Riflettere brevemente sul significato della parola ‘ndrangheta non è un mero esercizio accademico e offre invece interessanti spunti di riflessione e analisi storica. *
L’ipotesi etimologica più convincente fa riferimento al vocabolo greco andragatia il cui significato allude alle virtù virili, al coraggio, alla rettitudine.
L’ andragatia è la qualità dell’uomo coraggioso, retto e meritevole di rispetto e la ‘ndrangheta storicamente ha sempre cercato il consenso presentandosi come portatrice di questi valori popolari e in particolare di un sentimento di giustizia e ordine sociale che i poteri legali non erano in grado di assicurare, in ciò manipolando strumentalmente la sfiducia delle popolazioni nei confronti dello Stato e delle Istituzioni.
Quello che è chiaro, sin dai primi anni dello sviluppo della ‘‘ndrangheta, è che essa non è un’organizzazione di povera gente ma una struttura (composta da soggetti che si autodefiniscono portatori di virtù altamente positive) molto più complessa e dinamica, che, pur se in modo autoreferenziale, si considera un’elite e che tende all’occupazione delle gerarchie superiori della scala sociale.
Il principale punto di forza della‘ndrangheta è nella valorizzazione criminale dei legami familiari. La struttura molecolare di base è costituita dalla famiglia naturale del capobastone; essa è l’asse portante attorno a cui ruota la struttura interna della ‘ndrina. È in ciò, come vedremo, la più importante ragione del successo della ‘ndrangheta, della sua straordinaria vitalità attuale, della sua superiorità rispetto ad altre forme di aggregazione criminale.
Storicamente ogni ‘ndrina familiare era autonoma e sovrana nel proprio territorio (di regola corrispondente al comune di residenza del capobastone), a meno che non ci fossero altre famiglie ‘ndranghetiste. In tal caso si operava una divisione rigida del territorio e nei comuni più grandi dove c’erano più ‘ndrine la coabitazione era regolata dal ‘locale’, una sorta di struttura comunale all’interno della quale trovavano compensazione le esigenze, anche contrastanti, delle diverse famiglie.
È bene precisare che non c’è mai stata una struttura di vertice della ‘ndrangheta calabrese paragonabile a quella della Commissione di Cosa Nostra e fu solo nel 1991 che, per superare un conflitto che aveva generato diverse centinaia di omicidi, fu costituita una struttura unitaria di coordinamento.
Le donne hanno avuto e hanno attualmente un ruolo importante in questa realtà criminale, non solo perché con i loro matrimoni rafforzano la cosca d’origine, ma perché nella trasmissione culturale del patrimonio mafioso ai figli e nella diretta gestione degli affari illeciti durante la latitanza o la detenzione del marito, hanno, nel tempo, ricoperto ruoli oggettivamente sempre più rilevanti. La ‘ndrangheta, tra l’altro, a differenza delle altre organizzazioni mafiose, prevede un formale (ancorché subordinato) inquadramento gerarchico per le donne, le quali possono giungere fino al grado denominato “sorella d’umiltà”.
Per lungo tempo la ‘ndrangheta è stata sottovalutata, quando non addirittura ignorata dagli studiosi dei fenomeni criminali organizzati. Per lungo tempo è stata letta come una folkloristica, ancorché sanguinaria, filiazione della mafia siciliana. Per lungo tempo è stata considerata un fenomeno criminale pericoloso ma primitivo e tale visione fu favorita, fra l’altro, da un’errata lettura dell’esperienza dei sequestri di persona. A uno sguardo superficiale tale pratica criminale richiamava quelle dei briganti dell’Ottocento o del banditismo sardo mentre una lettura più attenta avrebbe in seguito mostrato come i sequestri di persona costituirono una fonte strategica di accumulazione primaria, rafforzando al tempo stesso il controllo del territorio calabrese e il radicamento della ‘ndrangheta nelle località del centro e del nord Italia.
Il trasferimento degli ostaggi nelle zone dell’Aspromonte, la lunga permanenza nelle mani dei carcerieri, la collaborazione delle popolazioni, la sostanziale incapacità dello Stato di interrompere le prigionie, conferirono prestigio alla ‘ndrangheta, le diedero un alone di potenza e conferirono a quei territori - nell’immaginario collettivo - quasi una dimensione di extraterritorialità.
L’accumulazione primaria di cospicui capitali che in seguito sarebbero serviti a finanziare i più proficui traffici della cocaina si univa a un piano, negli anni sempre più esplicito e consapevole, di potere e di controllo del territorio e del consenso.
Oggi la ‘ndrangheta, la mafia rurale e selvaggia dei sequestri di persona, è l’organizzazione più moderna, la più potente sul piano del traffico di cocaina (mediando fra le due rotte, quella africana e quella colombiana), quella capace di procurarsi e procurare micidiali armi da guerra e di distruzione, la più stabilmente radicata nelle regioni del centro e del nord Italia oltre che in numerosi paesi stranieri. In tutte queste realtà operano attivamente delle ‘ndrine che, a partire dagli anni sessanta del Novecento e ancor prima - gli anni trenta per quanto riguarda il Canada e l’Australia - si erano spostate dalla Calabria per spargersi letteralmente in tutto il mondo. Gli ‘ndranghetisti arrivarono in questi nuovi territori dapprima al seguito degli emigrati, ma poi, e sempre più spesso, in seguito ad un’ esplicita scelta di politica mafiosa di vera e propria colonizzazione criminale.
La ‘ndrangheta affronta le sfide della globalizzazione con una modernissima utilizzazione di antichi schemi, con una combinazione di strutture familiari arcaiche e di un’organizzazione reticolare, modulare o - per usare l’espressione di un grande studioso della modernità e della post modernità, Zygmunt Bauman - liquida. Su questa definizione e sulla sua utilità per comprendere la natura e la terribile efficacia del fenomeno, si tornerà più avanti.
Come si sottolinea in una recente relazione della Direzione Nazionale Antimafia, la chiave di volta organizzativa rimane “la struttura di base del locale (vero e proprio presidio territoriale, idoneo ad assicurare il controllo del territorio, da intendersi nella sua accezione più ampia, comprensiva di economia, società civile, organi amministrativi territoriali; mentre la cosca assume caratteri operativi dinamici, flessibili in relazione alle esigenze poste da attività criminali che si articolano su territori più ampi di quelli di riferimento originario), ma proprio in relazione al narcotraffico e ad altri traffici internazionali in genere, la ‘ndrangheta ha assunto un assetto organizzativo da rete criminale.”
La struttura di base di tipo familiare ha rappresentato un decisivo fattore di riduzione del danno prodotto dai collaboratori di giustizia e ha permesso una penetrazione e un radicamento formidabili al di fuori della Calabria.
Tra gli anni ottanta e novanta la tempesta dei collaboratori di giustizia travolse Cosa Nostra, la camorra, la Sacra Corona Unita e le altre mafie pugliesi. Solo la ‘ndrangheta attraversò questa bufera quasi indenne o comunque limitando fortemente i danni: i pentiti furono pochi, e pochissimi quelli con posizioni di vertice nei sodalizi criminali. La ragione di ciò è proprio nello schema familiare della ‘ndrina: se la cosca è costituita in primo luogo dai membri della famiglia, la scelta di collaborazione con la giustizia (in generale non facile) può diventare straordinariamente lacerante e pressoché insopportabile.
Lo ‘ndranghetista che decida di collaborare è infatti tenuto in primo luogo ad accusare i propri familiari, il padre, il fratello, il figlio, trovandosi a dover infrangere un tabù ancora più potente di quello costituito dall’obbligo di fedeltà mafiosa sancito nelle cerimonie di affiliazione e innalzamento. Si tratta di uno straordinario fattore di protezione, di un anticorpo interno e strutturale del modello ‘ndranghetistico, di un potente fattore di vitalità.
Sul lungo periodo il modello organizzativo della ‘ndrangheta si è dunque rivelato più agile, più flessibile, più efficace di quello gerarchico, monolitico e rigido di Cosa Nostra, rispetto al quale l’aggressione del vertice del sodalizio ha costituito finora un’efficace strategia di indebolimento e di disarticolazione. Strategia inattuabile contro la ‘ndrangheta per l’inesistenza, anche dopo la pace del 1991 (quella che seguì alla sanguinosa guerra fra i De Stefano e gli Imerti-Condello che in poco più di cinque anni lasciò per le strade della Calabria molte centinaia di morti) e la conseguente introduzione di una struttura centrale di coordinamento e composizione dei conflitti.
I mafiosi calabresi sono considerati dai cartelli colombiani come i più affidabili per la loro capacità di gestione degli affari criminali, per la loro disponibilità di basi d’appoggio in tutta Italia, in tutta Europa e in tutto il mondo (oltre alla Calabria, ovviamente, il centro e il nord Italia, la Francia, la Germania, il Belgio, l’Olanda, la Gran Bretagna, il Portogallo, la Spagna, la Svizzera, l’Argentina, il Brasile, il Cile, la Colombia, il Marocco, la Turchia, il Canada, gli Usa, il Venezuela, l’Australia) e, come si diceva, per la loro ridotta permeabilità al pericoloso fenomeno dei collaboratori di giustizia. Oggi dunque la ‘ndrangheta ha una sostanziale esclusiva per l’importazione in Europa di cocaina colombiana ed è alla ‘ndrangheta che le altre mafie italiane, Cosa Nostra inclusa, devono rivolgersi per gli approvvigionamenti di questo stupefacente.
Questo riferimento all’espansione nazionale e internazionale della ‘ndrangheta ci introduce all’analisi più approfondita del secondo, congiunto fattore di successo di questa forma del crimine organizzato. Tale fattore di successo - direttamente collegato e anzi interconnesso a quello della struttura familiare - consiste nell’attitudine colonizzatrice, ed anzi nella vera e propria scelta strategica della ‘ndrangheta di impiantarsi e di radicarsi nelle regioni del centro e del nord Italia, a partire dalla metà degli anni cinquanta del Novecento.
Inizialmente gli ‘ndranghetisti arrivarono nelle regioni del centro e del nord non per scelta ma perché inviati al confino di Polizia. In quegli anni si riteneva che per contrastare il potere criminale nelle regioni del sud fosse necessario recidere i legami del mafioso con il suo ambiente d’origine. Lo strumento era quello del soggiorno obbligato che imponeva al sospetto mafioso di risiedere per un determinato numero di anni -dai 3 ai 5 - fuori dal suo comune di nascita o di residenza. In tal modo i mafiosi, dapprima siciliani e poi via via campani e calabresi, furono inviati nelle regioni del centro e del nord, in comuni possibilmente piccoli e comunque lontani da centri che avessero stazioni ferroviarie o strade di grande comunicazione. Ma l’idea di recidere i legami con il territorio (adatta a un’epoca pre-moderna) non poteva funzionare in un periodo storico in cui rapidissimo era già lo sviluppo dei trasporti e delle telecomunicazioni. Ferrovie, autostrade, aerei e lo sviluppo della telefonia consentirono sostanzialmente di annullare l’effetto dei provvedimenti di soggiorno obbligato e ciò anche in relazione a una nota paradossale della relativa disciplina.
Se infatti il soggiornante non poteva spostarsi dalla sua sede, non c’era nulla che vietasse che altri lo raggiungessero nelle sedi del soggiorno. Il contesto mafioso si riproduceva dunque nelle località di soggiorno obbligato dove si verificavano riunioni operative e financo cerimonie di affiliazione. Fu in tale contesto che si fece strada nelle ‘ndrine l’idea di seguire l’ondata migratoria (più o meno forzosa) e di trapiantare pezzi delle famiglie mafiose al centro-nord. Dapprima fu una necessità, poi diventò una scelta strategica che coinvolse alcune fra le famiglie più prestigiose della ‘ndrangheta, le quali intuirono le enormi possibilità operative di una simile proiezione (che divenne vera e propria occupazione, in alcuni casi) verso le ricche e sicure terre del centro e del nord Italia.
