I sacrilegi delle mafie
Padrini e picciotti ostentano la loro devozione, che in realtà più che fede è superstizione. E quando i preti oppongono alla cultura omertosa la vera religione, sparano: da don Peppino Diana a don Puglisi
Il saggio di Alessandra Dino evidenzia il processo di maturazione della Chiesa nei confronti della mentalità mafiosa, verso un sempre maggior impegno nell’educazione dei giovani
di GOFFREDO FOFI (Avvenire, 15.11.2008)
La mafia devota* di Alessandra Dino, antropologa palermitana, è uno dei testi più significativi usciti sulla questione mafiosa (intendendo con mafia anche le associazioni criminali di altre regioni come camorra, ’ ndrangheta, Sacra corona unita).
Affrontando l’argomento da un punto di vista trascurato, procedendo a molte interviste con magistrati, preti, pentiti, vedendo della questione gli aspetti più specificamente religiosi ma anche collocandoli sullo sfondo di una più generale questione civile, la Dino aiuta a comprendere un ambiente, una cultura, distinguendo nettamente tra gli aspetti esteriori - quelli, diciamo, di una ritualità di facciata, che serve al mafioso per affermare il suo potere all’interno di una comunità, o quelli di una devozione deviata - e quelli più intimi del dilemma morale che può investire, come è ben noto o come si vorrebbe che fosse, anche il criminale più incallito.
Hanno sconcertato molti, le professioni e le espressioni di fede di alcuni noti mafiosi (per esempio Provenzano), e la “ lettura” dei comportamenti religiosi di altri - o di un pentitismo sulle cui motivazioni alcuni sacerdoti hanno espresso dei dubbi, perché spesso causato soltanto dall’interesse alla riduzione della pena e dunque moralmente inautentico.
Tra i preti che la Dino ha accostato ci sono quelli che sembrano partecipare (ma più ieri che oggi) di una cultura ambientale coinvolgente, quelli che molto più seriamente distinguono tra il ruolo della Chiesa e il ruolo dello Stato e rivendicano la netta differenza dello sguardo, della posizione, dei doveri nei confronti di chi pecca (e delinque), e quelli infine che insistono sulla “questione morale” vedendone gli aspetti più latamente etici, civili, sociali. Se di cultura-ambiente si tratta, è su questa che essi pensano di dover intervenire, e lo hanno fatto a volte (don Peppino Diana a Casal di Principe, don Puglisi a Palermo) lasciandoci la vita.
Oggi che molti libri (non ultimo Gomorra) hanno messo in rilievo la profondità dei legami e degli interessi mafiosi in settori molto importanti dell’economia e della finanza e ben oltre i territori tradizionali, in tutto il Paese e altrove, in Europa come in America; oggi che le classi dirigenti di molti Paesi (la stessa grande Russia) trattano con le mafie e se le fanno alleate, ovviamente a caro prezzo; oggi che il disordine morale della post-modernità abbassa enormemente il livello di difesa della morale dei singoli, occorrerebbe affrontare anche la questione mafiosa da presupposti assai vasti, che mettano in discussione l’intero assetto di società la cui prosperità deriva in parte dal crimine.
Se è vero che, secondo le stime, il Pil italiano è prodotto per il dieci-dodici per cento dall’economia criminale (e non vengono considerati in questi calcoli, per esempio, la produzione e lo smercio di armi) ne deriva che le risposte alle attività mafiose dovrebbero essere ben più radicali che quelle esclusivamente giudiziarie. E, di fatto, come si sconfiggono le mafie? Non credo, personalmente, che i “professionisti dell’antimafia” riescano sempre a incidere in profondità nel concreto delle culture mafiose, né che la denuncia sia di per sé sufficiente (in un Paese come il nostro dove la denuncia sembra spesso un’arte e un mestiere, una retorica e un alibi: milioni di denunce giornalistiche, cinematografiche, letterarie, ma anche di buona propaganda sul territorio, hanno cambiato relativamente poco, anche se hanno costretto le mafie a inventare nuovi modi di agire).
La risposta viene da molte delle interviste e delle considerazioni che ne ricava la Dino, e sintetizzando si può dire che sono tre i modi necessari: l’intervento nell’economia, che è il fondamentale perché se non cambia l’economia non scema il potere che le organizzazioni mafiose possono avere su un ambiente sociale, l’attrazione che possono esercitare sui più deboli - per esempio i giovani, i precari, i disoccupati; quello giudiziario, del rispetto delle leggi, il cui vero limite consiste nella constatazione che le leggi non tutti le rispettano, nelle nostre classi dirigenti; e infine l’educazione, l’intervento assiduo e radicato in un territorio soprattutto nei confronti dei più giovani, per allargare la loro visione e dar loro solide fondamenta etiche. È in questo settore, dice la Dino, che la Chiesa può intervenire con efficacia, oltre che sul terreno che le è proprio della cura delle anime.
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ALESSANDRA DINO.
LA MAFIA DEVOTA. Chiesa, Religione, Cosa nostra
Laterza, Pagine, 302, Euro 16.00
Sul tema, nel sito, si cfr.:
’NDRANGHETA. SIGNIFICATO DELLA PAROLA
Scheda editoriale
Alessandra Dino
La mafia devota
Chiesa, religione, Cosa Nostra *
In breve
Esiste un Dio dei mafiosi? Qual è il rapporto tra gli uomini d’onore e la religione? Fin dalle origini, la mafia ha attinto alla simbologia cattolica per rinsaldare i legami tra i suoi associati e attribuire dignità alle proprie azioni, creando una ‘religione capovolta’ a propria misura, cercando compiacenza e complicità tra i ministri del culto.
L’assassinio per mano mafiosa di padre Pino Puglisi giunge al termine di un lento e difficile processo di maturazione che ha portato le gerarchie ecclesiastiche a una più critica sensibilità verso le ragioni della legalità.
Resiste ancora oggi, tuttavia, una Chiesa dalle molte anime, in cui l’opera dei sacerdoti impegnati a diffondere sul territorio una pastorale antimafiosa si scontra spesso con l’atteggiamento di condiscendenza che altri religiosi mostrano per le ragioni del popolo di Cosa Nostra. Una Chiesa divisa, dunque, da cui il sistema di potere mafioso tenta di ricavare il massimo profitto in termini di strumentale legittimazione. In questo libro Alessandra Dino racconta una storia difficile.
Attingendo ad articoli di cronaca, saggi, documenti giudiziari e parlamentari, fino ai risultati di una ricerca empirica condotta su un campione significativo di parroci siciliani, le sue pagine sondano, scavano e fotografano, interpretano scenari complessi che non si lasciano liquidare entro schemi monolitici: non esiste una sola mafia, come non esiste una sola Chiesa.
Indice
Prologo All’ombra del monte Grifone
1. Feste, processioni e labari
2. Riti di passaggio
3. Funerali e matrimoni
4. Le voci di dentro
5. Confessione e pentimento
6. La pastorale che divide
7. Prove di trattativa
8. Luoghi di confine: le apologetiche sulla mafia
Epilogo
Nota dell’Autrice
Ringraziamenti
Note
Fonti
Indice dei nomi
LA FAMIGLIA!? MA QUALE FAMIGLIA - QUELLA DI GESU’ (Maria - e Giuseppe!!!) O QUELLA DI EDIPO (Laio e Giocasta)?!
Le parole sbagliate di Saviano.
Non si sconfigge la mafia calunniando la famiglia
di Maurizio Patriciello (Avvenire, mercoledì 11 agosto 2021)
Maria Licciardi, chi è costei? Roberto Saviano, in un articolo apparso sul ’Corriere della Sera’, la fa conoscere anche a chi di malavita organizzata non s’interessa troppo. Licciardi, infatti, è una boss della camorra napoletana. Una criminale «più pericolosa di Matteo Messina Denaro», la descrive Giuseppe Misso, collaboratore di giustizia.
Una donna intelligente, scaltra, sanguinaria, che insieme ai fratelli ha sparso terrore e sangue. Arrestata, scarcerata, latitante, riacciuffata pochi giorni fa. Una storia squallida la sua, come quella di tutti gli affiliati. Una vita passata ad arraffare e accumulare illecitamente tanto denaro di cui mai potrà goderne. Giornate vissute tra rabbia, odi, ipocrisie, menzogne, incubi di finire al 41bis o di essere ammazzata. Una vita sprecata, quella di Maria. Saviano scende nei dettagli e di lei ci fa conoscere parentele, amicizie, inimicizie, alleanze e tante altre noiosissime cose. Dico noiosissime perché, in fondo, le dinamiche della camorra sono sempre le stesse. Si fanno accordi, si litiga, si tradisce, ci si ’scinde’, si uccide, si viene uccisi.
Le alleanze si disfano, gli amici diventano nemici, i capi invecchiano, i giovani come puledri scalciano. E iniziano le guerre. Guerre intestine che sovente sono note solo agli adepti e agli inquirenti; altre volte, invece, esplodono all’esterno e coinvolgono tutto e tutti. Un uragano. Sono quelli i momenti in cui la camorra si fa più violenta ma anche più stupida e fragile. Alla base di tutto ci sono la bramosia per il denaro e per il potere. I camorristi ne vanno pazzi. Li cercano, li vogliono, li bramano. E quando li hanno ottenuti precipitano in quel delirio di onnipotenza che si rivelerà il loro tallone di Achille. Denaro e potere, come due vecchi compari ubriachi, si tengono per mano, barcollano, si abbracciano, si sorreggono. Stanno o cadono insieme. L’uno è causa ed effetto dell’altro. Le mafie sono uno dei cancri - non il solo - della nostra società.
