Pdl, è rottura tra Fini e Berlusconi
Il premier: "Lascia la presidenza"
Durissimo confronto durante la direzione nazionale.
L’ex leader di An: "Non sono un traditore"
Il Cavaliere sbotta: "Dici cose senza rilevanza,
se vuoi fare politica molla la poltrona a Montecitorio"
Il presidente della Camera parla di legalità, Lega e
democrazia interna: "No al centralismo carismatico"
di MATTEO TONELLI *
ROMA - Contano i gesti più delle parole. Contano quei volti contratti, quel gesticolare, quell’ira trattenuta a stento che poi esplode. E che arriva a concretizzarsi in una sorta di "licenziamento" in diretta. Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini che, davanti alla platea della direzione del Pdl, rendono palese un contrasto che li divide da tempo. Fino ad oggi celato, raccontato nei retroscena, affidato, per via indiretta, ai rispettivi fedelissimi. Ed oggi esploso pubblicamente in tutta la sua drammaticità. I due se le sono dette "in faccia", dando evidenza a quell’antipatia politica ma anche umana che li divide da tempo.
Si sapeva che la direzione di oggi sarebbe stato un appuntamento ad alta tensione. Si sapeva, ma nessuno immaginava che lo scontro sarebbe stato così violento. Si sapeva che Fini, pur consapevole di parlare ad una platea tutt’altro che favorevole, non avrebbe fatto un passo indietro. "Basta mettere la polvere sotto il tappeto". E così è stato. Il presidente della Camera ha visto la sfilata dei ministri che rivendicavano, puntigliosamente (e "puerilmente" chiosa Fini), l’operato del governo, ha sentito Berlusconi annunciare il congresso del Pdl entro l’anno e poi è salito sul palco. Un’ora di discorso in cui il presidente della Camera non è arretrato di un passo.
Davanti ad un Berlusconi sempre più infastidito dalle sue parole, Fini, ha esordito così: "Non credo che la libertà di opinione possa rappresentare il venir meno alla lealtà all’interno del Pdl solo perché si danno indicazioni diverse da quelle che vanno per la maggiore". E su questo tasto Fini punta molto. Rimanda al mittente le accuse di "tradimento", di "eresia", di muoversi per "interessi personali". Ricorda le "bastonature mediatiche ad opera di giornali proprietà di familiari del premier". Tutte accuse che, da tempo, si sente rovesciare addosso dai media vicini al Cavaliere e dai molti fedelissimi del premier. Lui, e lo si capisce mentre parla, ha in mente un partito diverso dal Pdl di oggi. Che, dice chiaro, partito non è. Semmai è un’aggregazione dove vige il "centralismo carismatico", dove non si discute, dove si creano situazione come la spaccatura in Sicilia.
Una formazione che sembra inerte davanti alle pressioni della Lega. "Al nord siamo diventati la fotocopia della Lega, l’identità del Carroccio è chiara, la nostra al nord non lo è. Appiattirsi sulle posizioni di Bossi è pericoloso, nel centrosud sono preoccupati per l’influenza della Carroccio". A pochi metri Ignazio La Russa, plenipotenziario del Pdl lombardo e ex fedelissimo di Fini, guarda fisso gli appunti. Il volto di Berlusconi è terreo.
Fini va avanti. E si rivolge direttamente al premier, dando inizio al botta e risposta che sfocerà nel durissimo scontro finale. Sono tanti i temi che il presidente della Camera pone. Ma, al di là, delle varie critiche, è proprio l’idea di quello che è il Pdl oggi che a Fini non piace. Per questo definisce quella di oggi "una giornata di svolta". Il giorno in cui non si potrà fingere che non esista una componente, minoritaria, all’interno del partito portatrice di idee diverse da quelle dominanti. Fini, questo lo rivedica, e non vuole sentirsi dare dell’eretico. Il partito che Fini ha in mente è quello che sui temi dell’immigrazione si schiera con le tesi dei partito popolare europeo improntate al rispetto della "dignità umana" e non su quelle della Lega ("ma le posizioni del Carroccio sono le stesse che aveva An" gli sbatte in faccia il premier), un partito che assume la legalità come valore, che celebra, senza reticenze, l’unità d’Italia che non delega tutte le scelte al governo. Berlusconi è sempre più insofferente. Si sfrega i polpastrelli a significare un apprezzamento negativo sulla sostanza. Verdini, al suo fianco, cerca di rabbonirlo.
