
FINE DEL CATTOLICESIMO E DELLA CASTA ATEA E DEVOTA.
IL DIO DEI MAFIOSI NON E’ CRISTIANO, MA CATTOLICO-ROMANO - ’MEDITERRANEO’
* Federico La Sala
Il Québec, laboratorio della modernità? (2)
di Jean-François Bouchard
in “www.baptises.fr” del 16 ottobre 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)
La storia del cattolicesimo e dei cattolici nel Québec degli ultimi cinquant’anni è ricca e complessa. Per motivi di sintesi, ci limiteremo qui a tre punti di vista, che sono rivelatori di quanto è avvenuto in questo paese. Analizzeremo la questione del posto delle donne e del femminismo nella configurazione ecclesiale; poi vedremo il percorso degli intellettuali all’interno della Chiesa; infine affronteremo il fallimento dei nuovi movimenti nel rinnovare il tessuto della comunità.
1. Il posto delle donne e del femminismo
Non si può capire nulla del Québec contemporaneo se non si valuta l’importanza dell’emancipazione femminile e della cultura femminista nella costruzione sociale. Poche società occidentali hanno fatto entrare fino a questo punto il dato dell’uguaglianza dei sessi e dell’importanza della promozione delle donne in tutte le sfere della collettività.
Siamo passati in trent’anni da una società patriarcale nelle sue istituzioni sociali (e matriarcale nello spazio domestico) ad una società nella quale l’uguaglianza è un’esigenza di tutti i momenti. Certo, niente è perfetto, e soprattutto niente è mai del tutto acquisito. Ma, oggi, i progressi oggettivi renderebbero difficili i tentativi di far fare dei passi indietro. Questo dato di fatto ha avuto due conseguenze tra i battezzati.
La prima è stata una diserzione massiccia delle donne dalla Chiesa e dalle chiese. Per un gran numero di donne che oggi hanno più di 70 anni era diventato inimmaginabile trasmettere il cattolicesimo ai loro figli, e alle loro figlie in primo luogo, tanto l’istituzione era subito apparsa loro passatista, sessista e maschilista. Ci sono state persone che lo hanno proclamato a voce alta. Tuttavia, la maggior parte ne ha preso atto senza rumore, allontanandosi de facto da una Chiesa che rappresentava ormai un elemento nocivo nell’educazione all’emancipazione. In conseguenza di ciò, molte persone della mia generazione (io ho 50 anni) sono cresciute nel silenzio domestico su Dio e sulla Chiesa.
La seconda conseguenza del femminismo è stata la sua influenza diffusa all’interno stesso della Chiesa del Québec. Infatti, benché un gran numero di donne abbiano disertato la Chiesa a partire dagli anni ’60, molte sono però rimaste, motivate dalle riforme nate dal Concilio. E queste donne, molte delle quali hanno, a partire da quel periodo, invaso le facoltà di teologia e di scienze religiose, hanno sviluppato una riflessione nuova che ha introdotto il femminismo nella teologia e nell’ecclesiologia. Negli anni ’70 e ’80 un certo numero di vescovi hanno prestato attenzione a questo, e alcuni di loro hanno preso delle decisioni d’avanguardia nominando delle donne a funzioni riservate fino ad allora a degli uomini (ordinati, evidentemente).
Meglio ancora, i vescovi del Québec hanno promosso la questione femminile presso le istituzioni romane, e nei sinodi. Cosa che è valsa loro a volte di essere ridicolizzati, non tanto da prelati romani, quanto da confratelli francesi! Questa dinamica felice col tempo si è indebolita. Perché da parte della Chiesa universale sono venuti in risposta pochi segni di evoluzione. Perché il discorso ufficiale si è a poco a poco riclericalizzato. Da una quindicina d’anni, domina nettamente la sensazione di blocco. Ciò detto, bisogna ricordare che le organizzazioni fondamentali della Chiesa, in particolare le parrocchie, non vivrebbero oggi senza l’apporto delle donne. Senza il loro impegno, la Chiesa del Québec sarebbe in brevissimo tempo una conchiglia vuota.
2. Il percorso degli intellettuali
Come le femministe, una forte percentuale di intellettuali del Québec si è allontanata dalla Chiesa a grande velocità dall’inizio della Rivoluzione tranquilla. Ma anche in questa categoria certi sono rimasti. Il Concilio ha svolto un ruolo di motivazione. Molti vi hanno visto la porta aperta ad un dialogo con la modernità, e quindi, ad un contributo delle scienze umane al pensiero cristiano. Come altrove, le facoltà di teologia e i centri di formazione hanno dato ampio spazio allasociologia, alla psicologia, alla pedagogia... Il campo dei possibili appariva vasto, senza limiti. Dei battezzati, uomini e donne, hanno creduto possibile partecipare a pieno titolo alla riflessione della Chiesa.
In Québec, il segno più forte di quella speranza è stato lo svolgimento di una commissione di inchiesta sui laici e sulla Chiesa, istituita dall’episcopato, e presieduta dal sociologo Fernand Dumont, uno dei massimi intellettuali del secolo. I lavori della commissione hanno permesso di affrontare tutte le questioni del momento, e di condurre una riflessione molto articolata in un dialogo franco ed esigente.
Fino alla metà degli anni ’80, la riflessione comune “dei battezzati e della gerarchia” è stata portata avanti dall’episcopato. I vescovi del Québec sono stati a lungo riconosciuti per l’audacia di cui davano prova nei testi che pubblicavano su questioni sociali, culturali e religiose. I messaggi annuali del 1° maggio hanno alimentato la riflessione delle parti sociali a diverse riprese. In quel contesto, degli intellettuali sono stati motivati ad alimentare la riflessione, spinti dalla sensazione di contribuire tanto all’edificazione del pensiero credente che al dibattito sociale.