A Saviano va la nostra riconoscenza per il lavoro svolto in questo campo. Un articolo, dunque, su Maria Licciardi e la sua famiglia di sangue e di violenza. Ma, ecco che, con un inaspettato colpo di coda, lo scrittore smette i panni del giornalista e indossa quelli dell’ideologo:
Si rimane basiti. È partito dall’arresto di una nota criminale per sferrare un attacco alla famiglia? È proprio vero, la lingua batte dove il dente duole. Converrebbe ricordare, tra l’altro, che se le mafie si sono arricchite a dismisura con il traffico di droghe e di donne destinate al mercato della prostituzione è perché milioni di persone ’perbene’ fanno uso delle une e delle altre. Se non si riesce a estirpare il cancro maledetto delle mafie è perché l’asfissiante abbraccio mortale con i colletti bianchi e i danarosi moralmente miseri non è mai venuto meno. Certo, tutto si può regolamentare. Potremmo esporre in vetrine le prostitute come in Paesi definiti ’più avanzati’ e rendere legali le droghe, ma non avremmo risolto il problema.
Ben altra chiusura meritava quell’articolo. Meglio, a riguardo, rifarsi ai libri di Isaia Sales e di tanti altri scrittori che hanno affrontato la questione. Conoscendo, purtroppo, la simpatia di Saviano per l’utero in affitto - obbrobrio tra i più odiosi che si consuma, ancora una volta, soprattutto sulla pelle delle donne povere e dei bambini venduti e comprati come merce - mi domando se alludesse a questo lo scrittore quando parla di «nuove dinamiche in cui crescere vite».
Ci vuole davvero una grande dose d’ingenuità - ingenuità che chi ha imparato a conoscere il cuore dell’uomo non possiede - per credere che con il lucroso commercio delle industrie dei bambini ’fabbricati’, e offerti a facoltosi acquirenti, le mafie sarebbero sconfitte. Per illudersi che la bramosia per il denaro e per il potere sarebbero spente. Per pensare che i cuori degli uomini sarebbero purificati come per incanto.
A supporto della sua tesi, Saviano, chiama Andrè Gide: «Famiglie! Focolari chiusi; porte serrate; geloso possesso della felicità, vi detesto». Che dire? Gide e Saviano detestano la famiglia. Lo abbiamo capito e ce ne dispiace. Fatti loro, verrebbe da dire. A ognuno le sue esperienze, i suoi affetti, le sue idee. A nessuno però è concesso di calunniare la famiglia - le nostre famiglie! - che nonostante i limiti di ogni realtà umana, resta la prima fonte di vita, di relazioni, di crescita umana e spirituale per ogni essere umano.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"TEBE": IN VATICANO NON C’E’ SOLO LA "SFINGE" - C’E’ LA "PESTE"!!! Caro Benedetto XVI ... DIFENDIAMO LA FAMIGLIA!? MA QUALE FAMIGLIA - QUELLA DI GESU’ (Maria - e Giuseppe!!!) O QUELLA DI EDIPO (Laio e Giocasta)?!
DIO: GESU’ E MARIA. E GIUSEPPE, DOV’E’?!! L’inutile strage (Benedetto XV, 1917) ... e il ’vicolo cieco’ del cattolicesimo-romano del 2006 d. C !!! Caro Benedetto XVI ... Pirandello (1918) aspetta ancora una risposta!!!
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Un uomo che non ha avuto una vita.
La domanda che conta: dov’è adesso Riina?
di Ferdinando Camon (Avvenire, sabato 18 novembre 2017)
Nessun giornale che si faccia la domanda ovvia, inevitabile, l’unica che abbia un senso in questo momento: e adesso dov’è Salvatore Riina? Che ne è di lui? Ha giocato a fare l’invincibile con la giustizia terrena, nei colloqui che credeva segreti diceva alla moglie: «Non mi piegheranno mai, possono anche darmi tremila anni di ergastolo, non mi piegherò».
Voleva uscire dalla vita come un vincitore. Lo diceva sempre nei colloqui segreti (che invece eran registrati), a un figlio: «Tu hai un padre invincibile». Invincibile vuol dire due cose: 1) che ha vinto, 2) che nessuno gli strapperà la vittoria.
Ma la vita che aveva vissuto fino all’arresto era una vittoria? S’era sposato, ma di nascosto. Che matrimonio è? Viveva, ma sotto falso nome. Che vita è? Con i figli parlava di sciocchezze, anche quando la tv mostrava le sue stragi. È parlare, questo? Se la città o la regione è scossa da una tragedia, parlare a tavola con moglie e figli di sciocchezzuole vuol dire portare moglie e figli fuori dal mondo, in un altro mondo, che non è quello dell’umanità, vivere in un mondo che non c’è, chiudersi in un delirio. È vita, questa? È una famiglia, questa? È un padre, questo?
L’ultima domanda la pongo perché il figlio Salvo dichiara a voce e scrive su Facebook: «Per me non sei niente di quel che dicono, per me sei soltanto mio padre». Salvo ha vissuto nella mia città, era molto discreto e nascosto, ha scritto anche un libro, l’ho letto, e m’ha inquietato. Perché parla di tutto, tranne che della realtà. È come se la realtà non esistesse. Ha reazioni che nessuno di noi avrebbe.
Chi di noi, se avesse il padre che vien portato via dalla polizia e finisce in un carcere duro, andandolo a trovare e vedendolo di là dal vetro, non gli chiederebbe: «Papà, perché sei qui? Cos’hai combinato?». Questa domanda il figlio, i figli di Salvatore Riina al padre non la pongono mai. Gli esperti di mafia spiegano che questa è la mafia, questo è lo spirito mafioso.
Ma se questo è il rapporto tra padre e figlio, il padre che impone questo rapporto non è un padre. Un padre è per definizione colui che consegna il mondo al figlio e il figlio al mondo. In questo modo, crea nel figlio il proprio continuatore. Quando morirà, la sua opera continuerà, e questo è bene per l’umanità, è per questo che la nascita di un figlio è considerata un lieto evento.
Ma un padre mafioso, che continua a essere mafioso anche in carcere, anche nel carcere duro, anche nelle malattie più gravi, anche prima di un intervento chirurgico rischioso, anche quando riemerge dall’incoscienza dell’anestesia, un padre che è mafioso sempre e comunque, anzi il capo dei capi della mafia, non consegna ma nega il mondo ai figli, gli dà un anti-mondo, senza scuola, senza libere amicizie, senza cognome e quindi senza identità, un mondo costruito a parte, un para-mondo, una paranoia.
C’è vita, nella paranoia? C’è potere? Sappiamo di un altro boss mafioso che ordinava malaffari, aveva i suoi scagnozzi che obbedivano, ma lui viveva alla macchia in un casolare diroccato e disperso, da solo, su una branda con una coperta, ma senza lenzuola, e mangiava formaggi che un pastore gli buttava su una ciotola accanto alla porta. I poliziotti che osservavano il casolare da lontano col binocolo una mattina videro spuntare dalla porta una mano e afferrare dalla ciotola una mozzarella. Era la mano del boss. Era straricco e manovrava milioni, ma viveva come un animale selvaggio. È potere, questo? È il potere dell’altro mondo, dell’anti-mondo, del mondo del male.
Chiuso nel suo antimondo, Riina si teneva dentro un sacco di segreti. Lui sapeva, delle stragi, tante cose che noi non sappiamo. Sapere quelle cose ci aiuterebbe a fare giustizia e migliorerebbe la nostra vita. Non rivelandole Riina ha peggiorato la propria morte. C’è un tempo che non conosciamo della sua morte, ed è il tempo della sua noncomunicazione con noi, alla riemersione dai pesanti interventi chirurgici. Anche se avesse voluto, non avrebbe più potuto dirci nulla. Ma spero che abbia voluto. Non per noi, ma per lui. La vita è questa coscienza. Riina è nato ed è morto, ma non ha avuto una vita.
Papa: sono le donne che trasmettono la fede
E’ "la strada scelta da Gesù", che ha voluto avere una madre. "Tutti noi abbiamo ricevuto il dono della fede. Dobbiamo custodirlo". Contrastano la "fede viva" due cose: "lo spirito di timidezza e la vergogna". . "Chiediamo al Signore la grazia di avere una fede schietta, una fede che non si negozia secondo le opportunità che vengono.
Città del Vaticano (AsiaNews) - Sono principalmente le donne a trasmettere la fede. "perché quella che ci ha portato Gesù è una donna. E’ la strada scelta da Gesù". L’ha detto papa Francesco nell’omelia della messa celebrata oggi a Casa santa Marta, commentando la seconda Lettera di San Paolo a Timoteo, nella quale l’Apostolo ricorda a Timoteo da dove viene la sua "schietta fede": l’ha ricevuta dallo Spirito Santo "tramite la mamma e la nonna". Sta a noi, poi, custodirla e ravvivarla.