Ma Fini non si fa intimidire, ricorda i tanti che nel Pdl "pubblicamente" si sperticano in elogi e poi "vengono da me a lamentarsi di come vanno le cose". E porta sul palco anche un tema incandescente come quello della giustizia. "Ricordi il processo breve? Quella era un amnistia mascherata" incalza Fini ricordando "un litigio forte" col premier. "Mi devi dire - si chiede Fini - che cosa c’entra la riforma della Giustizia se poi passano questo tipo di messaggi". Si va avanti così. Con il presidente della Camera che chiede di "rivedere" il programma economico del Pdl", che mette in guardia dall’attuazione del federalismo che il Carroccio vuole a tutti i costi. "Ma avete parlato con i nostri governatori del centrosud che sono preoccupati per come finirà?" continua Fini chiedendo la creazione di una commissione del partito sui decreti attuativi (l’unica cosa che Berlusconi accetterà).
Dopo un’ora Fini conclude. Pochi gli applausi e frettolosa le stretta di mano con Berlusconi. Il premier scatta verso il microfono. Doveva parlare stasera ma la rabbia è troppa. E quello che dice dal palco ne è la chiara espressione: "Dici cose senza grande rilevanza politica e oggi hai cambiato totalmente posizione. Martedì mi hai detto di essere pentito di aver collaborato a fondare il Pdl e che volevi fare un gruppo parlamentare diverso". Boato della platea. Fini è rosso in volto. Berlusconi è senza freni: "Delle cose che hai chiesto non avevo notizia, comunque ne discuteremo. Lascia stare la Sicilia che ci sono dentro i tuoi uomini e ti ho già detto che voglio vendere il Giornale". Si arriva così al rush finale gettato in faccia a Fini tra gli applausi della sala: "Dici che sei supert partes? Per queso non sei venuto a piazza San Giovanni? Allora se vuoi fare politica lascia la presidenza della Camera". Il presidente della Camera agita il dito e urla: "Che fai mi cacci?".
Poi si riunisce con i suoi sostenitori e decide che nessun finiano interverrà in direzione. Poi annuncia: "Non ho nessuna intenzione di dimettermi dalla presidenza della Camera. Nè tantomeno di lasciare il partito". Per contro la ’maggioranza’ del partito si mette al lavoro per stendere una nuova formulazione del documento che potrebbe essere votato al termine dei lavori. Viene da chiedersi che accadrà adesso. Che fine avrà questa storia. Ammesso e non concesso che lo scontro di oggi non l’abbia già scritta.
* la Repubblica, 22 aprile 2010
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Il fallimento di un’illusione
di MASSIMO GIANNINI *
Il fallimento di un’illusione. È l’unica cosa che si può dire, di fronte al duello rusticano che si consuma tra Berlusconi e Fini nella direzione del Pdl trasformata in arena. Chi pensava ad un compromesso doroteo, tra il fondatore e il co-fondatore, non ha capito la portata di questa clamorosa rottura, che a questo punto non è più solo politica, ma è anche fisica. In una sorta di seduta di autoanalisi individuale, ma celebrata collettivamente di fronte alle telecamere televisive e alle agguerrite fazioni del Popolo delle Libertà, il presidente del Consiglio e il presidente della Camera si rivolgono minacce e anatemi, si rinfacciano tradimenti e bugie, si rimpallano accuse e veleni. In un inquietante crescendo di rancori personali e di livori politici, si "sbranano" come belve nel circo mediatico, dandosi in pasto alla platea degli uditori e degli elettori. In sostanza: officiano le esequie del Pdl, almeno nella formula conosciuta dai tempi della "rivoluzione del Predellino".
Sul piano politico, nessuno dei due fa retromarce. Non le fa Berlusconi, che liquida le istanze di Fini come "questioni di poca importanza", che "non valeva la pena" sollevare, di fronte a un partito che governa magnificamente il Paese e continua a vincere tutte le elezioni. Non le fa Fini, che rilancia le sue contestazioni al premier su tutta la linea, dall’immigrazione alla prescrizione breve, dall’organizzazione del partito alle scelte sulla Sicilia, dalla sudditanza psicologica nei confronti della Lega al caos delle liste per le regionali. La rappresentazione plastica di questo scontro dimostra l’irriducibile inconciliabilità non solo delle posizioni congiunturali, ma delle ispirazioni strutturali dei due contendenti. Berlusconi parla una lingua, Fini ne parla un’altra. Non sono più neanche due diverse idee della destra, ma sono piuttosto due differenti universi politico-culturali. Da quello che si vede nel feroce lavacro della direzione, non possono coesistere, ma solo confliggere.