Il piano di colonizzazione della ‘ndrangheta fu inconsapevolmente favorito dalle scelte di politica sociale ed urbanistica degli amministratori settentrionali che concentrarono i lavoratori meridionali nelle periferie delle grandi città, in veri e propri ghetti, dove fu facile per gli esponenti delle ‘ndrine ricreare il clima, i rituali e le gerarchie esistenti nei paesi d’origine. In alcune realtà il controllo della ‘ndrangheta divenne asfissiante. L’esempio più clamoroso è quello di Bardonecchia dove il condizionamento del mercato del lavoro e lo stesso consiglio comunale fu sciolto per infiltrazioni mafiose. Altri comuni dell’hinterland milanese come Corsico e Buccinasco, ancora oggi, sono pesantemente condizionati dalla ‘ndrangheta.
In estrema sintesi e conclusivamente sul punto si può dire che la ‘ndrangheta è l’unica organizzazione mafiosa ad avere due sedi; quella principale in Calabria, l’altra nei comuni del centro-nord Italia oppure nei principali paesi stranieri che sono cruciali per i traffici internazionali di stupefacenti.
Un’organizzazione mafiosa che trova il modo di affrontare le sfide e i cambiamenti imposti dalla modernità globale, nel modo più sorprendente e inatteso: rimanere uguale a se stessa. In Calabria come nel resto del mondo. [...]
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL MAGISTERO ANTROPOLOGICO DELLA COSTITUZIONE ITALIANA: LA LEGGE DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI
"MAMMASANTISSIMA" CALABRESE....
Il cattolicesimo-romano e i suoi scheletri nell’armadio
RADICI CATTOLICO-ROMANE E "MAGISTERO DI MAMMONA"...
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA....
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA, ANDROLOGIA, E COSTITUZIONE: UN PROBLEMA DI LUNGA DURATA.... *
Politica
Stato-mafia, se trattativa c’è stata «non è un reato»
Ribaltando la sentenza di primo grado la Corte d’Assise d’appello di Palermo assolve l’ex senatore dell’Utri e gli ex ufficiali dei Ros
di Red. Int. (il manifesto, 24.09.2021)
ROMA. Se c’è stata una trattativa tra lo Stato e la mafia per mettere fine alle stragi dei primi anni ’90, non è un reato. Tre anni dopo la decisione con cui la Corte d’Assise di Palermo aveva accolto le richieste dell’accusa riconoscendo l’esistenza di un «patto scellerato» tra una parte delle istituzioni e i boss mafiosi, la Corte d’Assise d’appello del capoluogo siciliano capovolge quella sentenza e assolve gli uomini delle istituzioni. A partire dagli ex ufficiali dei Ros Mario Mori, Antonio Subranni, condannati in primo grado a 12 anni, e Giuseppe De Donno (8 anni), assolti con la formula perché il «fatto non costituisce reato» e dall’ex senatore di Forza Italia Marcello dell’Utri (12 anni in primo grado) «per non aver commesso il fatto». Confermate, invece, le condanne per il boss Leoluca Bagarella (27 anni invece dei 28 del primo grado) e del capomafia Nino Cinà (12 anni). Confermata anche la prescrizione delle accuse al pentito Giovanni Brusca.
«Sono soddisfatto e commosso. E’ un peso che ci togliamo. Il sistema giudiziario funziona», è stato il commento di Dell’Utri dopo la lettura della sentenza. Per l’avvocato Basilio Milo, che difende il generale Mori, «la sentenza stabilisce che la trattativa non esiste. E’ una bufala, un falso storico». Secco, invece, il commento del procuratore generale Giuseppe Fici: «Aspettiamo le motivazioni e leggeremo il dispositivo».
Per la procura di Palermo tra il 1992 e il 1993 gli uomini dello Stato avrebbero trattato con i vertici di Cosa nostra al fine di mettere fine alla stagione delle stragi cominciata con l’attentato ai giudici Falcone e Borsellino e proseguita poi con le bombe a Roma, Milano e Firenze. Sempre secondo l’accusa, rappresentata nel processo di primo grado dai pm Nino Di Matteo, Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia e Vittorio Teresi, «i carabinieri dei Ros avevano avviato una prima trattativa con l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, che avrebbe consegnato un ’papello’ con le richieste di Totò Riina per fermare le stragi». Accusa sempre respinta dagli imputati.
Diversa la posizione di Marcello Dell’Utri. Le accuse all’ex senatore di Forza Italia facevano riferimento al periodo del governo Berlusconi, ovvero il 1994. Secondo i pm, inoltre, il dialogo che gli ufficiali dei Ros, tramite Ciancimino e godendo di coperture istituzionali, avviarono con Cosa nostra avrebbe rafforzato i clan spingendoli a ulteriori azioni violente contro lo Stato. Sul piatto della trattativa, in cambio della cessazione delle stragi sarebbero state messe concessioni carcerarie ai mafiosi detenuti al 41 bis e un alleggerimento dell’azione di contrasto alla mafia.
Diverse, e di segno opposto, le reazioni. «Rispetto il giudizio dei magistrati - ha detto il sindaco di Palermo Leoluca Orlando - , tuttavia questa sentenza rischia di non diradare, anche in virtù di una sentenza di primo grado che ha messo in fila fatti inquietanti, le tante zone d’ombra su uno dei periodi più oscuri della nostra Repubblica e sul rapporto perverso tra mafia, politica e istituzioni che ha scandito a suon di bombe la storia italiana».
Soddisfazione per l’esito del processo d’appello è stata espressa invece sia da Matteo Renzi che da Matteo Salvini. Per il leader di Italia viva «oggi si scrive una pagina di storia giudiziaria decisiva. Viene condannato il mafioso e assolti i rappresentanti delle istituzioni. Ciò che i giustizialisti hanno fatto credere in talk show e giornali era falso: non c’è reato. Ha vinto la giustizia, ha perso il giustizialismo». Amaro, infine, il commento di Salvatore Borsellino: «In Italia non c’è giustizia», ha detto il fratello del giudice assassinato dalla mafia.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
UNA LEZIONE TEOLOGICO-POLITICA DI BAGET BOZZO. Avanti o popolo alla riscossa. Il populismo trionferà: "Forza Italia"!!!
FLS
Gratteri: "Centrale la figura di Pittelli, ex parlamentare, avvocato, massone" *
Il procuratore capo di Catanzaro rivela i retroscena del bitz contro la ’ndrangheta: "L’operazione rischiava di saltare: troppe fughe di notizie e reti di amicizie"
di ALESSIA CANDITO *
Una partita a scacchi durata due anni, che fino all’ultimo ha rischiato di saltare. “Questa operazione era prevista per domani ma abbiamo anticipato il blitz di 24 ore perché ci siamo resi conto che molti degli indagati già sapevano degli arresti” rivela il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri. Volto stanco ma soddisfatto di chi ha seguito personalmente le delicatissime operazioni che in emergenza sono partite già ieri pomeriggio, quando tre degli indagati sono stati beccati dai reparti speciali del Gis sul treno Reggio Calabria - Milano, Gratteri parla di “miracolo” per il numero di forze - oltre 3mila carabinieri - mobilitati nel giro di un paio d’ore. E racconta di un’indagine - diretta dai pm Antonio De Bernardo, Annamaria Frustaci, Andrea Mancuso, con il coordinamento del procuratore capo Gratteri - che fin da principio i magistrati hanno dovuto difendere da continue fughe di notizie.
“Abbiamo avuto problemi fin da quando la richiesta di misure cautelari è stata trasmessa al gip”. Il motivo sta tra le carte dell’inchiesta, che non solo ha ricostruito assetti, gerarchie e affari di 9 locali di ‘ndrangheta, 4 omicidi e 3 tentati omicidi per lungo tempo rimasti insoluti, ma ha toccato il più alto e fino ad oggi impenetrabile livello, in cui la ‘ndrangheta si mischia con la politica, le istituzioni, la pubblica amministrazione. “La cosa che più mi ha impressionato in questa indagine - dice il procuratore Gratteri è stato il livello di permeabilità alla ‘ndrangheta dimostrato da politica e istituzioni. Fra gli arrestati c’è il comandante provinciale dei carabinieri di Teramo”.
Il canale è massonico, usa come paravento le logge ufficiali, ma si struttura in una rete che non bada ad appartenenze e obbedienze. Un mondo fatto di un “coacervo di relazioni tra i ‘grandi’ della ‘ndrangheta calabrese e i ‘grandi’ della massoneria”, cioè professionisti “ben inseriti nei contesti strategici (giudiziario, forze armate, bancario, ospedaliero e via dicendo)”. È a questo livello che matura il rapporto fra i due principali indagati dell’operazione, il capocrimine di Vibo Valentia, il boss Luigi Mancuso “Il Supremo”, vertice assoluto dei clan della zona e fra i massimi capi della ‘ndrangheta tutta, e l’ex parlamentare di Forza Italia e avvocato, Giancarlo Pittelli, “legato stabilmente al contesto di ‘ndrangheta massonica’, stabilmente a disposizione dei boss (e dunque delle sfere più alte della consorteria)”.
Per il pentito di ‘ndrangheta Cosimo Virgiglio, esponente di alto rango della massoneria, l’ex parlamentare “aveva una doppia appartenenza, una "pulita" con il Goi (Grande Oriente d’Italia) del distretto catanzarese e poi una loggia coperta, "sussurrata"; lui aveva rapporti con quelli della loggia di Petrolo di Vibo”. La più potente ed influente secondo il collaboratore. E proprio per questo l’avvocato “accreditato nei circuiti della massoneria più potente, è stato in grado di far relazionare la ’ndrangheta con i circuiti bancari, con le società straniere, con le università, con le Istituzioni tutte, fungendo da passepartout del Mancuso, per il ruolo politico rivestito, per la sua fama professionale e di uomo stimato nelle relazioni sociali”. Il contesto in cui Pittelli si muove - sottolineano i magistrati - è “molto grigio, una zona d’ombra nella quale si addensano tutti i più alti interessi delle persone con cui entra in contatto. Si tratta di relazioni intessute a condizione di reciprocità perché, come si evince globalmente, lo stesso Pittelli ne trae un tornaconto personale”.
Noto penalista e politico di lungo corso, Pittelli - emerge dalle carte - era vicinissimo a Mancuso e non solo per motivi professionali. “L’apporto dell’avvocato non è riducibile a una partecipazione esterna” si legge nell’ordinanza, anche perché avrebbe “condiviso la modalità di conduzione della cosca, aderendo alla “politica gestionale” di Luigi Mancuso”. Per i magistrati “La messa a disposizione di Pittelli nei confronti di Luigi Mancuso (ma anche di Saverio Razionale, di altri esponenti della ‘ndrangheta reggina e via discorrendo) è costante e sistematica”.
Amico intimo del boss, a cui era legato da un rapporto confidenziale, come documentato dalle conversazioni registrate dagli investigatori del Ros nel corso di una serie di incontri, è stato fondamentale per l’intero clan. È lui - accusa il pool di magistrati che ha lavorato all’indagine - a mettere a disposizione del clan “il proprio rilevante patrimonio di conoscenze e di rapporti privilegiati con esponenti di primo piano a livello politico-istituzionale, del mondo imprenditoriale e delle professioni, anche per acquisire informazioni coperte dal segreto d’ufficio e per garantirne lo sviluppo nel settore”.
Ma anche per una serie di favori e servizi. Dalla raccomandazione per la figlia del boss Mancuso che non riusciva a superare un esame universitario a Messina al tentativo di far assumere al Gemelli il figlio di un altro elemento di vertice del clan, alla richiesta del boss “di intercedere presso la Regione Calabria per il trasferimento di un direttore delle Poste legato ai Piromalli (per cui si faceva anche latore di imbasciate su Cutro)”, Pittelli era sempre a disposizione. E in mano al clan avrebbe messo anche una rete di rapporti e conoscenze necessaria per concludere affari milionari, come la speculazione immaginata e poi fallita su un villaggio turistico del vibonese.
