SIG. PRESIDENTE
DELLA REPUBBLICA ITALIANA
SIG. PRESIDENTE
DELLA CORTE COSTITUZIONALE
CARISSIMO CITTADINO
GIORGIO NAPOLITANO
CARISSIMO CITTADINO
FRANCESCO AMIRANTE
A VOI ARBITRI IMPARZIALI DELLA VITA POLITICA DELLA NOSTRA SOCIETA’ DI CITTADINI-SOVRANI E DI CITTADINE-SOVRANE CHIEDO UN INTERVENTO DI CHIARIFICAZIONE E UN MESSAGGIO ILLUMINANTE.
L’ITALIA HA UN SOLO PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA E LA PAROLA "ITALIA" E’ COSTITUZIONALMENTE SOLO SUA.
NESSUNO PUO’ APPROPRIARSENE PER FARNE PAROLA DI PARTITO O SCUDO PER COPRIRE INTERESSI DI PARTE, COME E’ AVVENUTO E CONTINUA AD AVVENIRE SOTTO GLI OCCHI SUOI E DI TUTTI I CITTADINI E DI TUTTE LE CITTADINE D’ITALIA.
NON E’ PIU’ POSSIBILE TEMPOREGGIARE E GIOCARE CON IL FUOCO E CON LA MORTE CIVILE CULTURALE E POLITICA VOSTRA E DELL’INTERA ITALIA.
LA "LOGICA" E IL SOFISMA DEL MENTITORE ISTITUZIONALE HA ASSICURATO AL PARTITO "FORZA ITALIA" UNA MAGGIORANZA FALSA E BUGIARDA, CAMUFFATA DA LEGALITA’ E LEGITTIMITA’, E PRODOTTO UNO STRAVOLGIMENTO DELLE STESSE REGOLE COSTITUZIONALI.
NON SI PUO’ PIU’ PROCEDERE OLTRE SU QUESTA STRADA DI DEVASTAZIONE E MORTE CULTURALE POLITICA E CIVILE. E’ L’ORA DI DIRE SEMPLICEMENTE E DECISAMENTE LA VERITA’ E RISTABILIRE L’AUTORITA’ DELLA LEGGE DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI:
OLTRE C’E’ SOLO LA FINE DI OGNI DIGNITA’, COME DELLA VOSTRA COSI’ DELL’INTERA ITALIA.
PER UNA VERA PACIFICAZIONE E UN VERO DIALOGO TRA LE FORZE IN CAMPO
CHIEDO
UN VOSTRO INTERVENTO E UN VOSTRO MESSAGGIO DI CHIARIFICAZIONE IN MERITO.
IL MIO AUGURIO E LA MIA SOLLECITAZIONE E’
CHE
LA PAROLA
"ITALIA"
VENGA RESTITUITA IMMEDIATAMENTE
AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA,
AL CITTADINO GIORGIO NAPOLITANO,
ALL’INTERO PARLAMENTO
E A TUTTI I CITTADINI E A TUTTE LE CITTADINE
D’ITALIA!!!
E CHE SOTTO LA VOSTRA
IMPARZIALE E COSTITUZIONALE GUIDA
E CON VOI
TUTTI I CITTADINI E TUTTE LE CITTADINE,
TUTTI I GIOVANI E TUTTE LE GIOVANI,
TUTTI GLI STUDENTI E TUTTE LE STUDENTESSE
D’***ITALIA***
POSSANO RICOMINCIARE A GRIDARE IN MODO CHIARO, SERENO, DIGNITOSO E FIERO
SENZA TRUCCHI E SENZA INGANNI
FORZA ***ITALIA***, VIVA L’***ITALIA***
Che l’Italia viva: Forza ***Italia***!!!
VIVA L’ITALIA!!!
Federico La Sala (25.05.2009)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"PUBBLICITA’ PROGRESSO": L’ITALIA E LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!!
L’OCCUPAZIONE DELLA LEGGE E DELLA LINGUA ITALIANA: L’ITALIA E LA VERGOGNA
1992-2010: LA GUERRA DI "FORZA ITALIA" CONTRO L’ITALIA.
FLS
L’ALTRO FOGLIETTO MOSTRATO AI MALPANCISTI: «PRENDO LA FIDUCIA? LASCIO»
E su un foglio spuntano le parole «traditori» e «dimissioni»
Il premier e gli appunti in Aula dopo il voto:
«ribaltone», «voto», «presidente della Repubblica».... *
MILANO - «Prenda atto, rassegni le dimissioni». È l’invito che Pier Luigi Bersani rivolge in Aula a Silvio Berlusconi dopo il voto sul rendiconto generale dello Stato. Il premier lo annota su un foglietto di carta, fotografato da diversi reporter a Montecitorio. Sul foglio ci sono anche appuntate le parole «ribaltone», «voto», «presidente Repubblica» e «una soluzione». In alto, come primo punto, «308, meno 8 traditori». Quello scritto in Aula dopo il voto non è l’unico foglietto di Berlusconi che esprime la momentanea incertezza del capo del governo. I malpancisti del Pdl recatisi a Palazzo Grazioli prima del voto hanno trovato il Cavaliere che maneggiava uno schema a tutta pagina con in bella mostra alcuni punti interrogativi. «Prendo la fiducia? Lascio? Governo tecnico? Reincarico?».
Ad ogni domanda il Cavaliere aveva inserito sul foglio una risposta, un percorso, evidenziando - riferisce chi è stato in via del Plebiscito - i pro e i contro delle ipotesi in campo. Dal Pdl riferiscono che lunedì sono state affrontati tutti gli scenari possibili e il presidente del Consiglio ha continuato a ripetere di avere intenzione di andare avanti. Anche oggi il premier ha ribadito di voler andare alla conta: devono avere la forza per buttarmi giù, mi devono far cadere, non sono uno che si arrende dall’oggi al domani, è il ragionamento del Capo dell’esecutivo che in questi giorni sta ascoltando tutti i ’fedelissimì per poi trarre le conclusioni. I vertici di via dell’Umiltà sono convinti che si supererà l’asticella dei 310 voti. Il timore, però, a questo punto è che il Quirinale possa tornare ad invocare garanzie di governabilità. Berlusconi agli ospiti ricevuti dice di fidarsi ancora di Giorgio Napolitano che, a suo dire, si è comportato sempre correttamente. L’obiettivo è sempre quello di superare lo scoglio della Camera e porre poi la fiducia al Senato sulla lettera della Bce. Lunedì a confortare il premier è stato in particolar modo la figlia Marina, mentre - sostengono fonti ben informate - gli altri figli, e soprattutto Eleonora, Barbara e Luigi, avrebbero chiesto al premier di evitare lo scontro a tutti i costi. In ogni caso il Cavaliere è ancora convinto di farcela.
Lunedì ad Arcore c’è stata anche una prima riunione sull’eventualità di un voto anticipato: sono stati prenotati gli spazi elettorali, sono spuntati i primi bozzetti con la scritta «Italia sempre» e «Italia viva», con logo e colori che si ispirano a quelli della vecchia Fi. La prima data utile per le elezioni è quella del 20 febbraio, sostengono fonti parlamentari del Pdl. «Questi malpancisti - dicono alcuni parlamentari di via dell’Umiltà - non hanno capito che così facendo accelerano il voto anticipato».
Redazione Online
* Corriere della Sera, 08 novembre 2011 18:09
Il vuoto che affonda il Paese
di MARIO DEAGLIO (La Stampa, 8/11/2011)
Non c’è forse mai stata nel mondo, tanta attenzione per l’Italia come nella giornata di ieri. Non l’attenzione benevola che si riserva a un Paese curioso, noto per non rispettare sempre fino in fondo le regole ma dotato di inventiva e flessibilità, con i suoi paesaggi e i suoi musei; ma l’attenzione fredda e ostile di chi considera l’Italia come un rischio per tutti, di chi sa che da quel che succede in Italia può dipendere il futuro del sistema globale e anche il proprio.
L’attenzione di chi ha visto il disastro greco e sa che un analogo disastro italiano sarebbe molte volte maggiore, sconvolgerebbe gli equilibri economici, già precari, di tutto il pianeta; e che, se questo dovesse succedere, subito dopo sarebbe la volta della Francia - che non a caso ieri ha varato il suo piano di austerità con aumento dell’Iva - e dopo la Francia, forse, degli Stati Uniti.
I mercati pensano che l’Italia possa fare la differenza tra il collasso mondiale e la ripresa globale. In queste circostanze, Silvio Berlusconi ha smesso di essere considerato all’estero un signore un po’ strano che spesso fa battute imbarazzanti.
Uno vicino al quale da un paio d’anni i capi di Stato e di governo degli altri Paesi non si fanno fotografare volentieri. E’ diventato una fonte, quasi «la» fonte di rischio, una mina vagante nel mare tempestoso di una crisi mondiale dalle dimensioni sempre maggiori. Ecco allora i media mondiali, la «Reuters» e il «New York Times», domandarsi se questo sia il «finale di partita» per l’Italia, ecco «Wall Street Journal» e «Financial Times» scoprire quanto stereotipata sia l’immagine dell’Italia e quanto poco il resto del mondo sappia di questo anello della catena mondiale divenuto improvvisamente debole.
Mentre il resto del mondo si pone interrogativi così gravi, il presidente del Consiglio, assai prima di occuparsi degli affari di Stato, è in riunione, nella sua villa di Arcore, con i figli e con Fedele Confalonieri, il presidente di Mediaset che siede nel consiglio di amministrazione delle principali aziende di famiglia, con le Borse che esultano prematuramente per le dimissioni ormai ritenute questione di ore. Poi vede i vertici della Lega, forse su come avviare le «riforme» (di cui Umberto Bossi è il ministro responsabile), quelle riforme che l’estero interpreta in maniera così diversa da noi, che molti in Italia, opposizione compresa, sperano di fare soprattutto a parole. Solo più tardi parte per Roma, per andare a fare (ancora) il presidente del Consiglio.
Il piano degli interessi personali di Silvio Berlusconi si contrappone così al piano dei problemi europei e dell’economia mondiale. Forse è sempre stato così ma il mondo non se ne era curato, così come non se ne erano curati molti italiani. Tra questi due piani, quello globale e quello personale, si colloca l’Italia, un’Italia costretta a farsi dettare le politiche e controllare i conti dai mercati globali perché ha difficoltà a pagare i debiti. Con il resto del mondo interessato soprattutto al programma, indipendentemente dal governo e il mondo politico italiano interessato soprattutto al governo, quasi indipendentemente dal programma. Quest’Italia si configura come un vuoto; un vuoto politico, con le dimissioni-non dimissioni del premier e con le forze politiche dell’opposizione incapaci di posizioni sufficientemente chiare. L’Italia purtroppo si configura anche, e forse è questo l’aspetto più preoccupante, come un terribile vuoto sociale, con quasi un giovane su quattro più di due milioni di persone in tutto - tra i 15 e i 29 anni che non lavora né studia, come ha messo in luce ieri una ricerca della Banca d’Italia, mentre di quel lavoro e di quello studio il Paese avrebbe grandissimo bisogno.
In questo vuoto l’Italia rischia di affondare. Prima di tutto perché si tratta di un vuoto che costa. E’ possibile, anche se complicato, calcolare quanto costa al Tesoro un giorno in più di permanenza, in queste condizioni, di Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi. Questo costo si misura in termini di maggiori interessi sul debito italiano che viene via via rinnovato a tassi fortemente crescenti, così che il beneficio che dovrebbe derivare all’erario dall’aumento dell’Iva viene divorato dall’aumento dei tassi. Oggi si misura in 500 punti base, cinque punti percentuali in più che il mercato pretende, come «premio per il rischio Italia» per sottoscrivere titoli italiani invece di titoli tedeschi. Vi è poi il costo occulto, dato dalla perdita di prestigio e di credibilità dell’Italia nel mondo della finanza, e non solo; un costo che gli imprenditori conoscono benissimo e il resto del Paese comincia a intuire in tutta la sua gravità.
E’ con questo vuoto che il Paese deve fare i conti. Tutte le conquiste del passato, dalle posizioni sui mercati internazionali al peso politico all’interno dell’Unione Europea, ai diritti «acquisiti» di lavoratori e pensionati, tutto sembra essere risucchiato in un gorgo dal quale cominceremo a uscire soltanto con un cambiamento dell’esecutivo. L’errore più grave è, però, illudersi che basti questo cambiamento a risolvere miracolosamente tutto. Se tutto andrà bene, avremo davanti qualche lustro di cammino difficile e faticoso.
Una ipotesi nient’affatto peregrina
Una trappola politica è stata lanciata, quella del governo di unità nazionale. Ci vogliono invece le elezioni subito e l’abbandono del neoliberismo. Ce lo chiede innanzitutto la Madre Terra che ci ricorda che non si può impunemente abusare dell’ambiente.
di Giovanni Sarubbi *
Il trappolone sembra dunque pronto. L’esca succulenta è lì in bella mostra e c’è chi è disponibile ad ingoiarla insieme all’amo e a tutta la lenza. Anche gli autori sono noti a cominciare da Giuliano Ferrara direttore del giornale semiclandestino “il foglio” nonché tribuno televisivo pro governo a spese dei contribuenti.
Ci riferiamo alla questa volta probabile caduta del governo Berlusconi, a meno di una nuova e non improbabile campagna acquisti dell’ultima ora. La caduta del governo, a lungo invocata dalle opposizioni e più volte tentata con svariati voti di fiducia, sembra essere questione di pochi giorni, o addirittura di poche ore, stando agli ultimi dispacci di agenzia, e potrebbe trasformarsi in un vero e proprio boomerang se le opposizioni sceglieranno la via del governo tecnico o di unità nazionale che dir si voglia piuttosto che quello del voto anticipato subito.
Lo schema a noi, che non ne capiamo molto di politica, lo confessiamo, ci sembra molto semplice. Il PDL e la Lega dicono che in caso di caduta del governo, o di dimissioni di Berlusconi come dichiara Giuliano Ferrara, l’unica alternativa sarebbero le elezioni anticipate a gennaio. Questa dichiarazione sembra fatta apposta per ottenere la risposta negativa delle opposizioni ed in particolare del Presidente Napolitano che è sensibilissimo agli argomenti della BCE e del FMI. Verrà dunque proposto un governo tecnico che verrà presieduto da una personalità definita di “alto profilo”, cioè gradita alle istituzioni europee ed in particolare alla BCE e al FMI. Si fa il nome di Mario Monti, il più quotato, che sarebbe l’uomo di garanzia per l’attuazione del programma lacrime e sangue che la BCE ed il FMI vogliono imporre all’Italia. In seconda battuta potrebbe esserci Giuliano Amato ma sarebbe come dire di male in peggio.
Il PD ha manifestato più volte l’intenzione di abboccare all’amo. Più volte il vicesegretario Letta ed il segretario Bersani e l’immancabile D’Alema hanno detto di “essere pronti ad assumersi tutte le proprie responsabilità”, che tradotto in linguaggio corrente è come dire alla BCE e al FMI “chiedete e vi sarà dato”, qualsiasi cosa. Casini, Rutelli e Fini con il loro Terzo Polo accoglierebbero entusiasti la soluzione che verrebbe appoggiata anche da una parte del PDL, quella che fa capo a Scajola o al sardo Pisanu. Se l’IDV accettasse tale soluzione, e Di Pietro si è dimostrato possibilista, la maggioranza parlamentare ci sarebbe ed il “governo tecnico” potrebbe approvare, anche con la benedizione e la sollecitudine del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, la ulteriore manovra che dovrebbe succhiare le ultime gocce di sangue che ancora scorrono nel corpo dei lavoratori dell’industria italiani, dei pensionati, dei piccoli artigiani, dei contadini o dei dipendenti pubblici, dei disoccupati, cioè del 90% della popolazione italiana, mentre rimarrebbe sostanzialmente indenne quel 10% di ricchi che possiedono il 50% circa della ricchezza nazionale. Escluso dai tagli sarebbe solo il settore militare perché le armi, quando si programmano politiche criminali come quelle che sono in cantiere, non si toccano, sennò la repressione violenta delle inevitabili manifestazioni di piazza come la si farebbe?
E se si fa il governo tecnico con l’appoggio del PD o dell’IDV, lo ha detto chiaramente Casini proprio ieri, lo si fa perché loro rappresenterebbero quella parte di società chiamata a subire pesantemente i costi della manovra. Tutti i responsabili provinciali e regionali del PD, per quel che ci risulta, sono d’accordo con tale soluzione che viene vista senza alternative. Ma questa scelta avrà pesanti conseguenze non solo sul piano materiale per la maggioranza della popolazione, ma anche sul piano politico. Sarà inevitabile per i lavoratori dell’industria italiani, per i pensionati, per i piccoli artigiani, per i contadini o per i dipendenti pubblici o i disoccupati, individuare nel PD e nell’IDV i responsabili dei sacrifici loro imposti. Fra sei mesi o un anno quando si tornerà alle urne saranno proprio il PD e l’IDV ad essere puniti dall’elettorato perché, statene pur certi, il PDL e la Lega faranno una dura opposizione alle misure “lacrime e sangue” che il “governo tecnico”, e non più il governo PDL-Lega, ci farà ingoiare, con le buone o con le cattive.
Ed il trappolone è servito perché a quel punto è facile prevedere che PDL e Lega, epurati da chi avrà appoggiato il governo tecnico, ritornerà a vincere le elezioni.
Fantapolitica? Non crediamo, soprattutto dopo la riuscita della manifestazione del PD di sabato 5 novembre. E’ purtroppo oramai un classico di quel partito mobilitare la propria gente che risponde generosamente per poi tradirla un attimo dopo. E’ successo già altre volte con le varie primarie indette dal PD trasformatesi subito dopo per migliaia di militanti di quel partito in scoramento ed abbandono della politica. Come non ricordare, per esempio, quando è venuto fuori il tentativo del solito D’Alema di accordarsi con il PDL per la sua nomina a ministro degli esteri della Commissione Europea subito dopo le primarie per la elezione di Bersani a segretario del PD. E l’unico partito che cresce costantemente sia nei sondaggi sia nei voti reali è quello degli astenuti, quelli che a votare non ci vanno più perché hanno perso completamente la fiducia nella possibilità di cambiare perché “destra o sinistra pari sono”, come è possibile ascoltare ad ogni angolo di strada. E come dargli torto se le prospettive politiche a breve termine sono quelle prima indicate?
Il PD e l’IDV ed i partiti che sono attualmente fuori dal parlamento come SEL e la Federazione della Sinistra (PRC, PDCI, Socialismo2000, Lavoro e solidarietà) devono rifiutare l’abbraccio mortale con il terzo polo ed il trappolone che, dal nostro modestissimo punto di vista, è stato confezionato da Berlusconi e Bossi e da ben noti loro consiglieri che di politica e di manipolazione dell’opinione pubblica ne capiscono certamente molto ma molto di più dei pesci lessi che abbondano nel PD o nell’IDV (e ci scusino i pesci!).
L’unica alternativa, nel caso di caduta del governo, sono dunque le elezioni anticipate subito, con un raggruppamento unitario di centro-sinistra che escluda terzi poli parafascisti e che si liberi del pensiero unico neoliberista e faccia soprattutto pagare il debito a chi lo ha prodotto e non a quel 90% di italiani che non ne hanno colpa e su cui lo si vorrebbe scaricare. E non si illudano il PD o l’IDV di rappresentare il cosiddetto mondo del lavoro o di poterlo dirigere e orientare come meglio credono, ma la stessa cosa vale anche per i partiti di sinistra attualmente fuori dal parlamento. Non è più così da quanto quei dirigenti del PD che provengono dal vecchio PCI decisero di distruggerlo nel biennio 1989-1991, ed il 40% di astenuti alle elezioni lo dimostra al di la di ogni possibile dubbio.
E che ci voglia un ritorno ad una politica di rigoroso rispetto della nostra Costituzione lo dimostrano anche i tanti morti di questi giorni causati da alluvioni e disastri ambientali provocati dal prevalere nel mondo e nel nostro paese di una economia finalizzata non al bene comune ma all’arricchimento infinito di poche famiglie a livello planetario, anche a spese dell’intero sistema ecologico della Madre Terra che ci ospita, e scusate la ripetizione per i miei quattro lettori, come ospiti sempre più sgraditi. Il capitalismo selvaggio dei nostri tempi sta distruggendo l’intera Terra. E allora è ora il momento di cambiare e di buttare via pastrocchi indecenti che fanno venire il vomito al solo pensarli. Giovanni Sarubbi
* www.ildialogo.org/editoriali, Lunedì 07 Novembre 2011
Colpevole di alto tradimento
di Roberta De Monticelli (“il Fatto Quotidiano”, 20 ottobre 2011)
Raccolgo la poca speranza residua che un riscatto morale e civile degli italiani sia ancora possibile, per scrivere questa lettera aperta agli esperti di Diritto costituzionale. Mi rivolgo a tutti loro e a chiunque, nelle istituzioni di questa Repubblica, abbia titolo a suggerire una via per sanare le profondissime ferite che sono in questi giorni inferte alla nostra coscienza civile. O sia, almeno, in grado di dare risposta allo sconcerto di molti semplici cittadini come me, dei quali mi faccio portavoce. Siamo noi che abbiamo perduto il senso della misura, o è l’opinione pubblica che ha perduto, per abitudine e rassegnazione, la capacità di percepire quando la misura è colma?
IO CREDO che il voto di scambio sia un reato, e che se non si procede a denunciarlo e a esigere che chi se ne è reso colpevole ne paghi le conseguenze, sia in generale perché è difficile trovare le prove che il mercato abbia avuto luogo. Ma nel caso che abbiamo sotto gli occhi, le prove ci sono. Il presidente del Consiglio ha ripetuto di aver "dovuto" ripagare con un posto di viceministro la signora Polidori per via di promesse già fatte, in cambio di favori pregressi, ha anche aggiunto che precedeva altri nella lista, e che c’era un documento scritto a provarlo. Lo ha detto, ed è stato riportato dai giornali di ieri e di sabato. In quelli di oggi, con le intercettazioni delle telefonate con Lavitola, emergono numerosi altri casi del genere, con personaggi che dicono "io sono prima di lui nella lista", eccetera.