Dobbiamo constatare che anche questo bello slancio è venuto meno. Tra le altre cose per il fatto che i vescovi sono stati seriamente occupati dalla crisi del declino istituzionale che devono affrontare (diminuzione del clero, chiusura di parrocchie, deficit finanziari...). Ma anche perché il discorso istituzionale cattolico si è ricentrato sulla dottrina e sull’affermazione identitaria. I luoghi di dialogo con la modernità diventano rari. E poche persone ne vedono la pertinenza per la credibilità del cristianesimo. Cosicché si assiste ad un secondo esodo dei cervelli in cinquant’anni. Questo è grave per il futuro del cristianesimo in questo paese.
3. I nuovi movimenti religiosi
Come in quasi tutte le Chiese occidentali, l’influenza dei movimenti evangelical ha preso la forma del “Rinnovamento carismatico” presso i cattolici di qui. Il Rinnovamento ha riunito migliaia di persone. È arrivato a riunire 70 000 persone allo Stadio olimpico di Montréal nel 1970! La forza di un tale movimento ha lasciato tracce in certe Chiese in vari paesi del mondo, sono nate delle “comunità nuove”. La cosa che sorprende, è che (quasi) niente di simile è avvenuto nel Québec. Il “soufflé” è lievitato in maniera spettacolare. E si è afflosciato in modo altrettanto sorprendente.
Mentre si sarebbe potuto credere che sarebbe stato una fonte di rivitalizzazione del cattolicesimo di qui, ne sono derivate poche cose. Certo, ci sono state alcune comunità nuove che continuano a vivere in alcune zone del paese. Ma non hanno nulla a che vedere con la creazione di un nuovo tessuto sociale portatore di un futuro significativo per il cattolicesimo del Québec.
Per ragioni difficili da spiegare, poco di quanto è avvenuto dopo il Concilio, e dopo la Rivoluzione tranquilla, ha portato frutti durevoli per un avvenire possibile.
La Chiesa in Québec si trova oggi in uno stato di grande fragilità. Moli battezzati, pure motivati a vivere sinceramente la loro fede, si trovano smarriti. I luoghi dove ritrovarsi diventano rari. E l’Istituzione sembra spesso più occupata a “gestire la decrescita” che ad aprire la porta alla speranza.
L’OCCUPAZIONE DELLA LEGGE E DELLA LINGUA ITALIANA: L’ITALIA E LA VERGOGNA.
Intervista a Tullio De Mauro
«Dalla Patria alla Matria. Ecco perché è la lingua che ci ha fatto italiani»
Il linguista: Un Paese paradosso il nostro, cementato nelle pagine dei capolavori letterari. E solo più di mezzo millennio dopo la «Commedia» diventato uno Stato
di Maria Serena Palieri (l’Unità, 21.02.2011)
Massimo Cacciari dice che la sua devozione va non alla Patria, ma alla Matria. Cioè alla nostra madre lingua, l’italiano di Dante. E «il» linguista per antonomasia, Tullio De Mauro, stamattina al Quirinale parlerà appunto dell’Italia linguistica, dall’Unità alla Repubblica. Alla vigilia dell’incontro gli abbiamo rivolto alcune domande. A fronte dei 150 anni di Italia che festeggiamo oggi, ci sono, prima, sei secoli di storia di un popolo unito dalla lingua.
È un’eccezione tutta italiana? E da cosa nasce?
«La scelta del fiorentino scritto trecentesco a lingua che, sostituendo il latino, fosse lingua comune dell’Italia si andò affermando già nel secondo Quattrocento nelle nascenti amministrazioni pubbliche dei diversi stati in cui il paese era diviso e si consolidò poi tra i letterati nel XVI secolo quando sempre più spesso la lingua di Dante, Petrarca, Boccaccio cominciò a dirsi italiano e non più fiorentino o toscano. Spingeva in questa direzione l’aspirazione ad avere una lingua nazionale come già avveniva nei grandi stati nazionali europei. Rispetto alle altre parlate italiane, alcune già illustri come il veneziano o il napoletano, il fiorentino scritto aveva il vantaggio di una grande letteratura di rango europeo, il sostegno dell’attiva rete finanziaria e commerciale toscana, una assai maggiore prossimità al latino, che era la lingua dei colti. A questi soltanto, fuori della Toscana, e con la sola parziale eccezione della città di Roma, restò limitata la scelta. Mancarono ancora per secoli quelle condizioni di unificazione politica, economica e sociale e di sviluppo della scolarità elementare che altrove in Europa portavano i popoli a convergere verso l’uso effettivo delle rispettive lingue nazionali. Firenze e Roma a parte, l’uso dell’italiano restò riservato a occasioni più formali e solenni e alle scritture di quell’esigua parte di popolazione che poteva praticarle e leggerle. Tuttavia la tradizione letteraria dei colti fu un filo importante nella vicenda storica. Nell’Italia preunitaria, scrittori, politici, patrioti da Foscolo a Cattaneo e Manzoni, alla diplomazia piemontese, poterono additare a giustificazione storica della richiesta di unità e indipendenza dell’Italia l’esistenza di un’unica lingua nazionale. Ma non mancarono mai di sottolineare il fatto che l’uso dell’italiano era allora assai ridotto. È un tema ricorrente».