“Oggi è giornata storica e non solo per la Calabria - commenta Gratteri - ma non è una frase fatta, è il mio pensiero, il pensiero di un uomo di 61 anni che ha dedicato oltre 30 anni di lavoro a questa terra. Tutto è partito dal 16 maggio 2016, giorno in cui mi sono insediato. Era importante avere un’idea una strategia, un sogno, una rivoluzione. Ho pensato questo il giorno del mio insediamento: smontare la Calabria come un Lego e poi rimontarla piano piano”. Un primo risultato è stato raggiunto, ma adesso - afferma - tocca alla società civile “Bisogna occupare gli spazi che noi abbiamo liberato. Questa è la sfida da oggi, se vogliamo davvero cambiare le cose”.
* la Repubblica, 19 dicembre 2019 (ripresa parziale).
«Querelare il “Corsera” non aiuterà la Calabria»
di Emiliano Morrone*
Querelare il “Corriere della Sera” non risolve, a mio parere, il problema dell’immagine della Calabria nel resto dell’Italia e del mondo. Lo dico intanto ai 51 sindaci calabresi che procederanno per un recente articolo dell’inviato Goffredo Buccini in materia di scioglimenti da infiltrazioni (qui l’articolo sull’annuncio dei sindaci).
Nel complesso la regione non è identificabile con la mafia, le faide, le minacce, il sangue e il dolore perpetrati dalle consorterie criminali. Ma è pur vero che la cronaca ne registra la ricorrenza davanti alla distrazione o al silenzio cieco nei partiti, nei quali manca oltremodo l’animo di allontanare personaggi ambigui e sospetti, se non dopo arresti clamorosi, e di manifestare ripugnanza davanti a pratiche e comportamenti illegali.
Va trovato un equilibrio nel giudizio individuale e collettivo, auspicando una narrazione interna della Calabria diversa da quella di vari governi locali, incline a celebrare l’effimero per coprire incapacità e opportunismo di eletti, dirigenti e funzionari. Giova un appello alla politica perché colga e promuova l’utilità del racconto delle potenzialità e delle risorse, soprattutto creative e sociali, dell’intero territorio, ancora periferico e gravato dal pregiudizio della mafiosità genetica, ontologica, del calabrese in quanto tale.
Su “Sette” del “Corriere della Sera”, Cesare Fiumi scrisse nell’ottobre 2012 un bellissimo reportage sulla Calabria, cui collaborai, intitolato «Indagine su una regione al di sotto di ogni sospetto». La celebre firma partì dalla geografia e antropologia del luogo, segnato dall’onnipresenza del cemento, dalle frane e dall’incuria, pervaso dalla fascinazione del brutto e dalla “didattica” dell’arrendevolezza. Intervistò figure di una resistenza civile che non suscita curiosità, scalpore, emozioni: utopisti intramontabili come Nino De Masi o Francesco Minervino, ostinati nel credere, malgrado il sistema, alla vittoria futura delle regole, delle istituzioni, del popolo sano di Calabria.
In ben otto pagine di approfondimento, compendiate dalle fotografie emblematiche - di Enrico De Santis - della doppiezza nella modernità calabrese, Fiumi riportò ombre e luci della regione, superando stereotipi e credenze comuni per cui saremmo marci e spacciati quale gente. Dal suo sguardo di “forestiero” uscì un quadro descrittivo e indirettamente prescrittivo, che varrebbe riprendere per un discorso serio, prospettico, su come la Calabria si possa presentare fuori confine.
Negare la penetrazione della ’ndrangheta sarebbe sciocco, prima che ridicolo. E sarebbe disonesto ignorare l’impegno quotidiano di educatori, imprenditori, operai, religiosi, intellettuali, cronisti, magistrati, tutori dell’ordine, volontari e coscienze libere, volto a costruire una Calabria produttiva e solidale, nemica della violenza e foriera di speranza.
La politica deve e può imboccare la via della saggezza e della lungimiranza, rinunciando alla chiusura che la caratterizza; all’ossessione di marchiare battaglie e iniziative di progresso; al vizio di “oscurare” pensieri, parole e opere di figure non allineate o perfino neutrali; alla vecchia malattia di controllare e blindare gli spazi e il farsi della vita democratica; all’idea che la sede penale determini di per sé il riscatto collettivo dopo decenni di pesante emigrazione dalla Calabria, dopo lustri attraversati dalla nostra inattitudine - di residenti - a cooperare sulle priorità, a divulgare per bene l’importanza storica, il patrimonio disponibile e le eccellenze del luogo.
Tanti amministratori pubblici hanno sollevato nel tempo un problema che merita attenzione, correlato al ragionamento finora sviluppato. Va riformata la disciplina sugli scioglimenti e sulle interdittive. Questo non significa che bisogna rammollirsi nella lotta all’inquinamento mafioso. Occorre invece un confronto politico di profondità per articolare norme in grado di evitare il discredito istintivo e l’impulsiva catalogazione di popolazioni, aziende e origini personali, ma sempre a difesa dell’imparzialità dei settori pubblici e della libertà economica.
Per il resto, prendersela con le testate nazionali non modifica la realtà, che tocca a noi riconoscere e rappresentare. Nel bene e nel male.
*giornalista
«Chi fa antimafia non può delegittimare la Giustizia»
di Emiliano Morrone*
Sino a prova del contrario sono impulsive e gratuite le recenti affermazioni di Adriana Musella e Maria Teresa Russo sull’inchiesta che le tocca da vertici dell’associazione antimafia “Riferimenti-Gerbera Gialla”. Le due, ha ricordato il “Corriere della Calabria”, sono a vario titolo indagate per abuso d’ufficio, appropriazione indebita e malversazione ai danni di ente pubblico.
La prima ha scritto: «Restituiamo allo Stato i beni a noi affidati, nell’impossibilità di poter continuare nel nostro impegno. Hanno voluto così e così sia». E poi, in crescendo: «Questa non è la nostra sconfitta, ma quella dello Stato di diritto. A questo Stato e alla causa, siamo coscienti di avere già dato e tanto, forse troppo. Lo abbiamo fatto perché abbiamo creduto. Oggi non crediamo più».
La seconda ha parlato, nella scuola di cui è preside e davanti agli studenti, di un «tentativo di delegittimazione, operato da apparati dello Stato che hanno redatto informative con falso ideologico artatamente costruito».
La libertà di manifestazione del pensiero è sancita dalla Costituzione repubblicana all’articolo 21. Questo non significa che si possa dire ciò che si vuole, senza tenere conto del peso, degli effetti delle proprie esternazioni.
È banale ripetere quanto invano suggerisce il buon senso: ci si difende sempre nel singolo procedimento, in uno Stato democratico. Soprattutto gli esponenti dell’antimafia civile, dunque, non possono delegittimare la giustizia penale con tesi, come quelle di Musella e Russo, che alludano al complotto. Non è bello, non è giusto, non è coerente con lo specifico di ruoli e attività svolti, nella fattispecie con fondi pubblici.
La logica e la cultura antimafiosa impongono di riferire e circostanziare, nel caso in cui si conoscano o presumano trame a danno della propria storia, della propria immagine e credibilità. Perciò le vie sono due: o Musella e Russo sanno chi, come e perché a loro dire sta provando a screditarle, e quindi spieghino come d’obbligo, oppure non hanno elementi a sostegno delle loro dichiarazioni e pertanto tacciano.
Ora è il momento peggiore per la Calabria: regna una confusione senza precedenti ed è complicato orientarsi, distinguere, vivere in pace e libertà. Una parte della politica è dentro la ’ndrangheta e viceversa, la massoneria deviata gestirebbe l’accademia per candidati dell’antistato, su pezzi dell’antimafia civile gravano sospetti di tradimento della missione statutaria e alla Chiesa tocca combattere contro l’inquinamento di sacrestie, parrocchie e oratori.
Impossibile uscirne se non ci facciamo Stato, se, cioè, non cominciamo ad assumere posizioni culturali, politiche e morali che preservino le istituzioni di governo e controllo dall’illegalità e dalla corruzione dilaganti.
La sfida per la Calabria richiede la volontà di pulizia nelle forze politiche; l’indipendenza e la correttezza dell’informazione; il radicamento della cultura dei diritti e delle regole da parte delle agenzie formative, intanto nell’istruzione pubblica; la pratica del vangelo dei poveri e degli ultimi negli ambiti religiosi; la trasparenza dentro le pubbliche amministrazioni; la (non più rinviabile) discesa in trincea degli intellettuali e attori sociali; la garanzia di un reddito adeguato a singoli e famiglie emarginati.
Nel dominio del capitalismo finanziario e dei consumi, stiamo perdendo di vista l’obiettivo principale, cioè la costruzione di un futuro migliore per i più giovani, oggi senza lavoro e certezza di pensione. In Calabria si sfruttano a oltranza il patrimonio comune e il bisogno delle masse, la responsabilità e le funzioni del potere, le postazioni d’influenza e l’ignoranza generale sulla gestione dei soldi e degli uffici pubblici, compensata da forme di appagamento virtuale ed effimero che non ribaltano lo stato comatoso dei servizi, dell’economia e della tutela dei diritti. Intanto molta politica punta alla propria sopravvivenza, come dimostrano le trattative romane per le imminenti elezioni. E tace, immobile, sui vecchi problemi che producono emigrazione, astensionismo, sfiducia nel palazzo e solidarietà meccanica verso i potentati criminali.
*Giornalista
* CORRIERE DELLA CALABRIA, 19.01.2018 (ripresa parziale, senza immagini).
“Stige”, Gratteri e il mutismo dei politici
di Emiliano Morrone*
La rete ha condiviso e universalizzato l’intervista che giorni fa il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri ha rilasciato su “La7” a Giovanni Minoli, l’inventore di “Mixer”. L’eco delle parole, dei pensieri del magistrato continua ad arrivare nelle case degli italiani, anche di quelli che ritenevano la ’ndrangheta un fenomeno circoscritto, il prodotto invendibile di una Calabria arretrata, avulsa dalla modernità digitale e globalizzante.
Con la sua tragica spettacolarità, la strage di Duisburg, del 15 agosto 2007, fu forse il primo, diffuso segnale dell’efferatezza e internazionalizzazione della criminalità organizzata di matrice calabrese. Nella memoria collettiva rimangono le immagini della quiete dopo la tempesta davanti al ristorante “Da Bruno”; dello stupore incredulo della polizia tedesca, che identificavamo nell’ispettore Stephan Derrick e nel fido assistente Harry Kleyn a bordo di lunghe Bmw con lampeggiante mobile, nella loro Scientifica rapida e infallibile.
Ma ci fu un precedente, forse dimenticato: lo sventramento della blindata di Carmine Arena nella lontana provincia crotonese, provocato da un colpo di bazooka sparato con impareggiabile freddezza. La foto dell’auto squarciata del boss di Isola Capo Rizzuto girò per mezzo mondo, che restò basito e conobbe i metodi, la firma, la comunicativa della ’ndrangheta militare.
Gratteri non guarda soltanto all’onorata società dei riti di affiliazione, dei kalashnikov e delle vendette sanguinarie. “Arresta” politici, racconta delle connivenze e, soprattutto, delle insufficienze, della debolezza nello Stato, delle norme penali e delle istituzioni pubbliche. Salva le divise: i poliziotti difesi da Pier Paolo Pasolini, i carabinieri eredi di Silvio Corrao e Calogero Vaccaro, i finanzieri alla Fabrizio Ferrara, trafitto da un proiettile alla nuca, gli eroi come Natale De Grazia e il vigile urbano Michele Liguori, che in solitudine lottarono contro l’avvelenamento del Sud da rifiuti.
Elucubrazioni intellettuali a parte, il mancato ministro della Giustizia, escluso dal governo Renzi dal presidente Giorgio Napolitano, dice e divulga la verità: i partiti fingono di ignorare che la ’ndrangheta fa le liste elettorali o le “scala” con i suoi portavoti; a volte simbolici e influenti come il parente del collaboratore Francesco Oliverio, stando a dichiarazioni rese dall’ex capobastone, alle precedenti comunali di San Giovanni in Fiore (Cs).