"Sono le mamme, le nonne" - ha sottolineato il Papa - che trasmettono la fede. "Una cosa - ha aggiunto - è trasmettere la fede e altra cosa è insegnare le cose della fede. La fede è un dono. La fede non si può studiare. Si studiano le cose della fede, sì, per capirla meglio, ma con lo studio mai tu arrivi alla fede. La fede è un dono dello Spirito Santo, è un regalo, che va oltre ogni preparazione". Ed è un regalo che passa attraverso il "bel lavoro delle mamme e delle nonne, il bel lavoro di quelle donne" in una famiglia, "può essere anche una domestica, può essere una zia", che trasmettono la fede:
"Mi viene in mente: ma perché sono principalmente le donne a trasmettere la fede? Semplicemente perché quella che ci ha portato Gesù è una donna. E’ la strada scelta da Gesù. Lui ha voluto avere una madre: anche il dono della fede passa per le donne, come Gesù per Maria". "E dobbiamo pensare oggi se le donne ... hanno questa coscienza del dovere di trasmettere la fede". Paolo invita poi Timoteo a custodire la fede, il deposito, evitando "le vuote chiacchiere pagane, le vuote chiacchiere mondane". "Tutti noi abbiamo ricevuto il dono della fede. Dobbiamo custodirlo, perché almeno non si annacqui, perché continui a essere forte con la potenza dello Spirito Santo che ce lo ha regalato". E la fede si custodisce ravvivando questo dono di Dio:
"Se noi non abbiamo questa cura, ogni giorno, di ravvivare questo regalo di Dio che è la fede, ma la fede si indebolisce, si annacqua, finisce per essere una cultura: ’Sì, ma, sì, sì, sono cristiano, sì, sì...’, una cultura, soltanto. O una gnosi, una conoscenza: ’Sì, io conosco bene tutte le cose della fede, conosco bene il catechismo’. Ma come tu vivi la tua fede? E questa è l’importanza di ravvivare ogni giorno questo dono, questo regalo: di farlo vivo".
Contrastano "questa fede viva" - dice San Paolo - due cose: "lo spirito di timidezza e la vergogna". "Dio non ci ha dato uno spirito di timidezza. Lo spirito di timidezza va contro il dono della fede, non lascia che cresca, che vada avanti, che sia grande. E la vergogna è quel peccato: ’Sì, ho la fede, ma la copro, che non si veda tanto...’. E’ un po’ di qua, un po’ di là: quella fede, come dicono i nostri antenati, all’acqua di rose, così. Perché mi vergogno di viverla fortemente. No. Questa non è la fede: né timidezza, né vergogna. Ma cosa è? E’ uno spirito di forza, di carità e di prudenza. Questa è la fede".
Lo spirito di prudenza è "sapere che noi non possiamo fare tutto quello che vogliamo", significa cercare "le strade, il cammino, le maniere" per portare avanti la fede, ma con prudenza. "Chiediamo al Signore la grazia - ha concluso il Papa - di avere una fede schietta, una fede che non si negozia secondo le opportunità che vengono. Una fede che ogni giorno cerco di ravvivarla o almeno chiedo allo Spirito Santo che la ravvivi e così dia un frutto grande".
Società
La mamma, Dio e la nonviolenza
di Monica Lanfranco (Il Fatto, 18 gennaio 2015)
Avevamo bisogno, dopo il bagno di sangue e le puntualizzazioni su chi è o non è Charlie, dell’esternazione del Papa circa l’onore della mamma da difendere?
No, purtroppo. Pur sapendo che ogni evento, notizia ed emozione viene triturata nella turbina social che nulla sedimenta qualche pulviscolo resta impresso, e il pugno papale è memorabile, quindi doppiamente dannoso.
Usando l’ottimo stile comunicatore tanto caro a Berlusconi e a Renzi (la scanzonata mescolanza di pop e friendly, con selfie, corna, barzellette e frasi a effetto) il campione della fede Papa Francesco smentisce la sobrietà manifestata nella scelta del suo nome e mette ko qualche decennio di faticosa costruzione di pratiche politiche collettive nonviolente e antisessiste.
Proprio lui che, pochi mesi fa, sull’omosessualità affermava ‘chi sono io per giudicare’, oggi sostiene che chi insulta la mamma si deve aspettare un pugno. Seguono interpretazioni della sottile metafora da parte di autorevoli uomini: Eugenio Scalfari scrive che non si può chiedere al Papa di essere volterriano, visto che la ‘mamma’ di Bergoglio è la chiesa cattolica, e Moni Ovadia trova l’esternazione lungimirante, plaudendone l’iniziativa, perché manda un messaggio di forza della comunità dei credenti cattolici, pronti anche loro a difendere la chiesa così come gli islamici han dimostrato di difendere la loro fede. Si profila dunque l’annuncio di una simpatica nuova crociata che, date le premesse, sarà la fine della vita sulla terra nel nome di una entità (dio) che non ha ancora manifestato la sua esistenza. Non era meglio morire nel nome di qualcosa di più sostanzioso? Pubblicità
Qui e ora, in attesa di sviluppi io, modestamente donna, madre e attivista nonviolenza e femminista, trovo che la frase così lungimirante mi scaraventi in un angolo per tre volte: come attivista, come donna e come madre.
I pugni non sono simboli, sono carne e ossa contro altra carne e ossa, chi ne ha fatto esperienza lo sa, e con buona pace dell’epos letterario che racconta di amicizie virili cementate dai cazzotti essi restano un gesto d’aggressione e di violenza, che raramente non ha conseguenze.
Nelle scuole in cui vado a fare formazione sulla violenza di genere affronto ogni volta la semplificazione da parte dei ragazzi e delle ragazze verso lo schiaffo, la spinta, il pugno, gesti spesso vissuti come ‘inevitabili’, ‘naturali’, giustificati dalla gelosia e dalla necessità di far rispettare onore, gerarchia, proprietà: lei guardava un altro, lui guardava un’altra, lei è mia, lui è mio, che hai da guardare, che cosa hai detto di mia sorella, di mia madre, della mia ragazza?
Clima da rissa, da stadio, da caserma, (ma siamo a scuola) inarginabile facendo sottili distinguo: un pugno non è peggio di uno schiaffo, di una spinta.
Le mani o si alzano o si tengono abbassate: la bella campagna di Intervita lo dice con efficacia, ma evidentemente al Papa è sfuggita. Dietro e prima del pugno c’è la visione delle donne come esseri da difendere, ma solo se e quando sono in una relazione di proprietà: non è forse vero che tutte le donne sono puttane, tranne mia madre e mia sorella? Eccolo il desolante riassunto dell’ancestrale, brutale logica (e pratica) del patriarcato globale, che spesso risuona nei nostri cortili con i proclami pro famiglia della subcultura leghista e fascista (donne e buoi dei paesi tuoi, un orrore senza fine).
Sono atea, e credo con passione che alla violenza di qualunque tipo si debba opporre altro, diametralmente lontano da ogni eco di aggressione.
Non possiamo smantellare la casa del padrone con gli attrezzi del padrone, scrive Audre Lorde. O s’insegna in famiglia, scuola, chiesa e dopolavoro una cultura del rispetto, del ripudio della violenza (dalle parole ai gesti), o presto si arriva a superare quella soglia, quel limite, che trasforma il faticoso ma fecondo terreno del conflitto nella rapida e mortale guerra.
Guerra tra le persone, le comunità, i popoli, il mondo. E’ una certezza, oggi: dal pugno alla guerra santa il passo non è lungo.
I pugni, Francesco e tutti gli altri, imparate a tenerli in tasca.
La fede criminale
GLI affiliati alle ‘ndrine rinchiusi nel carcere di Larino hanno deciso di non partecipare più alla messa. Da settimane attuano una sorta di sciopero religioso.
DOPO la scomunica pronunciata da Papa Francesco per i detenuti è inutile - hanno detto al cappellano don Marco - andare a messa - È inutile quando si è stati esclusi dai sacramenti.
di Roberto Saviano (la Repubblica, 07.07.2014)
L’anatema di Bergoglio è giunto potente e inaspettato nelle carceri che ospitano gli uomini di ‘ndrangheta. Gran parte del mondo ha interpretato la scomunica come una mossa teologica, un’operazione morale fatta più per principio che per reale contrasto alle organizzazioni criminali. Un gesto morale considerato importante per dare una nuova direzione alla Chiesa ma che difficilmente avrebbe potuto incidere nei comportamenti dei padrini, degli affiliati, dalla manovalanza mafiosa. Quale danno avrebbe mai recato ad un boss una condanna metafisica che non ha manette, non ha sequestri di beni, non ha ergastoli ma che semplicemente esclude spiritualmente dalla comunità cristiana e dai suoi sacramenti?
Da queste domande era nata la diffidenza di molti che temevano che la presa di posizione del Papa contro i clan fosse inutile. Un gesto bello, nobile, ma innocuo. Ma non è così e la “protesta” dei duecento detenuti affiliati lo dimostra. Intanto è una prima volta, un unico nella storia criminale e non è affatto quello che potrebbe sembrare ad una prima lettura: ossia una semplice conseguenza della scomunica.
Quando si tratta di organizzazioni mafiose ogni azione, ogni parola, ogni gesto non può esser letto nel suo significato più semplice e elementare. Dev’essere inserito nella complessa grammatica simbolica che è la comunicazione dei clan. Questo sciopero della messa non parla ai preti, non parla alla direttrice del carcere, non parla nemmeno al Papa. Questo sciopero non dice: «Il Papa ci ha tolto la patente di cristiani, non possiamo più battere le strade della messa e della comunione ». Perché questo è falso.