Quali sono le conseguenze di questa storia «al contrario»?
«Senza riferimento alla lingua nazionale la stessa idea di unificare il paese e rivendicarne l’indipendenza forse non sarebbe nata».
Il 1861 quale tipo di Paese certificò, dal punto di vista linguistico?
«Il 78% della popolazione risultò analfabeta. La scuola elementare era poco frequentata e mancava in migliaia di comuni. L’intera scuola postelementare era frequentata da meno dell’1% delle classi giovani. Secondo le stime la capacità di usare attivamente l’italiano apparteneva al 2,5% della popolazione. Un valoroso filologo purtroppo scomparso ha rivisto questa stima al rialzo, suggerendo che la capacità di capire l’italiano appartenesse all’8 o 9%».
E 150 anni dopo?
«La scolarizzazione avrebbe potuto modificare la situazione del 1861. Ma, diversamente da quanto avvenne per esempio in Giappone, che negli stessi anni si avviava alla modernità e aveva condizioni scolastiche peggiori delle nostre, le classi dirigenti italiane puntarono su esercito e ferrovie, non sulla scuola. Alla fine del secolo il Giappone aveva portato alla piena scolarità elementare quasi il 100% della popolazione: in Italia siamo arrivati a questo soltanto negli anni sessanta del ‘900. Solo nel periodo giolittiano, a inizio ‘900, cominciò una forte spinta popolare all’istruzione, come riflesso della grande emigrazione verso paesi in cui leggere e scrivere era normale, e come conseguenza diretta del costituirsi di associazioni operaie e contadine e del Partito Socialista. I governi Giolitti risposero positivamente, le spese per edilizia scolastica e stipendio dei maestri passarono dai comuni allo Stato. La scolarità cominciò a crescere e anche crebbe la quota di prodotto interno lordo destinato alla scuola. Ma il processo si bloccò prima per la Grande Guerra, poi, dal 1925 in poi, per tutto il periodo fascista. -All’inizio del suo cammino la Repubblica italiana si ritrovò con il 59,2% di analfabeti e senza licenza elementare, con un indice di scolarità di tre anni a testa, a livello dei paesi sottosviluppati. E con il 64% di popolazione consegnata all’uso esclusivo di uno dei dialetti, mentre l’italiano era usato abitualmente da poco più del 10% della popolazione (inclusi i toscani e i romani) e in alternativa con i dialetti da un altro 20% o poco più. Uscire da questa situazione parve una necessità a persone com Pietro Calamandrei o Umberto Canotti Bianco, ma anche ai padri costituenti, chenel 1948 “costituzionalizzarono” l’obbligo scolsticon gratuito per almeno 8 anni (è l’art. 34 della Costituzione). Ma la scuola elementare e la media hanno stentato a decollare fino agli anni settanta. La scuola ha fatto un lavoro enorme per sottrarre i figli e le figlie al destino di analfabetismo e mancata scolarità di padri e madri. Ha portato tutti i ragazzini alla licenza elementare negli anni settanta e ottanta, poi quasi tutti alla licenza media, infine, in questi anni, li ha portati per il 75% al diploma e alle porte dell’università. Ma non poteva cambiare da sola le strutture degli ambienti di provenienza degli allievi: la mancanza cronica di centri di pubblica lettura in oltre tre quarti dei comuni, la scarsa lettura di quotidiani, fermi, in percentuali di vendite, agli anni ‘50, la scarsa propensione alla lettura di libri. Per questa la parte femminile della popolazione, ha fatto moltissimo, assai più dei maschi, ma non basta». Nel gioco fra lingua e dialetti l’italiano è mai arrivato a essere “lingua di popolo”?
O è rimasto lingua d’élite?
«Oggi l’italiano è parlato dal 94% della popolazione, mai era stato tanto usato, solo il 6% resta ancorato all’uso esclusivo di uno dei dialetti. Ma la percentuale del 94% va sgranata e stratificata: il 45% parla abitualmente l’italiano anche tra le mura di casa, i l resto della popolazione lo usa in alternanza con uno dei dialetti o (per il 5%) delle lingue di minoranza. Ma attenzione, il multilinguismo, la persistenza di idiomi diversi non fa danno. Fa danno la dealfabetizzazione della popolazione adulta una volta uscita di scuola. Soltanto il 20% della popolazione ha gli strumenti minimi di lettura, scrittura e calcolo per orientarsi nella vita di una società moderna. La povera Mastrocola si agita per dire che dovremmo bloccare l’istruzione a 13 anni. Abbiamo invece bisogno di un grande sforzo collettivo di crescita culturale, qualche imprenditore comincia a capirlo, lo spiegano bene gli economisti e in un bel saggio recente Walter Tocci. Ma per ora la situazione è questa e un uso responsabile e sicuro della lingua è precluso a una gran parte del 94% che pure l’italiano ormai lo parla».
Dal 1954 in poi, l’italiano ce l’ha insegnato nostra maestra televisione. Oggi la tv sul piano linguistico e civile che effetti produce?
«Sì, con le grandi migrazioni interne, l’industrializzazione e la crescente scolarità delle fasce giovani, negli anni ‘50 l’ascolto televisivo fu decisivo per sentire l’italiano usato nel parlare. Dagli anni ‘90 la rincorsa alla pubblicità ha imbastardito le trasmissioni senza che vi siano sufficienti contrappesi, il calmiere di una informazione seria e diffusa, la lettura. Oggi lavoriamo molto nelle scuole per insegnare i ragazzi la regola della “presa di turno” nel parlare, Poi apri un qualsiasi talk show o il grande fratello e vedi che quella regola è calpestata senza ritegno». Che effetto fa al linguista una Minetti (laureata) che intercettata dice “Ne vedrai di ogni. Ti devo briffare”? «Studio le registrazioni solo per obiettivi professionali, quindi per campioni statistici, e quelle di Minetti non mi sono per ora capitate».