Gratteri, avversato con l’arbitraria, fantasiosa attribuzione di mire di palazzo, lavora come un matto nella Procura di Catanzaro, aggredisce il sistema delle complicità e obbliga i suoi all’orario continuato. Soprattutto, avverte del pericolo più grave, che è il dominio della ’ndrangheta nei pubblici poteri: politici e di gestione degli uffici. Ma i partiti, che Paolo Borsellino invitava alla pulizia morale, continuano sovente con i loro “giochi”, col solo obiettivo di vincere a tutti i costi. È un circolo vizioso che alimenta quella corruzione virale per cui il compianto avvocato Federico Stella ammoniva, sotto “Tangentopoli”, che «l’Italia è nel baratro».
Allora è successo che, malgrado i 169 arresti dell’operazione “Stige”, i big politici della Calabria si siano chiusi nel mutismo dell’indifferenza, benché l’inchiesta abbia ricostruito un giro di affari e rapporti tra “parrocchie” di ’ndrangheta e amministratori locali, col solito, per ora presunto, business dei rifiuti e i tentacoli, pare, sul patrimonio boschivo della Sila; forse l’area col maggiore tasso europeo di spopolamento, disoccupazione e assistenza pubblica.
Denunciai questa realtà di oppressione permanente nel lontano 2007, insieme allo scrittore Francesco Saverio Alessio nel libro “La società sparente”. Fummo derisi e, sembrerebbe, “risparmiati” per accorta strategia. I fatti contenuti in quel volume stanno venendo a galla, ma l’isolamento degli autori continua. In compenso, sui social campeggiano messaggi di ostentata solidarietà verso alcuni arrestati nell’ambito di “Stige”; nel silenzio imperturbabile dei monti, degli eletti, degli elettori del luogo, in cui il lavoro è più spesso un inganno, o al massimo il prezzo di un ricatto.
*Giornalista
’Ndrangheta: Procuratore, le cosche governano la Calabria
Convegno alla Camera. De Raho, ’A Gioia Tauro entrano almeno 10 tonnellate di cocaina l’anno’
di Redazione ANSA *
"La Calabria continua ad essere governata dalla ’ndrangheta": a dirlo è stato il procuratore capo di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho, al convegno "Uscire dal cono d’ombra". "In Calabria la ’ndrangheta controlla passo passo tutto quello che avviene. Nel porto di Gioia Tauro, prima porta di accesso in Italia per la cocaina, sequestriamo 1 tonnellata di cocaina all’anno, il che vuol dire che ne entrano almeno 10 tonnellate. La cocaina si trasforma in denaro che entra nell’economia apparentemente legale ma che in realtà è drogata, inquinata", ha spiegato il procuratore. "Oggi la ’ndrangheta è formata da commercialisti, avvocati, imprenditori, persone che vestono in giacca e cravatta - ha aggiunto - ma ultimamente le cose stanno cambiando, stanno arrivando le denunce, nel 2015 ci sono stati 13 collaboratori, un fatto straordinario. "La ’ndrangheta vive sulla confusione, sul silenzio e con il silenzio è diventata forte", ha concluso.
"Se di ’ndrangheta si fosse parlato di più, oggi non sarebbe così forte. Se Cosa Nostra è stata indebolita anche se non sconfitta, questo è dipeso da quanto è avvenuto dopo le stragi, in quel periodo invece la ’ndrangheta scelse di tirarsi indietro. Oggi la ’ndrangheta si muove sull’intero globo, con la sua capacità di riciclaggio e reimpiego di denaro". Così il procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho al convegno "Uscire dal cono d’ombra" in corso alla Camera.
Senza Trattati impossibili indagini
Il Trattato di cooperazione giudiziaria con gli Emirati Arabi e quello per il rientro dei latitanti in Italia "sono importanti, ci sono latitanti eccellenti che si sono rifugiati negli Emirati Arabi. Non solo negli Emirati, ma anche nelle Antille olandesi, per esempio, e in altri Paesi, vengono postate le ricchezze della ’ndrangheta.
"Porto franco", viaggio nella ’ndrangheta
da criminalità contadina a impresa globale
Il libro di Francesco Forgione, ex presidente della Commissione antimafia, è un saggio-inchiesta che con ritmo da romanzo ricostruisce mezzo secolo di storia, gli intrecci con la politica, i servizi, il mondo degli affari. "Ma il cuore, l’intelligenza" dell’organizzazione "restano in Calabria ed è lì che bisogna intervenire, cambiando i calabresi"
di SILVANA MAZZOCCHI *
Raccontare la ’ndrangheta come una saga delle famiglie vincenti sopravvissute alle faide interne e alle inchieste giudiziarie più incisive; svelare i loro affari milionari e gli intrecci con la politica, ricostruire mezzo secolo di storia criminale dalla Calabria al nord Italia, descrivere la nuova realtà che promuove la ’ndrangheta da mafia locale a potenza globale. Una sfida riuscita per Francesco Forgione, 52 anni, calabrese, ex presidente della Commissione antimafia che, con Porto Franco, saggio-inchiesta scritto con il ritmo del romanzo, ricostruisce mezzo secolo di ’ndrangheta, con storie e personaggi veri (numerosi gli episodi e i dettagli tratti dalle recenti indagini giudiziarie), e bene spiega la realtà criminale di oggi.
In principio, tutto ruota intorno a Gioia Tauro, avverte l’autore che dedica il primo capitolo alla Piana ribattezzata Gioia nostra, un paesone di diciannovemila persone, Comune sciolto più volte per inquinamento mafioso e feudo della onnipotente famiglia dei Piromalli, i traghettatori tra la mafia contadina e quella attuale, moderna e imprenditoriale. Per decenni gli interessi della Piana e del Porto si sono incrociati con pezzi di potere della prima Repubblica (ma non solo), con la collaborazione di imprenditori corrotti, politici collusi, servizi segreti infedeli, massoni compiacenti. E quanti affari loschi, droga, omicidi, azioni criminali per arrivare a svecchiare la ’ndrangheta e a renderla quella di oggi, un potere parallelo, sviluppato e fiorente tanto da resistere all’impegno rinnovato della magistratura e delle forze dell’ordine.
Porto franco evidenzia le tessere del mosaico criminale: le parentele fra famiglie, gli intrecci con i personaggi della politica, gli effetti della corruzione e delle complicità, gli omicidi e gli affari. Con nomi, cognomi e circostanze. Ma, soprattutto, ed è questa la particolarità del libro, l’ex presidente della Commissione antimafia accende i riflettori sul percorso che ha reso la ’ndrangheta "un’organizzazione globale, potente e invincibile... Ci si affilia a Milano, a Duisburg e a Toronto", sottolinea Forgione "... ma il cuore, l’intelligenza organica della ’ndrangheta vivono in Calabria e si alimentano della sua storia...".
E allora che fare per vincere un’organizzazione criminale che gestisce insieme l’antico e il moderno, che collega tradizioni e web, e che ha diramazioni ovunque nel mondo? Conoscere innanzi tutto, ripartire dalla Calabria e capire come sia stato reso possibile il prosperare di questo vergognoso Porto franco fuori da ogni legalità. Ormai da qualche anno, le maglie dello Stato si sono fatte più strette: si sono moltiplicati gli arresti e le inchieste giudiziarie ottengono eccellenti risultati. Protagonisti e storie "tra passato e presente hanno tessuto una inquietante trama", conclude Forgione "ma non è scritto su alcuna "tavola" che il futuro di questa trama debba continuare a essere prigioniero".
La Calabria è davvero un Porto franco?
"Da almeno cinquant’anni la Calabria è un porto franco per la democrazia, prima ancora che per la legalità, che qui, nel deserto di diritti e opportunità, è un’idea astratta. Solo in questa terra si è vista una commistione tra ’ndrangheta, massoneria, servizi deviati, apparati dello stato, giudici, tale da creare un potere parallelo, separato e allo stesso tempo interno allo Stato. A differenza della Sicilia, tutto è avvenuto nel silenzio più assoluto. Quello delle armi della ’ndrangheta che non hanno quasi mai sparato contro uomini dello Stato, politici, giornalisti, magistrati, fatta eccezione per il magistrato Antonino Scopelliti e il vice presidente del Consiglio regionale, Francesco Fortugno; e quello della politica e delle istituzioni che la ’ndrangheta non l’hanno mai voluta vedere e combattere. Basti pensare che la Commissione parlamentare antimafia esiste dal 1963 e la sua prima relazione sulla mafia calabrese è del febbraio del 2008. I capi della ’ndrangheta, dal loro punto di vista criminale, sono stati più intelligenti dei Corleonesi di Cosa nostra: si sono tenuti inabissati, hanno accumulato potere economico e forza politica, si sono espansi nel nord dell’Italia e nel resto del mondo, si sono protetti dalla reazione dello Stato e "dall’infamia" dei pentiti e si sono via via trasformati in un potere parallelo. E, anche quando hanno acceso i riflettori su di loro, come dopo la strage di Duisburg, hanno avuto la capacità di ricreare un cono d’ombra. Ma il vero problema non è la ’ndrangheta. E’ la politica, il mondo economico, la borghesia, gli intellettuali, l’informazione, che hanno fatto della Calabria una zona franca".
Com’è cambiata la ’ndrangheta in cinquant’anni?
"Dall’inizio degli anni ’70 a oggi, si è compiuto il vero salto della ’ndrangheta nella dimensione economica e finanziaria globale. Dopo la rivolta dei Boia chi molla di Reggio nel ’70, con la massa di miliardi arrivati per la costruzione della Salerno-Reggio Calabria, per il V centro siderurgico mai realizzato e per il porto, la dimensione imprenditoriale ha preso il sopravvento. Certo, i boss non hanno mai smesso di sparare e di uccidere, ma hanno privilegiato gli affari e le imprese. Ovviamente supportati dalla grande massa di ricchezza prodotta dal traffico della cocaina di cui i boss calabresi sono i principali importatori in Europa. Un po’ come avveniva negli anni ’70, quando i sequestri di persona fornivano la liquidità finanziaria per trasformarsi in imprenditori. La novità vera, nel panorama criminale internazionale, è però costituita dalla sua capacità di assumere una dimensione globale. Perché i comuni che vengono sciolti al nord lo sono sempre per ’ndrangheta, e non per camorra o per Cosa nostra? E’ avvenuto da Bordighera a Ventimiglia, da Canavese Po a Busto, da Nettuno in provincia di Roma a Fondi, in provincia di Latina, bloccato all’ultimo momento dal governo Berlusconi. Perché la ’ndrangheta, fuori dalla Calabria, non ricicla soltanto i propri soldi o cura i propri affari, attività comune alle altre mafie, ma riproduce un modello criminale e un modello antropologico culturale: crea le ’ndrine, dà vita ai "locali", si dota del Crimine, e di una "cupola", regione per regione. E, ancora, "pezzi" di Calabria, comunità chiuse, riti religiosi. Cioè un modello di consenso e di controllo del territorio simile a quello della terra d’origine, che vuol dire controllo delle imprese, della pubblica amministrazione, della stessa politica e della stessa società. Questo è avvenuto in Lombardia, Liguria, Emilia, Piemonte, con la complicità di chi ha governato in queste regioni, Lega e Pdl innanzitutto che emerge come il partito più inquinato. Ormai decine di inchieste lo documentano. Insomma, politica, finanza e massoneria hanno dato a questa mafia una dimensione di potere parallelo, nazionale e globale. Sullo sfondo, candidature, voti, petrolio, gas, multinazionali farmaceutiche, traffico di oro... In mezzo, faccendieri, imprenditori, avvocati, politici, magistrati, agenti dei servizi. Una terra di nessuno nella quale il passato della Prima Repubblica è traghettato nella modernità del sistema liberista e berlusconiano".
Storia criminale e storia politica. E il futuro?