Ma la novità è che la frattura avviene anche sul piano personale. Quando ci si parla evocando le categoria del tradimento, della menzogna, della mala fede, del sabotaggio, si supera un confine dal quale è impossibile tornare indietro. E questo succede, tra Berlusconi e Fini. Il primo lo apostrofa, intimandogli di lasciare il suo incarico di presidente della Camera, se vuole continuare nel suo inutile e dannoso "contrappunto quotidiano". Il secondo gli replica a brutto muso, con un provocatorio "mi cacci?". Non siamo più alla dialettica tra i leader, ma agli insulti tra le persone. La resa dei conti trascende la validità dei ragionamenti e prescinde dalla contabilità dei numeri.
Non è più importante capire quanto dica il vero Berlusconi, o quante divisioni abbia Fini. Bisogna solo prendere atto che il progetto del Popolo delle Libertà, appunto, è ormai fallito. E non poteva essere che così. Il fallimento era contenuto nel suo atto di nascita, che aveva fotografato subito la distanza ontologica, e incolmabile, tra le due anime del "nuovo" centrodestra. L’illusione che una grande partito moderato e di massa si possa reggere solo sul "centralismo carismatico", costruita un anno e mezzo fa dal Cavaliere a Piazza San Babila, crolla per sempre nell’Auditorium di Santa Cecilia. Quanto potranno duellare ancora, i due fondatori, in mezzo a queste macerie?
* la Repubblica, 22 aprile 2010
La sinistra e la sfida del futuro
di Guido Crainz (la Repubblica, 22.04.2010)
L’ultimo esito elettorale del centrosinistra rende impossibile eludere ancora il problema: la fase iniziata quasi vent’anni fa con la crisi verticale della "repubblica dei partiti" non ha visto consolidarsi una ipotesi riformatrice adeguata alle esigenze del Paese. Le difficoltà e le divisioni del centrodestra non offuscano questo nodo ma rendono ancor più urgente affrontarlo.
Mai, forse, le forze progressiste o di sinistra erano state così isolate - culturalmente, prima ancora che elettoralmente - rispetto al cuore produttivo della nazione, e incapaci al tempo stesso di offrire riferimenti e prospettive alle inquietudini di vecchie e nuove povertà e precarietà. Non è un giudizio troppo drastico: a quale idea-forza ci si può oggi richiamare per convincere un elettore indeciso, un astensionista amareggiato, un giovane deluso? Sembra quasi impossibile, inoltre, che la sinistra sia stata simbolo, in passato, di buon governo a livello locale. Abbia saputo mettere in campo - non solo nelle regioni rosse - capacità organizzative e pragmatiche, abbia contribuito a colmare forti deficit di democrazia del paese. Sia apparsa a una larga parte degli italiani, negli ormai lontanissimi anni settanta, come l’unica forza in grado di garantire il cambiamento. Sembra impossibile, infine, che tutto questo sia progressivamente scomparso dalla scena già nella fase immediatamente successiva, e che negli anni novanta gli eredi di quell’esperienza abbiano buttato al vento la possibilità di offrire al paese devastato da Tangentopoli esempi e prospettive di buona politica.
Le questioni da affrontare erano certo enormi: la costruzione di una nuova idea di sinistra era compito difficilissimo, ma al tempo stesso indifferibile, sin dagli anni settanta e ottanta. Crollati, ben prima del 1989, i riferimenti internazionali, entravano allora in crisi anche altri capisaldi della tradizionale cultura della sinistra. La "centralità della classe operaia", ad esempio, veniva simbolicamente travolta dalla "marcia dei quarantamila" del 1980, mentre già la crisi petrolifera del 1973 aveva affossato, assieme all’idea di uno "sviluppo senza limiti", anche le culture progressiste e industrialiste che su di essa si erano fondate. Nell’incapacità di misurarsi appieno con questi nodi la sinistra di formazione comunista iniziò a perdere identità e profilo, e a far emergere quella carenza di progettazione riformatrice che gli anni dei governi di "unità nazionale", dal 1976 al 1979, portarono pienamente alla luce. A ciò si aggiunga, infine, la difficoltà di comprendere le colossali trasformazioni sociali e culturali degli anni ottanta.