Papa Francesco nel suo viaggio in Calabria ha fatto un gesto comunicativamente geniale, è andato a trovare i detenuti nel carcere di Castrovillari e ha detto loro «anche io sbaglio, anche io ho bisogno di perdono»: è in questa frase la vera forza della sua dichiarazione di scomunica. Non è contro l’uomo che in carcere appartiene all’organizzazione ma contro l’organizzazione. La scomunica non è all’assassino, all’estorsore, all’affiliato, al sindaco corrotto, al giudice compromesso, al boss, la scomunica è contro chi continua a sostenere l’organizzazione. La scomunica è all’assassinio, all’estorsione, alla tangente, alla corruzione quindi alla prassi mafiosa.
Quella degli affiliati non è quindi una sorta di protesta contro una Chiesa che ha abbandonato in contraddizione con il vangelo («ero carcerato e siete venuti a trovarmi») il conforto ai detenuti. È un manifesto. È una dichiarazione di obbedienza alla ‘ndrangheta, la riconferma del giuramento di fedeltà alla Santa. Questo sciopero è un gesto che deve arrivare all’organizzazione stessa. La scelta di andare a messa nonostante la scomunica avrebbe potuto far apparire gli affiliati sulla strada del tradimento, alla ricerca di quel nuovo percorso di pentimento che Francesco gli ha indicato.
Sottolineano: siamo scomunicati perché ‘ndranghetisti, e nessuna occasione simbolica è lasciata sfuggire dagli uomini dei clan per ribadire soprattutto dalle segrete di un carcere la loro fedeltà. Si sciopera contro la messa in questo caso per dichiararsi ancora uomini d’onore e non lasciare alcun sospetto di allontanamento dalle regole dell’Onorata Società. Quando ci si affilia la “santina” di San Michele Arcangelo viene fatta bruciare tra le mani unite e aperte a forma coppa e le parole pronunciate sono definitive: «In nome di nostro Signore Gesù Cristo giuro dinanzi a questa società di essere fedele con i miei compagni e di rinnegare padre, madre, sorelle e fratelli e se necessario, anche il mio stesso sangue».
La scomunica di Papa Francesco sta diventando un meccanismo in grado di alzare come un grimaldello le inaccessibili blindate che isolano i codici mafiosi dal resto della società civile. Bisogna insistere e agire, isolare quelle parti di chiesa saldate alla cultura mafiosa che ancora resistono, come dimostra quel che è accaduto sempre ieri a Oppido Mamertina, in Calabria, dove la processione ha reso l’omaggio alla casa di don Giuseppe Mazzagatti. Un “inchino” dovuto per non alterare un vecchio boss che ancora tiene (rispetto alle giovani generazioni) al vecchio rito e che - come in molti hanno lasciato trapelare - da decenni finanzia feste patronali e iniziative religiose nel suo territorio.
Nell’Italia della crisi i simboli contano come reale e spessa sostanza, non sono un orpello di facciata. Alla scomunica religiosa deve seguire una scomunica civile assoluta, che permetta l’esclusione del meccanismo mafioso dalle dinamiche quotidiane, economiche, sociali. Un’esclusione vera, radicale, definitiva.
I preti e i boss
di Roberto Saviano (la Repubblica, 22 marzo 2014)
Le parole pronunciate dal Papa sono parole definitive. Tuonano forti non a San Pietro dove saranno risultate naturali, persino ovvie. Tuonano epocali a Locri, Casal di Principe, Natile di Careri, San Luca, Secondigliano, Gela.
E in quelle terre dove l’azione mafiosa si è sempre accompagnata ad atteggiamenti religiosi ostentati in pubblico. Chi non conosce i rapporti tra cosche e Chiesa potrà credere che sia evidente la contraddizione tra la parola di Cristo e il potere mafioso. Non è così. Per i capi delle organizzazioni criminali il loro comportamento è cristiano e cristiana è l’azione degli affiliati. In nome di Cristo e della Madonna si svolge la loro vita e la Santa Romana Chiesa è il riferimento dell’organizzazione.
Per quanto assurdo possa apparire il boss - come mi è capitato di scrivere già diverse volte - considera la propria azione paragonabile al calvario di Cristo, perché assume sulla propria coscienza il dolore e la colpa del peccato per il benessere degli uomini su cui comanda. Il “bene” è ottenuto quando le decisioni del boss sono a vantaggio di tutti gli affiliati del territorio su cui comanda. Il potere è espressione di un ordine provvidenziale: anche uccidere diventa un atto giusto e necessario, che Dio perdonerà, se la vittima metteva a rischio la tranquillità, la pace, la sicurezza della “famiglia”.
C’è tutta una ritualità distorta di provenienza religiosa che regola la cultura delle cosche. L’affiliazione alla ‘ndrangheta avviene attraverso la “santina”, l’effigie di un santo su carta, con una preghiera. San Michele Arcangelo è il santo che protegge le ‘ndrine: sulla sua figura si fa colare il sangue dell’affiliato nel rito dell’iniziazione. Padre Pio è il santo la cui icona è in ogni cella di camorrista, in ogni casa di camorrista, in ogni portafoglio di affiliato.
Nicola, ex appartenente al clan Cesarano ha raccontato: “Mi sono salvato una volta, quando ero giovane, perché un proiettile è stato deviato. I medici mi hanno detto che è stata una costola a evitare che il colpo fosse mortale. Ma io non ci credo. Quello che mi ha sparato mi ha sparato al cuore, non è stata la costola, è stata la Madonna”.
La Madonna, oggetto di preghiere: è a lei che ci si rivolge per sovrintendere gli omicidi. In quanto donna e madre di Cristo sopporta il dolore del sangue e perdona. Rosetta Cutolo veniva trovata in chiesa nelle ore delle mattanze ordinate da don Raffaele: pregava la Madonna di intercedere presso Cristo per far comprendere che la condanna a morte e la violenza era necessaria.
A Pignataro Maggiore esiste “la madonna della camorra” che il defunto boss Raffaele Lubrano ucciso in un agguato nel 2002, fece restaurare a sue spese, nella sala Moscati attigua alla chiesa madre. Anche Giovanni Paolo II aveva pronunciato - il 9 maggio del 1993 ad Agrigento - un attacco durissimo alla mafia: “convertitevi una volta verrà il giudizio di Dio”. Due mesi dopo i corleonesi misero una bomba a San Giovanni in Laterano.
Ma Francesco I non parla solo a chi spara: ha abbracciato i parenti delle vittime della mafia, ha abbracciato don Luigi Ciotti, un sacerdote che non era mai stato accolto da un pontefice in Vaticano e con Libera è diventato l’emblema di una chiesa di strada, che si impegna contro il potere criminale. La chiesa di don Diana, che fu lasciato solo a combattere la sua battaglia.
Oggi Francesco invita a stare a fianco dei don Diana. Le sue parole rompono l’ambiguità in cui vivono quelle parti di chiesa che da sempre fanno finta di non vedere, che sono accondiscendenti verso le mafie, e che si giustificano in nome di una “vicinanza alle anime perdute”.
Gli affiliati non temono l’inferno promesso dal Papa: lo conoscono in vita. Temono invece una chiesa che diventa prassi antimafiosa. Le parole di Francesco I potranno cambiare qualcosa davvero se la borghesia mafiosa sarà messa in crisi da questa presa di posizione, se l’opera pastorale della chiesa davvero inizierà a isolare il danaro criminale, il potere politico condizionato dai loro voti. Insomma se tutta la chiesa - e non solo pochi coraggiosi sacerdoti - sarà davvero parte attiva nella lotta ai capitali criminali. Dopo queste parole o sarà così o non sarà più Chiesa.
Ma la Mafia non è un film di gangster
di Gian Carlo Caselli (il Fatto, 13.03.2012)
Un classico. Finché i magistrati si occupano di Riina e soci (cioè dell’ala militare, indifendibile della mafia) tutto bene. Ma non appena ci si affaccia al livello delle possibili complicità con politici, imprenditori, medici e professionisti vari (le cosiddette “relazioni esterne”) , la musica cambia. In un attimo ci si dimentica che la vera forza della mafia non è la sua struttura gangsteristica. Il suo autentico potere sta altrove, nelle complicità, collusioni e coperture. Non indagare anche su questo versante significa fare antimafia solo a metà, rinunziando alla possibilità stessa di vincere davvero la guerra alla mafia. E l’unico strumento investigativo-giudiziario che consente di intervenire anche su questo versante è il “concorso esterno”, che si concreta quando taluno concorre - appunto - ad attività del sodalizio criminale senza farne parte come affiliato.
SENONCHÉ, chi fa antimafia utilizzando anche questo decisivo strumento deve mettere in conto che si attirerà robuste antipatie. L’ex premier Berlusconi, al riguardo, è stato un precursore, quando nell’intervista al periodico inglese Spectator e alla Gazzetta di Rimini dell’11.9.03 ha sostenuto che “a Palermo la nostra magistratura comunista, di sinistra, ha creato un reato, un tipo di delitto che non è nel codice; è il concorso esterno in associazione mafiosa”. Questo concetto è stato poi ripetuto da una schiera di epigoni del “leader” e ha finito per diventare un ritornello della canzone sui teoremi giudiziari. Per cui, sostenendo - nella requisitoria sul caso Dell’Utri - che al “concorso esterno ” (se sono precise le cronache giornalistiche) ormai non crede più nessuno, il sostituto procuratore generale della Cassazione Iacoviello forse pensava di dire una cosa originale, mentre si è trattato della replica (magari inconsapevole) di un film già visto.