"In Calabria è quasi impossibile distinguere la storia criminale da quella delle classi dirigenti e della politica. A differenza della Sicilia dove forti sono stati i conflitti nei partiti, nella magistratura, nella società, nella chiesa, in Calabria tutto è palude. Si è persa ogni linea di confine, non c’è mai stata una rivolta della società civile, o degli imprenditori. Tutto è doppio. E anche l’informazione nazionale, compresa quella cosiddetta antimafia e d’inchiesta, continua a non voler vedere, capire. Per questo racconto storie piccole e grandi. Perché, proprio ora che tutti parlano della ’ndrangheta come potenza criminale globale, è necessario ritornare in Calabria, sconfiggerla e combatterla lì. Cambiando anche i calabresi, rompendo i loro silenzi e la loro omertà sociale. E quindi trasformando radicalmente la politica e le istituzioni che rappresentano l’altra faccia e la forza principale di cui godono i boss della ’ndrangheta per accumulare potere, consenso e ricchezza. Però, per fortuna, i santuari intoccabili stanno crollando e, anche se non è detto che ci si riesca, neanche è "scritto" che siamo destinati a perdere".
Francesco Forgione
Porto Franco
Dalai editore
pag.408, euro 18.
* la Repubblica, 08 giugno 2012
La maschera caduta
di Roberto Saviano (la Repubblica, 01.12.2011).
È una rivoluzione per chi si occupa di mafie. La sentenza del Tribunale di Milano del 19 novembre, con le 110 condanne al processo sulla ‘ndrangheta al Nord, e l’inchiesta che ha portato all’arresto di un giudice cambiano la storia del potere - non solo criminale - del nostro Paese.
La sentenza e questa inchiesta sono di carattere epocale perché mostrano una volta per tutte che le mafie comandano anche e soprattutto nell’economia del Nord Italia. Al Sud agiscono nelle modalità più violente, sia militari sia di accaparramento degli appalti. Considerano il Mezzogiorno come un territorio a loro completa disposizione. Il Nord, invece, è il luogo del silenzio facile, degli affari redditizi, dell’inesistente cultura dell’antimafia nelle istituzioni e di una robusta omertà da parte di tutti. Un luogo perfetto.
Il meccanismo di insediamento è capillare. L’imprenditoria del Nord Italia ha un canale di approvvigionamento di capitali attraverso il narcotraffico. L’economia italiana che già da anni subisce una progressiva crisi ha trovato nel territorio dell’illegalità capitali freschi. Soprattutto liquidi. L’insegnamento che emerge dalle carte dell’inchiesta porta a questa certezza: in economia vince chi riesce a usare ogni possibilità per sbaragliare la concorrenza. Chi segue le regole o non esiste o è già uno sconfitto.
Questa indagine che vede coinvolti personaggi delle istituzioni descrive la società civile mafiosa. Non affiliata: non ci sono pungiture, non ci sono battesimi, non ci sono pistole in faccia. I personaggi di questa inchiesta entrano in rapporto con i boss come se fossero normali interlocutori, senza dar troppo peso morale al proprio comportamento. Sembrano non avere neanche piena coscienza di quello che fanno. Forse hanno la sensazione, molto italiana, che così fan tutti, anzi che qualcuno starà facendo sicuramente peggio di loro.
E così scopriamo (se le indagini venissero confermate) un giudice che sarebbe stato corrotto favorendo la carriera della moglie, dirigente della provincia diventata commissario straordinario della Asl di Vibo Valentia e poi a sua volta inquisita per mafia. Scopriamo un altro magistrato, Giancarlo Giusti, di Palmi, che sarebbe stato corrotto con una serie di viaggi e soggiorni a Milano pagati dall’associazione con l’utilizzo di una ventina di escort diverse. La frase di Giusti emersa dalle intercettazioni "io dovevo fare il mafioso, non il giudice" è indice di una connivenza gravissima quanto cialtrona. Neanche il più corrotto dei magistrati si è mai relazionato così direttamente ad un affiliato: anche perché il suo ruolo, la sua professione è la "merce" che vende al mafioso, e non può svilirla. In questo caso invece c’è superficialità, connivenza, complicità assoluta: la corruzione viene percepita come un diritto naturale e acquisito.
Usando un concetto di Guy Debord, definito per comprendere la società dello spettacolo "il vero è un momento del falso" si può affermare che dopo queste inchieste pare evidente che l’illegale sta diventando un momento del legale. In passato l’attività criminale si contraddistingueva per l’efferatezza delle azioni, per i "lavori sporchi", per le operazioni evidentemente e platealmente fuorilegge. Era un mondo a parte. Oggi, e da molto tempo, non più. Sempre di più il coinvolgimento di settori di società con il mondo criminale avviene seguendo un percorso imprenditoriale e politico almeno all’apparenza lineare, in cui i momenti di illegalità sono appunto "momento". Fasi che servono per guadagnare di più, per ottenere favori, per emergere nel proprio campo. E in quanto "fasi" le persone che le vivono si perdonano facilmente, non si sentono nè traditrici né corrotti.
Sembra delirante ma è ciò che emerge dall’inchiesta condotta dal pool del pm Boccassini. Il metodo Boccassini, erede del metodo Falcone, si contraddistingue per la ricerca capillare delle prove e un prudente rigore nella comunicazione delle indagini ai media: nulla parte da sensazioni o solo dalle intercettazioni o dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Ilda Boccassini è stata spesso attaccata, isolata, stressata dal fango e dalle accuse di politicizzazione. Tutto questo è accaduto anche dentro l’ambiente della magistratura stessa. Queste inchieste e queste sentenze dimostrano, invece, che il suo metodo è rigoroso, ed è grazie al suo lavoro che possiamo gettare luce su una realtà del Nord che tanti non vogliono vedere.
Esattamente un anno fa La Lega e l’ex ministro Maroni rimasero scandalizzati quando denunciai in tv che le mafie al Nord interloquivano con i poteri, con tutti i poteri, nessuno escluso. Domandavo cosa facesse la Lega mentre dilagavano, e dilagano, i capitali criminali. Cosa facesse mentre gli imprenditori lombardi messi a dura prova dalla crisi economica entravano in rete con le ‘ndrine. Il quotidiano della famiglia Berlusconi lanciò addirittura una campagna e una raccolta di firme contro di me, reo di "dare del mafioso al Nord".
Io non ho mai detto né pensato che "il Nord è mafioso", naturalmente. Ma bisogna riconoscere che, oltre le fiaccolate contro il soggiorno obbligato e qualche iniziativa simbolica tesa ad aumentare la repressione, gran parte della politica e della cultura del settentrione italiano (con alcune coraggiose eccezioni, per fortuna) è stata silente sul potere delle cosche. E ora vorrei vedere i visi, ascoltare le parole di chi per decenni ha nascosto la testa nella sabbia, ha fatto finta di niente, ha permesso che il Nord diventasse parte fondamentale dell’economia mafiosa. E chiedere: perché?
IMMAGINI INEDITE
Nel Santuario la ’ndrangheta
consacra il suo nuovo capo
Alcuni filmati registrati dai carabinieri nel corso delle indagini mostrano per la prima volta le immagini dei capi delle cosche che si riuniscono, in pubblico e in un luogo sacro calabrese, stretti attorno al nuovo capo. Che dà le sue regole e i suoi codici d’onore
di PIERO COLAPRICO *
La Madonna dei Polsi ha due devozioni: una popolare e cattolica, e un’altra elitaria e da setta, ed è quella della ’ndrangheta. Il filmato che è stato ripreso all’ombra del santuario mostra quel mix di simbologia sacra e di potere nero, occulto, invasivo, che ha reso i clan calabresi tra i più forti e temuti del mondo. Votare, dirsi chi è Il Crimine, e cioè il boss dei boss, mentre intorno si accendono candele sacre da parte dei fedeli serve a sgarristi e picciotti anche a sentirsi "parte di una comunità" più estesa, più vasta. Il rito pagano di mischia al rito religioso e c’è la sensazione, e la tentazione, di avvertire come "divino" un potere che ha a che fare con omicidi, con estorsioni, con sequestri di persona, con il traffico della droga, con l’ecomafia che avvelena la terra dove cammineranno anche i loro figli.
Nemmeno Francis Ford Coppola avrebbe potuto concepire per il suo "Padrino" la verità che emerge da queste riprese, fatte da un tecnico che ha lavorato insieme con i detective. Come ai "Polsi" si decidono i destini degli uomini, le carriere, chi è bravo e chi deve modificare il suo atteggiamento (la pena per chi esagera con l’indipendenza è la morte), così a Milano, nel circolo intitolato a Falcone e Borsellino, si sono visti i boss votare il loro Capo, quello che incarna per tutti al Nord il volere della ’ndrangheta. Quella che sembrava un gruppo di famiglie scollegate una dall’altra, dopo quest’inchiesta, è diventata qualcosa d’altro. I pm vogliono che la Cassazione riconosca che anche i clan calabresi hanno una cupola, che esiste un Totò Riina della ’ndrangheta, e che nessuno estraneo, prima della retata di lunedì notte, lo sapeva.
* la Repubblica, 14.07.2010
Maxi blitz contro la ’ndrangheta
trecento arresti in tutta Italia
L’operazione svela una struttura simile a Cosa Nostra: tre mandamenti calabresi, c’è un organo di vertice e "la Lombardia", la struttura nordica, con una "Camera di controllo deputata al raccordo tra le strutture lombarde e calabresi". In manette anche Domenico Oppedisano, 80 anni, numero uno delle cosche calabresi *
ROMA - Chi litiga è un uomo morto. È stato un omicidio di due anni più che a rivelare, a certificare la "mutazione genetica" della ’ndrangheta. Si chiamava Carmelo Novella, detto compare Nuzzo, aveva sessant’anni e il 14 luglio del 2008 viene ammazzato in un bar di San Vittore Olona. Sembrava il risultato di una faida legata agli appalti nell’edilizia, invece Novella aveva detto in giro che "la Lombardia", e cioè tutti i gruppi di ’ndrangheta trapiantati al Nord, avrebbero potuto "fare da soli", senza la casa madre calabrese. Il desiderio di autonomia è stato stoppato con le pallottole, Novella non sarà più un problema e viene nominato un altro calabrese, Giuseppe Neri, come uomo del raccordo tra il Nord danaroso e il Sud antico e sanguinario.
È questo sangue che scorre al Nord un importante episodio nell’inchiesta ribattezzata "Il Crimine", che è in corso mentre scriviamo, sono in programma tra i duecento e i trecento arresti, tra Calabria e Lombardia. Nei fascicoli dei procuratori Ilda Boccassini e Giuseppe Pignatone sono entrati anche due filmati senza precedenti. Il più clamoroso è stato registrato a Paderno Dugnano, in un centro intitolato - incredibilmente - ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per alzata di mano, e all’unanimità, è stato scelto, dai vertici dei clan calabresi del Nord tutti riuniti, il "mastro generale", e cioè Pasquale Zappia. Una scena degna del film "Il Padrino", ma senza smoking, una versione con abiti casual in stile provincia milanese.
L’altro filmato è avvenuto in Aspromonte, alla Madonna dei Polsi, dove si sono riuniti i boss calabresi. Senza l’aiuto di pentiti, sono stati documentati circa quaranta incontri. E da quanto raccontano i documenti redatti dai carabinieri e dalla polizia, è stata fatta una fondamentale scoperta. La ’ndrangheta sinora non era mai stata considerata come una struttura unitaria, cioè non sembrava "come" Cosa Nostra. E se allora, per stabilire le regole in Sicilia, ci volle il pentito Tommaso Buscetta, qua, oggi, per comprendere le regole calabresi è stato necessario un lavoro certosino. Ma, piano piano, sono emersi i tre mandamenti della ’ndrangheta in Calabria, poi un organo di vertice, che "ne governa gli assetti, assumendo o ratificando le decisioni più importanti".