E che effetto ha fatto al linguista il Benigni che spiega l’Inno di Mameli?
«Un numero sterminato di anni fa, trenta, ricordo di avere cercato di spiegare che, come già per altri grandi comici, Totò anzitutto e Dario Fo, il comico di Benigni poggiava e poggia su una geniale intelligenza e una robusta, ampia base culturale. Benigni poi ci ha dato solo conferme. La sua “controlettura” dell’Inno di Mameli offre un modello raro e prezioso di come si debba e possa leggere la poesia, senza vibratini ed enfasi, come invece troppo spesso si fa. Di Benigni ricordo anche il memorabile discorso per l’avvio di pionieristici corsi di istruzione per gli adulti nel comune di Scandicci e la chiusa alta e paradossale, degna di Gramsci e don Milani: “Tutti vi dicono: fatti, non parole. E io vi dico invece: prima di tutto parole, parole, parole».
LA CHIESA, LA MAFIA, LA ZONA GRIGIA
di Raffaello Saffioti
DALLA CALABRIA UN CONTRIBUTO ALL’INCONTRO DI ROMA SUL TEMA: “SOTTO LE DUE CUPOLE. CHIESA, RELIGIONE, MAFIA” *
L’incontro che avrà luogo a Roma col titolo “Sotto le due Cupole. Chiesa, religione, mafia” mi dà l’occasione per richiamare e sviluppare il mio recente documento “Le feste religiose nel Sud. Palmi, San Rocco, la Varia. E la chiamano fede”, pubblicato sul sito del periodico “Il dialogo” (www.ildialogo.org) e su quello delle Comunità Cristiane di Base (www.cdb.it).
In quel documento ho esaminato due feste religiose di Palmi, in Calabria, che registrano una straordinaria partecipazione popolare, e manifestano la devozione della città a San Rocco e alla Madonna. Mi sono chiesto quanto queste feste siano segno di autentica fede religiosa, ponendomi dal punto di vista biblico, proponendo una scelta di testi dell’Antico e Nuovo Testamento.
Chiedevo: Palmi, città cattolica? E notavo che di fronte al fenomeno mafioso la città “non vede, non sente, non parla”.
Due anni fa, in occasione del trasferimento del Vescovo Giancarlo Bregantini dalla diocesi di Locri-Gerace alla diocesi di Campobasso, avevo pubblicato un documento col titolo “La Chiesa, il potere, la mafia. Quando il Pastore lascia il suo gregge: il ‘caso’ Bregantini” (www.peacelink.it).
Scrivevo:
“Per chi vive lontano dalla Calabria è difficile capire a fondo come si vive in questa regione, capire pure come funziona il sistema di potere clientelare-mafioso e il ruolo che giocano la Chiesa come istituzione, gli ecclesiastici e i cattolici in genere”.
Raccogliendo le suggestioni e gli stimoli che provengono dal testo che accompagna il programma dell’incontro di Roma, va sottolineato “l’accostamento ‘chiesa e mafia’ ” che “rinvia ad analisi e interrogativi sul ruolo del cattolicesimo italiano”.
Quando diciamo “Chiesa”, di quale Chiesa parliamo?
Per il tema dell’incontro di Roma, credo che ci convenga parlare della Chiesa-istituzione e riproporre il tema del potere della e nella Chiesa-istituzione.
Il tema andrebbe esaminato partendo dal Vangelo e arrivando alla Costituzione Lumen gentium, del Concilio Ecumenico Vaticano II, ripercorrendo il processo storico bimillenario. Qui basta affermare, oltre l’esigenza permanente della riforma della Chiesa (“Ecclesia sempre reformanda est”), l’esigenza attuale ed urgente della riforma della struttura gerarchica della Chiesa-istituzione, per renderla coerente e conforme alla legge evangelica dell’eguaglianza e della fraternità.
Il principio gerarchico va attaccato alla radice, non solo nelle varie organizzazioni laiche, ma anche nella organizzazione della Chiesa. Dove c’è gerarchia, c’è disuguaglianza, dipendenza, violenza, segretezza. E questi sono principi che si ritrovano anche nelle organizzazioni criminali.
La parola “gerarchia” dovrebbe scomparire da ogni vocabolario.
“Quali sono le strutture gerarchiche di un sistema autoritario e quali le tecniche per annientare la personalità di un individuo? Quali rapporti si creano tra oppressori e oppressi?”
Queste domande vengono poste dal libro I sommersi e i salvati, di Primo Levi (Einaudi, 1986).
“Un saggio imprescindibile per capire il Novecento e ricostruire un’antropologia dell’uomo contemporaneo” (dalla quarta di copertina).
“Il capitolo centrale, il più importante del libro è quello intitolato La zona grigia”, come dice lo stesso Levi.
Una breve citazione.
“Dove esiste un potere esercitato da pochi, o da uno solo, contro i molti, il privilegio nasce e prolifera, anche contro il volere del potere stesso; ma è normale che il potere, invece, lo tolleri o lo incoraggi. Limitiamoci al Lager, che però (anche nella sua versione sovietica) può ben servire da ‘laboratorio’: la classe ibrida dei prigionieri-funzionari ne costituisce l’ossatura, ed insieme il lineamento più inquietante. E’ una zona grigia dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi. Possiede una struttura interna terribilmente complicata, ed alberga in sé quanto basta per confondere il nostro bisogno di giudicare.