Un film, in verità, piuttosto surreale, perché tutti gli studiosi concordano con le parole della sociologa palermitana Alessandra Dino, secondo cui la mafia costituisce “un network potente e articolato, che comprende esponenti del mondo della politica, dell’economia e delle professioni”. Un riscontro alla teoria dello storico Salvatore Lupo, per il quale c’è una “richiesta di mafia” non solo in settori della società civile, ma anche dell’imprenditoria, della politica, del sistema economico-finanziario e di certi poteri costituiti. “Richiesta” o meno, chiunque studi l’evoluzione delle mafie constata che per realizzare i loro affari esse hanno bisogno di commercialisti, immobiliaristi, operatori finanziari e bancari, amministratori e politici, notai e giuristi. Un intreccio perverso che costituisce la spina dorsale del potere mafioso e che si può contrastare - ripeto - soltanto con la figura del “concorso esterno”.
Sul piano processuale, non occorrono chissà quali studi per sapere che questa figura risale addirittura al 1875, come provano le sentenze della magistratura palermitana sul brigantaggio - e che essa fu poi impiegata nei processi per terrorismo (Brigate rosse e Prima linea) e in quelli di mafia - finché la sua legittimità è stata ripetutamente riconosciuta dalla Corte di cassazione, che ha anche stabilito rigorosi paletti garantisti.
MA A SPAZZARE via ogni dubbio ci ha pensato il pool di Falcone e Borsellino, vale a dire il massimo dei massimi in tema di contrasto della mafia, sostenendo (pag. 429 dell’ordinanza/sentenza 17 luglio 1987 conclusiva del maxi-ter) che: “Manifestazioni di connivenza e di collusione da parte di persone inserite nelle pubbliche istituzioni possono - eventualmente - realizzare condotte di fiancheggiamento del potere mafioso, tanto più pericolose quanto più subdole e striscianti, sussumibili - a titolo concorsuale - nel delitto di associazione mafiosa. Ed è proprio questa ‘convergenza di interessi’ col potere mafioso... che costituisce una delle cause maggiormente rilevanti della crescita di Cosa Nostra e della sua natura di contropotere, nonché, correlativamente, delle difficoltà incontrate nel reprimerne le manifestazioni criminali”.
A fronte di queste parole, ogni eventuale tentazione di riconoscere solo in teoria la pericolosità della mafia nelle sue connessioni col potere politico ed economico, per poi - nel momento di passare all’azione - limitarsi a colpirne l’ala militare, va contestata con fermezza. Anche a rischio di essere considerati come eretici o marziani. In un mondo in cui aliena - rispetto alla società - finirebbe così per diventare non la mafia, ma piuttosto l’antimafia.
LA CHIESA, LA MAFIA, LA ZONA GRIGIA
di Raffaello Saffioti
DALLA CALABRIA UN CONTRIBUTO ALL’INCONTRO DI ROMA SUL TEMA: “SOTTO LE DUE CUPOLE. CHIESA, RELIGIONE, MAFIA” *
L’incontro che avrà luogo a Roma col titolo “Sotto le due Cupole. Chiesa, religione, mafia” mi dà l’occasione per richiamare e sviluppare il mio recente documento “Le feste religiose nel Sud. Palmi, San Rocco, la Varia. E la chiamano fede”, pubblicato sul sito del periodico “Il dialogo” (www.ildialogo.org) e su quello delle Comunità Cristiane di Base (www.cdb.it).
In quel documento ho esaminato due feste religiose di Palmi, in Calabria, che registrano una straordinaria partecipazione popolare, e manifestano la devozione della città a San Rocco e alla Madonna. Mi sono chiesto quanto queste feste siano segno di autentica fede religiosa, ponendomi dal punto di vista biblico, proponendo una scelta di testi dell’Antico e Nuovo Testamento.
Chiedevo: Palmi, città cattolica? E notavo che di fronte al fenomeno mafioso la città “non vede, non sente, non parla”.
Due anni fa, in occasione del trasferimento del Vescovo Giancarlo Bregantini dalla diocesi di Locri-Gerace alla diocesi di Campobasso, avevo pubblicato un documento col titolo “La Chiesa, il potere, la mafia. Quando il Pastore lascia il suo gregge: il ‘caso’ Bregantini” (www.peacelink.it).
Scrivevo:
“Per chi vive lontano dalla Calabria è difficile capire a fondo come si vive in questa regione, capire pure come funziona il sistema di potere clientelare-mafioso e il ruolo che giocano la Chiesa come istituzione, gli ecclesiastici e i cattolici in genere”.
Raccogliendo le suggestioni e gli stimoli che provengono dal testo che accompagna il programma dell’incontro di Roma, va sottolineato “l’accostamento ‘chiesa e mafia’ ” che “rinvia ad analisi e interrogativi sul ruolo del cattolicesimo italiano”.
Quando diciamo “Chiesa”, di quale Chiesa parliamo?
Per il tema dell’incontro di Roma, credo che ci convenga parlare della Chiesa-istituzione e riproporre il tema del potere della e nella Chiesa-istituzione.
Il tema andrebbe esaminato partendo dal Vangelo e arrivando alla Costituzione Lumen gentium, del Concilio Ecumenico Vaticano II, ripercorrendo il processo storico bimillenario. Qui basta affermare, oltre l’esigenza permanente della riforma della Chiesa (“Ecclesia sempre reformanda est”), l’esigenza attuale ed urgente della riforma della struttura gerarchica della Chiesa-istituzione, per renderla coerente e conforme alla legge evangelica dell’eguaglianza e della fraternità.
Il principio gerarchico va attaccato alla radice, non solo nelle varie organizzazioni laiche, ma anche nella organizzazione della Chiesa. Dove c’è gerarchia, c’è disuguaglianza, dipendenza, violenza, segretezza. E questi sono principi che si ritrovano anche nelle organizzazioni criminali.
La parola “gerarchia” dovrebbe scomparire da ogni vocabolario.
“Quali sono le strutture gerarchiche di un sistema autoritario e quali le tecniche per annientare la personalità di un individuo? Quali rapporti si creano tra oppressori e oppressi?”
Queste domande vengono poste dal libro I sommersi e i salvati, di Primo Levi (Einaudi, 1986).
“Un saggio imprescindibile per capire il Novecento e ricostruire un’antropologia dell’uomo contemporaneo” (dalla quarta di copertina).
“Il capitolo centrale, il più importante del libro è quello intitolato La zona grigia”, come dice lo stesso Levi.
Una breve citazione.
“Dove esiste un potere esercitato da pochi, o da uno solo, contro i molti, il privilegio nasce e prolifera, anche contro il volere del potere stesso; ma è normale che il potere, invece, lo tolleri o lo incoraggi. Limitiamoci al Lager, che però (anche nella sua versione sovietica) può ben servire da ‘laboratorio’: la classe ibrida dei prigionieri-funzionari ne costituisce l’ossatura, ed insieme il lineamento più inquietante. E’ una zona grigia dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi. Possiede una struttura interna terribilmente complicata, ed alberga in sé quanto basta per confondere il nostro bisogno di giudicare.
... Questo modo di agire è noto alle associazioni criminali di tutti i tempi e luoghi, è praticato da sempre dalla mafia, e tra l’altro è il solo che spieghi gli eccessi, altrimenti indecifrabili, del terrorismo italiano degli anni ‘70” (pp. 29, 30).
Chi fa parte della zona grigia?
La Chiesa cattolica ne fa parte?
Il tema posto da Primo Levi si sta divulgando. Esso, mentre le varie analisi del fenomeno mafioso finora tentate si sono rivelate inadeguate e insufficienti, aiuta a decifrare e comprendere sempre meglio quel fenomeno, per il quale si può dire quello che è stato detto per la mafia calabrese, che “prima ancora di essere un’organizzazione criminale, è diventata ormai un fenomeno sociale e culturale”.
E’ dalla zona grigia che la mafia trae la sua forza ed è in essa che si trovano collusioni, connivenze e complicità di ogni tipo.
Francesco Tassone, direttore della rivista “Quaderni del Sud-Quaderni Calabresi”, dopo una intimidazione mafiosa alla famiglia dell’ingegnere Antonio D’Agostino, di Vibo Valentia, ha scritto:
“Non basta denunciare il sistema mafioso (...), e neppure costruire luoghi di aggregazione sociale e posti di lavoro, senza contemporaneamente rompere di fatto, oltre moralmente, con quel sistema, senza iattanza ma in modo visibile, marcando nel concreto della situazione la differenza. Evitando di far parte, come avviene per la gran parte di essi (avvocati, sacerdoti, medici, ingegneri, insegnanti - non parliamo dei sindacalisti e degli altri ruoli direttivi) dell’establishement locale e delle sue regole di (buon) comportamento” (Dalla lettera a Comunità Libere, Gioiosa Ionica e a Libera, Vibo Valentia, in “Quaderni del Sud-Quaderni Calabresi”, 104/106, giugno/dicembre 2008, pp. 139-140).