Io credo che un capo di governo che dica "facciamo la rivoluzione vera... facciamo fuori il Palazzo di Giustizia di Milano" si renda semplicemente colpevole di tradimento nei confronti della Repubblica, e della sua Costituzione, sulla quale ha giurato. Credevo che, se fino ad ora non si è proceduto a denunciarlo e a procedere con una qualche - immagino prevista - forma di impeachment per alto tradimento, fosse perché non era dimostrabile che questo fosse il pensiero del capo del governo. Ora è dimostrato. Nero su bianco, voce e sua riproduzione scritta, comparsa sui giornali del 17 ottobre. Io credo che quando un presidente del Consiglio dichiara che nessuno che non sia un suo "pari" - cioè, immagino, un parlamentare, o un ministro - non ha il diritto di giudicarlo, fa una dichiarazione eversiva, in quanto lesiva dell’articolo 3 della Costituzione. E questa dichiarazione il suddetto presidente l’ha fatta in numerose occasioni, già molti anni fa. È oggi uno dei temi ricorrenti delle conversazioni con Lavitola, anche queste oggi di pubblico dominio .
IO CREDO che se un presidente del Consiglio dimostra di avere ogni genere di rapporti, che lo rendono ricattabile, con un indagato per reati di vario genere, peraltro dichiaratosi latitante; se addirittura ha istigato il suddetto latitante a restare tale; se infine pare all’origine del fatto che costui non viene arrestato, nonostante sia perfettamente reperibile, avendo concesso a una televisione nazionale una pubblica intervista: ebbene questo presidente del Consiglio si rende come sopra colpevole di eversione e tradimento della Costituzione su cui ha giurato, nonché di insulto alla coscienza morale e civile di tutti i suoi concittadini.
Se queste mie credenze sono fondate, allora mi chiedo e vi chiedo se le migliori intelligenze delle discipline giuridiche pertinenti non possano e non debbano farsi autrici di un documento di pubblica accusa, che se anche fosse destinato all’inefficacia pratica, avrebbe comunque una forte efficacia morale, come specchio e riferimento ideale di tutti i cittadini italiani che nella Costituzione si riconoscono, e che l’occupazione del potere da parte di chi la spregia ferisce nel fondamento stesso della loro coscienza e fedeltà alla Repubblica.
NON CI si obietti che questo capo di governo e la sua maggioranza sono al tramonto. Qualunque sia la maggioranza che gli succederà, considerare semplicemente “politica” la differenza fra la fedeltà alla Costituzione e il suo disprezzo, è rendersi complici del massacro, che si sta svolgendo sotto i nostri occhi, della nostra dignità di cittadini, oltre che di quella delle istituzioni di questa Repubblica. Ed è soffocare per sempre la speranza di quel riscatto a partire dal quale soltanto una civiltà nazionale e politica può ricominciare a esistere.
DONNE, UOMINI, E COSTITUZIONE. Un’altra storia è possibile
13 FEBBRAIO 2011: ORA BASTA!
MANIFESTAZIONE DELLE DONNE E DELLE CITTADINE, PER LA LORO DIGNITA’ E PER UNA NUOVA ITALIA, AL DI LA’ DEL GOVERNO DEI "PAPI".
L’appello di "Se non ora QUANDO?" - e (a seguire) materiali sul tema
Noi chiediamo a tutte le donne, senza alcuna distinzione, di difendere il valore della loro, della nostra dignita’ e diciamo agli uomini: se non ora, quando? e’ il tempo di dimostrare amicizia verso le donne.
STORIA D’ITALIA (1994-2011): HO FATTO, FACCIO, E FARO’ "CAUSA ALLO STATO"!!! Signor Presidente del Consiglio, "perché vuol fare causa allo Stato?". Ma devo ancora dirlo: chi è il "vero" Presidente della Repubblica?! IO: "Forza Italia"!, Viva il "Popolo della libertà"!!
(...) c’è anche un significato simbolico. Da questo punto di vista, non si tratta solo di una strategia processuale, ma, ancora una volta, di una esplicita dichiarazione di guerra contro il vero nemico politico e culturale di Berlusconi: lo Stato. Non questo o quel potere o ordine, non i magistrati comunisti, non i partiti avversari. No. Il nemico è lo Stato in quanto tale, in quanto organizzazione di potere sovrano e rappresentativo (...)
Il governo è salvo l’Italia no
di MICHELE BRAMBILLA (La Stampa, 23/9/2010)
A prima vista la notizia del «no» all’utilizzo delle intercettazioni telefoniche che riguardano l’ex sottosegretario Cosentino sembra una buona notizia. Se fosse passato il «sì» il governo sarebbe entrato in agonia, per tirare le cuoia da qui ad - al massimo - un mese. Sarebbero stati ben pochi a rallegrarsene davvero. Sicuramente la Lega e Di Pietro, che alle urne ne avrebbero tratto profitto: ma proprio quel profitto avrebbe reso il Paese ancora più ingovernabile di quanto non sia già. Chiunque abbia a cuore non il proprio interesse particolare, ma quello generale, sa che mai come ora, malmessi come siamo, abbiamo bisogno di un governo. Anche il presidente Napolitano, una delle poche figure davvero di garanzia, s’è augurato che l’esecutivo tenga, perché il momento non è tale da poter permettere salti nel buio.
No sarà eccezionale, questo governo: ma come diceva Caterina II di Russia è meglio uno Stato con cattive leggi applicate che uno con buone leggi non applicate. Tuttavia lo spettacolo offerto ieri alla Camera è stato talmente desolante, anzi mortificante, da far svanire in un battibaleno il sospiro di sollievo provato per la «tenuta» del governo.
Primo. La maggioranza ha esultato perché è rimasta maggioranza anche senza i finiani. La soddisfazione è comprensibile. Ma su quale fondamentale tema è rimasta maggioranza? Su una riforma del fisco? Su un provvedimento per far ripartire le imprese? Su un intervento contro la disoccupazione? Niente di tutto questo (che poi è quello che servirebbe al Paese): la Camera ha detto, a maggioranza, che la magistratura non può utilizzare le intercettazioni che riguardano un parlamentare sul quale pende un mandato di arresto per camorra.
E’ perfino superfluo precisare che il parlamentare in questione, Nicola Cosentino, può benissimo essere innocente: anzi lo è finché non si dimostri il contrario. Ma per dimostrarlo occorrerebbero delle indagini, e la politica ieri ha detto che su un politico non si può indagare. Rinverdendo una tradizione che ci eravamo illusi fosse ormai sepolta, la nostra classe politica ha deciso di autogiudicarsi e, naturalmente, di autoassolversi. Si esulti pure, insomma, ma si abbia il buon gusto di farlo di nascosto.
Secondo. L’altro spettacolo mortificante di ieri riguarda il tormentone dell’ormai celeberrima casa di Montecarlo. Sui giornali è finita una lettera nella quale un ministro dell’isola di Santa Lucia, un paradiso fiscale delle Antille, dice al suo premier che il vero proprietario dell’immobile è proprio Giancarlo Tulliani, il cognato di Fini. In sintesi: se fosse vera, la lettera sarebbe la prova che la casa - lasciata in eredità ad An - è stata venduta a un prezzo stracciato a un familiare di Fini.
Questi ha reagito dicendo che quel documento è «un falso, talmente fatto bene da pensare che dietro ci siano i servizi». I suoi fedelissimi hanno rincarato la dose. Carmelo Briguglio ha formalmente chiesto che «il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica assuma una decisa iniziativa in relazione alla pubblicazione di atti di dubbia autenticità, se non addirittura falsi». I finiani parlano di «vergognoso dossieraggio contro la terza carica dello Stato». E perlomeno complice del dossieraggio sarebbe «il quotidiano di famiglia del presidente del Consiglio», cioè il Giornale, impegnato in una «incessante campagna scandalistica ai danni del presidente di un ramo del Parlamento».
E’ chiaro che i casi sono due. O l’Italia è un Paese in cui il premier usa i servizi segreti per far fuori il presidente della Camera; oppure è un Paese in cui il presidente della Camera lancia accuse gravissime senza dimostrarne la fondatezza. Nel primo caso sarebbe un letamaio; nel secondo un manicomio. Anche perché il dubbio non sembra difficile da sciogliere: basterebbe chiedere al governo di Santa Lucia se quel documento è autentico oppure no. E magari non sarebbe male neppure se Fini e suo cognato ci dicessero finalmente a chi hanno venduto quella benedetta, anzi maledetta casa. Insomma dopo la giornata di ieri il governo è salvo, e il Parlamento pure. Ma che ci sia davvero di che rallegrarsene, beh, questa è una domanda che viene spontanea. Com’è spontaneo chiedersi in che mani siamo.
Scuola di Adro, l’altolà di Napolitano
"Fuori i simboli padani dalle classi"
La lettera del capo dello Stato:
«Bene l’intervento della Gelmini» *
ROMA «Il capo dello Stato ha apprezzato il passo compiuto dal ministro dell’Istruzione Maria Stella Gelmini, invitando il sindaco di Adro a rimuovere quelle esibizioni».
Sono parole del segretario generale della presidenza della Repubblica, contenute nella lettera indirizzata ai 185 genitori del comune bresciano che nei giorni scorsi si erano rivolti al Quirinale per chiedere un intervento in merito alla presenza dei 700 ’Soli delle Alpì nel nuovo polo scolastico del paese. Napolitano - si legge ancora nella missiva - «ha ribadito la sua convinzione che nessun simbolo identificabile con una parte politica possa sostituire in sede pubblica, quelli della nazione e dello Stato, nè questi possono essere oggetto di provocazione e sfide».
È il più recente sviluppo di una vicenda che, giorno dopo giorno, sembra registrare sviluppi a senso unico. Il sindaco Oscar Lancini da più di una settimana non rilascia dichiarazioni. Ieri sera ha addirittura rinviato il consiglio comunale perchè i fotografi e gli operatori non intendevano attenersi alla sua richiesta di lasciare l’aula prima che la seduta iniziasse. Il consiglio si terrà domani, ma a porte chiuse, ulteriore testimonianza della tensione che regna in amministrazione ad Adro. Ieri sera, peraltro, i cittadini sia prima che dopo la decisione di non iniziare il consiglio hanno conversato e discusso senza particolare tensione.
All’ordine del giorno non era prevista la discussione della questione dei ’soli delle Alpì, ma i consiglieri d’opposizione erano fermamente intenzionati ad intervenire in merito. Il nuovo polo scolastico, intitolato a Gianfranco Miglio, è stato realizzato a tempo di record, in un anno, e inaugurato il 12 settembre scorso. Sin da quel giorno sono divampate le polemiche per la presenza del simbolo leghista del ’sole delle Alpì. Il sindaco Oscar Lancini ha sempre replicato che si tratta di «un simbolo del territorio e non di partito». Le polemiche hanno registrato ogni giorno una presa di posizione, ma la vera svolta si è avuta nel fine settimana successivo all’inaugurazione. Il ministro Maria Stella Gelmini ha infatti invitato il sindaco, attraverso il Dirigente Scolastico Regionale della Lombardia, a rimuovere i simboli. Lancini, il giorno successivo ha dichiarato: «se me lo dice Bossi, non domani, ma ieri».
La polemica si è accesa ulteriormente, ma da allora il primo cittadino di Adro non ha più rilasciato dichiarazioni. Lancini, che è stato riconfermato con il 62% dei voti nel 2009, ha sempre avuto una grossa fetta della popolazione al proprio fianco nella battaglia per la presenza dei «Soli» nella scuola. Secondo le opposizioni ora, però, sta solo attendendo che cali il clamore mediatico per attuare una “exit strategy” che non si profila agevole. Non fosse altro per quel sole delle alpi dal diametro di dieci metri che si trova sul tetto della scuola.
* La Stampa, 28/9/2010
CRAC PARMALAT
Quirinale: "Tanzi è indegno"
Revocato titolo di cavaliere
Il presidente della Repubblica accogliendo la proposta del ministro dello Sviluppo economico ha cancellato l’onorificenza al merito del lavoro conferita all’ex patron della Parmalat nell’84
ROMA - Calisto Tanzi non è degno del titolo di Cavaliere del Lavoro. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, accogliendo la proposta del ministro dello Sviluppo economico, ha firmato venerdì scorso il decreto di revoca "per indegnità" della decorazione di Cavaliere al Merito del Lavoro, che era stata conferita all’ex patron della Parmalat il 2 giugno 1984, con decreto firmato dall’allora Capo dello Stato, Sandro Pertini.
Dopo le complesse vicende del crac della Parmalat e delle condotte tenute dal fondatore e presidente dell’azienda (per le quali Tanzi è già stato condannato 1 a Milano) il ministero dello Sviluppo economico aveva chiesto di cancellare l’onorificenza ritenendo che sussistessero "le condizioni previste dalla legge per la revoca". Sarà ora lo stesso ministero di via Veneto, come si afferma nel decreto presidenziale, a curare la trascrizione del provvedimento nell’albo dell’ordine, oltre che a farlo pubblicare nella Gazzetta Ufficiale.
Nell’agosto scorso il presidente aveva tolto all’imprenditore responsabile del gigantesco fallimento di migliaia di risparmiatori anche il cavalierato della Gran Croce
LA LINGUA D’AMORE DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI E LA COSTITUZIONE.
L’OCCUPAZIONE DELLA LEGGE E DELLA LINGUA ITALIANA: L’ITALIA E LA VERGOGNA.
Se il potere si apre alla società civile
La buona politica e la società civile
Troppo scarsa l’attenzione alle forme di associazione spontanea e volontaria che si occupano della collettività. Cambiare la legge elettorale costituisce un’autentica emergenza Nella lezione tenuta alla Festa del Pd i rischi che sono di fronte alle democrazie di oggi. I pericoli maggiori vengono dalle derive populistiche e dalle chiusure di casta
di Gustavo Zagrebelsky
Pubblichiamo ampi stralci della "Lezione sulla democrazia" che Gustavo Zagrebelsky ha tenuto sabato alla Festa del Partito Democratico a Torino *
"Politica" è una parola bastarda. Ha molti padri e madri. Non è sempre la stessa cosa. Dipende da chi la genera e per che cosa. Per chiarire, mi avvalgo d’una citazione di George Orwell. Nel 1948, scriveva (in Writers and Leviathan): «Questa è un’epoca politica. La guerra, il fascismo, i campi di concentramento, i manganelli, le bombe atomiche sono quello a cui pensare». Se non si parlava di campi di sterminio e di genocidio, era per la diffusa ignoranza di ciò che era effettivamente accaduto nel cuore dell’Europa. Auschwitz sarebbe in seguito assurto a simbolo di una certa concezione della politica. Il che è certo molto imbarazzante per la politica stessa.
Questa visione della politica è terrificante. Ha come madre la potenza sopraffattrice, nelle relazioni tra i popoli e tra parte e parte, tra i dominatori e gli oppressi, all’interno dei popoli. L’uso di categorie primordiali come, ad esempio, quelle di amore e odio, per dividere il campo dell’agone politico, sono il riflesso di questa concezione della politica basata sulla malevolenza tra gli esseri umani.
La concezione opposta della politica è espressa in una frase di Aristotele. Se là la politica è violenza e prepotenza, qui «compito della politica pare essere soprattutto il creare amicizia» tra cittadini, cioè legame sociale (Etica Eudemia, 1234 b).
Con le parole di Hannah Arendt (Was ist Politik? - inediti del 1950, pubblicati nel 1993, trad. it. Che cosa è la politica? Torino, Comunità 2001, pp. 5 ss.), ciò che è proprio di questa concezione della politica è l’essere collocata infra, in mezzo, tra le persone. La virtù politica è propria di coloro che amano stare "con" le altre persone, non "sopra", nemmeno "accanto" o, peggio, "altrove"; di coloro che conducono la loro vita insieme a quella degli uomini e delle donne comuni, stando dentro le relazioni personali e di gruppo, quelle relazioni che, nel loro insieme, fanno, di una semplice somma d’individui, una società.
Chi disdegna stare con le persone comuni, credendosi diverso, e il suo cuore batte piuttosto per i salotti, le accademie, le fondazioni culturali, le tavole rotonde, gli studi televisivi, potrà certo essere un’ottima persona. Ma non è adatto alla politica in questo senso. Ciò è così vero che, proprio gli uomini politici più distanti dalla vita della gente comune, che disprezzano, fanno a gara nel dar prova di atteggiamenti populistici e volgari, per far mostra d’essere uguali agli altri, "uno di loro"; in realtà offendendoli e insultandoli, nel momento in cui le trattano non come cittadini ma come plebe.
Forse non abbiamo mai pensato che tra tutti i regimi politici, la democrazia è l’unico che presuppone amicizia tra governanti e governati. I regimi autocratici o oligarchici, comportano separazione che, nel caso migliore, si traduce in indifferenza, in quello peggiore, in inimicizia e avversione. Solo la democrazia vive e si alimenta di un circuito di reciproca fiducia che può esistere solo a condizione che i governanti non si costituiscano in classe separata, solo a condizione che i cittadini comuni non li vedano come cosa diversa da sé.
Che significa classe separata? Innanzitutto che, una volta entrati in uno dei luoghi della politica, si sia acquisito il diritto di non uscirne mai più, fino a quando provveda la natura. I ceti o le caste delle società premoderne erano stratificazioni sociali alle quali si apparteneva dalla nascita alla morte. Oggi, al ceto politico di regola non si appartiene per diritto di nascita, anche se non manca, anzi si moltiplicano i casi di nepotismo, di familismo e di trasmissione ereditaria delle cariche politiche. In politica oggi, di norma, "si entra", o, come si dice autorevolmente, "si scende" (una volta si sarebbe detto "si sale" o si "ascende"), ma, una volta entrati non se ne vuole più uscire. Se proprio occorre lasciare un posto, ce n’è sempre un altro cui aspirare e che ci attende. Oggi quello che importa è entrare in un giro di potere. A che "giro" appartiene? ci chiediamo, vedendo qualcuno che "gira", per l’appunto, da un posto all’altro. Quando entri in un giro, non ne esci più, a meno che tu abbia tradito le aspettative di chi ti ci ha messo.
Questa è la separazione: tra chi, in un giro del potere, c’è e chi non c’è. E volete che chi non c’è non si senta mille miglia lontano da chi vi è dentro? Che non si consideri appartenere a un altro mondo? E, all’opposto, possiamo credere che chi è dentro non consideri chi è fuori un potenziale pericolo, un’insidia per la propria posizione acquisita, e non faccia di tutto per restarci aggrappato, impedendo accessi non graditi al proprio giro chiuso o, almeno, per gestirli secondo propri criteri, in modo che gli equilibri acquisiti non siano scossi? Ma questa è la sclerosi della politica.
Quando si sente dire che occorre promuovere il rinnovamento della classe dirigente e, per questo, bisogna "allevare" nuove leve politiche, il linguaggio - l’allevamento - tradisce perfettamente l’orizzonte culturale in cui si pensa debba avvenire il cosiddetto "ricambio", quel ricambio che tutti a parole dicono necessario ma che, secondo l’idea dell’allevamento, è perpetuazione dello status quo che produce cloni.
Di quest’atteggiamento di separatezza e, in definitiva, di inimicizia, testimonianza eloquente è l’atteggiamento del mondo politico nei confronti della cosiddetta "società civile", un’espressione e un concetto che non ha mai goduto di buona fama, soprattutto a sinistra. Questa è una lunga storia che sarebbe da ricostruire interamente, a partire da quando, dopo la Liberazione, effettivamente la pretesa dei partiti di rappresentare tutto ciò che di "politico" vi era da rappresentare, era giustificata. Ma oggi? Oggi, una società civile è difficile negare che esista. Dobbiamo capirci. Assai spesso - per squalificarne il concetto stesso - la si intende come "i salotti" dove s’incontrano persone disparate che presumono d’essere élite del Paese e si auto-investono di chissà quale compito salvifico, o come lobby più o meno segrete o gruppi d’interesse settoriale che curano i propri affari, legalmente e talora anche illegalmente tramite corruzione o collusione. Da tutto ciò, che ha niente a che fare con la democrazia, la politica dovrebbe guardarsi. Da questa "società civile", piuttosto "incivile", chi si occupa di politica dovrebbe cercare di stare lontano, il più possibile. Ora, chi vuole difendere il circolo chiuso della politica e i suoi sistemi di cooptazione demonizza la società civile identificandola con questi ambienti. Ma è un’operazione che sa di diversivo, cioè di tentativo di spostare l’attenzione su un falso obiettivo, effettivamente indifendibile.
La società civile esiste, ma è un’altra cosa: è l’insieme delle persone, delle associazioni, dei gruppi di coloro che dedicano o sarebbero disposti, se solo ne intravedessero l’utilità e la possibilità, se i canali di partecipazione politica non fossero secchi o inospitali, a dedicare spontaneamente e gratuitamente passione, competenze e risorse a ciò che chiamiamo il bene comune. Quante sono le persone, singole e insieme ad altre, che a partire dalle tante e diverse esperienze, in tutti gli ambiti della vita sociale, a iniziare dai più umili e a diretto contatto con i suoi drammi e le sue tragedie, sarebbero disposte a dare qualcosa di sé, non per un proprio utile immediato, ma per opere di più ampio impegno che riguardano la qualità, per l’appunto civile, della società in cui noi, i nostri figli e nipoti si trovano e troveranno a vivere? Da quel che mi par di vedere, tantissime. Quando si parla di politica e di sua crisi, perché l’attenzione non si rivolge a questo potenziale serbatoio di energie? Non per colonizzarle, ma per trarne, rispettandone la libertà, gli impulsi vitali. In fin dei conti, sono questi "servitori civili", quelli che più di altri conoscono i problemi e le difficoltà reali della vita nella nostra società. C’è più sapienza pratica lì che in tanti studi accademici, libri, dossier che spesso si pagano fior di quattrini per rimanere a giacere impilati. Perché c’è così poca attenzione e apertura, anzi spesso disprezzo, verso questo mondo?