È una sinistra già in difficoltà, insomma, quella che giunge alla crisi dei primi anni novanta: elettoralmente indebolita e culturalmente gracile. Contagiata almeno in parte - alla periferia, ma non troppo marginalmente - dalle derive che le indagini dei giudici portavano allora alla luce.
Di fronte al crollo degli altri partiti era ormai il momento di un rinnovamento profondo, capace di coinvolgere energie pur presenti nella società civile: e invece quel crollo, che sostanzialmente risparmiò i differenti eredi del Pci, sembrò favorire a sinistra il permanere delle vecchie prassi partitiche. L’unica società civile che entrò in campo fu quella chiamata a raccolta dall’antipolitica di Umberto Bossi e - per altri versi - dal "partito azienda" costruito in pochi mesi da Silvio Berlusconi. A fronte di questo discutibile "nuovo" la sinistra si presentò sempre più come il "vecchio", il residuo della "partitocrazia". Neppure lo shock del 1994 fu salutare: l’immediato fallimento della prima alleanza fra Berlusconi, Fini e Bossi alimentò l’illusione di poter ancora godere di rendite di posizione, di non aver bisogno di un forte profilo culturale e programmatico. Questa incapacità di rinnovamento, e di ricambio dei gruppi dirigenti, è stata il vero scoglio su cui si sono infrante le esperienze pur avviate, le energie pur messe in campo.
Il primo governo Prodi, ad esempio, è certamente stato il governo migliore degli ultimi quindici anni: perché, però, anche quel governo seppe solo in parte parlare al paese? E perché la sua ispirazione più feconda non trovò continuazione?
Non era inarrestabile la marcia del centrodestra. Subito interrotta nel 1994, essa sembrò di nuovo giunta al capolinea nel suo primo quinquennio pieno di governo: e già nell’estate del 2004 gli stessi giornali del centrodestra parlarono apertamente di "crisi del berlusconismo". In quello stesso torno di tempo un centrosinistra frastornato dalla sconfitta elettorale del 2001 trovava nuova forza - quasi suo malgrado - grazie alle spinte che venivano dal basso: si pensi al movimento dei Girotondi, che ebbe culmine nella manifestazione nazionale a Roma dell’autunno del 2002. Una festa della democrazia, per usare le parole di allora di Eugenio Scalfari: «Un vigorosissimo ritorno in campo di moltissimi che per molte ragioni si erano tirati indietro». Si pensi anche alle energie coinvolte dalla Cgil nella difesa dello Statuto dei lavoratori, o all’amplissima mobilitazione per la pace dell’anno successivo, che vide mescolarsi culture molto diverse. Si pensi anche ad altre risorse che il centrosinistra ha pur avuto: dall’esperienza dei sindaci alla grande speranza delle "primarie". Queste stesse spinte vitali appaiono oggi largamente inaridite: di nuovo, perché? Senza dare risposte convincenti a questi interrogativi sarà difficile riaprire realmente la discussione sul futuro. E senza dar vita a nuovi cantieri di riflessione, in cui convergano molteplici energie intellettuali e differenti centri propulsivi, sarà difficile frenare l’involuzione di un centrosinistra che ha bruciato leader e ipotesi di ricambio, e perso progressivamente una reale capacità di rapporto con la sua stessa gente.
L’inversione di tendenza di cui si avverte il bisogno implica un impegno di lungo periodo ma il tempo a disposizione non è moltissimo: le divisioni del centrodestra e i progetti sempre più espliciti del premier rendono questo compito ancora più urgente.
Bersani, appello alle forze di opposizione
"Servono unità e nuova responsabilità"
Dal leader democratico allarme per gli "esiti imprevidibili della crisi che si è aperta nel centrodestra". "Da Fini temi veri, irrisolvibili nel partito e nella maggioranza in cui si trova il presidente della Camera"
ROMA - Bersani vede "esiti imprevedibili". I cui rischi "non sono da sottovalutare". Perché le tensioni all’interno della maggioranza possono spingere l’asse Berlusconi-Bossi ad "accelerazioni". Per questo, il leader Pd fa un appello forte alle opposizioni: "Serve unità e responsbailità"
"Le tensioni nella maggioranza in futuro sono certe - dice Bersani all’Ansa -, gli esiti imprevedibili. Le forze di opposizione non possono sottovalutare i rischi che Berlusconi per un verso e la Lega per l’altro possono dare per accelerare una situazione che non riescono ad affrontare. Per le forze di opposizione serve una responsabilità nuova".