... Questo modo di agire è noto alle associazioni criminali di tutti i tempi e luoghi, è praticato da sempre dalla mafia, e tra l’altro è il solo che spieghi gli eccessi, altrimenti indecifrabili, del terrorismo italiano degli anni ‘70” (pp. 29, 30).
Chi fa parte della zona grigia?
La Chiesa cattolica ne fa parte?
Il tema posto da Primo Levi si sta divulgando. Esso, mentre le varie analisi del fenomeno mafioso finora tentate si sono rivelate inadeguate e insufficienti, aiuta a decifrare e comprendere sempre meglio quel fenomeno, per il quale si può dire quello che è stato detto per la mafia calabrese, che “prima ancora di essere un’organizzazione criminale, è diventata ormai un fenomeno sociale e culturale”.
E’ dalla zona grigia che la mafia trae la sua forza ed è in essa che si trovano collusioni, connivenze e complicità di ogni tipo.
Francesco Tassone, direttore della rivista “Quaderni del Sud-Quaderni Calabresi”, dopo una intimidazione mafiosa alla famiglia dell’ingegnere Antonio D’Agostino, di Vibo Valentia, ha scritto:
“Non basta denunciare il sistema mafioso (...), e neppure costruire luoghi di aggregazione sociale e posti di lavoro, senza contemporaneamente rompere di fatto, oltre moralmente, con quel sistema, senza iattanza ma in modo visibile, marcando nel concreto della situazione la differenza. Evitando di far parte, come avviene per la gran parte di essi (avvocati, sacerdoti, medici, ingegneri, insegnanti - non parliamo dei sindacalisti e degli altri ruoli direttivi) dell’establishement locale e delle sue regole di (buon) comportamento” (Dalla lettera a Comunità Libere, Gioiosa Ionica e a Libera, Vibo Valentia, in “Quaderni del Sud-Quaderni Calabresi”, 104/106, giugno/dicembre 2008, pp. 139-140).
Quindi, per combattere la mafia, ormai lo sappiamo, non basta la repressione con l’azione della magistratura e delle forze dell’ordine, e non bastano le denunce, neanche quelle di documenti solenni e autorevoli della Gerarchia ecclesiastica.
In questi ultimi mesi alcuni vescovi del Sud hanno espresso posizioni nuove, molto coraggiose. Su “Famiglia Cristiana” (n. 11 del 14 marzo 2010), tre vescovi hanno commentato il documento della CEI sul Mezzogiorno.
Il Vescovo di Agrigento, monsignor Francesco Montenegro:
“Ci siamo occupati del sacro e non della fede ... sosteniamo un’idea di Chiesa intrecciata attorno alle devozioni, che possono consolare, che non incidono e non cambiano i comportamenti”. “Proporrò di abolire ogni festa religiosa nei paesi dove si contano gli omicidi. Il sacro non basta per ritenersi a posto, se poi nessuno denuncia, e la cultura mafiosa è l’unica ammessa”.
Il Vescovo di Mazara del Vallo, monsignor Domenico Mogavero:
“ Ogni comunità scelga un argomento in relazione alla situazione del proprio territorio e agisca: pizzo, usura, corruzione della politica, mafia devota che offre soldi per le feste popolari”.
Il Vescovo di Acerra, monsignor Antonio Riboldi:
“I cristiani al Sud devono svegliarsi. (...) Bisogna tagliare i ponti, anche quelli tra le nostre chiese e la cultura mafiosa, che spesso dimostra di essere devota”.
Grande è il ruolo e grande è la responsabilità della Chiesa cattolica. Un fatto di cronaca che fa riflettere (dal quotidiano “calabria ora” del 21 agosto 2010, p. 12):
“Abolite due soste, la statua non passa da casa dei clan”.
“Sotto osservazione delle forze dell’ordine, la processione che tutti gli anni si svolge il 16 agosto a Palmi in onore a San Rocco. L’ufficio di Polizia palmese, infatti, avrebbe ‘consigliato’ al Comitato organizzatore, di evitare due delle fermate previste durante il lungo tragitto che compie la statua del santo per le vie della città”.
Le due fermate sconsigliate avrebbero dovuto aver luogo davanti la casa di due note cosche cittadine. “L’invito della polizia è stato accolto dagli organizzatori che, dopo più di 50 anni, hanno mantenuto intatto il percorso della processione, ma hanno abolito le due soste considerate dalle forze dell’ordine ‘inopportune’ ”.
Quelle due soste, “segno di ‘riverenza’ verso le potenti famiglie di mafia”, dovevano essere sconsigliate dalla Polizia, o dal Vescovo e dal Parroco?
Palmi, 15 settembre 2010
Raffaello Saffioti
rsaffi@libero.it
* Il Dialogo, Domenica 19 Settembre,2010 Ore: 05:04
Tavola rotonda dal titolo "Sotto le due Cupole. Chiesa, religione, mafia" *
Intervengono: Augusto Cavadi (teologo), Don Luigi Ciotti (presidente e fondatore Associazione Libera), Alessandra Dino (sociologa) e Giuseppe Leotta (magistrato).