La risposta alla domanda formulata sopra è semplice: la scarsa attenzione, se non l’ostilità, dipende dalla difesa di rendite di posizione politica che sarebbero insidiate dall’apertura. Non c’è da fare tanti giri di parole: è la sempiterna tendenza oligarchica del potere costituito. Viene in mente la frase dell’abate Siéyès con la quale inizia il celebre libello "Che cos’è il terzo stato", un testo che contribuì a creare autocoscienza in chi allora - la Francia pre-rivoluzionaria - chiedeva riforme: "Che cos’è il terzo stato? Tutto. Che cos’è stato finora nell’ordinamento politico? Niente. Che cosa domanda? Diventare qualcosa". Noi potremmo tradurre: "Che cos’è la società civile? Molto. Che cosa è nell’ordine politico? Quasi nulla. Che cosa occorre che diventi? Qualcosa".
Sotto questo punto di vista, c’è oggi in Italia una specifica situazione d’emergenza politica e democratica, rappresentata dalla legge elettorale vigente, con la quale rischiamo di essere chiamati alle urne, nel momento in cui - col favore dei sondaggi- piacerà a chi di dovere.
Questa legge sembra, anzi è, fatta apposta per garantire l’impermeabilità del ceto politico, la sua auto-referenzialità, per munire la sua separatezza. È una legge, nella sua essenza, dello stesso tipo di quelle vigenti nelle dittature di partito. Il fatto che non vi sia "il" partito, ma vi siano "i" partiti, non cambia il giudizio. La sua ratio, come direbbero i giuristi, può esprimersi così: dall’alto discende il potere e dal basso sale, o si fa salire, il consenso. Ma questa non è democrazia. E’, se si vuole," democratura", secondo la felice e, al tempo stesso orrenda, espressione dell’esule bosniaco Predrag Matvejevic. Col sistema elettorale attuale, i vertici dei partiti - tutti quanti - dispongono dell’intero potere di definire chi formerà la rispettiva corte in Parlamento. Non è poca cosa per loro e questo spiega il fatto che, a suo tempo, quando fu approvato, non ci sia stata una reazione adeguata. Il potere si è capovolto e cominciamo ad accorgercene. E ci accorgiamo di quanto ciò finisca per alimentare sentimenti, risentimenti e atteggiamenti anti-politici, da cui tutti, meno i demagoghi, hanno molto da perdere.
La ragione per non andare più a votare con questa legge elettorale non si riduce alla pur rilevantissima stortura ch’essa comporta: il fatto cioè che deputati e senatori siano nominati dall’alto, senza alcuna possibilità d’influenza degli elettori, altro che nel distribuire il numero di "posti" che spettano all’uno e all’altro partito, assegnati poi a questo o quello per beneplacito altrui. La posta è assai più grande: per i partiti è il dilemma tra l’apertura alla società o la chiusura; per i cittadini tra la politica e l’antipolitica, tra la partecipazione e l’esclusione politica, tra la fiducia nella democrazia e il risentimento contro la democrazia. Quando parliamo di democrazia, però, non pensiamo solo a partiti, elezioni, parlamenti, governi, e cose di questo genere. In una parola, non pensiamo solo a forme e istituzioni politiche, cioè a tecniche di governo. Pensiamo anche a una sostanza della società.
Ora, la domanda da porre è se ci può essere democrazia come forma in una società non democratica. La risposta è sì. Ci può essere. Ma che genere di democrazia? La democrazia come tecnica di governo, innestata su una realtà sociale non democratica, non fa che amplificarne e moltiplicarne i caratteri non democratici o antidemocratici, rappresentandoli, generalizzandoli e, per così dire, rendendoli obbligatori per tutti. Per esempio, noi non diremmo certo che una società a maggioranza razzista e xenofoba è democratica. Questa società può senz’altro governarsi in forme democratiche, cioè la maggioranza può imporre per legge la sua visione del mondo razzista e xenofoba. Questo ci dice che la democrazia, intesa solo come forma di reggimento politico, non è affatto più tranquillizzante di altre. Sotto certi aspetti, anzi, fa più paura, perché ha dalla sua la forza del numero. Questo spiega il fatto che la democrazia può essere, o diventare, odiosa al pari e forse più di altre forme politiche. Ciò accade quando alla forma (democratica) del potere corrisponde una sostanza non democratica della società.
Ma che cosa è una società non democratica? In breve: una società in cui esistono discriminazioni e disuguaglianze, tali che una parte, per così dire, viva bene sopra un’altra che vive male e questa differenza alimenta odio e violenza. Usciamo dal generico: è una società dove qualcuno possa dire: "questa è casa mia" e tu sei un intruso ch’io posso escludere e respingere a mio piacimento; dove, se non ti "integri", cioè non ti rendi irriconoscibile nella tua identità, non hai diritto di cittadinanza; dove la povertà e il disagio sociale sono abbandonati a se stessi, nella solitudine; dove il lavoro non è considerato un diritto, ma solo un fattore dell’impresa subordinato alla sua logica e dove i disoccupati e i precari sono solo un accidente fastidioso di un "sistema" e non un problema per tutti; dove l’istruzione e la cultura sono riservati ai figli di coloro che possono; dove la salute è il privilegio di chi può permettersi d’affrontare le spese che la sua cura comporta. Noi avvertiamo queste discriminazioni in modo sempre più acuto. La povertà, l’insicurezza e la solitudine aumentano, anche se spesso hanno vergogna di mostrarsi, come bene sanno coloro che operano nei servizi sociali, pubblici e privati. Il divario tra chi può curare la propria formazione culturale e chi non può aumenta, e spesso si manifesta in questa forma odiosa e umiliante per il nostro Paese: chi può manda i suoi figli fuori dell’Italia. La disuguaglianza giunge a segnare i corpi, divide quelli bene curati e quelli degradati: addirittura lo stato dei denti è diventato, anzi ri-diventato qual era un tempo, segno di condizione sociale.
E noi vorremmo che tutto ciò non ingeneri inimicizia sociale? Sarebbe ingenuo sperarlo. E vorremmo che chi sta dall’altra parte della società, quella che dal basso guarda a quella che sta in alto, non nutra diffidenza, per non dire di più, verso una democrazia che accetta questa loro condizione? Una condizione che non giustifica certo, ma spiega il carattere violento dei rapporti anche quotidiani tra le persone, di chi si sente più forte sul più debole e del debole come reazione al forte, nelle infinte situazioni in cui quel divario può essere fatto valere, nelle famiglie, nella strada, nelle scuole, nelle fabbriche, nei rapporti tra uomo e donna, tra "normale" e "diverso", eccetera. È all’opera l’incultura della sopraffazione che è l’esatto opposto dell’ethos necessario alla democrazia.
Qui, nella denuncia della mentalità dilagante, nella difesa e promozione di una cultura della convivenza e nell’azione per contrastare l’incultura della violenza, c’è un compito che ci riguarda tutti, in quanto questa società non ci piaccia affatto. Ci riguarda come cittadini cui la democrazia sta a cuore come un bene cui non vogliamo rinunciare. Ma riguarda anche i cittadini che militano in partiti politici che hanno la parola democrazia nelle proprie ragioni fondative o addirittura nel proprio simbolo. Ecco un’altra buona ragione per abbandonare l’idea che la politica si faccia principalmente nelle stanze dei palazzi del potere o negli uffici delle burocrazie di partito, che il buon politico sia quello esperto di "scenari", alchimie, tattiche e strategie. Tutto questo è importante, ma non basta. Siccome non basta, abbiamo il dovere di chiederci: dove siamo quando nel nostro Paese si avvelenano i rapporti tra le persone, nelle tragedie dell’immigrazione come in quelle delle famiglie di senza-lavoro e nei drammi del lavoro senza sicurezza; nelle proteste per una scuola che affonda come nella tragedia di chi è colpito dalla forza scatenata della natura: nei nostri uffici o tra chi ha bisogno di solidarietà? Ecco perché è necessario stringere i rapporti tra partiti e società, abbandonare l’idea e le pratiche che fanno pensare che gli uni possano fare a meno dell’altra, e viceversa.
* la Repubblica, 13.09.2010
PDL
Berlusconi: "Andiamo avanti mai un governicchio di politicanti"
Intervento telefonico con la scuola di formazione poilitica a Gubbio. "La sinistra e gli antiberlusconiani non avranno mai la soddisfazione di vedere il nostro concorso nel precipitare l’Italia in una crisi politica". E attacca gli antiberlusconiani "vecchi e nuovi" *
ROMA - "A questo governo non c’e alternativa. Abbiamo il dovere di andare avanti". Lo ha detto il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi in collegamento telefonico con la scuola di formazione politica del Pdl, a Gubbio. Il premier dice no "ai governicchi" e definisce una eventuale crisi "un delitto".
"Siamo stabili. Abbiamo i piedi per terra consapevoli delle nostre responsabilità. Il Pdl è il pilastro della nostra democrazia - continua il premier - In questo periodo di crisi italia ha avuto fortuna di avere governo del fare che ha avviato riforme importanti e coraggiose, che ha avviato la strada cambiamento. Vogliamo passare alla storia come il miglior governo che l’Italia abbia avuto".
"Siamo sempre stati lontani dai giochi della politica politicante e da questo teatrino insulso e assurdo - spiega il premier -. Abbiamo lavorato anche ad agosto. La sinistra e gli antiberlusconiani vecchi e nuovi non avranno mai la soddisfazione di vedere il nostro concorso nel precipitare l’Italia in una crisi politica con il paese sospeso tra le elezioni anticipate da una parte e l’ennesimo governicchio tecnico dall’altro". Ed ancora: "’Produrre tutte le chiacchiere e le feste di partito che vogliono, ma non avranno mai la soddisfazione di vedere precipitare l’Italia. Siamo una forza politica che è nata dalla gente e per questo non giocheremo mai al tanto meglio tanto peggio come pur troppo qualcuno sta facendo".
A settembre, ricorda il premier, ci sono 56 miliardi di titoli di stato da collocare. Garantendo l’impegno dell’esecutivo per "mettere i conti pubblici in sicurezza". "L’Italia deve rimanere protagonista della politica mondiale. Abbiamo lavorato tanto per mantenere i conti pubblici in sicurezza, con la manovra abbiamo rassicurato i mercati e adesso non possiamo mettere" a rischio questo processo.
"Non so perchè ma mi viene da dire ’Forza Italia e forza Milan" chiude il presidente del Consiglio.
* la Repubblica, 11 settembre 2010
Ci hanno tolto la patria
Ci hanno tolto la patria, ecco quello che Berlusconi e i suoi servi hanno fatto. È questa l’ accusa che
l’opposizione dovrebbe mettere al centro della sua lotta, se vuole vincere e soprattutto se vuole fare vincere l’Italia.
di Maurizio Viroli (il Fatto Quotidiano, 11 settembre 2010)
IN QUESTI GIORNI vicini all’8 settembre viene naturale pensare alla morte della patria o all’Italia che manca, per ripetere il titolo del festival Lector in fabula che si apre oggi a Conversano. Di morte della patria parlò per primo, credo, Salvatore Satta, nel De profundis (1948), e ne ha trattato Ernesto Galli della Loggia nel suo libro del 1996. La tesi di Galli della Loggia è nota: con la firma dell’armistizio, si verificò in Italia il crollo completo non solo dello Stato, con la fuga del re e della corte e la disgregazione dell’esercito lasciato in balia degli ex alleati tedeschi diventati nemici, ma anche il dissolversi del sentimento di solidarietà nazionale e del senso del dovere verso il bene comune. Né la Resistenza, per il suo debole carattere di autentico movimento di liberazione nazionale, né la Repubblica, per il troppo ambiguo sentimento di lealtà nazionale della sua élite politica (compreso il Partito Comunista) riuscirono poi a far rinascere e radicare nella mentalità degli italiani un nuovo amor di patria.
A mio giudizio la tesi della morte della patria è un’interpretazione parziale degli avvenimenti che segnarono la storia italiana negli anni successivi all’8 settembre e durante i primi decenni della Repubblica. Anziché di morte della patria è a mio avviso storicamente più corretto parlare di morte e di rinascita della patria, o, meglio la morte di una patria, quella del fascismo e della monarchia, e la nascita di una nuova patria, quella della Repubblica e della Costituzione.
Lo provano documenti e testimonianze di notevole peso. Nell’agosto del 1943 Piero Calamandrei scriveva: “Veramente la sensazione che si è provata in questi giorni si può riassumere senza retorica in questa frase: Si è ritrovata la patria”. Ancora più eloquente è una pagina di Natalia Ginzburg: “Le parole patria e Italia, che ci avevano tanto nauseato fra le pareti della scuola perché accompagnate dall’aggettivo fascista, perché gonfie di vuoto, ci apparvero d’un tratto senza aggettivi e così trasformate che ci sembrò di averle udite e pensate per la prima volta. D’un tratto alle nostre orecchie risultarono vere”.
LO PROVANO DEI FATTI troppo importanti per essere trascurati come il rifiuto di tanti soldati italiani di entrare nelle truppe della repubblica di Salò in nome di un sentimento di patria faticosamente ritrovato negli orrori della guerra a fianco dell’alleato tedesco. Ma che un sentimento nuovo di patria, fondato su principi di libertà era rinato lo prova la Costituente. Basti citare le parole con cui il relatore presentò all’Assemblea l’articolo che afferma che “la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”. Egli disse infatti che la Patria, “non è più la matrigna che il fascismo aveva tentato di creare, ma è la madre generosa che accetta ed accoglie tutti i suoi figli con identico animo. (Applausi)”. È vero che durante i primi decenni della nostra storia repubblicana il sentimento di patria di offuscò e visse confinato in ambiti ristretti dell’élite politica e del popolo.
Ma non morì affatto la lealtà costituzionale. Grazie ad essa la Repubblica ha vinto sfide tremende. La lealtà alla Costituzione è il cuore del sentimento di patria. Non è tuttavia tutto, perché patria vuol dire anche amore del bene comune, vuol dire, in Italia, antifascismo, vuol dire Risorgimento, vuol dire memorie di uomini e donne che hanno dato l’esempio, vuol dire cultura, vuol dire speranze e fini comuni come popolo.
ORBENE, BERLUSCONI e i suoi hanno distrutto con ferocia metodica tutto ciò che è patria, sia detto senza retorica, con tristezza. Hanno offeso in tutti i modi la Costituzione; hanno dimostrato tante volte di preferire il loro interesse al bene pubblico, a tal segno da essere pronti a devastare la legalità per sottrarsi alle leggi; hanno deriso l’antifascismo e favorito la nascita dell’antiantifascismo, sentimento quanto mai pericoloso e moralmente detestabile; hanno distrutto le nostre memorie: quando ne hanno parlato perché non erano in grado di farlo, e quando hanno taciuto per ignoranza o per disprezzo; hanno avvilito ogni forma di cultura seria per sostituirla con il trionfo della banalità e della volgarità; hanno disseccato nell’animo degli italiani, con le loro azioni e le loro parole, ogni speranza collettiva. La storia insegna: non c’è mai stata in Italia una rinascita civile senza o contro l’idea di patria. Oggi, per ritrovare la patria, bisogna liberarci di Berlusconi e della sua corte.
Napolitano: basta pressioni, chiedano impeachment *
Il Capo dello Stato replica con un comunicato a un’intervista di Maurizio Bianconi, vicepresidente del gruppo dei deputati Pdl. «Se ritiene che la Costituzione sia tradita, chieda la messa in stato d’accusa. Altrimenti quelle parole sono soltanto solo gratuite insinuazioni e indebite pressioni,»
* Corriere della Sera, 16.08.2010 - 15.05
IL COMMENTO
Macelleria istituzionale
di MASSIMO GIANNINI *
La macelleria politica e costituzionale del tardo-berlusconismo ha infine obbligato il Quirinale a compiere un atto irrituale ed estremo. Solo nell’Italia di oggi, destabilizzata dalle pulsioni tecnicamente eversive del capo del governo e avvelenata dalle operazioni di killeraggio mediatico dei suoi sicari, può accadere che un presidente della Repubblica debba scrivere in una nota ufficiale che chi nutre dubbi sul suo operato ha il "dovere" di chiederne l’impeachment. Come prevede la stessa Carta del 1948, che all’articolo 90 indica le modalità e le procedure della messa "in stato d’accusa" del Presidente, nei casi specifici di "alto tradimento" e di "attentato alla Costituzione".
A tanto, dunque, è stato costretto Giorgio Napolitano, per fermare "le gratuite insinuazioni e le indebite pressioni" che, nell’avvitarsi di una crisi sempre più drammatica del centrodestra, colpiscono da giorni la più alta carica dello Stato. Il suo comunicato dà la misura di quanto sia grave e pericoloso il conflitto istituzionale in atto. E solo una lettura ipocrita e riduttiva del monito lanciato dal Colle può ridimensionarne la genesi alla necessità di rispondere all’intervista che due giorni fa il vicecapogruppo del Pdl alla Camera ha rilasciato al "Giornale".
Maurizio Bianconi ha trattato Napolitano come un nemico, che "tradisce la Costituzione fingendo di rispettarla". L’ha accusato di "incoerenza gravissima", perché colpevole di dire "no al voto anticipato e sì alla ricerca di un governo tecnico". Parole inconsulte e irresponsabili, scagliate come pietre contro il massimo organo di garanzia della nazione. Ma chi ora definisce Bianconi un semplice "peone", o un "golpista da operetta", non rende un buon servizio alla verità. Non si può non vedere come questi vaneggiamenti riflettano un "sentire comune" che, nella disperata trincea del Popolo della Libertà, accomuna più o meno tutti gli esponenti dell’armata forzaleghista.
Da Alfano a Maroni, da Gasparri a Cicchitto: in queste settimane l’intera batteria dei luogotenenti del premier, sproloquiando di "ribaltoni" e di "congiure di palazzo", non fa altro che sfidare il Capo dello Stato, cercando di mettere in discussione il suo ruolo, di snaturare le sue prerogative, di condizionare le sue scelte. E non si può non vedere come queste urla riecheggino nel silenzio assordante e colpevole dello stesso presidente del Consiglio. Berlusconi tace, e dunque acconsente. Lasciando le ridicole precisazioni di prammatica ai Capezzone e ai Rotondi: tocca a loro riempire il tragico vuoto politico dell’agosto berlusconiano, replicando le intimidazioni ma rinnovando al presidente della Repubblica una "stima" e un "affetto" che suonano paurosamente vuoti, retorici e perciò falsi.
Siamo arrivati al limite estremo, alla rottura di tutti gli equilibri istituzionali. Dunque, quando Napolitano denuncia "interpretazioni arbitrarie" e "processi alle intenzioni", non è certo a Bianconi che si riferisce. Il Capo dello Stato parla a tutto il centrodestra, e rilancia la sfida al leader che ne incarna l’anima "rivoluzionaria" e ormai palesemente anti-statuale. In vista dell’ormai inevitabile showdown d’autunno, il comunicato del Colle suona quasi come una "chiamata finale", dalla quale si possono e si devono trarre alcune lezioni. La prima lezione: le istituzioni appartengono alla Repubblica, e non al Cavaliere, e dunque vivono nella reciproca autonomia e nel mutuo rispetto delle norme sancite dalla Costituzione.
La seconda lezione: la Costituzione è la casa di tutti gli italiani, e dunque non può essere piegata all’ermeneutica di parte o alla logica di partito. La Carta assegna prerogative precise e compiti tassativi al Capo dello Stato, che li esercita con la massima indipendenza e la massima responsabilità, nella normale dialettica tra i poteri e nella leale collaborazione tra gli organi di garanzia. Tutto questo vale sempre: nella fisiologia della vita politica, quando si tratta di promulgare o rinviare una legge al Parlamento, come nella patologia di una crisi, quando si tratta di sciogliere le Camere o di verificare se esistano maggioranze alternative. Questo dice la Costituzione, di cui il presidente della Repubblica è il custode e il garante.
Di qui la terza ed ultima lezione: quando rivendica le sue prerogative costituzionali, Napolitano tutela la Costituzione formale, che non può essere stravolta da una costituzione materiale introdotta surrettiziamente con la semplice iscrizione della parola "Berlusconi" su una scheda elettorale, come fosse la formula magica della modernità politica. Il premier farà bene a ricordarselo, in vista della battaglia di settembre. Per quanto svilita, la democrazia ha le sue regole. E le regole sono una garanzia per tutto il popolo italiano, non un appannaggio del solo Popolo delle Libertà.
* la Repubblica, 17 agosto 2010
LA LETTERA
Sandokan pentiti, il tuo potere è finito
di ROBERTO SAVIANO *
ORA che ti hanno arrestato anche il primo figlio, è giunto il tempo di collaborare con la giustizia, Francesco Schiavone. Sandokan ti chiama ormai la stampa, Cicciò o’ barbone i paesani, Schiavone Francesco di Nicola, ti presentano i tuoi avvocati. E Nicola, come tuo padre, hai chiamato tuo figlio a cui hai dato lo stesso destino. Destino di killer. Accusato di aver ucciso tre persone, tre affiliati che avevano deciso di passare con l’altra famiglia, con i Bidognetti. Nessuno si sente sicuro nella tua famiglia, il tuo gruppo ormai non dà sicurezza. Non ti resta che pentirti. Questa mia lettera si apre così, non può iniziare diversamente, non può cominciare con un "caro". Perché caro non mi sei per nulla. Neanche riesco a porgertelo per formale cortesia, perché la cortesia rischia già di divenire una concessione che va oltre la forma. Scrivendo non userò né il "voi" che considereresti doveroso e di rispetto, né il "lei". Chi usa il "lei", lo so bene, per voi camorristi si difende dietro una forma perché non ha sostanza. Allora userò il tu, perché è soltanto a tu per tu che posso parlarti.
Sei in galera da più di dieci anni. Prima ti eri rinchiuso a Casal di Principe in una casa bunker sotterranea. È lì che ti hanno scovato e arrestato. Oggi hanno catturato tuo figlio in un buco analogo, solo più piccolo: stesso luogo, stessi arredi, simboli di un potere sterile - il televisore a cristalli liquidi - , divenuti più dozzinali con il trascorrere degli anni.