Quindi, per combattere la mafia, ormai lo sappiamo, non basta la repressione con l’azione della magistratura e delle forze dell’ordine, e non bastano le denunce, neanche quelle di documenti solenni e autorevoli della Gerarchia ecclesiastica.
In questi ultimi mesi alcuni vescovi del Sud hanno espresso posizioni nuove, molto coraggiose. Su “Famiglia Cristiana” (n. 11 del 14 marzo 2010), tre vescovi hanno commentato il documento della CEI sul Mezzogiorno.
Il Vescovo di Agrigento, monsignor Francesco Montenegro:
“Ci siamo occupati del sacro e non della fede ... sosteniamo un’idea di Chiesa intrecciata attorno alle devozioni, che possono consolare, che non incidono e non cambiano i comportamenti”. “Proporrò di abolire ogni festa religiosa nei paesi dove si contano gli omicidi. Il sacro non basta per ritenersi a posto, se poi nessuno denuncia, e la cultura mafiosa è l’unica ammessa”.
Il Vescovo di Mazara del Vallo, monsignor Domenico Mogavero:
“ Ogni comunità scelga un argomento in relazione alla situazione del proprio territorio e agisca: pizzo, usura, corruzione della politica, mafia devota che offre soldi per le feste popolari”.
Il Vescovo di Acerra, monsignor Antonio Riboldi:
“I cristiani al Sud devono svegliarsi. (...) Bisogna tagliare i ponti, anche quelli tra le nostre chiese e la cultura mafiosa, che spesso dimostra di essere devota”.
Grande è il ruolo e grande è la responsabilità della Chiesa cattolica. Un fatto di cronaca che fa riflettere (dal quotidiano “calabria ora” del 21 agosto 2010, p. 12):
“Abolite due soste, la statua non passa da casa dei clan”.
“Sotto osservazione delle forze dell’ordine, la processione che tutti gli anni si svolge il 16 agosto a Palmi in onore a San Rocco. L’ufficio di Polizia palmese, infatti, avrebbe ‘consigliato’ al Comitato organizzatore, di evitare due delle fermate previste durante il lungo tragitto che compie la statua del santo per le vie della città”.
Le due fermate sconsigliate avrebbero dovuto aver luogo davanti la casa di due note cosche cittadine. “L’invito della polizia è stato accolto dagli organizzatori che, dopo più di 50 anni, hanno mantenuto intatto il percorso della processione, ma hanno abolito le due soste considerate dalle forze dell’ordine ‘inopportune’ ”.
Quelle due soste, “segno di ‘riverenza’ verso le potenti famiglie di mafia”, dovevano essere sconsigliate dalla Polizia, o dal Vescovo e dal Parroco?
Palmi, 15 settembre 2010
Raffaello Saffioti
rsaffi@libero.it
* Il Dialogo, Domenica 19 Settembre,2010 Ore: 05:04
Tavola rotonda dal titolo "Sotto le due Cupole. Chiesa, religione, mafia" *
Intervengono: Augusto Cavadi (teologo), Don Luigi Ciotti (presidente e fondatore Associazione Libera), Alessandra Dino (sociologa) e Giuseppe Leotta (magistrato).
Dal sito di Radio Radicale
IMMAGINI INEDITE
Nel Santuario la ’ndrangheta
consacra il suo nuovo capo
Alcuni filmati registrati dai carabinieri nel corso delle indagini mostrano per la prima volta le immagini dei capi delle cosche che si riuniscono, in pubblico e in un luogo sacro calabrese, stretti attorno al nuovo capo. Che dà le sue regole e i suoi codici d’onore
di PIERO COLAPRICO *
La Madonna dei Polsi ha due devozioni: una popolare e cattolica, e un’altra elitaria e da setta, ed è quella della ’ndrangheta. Il filmato che è stato ripreso all’ombra del santuario mostra quel mix di simbologia sacra e di potere nero, occulto, invasivo, che ha reso i clan calabresi tra i più forti e temuti del mondo. Votare, dirsi chi è Il Crimine, e cioè il boss dei boss, mentre intorno si accendono candele sacre da parte dei fedeli serve a sgarristi e picciotti anche a sentirsi "parte di una comunità" più estesa, più vasta. Il rito pagano di mischia al rito religioso e c’è la sensazione, e la tentazione, di avvertire come "divino" un potere che ha a che fare con omicidi, con estorsioni, con sequestri di persona, con il traffico della droga, con l’ecomafia che avvelena la terra dove cammineranno anche i loro figli.
Nemmeno Francis Ford Coppola avrebbe potuto concepire per il suo "Padrino" la verità che emerge da queste riprese, fatte da un tecnico che ha lavorato insieme con i detective. Come ai "Polsi" si decidono i destini degli uomini, le carriere, chi è bravo e chi deve modificare il suo atteggiamento (la pena per chi esagera con l’indipendenza è la morte), così a Milano, nel circolo intitolato a Falcone e Borsellino, si sono visti i boss votare il loro Capo, quello che incarna per tutti al Nord il volere della ’ndrangheta. Quella che sembrava un gruppo di famiglie scollegate una dall’altra, dopo quest’inchiesta, è diventata qualcosa d’altro. I pm vogliono che la Cassazione riconosca che anche i clan calabresi hanno una cupola, che esiste un Totò Riina della ’ndrangheta, e che nessuno estraneo, prima della retata di lunedì notte, lo sapeva.
* la Repubblica, 14.07.2010
Maxi blitz contro la ’ndrangheta
trecento arresti in tutta Italia
L’operazione svela una struttura simile a Cosa Nostra: tre mandamenti calabresi, c’è un organo di vertice e "la Lombardia", la struttura nordica, con una "Camera di controllo deputata al raccordo tra le strutture lombarde e calabresi". In manette anche Domenico Oppedisano, 80 anni, numero uno delle cosche calabresi *
ROMA - Chi litiga è un uomo morto. È stato un omicidio di due anni più che a rivelare, a certificare la "mutazione genetica" della ’ndrangheta. Si chiamava Carmelo Novella, detto compare Nuzzo, aveva sessant’anni e il 14 luglio del 2008 viene ammazzato in un bar di San Vittore Olona. Sembrava il risultato di una faida legata agli appalti nell’edilizia, invece Novella aveva detto in giro che "la Lombardia", e cioè tutti i gruppi di ’ndrangheta trapiantati al Nord, avrebbero potuto "fare da soli", senza la casa madre calabrese. Il desiderio di autonomia è stato stoppato con le pallottole, Novella non sarà più un problema e viene nominato un altro calabrese, Giuseppe Neri, come uomo del raccordo tra il Nord danaroso e il Sud antico e sanguinario.
È questo sangue che scorre al Nord un importante episodio nell’inchiesta ribattezzata "Il Crimine", che è in corso mentre scriviamo, sono in programma tra i duecento e i trecento arresti, tra Calabria e Lombardia. Nei fascicoli dei procuratori Ilda Boccassini e Giuseppe Pignatone sono entrati anche due filmati senza precedenti. Il più clamoroso è stato registrato a Paderno Dugnano, in un centro intitolato - incredibilmente - ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per alzata di mano, e all’unanimità, è stato scelto, dai vertici dei clan calabresi del Nord tutti riuniti, il "mastro generale", e cioè Pasquale Zappia. Una scena degna del film "Il Padrino", ma senza smoking, una versione con abiti casual in stile provincia milanese.
L’altro filmato è avvenuto in Aspromonte, alla Madonna dei Polsi, dove si sono riuniti i boss calabresi. Senza l’aiuto di pentiti, sono stati documentati circa quaranta incontri. E da quanto raccontano i documenti redatti dai carabinieri e dalla polizia, è stata fatta una fondamentale scoperta. La ’ndrangheta sinora non era mai stata considerata come una struttura unitaria, cioè non sembrava "come" Cosa Nostra. E se allora, per stabilire le regole in Sicilia, ci volle il pentito Tommaso Buscetta, qua, oggi, per comprendere le regole calabresi è stato necessario un lavoro certosino. Ma, piano piano, sono emersi i tre mandamenti della ’ndrangheta in Calabria, poi un organo di vertice, che "ne governa gli assetti, assumendo o ratificando le decisioni più importanti".
E poi esiste - ed è sorprendente - "La Lombardia", cioè la federazione dei gruppi trapiantati al Nord, con una "Camera di controllo deputata al raccordo tra le strutture lombarde e calabresi". Una "struttura unitaria", accusano i pm, e hanno scoperto che, ovviamente, i clan al Nord avevano in mente di prendersi qualche buon appalto per l’Expo. Non ci sono riusciti "per il fallimento" della Perego general contractor srl: una ditta di rilievo dove Salvatore Strangio, espressione della famiglia Pelle, soprannominata "Gambazza", faceva il bello e cattivo tempo, per favorire "numerose imprese controllate dagli affiliati lombardi". Ne sono stati individuati ben 160, ma i boss si dicono "che hanno circa 500 unità".
I procuratori Boccassini e Pignatone, che hanno organizzato questa retata senza precedenti, si sono convinti che sia stato il sequestro di Alessandra Sgarella, portata via dalla sua casa bella zona di San Siro nel dicembre del 1997, l’ultima "azione" dei clan tradizionali. Dal Duemila la ’ndrangheta si è trasformata in "mafia imprenditrice".