Dal sito di Radio Radicale
Le parole per battere la mafia
L’intervento agli stati generali di Libera: è il momento di dire quello che conosciamo
di BARBARA SPINELLI (La Stampa,26/10/2009
Da anni ci interroghiamo su questo male che non viene estirpato, la mafia: in particolare sulla lunga storia di trattative fra una parte dello Stato e la malavita, con poteri occulti che mediano fra due potenze facendone entità paragonabili. Anche per il potere della malavita, non solo per il potere legale, dovrebbero valere le parole di Montesquieu: «Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti. Perché non si possa abusare del potere occorre che il potere arresti il potere».
Forse però è venuto il momento di dire quello che sappiamo, e non solo di farci domande. Di dire, come fece Pasolini il 14 novembre 1974 a proposito delle trame eversive italiane, che in realtà: noi sappiamo. Sono anni che sappiamo, anche se non abbiamo tutte le prove e gli indizi. Sappiamo che le trattative sono esistite, prolungandosi fino al 2004. Sappiamo che viviamo ancor oggi - con le leggi che ostacolano la lotta alla mafia, con lo scudo fiscale che premia l’evasione - sotto l’ombra di un patto. Sappiamo il sangue che mafia, camorra, ’ndrangheta hanno versato lungo i decenni. Sappiamo il sacco di Palermo, e di tante città: sacco che continua. Sappiamo che l’Italia si va sgretolando davanti a noi come fosse un castello che abbiamo accettato di fare di carta, anziché di mattoni e di buon cemento non fornito dalla mafia - sì, noi l’abbiamo accettato, noi che eleggiamo chi ha il potere di favorire o frenare la malavita. Sappiamo che basta leggere le sentenze - anche quelle che assolvono gli imputati per mancanza di prove o, peggio, per prescrizione - per conoscere le responsabilità di politici che, per aver conquistato e mantenuto il potere grazie alla malavita, non dovrebbero essere chiamati coi nomi, nobili, di rappresentanti del popolo o di statisti.
Tutte queste cose, come avviene nei paesi che vivono sotto il giogo di un potere totalitario, le sappiamo grazie a persone che hanno deciso di denunciare, di testimoniare, e non solo di testimoniare ma di rimboccarsi le maniche e cominciare a costruire un’Italia diversa: tra i primi l’associazione Libera, e i giudici che hanno indagato su mafia e politica sapendo che avrebbero pagato con la vita, e uomini come Roberto Saviano, e giornalisti che esplorano le terre di mafia come Anna Politkovskaja esplorava, sapendo di essere mortalmente minacciata, gli orrori della guerra russa contro i ceceni.
Sono i medici dell’Italia. Ma medici che osservano un giuramento di Ippocrate speciale, di tipo nuovo: resta il dettato che comanda l’azione riparatrice, risanatrice. Nella sostanza, l’obbligo di non nuocere, di astenersi da ogni offesa e danno volontario. Ma cade il comandamento del segreto, vincolante in Ippocrate, che comanda: «Tutto ciò ch’io vedrò e ascolterò nell’esercizio della mia professione, o anche al di fuori della professione nei miei contatti con gli uomini, e che non dev’essere riferito ad altri, lo tacerò considerando la cosa segreta».
Il paragrafo del giuramento cade, perché troppo contiguo alla complicità, al delitto di omertà: questa parola che offende e storpia la radice da cui viene e che rimanda all’umiltà, all’umirtà. La vera umiltà consiste nell’infrangere il segreto, nel far letteralmente parlare le pietre e il cemento, le terre e i mari inquinati, poiché è denunciando il male che esso vien conosciuto e la guarigione può iniziare. Per questo l’informazione indipendente è così importante, in Italia: spesso lamentiamo un’opinione pubblica indifferente, ma, prima di esser aiutata a divenire civica, essa deve essere bene informata: con parole semplici, non specialiste, con esempi concreti. I medici di cui ho parlato - medici dell’Italia e delle sue parole e della sua natura malate - combattono proprio contro questo silenzio, che protegge i mafiosi, copre oscuri patti fra Stato e mafia, lascia senza protezione le loro vittime. I medici danno alle cose un nome, e su questa base agiscono.
C’è un modo di servire lo Stato che chiamerei paradossale: si serve lo Stato, pur sapendo che esso è pervertito, che nella nostra storia c’è stato più volte un doppio Stato. Uomini come Falcone, Borsellino, il giudice Chinnici, don Giuseppe Puglisi, don Giuseppe Diana e i tanti uomini delle scorte avevano questa fedeltà paradossale allo Stato. Uomini così sono come esuli, come De Gaulle che lasciò la Francia quando fu invasa da Hitler e dall’esilio londinese disse: la Francia non coincide con la geografia; quel che rappresento è «una certa idea della Francia», che ha radici nella terra ma innanzitutto nella mente di chi decide di entrare in resistenza e sperare in un mutamento.
La riconquista del territorio e della legalità è come la speranza, anch’essa sempre paradossale. Prende il via da una perdita del territorio, dalla consapevolezza che se lo Stato non ha più presa su di esso, ciascuno di noi perde la terra sotto i piedi. E quando dico territorio perduto dico le case che franano non appena s’alza la tempesta, i terremoti che uccidono più che in altre nazioni, l’abitare che diventa aleatorio, brutto, perché la costruzione delle case avviene con cemento finto, fatto di sabbia più che di ferro, procurato dalle mafie. Come nella lettera di Paolo ai Romani, è dalla debolezza che si parte, altrimenti non ci sarebbe bisogno di sperare: «Ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza».