Persino stessa passione per la pittura. Cos’hai pensato quando hai saputo che l’hanno stanato, quando ti hanno riferito che a guidare il blitz identico a quello che ha portato alla tua cattura c’era lo stesso uomo, Guido Longo, allora capo della Dia napoletana, oggi questore di Caserta? Cosa hai pensato quando hai visto l’antimafia di Napoli diretta dal Pm Cafiero de Raho combattere ancora lì, non indebolita nonostante le mille difficoltà? Che sensazione ti ha generato scoprire che "Nic’ò barbone" si è arreso con il tuo stesso gesto, l’identico modo di alzare le mani, quasi si trattasse di un tuo clone, non di tuo figlio? Cosa provi ora che la moglie di Nicola subirà le stesse pene che ha subito tua moglie? I tuoi nipoti vivranno come i tuoi figli senza padre, con i soldi mensili versati da qualche tuo vicario e il destino da camorrista già scritto perché intorno tutti vogliono così, perché tu vuoi così. Cosa provi? È a questo che è valsa la tua scalata alla testa dell’organizzazione, con tutti gli ordini di morte che hai impartito, con tutti gli uomini un tempo tuoi sodali che hai ucciso addirittura letteralmente con le tue stesse mani?
Ogni tuo amico ti è divenuto nemico, hai fatto ammazzare Vincenzo De Falco con cui eri cresciuto, hai fatto ammazzare i parenti di Antonio Bardellino, l’uomo che ti aveva dato fiducia, potere e persino amicizia. Vi tradite l’un l’altro e sapete dal primo momento che questo accadrà anche a voi stessi. Perché questa è la vostra vita, uccidere i vostri più cari amici, distruggere coloro con cui siete cresciuti per non essere distrutti. E sarete distrutti da coloro che oggi vi sono amici, che oggi stanno crescendo nei vostri affari. Come ti sei sentito Francesco Schiavone Sandokan quando in una relazione che hai fatto consegnare ai tuoi legali affermi di vedere fantasmi che ti vengono a trovare nella tua cella? Come ti senti quando piangi, quando ti senti impazzire, quando fai il finto pazzo pur di uscire dalla galera? Quando vieni a sapere che l’altro tuo figlio, Emanuele, è stato arrestato come un qualunque tossico che vende hashish per avere soldi? Lui figlio del capo dell’impero del cemento che si fa beccare come un tossico qualsiasi? Quando il tuo ordine era quello di non far spacciare in paese e invece tuo figlio finisce per farlo a Rimini, come ti senti? L’unica speranza che hai è quella di pentirti, non devi continuare a indossare la maschera della tigre feroce, mentre sei diventato un gatto rinchiuso e castrato.
Castrato come Francesco Bidognetti, tuo alleato e allo stesso tempo rivale, ormai sull’orlo del pentimento, che deve per forza mantenere la pace con uomini che gli hanno ucciso parenti e alleati. Che deve vedere le sue donne tradirlo una alla volta. Un uomo che del comando ormai conserva soltanto il ricordo. Oggi ha difficoltà a mantenere il suo gruppo, i sequestri di beni e gli arresti lo stanno divorando. Eppure i tuoi uomini, quelli che tuo figlio avrebbe ucciso, erano disposti a passare con lui pur di non stare sotto il comando del tuo erede. Hai sempre saputo quale fosse il tuo destino. Fatturate miliardi di euro all’anno, il patrimonio del tuo clan è simile a quello di una manovra finanziaria, ma il vostro non è un destino da uomini. È solo un destino da criminali, coloro che si credono re e si ritrovano prigionieri. Con il wc accanto al tavolo dove mangiate, con un secondino che vi ispeziona, con i vostri figli che hanno vergogna di dire chi siete, e un vetro che vi impedisce di toccare finanche le mani delle vostre mogli.
Come sopporti questa ripetizione di un copione che tu stesso hai scritto sulla pelle della tua discendenza, che a sua volta doveva inciderla nella carne altrui? Sei fiero che il tuo primogenito rischi di finire i suoi giorni in carcere? Costretti a vivere come topi. Per mesi, anni. Condannati, già prima di ogni sentenza, a nascondervi, a mentire, a camuffarvi, a pagare uomini dello Stato per aiutarvi, a comprare politici per difendervi, a mercanteggiare promesse e favori in cambio di protezione e sotterfugi. Ma anche a costringere dei poveri vostri compaesani ad accogliervi sotto minacce, mentre alle vostre famiglie tocca farsi svegliare dalla polizia nel cuore della notte o farsi pedinare per giorni e giorni. È questa la sostanza del vostro impero. Hai avuto e hai ancora molti politici in pugno, condizioni gli appalti di molta parte di questo Paese. Proprio perché stai in galera e porti il peso del tuo potere, ti consideri migliore rispetto a imprenditori e parlamentari vicini che valuti codardi. Eppure di questa superiorità cosa ti rimane? Loro stanno fuori e tu sei dentro. Perché continua a difenderli il tuo silenzio? Cosa mai potrà compensare il tuo ergastolo e la distruzione continua della tua famiglia? Non lo vedi? Francesco Schiavone, che cos’hai ottenuto? L’ergastolo e un futuro sepolto in galera. Non hai più alcuna speranza di uscirne fuori finché sei vivo. E allora, che cosa pensi, che ragioni ti dai della tua vita?
Credo, in realtà, di sapere a cosa stai pensando. Che adesso gli affari fuori sono buoni. La crisi economica aumenta il business del clan la tua galera passa in secondo piano. Pensi che hanno anche promulgato leggi favorevoli. La legge sulle intercettazioni sarà d’ora in avanti il vostro scudo, con questa legge non avrebbero mai potuto arrestare tuo figlio, la legge sul processo breve potrà tornarvi utile. Avete politici alleati nei posti chiave, e (se verrà confermato quanto dichiarano le accuse dell’antimafia di Napoli) il sottosegretario allo sviluppo Nicola Cosentino è in diretto rapporto con la tua famiglia. Non perché tuo parente ma perché in affari con te. Quindi pensi di avere un ministero importante dove passano soldi e favori nelle tue mani.
Ma tu sei e rimani in galera però. Ricordi quello che ha detto Domenico Bidognetti su Nicola Ferraro quando si è pentito? L’ha accusato non perché anche Nicola Ferraro sia tuo parente, ma per gli affari che fa con te e tramite te. Ricordi? Dovresti saperlo. Lui ha dichiarato che "Nicola Ferraro prelevava i rifiuti speciali delle officine meccaniche, anzi fingeva di prelevare i rifiuti ma in realtà faceva delle false certificazioni e venivano smaltiti illegalmente". Lui leader casertano dell’Udeur molto legato a Clemente Mastella è stato arrestato nella retata che azzerò il partito. "Era un imprenditore molto vicino al clan dei casalesi. Prima era più vicino alla famiglia Schiavone, poi deve essersi avvicinato a Antonio Iovine". E poi - continua Domenico Bidognetti che conosci bene e tu stesso l’hai in qualche modo allevato - "a testimonianza dei buoni rapporti fra il Ferraro ed il clan, un anno fa Cicciariello (Francesco Schiavone, cugino omonimo di Sandokan n. d. r.) mi disse che voleva mandare a dire a Ferraro di intercedere presso il suo ’comparè Clemente Mastella Ministro della Giustizia, per fare revocare, un po’ per volta, i 41 bis applicati a noi casalesi. Non so dire se poi Cicciariello attuò questo proposito".
Ecco prima o poi, supponi, qualche politico amico attenuerà la tua pena e tornerai come quando eri giovane a vivere in carcere come in un hotel. Se non toccherà a te stesso, magari a Nicola, tuo figlio. Ti è stato consentito di incontrare un boss di Cosa Nostra, Giuseppe Graviano, mandante dell’uccisione di Don Puglisi, responsabile della morte di Falcone e Borsellino e delle stragi che nel ’93 colpirono Firenze, Milano e Roma. Chissà cosa vi siete detti nei vostri colloqui durante l’ora d’aria al carcere di Opera, dove entrambi scontate il regime del 41 bis? Avete stretto alleanze, avete escogitato nuove strategie? Avete messo a punto degli strumenti per rivalervi su coloro che vi hanno punito, nel caso non fossero disposti a venire a patti? Avete vagheggiato di avere in mano, pur dal cortile di un carcere di massima sicurezza, il destino dell’Italia? Pensate che il vostro silenzio o una vostra mezza parola possa delegittimare i vertici del potere politico? Mettergli paura? Ingenuità, Schiavone. Non ti rendi conto che siete divenuti burattini pensando di essere burattinai. Ma non vedi quello che sta accadendo?
Ciclicamente appoggiate politici che vi fanno promesse, vi usano per ottenere ciò che gli torna utile, vi scaricano quando non servite più, quando intravedono delle alternative. Perché in questo Paese in cui il potere è sempre in mano a pochi e soliti, i soli di cui è certo che verranno prima o poi rimpiazzati da qualche rivale emergente siete voi. La camorra è potente ma la sua forza si basa sul fatto che i camorristi continuamente cambiano, sono interscambiabili. I cimiteri sono pieni di camorristi indispensabili. Non stai vedendo che stanno eliminando il tuo gruppo? E quello di Bidognetti? E i fedeli Iovine e Zagaria? I due latitanti? Ancora liberi. Liberi di fare affari, di dirigerli. I tuoi reggenti diventati re nei fatti, perché non esiste nessuna incoronazione, mentre le detronizzazioni, quelle esistono, e prima o poi vengono scritte con il sangue, se non quello del sovrano decaduto, almeno quello dei suoi ultimi fedeli. È questo ciò che ti attende e lo sai. Loro ti tradiranno (se non lo stanno già facendo) proprio come tu hai tradito Antonio Bardellino e Mario Iovine.
Quattro anni fa feci un invito nella piazza di Casal di Principe. Lo feci alle persone, soprattutto ai ragazzi che erano lì presenti. Li invitai a cacciarvi dai nostri paesi, a disconoscervi la cittadinanza, a togliere il saluto alle vostre famiglie. "Michele Zagaria, Antonio Iovine, Francesco Schiavone, non valete niente". Urlai con lo stomaco e con la volontà di dimostrare che si potevano fare i vostri nomi, in quella piazza. Che non succede proprio nulla se si fanno. Che non sono impronunciabili, neanche quando si chiede non a una, due, o cinque persone, ma a molte, moltissime, di denunciarvi, di spingervi ad andarvene da Casal di Principe, San Cipriano d’Aversa, Casapesenna. A liberare queste terre. Tuo padre mi ha definito un buffone, non è l’unico a pensarla così. Tu stesso hai fatto scrivere dai tuoi avvocati che racconto menzogne. Sulle pareti di Casal di Principe mai è apparso un insulto a te, neanche dopo la strage di Casapesenna che avevi ordinato. Invece decine e decine le scritte contro di me, e appena si pronuncia il mio nome, i giovani delle mie zone mi riempiono di insulti. E quando vedono i tuoi figli, cosa fanno? Che cosa rappresentano questi ragazzi senza madre, senza padre, con gli occhi delle polizie sempre puntati addosso? Ti credi un uomo a far vivere così i tuoi figli? Tua moglie in prigione, i figli mollati ai parenti. È da uomo di onore, questo? Da uomo di rispetto?
Non è un uomo una persona che fa vivere così la propria famiglia. Questo lo sai nel profondo di te stesso. Una vecchia espressione napoletana identifica con un’espressione molto efficace un potere fatto solo di sbruffoneria: "guappi di cartone". Voi la usate per definire un uomo che parla e poi non agisce e ha paura. Io la uso per mostrare quanto sia codardo il vostro potere di morte, corrotto il vostro business, e che il vostro silenzio difende tutti quei colletti bianchi, imprenditori, editori, commercialisti, onorevoli, ingegneri che lavorando per voi pensando soltanto di lavorare per delle imprese di cui non vogliono conoscere l’origine. Guappo di cartone sei perché ordini esecuzioni di persone disarmate, fai sparare alle spalle a innocenti. Guappo di cartone perché temi ogni mossa che possa compromettere le tue entrate di danaro, perché sei disposto a perdere faccia e dignità per un versamento in euro. Guappo di cartone che costringi al silenzio della paura tutti i tuoi paesani se vogliono lavorare nelle tue imprese. Guappo di cartone perché non fai crescere nessuna impresa che con te e con i tuoi non faccia affari. Guappo di cartone perché avveleni la terra dove i tuoi avi avevano piantato le pesche, i meli, e ora la terra avvelenata non produce nulla se non cancro.
Può sembrarti assurdo ma siccome nessuno te lo chiede, te lo ripeto io un’altra volta. Collabora con la giustizia. Prima che tutti i tuoi figli finiscano in galera o ammazzati. Prima che le tue figlie siano costrette a matrimoni combinati per farti ancora contare qualcosa, prima che i tuoi nipoti debbano tutti legarsi attraverso matrimoni agli imprenditori locali per cercare di controllarli, sempre, ovunque, in ogni momento. Invita a pentirsi anche tuo fratello Walter. Fuori dal carcere si sentiva il protagonista di Scarface. Non c’era assessore, sindaco, segretario di partito o imprenditore che non volesse fare patti e affari con lui. E ora? Ora in galera lo divora una malattia, ha perso un figlio, è divenuto uno scheletro che cammina e implora ai giudici clemenza, lui che non l’ha mai data alla sua terra e ai suoi nemici. Per cosa taci ancora? Pensi che ti renda onore tutto questo? Pensi che ti rispettino coloro che il tuo silenzio difende? Tutti coloro che avete reso potenti, sensali con la coscienza pulita perché non sparavano, ma costruivano, smaltivano, votavano, governavano. Tutti questi non sono lì con voi. E andranno con chi comanda. Ieri eravate voi oggi sono altri, e domani altri ancora. Loro saranno amici di chi conta. Come sempre. E voi morirete in carcere.
Tu cosa vuoi, Francesco Schiavone? La tua morte? Rimpiangi di non essere finito ammazzato? Come tuo nipote Mario Schiavone "Menelik"? Facesti uccidere per vendicare la sua morte un carabiniere innocente Salvatore Nuvoletta, aveva vent’anni quando il clan dei casalesi chiese la sua testa, non fu lui ad uccidere in un conflitto a fuoco tuo nipote. E l’hai fatto ammazzare lo stesso. Tu e i tuoi uomini. Uccidendolo mentre era disarmato, mentre giocava con un bambino. Questo è onore?
Io sono cresciuto in terra di camorra e so come ragioni. Consideri smidollato chi ha paura di morire, chi ha paura del carcere. Sai che se vuoi davvero comandare sulla vita delle persone, devi pagarlo questo potere. Tu e i tuoi amici vincete perché sapete sacrificarvi mentre i politici e gli imprenditori di questo paese non sanno farlo. Quante volte ho sentito pronunciare queste parole dai miei conterranei. Ma non per tutti è così.
Prima o poi vi schiacceranno. Prima o poi tutti i vostri affari, il vostro cemento, i vostri voti, i vostri rifiuti tossici, tutto questo sarà destinato a finire. Non è la volontà che muta il destino delle cose, e tu, Schiavone, non sei che l’ennesimo di una catena infinita. Ma forse potresti fare un gesto, una scelta che compensi almeno in parte tutto quanto hai fatto. Mostra tutto. Sollevati dal tuo potere, dal potere dei tuoi affari, sottosegretari, sindaci, presidenti di provincia, sollevati dai veleni, dai morti, dalle dannate famiglie che credono di disporre di cose, persone, e animali come sovrani. Collabora con la giustizia, Schiavone. Invita a consegnarsi Antonio Iovine e Michele Zagaria. Sarebbe un gesto che ridarebbe a te e ai tuoi dignità di uomini. Provate ad essere uomini e non utili bestie feroci da business e accordi. Collabora con la giustizia, mostra che sei ancora un essere umano e non solo un agglomerato di cellule capace solo con rancore e avidità di strisciare di covo in covo, o di cella in cella.
©2010 Roberto Saviano/ Agenzia Santachiara
* la Repubblica, 16 giugno 2010
Il cavaliere impunito e la regola del silenzio
di Giorgio Bocca (la Repubblica, 12.06.2010)
Giù la maschera. Quello che vuole, che pretende la maggioranza al potere è l’impunità totale, il silenzio sui suoi furti e malversazioni. Ai tempi di tangentopoli la maggioranza al potere si accontentava di far passare i suoi furti per legittima pubblica amministrazione. Ricordate la tesi del craxiano Biffi Gentili? Se i politici sono chiamati ad amministrare grandi città, grandi problemi con competenze da tecnocrati perché non devono essere pagati come tali? E se non lo sono perché si vuole impedire che si autofinanzino? Oggi la maggioranza al potere non ha più bisogno di questi sofismi. Rivendica il diritto di rubare attraverso la politica come un normale, dovuto diritto di preda. Al tempo di tangentopoli i socialisti craxiani ma anche quelli di altri partiti avevano nascosto i furti per mezzo della politica nei conti «protetti» cioè segreti in Svizzera a Singapore a Hong Kong. E avendo messo il bottino al sicuro si erano tolti anche il gusto di prendere per i fondelli i loro concittadini con la tesi assurda che l’autofinanziamento dei partiti non era solo una necessità ma un dovere di chi si faceva carico di amministrare lo Stato e la democrazia.
Oggi nella Italia berlusconiana il furto attraverso la politica è scoperto, normale. Appena si può si ruba e viene il sospetto che sia avvenuta una mutazione antropologica, che la maggioranza al potere sia convinta che l’uso della politica per rubare sia non solo normale ma lodevole e che le istituzioni abbiano il dovere di proteggerlo. L’Italia un tempo paese dei misteri, delle società segrete, delle congiure massoniche sotto l’egida del cavaliere di Arcore sta diventando una democrazia autoritaria dichiarata e compatta a difesa dei suoi vizi e dei suoi furti. Perché opporsi al bavaglio che viene imposto all’informazione? Non aveva ragione Mussolini ad abolire la cronaca nera e a coprire gli scandali del regime? Esiste un modo più efficace di lavare i panni sporchi in gran segreto senza che le gazzette li mettano in piazza?
L’imprenditore Anemone che si rifiuta di rispondere ai magistrati che indagano sui suoi affari non è la pecora nera, l’eccezione ma la norma della società berlusconiana del fare tutto ciò che comoda ai padroni, senza pagare dazio.
La conferma della mutazione antropologica viene dal fatto che i politici presi con la mano nella marmellata mostrano più stupore che vergogna. La loro corruzione era normalissima, candida, da buon padre ladro di famiglia. A uno era bastato pagare una garconnière al centro di Roma, un altro aveva lasciato mano libera agli impresari edili dopo il terremoto in cambio di una revisione in casa sua dei servizi igienici, diciamo del funzionamento del cesso e del bagno. Ad altri ancora la possibilità di avere a spese dello Stato qualche mignotta, insomma la grande crisi della politica italiana, il grande rischio di una democrazia autoritaria, di una dittatura mascherata, morbida starebbe nella banalità del male, nei piccoli vizi nelle piccole tentazioni della cosiddetta classe dirigente.
Un’Italia senza misteri con un capo del governo schietto, schiettissimo. Che vuole? Che pretende? Il minimo di un uomo del fare più che del pensare: di non avere controlli, di non avere intralci e se gli viene in testa di allevare un cavallo nessuno si permetta di obbligarlo a tirar su una mucca. Che cosa ha scoperto il Cavaliere? Quello che avevano scoperto prima di lui tutti gli uomini autoritari del fare, che i controlli sono fastidiosi e a volte insopportabili. In una parola: che la democrazia è più complicata e faticosa della dittatura.
Dopo la frase sui pm "talebani", lettera del presidente della Repubblica a Mancino
Il vicepresidente del Csm: "E’ necessario impegnarsi in un confronto civile e rispettoso"
Giustizia, Napolitano al premier:
"Basta polemiche e accuse pesanti"
Bersani contro Berlusconi: "Sui giudici ormai sragiona"
L’Idv: "Non possiamo accettare che i magistrati siano offesi. Siamo al golpe" *
ROMA - Dopo l’attacco di Berlusconi ai giudici che il premier ha definito "talebani", il presidente della Repubblica con una lettera inviata al vicepresidente del Csm Mancino interviene perché vengano evitate "in tema di giustizia esasperazioni polemiche e accuse pesanti tra parti politiche, istituzioni, poteri e organi dello Stato". Invito che Mancino accoglie con sollievo, sottolineando come "il forte ed autorevole messaggio del presidente della Repubblica esorta tutte le istituzioni a guardare oltre i confini delle rispettive competenze e a impegnarsi in un confronto civile e rispettoso rivolto a realizzare il bene comune in un momento tanto difficile per il nostro Paese". Protesta anche l’opposizione: il segretario del Pd Pierluigi Bersani definisce quelle del premier "frasi inaccettabili".
La lettera di Napolitano. Nella lettera inviata a Mancino Napolitano esprime il "vivissimo auspicio che prevalga in tutti il senso della responsabilità e della misura, e che in particolare nelle prossime occasioni di dibattito, sotto la sua guida, nel Consiglio Superiore della Magistratura l’attenzione si concentri su segni positivi che pure si sono registrati, anche in Parlamento, di maggiore ascolto fra esigenze e posizioni diverse".
"Anche la causa delle riforme necessarie per rendere più efficiente, al servizio dei cittadini, l’amministrazione della giustizia in un quadro di corretti rapporti istituzionali, non può trarre alcun giovamento - sottolinea napolitano - da esasperazioni polemiche, da accuse quanto mai pesanti che feriscono molti e che possono innescare un clima di repliche fuorvianti: clima nel quale la magistratura associata apprezzabilmente dichiara di non voler farsi trascinare".
"Sarà questo il modo migliore di essere vicini a tutti i magistrati - conclude il Capo dello Stato - che sono impegnati con scrupolo e imparzialità nell’accertamento e nella sanzione di violazioni di legge da cui traggono forza la criminalità organizzata e la corruzione".
La risposta di Mancino. "Non nasconde il Capo dello Stato - sottolinea Mancino nella lettera di risposta a Napolitano - il rischio di drastiche contrapposizioni tra le forze politiche e di ritorsioni esasperate. Anche un linguaggio più sobrio e austero può, infatti, aiutare a far prevalere un clima di dialogo costruttivo rispetto a tentazioni o a repliche giustamente definite fuorvianti"
Le proteste dell’opposizione. Contro le parole di Berlusconi insorge anche l’opposizione. Duro il segretario del Pd Pierluigi Bersani. "Penso - ha detto - quello che pensa una persona normale. Ormai siamo alle sparate, si sragiona. E’ preoccupante, sono frasi inaccettabili". "Dire che ormai ci siamo abituati, no - ha aggiunto Bersani - perché restano inaccettabili. Credo che veramente gli italiani debbano cominciare a pensare come andare oltre questa fase. Noi non possiamo essere tutti i giorni dentro a questa vicenda. Abbiamo un sacco di problemi, siamo davanti a fabbriche che chiudono. Non possiamo parlare sempre di Berlusconi e delle sue beghe coi magistrati". "E questa - ha ripetuto il segretario Pd - è una responsabilità che lui porta: mettere sempre al centro se stesso e le sue questioni". Bersani ha ricordato che "c’è un appuntamento elettorale. Non chiedo che il governo venga mandato a casa, ma chiedo che i cittadini mandino una letterina al governo per dire basta, cerchiamo di occuparci dei problemi nostri".