Ci sono i criminali, ma accanto a loro affiliati lombardi, spesso senza problemi con la giustizia, com’è il caso di un alto funzionario della sanità lombarda: "In virtù del proprio ruolo istituzionale - viene detto di lui - assicura l’assistenza sanitaria, ma anche l’interessamento per investimenti immobiliari e coltiva e sfrutta per i "fini comuni" i legami con gli esponenti politici locali". L’inchiesta sembra riguardare anche il recente voto in Lombardia. Inoltre, da una lavanderia nel centro commerciale di Siderno, gestita dal boss Giuseppe Commisso, si è arrivati a nove locali individuati a Toronto e uno a Thunder Bay, controllati dalla provincia di Reggio. Un’intera rete di relazioni, affari, sembra venire allo scoperto e sono stati sequestrati beni per 60 milioni di euro.
Tra le persone arrestate a Milano, Carlo Antonio Chiriaco, classe 1959, nato a Reggio Calabria, direttore sanitario dell’Asl di Pavia, Francesco Bertucca, imprenditore edile del pavese e Rocco Coluccio, biologo e imprenditore residente a Novara. I tre sono ritenuti responsabili di aver fatto parte della ’ndrangheta attiva da anni sul territorio di Milano e nelle province vicine. Nel corso dell’operazione sono state fatte 55 perquisizioni e sequestri di beni immobili, quote societarie e conto correnti il cui valore è ancora da quantificare.
E in manette è finito anche Domenico Oppedisano, 80 anni, considerato dagli investigatori l’attuale numero uno delle cosche calabresi. La sua nomina a ’capocrimine’ - cioè colui che è al vertice dell’organismo che comanda su tutte le ’ndrine ed e’ denominato ’Provincia’ - sarebbe stata decisa il 19 agosto del 2009 nel corso del matrimonio tra Elisa Pelle e Giuseppe Barbaro, entrambi figli di boss. Un particolare significativo del personaggio: quando Oppedisano doveva parlare non usava il telefono. I suoi ordini arrivavano a Bollate attraverso Rocco Ascone, caposocietà e vicario della cosca locale comandata da Vincenzo Mandalari.
* la Repubblica, 13 luglio 2010
Mafia e preti, un libro di Isaia Sales racconta come siano «vicini»
di Massimiliano Amato (l’Unità, 4 marzo 2010)
«Non si smette mai di essere preti. Né mafiosi», ripeteva spesso Giovanni Falcone, sottolineando come lo specifico criminale che da un secolo e mezzo marchia a fuoco la vita, l’economia e la società di quattro regioni italiane sia in realtà una religione, che dal cattolicesimo prende in prestito i riti, il linguaggio, l’espressività liturgica. E tuttavia, il legame non è fatto solo di simboli: Cosa Nostra si richiama ai Beati Paoli, la camorra alla Guarduna, confraternita esistente a Toledo sin dal XV secolo, la ‘ndrangheta ai tre arcangeli della tradizione. No, c’è di più, qualcosa che va oltre la sintassi dell’esteriorità, nel rapporto, mai investigato a sufficienza, tra Chiesa e grandi organizzazioni criminali.
Nel suo documentatissimo «I preti e i mafiosi», Isaia Sales, tra i più lucidi studiosi dei fenomeni mafiosi, docente di Storia della criminalità organizzata nel Mezzogiorno d’Italia al Suor Orsola Benincasa di Napoli, mette subito le cose in chiaro. Innanzitutto, sostiene Sales, c’è una gravissima condotta omissiva, addebitabile ad un «giusnaturalismo di sangue», che la cultura cattolica mutua da quella mafiosa (e viceversa: l’esistenza di altre Giustizie oltre a quella dei Tribunali) in opposizione al positivismo del diritto statuale. La Chiesa, è la tesi di fondo del libro, non ha mai alzato un argine - né dottrinale, né teologico, né morale - contro il proliferare delle mafie. Ne ha anzi tollerato (quando non fiancheggiato) il radicamento, concimandolo talvolta con una sconcertante sintonia valoriale: le comuni posizioni in materia di morale sessuale, o in politica, dove l’anticomunismo è consustanziale.
La carica antistatuale della Chiesa e quella delle organizzazioni criminali hanno finito spesso col convergere. Al punto che dal martirologio cristiano sono espunti gli eroismi, in nome della fede e di un credo fondato sull’anti-violenza (l’esatto opposto, in teoria, dell’ethos mafioso), di decine di preti uccisi dalle mafie, di cui poco o punto si sa. Solo recentemente, con i sacrifici di don Pino Puglisi, fatto ammazzare come un cane a Brancaccio dai fratelli Graviano, e di don Peppe Diana, eliminato a Casal di Principe dai sicari di Sandokan, è emersa una coscienza nuova, tuttavia confinata a pochi casi isolati di preti - coraggio. Le eccezioni. E così, nel paese degli atei devoti, l’archetipo mafioso è quello del fervido credente criminale efferato, che si fa il segno della croce prima di ordinare un omicidio o di premere il grilletto: i covi dei superlatitanti sono sempre zeppi di immagini e testi sacri, dalla Bibbia al Vangelo, i boss vengono maritati in chiesa, confessati, comunicati e, se muoiono nel loro letto, ricevono l’estrema unzione.
La parte più suggestiva del saggio è quella in cui Sales ipotizza, non senza riferimenti «alti», una sorta di «complementarietà» tra il fenomeno mafioso e l’affermazione di alcuni precetti cristiani: dalla teoria della Confessione di Sant’Alfonso, a quella del criminale pecorella smarrita, un filo sottile tiene insieme il comportamento deviante e l’esigenza cattolica della «redenzione», in cui il valore della dissociazione prevale su quello del pentimento. Anche in questo caso, i due antiStato s’incontrano.
Monsignor Mariano Crociata ha illustrato il documento che i vescovi riuniti ad Assisi
sono chiamati oggi pomeriggio ad approvare. "Occorre l’impegno di tutti"
Cei: "I mafiosi sono fuori dalla Chiesa
non c’è bisogno di scomuniche esplicite"
"Esagerato parlare di declino della democrazia. Ci sono difficiltà ma anche molte potenzialità"
ASSISI - I mafiosi e coloro che fanno parte della criminalità organizzata sono automaticamente esclusi dalla Chiesa cattolica, non c’è bisogno di scomuniche esplicite. Lo ha detto il segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata, in una conferenza stampa ad Assisi, rispondendo ad una domanda sul documento Chiesa e Mezzogiorno, anche in relazione alle recenti inchieste che hanno coinvolto uomini politici.
I presuli, riuniti nella loro sessantesima assemblea generale nella città di San Francesco, sono chiamati oggi pomeriggio ad approvare. "E’ evidente - spiega - che il tema della criminalità organizzata è ben presente nel documento; una realtà drammatica ma non disperata e non invincibile".
Per quanto riguarda i mafiosi o gli affiliati alle organizzazioni criminali, il segretario della Cei ricorda quanto già disse Giovanni Paolo II in una visita ad Agrigento nel 1993 sul giudizio di Dio che si sarebbe abbattuto sui criminali. "Non c’è bisogno - ha aggiunto Crociata - di comminare esplicite scomuniche perché chi vive nelle organizzazioni criminali è fuori dalla comunione anche se si ammanta di religiosità".
"Piuttosto - ha aggiunto il segretario Cei - non si risolve questo dramma sociale che si estende a tutta l’Italia, e non solo al Sud, solo richiamando l’esclusione dalla Chiesa, ma si risolve con un impegno di tutti, della istituzioni, della magistratura".
Politica. "La nostra prospettiva non è quella apocalittica: dobbiamo tutti valorizzare le risorse del Paese, sottolineare e fare emergere questi aspetti positivi, guardando con onestà alle difficoltà. Ma non serve a nulla guardare ad esse unilateralmente", afferma monsignor Mariano Crociata. "Parlare di declino della democrazia - spiega il presule - mi sembra esagerato, nel senso che la nostra situazione presenta difficoltà ma ci sono molte potenzialità di ordine materiale e valori morali e culturali: il punto non è emettere pronunciamenti senza appello sulla situazione. Questo non è utile, non va a vantaggio del Paese nè è rispondente alla realtà".
* la Repubblica, 10 novembre 2009
Criminalità
Il libro di uno psicoterapeuta svela la logica mafiosa
I segreti della mente di Cosa Nostra
Dalla «famiglia» al training dell’affiliato: le relazioni in un mondo di potere e di paura
Le vere priorità
La psicologia della mafia tende soprattutto alla conquista del comando.
Il guadagno è secondario
di Angelo de’ Micheli (Corriere della Sera/Salute, 25.10.2009)
Nei giorni scorsi si è molto parlato di mafia, di ’papelli’, di patti e di pretese, di ipotesi di trattative di non belligeranza tra mafia e Stato. Tutto ciò ha riportato l’attenzione sul complesso fenomeno mafioso e sulla logica che sostiene e regola i comportamenti mafiosi. E non deve stupire che si possa parlare di ’logica’ e anche di psicologia della mafia. Ne parliamo con il professor Girolamo Lo Verso, ordinario di psicoterapia all’Università di Palermo, che da 16 anni studia il fenomeno mafioso e che sul tema ha pubblicato quattro libri, il più recente dei quali si intitola ’Territori in controluce, ricerche psicologiche sul fenomeno mafioso’, edito da Franco Angeli.