E poi esiste - ed è sorprendente - "La Lombardia", cioè la federazione dei gruppi trapiantati al Nord, con una "Camera di controllo deputata al raccordo tra le strutture lombarde e calabresi". Una "struttura unitaria", accusano i pm, e hanno scoperto che, ovviamente, i clan al Nord avevano in mente di prendersi qualche buon appalto per l’Expo. Non ci sono riusciti "per il fallimento" della Perego general contractor srl: una ditta di rilievo dove Salvatore Strangio, espressione della famiglia Pelle, soprannominata "Gambazza", faceva il bello e cattivo tempo, per favorire "numerose imprese controllate dagli affiliati lombardi". Ne sono stati individuati ben 160, ma i boss si dicono "che hanno circa 500 unità".
I procuratori Boccassini e Pignatone, che hanno organizzato questa retata senza precedenti, si sono convinti che sia stato il sequestro di Alessandra Sgarella, portata via dalla sua casa bella zona di San Siro nel dicembre del 1997, l’ultima "azione" dei clan tradizionali. Dal Duemila la ’ndrangheta si è trasformata in "mafia imprenditrice".
Ci sono i criminali, ma accanto a loro affiliati lombardi, spesso senza problemi con la giustizia, com’è il caso di un alto funzionario della sanità lombarda: "In virtù del proprio ruolo istituzionale - viene detto di lui - assicura l’assistenza sanitaria, ma anche l’interessamento per investimenti immobiliari e coltiva e sfrutta per i "fini comuni" i legami con gli esponenti politici locali". L’inchiesta sembra riguardare anche il recente voto in Lombardia. Inoltre, da una lavanderia nel centro commerciale di Siderno, gestita dal boss Giuseppe Commisso, si è arrivati a nove locali individuati a Toronto e uno a Thunder Bay, controllati dalla provincia di Reggio. Un’intera rete di relazioni, affari, sembra venire allo scoperto e sono stati sequestrati beni per 60 milioni di euro.
Tra le persone arrestate a Milano, Carlo Antonio Chiriaco, classe 1959, nato a Reggio Calabria, direttore sanitario dell’Asl di Pavia, Francesco Bertucca, imprenditore edile del pavese e Rocco Coluccio, biologo e imprenditore residente a Novara. I tre sono ritenuti responsabili di aver fatto parte della ’ndrangheta attiva da anni sul territorio di Milano e nelle province vicine. Nel corso dell’operazione sono state fatte 55 perquisizioni e sequestri di beni immobili, quote societarie e conto correnti il cui valore è ancora da quantificare.
E in manette è finito anche Domenico Oppedisano, 80 anni, considerato dagli investigatori l’attuale numero uno delle cosche calabresi. La sua nomina a ’capocrimine’ - cioè colui che è al vertice dell’organismo che comanda su tutte le ’ndrine ed e’ denominato ’Provincia’ - sarebbe stata decisa il 19 agosto del 2009 nel corso del matrimonio tra Elisa Pelle e Giuseppe Barbaro, entrambi figli di boss. Un particolare significativo del personaggio: quando Oppedisano doveva parlare non usava il telefono. I suoi ordini arrivavano a Bollate attraverso Rocco Ascone, caposocietà e vicario della cosca locale comandata da Vincenzo Mandalari.
* la Repubblica, 13 luglio 2010
Calabria, 18 arresti hanno decimato i vertici delle cosche Piromalli e Molè
Contro il 41 bis i boss della ’ndrangheta cercarono di avvicinare anche Mastella
Incontri segreti e voti promessi
il pressing dei clan su Dell’Utri
dal nostro inviato ATTILIO BOLZONI *
REGGIO CALABRIA - È la trama della ’ndrangheta che vuole liberarsi dalle catene del 41 bis. Una ragnatela che dalla piana di Gioia Tauro si spande a Roma, si infiltra nei ministeri, raggiunge i bracci delle sezioni speciali delle carceri italiane. Promesse di voti, mosse e contromosse per convincere quei deputati o senatori che "possono fare qualcosa", ricatti, maneggi per ottenere immunità diplomatiche, spiate di magistrati.
Non si fermano davanti a niente e a nessuno i capi della ’ndrangheta pur di diventare dei detenuti come tutti gli altri. I personaggi di questo intrigo sono i Piromalli e i Molè, forse i "capibastone" più potenti della Calabria. In una retata che da queste parti ha pochi precedenti per "portata" investigativa - è anche la prima grande operazione firmata dal nuovo procurarore di Reggio Giuseppe Pignatone - la squadra mobile e i ros dei carabinieri hanno decimato con 18 fermi i vertici di due cosche che erano state solo sfiorate dalle investigazioni negli anni passati. Le "famiglie" che soffocano il porto di Gioia Tauro, quelle che come dice uno dei boss catturati "hanno insieme cent’anni di storia".
Sono loro, i Piromalli soprattutto, che in giro per l’Italia hanno sguinzagliato avvocati e compari e consigliori per agganciare il senatore Marcello Dell’Utri e l’ex ministro della Giustizia Clemente Mastella. Il primo ha ricevuto quei "calabresi" in almeno in due occasioni (alla vigilia delle ultime elezioni politiche), il secondo ha chiuso ogni contatto con loro dopo la prima telefonata. "Maledetto 41 bis, sto tentando di tutto, voglio percorrere una strada segretissima anche al Vaticano", sibila uno di loro al telefono. E poi dice: "Ho cercato anche con la massoneria, per quanto riguarda eventualmente l’intervento di un giudice molto importante".
È alla fine dell’anno scorso che i Piromalli decidono di muovere tutte le loro pedine. È il 3 dicembre del 2007 quando dalla Calabria organizzano per Antonio Piromalli e per il suo amico Gioacchino Arcidiaco (entrambi arrestati nella retata di martedì scorso) un incontro con Marcello Dell’Utri. Dal senatore di Forza Italia vogliono procurare una sorta di immunità attraverso il conferimento di una funzione consolare. Una qualsiasi. Vogliono mettere al sicuro Antonio, il rampollo della "famiglia" con un passaporto diplomatico. In cambio offrono voti e si mettono a disposizione per i "circoli" del senatore nel territorio di Gioia Tauro. Prima di contattare Dell’Utri Arcidiaco chiede ad Aldo Micciché, un ex dc della Piana riparato in Venezuela per sfuggire a grossi guai giudiziari in Italia: "Come mi devo proporre a lui?".
Gli risponde Micciché da Caracas: "La Piana è cosa nostra facci capisciri (fagli capire, ndr), il porto di Gioia Tauro l’abbiamo fatto noi. Fagli capire che in Aspromonte e tutto quello che succede là sopra è successo tramite noi". E ancora: "Ricordati che la politica si deve saper fare. Ora fagli capire che in Calabria o si muove sulla Tirrenica o si muove sulla Ionica o si muove al centro, ha bisogno di noi. Hai capito il discorso? E quando dico noi, intendo dire Gioacchino e Antonio (Piromalli, ndr), mi sono spiegato? Spiegagli chi siamo, che cosa rappresentiamo per la Calabria... io gli ho già detto tante cose". Gli ribatte l’altro: "Gli dico: ho avuto autorizzazione di dire che possiamo garantire per Calabria e Sicilia".
Dopo un primo incontro il 3 dicembre a Milano fra Gioacchino Arcidiaco e Marcello Dell’Utri (c’è con loro l’avvocato di Genova Francesco Lima), ce n’è un secondo a Roma tre giorni prima delle elezioni politiche del 13 aprile. L’inchiesta sta ancora scavando fra i retroscena di quei faccia a faccia, il senatore Dell’Utri sarà ascoltato come testimone.
Gli emissari della ’ndrangheta si sono mossi anche su altri fronti per provare ad avere uno "sconto" sul carcere duro. Contattano una persona - "un mio compare", dice Micciché - vicina al senatore Emilio Colombo, vengono costantemente informati che molti dei loro telefoni sono intercettati - "c’è tutta la rete sotto controllo" - , fanno cenno "a un amico a Palazzo dei Marescialli", ricevono soffiate da due famosi magistrati in pensione di Reggio. Incontrano. Parlano. Garantiscono.
È sempre Aldo Micciché che informa i Piromalli. Una volta racconta che il deputato dell’Udc Mario Tassone si sarebbe "messo a vostra completissima disposizione" e "che tira aria di elezioni e diventerà il segretario del partito al posto di Lorenzo Cesa", un’altra volta ricorda che anche "il consigliere regionale Gianni Nucera li aspetta a braccia aperte per tutto quello che avete bisogno". Poi si agita per Veltroni che in comizio ha detto di non volere i voti di mafia: "Avete capito il discorso? Quelli hanno respinto ogni forma, ogni cosa".
Il vecchio Giuseppe Piromalli nonostante le tante "amicizie" è però sempre in una cella, isolato nel carcere di Tolmezzo. È a quel punto che Aldo Micciché tenta di "avvicinare" il Guardasigilli Mastella. Il ministro riceve una telefonata sul suo radiomobile il 7 dicembre 2007, in un primo momento non risponde a quel numero sconosciuto ma poi richiama. Sente una voce, quella di Micciché: "Clemente mio, meno male. sto cercando di fare il possibile per aiutarti. Vediamo se recuperiamo sul Lazio e su Roma. ti mando Francesco Tunzi, già hai conosciuto anche altri amici. Noi e nostri". Appena riconosce l’interlocutore che accenna a possibili aiuti elettorali, il ministro interrompe la comunicazione. Ma i boss della già da mesi si aggiravano intorno al ministero della Giustizia.
Cercavano un varco. È sempre la condizione carceraria di Giuseppe Piromalli a impensierirli. Riferiscono al figlio Antonio: "Tuo padre è esasperato, e lo diventa ancora di più quando gli vengono toccate le cose di cui necessita di più, cioè la corrispondenza... gli stanno controllando pure i peli".
È ancora Aldo Micciché che comunica al figlio del boss: "Sia Antonella Pulo, sia la Zerbetto e sia Francesco Borromeo mi hanno fatto capire che tenteranno di fare quello che. sottobanco devono farlo, perché tu sai che c’è stato un irrigidimento dopo gli avvenimenti che tu sai". La prima - Antonella Appulo - è stata identificata come un’esponente del movimento giovanile dell’Udeur. La seconda - Adriana Zerbetto - era la segretaria del ministro della Giustizia. Il terzo - Francesco Borgomeo - era a capo della sua segreteria. Millanterie dell’uomo di Caracas? È un altro dei filoni investigativi ancora in corso di approfondimento.
Comunque è lo stesso Micciché che urla un giorno al telefono: "Sto cazzo di ministro non si può muovere in nessun modo. Devo fare un’altra strada perché è già quasi arrivato il giorno. Sennò siamo fottuti". Il giorno che avrebbero dovuto confermare il 41 bis a Giuseppe Piromalli. I boss parlano a ruota libero, tranquilli, forti del loro "servizio informativo" È Arcidiaco che per una volta avverte Aldo Micciché: "Praticamente ieri ci hanno chiamato e ci hanno detto che due settimane fa hanno tappezzato la macchina di mio cugino Antonio dell’ira di Dio".
Pensano di poter dire tutto su altri telefoni, si sentono "protetti". Aldo Micciché si lascia sfuggire: "Ho ricevuto una telefonata da Reggio da persone che nemmeno ti immagini, molto, molto in alto. Dobbiamo stare molto attenti. Lo sai chi è Peppe T. o Peppe V., sai chi sono questi, sono gente legata a mani piedi culo e poi c’è l’altro personaggio importantissimo". Tutti magistrati. Amici di altri magistrati. Amici dei boss della ’ndrangheta.
* la Repubblica, 24 luglio 2008.
Ansa» 2008-05-09 18:03
’NDRANGHETA: IL RUOLO DELLE DONNE
(di Ezio De Domenico)
REGGIO CALABRIA - Un ruolo fondamentale sotto l’aspetto logistico ed organizzativo: sono le donne le protagoniste delle vicende di ’ndrangheta. I loro consigli agli uomini delle cosche, mariti, fidanzati o fratelli, vengono sempre tenuti in grande considerazione. In piu’ garantiscono la copertura ai latitanti, assicurando loro assistenza.