Ancor più allarmato l’Idv che parla per bocca del suo portavoce Leoluca Orlando. "Non possiamo accettare - dice - che i magistrati che amministrano la giustizia in nome del popolo italiano siano offesi solo perché svolgono con onestà il proprio dovere. Ci rivolgiamo al presidente della Repubblica, nella sua veste di garante della costituzione e dell’equilibrio dei poteri, nonché di presidente del consiglio superiore della magistratura, affinché difenda l’onorabilità delle toghe". "Siamo al golpe - avverte il portavoce di Idv - ad opera di un politico corruttore a capo di una banda di lestofanti e di rappresentanti nelle istituzioni di mafia, camorra e ’ndrangheta. Della banda di talebani fanno parte i corrotti, i corruttori, coloro che ridevano nel letto durante il terremoto dell’aquila e tutti coloro che, sentendosi al di sopra della legge, usano le istituzioni per far soldi a sfregio della costituzione e umiliando tutti i cittadini onesti".
* la Repubblica, 27 febbraio 2010
’Pm come Tartaglia’: interviene il Csm
Parole Berlusconi in dossier a tutela magistrati gia’ attaccati dal premier *
ROMA - Il Csm si occuperà delle frasi pronunciate ieri dal presidente del Consiglio, che ha paragonato "l’aggressione" giudiziaria nei suoi confronti a quella fisica subita in piazza Duomo a Milano per mano di Tartaglia. La prima commissione di Palazzo dei Marescialli ha infatti deciso di acquisire i giornali che riportano le dichiarazioni di Berlusconi e di inserirle nell’ampia pratica a tutela di magistrati oggetto in passato di accuse rivolte dal premier. Questo fascicolo pende da tempo e riguarda in particolare i giudizi espressi dal presidente del Consiglio sui magistrati delle Procure di Palermo e di Milano che hanno riaperto le indagini sulle stragi mafiose e sui giudici del processo Mills.
Berlusconi, parlando ieri dopo la riunione del Consiglio dei ministri, ha definito le aggressioni giudiziarie "parificabili a quelle di piazza del Duomo, se non peggio’’.’’Mi attaccano sul piano della persona con la ’character assassination’ che e’ stata messa in campo - ha detto ancora Berlusconi riferendosi ora a un ambito più generale -, mi attaccano sul piano patrimoniale, ora non gli resta che attaccarmi sul piano fisico, come hanno iniziato a fare, ma - ha avvertito - ’non praevalebunt’’’.
Sempre parlando di giustizia il Presidente del Consiglio ha annunciato che il governo ’’riproporra’ l’inappellabilita’ delle sentenze di primo grado nella riforma della giustizia che stiamo esamindando’’. Per quanto riguarda la riforma fiscale, ha invece parlato di tempi lunghi. Per ora - ha detto - la crisi non consente una riduzione delle tasse.
Di giustizia e molto altro, Berlusconi parlera’ oggi in un faccia a faccia con il presidente della Camera Gianfranco Fini, durante una colazione in programma a Montecitorio. All’ordine del giorno anche una ricognizione su equilibri nel Pdl, agenda di governo, regionali, innesti nel governo di nuovi sottosegretari, alleanze con l’Udc.
* Ansa, 14 gennaio, 10:57
Salvaguardare l’arbitro sarebbe interesse di tutti
di MARCELLO SORGI (La Stampa, 31.12.2009)
È senz’altro una scommessa, la decisione di Napolitano di porre anche su Internet, su «You tube», il suo tradizionale messaggio di Capodanno, che come tutti gli anni viene trasmesso stasera in tv. Mentre infatti in televisione il Presidente viene mandato in onda a reti unificate, nella larghissima platea di una particolare prima serata, in cui tutti o quasi tengono il televisore acceso anche come indicatore del tempo che manca al brindisi di mezzanotte, il Capo dello Stato, on line, si sottoporrà ad un particolare indice di gradimento: sarà interessante vedere quanti saranno i cliccatori e a che ritmo cresceranno.
Non è un mistero che, nel tempo, il messaggio abbia visto cambiare la sua funzione. Quando i Presidenti «regnavano» in una condizione di quasi assoluto riserbo, l’apparizione dell’inquilino del Quirinale, nel suo studio, alla sua scrivania, intento a cercare un dialogo con i cittadini e con le famiglie, riunite in un momento di serenità, aveva la forza di un evento eccezionale. Di qui l’attenta esegesi e le accurate interpretazioni che se ne facevano sui media, e le reazioni generalmente di consenso che lo accompagnavano.
Da quando invece il Paese è impantanato nella sua transizione infinita, quello del Presidente è diventato un mestiere infernale. Anche se i suoi poteri formali sono molto limitati, il Capo dello Stato è chiamato quasi tutti i giorni ad arbitrare e a cercare di moderare il livello di scontri politici ormai divenuti intollerabili e che spesso degenerano in veri e propri duelli istituzionali, tra governo e Parlamento, tra governo e magistratura o tra giudici e politici a prescindere dalla loro collocazione partitica.
Napolitano cerca di farlo con misura, tentando di indirizzare, nel contempo, le forze politiche a un confronto in positivo, che non si riduca solo a uno scambio continuo di veti o di insulti. Ma va detto che è un’opera assai ardua. Negli ultimi tempi è anche venuto meno quella sorta di rispetto istituzionale che tendeva a tenere fuori il Presidente dai giudizi contingenti dei partiti. Napolitano, in questi suoi tre anni e mezzo di presidenza, è stato attaccato da destra e da sinistra, senza remore. Dovrebbe essere interesse di tutti salvaguardare l’arbitro, specie in un periodo in cui lo scontro si fa sempre più duro. Se invece non lo si fa, vuol dire che la situazione è davvero oltre il livello di guardia.
Linea di confine
Non basta una strada
Craxi, tema ineludibile
di Mario Pirani (la Repubblica, 4 gennaio 2010, p. 23)
La diatriba toponomastica a dieci anni dalla morte di Craxi andrebbe messa da parte. Svilisce un dibattito ineludibile perché grava ancora sulle nostre attuali vicende e seguiterà a pesare fino a quando le reciproche accuse non saranno metabolizzate.
Basterebbe por mente al fatto, ai limiti di un paradosso mai davvero esplorato, che l’ultima scissione all’interno della sinistra, a partire da quella del 1921, è stata quella che ha visto una grossa aliquota di dirigenti e di elettorato socialista passare in blocco nelle file di Forza Italia.
Per chi, come il sottoscritto, ha da sempre giudicato del tutto stravolgente e inaccettabile l’entrata nell’arena politica del padrone delle Tv, sarebbe fin troppo facile unirsi al coro e bollare la deriva socialista come l’esito di una propensione antropologica al tradimento di classe, ad una conversione al berlusconismo, ad un mutamento genetico derivante per naturale ascendenza dal craxismo, E chiuderla ancora una volta qui. Senza mai fare i conti con l’altrettanto naturale e permanente antisocialismo che i comunisti e i post comunisti, si portano dentro la pancia da sempre, con zoologica continuità: da quando disprezzavano Turati e appellavano Pietro Nenni di social-fascista , fino alle recenti trasformazioni (Cosa uno e due, Pds e Pd) che ha visto svalutato e irriso ogni apporto socialista restato fedele alla sinistra, impersonato, per ricordare qualche nome, da Giuliano Amato e Giorgio Ruffolo, da Rino Formica e Giorgio Benvenuto, fino ai sindacalisti della Uil che aderirono al Pds, e così via. Sprezzati e messi da canto per una ragione di fondo: la permanenza di una scelta che respingeva il nome stesso di socialismo , (passaporto per l’Europa poi, smarrito per strada) ma impronunciabile per denominare il "nuovo" partito in Italia.
La spiegazione esiste: la scelta, da Berlinguer
ad oggi, è rimasta sempre quella di privilegiare l’alleanza, fino alla
fusione, con la sinistra cattolica e respingere l’unità con il socialismo
democratico. Questo ha portato ad un riformismo azzoppato, timoroso di ogni
ostilità sulla sinistra, da quella di Di Pietro a quella della Fiom, e,
soprattutto, lo ha amputato della sua indispensabile funzione a difesa del
laicismo, nello Stato e nella società.
Come non capire che anche tutto questo
ha contribuito alla
deriva di milioni di socialisti verso la sponda d’approdo
berlusconiana?
La questione di Craxi s’intreccia con tutto ciò . Non ho spazio per approfondirla qui. Annoto solo l’intuizione storica di una riconquista di uno spazio autonomo del Psi, succubo fino al 76 della preminenza comunista, avvalorata dal consociativismo berlingueriano con la sinistra Dc, era una necessità per l’Italia. Anche la dilatazione del deficit pubblico fu spinta dal consociativismo e dalla invadenza sindacale che ne derivava.
Senza autonomia e peso autonomo del Psi nel governo di centro-sinistra, non ci sarebbe stata la svolta storica della scala mobile e l’inversione di una inflazione devastante, così come non ci sarebbe stata una scelta europeista epocale, quando Craxi, al Vertice di Milano dell’85 impose il voto a maggioranza contro la Thatcher per passare al Mercato unico; così come fu decisivo il suo intervento per permettere contro il Pci, l’installazione degli euromissli in Italia a fronte di quelli installati da Breznev, puntati sull’Europa per ricattarla.
Per far questo occorreva un partito dotato anche di autonomia economica. Di qui la scelta rovinosa delle tangenti, gli arricchimenti, gli scandali nel clima di cinismo real politik inalberato dal Capo. il giudizio, però, si è squilibrato da una parte sola: tutta la vita italiana era condizionata dai costi impropri della democrazia: la Dc inponeva tangenti pubbliche, il Pci riceveva i soldi prima dall’Urss e poi delle cooperative. Ma il marchio dell’immoralità è finito solo su Craxi. Il codardo insulto sfiorò persino i miglioristi del Pci, accusati di filocraxismo. Una ingiustizia storica che duole ancora.
Dove ci porta lo stato d’eccezione
di EZIO MAURO *
IERI è finita la lunga transizione italiana. Siamo entrati nello stato d’eccezione: ed è la prima volta, nella storia della nostra democrazia. Si apre una fase delicata e inedita, che chiude la seconda Repubblica su una prova di forza che non ha precedenti, e non riguarda i partiti ma direttamente le istituzioni.
Silvio Berlusconi ha scelto una sede internazionale, il Congresso a Bonn del Partito Popolare Europeo, per attaccare la Costituzione italiana (annunciando l’intenzione di cambiarla) e per denunciare due organi supremi di garanzia come la Presidenza della Repubblica e la Corte Costituzionale, accusandoli di essere strumenti politici di parte, al servizio del "partito dei giudici della sinistra" che avrebbe "scatenato la caccia" contro il premier.
Il Presidente della Camera Fini ha voluto e saputo rispondere immediatamente a questo sfregio del sistema istituzionale italiano, ricordando a Berlusconi che la Costituzione fissa "forme e limiti" per l’esercizio della sovranità popolare, e lo ha invitato a correggere una falsa rappresentazione di ciò che accade nel nostro Paese. Poco dopo, lo stesso Capo dello Stato ha dovuto esprimere "profondo rammarico e preoccupazione" per il "violento attacco" del Presidente del Consiglio a fondamentali istituzioni repubblicane volute dalla Costituzione. Siamo dunque giunti al punto. L’avventurismo subalterno del concerto giornalistico italiano aveva cercato per settimane di dissimulare la vera posta in gioco, nascondendo i mezzi e gli obiettivi del Cavaliere, fingendo che la repubblica fosse di fronte ad un passaggio ordinario e non straordinario, tentando addirittura di imprigionare il partito democratico nella ragnatela di una complicità gregaria a cui Bersani non ha mai nemmeno pensato.
Ora il progetto è dichiarato. Da oggi siamo un Paese in cui il Capo del governo va all’opposizione rispetto alle supreme magistrature repubblicane, nelle quali non si riconosce, dichiarandole strumento di un complotto politico ai suoi danni, concordato con la magistratura. È una denuncia di alto tradimento dei doveri costituzionali, fatta dal Capo del governo in carica contro la Consulta e contro il Presidente della Repubblica. Qualcosa che non avevamo mai visto, e a cui non pensavamo di dover assistere, pur pronti a tutto in questo sciagurato quindicennio.
Tutto ciò accade per il sentimento da abusivo con cui il Primo Ministro italiano abita le istituzioni, mentre le guida. Lo domina un senso di alterità rispetto allo Stato, che pretende di comandare ma non sa rappresentare. Lo insegue il suo passato che gli presenta il conto di troppe disinvolture, di molti abusi, di qualche oscurità. Lo travolge la coscienza dell’avvitamento continuo della sua leadership politica, della maggioranza e del governo nell’ansia di un privilegio di salvaguardia da costruire comunque, con ogni mezzo e a qualsiasi costo, trasformando il potere in abuso. La politica è cancellata: al suo posto entra in campo la forza, annunciata ieri virilmente dal palco internazionale dei popolari: "Dove si trova uno forte e duro, con le palle come Silvio Berlusconi?".
La sfida è lanciata. E si sostanzia in tre parole: stato d’eccezione. Carl Schmitt diceva che "è sovrano chi decide nello stato d’eccezione", perché invece di essere garante dell’ordinamento, lo crea proprio in quel passaggio supremo realizzando il diritto, e ottenendo obbedienza. Qui stiamo: e non si può più fingere di non vederlo. Berlusconi si chiama fuori dalla Costituzione ("abbiamo una grande maggioranza, stiamo lavorando per cambiare questa situazione con la riforma costituzionale"), rende l’istituzione-governo avversaria delle istituzioni di garanzia, soprattutto crea nella materialità plateale del suo progetto un potere distinto e sovraordinato rispetto a tutti gli altri poteri repubblicani, che si bilanciano tra di loro: la persona del Capo del governo, leader del popolo che lo sceglie nel voto e lo adora nei sondaggi, mentre gli trasferisce l’unzione suprema, permanente e inviolabile della sua sovranità.
Siamo dunque alla vigilia di una forzatura annunciata in cui lo stato d’eccezione deve sanzionare il privilegio di un uomo, non più uguale agli altri cittadini perché in lui si trasfigura la ragion di Stato della volontà generale, che lo scioglie dal diritto comune. Si statuisca dunque per legge che il diritto non vale per Silvio Berlusconi, che il principio costituzionale di legalità è sospeso davanti al principio mistico di legittimità, che la giustizia si arresta davanti al suo soglio. La teoria politica dà un nome alle cose: l’assolutismo è il potere che scioglie se stesso dal bilanciamento di poteri concorrenti, l’autoritarismo è il potere che non specifica e non riconosce i suoi limiti, il bonapartismo è il potere che istituzionalizza il carisma, la dittatura è il comando esercitato fuori da un quadro normativo.
Avevamo avvertito da tempo che Berlusconi si preparava ad una soluzione definitiva del suo disordine politico-giudiziario-istituzionale. Come se dicesse al sistema: la mia anomalia è troppo grande per essere risolvibile, introiettala e costituzionalizzala; ne uscirai sfigurato ma pacificato, perché tutto a quel punto troverà una sua nuova, deforme coerenza. I grandi camaleonti sono invece corsi in soccorso del premier, spiegando che non è così. Hanno ignorato l’ipotesi che pende davanti ai tribunali, e cioè che il premier possa aver commesso gravi reati prima di entrare in politica, e l’eventualità che come ogni cittadino debba renderne conto alla legge. Hanno innalzato la governabilità a principio supremo della democrazia, nella forma moderna della sovranità popolare da rispettare. Hanno così dato per scontato che il diritto e la legalità dovessero sospendersi per una sola persona: e sono passati ai suggerimenti affettuosi. Un nuovo lodo esclusivo. E intanto, nell’attesa, il processo breve. E magari, o insieme, il legittimo impedimento, possibilmente tombale. Qualsiasi misura va bene, purché raggiunga l’unico scopo: il salvacondotto, concepito non nell’interesse generale a cui i costituenti guardavano parlando di guarentigie e immunità, ma nell’esclusivo interesse del singolo. L’eccezione, appunto.
Ma una democrazia liberale si fonda sul voto e sul diritto, insieme. E il potere è legittimo, nello Stato moderno, quando poggia certo sul consenso, ma anche su una legge fondamentale che ne fissa natura, contorni, potestà e limiti. Il principio di sovranità va rispettato quanto e insieme al principio di legalità. Perché dovrebbe prevalere, arrestando il diritto davanti al potere, e non in virtù di una norma generale ma nella furia di una legge ad personam, che deve correre per arrivare allo scopo prima di una sentenza? Come non vedere in questo caso l’abuso del potere esecutivo, che usa il legislativo come scudo dal giudiziario? È interesse dello Stato, della comunità politica e dei cittadini che il premier legittimo governi: ma gli stessi soggetti hanno un uguale interesse all’accertamento della verità davanti ad un tribunale altrettanto legittimo, che formula un’ipotesi di reato. Forse qualcuno pensa che il Presidente del Consiglio non abbia i mezzi e i modi e la capacità per potersi difendere e far valere le sue ragioni in giudizio? E allora perché non lasciare che la giustizia faccia il suo corso, anche nel caso dell’uomo più potente d’Italia, ricongiungendo sovranità e legalità?
L’eccezione a cui siamo di fronte ha una posta in gioco molto alta, ormai. Qualcuno domani, messo fuori gioco da Napolitano e Fini, condannerà le parole di Berlusconi, ma ridurrà lo sfregio costituzionale del premier a una questione di toni, come se fosse un problema di galateo. Invece è un problema di equilibrio costituzionale, di forma stessa del sistema. Siamo davanti a un’istituzione che sfida le altre, delegittimandole e additandole al popolo come eversive. Con un ricatto politico evidente, perché Berlusconi di fatto minaccia elezioni-referendum su un cambio costituzionale tagliato su misura non solo sulla sua biografia, ma della sua anomalia.
Per questo, com’è chiaro a chi ha a cuore la costituzione e la repubblica, bisogna dire no allo stato d’eccezione. E bisogna aver fiducia nella forza della democrazia. Che non si lascerà deformare, nemmeno nell’Italia di oggi.
© la Repubblica, 11 dicembre 2009
Il presidente della Repubblica reagisce con una nota ufficiale alle parole del premier
"Sono rammaricato e preoccupato, serve leale collaborazione tra i poteri dello Stato"
L’ira di Napolitano contro Berlusconi
"Attacco violento alle istituzioni" *
ROMA - Il presidente della Repubblica reagisce. Con parole gravi, e inusuali per l’inquilino del Colle. Napolitano è preoccupato e rammaricato per le frasi pronunciate da Berlusconi a Bonn contro giudici, Consulta e i tre ultimi capi dello Stato. Parla di "attacco violento alle istituzioni". Torna ad invocare "leale collaborazione" tra i poteri dello Stato.
La nota del Colle parla chiaro. "In relazione alle espressioni pronunciate dal presidente del Consiglio in una importante sede politica internazionale, di violento attacco contro fondamentali istituzioni di garanzia volute dalla costituzione italiana, il presidente della repubblica esprime profondo rammarico e preoccupazione".
Nel comunicato si precisa che "il capo dello Stato continua a ritenere che, specie per poter affrontare delicati problemi di carattere istituzionale, l’Italia abbia bisogno di quello "spirito di leale collaborazione" e di quell’impegno di condivisione che pochi giorni fa il senato ha concordemente auspicato".
* la Repubblica, 10 dicembre 2009
CITTADINI SOVRANI. NÉ DI PIÙ NÉ DI MENO
di Paolo Farinella, prete
Manifestazione del 5 dicembre 2009, ore 16,00 Largo Lanfranco (Davanti alla Prefettura) Genova *
Sono qui come cittadino sovrano orgoglioso di esserlo e senza paura di difendere questa mia dignità che non mi deriva dal potere, ma ce l’ho per nascita ed è un diritto inalienabile riconosciuto dalla Costituzione alla quale deve essere sottomesso ogni potere e ogni parlamento. Anche a costo della morte, anche a costo di andare sulle montagne non rinuncerò mai a questa libertà e a questa sovranità che è colorata dal rosso del sangue dei martiri della Resistenza a cui si aggiunge il sangue dei magistrati e degli avvocati e dei cittadini che per difendere la legalità sono stati ammazzati come cani.
La loro memoria grida davanti alla nostra coscienza. O stiamo dalla loro parte o stiamo dall’altra. Non c’è via di scampo. Una nuova tirannia oggi sovrasta l’Italia e noi non possiamo permetterlo. A coloro che scrivono lettere anonime con minacce anche di morte, dico apertamente: non ho paura di voi che vi nascondete sempre dietro l’anonimato, dietro la vostra vergogna. Io ci sono e ci sarò sempre e nessuno riuscirà a farmi tacere in difesa della giustizia, del diritto, della libertà e della libertà di coscienza. Nessuno. Fino a tre giorni dopo la morte, io parlerò.
Parlo anche come prete perché lo sono e sono orgoglioso di esserlo e nessuno né vescovi né papi riusciranno a non farmelo essere. Poiché qualcuno mi accusa di essere eretico, voglio tranquillizzare i cattolici presenti: le cose che dico sono dottrina tradizionale della Chiesa. Se gli altri, compresi i vescovi, se le dimenticano, gli eretici sono loro, non io.
Nel vangelo di Lc si dice che alcuni farisei simpatizzanti misero in guardia Gesù da Erode che voleva farlo uccidere («Erode ti cerca») e Gesù rispose: «Andate a dire a quella volpe che io scaccio gli spiriti maligni» (13,31-32). Con la complicità e il sostegno della mafia uno spirito maligno si è impossessato del nostro Paese e noi come laici in nome della Costituzione e come credenti in nome del Vangelo abbiamo il dovere e il diritto di scacciarlo: «La difesa del bene comune esige che si ponga l’ingiusto aggressore in stato di non nuocere» (CCC 2265).