Ecco, per ora speriamo quel che non ancora vediamo: una cultura della legalità, una politica del territorio restituito a chi vuole abitarlo decentemente. Per ora abbiamo una certa idea dell’Italia, della lotta alla mafia. Ma se sappiamo quel che accade da tanto tempo, pur non avendo tutte le prove, già metà del cammino è percorsa e l’agire diventa non solo necessario ma possibile. Anche questo Paolo lo spiega bene, quando elenca le tappe della speranza. Prima viene l’afflizione, la conoscenza del dolore. L’afflizione produce la pazienza, e questa a sua volta la virtù provata. È sul suolo della virtù provata che nasce la speranza, e a questo punto la prospettiva cambia. A questo punto sappiamo una cosa in più, preziosa: non si comincia con lo sperare, per poi agire. Si comincia con la prova dell’azione, e solo dalla messa alla prova nascono la speranza, la sete di trovare l’insperato, l’anticipazione attiva - già qui, ora - di un futuro possibile. Ha detto una volta Giancarlo Caselli una cosa non dimenticabile: «Se essi sono morti (parlava di Falcone, Borsellino) è perché noi tutti non siamo stati vivi: non abbiamo vigilato, non ci siamo scandalizzati dell’ingiustizia; non lo abbiamo fatto abbastanza, nelle professioni, nella vita civile, in quella politica, religiosa». Per questo corriamo il rischio, sempre, di disimparare perfino la speranza.
Il corruttore difeso dalla politica
di Giuseppe D’Avanzo (la Repubblica, 05.10.2009)
La "discesa in campo" del ’94 è servita al Cavaliere per difendere il proprio interesse, come i partiti della prima repubblica lo avevano aiutato a sviluppare il suo business
Paradossalmente metà del Paese è chiamata a difendere un episodio di corruzione che ha assicurato al presidente del Consiglio il dominio nel campo pubblicitario
La politica, per Silvio Berlusconi, è nient’altro che il modo più efficace per accrescere e proteggere il suo business. È sempre stato così fin da quando, neolaureato fuori corso in giurisprudenza, si dà agli affari. Forte di legami politici con le amministrazioni locali e regionali - e qualche «assegno in bocca» - diventa promotore immobiliare. La politica gli consente di tenere a battesimo, fuori della legge, il primo network televisivo nazionale.
La collusione con la politica - la corruzione d’un capo di governo e il controllo di ottanta parlamentari - gli permette di ottenere, dal presidente del consiglio corrotto, due decreti d’urgenza e, dal parlamento, una legge che impone il duopolio Rai-Fininvest. Non proprio un prometeo dell’economia, nel 1994 è in rotta e fallito (gli oneri del debito della Fininvest - 4000 miliardi di lire - superano l’utile operativo del gruppo). Ha perso però i protettori travolti dal malaffare tangentocratico e s’inventa "imprenditore della politica" convertendo l’azienda in partito.
E’ ancora la politica che gli consente di manomettere, con diciassette leggi ad personam, codici e procedure per evitare condanne penali per un variopinto numero di reati (falso in bilancio, frode fiscale, appropriazione indebita, corruzione) fino all’impunità totale della «legge Alfano» che gli assicura un parlamento diventato bottega sua (domani la Consulta ne vaglierà la costituzionalità).
Non c’è da sorprendersi allora se, condannato oggi al pagamento di un risarcimento di 750 milioni di euro per aver trafugato la Mondadori corrompendo un giudice, Silvio Berlusconi si nasconda ancora una volta dietro il paravento della politica. E’ sempre la sua carta jolly per confondere le acque, cancellare i fatti, rendere incomprensibile quel che è accaduto, difendere - dietro le insegne dell’interesse pubblico - il suo interesse personale. Secondo un copione collaudato nel tempo, il premier anche oggi è lì a cantare la favola dell’«aggressione politica al suo patrimonio», dell’«assedio ad orologeria». Evoca, con le parole della figlia Marina (presidente di Mondadori), il «momento politico molto particolare». Piagnucola: «Se è così, chiudo». Minaccia (gli capita sempre quando è a mal partito) che chiamerà alle urne gli elettori, se sarà contrariato.
Bisogna dunque dire se c’entra la politica, in questa storia della Mondadori. La risposta è sì, c’entra ma (non è un paradosso) soltanto perché salva Berlusconi dai guai (e non è una novità).
Ricapitoliamo. E’ il giugno 2000. Berlusconi è accusato di aver comprato la sentenza che gli ha permesso di mettere le mani sul più grande impero editoriale del Paese scippandolo a Carlo De Benedetti (editore di questo giornale). Per suo conto e nel suo interesse, gliela compra l’avvocato e socius Cesare Previti (poi suo ministro). L’udienza preliminare del "caso Mondadori" ha un esito sorprendente: non luogo a procedere. E’ salvo. Il pubblico ministero Ilda Boccassini si appella. La Corte le dà ragione, ma Previti e Berlusconi hanno destini opposti. Per una svista, i legislatori nel 1990 si sono dimenticati del «privato corruttore» aumentando la pena della corruzione nei processi soltanto per il «magistrato corrotto». Correggono l’errore nel 1992, ma i fatti della Mondadori sono anteriori a quell’anno e dunque Berlusconi è passibile della pena meno grave, da due a cinque anni (corruzione semplice), anziché da tre a otto (corruzione in atti giudiziari). Se ottiene le attenuanti cosiddette generiche, può farla franca perché il reato sarebbe estinto. La sentenza del 25 giugno 2001 le concede a Berlusconi, non a Previti che va a processo.