La funzione delle donne nella moderna organizzazione di ’ndrangheta emerge anche dall’operazione ’Zaleuco’, condotta dai carabinieri del Gruppo di Locri, che ha portato all’arresto di nove affiliati alle cosche Pelle-Vottari e Nirta-Strangio contrapposte da anni nella faida di San Luca. Una lunga scia di sangue che ha avuto il suo culmine il giorno di Ferragosto dello scorso anno con la strage di Duisburg, in Germania, con l’uccisione di sei affiliati alla cosca Pelle-Vottari davanti al ristorante ’da Bruno’.
Le donne, dunque, sempre più protagoniste e sempre più importanti. Nell’operazione coordinata dalla Dda di Reggio Calabria ne sono state arrestate tre, Maria Pelle ed Antonella Vottari, rispettivamente moglie e sorella del boss Francesco Vottari, già arrestato nell’ottobre scorso. Sarebbe stato grazie a loro che Francesco Vottari è riuscito a sfuggire a lungo alla cattura. La terza donna arrestata è Giulia Liana Benas, bloccata dai carabinieri al casello autostradale di Udine Sud. A lei la Dda contestato il ruolo di favoreggiatrice.
Ma il ruolo delle donne è importante anche per consentire le comunicazioni con i latitanti. Sono loro, infatti, ad incontrarli per fornire loro ciò di cui hanno bisogno ed a fare recapitare i loro messaggi ai capi delle cosche. Delle donne i capi delle cosche possono fidarsi perché il loro senso dell’onore e dell’appartenenza al gruppo criminale è più forte di quello degli uomini.
Oltre alle tre donne, sono stati arrestati Francesco Barbaro, già detenuto e capo dell’omonima cosca; Gianfranco Cocilovo, imprenditore di Bologna; Giovanni Marrapodi, odontotecnico, di San Luca; Domenico Mammoliti, di Benestare; Giuseppe Pelle, di San Luca, sorvegliato speciale con obbligo di dimora, ed Antonio Romano, anch’egli di San Luca.
Con l’operazione Zaleuco la Dda di Reggio ritiene di avere messo un punto fermo nelle indagini sulla faida di San Luca, chiudendo il cerchio che si era aperto con il fermo, il 30 agosto dello scorso anno, di 29 persone. Significativo, ha rilevato il procuratore della Repubblica di Reggio Calabria Giuseppe Pignatone, è anche il fatto che è stata contestata agli arrestati l’aggravante dei reati di mafia commessi all’estero, a dimostrazione del carattere transnazionale dell’attività delle cosche di San Luca.
Eseguiti dalla polizia provvedimenti restrittivi per 55 affiliati
In manette i presunti autori di alcuni omicidi. Scoperti tre arsenali
’Ndrangheta, blitz nel Crotonese
Decapitati i vertici di alcune cosche
CROTONE - Duro colpo alla ’ndrangheta in provincia di Crotone. Questa mattina una vasta operazione antimafia della polizia ha permesso di eseguire 55 ordini di arresto nei confronti di appartenenti alle famiglie mafiose più influenti della zona. Tra le persone arrestate ci sono anche i presunti autori di alcuni omicidi.
L’operazione, denominata "Eracles 2", costituisce la seconda tranche di un’indagine conclusasi all’inizio di aprile con il fermo di 39 persone legate alle cosche crotonesi. Oggi, grazie a un provvedimento emesso dal gip distrettuale di Catanzaro Tiziana Macrì, quei fermi sono stati confermati e sono stati sottoposti a misura cautelare altri 16 presunti affiliati alla ’ndrangheta. Si tratterebbe di esponenti della cosca Vrenna-Bonaventura-Corigliano, ai quali si aggiungono degli affiliati delle famiglie Russelli e Megna, che rappresentano "la diramazione papaniciara" che fa capo a Grande Aracri nel Crotonese.
Le attività investigative hanno consentito di delineare le strutture e le strategie operative dei gruppi criminali, decapitandoli dei vertici. Oltre ai presunti capi delle cosche, sarebbero finiti in manette gli esecutori materiali di alcuni omicidi. Tra le persone coinvolte ci sarebbero anche gli assassini di Francesco Gallo e Leonardo Covelli, uccisi a Crotone nel 2000 per contrasti interni alla cosca dei Vrenna-Corigliano-Bonaventura. Sono state scoperte, dicono gli investigatori, numerose estorsioni che le organizzazioni mafiose locali esercitavano, anche in forma violenta, nei confronti di imprenditori del settore edile e di titolari di esercizi commerciali. Sono stati inoltre individuati tre depositi dove erano custoditi esplosivi, pistole e fucili mitragliatori.
Gli arrestati dovranno rispondere di numerose accuse, tra le quali associazione per delinquere di stampo mafioso, estorsione, detenzione di armi e traffico di sostanze stupefacenti. "Sia i due gip di Crotone che ora il gip di Catanzaro hanno dimostrato che l’impianto accusatorio sembra sia corretto", ha commentato il pm della procura distrettuale antimafia di Catanzaro Pier Paolo Bruni, uno dei coordinatori dell’inchiesta, aggiungendo che anche le persone arrestate oggi sono "soggetti di primo piano".
* la Repubblica, 28 aprile 2008.
Il ritrovamento della cimice è l’ultimo di una serie di episodi
in una Regione che lo Stato sembra aver dimenticato
La democrazia presa in ostaggio
nel palazzo dei veleni e dei misteri
di GIUSEPPE D’AVANZO *
Non accade tutti i giorni che si spii un pubblico ministero nel suo ufficio. Che si seguano da vicino le sue mosse investigative. Che si anticipino le sue iniziative. Che magari le si vanifichi con accorte fughe di notizie utili a mettere sul chi vive i potenziali indagati, fino a quel momento molto loquaci nelle conversazioni telefoniche intercettate.
Non accade tutti i giorni che - più o meno, esplicitamente - si sospetti che lo "spione" sia un magistrato della stessa procura della Repubblica, legato - evidentemente - agli interessi storti che quell’ufficio dovrebbe scovare e punire e non alla Costituzione. Eppure, nonostante la singolarità della circostanza, si fa fatica a stupirsene. Prima o poi doveva accadere che venissero in superficie i velenosi miasmi che attossicano la Calabria e Reggio. Non sorprende che siano affiorati proprio nel luogo - il palazzo di giustizia - che dovrebbe sovrintendere alla legalità di un angolo d’Italia dove gli interessi della ’ndrangheta sono intrecciati ai poteri più visibili e formalizzati della politica, dell’economia, delle istituzioni. Fino ad assumere quasi funzioni di ordine pubblico.
Perché la ’ndrangheta - oggi più di Cosa Nostra, più della Camorra - garantisce ogni tipo di transazioni; preleva tributi; offre occasioni impensate di profitto e di reddito, che altrimenti in quei territori dimenticati dall’agenda dei governi non ci sarebbero. E’ un protagonismo che le consente di governare come intermediario decisivo i flussi di risorse e spese pubbliche, addirittura di condizionare la democrazia rappresentativa con il controllo delle assemblee elettive.
Della pervasività del potere mafioso delle ’ndrine - al contrario di Cosa Nostra e Camorra - non si parla mai. Come si ignorano, nel discorso pubblico nazionale, le arretratezze e le opacità delle istituzioni calabresi. Nel buio di una regione dimenticata, l’autorità, l’influenza, la forza della ’ndrangheta hanno potuto così crescere inosservate e senza fastidi facendo, di quell’organizzazione, il cartello criminale di gran lunga più pericoloso, più internazionale, più invasivo del nostro Paese, orientato a un lavoro transnazionale, soprattutto nel traffico di droga dove - sostiene la direzione nazionale antimafia - ha assunto "quasi una posizione monopolistica resa possibile dagli stretti collegamenti con i paesi produttori e con il controllo delle principali rotte di transito degli stupefacenti".
Oggi la ’ndrangheta è una multinazionale del crimine capace di essere, al tempo stesso, "locale" ("vero e proprio presidio territoriale, idoneo ad assicurare il controllo del territorio, nella sua accezione più ampia, comprensiva dunque di economia, società civile, organi amministrativi territoriali") e "globale", rete criminale connessa al mondo attraverso il narcotraffico e il traffico internazionale di armi. Sostiene la direzione antimafia: "Risulta ormai dimostrata l’elevata capacità della ’ndrangheta di rapportarsi con le principali organizzazioni criminali straniere, in particolare con i cartelli colombiani ed anche con almeno una struttura paramilitare colombiana che risulta coinvolta in attività di produzione e fornitura di cocaina. Sono consolidati e stabili i rapporti con i gruppi - sud-americani e mediorientali - fornitori di stupefacenti tanto da far divenire la ’ndrangheta, nello specifico settore, un punto di riferimento anche per altre organizzazioni criminali endogene".
Per sciogliere un nodo così serrato, come fu chiaro dopo l’assassinio in un seggio elettorale di Francesco Fortugno o la strage di Duisburg, sarebbe stata necessaria una battaglia nutrita di un alimento etico-politico; un adeguato sostegno dello spirito pubblico; il coinvolgimento di individui e gruppi, élite e popolo su obiettivi comprensibili e condivisi capaci di rendere concreta la convenienza della legalità e assai fallimentare la scelta della illegalità. Una "politica" che riuscisse a ridimensionare un potere militare, economico e politico che non accetta di essere messo in discussione nemmeno negli aspetti più marginali. Come testimonia il clima di intimidazione continuo che ogni istituzione o rappresentante delle istituzioni deve subire. Minacce. Attentanti con bombe. Fucilate alle porte di casa. Incendi di auto e di abitazioni. Ne sono stati vittima, nel corso del tempo, i sindaci di Reggio Calabria, San Giovanni, Seminara, Sinopoli, Melito Porto Salvo, Casignana, il vice sindaco di Palmi. Uno scenario che, come forse si ricorderà, convinse lo sconsolato presidente della Confindustria calabrese, Filippo Callipo, ad appellarsi al capo dello Stato per invocare la presenza nella regione dell’esercito.
La verità è che non è mai riuscita a diventare una priorità né dei pubblici poteri né dell’opinione pubblica la distruzione di un’organizzazione criminale capace di controllare un terzo del traffico di cocaina del mondo con profitti per decine di miliardi di euro né un’urgenza il riscatto di una regione dove operano 112 cosche, c’è un’intensità criminale del 27 per cento (pari a una persona su quattro), con un epicentro nel Reggino di 4/5 mila affiliati su una popolazione di 576mila abitanti. L’affare è precipitato, come sempre accade in casa nostra, sulle spalle della magistratura. Affar suo, soltanto suo. Gioco facile, per le ’ndrine, inquinare anche quelle acque nell’indifferenza dei governi e della consorteria togata.
Pochi mesi fa, della magistratura calabrese, fece un quadro esauriente e drammatico un giudice civile, Emilio Sirianni. Raccontò che cosa può accadere nelle aule di giustizia di quella regione. Nel novembre del 2006, a Vibo Valentia, fu arrestato il presidente di sezione del Tribunale civile insieme a pericolosi mafiosi locali. Sia prima che dopo l’arresto, c’è stato il silenzio intimidito o complice dei magistrati di quel Tribunale. La Procura di Locri è stata lasciata a lungo nelle mani di un giovanissimo magistrato e, solo quando andò via, si accertò l’esistenza di 4.200 procedimenti con termini scaduti da anni, su un totale di 5000 e di circa 9000 procedimenti "fantasma" (risultavano nel registro, erano inesistenti in ufficio).
Capita, in Calabria, di vedere entrare un avvocato in camera di consiglio e trattenersi a colloquio con i giudici durante la deliberazione. In Calabria può accadere che un giudice decida che un notaio, imputato di "falso ideologico", non sia considerato un pubblico ufficiale. Reato derubricato in "falso in scrittura privata", tempi di prescrizione ancora più brevi. Notaio prosciolto. Il pubblico ministero non propone l’appello. La disorganizzazione dell’ufficio lascia scadere i termini.