Diciamo a Bertone, che va a braccetto come un fidanzatino con Berlusconi ad inaugurare mostre, che Paolo VI nella Populorum progressio del 26 marzo del 1967 al n. 31 prevede come lecita «l’insurrezione rivoluzionaria nel caso di una tirannia evidente e prolungata che attenti gravemente ai diritti fondamentali di una persona e nuoccia in modo pericoloso al bene comune del paese» (cf anche Giovanni Paolo II, L’Istruzione Libertatis conscientia (Libertà cristiana e liberazione, 22.3.1986).
Non ci troviamo forse di fronte alle prove generali di una tirannia? Lo Stato democratico e le Istituzioni repubblicane sono state invase dai barbari e da mafiosi, che di ogni principio morale e democratico hanno fatto e stanno facendo scempio immondo. Il barbaro per eccellenza, lo spirito immondo, la volpe di oggi, che fa i gargarismi con l’acqua benedetta, mentre fa accordi con la mafia, si chiama Silvio Berlusconi anzi Berluskonijad perché è un misto tra il comunista Putin del kgb e il reazionario iraniano Ahmadinejad. E’ lui l’ultimo sovietico rimasto in Italia. Infatti la Russia del dittatore Putin e i paesi arabi più retrivi dove non esiste democrazia, sono i posti più prediletti da lui Addirittura dorme anche nel letto di Putin. Rifiutato dalle cancellerie democratiche del mondo, avete un presidente del consiglio che si rifugia in Bielorussia, dove ha osannato il dittatore Lukashenko che il mondo civile non ha mai riconosciuto. Tra dittatori si capiscono. Oggi è partito per Panama, mentre sarebbe ora che partisse per san Vittore. Dico vostro presidente del consiglio perché io l’ho ripudiato pubblicamente il 6 luglio 2009.
Per lui parole come democrazia, verità, eguaglianza, diritti, serietà, legalità, ecc. sono bestemmie perché l’uomo è abituato fin dalla nascita a vivere di falsità, a nutrirsi di illegalità, ad architettare soprusi, a complottare con la mafia, a mettere in atto ogni sorta di prevaricazione con un unico e solo scopo: l’interesse privato e l’ingordigia del suo super ego. Ora siamo all’attacco finale: lo chiamano «processo breve», ma è un solo l’abolizione del processo per annullare la giustizia perché c’è un’emergenza: bisogna impedire i processi che lo vedono imputato per reati gravissimi commessi prima di entrare in politica. Per capire di che si tratta e per divulgare in modo semplice, leggete la pagina che oggi sul Secolo pubblicano il Comitato per lo Stato di Diritto e Giustizia e Libertà hanno pubblicato, a pagamento, una pagina bella oggi sul Secolo XIX, dove potete vedere le conseguenze.
Io credo però che l’obiettivo non sia però il processo breve, ma il totale affossamento della giustizia: in questi giorni ne abbiamo le prove: Cosentino è indagato per Mafia e la maggioranza nega l’arresto; Dell’Utri è stato condannato in primo grado, Schifani (il nome stesso è un programma) frequentava e difendeva mafiosi e ora i pentiti parlano di Berluskonijad e del parto scellerato che sta alla base della fondazione del partito-azienda. I rapporti con la mafia sono naturali e quanto pare i mafiosi gli ha fatto da padrini nella sua nascita come imprenditore-truffatore. Sono motivi sufficienti perché il governo voglia dichiarare illegale ogni indagine per delitti di mafia, pagando così il pedaggio che egli e la sua famiglia e i suoi compari devono a «cosa loro» perché quella cosa non è e non sarà ma i «cosa nostra».
Tutti sanno che questa frenesia di interrompere il processo è condannata dal diritto e anche dalla morale tradizionale della Chiesa che esigono una giusta proporzione tra le parti in giudizio e la ricerca della verità morale. Noi sappiamo che la Corte Suprema lo bollerà ancora una volta, ma a lorsignori basta guadagnare tempo per andare in prescrizione. Lo sanno e proprio perché sono esperti in depistaggio, lo hanno usato per fare venire la diarrea al PD che c’è cascato. Ora aspettiamo i dossier arrivati dalla Bielorussia.
Bersani è la bella addormentata nel bosco che aspetta il bacio del principe che non arriva nemmeno travestito da rospo. Enrico Letta, il nipote del cardinal Mazzarino-Gianni Letta, Gentiluomo di Sua Santità, ha detto che è un diritto di B. difendersi «dal processo». Dovrebbe dimettersi non perché ha detto questo, ma perché è ignorante in fatto di giurisprudenza. Bocciato senza appello, all’ergastolo anche oltre la morte. Da quando ha cominciato a frequentare cattivi cattolici il PD è diventato come la maionese: si monta e si sgonfia in un baleno. Ora hanno la fregola delle riforme e di sedersi al tavolo del dialogo. Con questa gente non si può dialogare. Devono andare a casa, anzi in galera. Mafia e P2 sono al governo e stanno preparando le condizioni per impadronirsi definitivamente del Paese e delle nostre coscienze.
Le nostre coscienze non le avranno mai, perché noi saremo pronti ad andare anche sulle montagne a resistere perché non accettiamo e non accetteremo di essere governati da mafiosi, corrotti, frequentatori di minorenni e utilizzatori finali di prostitute e dall’avvocato Ghedini che paghiamo noi, mentre difende il ladro che ci ha rubato non solo una parte considerevole di denaro sottratto a noi (è fresca la notizia che la finanziaria taglia 103 milioni sui libri di scuola), ma ci deruba anche l’onore all’estero, la dignità sociale e la nostra sovranità di cittadini in casa.
Non possiamo rassegnarci. Non possiamo rassegnarci al luogo comune che la «politica è cosa sporca». E’ una trappola! Non è la Politica ad essere sporca, ma alcuni uomini e donne sporchi che la insozzano e coloro che li hanno votati sono correi e dovrebbero prendere un ergastolo per uno. Per noi Politica è il modo più nobile e diretto di servire il nostro popolo, senza servirsi di esso.
Vogliamo che Berlusconi e chiunque delinque, sia processato secondo lo statuto della nostra Costituzione. Vogliamo conoscere la verità sulla corruzione dei giudizi e dei testimoni. Vogliamo conoscere la verità sulle stragi della mafia. Vogliamo conoscere quanto la mafia sia dentro gli affari di Berlusconi. Vogliamo sapere con inequivocabile certezza se il presidente del consiglio sia un capobastone, un ricattato o una vittima.
Pretendiamo una magistratura libera, indipendente, senza condizionamenti di sorta. Vogliamo vivere in un Paese democratico, in un Paese civile, in un Paese dignitoso. Vogliamo riappropriarci del nostro orgoglio di cittadini sovrani e non permettiamo ad una manica di mafiosi di sottomerci come schiavi. Costi quel che costi, anche a costo della vita. Ai cattolici presenti io, Paolo prete cattolico tradizionalista dico: è parte della nostra missione nel mondo compiere e rendere attuale il programma politico del Magnificat della Madonna che celebreremo il giorno 8 dicembre: non ha senso andare in chiesa l’8 dicembre, se poi vanifichiamo le parole di Maria di Nàzaret, donna rivoluzionaria:
«51 Ha spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
52 ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
53 ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato i ricchi a mani vuote.
54 Ha soccorso Israele, suo servo,
ricordandosi della sua misericordia,
55 come aveva detto ai nostri padri,
per Abramo e la sua discendenza, per sempre» (Lc 1,51-55).
Queste parole hanno una traduzione laica, rivolta a tutti, credenti e non credenti che abitano, anzi che sognano un Paese autenticamente laico, dove la separazione tra Religione e Stato debba essere rigorosissima. Ecco a voi come parola d’ordine di questa sera, le parole di Pier Paolo Pasolini a 37 anni dalla morte: «E noi abbiamo una vera missione, in questa spaventosa miseria italiana, una missione non di potenza o di ricchezza, ma di educazione, di civiltà» (P. P. Pasolini). Nulla di più, nulla di meno.
Genova, dal palazzo della Prefettura, sabato 5 dicembre 2009, ore 16,00-18,00
*Il Dialogo, Mercoledì 09 Dicembre,2009 Ore: 16:13
Un editoriale del più importante quotidiano finanziario europeo
"Il premier italiano è sotto assedio e per lui i problemi sono seri"
Il Financial Times su Berlusconi
"Non può governare l’Italia"
dal nostro corrispondente ENRICO FRANCESCHINI *
LONDRA - Dopo l’editoriale di venerdì scorso dell’Economist, l’autorevole settimanale globale britannico, che gli ha chiesto di dimettersi, stamane anche il Financial Times, più importante quotidiano finanziario d’Europa, afferma che Silvio Berlusconi "non può governare l’Italia". In un commento non firmato nella pagina degli editoriali, espressione della direzione del giornale secondo lo stile della stampa anglosassone, il quotidiano della City afferma che il premier italiano è stato a lungo in grado di restare a galla a dispetto delle controversie che lo circondano; "ma le cose adesso, finalmente, stanno diventando serie per il Cavaliere", osserva l’articolo.
Il FT ricorda che nei giorni scorsi Berlusconi è stato accusato in tribunale da un mafioso pentito di avere avuto legami con Cosa Nostra nel mezzo della campagna di attentati dei primi anni ’90, accuse negate dal primo ministro ma che "ciononostante mettono in rilievo i suoi legami con Marcello Dell’Utri, un suo stretto collaboratore che sta facendo appello contro una condanna a nove anni di prigione per associazione mafiosa". Il quotidiano londinese elenca quindi gli altri processi che gravano sul leader del Pdl: quello per la corruzione dell’avvocato inglese David Mills, uno riguardante Mediaset, a cui si somma la richiesta di ancora un’altra corte di giustizia del pagamento di una garanzia bancaria sui 750 milioni di euro che la Fininvest è stata condannata a pagare come risarcimento alla Cir di Carlo De Benedetti per la controversa battaglia sull’acquisizione della Mondadori.
"Berlusconi è sotto assedio", riassume il Financial Times. Ai suoi problemi giudiziaria si aggiungono la richiesta di sua moglie di un accordo di divorzio "punitivo", la "grande dimostrazione" di protesta del No Berlusconi Day e il fatto che "perfino il suo alleato, Gianfranco Fini, un possibile successore, è stato sentito dire che Berlusconi confonde la leadership con la monarchia assoluta".
"E’ prematuro dare per spacciato questo scaltro uomo politico, ma sta pattinando su un ghiaccio sottile", conclude l’editoriale. "La lamentela da lui spesso citata secondo cui non può governare e al tempo stesso affrontare una serie di casi in tribunale contro di lui è sicuramente giusta. Il suo governo sta cominciando a trascorrere più tempo a fare i conti con i problemi di Berlusconi che con quelli del paese. Le dure decisioni necessarie per riformare l’economia e le istituzioni italiane non verranno prese finché egli rimane primo ministro".
© la Repubblica, 7 dicembre 2009
Rivoluzione viola, un milione per dire: Berlusconi dimettiti
di Mariagrazia Gerina (l’Unità, 06.12.2009)
C’è chi se l’è dipinto in faccia, chi ci scrive sopra la rabbia, chi la speranza. Chi lo sventola contro il cielo azzurro. E lo fa avanzare come una nuova bandiera, un desiderio di rivoluzione, per le vie di Roma, da piazza della Repubblica a piazza SanGiovanni. Quel colore viola, lasciato libero dai partiti in oltre sessant’anni di Repubblica. Che, nel linguaggio cromatico, sta tra cielo e terra, tra passione e intelligenza. E significa «metamorfosi, transizione, voglia di essere diversi». Nessuno l’aveva considerato fin qui. Se l’è preso il popolo del «no B. Day». E in un pomeriggio, dopo quindici anni di berlusconismo, antiberlusconismo, girotondi, lo ha fatto diventare «urlo, abbraccio, amore per questo paese », prova a prestargli le parole Roberto Vecchioni, «tutta la gamma dei sentimenti» che la politica è ancora in grado di suscitare. «Nessuna cupezza, nessuna aria di sconfitta», contempla la scena dal palco il grande vecchio del cinema italiano, Mario Monicelli.
L’identikit più bello di quel popolo sceso in piazza a chiedere a Berlusconi di dimettersi, lo fa Francesca Grossi, da Massa Carrara, venuta a Roma con suo marito e con i suoi due bambini di 11 e 13 anni. «Siamo di sinistra, usiamo la democrazia con fiducia, non so ancora per quanto - dice -, ci diamo da fare persino nei consigli di classe, vogliamo far sentire la nostra voce, far sapere che siamo tanti, che c’è un’Italia che dà il benvenuto ai marocchini e tiene le porte aperte». E però, dice Francesca, sciarpa viola al collo: «Ci sentiamo poco rappresentati, il nostro essere presenti sventolando il colore viola di questa sinistra sguinzagliata cisembra l’unica forma di rappresentanza rimasta». Lo dice tutto d’un fiato, come si dicono le cose che stanno a cuore. Poi si ferma, guarda avanti. E si domanda: «Ci ascolteranno?».
L’altra Italia
Chissà. Ma mentre parla, alle sue spalle, prende corpo l’altra Italia scesa in piazza per essere «presente». L’Italia dell’antimafia e della Costituzione. «Abbassate le bandiere dei partiti», ripete almegafono unragazzo con i capelli biondi. Davanti a lui, un mare di agende rosse come quella del giudice Borsellino, portate in civile processione da ragazzi che quandoquell’agenda sparì erano appena bambini. Al posto delle bandiere, un gruppetto di signore sventola la Costituzione. «Bisogna ricominciare dalla base in questo paese». Su tutto giganteggiano le lettere cubitali di un verbo semplice, da rivolgere direttamente al premier, senza mediazioni: «Dimettiti». «Ridacci l’Ita- lia, vattene ad Hammamet».
E poi: «Fuori la mafia dallo stato». «Caserta non è uguale a Cosentino». «Mangano e Dell’Utri a voi, i nostri eroi Falcone e Borsellino», scandisce il popolo «no B Day». Le stesse parole che il fratello Borsellino scandisce dal palco. Un intervento durissimo e applauditissimo. «A me delle escort non importa nulla, sono qui perché la mafia esca dallo stato, la presenza di Berlusconi e Schifani nelle istituzioni è un vilipendio».
«Dovevamo essere trecentomila, siamo più di un milione», esultano gli organizzatori. Una lezione per tutti i partiti, non solo per Berlusconi. Per l’Idv che corre a prendersi la prima fila. Per le tante bandiere rosse. E per il Pd che arriva in ordine sparso». «A cui ricorda che il Pd - dice Vecchioni - è un progetto vasto, nonsolo partitico». Il popolo del «No B Day» li ha votati un po’ tutti, con delusione e speranza. C’è persino chi incoraggia l’alternativa a destra: «Meno male che Gianfranco c’è». «Guarda se in piazza oggi ci sono io vuol dire che questo paese può cambiare davvero», dice Riccardo Fabbri, 38 anni, impiegato. «Io - spiega - ero l’italiano medio, miimportava solo del calcio, della tv e delle donne, poi però a vedere come hanno distrutto questo paese mi sono inc... anche io».
di Pietro Spataro (l’Unità, 06.12.2009)
Francesco ha 17 anni, Angelica 65. Davide è disoccupato, Manuela è precaria, Amedeoè piccolo imprenditore. Violetta e Ilaria sono studentesse, Valeria un’insegnante. Storie diverse che si incontrano in questo bellissimo corteo: si toccano, si mischiano, si danno forza stando insieme. Tante persone che hanno un tratto comune: vogliono un’altra Italia. Più giusta, più uguale, più libera, più democratica. Antiberlusconismo? Forse. Ma non basta a spiegare l’esplosione di gioia e di colori, i canti, gli slogan, le parole. Questa è gente che ha voglia di futuro. Di un futuro in cui nonci sia più Berlusconi. Già si definiscono il «popolo viola» e portano la freschezza e la velocità di un movimentonato sulwebche accetta la presenza, ingombrante, delle troppe bandiere di partito. Fanno pensare ai “girotondi”masono davvero un’altra cosa.
La meglio gioventù. Gioiosi ed esuberanti, inventano gli slogan migliori e sono dappertutto. Francesco Blaganò ha 17 anni, studente, è arrivato da Lamezia Terme. Tiene lo striscione che apre il corteo: “Berlusconi dimissioni”. Dice: «Il problema è questa Italia colpita al cuore dal malaffare. Non vogliamo arrenderci, ci siamo per smuovere le coscienze». Poco distante Davide, 20 anni, romano, si fa fotografare sotto la locandina di un film intitolato «L’intoccabile» il cui attore protagonista è Berlusconi. «Che faccio? Mi chiamano inoccupato. Sono qui perché mi dissocio e non solo per Berlusconi ma per quello che ci sta dietro: le nubi chimiche, i veleni, la nostra vita rovinata». Arianna sventola una delle poche bandiere del Pd.Ha29 anni. E’ unpo’ arrabbiata. Spiega: «L’opposizione si fa in Parlamento ma anche in piazza. Noi siamo qui, speriamo che il Pd se ne accorga ». Fulvio e Giuseppe, studenti ventenni, vengono da Lecce. «Siamo qui per stanchezza, per sofferenza. Nonne possiamo più. Vogliamo vedere un’altra scena.Ce la faremo?». Violetta ha 18 anni e fa la ragazza sandwich: denuncia la disuguaglianza della vita. Dice: «Se sei figlio di papà vai avanti, altrimenti ti fermi. E’ il senso della riforma Gelmini. I miei genitori sono impiegati, indovina un po’ che speranze avrò?». Urlano, nessuno riuscirà ad ammutolirli.
Lavoratori d’Italia.
Pensi di trovare schiere di giustizialisti inferociti e invece raccogli decine di storie di lavoratori che sono qui soprattutto per difendere la loro dignità. Fabio Frati è uno di questi. Era impiegato Alitalia ora è in cassa integrazione con 850euro eun figlio invalido. «Noi siamola testimonianza della cura Berlusconi. Siamo 10 mila in tutta Italia, un vero massacro sociale». Ida ha 47 anni, lavora in un’azienda ceramica in crisi vicino Reggio Emilia. «Sono separata con due figli e sono in contratto di solidarietà. Ma secondo voi ce la posso fare con poco più di mille euro al mese?». Il lavoro che non c’è, quello che si rischia di perdere, quello precario. Nicola ha 27 anni e viene dalla Sardegna. Fa il ferroviere. «Ho un contratto precario, lavoro 12 ore per900 euro. Eloro pensano allo scudo fiscale e ai processi di Berlusconi». Dice uno striscione: “Sono casertano non sono Cosentino”. Manuela ha 34 anni, è precaria in aeroporto. «Ma tu ti fideresti di uno come Cosentino? Io però sono qui anche per altro: per unmio amico che la Gelmini ha cacciato via dalla scuola, per mia cugina che è senza stipendio da cinque mesi».
Chi ascolterà questa Italia? Protesta civile. Ci sono anche loro, quelli che pensano che il regime sia alle porte. Roberto ha 63 anni, pensionato, faceva il dirigente in un’azienda petrolifera. Marcia con un cartello che dice “Come Veronica nun te regghe più”. Spiega: «Ho finito le parole, non ce la faccio più. Non sopporto la volgarità e l’incultura di questi signori». Davide si è sistemato sulla scalinata di una Chiesa con un cartello che recita “Berlusconi vattene, per fare politica servono mani pulite”. E’ vestito di grigio e lo scambiano tutti per il parroco. Gli urlano “grazie”. Lui sta al gioco. Poi dice: «Sono semplicemente unc ittadino incazzato contro Berlusconi che vuole fare il monarca».
C’è spazio anche per la poesia. Angelica, 65 anni, viene da Milano. Innalza un cartellino sui cui sono scritti versi di Giuliano Scabia: «Svegliati Italia / scrollati dal fango che ti ammalia ». Dice: «E’ la verità: siamo immersi nel fango». Ormai è buio. Piazza San Giovanni è strapiena e il corteo è ancora in via Merulana. Si balla, si canta. Ragazzi e anziani insieme, generazioni diverse in cerca del “colore della libertà”. Una signora in unangolo tiene altoun cartello minuscolo come tanti fatti in casa. Dice: «Quando la tigre è nella tua casa non discutere come cacciarla». Il «no B day» è finito. Oggi comincia il dopo. Chi caccerà la tigre?
A Roma il No B-Day
"Siamo più di un milione"
Il corteo in piazza San Giovanni
No-B Day, viola e rosso dominano la piazza *
ROMA - E’ confluito in piazza San Giovanni in Laterano a Roma il corteo No Berlusconi Day. "Siamo certamente più di un milione, forse un milione e mezzo, perché il popolo viola è in tutte le vie attorno alla piazza. Quando abbiamo dato la cifra dei 500 mila non sapevamo che molti stavano ancora arrivando". E’ quanto hanno detto dal palco di piazza San Giovanni gli organizzatori del No B Day. Ma secondo la stima fornita dalla Questura di Roma sarebbero invece circa 90 mila i partecipanti alla manifestazione.
Centinaia le bandiere: da quelle rosse di Rifondazione Comunista e del quotidiano l’Unità a quelle bianche di Di Pietro-Italia Dei Valori. Ma sono molti gli stendardi viola portati dagli esponenti della società civile che hanno scelto questo colore per rappresentare la loro non appartenenza politica. Sulla piazza persone di tutte le età: tanti i giovani, tantissime le famiglie con bambini, le coppie di mezza età, gli anziani e gli immigrati. Quasi tutti indossano qualcosa di viola: sciarpe, maglioni, gilet o gonne e c’é anche chi, come qualche ragazza, è scesa in piazza completamente vestita di viola, dalle scarpe al berretto.
Tra gli striscioni più significativi, uno enorme viola che recita ’Berlusconi dimissioni’. "Si fa solo i c... suoi e a pagare siamo noi" gridano i manifestanti. "Buffone, buffone". "Ladro e mafioso", scandiscono ancora.