«La psicologia in ambito mafioso - spiega Lo Verso - studia non solo l’identità del mafioso, ma anche il suo sistema emotivo e relazionale. Lo fa, per esempio, conducendo colloqui con persone mafiose o che con queste hanno avuto contatti, come giudici, per esempio, o come amministratori e commercianti » . «Ad usare la psicologia per capire la mafia fu per primo il giudice Giovanni Falcone; si potrebbe dire che Falcone abbia inventato un metodo ’psicologico-clinico’, perché cercava di comprendere il fenomeno cogliendolo dall’interno, dal punto di vista dei suoi protagonisti - prosegue l’esperto -. Lo stesso abbiamo fatto noi, intervistando collaboratori di giustizia, giudici antimafia, avvocati, poliziotti, psicoterapeuti siciliani, calabresi e napoletani che hanno seguito nel tempo componenti di famiglie mafiose o casi di persone in odore di mafia. E abbiamo approfondito il tema analizzando il testo dei colloqui fatti da persone mafiose e le perizie psichiatriche condotte su di loro, nonché in momenti di elaborazione dei problemi con gruppi di cittadini di comuni ad alta densità mafiosa, con lo scopo di attivare degli interventi psico sociali.
«La nostra ricerca ci ha portato, così, ad alcune conclusioni. Per esempio, che Cosa Nostra, tramite l’idea di ’famiglia’ in senso allargato, che si prende cura dei suoi affiliati, costruisce dalla nascita i suoi adepti, sia uomini che future mogli di mafiosi. Lo fa con una forte trasmissione di ’valori’, arrivando a quello che si potrebbe definire un concepimento fondamentalista del bambino come futuro mafioso, sottoponendolo via via a un training che comincia dalla prima adolescenza e che si sviluppa in lunghe fasi di ’carriera’. Una carriera che comprende gli omicidi. Tutto ciò, serve per costruire un perfetto killer- robot agli ordini dell’organizzazione » .
«Cosa Nostra - aggiunge Lo Verso - ha altresì strumentalizzato vecchi codici siciliani, quali la famiglia e l’onore, al fine di costruire una perfetta azienda criminale. Cosa Nostra è la famiglia e così, infatti, si definisce. Nella n’drangheta, invece, famiglia d’origine e mafiosa coincidono » . C’è, quindi, una realtà pseudofamiliare che sostituisce quella sociale?
«Molto di più - dice l’esperto -. Dalle nostre ricerche emerge che la mafia ha come unico vero obiettivo il potere - ’cummanari è megghiu di futtiri’, comandare è meglio che fare sesso, è il detto -, e solo secondariamente il denaro. Per la relazione affettiva e la sessualità c’è, invece, totale disinteresse. In sostanza, si tratta di un mondo che vive di paura, e che comanda attraverso la paura, prima ancora che con la violenza. Basti pensare all’approccio per intimidire i commercianti a cui chiedere il pizzo. Cosa Nostra non è solo un’organizzazione criminale, è una sorta di ’stato’ che impone il suo controllo, le sue leggi. E che tratta con pezzi dello Stato e con poteri politici».
Chi ha fatto parte di questa realtà può modificare la sua prospettiva di vita?
«E’ molto difficile. Non è possibile, per esempio, fare una psicoterapia approfondita ed analitica in un mondo addestrato all’omertà, con individui che non riescono a realizzare un’introspezione vera nemmeno quando entrano in crisi. Noi abbiamo lavorato soprattutto come supporto psicoterapeutico ai familiari di collaboratori di giustizia, ai familiari di latitanti, e con persone nelle cui famiglie erano presenti elementi non mafiosi » .
Che cosa dobbiamo aspettarci?
«E’ importante rendersi conto che la mafia è ormai un problema di tutti, a livello nazionale e internazionale- conclude Lo Verso -. E’ come avere a che fare con una grande ragnatela, costruita per di più con una trama consolidata da anni. Una trama ancorata nell’assenza di una struttura sociale organizzata e improntata alla illegalità. Questi vuoti hanno permesso di creare nel corso di numerosi decenni una gerarchia di valori e di relazioni alternative tutt’ora forti e, perciò, ancora oggi difficili da sradicare».
Un simbolo sfruttato dalla Chiesa dopo il Concilio di Efeso e nell’offensiva anti Lutero
La Vergine col bambino un’icona contro le eresie
Ma l’immagine fu ereditata dalla dea egizia Iside
di Francesca Bonazzoli (Corriere della Sera, 20.11.2008)
Ancor prima dell’epoca cristiana, l’immagine della «Madre col Bambino» veniva già usata da molte culture con un significato religioso: nell’area mediterranea, per esempio, rappresentava la dea Iside con in grembo il figlio Horus e fu proprio questa iconografia egizia a passare in quella cristiana occidentale attraverso la mediazione dell’Oriente bizantino.
In particolare, dopo il 431, le gerarchie ecclesiastiche cristiane promossero l’immagine della Madonna col Bambino per dare forza alla condanna, votata dal Concilio di Efeso, dell’eresia nestoriana secondo la quale la Vergine non poteva essere chiamata «madre di Dio», ma solo madre di Gesù poiché non aveva generato un Dio, bensì solo il corpo in cui Dio aveva poi preso dimora.
Da quel momento fino al Medioevo nelle chiese cristiane si assiste a una proliferazione delle immagini della Madonna col Bambino (spesso accompagnate dall’iscrizione «Maria Mater Dei» e «Sancta Dei Genitrix») raggruppabili in diverse varianti: la Madonna del latte (dove la Vergine allatta il figlio) è una delle prime iconografie conosciute, fin dalla catacomba di Priscilla del III secolo; la Madonna orante col Bambino (genuflessa e con le mani giunte mentre adora il figlio poggiato su un lembo del proprio manto); la Madonna leggente col Bambino (con in mano il libro della Sapienza); la Madonna del roseto (seduta in un giardino di rose simbolo della verginità della madre di Dio) particolarmente amata nel Nord Europa; la Madonna col bambino in trono (dove Maria personifica la Chiesa), di derivazione bizantina e i cui più antichi esempi in Occidente si trovano nei mosaici di Ravenna.
L’immagine registra poi un secondo grande momento di successo che coincide ancora una volta con un’eresia: quella protestante. A cavallo fra XV e XVI secolo, l’impiego della Madonna col Bambino viene nuovamente incentivato da parte della Chiesa cattolica per fini propagandistici e, dopo la condanna di Lutero, per confutare la dottrina protestante che ridimensionava il culto della Vergine assieme a quello dei santi. In quest’epoca furono soprattutto due i pittori che portarono il soggetto alla gloria: Raffaello e Giovanni Bellini. Il primo perché, noto ammiratore e amante di donne, seppe dare alle sue Madonne grazia e bellezza idealizzate, di una perfezione che incantava e trascendeva qualsiasi modello umano; il secondo perché, sincero credente, nei volti delle sue Vergini dall’aria dolce e domestica ritraeva quello della moglie amata di un amore casto e cristiano.
Nel Rinascimento il culto mariano si era ormai molto diffuso e via via che la devozione popolare si era fatta più appassionata, anche l’iconografia della Madonna col Bambino aveva perso la primitiva ieratica monumentalità per acquisire un tono più tenero. La rigidezza, eredità orientale nella rappresentazione della Madre in posizione frontale con il bambino eretto, vestito e benedicente, aveva lasciato già nel XIV secolo il posto a due nuove varianti dove madre e figlio venivano messi in un rapporto di affettuosità attraverso un gioco di sguardi o di mani: la Madonna dell’Umiltà (in particolare nel-l’Italia settentrionale) e la Mater amabilis, il tipo di rappresentazione più amata fra tutta l’iconografia mariana. È soprattutto per quest’ultima immagine intima e domestica che si sviluppano leggere varianti attraverso l’inserimento di oggetti simbolici. Fra i più frequentati figurano la mela, frutto dell’albero del Bene e del Male: tenuta in mano dal Bambino allude alla redenzione dal peccato originale. L’uva è simbolo del vino eucaristico e quindi del sangue del Cristo redentore (anche nella variante della brocca che contiene il vino). Analogamente, le spighe sono il pane eucaristico e dunque il corpo di Cristo. La ciliegia, frutto del Paradiso, è simbolo del Cielo; la melagrana, che già nel mondo pagano era attributo di Proserpina, dea che presiedeva alla germinazione, allude alla Resurrezione. La noce, invece, era un complesso simbolismo sviluppato da sant’Agostino, dove il mallo stava per la carne di Cristo, il guscio di legno alludeva alla croce e il gheriglio alla natura divina del Cristo.
E infine l’uccello che, nella pittura cristiana, mantiene il simbolismo che già aveva in quella pagana, ovvero rappresenta l’anima umana che vola via alla morte del corpo. Spesso è un cardellino perché il suo piumaggio colorato lo rendeva particolarmente attraente agli occhi dei bambini e anche perché, secondo una leggenda, la macchia rossa sul capo sarebbe stata un residuo del sangue di Cristo con cui il cardellino si macchiò volando sopra la testa incoronata di spine di Gesù mentre questi saliva al Calvario.