Evidente il riferimento a possibili prove di forza in Parlamento, ma non solo. Nelle parole del leader democratico c’è anche, implicitamente, l’eventualità di elezioni anticipate. Non è un caso che parli di "opposizioni", senza escludere per esempio i centristi di Casini, tra l’altro i primi a parlare di un "fronte costituzionale" in caso di forzature del premier in direzione del voto anticipato.
"Serve un impegno più forte - continua Bersani - a discutere e concertare l’azione parlamentare e un lavoro per stringere i contenuti dell’alternativa. Siamo di fronte ad una situazione estremamente confusa. Il paese, pieno di problemi, assiste attonito a lacerazioni molto profonde nella maggioranza che in un colpo solo ha distrutto tutta la retorica berlusconiana dei cieli azzurri e dei mondi felici".
Il presidente della Camera, Gianfranco Fini "con i suoi ha sostenuto e votato tutte le decisioni di questo e degli altri governi del centrodestra ma ora propone con nettezza un’altra piattaforma: nella politica economica, nei rischi di deriva plebiscitaria, nel tema dell’unità del paese". Temi, ribadisce il segretario Pd, "assolutamente veri e assolutamente irrisolvibili nel Pdl e nella maggioranza dove Fini si trova".
* la Repubblica, 24 aprile 2010
Rossana Rossanda: "La sinistra non ha linguaggio e programma"
di Bruno Gravagnuolo *
«Subalternità della sinistra all’impresa privata», mancanza di un «suo» linguaggio e persino rinuncia «a difendere fino in fondo l’impianto della Costituzione repubblicana». Disamina tagliente e venata di forte pessimismo quella che Rossana Rossanda ci consegna dalla sua casa di Parigi. In una conversazione fatta di risposte stringate e nette («Non amo le interviste telefoniche...»). Ma almeno il succo è chiaro. Dice per esempio Rossanda: «Non capisco le zuffe tra Bersani, Franceschini e Veltroni. Pure questioni personali o in ballo c’è dell’altro: che società e che economia vogliono?». Oppure: «La verità è che si è smarrito il fondamento delle idee di sinistra. Ci si accapiglia su sostituzioni e sovrastrutture, regole, valori, “narrazioni”, ma non si parla dell’essenziale: i soggetti in conflitto, gli interessi, la natura sociale del potere...». E ancora: «Almeno il Pci certe cose ce le aveva chiare in testa e ben per questo dall’opposizione aveva costruito un tessuto forte nella società che ancora resiste al centro italia, come ho potuto constatare di recente nel Pisano. Strano che debba dirlo io, che nel 1969 venni radiata...». Insomma Rossanda, «vuole andare al cuore delle cose», che per lei «ragazza del secolo scorso» coincide con le domande sull’identità: che cosa significa essere ancora comunisti? Una serie di domande (e risposte) che Rossanda ha rivolto a se stessa di recente a Pisa, in una lezione universitaria. E che qui ritorna in parte. Sentiamo.
Rossanda, malgrado la sua crisi e la quasi scissione di Fini, il berlusconismo resiste. Al contempo la sinistra appare un po’ afasica e incapace di incidere nel blocco avversario. Come mai?
«Il berlusconismo resiste appunto perché la sinistra è afasica. E lo è da quando si è persuasa che la sola figura sociale legittimata a una egemonia sulla società moderna è quella dell’imprenditore della piccola e media e grande impresa, o aspirante tale. E che ogni progetto di egemonia dei lavoratori, materiali e immateriali, per un ordine sociale diverso, è stato un’ illusione, quando non un crimine, dei socialisti e dei comunisti del Novecento. Il discorso di Berlusconi, imprenditore per eccellenza, appare quindi giusto ed è attaccato soltanto per gli eccessi di volgarità, di personalismo e le infrazioni al codice civile. Il Pd non sostiene alcuna alternativa di sistema, non diversamente dalla Idv».
Un paese stanco e depresso, si dice. In piena decadenza morale. Con una destra senza alternativa al momento. È accaduto qualcosa di irreversibile nell’antropologia degli italiani, ormai fortemente cristallizata a destra?
«Un’Italia repubblicana e democratica esiste soltanto dal 1946, e la sua Costituzione, socialmente avanzata, soltanto dal 1948. Inoltre dall’’89 in poi questa Costituzione, mai del tutto realizzata, oltre a essere esplicitamente attaccata da destra, viene considerata discutibile anche alla sinistra, che quando era al governo la ha perfino modificata. Perché la gente dovrebbe considerarla un valore inalienabile, dal quale non arretrare?».