Il gruppo più ’acceso’, ammantato di viola, innalza un fantoccio con le fattezze del presidente del Consiglio. Numerosi intonano cori: "Berlusconi a San Vittore"; qualcuno grida anche insulti in riferimento all’affare escort. In molti cartelli si elogia il presidente della Camera Gianfranco Fini: "Meno male che Gianfranco c’é", recita uno slogan. Molti i riferimenti positivi a Napolitano. Non sono mancate soste per saltellare al grido di "Chi non salta Berlusconi è".
Tra i volti noti i registi Mario Monicelli e Nanni Moretti e l’attore Silvio Orlando. Ha parlato l’attore Ascanio Celestini: "L’unico dato importante politico di questa giornata e’ l’auto-organizzazione, che da un po’ di anni funziona in Italia come dimostrano anche i casi del no Tav e di Chiaiano’’. Per Celestini pero’ le manifestazioni non bastano: ’’E’ vero che senza criminali al potere staremmo tutti meglio ma in questo paese anche se non ci fossero avremmo comunque una destra pericolosa e violenta e una sinistra invadente. Quello che serve e’ una prospettiva’’.
DI PIETRO,RESISTERE CONTRO GOVERNO MAFIOSO-FASCISTA "Questa è la prima giornata di resistenza attiva prima di dare la spallata finale a un governo piduista e fascista" che "ha comportamenti mafiosi e non negli interessi dei cittadini", ha detto Antonio Di Pietro durante la manifestazione. "Il popolo - ha detto il leader dell’Idv - vuole che Berlusconi vada a casa perché la sua politica economica, sociale e giudiziaria toglie agli onesti e dà ai disonesti". Alla domanda sull’appello di Napolitano al dialogo, Di Pietro ha replicato: "appena avremo riportato l’Italia in uno stato di democrazia partecipata, di informazione plurale, di stato di diritto, potrà riprendere il confronto; ma prima dobbiamo liberare il Paese dal regime berlusconiano".
BINDI, QUI POPOLO INDIGNATO E NON FRUSTRATO - "Qui non c’é un popolo di frustrati, ma di indignati", ha detto Rosi Bindi. Il presidente del Pd ha detto di essere alla manifestazione "per capire qualcosa di più di quello che abbiamo letto in questi mesi sul web". "Quando le persone si incontrano - ha proseguito - c’é sempre un valore aggiunto, ed è molto positivo che qui ci siano molte persone, soprattutto giovani e donne che ancora hanno una capacità di indignazione e reazione".
LA RUSSA,VOLEVA PARTECIPARE ANCHE NICCHI... "Al No B Day volevano partecipare anche Nicchi e Fidanzati, mi dispiace per loro perché la polizia li ha tratti in arresto e gli ha impedito di partecipare", commenta il ministro della Difesa Ignazio La Russa. Secondo il ministro "la notizia del giorno non è il No B Day ma la perdurante azione delle forze dell’ordine contro la mafia, oggi ci sono stati due arresti, uno a Milano, complimenti alla polizia".
BOCCHINO, ANOMALIA PAESE INCONSISTENZA OPPOSIZIONE -’’L’opposizione, anziche’ discutere con la maggioranza sulle riforme utili al Paese, non ha di meglio da fare che scendere in piazza a gridare forte l’unico punto del suo programma, che e’ l’odio verso Berlusconi. La vera anomalia del Paese non e’ il premier, ma l’inconsistenza politica e programmatica dell’opposizione’’, afferma il vice presidente dei deputati Pdl, Italo Bocchino.
BERTINOTTI, QUI PER ASCOLTARE "Sono qui per ascoltare. Sono qui perché, come si dice a Torino ’Si muove’". Lo ha detto l’ex presidente della Camera, Fausto Bertinotti, alla manifestazione del No B Day.
S.BORSELLINO,BERLUSCONI E SCHIFANI SONO VILIPENDIO "Il vero vilipendio è che persone come Schifani e Berlusconi occupino le istituzioni. Schifani non vuole chiarire i rapporti avuti con la mafia nel suo studio professionale". Lo ha detto Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, in un intervento alla manifestazione del No B Day, interrotto più volte dall’ovazione della folla.
MONICELLI, MANIFESTAZIONE BELLA E GIOVANE "Questa è una manifestazione bella perché è giovane, non c’é cupezza, non c’é aria di sconfitta", ha detto Mario Monicelli, giaccone bianco, sciarpa viola e coppola, intervenendo sul palco. "Tenete duro, viva voi, viva la vostra forza, viva la classe operaia, viva il lavoro" ha aggiunto. Secondo il regista, "dobbiamo costruire una Repubblica in cui ci sia giustizia, uguaglianza, e diritto al lavoro, che sono cose diverse dalla libertà".
LA DIRETTA SULLA TV DANESE - Il No B day trasmesso in diretta dalla Tv danese, oltre che da Rainews 24, Sky Tg24, Red Tv e You Dem. "Possiamo essere soddisfatti - ha detto Gianfranco Mascia, uno degli organizzatori - del fatto che ci sarà la diretta di una rete televisiva pubblica nazionale: quella Danese. Infatti abbiamo saputo che il canale televisivo pubblico della Danimarca ha deciso di mandare in onda non solo P.zza San Giovanni, ma seguirà tutto il corteo. Una bella dimostrazione di democrazia nei confronti di chi - alla RAI - ha preferito non concedere la diretta TV".
* Ansa, 05 dicembre, 19:34
L’analisi.
Nel ’94 l’annuncio, ma il progetto partì nel ’92. Il premier lamenta
di essere accusato di "cose mai viste" a proposito delle stragi di mafia del 1993
La nascita di Forza Italia
e le bugie del Cavaliere
Ma ci sono anche documenti notarili che retrodatano la creazione del partito
di GIUSEPPE D’AVANZO *
FORZA ITALIA nasce nel 1993, da un’idea covata fin dal 1992. Non c’è dubbio che già nell’aprile del 1993 - quindi alla vigilia della prima ondata delle stragi di mafia di via Fauro, Roma (14 maggio), via dei Georgofili, Firenze (27 maggio) - è matura la volontà di Berlusconi di "mettersi alla testa di un nuovo partito".
In luglio - in parallelo con la seconda ondata di bombe, via Palestro, Milano, 27 luglio; S. Giorgio al Velabro, S. Giovanni in Laterano, Roma, 28 luglio - si mette a punto il progetto politico che diventa visibile in settembre e concretissimo in autunno. E’ una cronologia pubblica, quasi familiare, documentata da testimoni al di sopra di ogni sospetto. Dagli stessi protagonisti. Addirittura da atti notarili. Se è necessario ricordarla, dopo sedici anni, è per le sorprendenti parole di Silvio Berlusconi. Dice il presidente del Consiglio a Olbia: "Mi accusano di cose mai viste. Dicono che io sia il mandante delle stragi di mafia del ’92 e ’93; che avrei orchestrato insieme a Dell’Utri per destabilizzare il Paese. E’ una bufala visto che Forza Italia non era ancora nata e nacque solo un anno dopo quando diversi sondaggi mi avevano detto che c’era un spazio politico per evitare che finissimo in mano ai comunisti" (il Giornale, 29 novembre).
"La pianificazione dell’operazione politica di Berlusconi cominciò nel giugno 1993, subito dopo la vittoria dei partiti di sinistra alle elezioni amministrative, e già a fine luglio se ne cominciarono a scorgere le prime, anche deboli, avvisaglie pubbliche", scrive Emanuele Poli (Forza Italia, strutture, leadership e radicamento territoriale, il Mulino).
Il 28 luglio, intervistato da Repubblica, Berlusconi invoca "la necessità di una nuova classe dirigente" e rivela che, in quelle settimane, "sta incontrando in varie città d’Italia chiunque condividesse i "valori liberaldemocratici" e credesse nella libera impresa". Nello stesso giorno, intervistato dal Corriere della Sera, Giuliano Urbani, docente di Scienza della politica alla Bocconi, svela i suoi incontri con intellettuali, opinionisti, imprenditori di Confindustria che condividono le preoccupazioni "per una replica su scala nazionale della vittoria delle sinistre alle amministrative". In segreto, Berlusconi e Urbani già lavorano insieme.
Il loro progetto politico diventa pubblico il 29 giugno, quando molti uomini vicini a Berlusconi (Marcello Dell’Utri, Cesare Previti, Antonio Martino, Mario Valducci) costituiscono l’"Associazione per il buon governo" presso lo studio del notaio Roveda a Milano. Le nove sezioni tematiche dell’Associazione raccolte in un libretto ("Alla Ricerca del Buongoverno") diventano il "riferimento ideologico" dei nascenti club di Forza Italia. Il 6 settembre, Berlusconi ne inaugura il primo. Il 25 novembre viene fondata a Milano da Angelo Codignoni, ex direttore di La Cinq, il network francese di Fininvest, l’"Associazione nazionale del Club di Forza Italia".
Questa è la storia ufficiale, verificata dai politologi. Se ne può mettere insieme un’altra con le testimonianze dirette, che sono mille e una. Ne scegliamo qui soltanto tre. La prima è di Indro Montanelli (L’Italia di Berlusconi, Rizzoli). "Il 22 giugno del 1993, Urbani espone le sue tesi a Gianni Agnelli, che ascoltò con attenzione limitandosi a dire: "Ne ha parlato con Berlusconi?". Il 30 del mese Urbani si trattenne alcune ore a villa San Martino ad Arcore. Le idee che espose erano idee che il Cavaliere già rimuginava. Sta di fatto che, a distanza di un paio di giorni, Berlusconi convocò Gianni Pilo, direttore del marketing in casa Fininvest. Pilo doveva accertare quali fossero i "sogni" degli italiani: il che fu fatto tramite due istituti specializzati in sondaggi d’opinione. Qualche settimana più tardi Pilo ebbe un istituto demoscopico tutto suo mentre Marcello Dell’Utri gettava le fondamenta d’una struttura organizzativa su scala nazionale". Quindi, i primi sondaggi sono del ’93 e non del ’94.
Il secondo testimone diretto è Enrico Mentana, che retrodata al 30 marzo "il primo indizio chiaro della volontà di Berlusconi" di creare un partito. Quel giorno, consueta riunione mensile ad Arcore dei responsabili della comunicazione del gruppo. Ci sono Berlusconi, il fratello Paolo, Letta, Confalonieri, Dell’Utri e Del Debbio di Publitalia, l’amministratore delegato Tatò, i direttori dei periodici, Monti (Panorama), Briglia e Donelli (Epoca), la Bernasconi e la Vanni dei femminili, Orlando il condirettore de il Giornale, Vesigna (Sorrisi e Canzoni). E poi i televisivi, Costanzo, Ferrara, Fede, Gori, Mentana, direttore del Tg5. Che cita (Passionaccia, Rizzoli) il verbale della riunione: "Ad avviso di Silvio Berlusconi, l’attuale situazione è favorevole come non mai per chi provenendo da successi imprenditoriali voglia dedicare i propri talenti al governo della cosa pubblica. Non nasconde che gli viene una gran voglia di mettersi alla testa di un nuovo partito". Cinque giorni dopo, la decisione è presa. Lo racconta il terzo testimone, Enzo Cartotto, ghost writer di Giovanni Marcora e Piero Bassetti, prima di diventare consigliere politico di Berlusconi e Dell’Utri.
I ricordi di Cartotto si possono ricavare dall’interrogatorio reso alla Procura di Palermo il 20 giugno 1997 e da un suo libro Operazione Botticelli.
"Nel maggio-giugno 1992 sono contattato da Marcello Dell’Utri perché vuole coinvolgermi in un progetto. Dell’Utri sostiene la necessità che, di fronte al crollo degli ordinari referenti politici del gruppo, Fininvest "entri in politica" per evitare che un’affermazione delle sinistre possa portare il gruppo Berlusconi prima a un ostracismo e poi a gravi difficoltà. Dell’Utri mi fa presente che questo suo progetto incontra molte difficoltà nel gruppo e, utilizzando una metafora, mi dice che dobbiamo operare come sotto il servizio militare, e cioè preparare i piani, chiuderli in un cassetto e tirarli fuori in caso di necessità. Dell’Utri mi invita anche a sostenere questa sua tesi presso Berlusconi, con il quale io coltivo da tempo un rapporto di amicizia. Successivamente a questo discorso, comincio a lavorare presso gli uffici della Publitalia. (...) Partecipo a un incontro tra Berlusconi e Dell’Utri, nel corso del quale Berlusconi dice espressamente a Dell’Utri e a me di non mettere a conoscenza di questo progetto né Fedele Confalonieri, né Gianni Letta. Dall’ottobre 1992 in poi, mi occupo di contattare associazioni di categoria ed esponenti del mondo politico dell’area di centro e il risultato del sondaggio fu che tutte queste forze sentono fortemente la mancanza di un referente politico. Si arriva quindi all’aprile del 1993, quando Berlusconi mi dice che aveva la necessità di prendere una decisione definitiva su ciò che si deve fare perché le posizioni di Dell’Utri e Confalonieri gli sembrano entrambe logiche e giuste, e lui non è mai stato così a lungo in una situazione di incertezza. Che devo fare?, mi chiede Berlusconi. Confessa: "A volte mi capita perfino di mettermi a piangere, quando sono sotto la doccia e sono solo con me stesso. Non so veramente come venirne fuori". Mi dice che, per prendere una decisione, quella sera ad Arcore, ha chiamato Bettino Craxi. Alla riunione partecipiamo soltanto noi: io, Craxi e Berlusconi. (...) Dice Craxi: "Bisogna trovare un’etichetta, un nome nuovo, un simbolo che possa unire gli elettori che un tempo votavano per il pentapartito. Io sono convinto che, se tu - Silvio - trovi una sigla giusta, con le televisioni e con le strutture aziendali di cui disponi puoi riuscire a recuperare quella parte di elettorato che è sconvolto, confuso ma anche deciso a non farsi governare dai comunisti e dagli ex comunisti". (...) "Bene - dice Silvio - so quello che devo fare. E’ deciso. Adesso bisogna agire da imprenditori. Chiamare gli uomini, comunicare la decisione. Adesso bisogna dirlo a Marcello (Dell’Utri), perché mi metta attorno persone che mi possano accompagnare. Bisogna fare quest’operazione di marketing sociale e politico. Va bene, allora andiamo avanti, procediamo su questa strada, ormai la decisione è presa".
E’ il 4 aprile 1993. Quel giorno - è domenica, piove, fa freddo come in inverno - può essere considerato il giorno di nascita di Forza Italia. Perché il Cavaliere vuole farlo dimenticare?
Non è una novità, in Berlusconi, l’uso politico e sistematico della menzogna. In questo caso egli nega la realtà, la sostituisce con una menzogna per liberarsi di un sospetto - fino a prova contraria, soltanto una coincidenza - sollecitato dal sincronismo tra le sue mosse politiche e la strategia terroristica di Cosa Nostra. E’ una contemporaneità che i mafiosi disertori dicono combinata. Se c’è stata intesa o collaborazione, non ha trovato per il momento alcun attendibile, concreto conforto. Confondere le cose, eclissare fatti da tutti conosciuti, appare a Berlusconi la migliore via d’uscita dall’imbarazzante angolo. E’ la peggiore perché destinata a rinvigorire, e non a sciogliere, i dubbi. Un atteggiamento di disprezzo per la realtà già non è mai moralmente innocente. In questi casi, la negazione della realtà - al di là di ogni moralistica condanna - finisce per mostrare il bugiardo corresponsabile di una colpa. Che bisogno ne ha Berlusconi, quando raccontando la verità dei fatti può liberarsi di quella nebbia? Perché non lo fa? Qual è la ragione di questa fragorosa ultima menzogna, in un momento così delicato per il Cavaliere?
© la Repubblica, 1 dicembre 2009
Spatuzza: «Così ci misero in mano il paese»
di Mariagrazia Gerina *
Un brusio accompagna l’ingresso nell’aula del pentito che accusa Berlusconi e Dell’Utri. Gli occhi di tutti sono puntati su di lui, Gaspare Spatuzza, «u tignusu». Le telecamere sono voltate dall’altra parte. «Per motivi di protezione, non potete riprenderlo», ricorda il giudice, aprendo l’udienza straordinaria, richiesta dalla Procura di Palermo, nell’ambito del processo d’appello al senatore dell’Utri. Per ascoltarlo, difesa, accusa, giudice, si sono trasferiti a Torino, nella maxi-aula, bonificata prima dell’inizio dell’udienza. A sentire la sua deposizione sono accorsi giornali e tv di mezzo mondo. «Innazitutto, buongiorno. Accetto di rispondere», esordisce, con un pizzico di ironia, l’autore «sei o sette stragi, omicidi, sequestri di persona e altro».
Una prima assoluta. Anche se almeno tre procure fin qui - Caltanissetta, Palermo stessa, Firenze - lo avevano già sentito. Ma mai in un’Aula. Spatuzza dissimula perfettamente la tensione. E da come indugia su certi sicilianismi sembra persino compiaciuto. Parla di tutto. Anche della sua conversione. Quando decise «di abbracciare Dio e rinnegare Mammona». Della sua «missione»: «Restituire verità alla storia». Dei timori: «Bisogna vedere le date, nel momento in cui inizio i colloqui mi trovo come primo ministro Berlusconi e come ministro della Giustizia uno che io vedevo come un vice di Dell’Utri».
Ci vogliono quattro ore perché il racconto del pentito si dipani tutto. Dalla strage di Capaci - «per cui, me ne vergogno, ma abbiamo gioito» - al fallito attentato allo Stadio Olimpico. Dall’appoggio ai socialisti: «Nell’87 Giuseppe Graviano mi disse che dovevamo sostenere i candidati socialisti alle elezioni, il capolista era Claudio Martelli. A Brancaccio facemmo di tutto per farli eleggere e i risultati si videro: facemmo bingo». Ai rapporti della famiglia Graviano con Berlusconi e dell’Utri. Il pentito li cita esplicitamente. A parlargli di loro è il boss di Brancaccio, Gisueppe Graviano, «un padre per me». È l’inizio della famosa «trattativa» di cui parla Spatuzza. Sullo sfondo, una scia di sangue e di morti da far rabbrividire: San Giorgio al Velabro, via dei Georgofili, via Palestro...
Tutto ha inizio con un incontro al Bar Doney, a via Veneto. È il ’94. «Giuseppe Graviano (il boss di Brancaccio ndr) indossava un cappotto blu, aveva un atteggiamento gioioso, come se gli fosse nato un figlio», racconta Spatuzza: «Mi dice che avevamo chiuso tutto e ottenuto quello che cercavamo, grazie alla serietà delle persone che portavano avanti questa cosa e che non erano come quei quattro crasti dei socialisti che si erano presi i voti e poi ci avevano fatto la guerra». Chi erano quelle persone? In quella occasione, spiega Spatuzza «Graviano mi parla di Berlusconi. Quello del Canale 5? Sì mi rispose Graviano. Mi disse che c’era anche un nostro compaesano Dell’Utri e che grazie alla serietà di queste persone ci avevano messo il paese nelle mani».
Prima ancora, però, c’era stato un altro incontro tra Graviano e Spatuzza. Località Campo Felice di Roccella. Siamo alla fine del ’93, dopo gli attentati di Roma, Firenze e Milano. «Ci stiamo portando appresso morti che non ci appartengono», racconta di aver detto a Giuseppe Graviano Gaspare Spatuzza, in quell’occasione. La risposta di Graviano fu: «È bene che ce li portiamo dietro, così chi si deve muovere si dà una smossa». Se gli attentati vanno a buon fine «ne avremo tutti dei benefici, compresi i carcerati». Chi era questa entità che si doveva dare una smossa?, gli domanda il procuratore di Palermo Nino Gatto. «Graviano allora non me lo disse».
«È solo a Campo Felice che apprendo dell’esistenza di una trattativa», spiega Spatuzza. «Ed è solo al Bar Doney che apprendo i nomi di Berlusconi e Dell’Utri», ribadisce agli avvocati della difesa, che cercano di inchiodarlo alle contraddizioni. E con i giudici quei nomi non li fa prima del giugno 2009, ribandisce. «Non in relazione alle stragi, prima avevo solo disseminato degli indizi».
Indizi. Come la Standa a via Brancaccio. O la storia del cartelli pubblicitari, che - secondo Spatuzza - portano dritti a Berlusconi e Dell’Utri. «Non parlo per un sentito dire al mercato ortofrutticolo, per Graviano è un padre».
Poi trasformati in vere e proprie accuse contro Berlusconi e dell’Utri. «Voglio contribuire alla verità storica», assicura Spatuzza.
Menzogne, accuse folli, spazzatura, attacchi mafiosi, dice il coro che si leva a difesa del Cavaliere. Intanto però anche Palazzo Chigi trema. E l’affaire Spatuzza finisce dritto-dritto in Consiglio dei ministri. «È folle quello di cui mi accusano, sono cose incredibili: il nostro è il governo che ha fatto di più contro la mafia», tuona Berlusconi, spronando i suoi alla reazioni. Maroni, in particolare. A cui chiede per l’ennesima volta di elencare i risultati dell’esecutivo nella lotta alla criminalità. Intanto parte il fuoco di fila delle dichiarazioni. Capezzone e Gasparri fanno a gara. «Un circo che sputtana il paese», dice l’ex radicale. «Altro che Spatuzza spazzatura», tenta il gioco di parole l’ex colonnello di An. Bonaiuti assicura: «La mafia attacca Berlusconi perché lui l’ha combattuta più di chiunque altro».
Seduta aggiornata al prossimo 11 dicembre, quando al processo Dell’Utri, che per quel giorno avrà fatto ritorno a Palermo, saranno sentiti i boss tirati in ballo da Spatuzza. Dai fratelli Graviano a Cosimo Lo Nigro. E il suo racconto sarà verificato con le loro testimonianze.
* l’Unità, 05 dicembre 2009
L’ipocrisia infinita
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 29/11/2009)
Da qualche tempo son molti i politici italiani che pretendono d’aver abbandonato ogni falsità, d’aver infine compiuto l’intrepido gesto che sfata le ipocrisie, d’aver imboccato la via stretta della verità. Dopo parecchio vagare ammettono che in questione non è più l’agire del governo ma il privato destino d’un presidente del Consiglio che non è protetto da processi pendenti, e che potrebbe essere indagato per concorso in stragi mafiose.