O il caso di quel bancarottiere? Dichiara di aver utilizzato i soldi distratti all’impresa per curare il fratello malato di cancro. Il giudice riconosce lo "stato di necessità" e, senza chiedergli prova della malattia del fratello e del suo stato di indigenza, lo proscioglie. Sulla parola. "Conformismo, tendenza al quieto vivere, fuga dai processi scottanti, pigrizia" sono per Sirianni i codici di lavoro della magistratura in Calabria, "una magistratura che - per indifferenza, paura, connivenza, conformismo, furbizia - gira la testa dall’altra parte, strizza l’occhio ad alcuni imputati, non vigila e non fa domande sulle anomalie dell’ufficio".
Stupirsi allora per una microspia? Meravigliarsi delle fughe di notizie pilotate che "salvano" gli indagati e soffocano le inchieste? Sbalordire se le trattative per un allentamento delle severe regole del carcere per i mafiosi siano protette con una "soffiata"?
* la Repubblica, 27 aprile 2008.
Nel mirino abitazioni, aziende, terreni e altro. Tutti riconducibili ai clan
di San Luca Nirta-Strangio e Pelle-Vottari, protagonisti di una faida infinita
’Ndrangheta, maxisequestro di beni alle famiglie della strage di Duisburg
Un valore complessivo di oltre 150 milioni di euro. Trovato anche un bunker
nella palazzina dei familiari del boss latitante Antonio Pelle: "E’ stato usato recentemente"
REGGIO CALABRIA - Un’operazione dei carabinieri, in provincia di Reggio Calabria e in Lombardia, ha portato al sequestro di beni - per un valore di 150 milioni - di euro a cosche della ’ndrangheta. Secondo l’accusa, il patrimonio è riconducibile alle famiglie Nirta-Strangio e Pelle-Vottari, protagoniste della sanguinosa faida di San Luca culminata, nel giorno di Ferragosto dello scorso anno, nella strage di Duisburg, in Germania, nella quale vennero uccise sei persone.
E nel corso delle perquisizioni è stato scoperto a San Luca anche un bunker, nella palazzina in uso ai familiari del latitante Antonio Pelle, detto ’’’Ntoni Gambazza", il boss irreperibile dal 2000. E che deve scontare una condanna definitiva a 26 anni di reclusione. Nei giorni scorsi un altro bunker era stato trovato nello stesso edificio. Il nascondiglio trovato oggi, realizzato a piano terra e a cui si accede con un meccanismo telecomandato, sarebbe stato utilizzato recentemente.
Tra i beni sequestrati, invece, ci sono aziende, attività commerciali, abitazioni, terreni, polizze assicurative e auto di lusso. Il sequestro è stato disposto dal tribunale di Reggio Calabria su richiesta della Direzione distrettuale antimafia di Reggio e della Procura di Locri.
La faida di San Luca, che vede al centro le famiglie Nirta-Strangio e Vottari-Pelle, ha avuto inizio nel giorno della festa di carnevale del 1991. All’origine dello scontro un banale lancio di uova tra un gruppo di giovani. Quell’episodio portò al compimento di un agguato nel quale furono uccise due persone, e altre due rimasero ferite.
Col passare degli anni, però, la faida ha assunto altri connotati, e gli omicidi che si sono susseguiti hanno avuto come movente principale il controllo del traffico di droga e l’infiltrazione negli appalti pubblici. Lo scontro ha fatto registrare anche un lungo periodo di pausa, sino al Natale 2006 quando, in un agguato, tre persone, tra le quali un bambino, rimasero ferite e fu uccisa una donna, Maria Strangio, moglie di uno dei presunti boss, Giovanni Luca Nirta, considerato dagli investigatori il vero obiettivo dell’agguato.
La risposta a quell’agguato è stata la strage di Duisburg, con sei persone uccise a Ferragosto davanti al ristorante "da Bruno" di proprietà degli Strangio.
* la Repubblica, 4 marzo 2008
La lotta alla ’ndrangheta: Giuseppe Nirta è latitante
Arresti fra Montecatini e Lima, individuato deposito di coca
Duisburg, individuato l’altro killer
Traffico di coca Perù-Calabria
di GIUSEPPE BALDESSARRO *
REGGIO CALABRIA - Ha un nome il secondo killer della strage di Duisburg. Si tratta di Giuseppe Nirta, cognato di Giovanni Strangio, già ricercato da mesi proprio per l’agguato di ferragosto davanti al ristorante "Da Bruno". L’uomo è stato individuato grazie alle impronte digitali rilevate in un’abitazione di Duesseldorf, affittata dal commando prima di eseguire la strage.
A rivelarlo è stato il settimanale "Focus", secondo il quale la polizia belga aveva anche rintracciato fin dallo scorso ottobre in Belgio la Renault Clio nera usata dagli assassini per fuggire dopo il massacro. La segnalazione era arrivata da un cittadino di Gand, che aveva notato l’auto sospetta e con le chiavi ancora inserite nel cruscotto. Secondo la ricostruzione delle forze di polizia, dopo l’agguato costata la vita a 6 persone tutte originarie della Locride e legate al clan Vottari-Pelle, i killer delle famiglie Nirta-Strangio avrebbero attraversato la frontiera belga, per poi rientrare molto probabilmente in Italia.
Il procuratore di Duisburg, Detlef Nowotsch ha confermato che nell’auto sono state rinvenute "numerose tracce", ma non ha voluto aggiungere particolari. Secondo alcune fonti, sul sedile accanto al posto di guida della Clio sarebbero state rinvenute tracce di Dna che non appartengono a Strangio e che devono dunque essere attribuite al suo complice. Le autorità ritengono che si tratti del cognato di Strangio, Giuseppe Nirta, ricercato con un mandato di cattura internazionale. Gli inquirenti si dicono anche convinti che le tracce di dna rinvenute nella Renault nera usata per la fuga appartengono proprio a Nirta, come quelle reperite nell’abitazione di Duesseldorf.
Gli inquirenti tedeschi hanno presentato una richiesta di rogatoria per poter confrontare il Dna ritrovato con quello dei familiari di Giuseppe Nirta. Che la faida di San Luca non fosse determinata solo da dissapori tra famiglie mafiose rivali è da tempo più di un semplice sospetto. Di recente tuttavia si va consolidando l’idea che la guerra di ’ndrangheta abbia come ragione fondamentale il controllo di interessi criminali in Germania. Primi tra tutti il riciclaggio e il traffico internazionale di droga.
A dimostrare che i clan dell’Aspromonte siano impegnati nel narcotraffico c’è anche l’operazione portata a compimento nei giorni scorsi dagli uomini della Questura di Reggio Calabria.
La Polizia ha arrestato a Montecatini Terme (Pistoia) due persone, accusate di essere affiliate ad una cosca della Locride, per traffico internazionale di sostanze stupefacenti. Altri tre arresti, nell’ambito della stessa operazione, condotta dalla sezione antidroga della Squadra mobile di Reggio Calabria, sono stati fatti a Lima, in Perù.
L’operazione, fatta in collaborazione con la Polizia peruviana, ha consentito di bloccare l’importazione in Italia di 40 chilogrammi di cocaina. La droga, che è stata sequestrata, era in possesso dei tre corrieri stranieri bloccati nei pressi dell’aeroporto di Lima. Le due persone arrestate a Montecatini sarebbero affiliate alla cosca della ’ndrangheta Sergi-Marando-Trimboli di Platì, particolarmente attiva nel traffico internazionale di cocaina.
Secondo quanto appreso, la polizia, a Montecatini, ha sequestrato anche sette chilogrammi di cocaina e 40 mila euro in contanti. L’operazione, denominata "Zappa 3" è stata coordinata dalla distrettuale antimafia di Reggio Calabria e portata a termine dalle questure di Pistoia e Reggio Calabria.
Nel corso di una conferenza stampa, a cui hanno preso parte il questore Santi Giuffrè, il capo della mobile Renato Cortese e della narcotici Diego Trotta, è stato spiegato che una villetta di Montecatini Terme sarebbe stata utilizzata come deposito della cocaina. Le due persone arrestate a Pistoia sono Franco Biagini, sorvegliato speciale, e Franco Pellegrini, anch’egli con precedenti penali. Entrambi toscani. In Perù sono finiti in manette i corrieri Ondrej Kelemen, di nazionalità ceca, Sarda Dalloeshingh, olandese, e Jorge Daniel Acosta Reyes, uruguaiano.
* la Repubblica, 1 marzo 2008
Ansa» 2008-07-23 18:34
BLITZ ’NDRANGHETA, COLPO AL CUORE DELLE COSCHE
di Alessandro Sgherri
REGGIO CALABRIA - Un’operazione di portata storica perché decapita i vertici della cosca più importante della ’ndrangheta, e quindi della criminalita’ organizzata italiana, quella dei Piromalli. I 18 fermi eseguiti dalla Squadra mobile e dai Ros su ordine della Dda reggina segnano un punto di svolta nella lotta alla mafia C’é tutto nell’inchiesta reggina: gli interessi nel porto di Gioia Tauro; la guerra montante tra quelli che una volta erano alleati di ferro; la continua ricerca di contatti col mondo politico per raggiungere i propri obiettivi. Nelle 1.026 pagine del provvedimento firmato dal procuratore di Reggio, Giuseppe Pignatone, e dai suoi sostituti Boemi, Di Palma, Pennisi, Prestipino, e Miranda c’é tutta la storia di una consorteria ritenuta, a ragione, la più potente della ’ndrangheta.
Un potere mafioso frutto di ’’oltre cento anni di storia", come, con orgoglio, dice uno degli stessi boss della cosca, Girolamo Molé, che però non è servito a tenere unite le due anime della famiglia, quella dei Molé e quella dei Piromalli. Questi ultimi, infatti, non hanno esitato a rompere l’antica alleanza, fatta anche di parentele incrociate, pur di mettere le mani su una delle principali aziende per la movimentazione delle merci nel porto e trasformare la propria influenza sul principale scalo container del Mediterraneo diventando partecipi della gestione imprenditoriale. I Piromalli pensavano in grande non solo nel campo degli affari. Per cercare di eliminare il regime carcerario del 41 bis, cui è sottoposto il boss Giuseppe, che dal carcere continuava a gestire gli affari di famiglia tramite il figlio Antonio, reggente della cosca, hanno cercato, ed in alcuni casi, trovato, il contatto col mondo politico.
In questo senso, dalle pagine del provvedimento di fermo emerge il ruolo di Aldo Micciché, un faccendiere originario di Marapoti, un centro poco distante da Gioia Tauro, che in passato (negli anni ’80) e’ stato dirigente della Democrazia cristiana e da anni si è rifugiato in Venezuela. Molto legato ad Antonio Piromalli, Micciché parla con parlamentari, contatta l’allora ministro della Giustizia, Clemente Mastella, colloquia con il senatore Marcello Dell’Utri e dà indicazioni ai suoi "delfini" su cosa dire in occasione degli incontri con il parlamentare di Forza Italia, che comunque, ha tenuto a precisare Pignatone, non è indagato, ma é persona informata sui fatti. I Piromalli avevano addirittura pensato di fare ottenere l’immunità al loro capo in libertà, Antonio, titolare di un’azienda che commercializza agrumi con gli Stati Uniti, cercando dal mondo politico una sua nomina in una funzione consolare per conto di un qualsiasi stato estero. E’ il cugino di Piromalli, Gioacchino Arcidiaco, a parlare del progetto a Micciché, anticipandogli le richieste che rivolgerà al "senatore".
"Abbiamo discusso in famiglia - dice - noi abbiamo solo una richiesta. E’ che su mio cugino gli venga dato un Consolato, dello Stato Russo, Vietnamita, Arabo, Brasiliano non mi interessa". Il progetto sul 41 bis, tuttavia è fallito. Fallimento, scrivono i pm, dovuto "alla impossibilità dei referenti politici ed istituzionali contattati di affrontare e risolvere la situazione per tutto un insieme di problemi dovuti sia alla paura dei soggetti di muoversi in un terreno così pericoloso, e sia alle difficoltà giudiziarie del Ministro della Giustizia. Neppure ’il Senatore’ ha possibilità di muoversi in questo campo".