Stravagante la motivazione che libera il premier: è vero, Berlusconi ha corrotto il giudice, ma si è adeguato a una prassi d’un ambiente giudiziario infetto e poi l’attuale suo stato «individuale e sociale» (si è appena insediato di nuovo a Palazzo Chigi) merita riguardi. Diciamolo in altro modo. Per i giudici non si possono negare le attenuanti, e quindi la prescrizione, a quell’uomo che - è vero - è un «privato corruttore» perché è «ragionevole» e «logico» che il mandante della tangente al giudice sia lui, ma santiddio oggi governa l’Italia, è ricco, potente, conduce la sua vita in modo corretto, come si fa a mandarlo a processo? Berlusconi potrebbe rinunciare alla prescrizione, affrontare il giudizio, dimostrare la sua estraneità, pretendere un’assoluzione piena o almeno testimoniare e dire perché ha offerto a Previti i milioni da cui attinge per pagare il mercimonio del giudice. Non lo fa, tace, si avvale della facoltà di non rispondere e il titolo indecoroso di «privato corruttore» gli resta appiccicato alla pelle.
Dunque, prima conclusione. La politica di ieri e di oggi non c’entra nulla se si esclude il salvataggio del premier, «privato corruttore». Bisogna riprendere il racconto da qui perché la favola dell’«aggressione politica al patrimonio» di Berlusconi si nutre di un sorprendente argomento: «Il processo non ha mai riguardato la Fininvest che si limitò a pagare compensi professionali a Previti».
Occorre allora mettere mano alle sentenze. C’è un giudice, Vittorio Metta, che già è stato corrotto da Previti per un altro affare (Imi-Sir). Viene designato come relatore dell’affare Mondadori. La designazione è pilotata con sapienza. Scrive le 167 pagine della sentenza in un solo giorno, ventiquattro ore, «record assoluto nella storia della magistratura italiana». In realtà, la sentenza è scritta altrove e da chi lo sa chi: «Da un terzo estraneo all’ambiente istituzionale», si legge nella sentenza di primo e secondo grado. Venti giorni dopo il deposito del verdetto (14 febbraio 1991), la Fininvest (attraverso All Iberian, il «gruppo B very discreet») bonifica a Cesare Previti quasi 2 milioni e 800 mila dollari (3 miliardi di lire). Su mandato di chi? Nell’interesse di chi? «La retribuzione del giudice corrotto è fatta nell’interesse e su incarico del corruttore» scrivono i giudici dell’Appello che condannano Cesare Previti non perché concorre al reato di Vittorio Metta (il giudice), ma perché complice del «privato corruttore» (Berlusconi). «E’ la Fininvest - conclude infine la Corte di Cassazione - la fonte della corruzione e pagatrice del pretium sceleris», del baratto che consente a Berlusconi da diciotto anni di avere nella sua disponibilità la Mondadori.
Rimettiamo allora in ordine quel si sa e ha avuto conferma nel lungo percorso processuale, in primo grado, in appello, in Cassazione. Berlusconi è un «privato corruttore». Incarica il socius Previti di corrompere il giudice che decide la sorte e la proprietà della casa editrice. Previti ha «stabilmente a libro paga» Vittorio Metta. Il giudice si fa addirittura scrivere la sentenza. Ottiene «almeno quattrocento milioni» da una "provvista" messa a disposizione dalla Fininvest che "incassa" in cambio la Mondadori.
Questi i nudi fatti che parlano soltanto di malaffare, corruzione, baratterie, di convenienze privatissime e non di politica e mai di interesse pubblico. Di politica parla oggi Berlusconi per salvare se stesso. Come sempre, vuole che sia la politica a tutelare business e patrimonio privati. Per farlo, non rinuncia - da capo del governo e «privato corruttore» - a lanciare una "campagna" che spaccherà in due - ancora una volta - un’opinione pubblica frastornata e disinformata. Berlusconi chiede un’altra offensiva di plagio mediatico con il canone orientale delle tv e dei giornali che controlla e influenza: non convincere, non confutare, screditare. Il premier giunge a minacciare le elezioni anticipate, come se il suo destino fosse il destino di tutti e l’opacità della sua fortuna una responsabilità collettiva.
Ripete la solita filastrocca che si vuole «manipolare con manovre di palazzo la vittoria elettorale del 2008 ed è ora che si cominci a esaminare l’opportunità di una grande manifestazione popolare». In piazza, metà del Paese. In difesa di che cosa? Si deve rispondere: in difesa della corruzione che ha consentito a Berlusconi la posizione dominante nell’informazione e nella pubblicità. E perché poi dovremmo tornare a votare? In difesa del suo portafoglio. L’Italia esiste, nelle intenzioni del capo del governo, soltanto se si mobilita a protezione delle fortune dell’uomo che la governa.
Letta sull’Osservatore «Profonda osmosi tra Chiesa e Stato» *
Tra Chiesa e Stato in Italia c’è una «profonda e feconda osmosi», «una situazione del tutto eccezionale» da cui l’Italia «sta imparando progressivamente a trarre la massima utilità»: lo scrive il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta, nella presentazione del libro «I viaggi di Benedetto XVI in Italia», curato da Pierluca Azzaro e pubblicato dalla Libreria editrice vaticana in collaborazione con l’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede, anticipata ieri dall’Osservatore romano. Ancora un articolo del gentiluomo di «Sua Santità» ospitato dal quotidiano della Santa Sede ricco di riconoscimenti verso il pontificato. «Oggi si può affermare con soddisfazione scrive Letta che nella città di Roma convivono pacificamente e collaborano fruttuosamente lo Stato Italiano e la Sede apostolica».