Dall’accettazione del mercato alla subalternità agli imperativi sistemici di mercato e impresa, come lei dice. Dunque sta qui tutta la crisi della sinistra?
«Il mercato è per sua natura “sistemico”. Esso non ha né compiti ne doveri sociali, scambia merci e tende a ridurre tutto a merce. Una sinistra che non tenti di abolirlo, come il comunismo nel 1917, o vigorosamente limitarlo, come Roosevelt o Keynes dopo la crisi del 1929 e i fascismi, cede ad esso ogni sua priorità e di fatto si dimette. In quanto a “ferrivecchi” il liberismo è venerando, è stato limitato soltanto dalle lotte operaie, e Von Hayek e von Mises vengono prima del “neoliberismo” di Reagan e Thatcher».
Eppure nonostante l’incapacità del capitalismo globale di autoregolarsi e la riscoperta della statualità, negli Usa e in Europa, il capitalismo continua ad essere reputato eterno e al più arginabile. È un ferro vecchio novecentesco anche la sola critica del capitalismo?
«La regola del capitalismo è fare profitto e riprodursi, anche affondando questo o quel capitalista, questa quella tecnica. Non puo avere altre regole, e perche dovrebbe? Lo abbiamo visto nel G20,a Copenhagen e nelle fatiche e i compromessi di Obama. Per il resto - rinuncia della sinistra criticare il capitalismo etc,- mi pare di aver già risposto».
Ritieni che il Pd sia riformabile «da sinistra», oppure come sostiene Pietro Ingrao, esso è irrimediabilmente un partito di centro anche dal suo punto di vista?
«Il centro non è una categoria sociale ma di pura geografia parlamentare. Il Pd si propone un capitalismo un poco corretto, e delegittima ogni conflittualità. Il Pci ne aveva assunto alcune pratiche da un pezzo, in parte obbligato dalla collocazione internazionale, in parte per vocazione moderata di molti del suo gruppo dirigente».
La riscossa dei socialisti francesi smentisce le campane a morto sul socialismo europeo, così come la crescita di consensi della Linke tedesca. Può ripartire in Europa una spinta di sinistra, o la sinistra abita ormai solo in America Latina?
«I socialisti francesi sono appena rosei, hanno radice essenzialmente nelle assemblee estive locali, si tengono a mezza strada fra un prudente riformismo e il “centro” di Bayrou, che da noi piace a Casini e Rutelli. Del resto il prossimo candidato all’Eliseo rischia di essere Strauss-Kahn. La Linke è piu a sinistra, ma sostanzialmente sindacalista all’ovest, nostalgica all’est. In America Latina non definirei socialisti né Chavez né Morales né Lula: sono progressisti, che è altra cosa, e antimperialisti».
C’è un rischio reale di regime plebiscitario in Italia, oppure la quasi scissione di Fini ha fugato il pericolo?
«Non credo a un ritorno al fascismo puro e duro, senza libertà di associazione (e quindi senza elezioni, partiti e sindacati) né di parola (quindi senza stampa) nazionalista e antisemita. Il limite accettabile per l’Europa a moneta unica è quello della maggioranza attuale - un liberismo socialmente crudele e nazionalmente velleitario. Fini ne fa parte, il trattato europeo gli va benissimo e viceversa, mentre Bossi e Berlusconi fingono di attaccarlo e stanno diventando imbarazzanti. Fini ha davvero la forza di andarsene? Non lo credo. Comunque, dinanzi a una crisi del centrodestra temo che sarebbe terribile, una coalizione tipo Cln con dentro Montezemolo, Casini, Fini e Bersani. Dinanzi a questa eventualità la sinistra dovrebbe riscoprire un alternativa programmatica di modello, fondata almeno su un rilancio keynesiano dell’economia. Magari in chiave non troppo lontana da quel che sta cercando di fare Obama negli Usa».
Susanna Tamaro sul «Corsera» ha accusato il femminismo di aver reso le donne più sole e omologate alla società dominante. Predica reazionaria o c’è qualcosa di vero nella predica?
«Il femminismo, nelle sue diverse anime, resta il solo tentativo di rivoluzionamento del costume tentato e durato dagli anni ’60 agli 80. Per questo la ex sinistra, dopo un breve flirt, lo ha mollato, gli altri partiti lo abominano e la stampa alquanto vigliaccamente lo deride. Non ho letto Tamaro, ma posso immaginare dove la porta il cuore».
* l’Unità, 28 aprile 2010