Sentono che la terra trema sotto Palazzo Chigi e dicono, come Casini, che è inane sfasciare la giustizia pur di sbrigare un caso singolo: meglio «eliminare le ipocrisie» e riconoscere che serve una legge, la decisiva, per «salvaguardare Berlusconi». La Corte Costituzionale gli ha negato l’immunità, ma egli ha pur sempre vinto le elezioni e deve poter governare: diamogli dunque lo scudo che cerca, visto che alternative non ci sono.
Nella sostanza è il discorso di Berlusconi che vince: la magistratura impedisce alla democrazia di funzionare, quindi è eversiva. È in atto una guerra civile, insinua: uno spettro che in Italia tacita in special modo gli ex comunisti.
Le cose potrebbero tuttavia non stare così, e ci si può chiedere se uscendo da un’ipocrisia non si entri in un nuovo gioco mascherato, che vela anziché svelare. Chi ha detto che l’unica via sia lo scudo immunitario?
L’altra via stretta è la possibilità che Berlusconi si difenda non dai processi ma nei processi, come Andreotti. O la possibilità che il ceto politico tragga le conseguenze, allontanando un leader non condannato ma debilitato da troppi processi e congetture. È accaduto per molti dirigenti in molte democrazie occidentali. Quel che sorprende in Italia è che quest’alternativa, se si esclude Di Pietro, nessuno la propone: subito è detta sovversiva. Essa non presuppone il governo dei giudici, o addirittura dei pentiti. La decisione spetta alla politica, e se questa tace o s’accuccia, c’è solo la voce dei magistrati, per quanto sommessa, a esser udita. L’altra cosa sorprendente è che la tesi sul contrasto tra voto popolare e legalità intimidisca più l’opposizione che la destra.
Su questo giornale, il 23 novembre, c’è stata una presa di posizione forte, di Fabio Granata che è vicepresidente della Commissione antimafia e fedele di Fini, contro chi scredita i processi di mafia. Intervistato da Guido Ruotolo, Granata denuncia il «berlusconismo che rischia di cancellare la nostra identità: quella di chi crede nei valori della legalità, dell’antimafia, della giustizia, del senso dello Stato». Nel Pdl, egli è «guardato come un appestato», «accusato di essere giustizialista».
Ciononostante resiste: «Ho visto la gente impazzita di rabbia e dolore ai funerali di Paolo Borsellino, che (...) faceva parte della famiglia missina. Quella enorme e disperata domanda di giustizia l’ho tenuta nel cuore e per questo non potrei non sostenere chi dal ’92 cerca irriducibilmente di affermarla. Meglio un giorno da Borsellino che cento anni da Vito Ciancimino. Liberare l’Italia dalle mafie dovrebbe rappresentare il primo punto all’ordine del giorno dell’azione di qualsiasi governo». Granata non ritiene colpevoli Berlusconi e Dell’Utri ma approva le inchieste di Palermo, Caltanissetta, Firenze (le procure che investigano sulle stragi del ’92-’93). Loda il «lavoro tenace» del giudice Antonio Ingroia (il procuratore aggiunto di Palermo che indaga sul patto Stato-mafia): «Lo ricordo perfettamente accanto a Paolo Borsellino, quel giorno alla sala mortuaria per riconoscere il corpo maciullato di Falcone».
La cosa strana non è che queste parole vengano da destra. Borsellino era vicino alla destra, e quest’ultima ha una lunga tradizione di lotta alla mafia, a causa del senso dello Stato acuto (a volte sfrenato) che la anima.
Ci fu l’attività di Cesare Mori in Sicilia, fra il 1924 e il ’29: attività peraltro ostacolata da dignitari fascisti che temettero il suo assedio.
Apparteneva alla destra storica il senatore Leopoldo Franchetti, il primo che perlustrò il fenomeno mafioso, scrivendo nel 1876 un rapporto sulle Condizioni politiche e amministrative della Sicilia: un classico sulla malavita. Apparteneva alla destra storica Emanuele Notarbartolo, il direttore del Banco di Sicilia che volle far pulizia e fu ucciso dalla mafia il 1° febbraio 1893. Il mandante era un senatore mafioso, processato e poi assolto.
Strano è il cedimento-fatalismo dell’opposizione, al centro e nel Pd.
Ambedue vedono la legislatura divorata dai guai giudiziari d’un singolo, ma nell’essenza si dichiarano imbelli. È come se ritenessero del tutto impensabile una contromossa della politica che non sia l’accomodamento, o come diceva Gaetano Mosca nel 1900: il «lasciar andare, la fiaccona». Come se dicessero: il leader non può governare e il dilemma si risolve non ricongiungendo democrazia e legalità, ma disgiungendole. Fondando il primato della politica non su atti trasformativi, ma tutelativi.
Forse senza rendersene conto, il Pd interiorizza l’alternativa democrazia-legalità. Martedì a Ballarò Luciano Violante ne è parso prigioniero: da una parte la democrazia, dall’altra la legalità. Ha mancato di ricordare che le due cose o sono sinonimi, oppure non si ha né democrazia né legalità. Voleva probabilmente dire che non sono i giudici a far cadere un governo, tanto meno i pentiti. Ha finito col dire che non è neppure la politica (partiti, parlamento) a poterlo fare. Torna a galla l’idea leninista secondo cui la democrazia sostanziale può confliggere con quella legale. È una fortuna che Napolitano abbia detto in modo chiaro, venerdì, che spetta invece a politica e parlamento sanare i presenti squilibri.
Tutto questo avviene forse perché le indagini su politica-mafia sono a una svolta. Si accumulano verbali sempre più sinistri, che legano Berlusconi e Dell’Utri alle stragi. Ce n’è uno in particolare, quello del pentito Romeo, secondo cui nei primi ’90 «c’era un politico di Milano (il nome fattogli dal pentito Spatuzza è Berlusconi) che aveva detto a Giuseppe Graviano (un capomafia) di continuare a mettere le bombe», indicando perfino «i siti artistici dove metterle». I verbali non inducono ancora la magistratura a aprire un’indagine, ma la loro portata è oltremodo conturbante. Un sospetto malefico pesa sul presidente del Consiglio: che oltre al conflitto di interessi economici, ne esista un altro che lo espone a minacce di pentiti e carcerati mafiosi.
Il governo in realtà sostiene ben altro: la sua lotta alla mafia sarebbe dura; secondo alcuni, è sotto pressione proprio per questo. Nell’agosto scorso Berlusconi ha affermato di voler «passare alla storia come il presidente del Consiglio che ha sconfitto la mafia». Né mancano dati promettenti: la legge del carcere duro inasprita (legge 41 bis), i beni mafiosi sequestrati, un gran numero di capi malavitosi arrestati.
Al contempo tuttavia son favoriti i colletti bianchi che fanno affari con la mafia. C’è lo scudo fiscale, che chiede all’evasore una restituzione minima di quel che dovrebbe (il 5 per cento), e in cambio gli consente, restando anonimo, di cancellare reati come il riciclaggio di denaro sporco (lo spiega il giudice Scarpinato sul Fatto del 15-11-09). C’è la legge sulle intercettazioni, che ostacola le inchieste sulla mafia. C’è il Comune di Fondi, in mano alle destre: tuttora non sciolto, malgrado la collusione con la mafia sia certificata da oltre un anno. Contestata da don Ciotti, c’è una legge che mette in vendita parte dei beni confiscati alla mafia, col pericolo che prestanome incensurati li riacquistino. C’è infine il processo breve: un processo morto, per i colletti bianchi collusi.
La svolta secerne sospetti a raggiera. Quelli che Franchetti chiamava i facinorosi della classe media (amministratori, politici) potrebbero aver l’impressione che il cuore dello Stato sia nelle loro mani. È sospettato il presidente del Senato Schifani, per rapporti con i fratelli Graviano e assistenza giuridica al costruttore Lo Sicco, oggi in galera per mafia. È indagato Nicola Cosentino, sottosegretario al Tesoro, per concorso esterno in associazione camorristica. Ambedue restano al loro posto, sotto gli occhi non tanto dei magistrati quanto della mafia, esperta in ricatti. Che sia l’ora della politica è evidente. Le democrazie vivono e muoiono nel funzionare o non funzionare del comportamento politico, non di quello giudiziario.
Tra democrazia e legalità c’è distinzione?
di LUCIANO VIOLANTE (La Stampa, 30/11/2009)
Caro direttore,
Barbara Spinelli nell’articolo pubblicato ieri su La Stampa critica la mia distinzione, avanzata in una trasmissione televisiva, tra principio democratico e principio di legalità accusandola di «leninismo». Avrei riportato in auge una distinzione tra democrazia sostanziale e democrazia legale.
Nella mia distinzione non c’è nulla di così sgradevole e mi spiace non essere stato sufficientemente chiaro.
Nella vicenda attuale si confondono due diverse questioni: una è relativa al processo in corso nei confronti del presidente del Consiglio e l’altra riguarda i conflitti tra magistratura penale e potere politico.
Sulla prima c’è poco da dire. In regime democratico non può essere approvata una proposta che abbia come fine precipuo quello di paralizzare uno specifico processo penale in corso, fosse anche nei confronti del presidente del Consiglio. E se quella proposta fosse approvata, sarebbe probabilmente incostituzionale, come i cosiddetti lodi Alfano e Schifani.
La seconda questione è più complessa. Nelle democrazie occidentali chi è investito della sovranità popolare (principio democratico) ha uno statuto particolare. Mentre tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge (principio di legalità), gli eletti alle massime cariche dello Stato possono essere esentati dalla responsabilità penale o, in modo assoluto, per determinati reati o, a tempo, sino a quando rivestono una specifica carica politica. E’ la prevalenza del principio democratico sul principio di legalità. La nostra Costituzione, ad esempio, prescrive la non punibilità dei parlamentari per le opinioni espresse, anche diffamatorie, nell’esercizio delle loro funzioni; prescrive, inoltre, la necessità dell’autorizzazione a procedere per arrestare un parlamentare o per processare un ministro accusato di aver commesso reati nell’esercizio delle sue funzioni. In caso di conflitto tra il voto del Parlamento (principio democratico) e la necessità di esercitare l’azione penale (principio di legalità), interviene la Corte Costituzionale.
La magistratura penale occupa una posizione centrale nel sistema politico. Anche per i discutibili criteri di selezione dei parlamentari, sono prevedibili altre occasioni di scontro con i poteri politici nel futuro. Non c’è niente di peggio di un conflitto tra magistratura e politica che non abbia una soluzione istituzionale. Perciò propongo che, in caso di conflitto tra magistratura da un lato e Parlamento o governo dall’altro, la Corte Costituzionale possa essere chiamata a decidere, attraverso una apposita procedura, se debba prevalere il principio di legalità o il principio democratico. Nessun fatalismo del Pd, quindi (è questa la seconda accusa della signora Spinelli). Ma solo il rifiuto di soluzioni ad personam, una responsabile preoccupazione per il deterioramento in corso e una soluzione coerente con i principi costituzionali per i futuri possibili conflitti tra magistratura e politica.
Quel che ho criticato, nel mio articolo del 29-11, è la presunta antinomia tra principio democratico e principio di legalità. L’antinomia non esiste, per il semplice fatto che la democrazia la Costituzione lo prescrive chiaramente nell’articolo 3 si fonda sulla legalità e sull’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Separare i due principi distrugge sia la democrazia sia la legalità. Il fatto che esistano eccezioni previste dalla Costituzione non invalida la norma, che ai cittadini, soprattutto in un’emissione televisiva dove il tempo di parola è brevissimo, deve esser chiarita in modo più netto di quanto abbia fatto l’on. Violante. Né si può sorvolare sul fatto che l’attuale presidente del Consiglio, volutamente ignorando la Costituzione, abbia separato il principio democratico e il principio di legalità fino al punto di annunciare: anche se fossi condannato, resterei al mio posto perché sono un eletto del popolo.
Quanto al fatalismo: perché dar per scontato che l’unica via sia quella di trovare uno scudo che garantisca l’attuale presidente del Consiglio, e non augurarsi che la classe politica (in particolare la coalizione di centro-destra) prenda finalmente le distanze da un leader sotto processo per corruzione di magistrati, sospettato di altri reati gravi, reso fragile per un conflitto d’interessi che la sinistra quando ha governato non si è mai curata di risolvere? Se Berlusconi venisse sfiduciato, la Costituzione prevede che il Presidente della Repubblica accerti in concreto, facendo votare la fiducia su un altro nome, se in Parlamento esista una maggioranza sulla candidatura da lui designata. Questo per la nostra Costituzione (come del resto per le altre Costituzioni dei regimi parlamentari) non solo è perfettamente legale, ma non lede affatto la democrazia. E’ accaduto e accade in Germania, in Francia, in Inghilterra. Se non c’è la fiducia, il Presidente scioglie le Camere e si va a votare. Chi ritiene altrimenti, dando per scontato che solo un nome sia legittimo per la presidenza del Consiglio, viola con il suo modo di fare la Costituzione. Io ho dato a questo comportamento il nome di fatalismo, o politica della fiaccona, o appeasement ovvero accomodamento. Che nome gli dà l’onorevole Violante?
BARBARA SPINELLI
La tentazione dei blogger è chiedere uno spazio più grande per il 5 dicembre. Tante adesioni di artisti
No-B day, già prenotati 400 pullman e il "sogno" di piazza San Giovanni
I blogger si presentano alla stampa e annunciano anche un servizio d’ordine
di Carmelo Lopapa (la Repubblica, 27.11.2009)
ROMA - Lasciano la piazza virtuale per riempire quella reale. Via da blog, chat e Facebook. I promotori del "Noberlusconiday" si materializzano in un piccolo cinema alternativo a due passi dalla Suburra romana, volti giovani, età media trent’anni, per presentare dal vivo l’appuntamento del 5 dicembre. Appuntamento nato dalla Rete, comunque basso, ma già dai grandi numeri. Sono 400 i pullman prenotati in tutta Italia e oltre 300 mila le adesioni sul web. Città come Milano, Messina, Catania in cui è ormai difficile reperirne altri, raccontano. E una Piazza del Popolo a Roma che all’improvviso diventa piccola, tanto da far balenare ai ragazzi del comitato l’idea e il sogno (per ora solo quello) di spostare tutto nella più capiente San Giovanni.
I partiti ci sono, ma non si vedono. Nel senso che hanno aderito (alcuni almeno) ma i politici non saliranno sul palco, collaborano all’organizzazione ma si limiteranno a sfilare con le bandiere in corteo. Compatti: Idv, Prc, Pdci, Sinistra e libertà, Verdi. O a «pezzi», come il Pd. Segretario Bersani diffidente. Altri, da Debora Serracchiani a Ignazio Marino, da Vincenzo Vita a Ivan Scalfarotto e tanti altri pronti a sfilare. Anche alla conferenza stampa di ieri giovani militanti del Pd sono intervenuti per dire che loro ci saranno. «Le parole d’ordine del Nobday sono anche le nostre» protestano in tanti anche sui blog. Su Facebook 500 che si dichiarano democrats danno vita al gruppo «Nbd del Pd».
Da oggi parte la settimana di «rincorsa al nobday», spiega il portavoce del comitato, Massimo Malerba. «Chiediamo agli italiani di mettere qualcosa di viola. Un drappo al balcone, un maglione, una sciarpa, un bracciale. È il colore dell’autodeterminazione dei popoli e lo sarà dei cittadini che non si riconoscono nel berlusconismo». E «viol-azioni pacifiche segneranno i giorni che precedono la piazza» annuncia Gianfranco Mascia del Bo-Bi, "Boicotta il Biscione". Sul palco, conferma Sara De Santis che cura l’aspetto artistico, nessun politico, a parlare delle emergenze di questi mesi (giustizia, lavoro, informazione, cittadinanza, formazione e ricerca, etica politica) saranno intellettuali, operai, giuristi, studenti, magistrati. «Perché la difesa della Costituzione, del capo dello Stato e della magistratura sarà il motivo di fondo» dicono Gabriella Magnano di Liberacittadinanza e Franz Mannino del "Nobday".
Tanti intellettuali e artisti stanno aderendo. Dario Fo, Franca Rame, Moni Ovadia, Lidia Ravera, Furio Colombo, Antonio Tabucchi, Ascanio Celestini, Francesca Fornari, Daniele Silvestri ultimo in ordine di tempo. Il corteo partirà da Piazza della Repubblica per raggiungere Piazza del Popolo. Un servizio d’ordine per scongiurare incidenti. In collegamento, i «Nobday» organizzati dagli italiani davanti alle ambasciate di New York e San Francisco, Londra e Berlino, Madrid, Bruxelles, tra le altre piazze internazionali. Parola d’ordine unica: «Berlusconi dimettiti».
Procedura inusuale del capo dello Stato che ha convocato i giornalisti
al termine di una cerimonia al Quirinale: "Sento il bisogno di parlare"
Napolitano: "Le toghe non travalichino"
Anm: "Ma noi vogliamo parlare" *
ROMA - Imporre uno stop, nell’interesse della nazione, alla spirale di polemiche e tensioni sempre più drammaticizzata non solo fra partiti ma addirittura fra istituzioni, tenendo presente che "niente può far cadere un governo se ha la fiducia del Parlamento" e se conta su una maggioranza coesa. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha lanciato un vero e proprio appello alla politica italiana. E lo ha fatto dal Quirinale, con una dichiarazione non priva di toni allarmati. Che provoca la reazione dell’Anm. "Non siamo in guerra ma non vogliamo aggressioni" dice il presidente Luca Palamara.
Le parole di Napolitano rispondono punto per punto alle preoccupazioni manifestate da più parti nei rapporti tra politica e giustizia e anche ai timori del premier, Silvio Berlusconi, che ieri, durante l’ufficio di presidenza del Pdl, ha lamentato che la magistratura voglia "abbattere il suo governo ".
La dichiarazione del presidente della Repubblica è avvenuta nella sala di rappresentanza del Colle con una procedura, sinora inedita, che testimonia la preoccupazione del capo dello Stato per lo scontro in atto nel Paese. Al termine dell’udienza con l’Anmil, l’Associazione nazionale dei mutilati ed invalidi del lavoro, i giornalisti vengono raccolti nella sala di rappresentanza. Pochi minuti dopo, anche Napolitano ha raggiunto la sala per leggere la sua dichiarazione. Poche parole per motivarne l’urgenza: "Sento il bisogno di dire qualcosa in questo particolare momento. L’interesse del Paese richiede che si fermi la spirale di una crescente drammatizzazione, cui si sta assistendo, delle polemiche e delle tensioni non solo tra opposte parti politiche ma tra istituzioni investite di distinte responsabilità costituzionali".
"Va ribadito - aggiunge il presidente - che nulla può abbattere un governo che abbia la fiducia della maggioranza del Parlamento, in quanto poggi sulla coesione della coalizione che ha ottenuto dai cittadini-elettori il consenso necessario per governare. E’ indispensabile che da tutte le parti venga uno sforzo di autocontrollo nelle dichiarazioni pubbliche, e che quanti appartengono alla istituzione preposta all’esercizio della giurisdizione, si attengano rigorosamente allo svolgimento di tale funzione".
"E spetta al Parlamento - conclude Napolitano - esaminare, in un clima più costruttivo, misure di riforma volte a definire corretti equilibri tra politica e giustizia".
Le reazioni. Di "parole sagge" parla il presidente del Senato Renato Schifani, mentre Gianfranco Fini apprezza il messaggio del capo dello Stato e sottolinea come vada letto e apprezzato "nella sua totalità". Anche Umberto Bossi accoglie l’invito ad abbassare i toni: "Bisogna stare più tranquilli". Chi, invece, si smarca è Antonio Di Pietro: "Non posso però esimermi dal riaffermare che i magistrati, quando lamentano l’impossibilità di potere svolgere il proprio lavoro per colpa di norme criminogene che vengono emanate da questo Parlamento, non possono essere zittiti". Il presidente del Pd Rosy Bindi, invece, chiama in causa chi "continua a lanciare accuse di eversione o a parlare di guerra civile". Ovvero il premier. "Berlusconi dovrebbe verificare che, dopo le parole da lui stesso pronunciate contro esponenti del suo partito, sia ancora così solida" chiude Rosy Bindi. Per il leader dell’Udc Pierferdinando Casini si tratta di "un doppio monito che vale per tutti coloro che in questi giorni ingiustamente hanno fatto polemiche dissennate contro i vertici delle istituzioni, anche contro il Capo dello Stato".
* la Repubblica, 27 novembre 2009
Per il presidente della Camera "si tratterebbe di una questione
di rispetto dell’esecutivo nei confronti del parlamento"
Finanziaria, Fini: "No alla fiducia
su maxiemendamento governo"
E respinge il ’presidenzialismo di fatto’: "Lusso che non possiamo permetterci"
"Serve equilibrio tra i poteri dello Stato, senza mortificare alcun ruolo" *
ROMA - No del presidente della Camera Gianfranco Fini a una eventuale fiducia alla legge finanziaria utilizzando il solito meccanismo del maxiemendamento: "Il presidente della Camera sarebbe in grossa difficoltà se la fiducia non fosse posta su un testo che esce dalla commissione ma su un maxiemendamento del governo", afferma la terza carica dello Stato.
Presentando un libro nella Sala del Mappamondo alla Camera, in vista dell’imminente esame della manovra finanziaria, Fini ha spiegato che se il governo ponesse la fiducia su un maxiemendamento questo significherebbe "per il Parlamento non poter svolgere il suo compito. Non tutte le fiducie hanno lo stesso impatto politico, in questo caso si tratterebbe di una questione di rispetto del governo nei confronti del parlamento".
Riforme. Fini respinge dunque qualunque ipotesi di "presidenzialismo di fatto": "E’ vero, da qualche tempo c’è una sottolineatura del ruolo dell’esecutivo: io non considero questo negativo, non sono un cultore dell’assemblearismo, ma se si accentua il ruolo dell’esecutivo dobbiamo anche rafforzare il controllo parlamentare e il ruolo del parlamento".
"Non possiamo stare così come siamo adesso, è un lusso che non ci possiamo permettere - ha concluso Fini -. Io non inorridisco davanti alla parola presidenzialismo, una democrazia deve essere rappresentantiva ma anche governante, mi rifiuto di mettere in contrapposizione questi due termini. A un capo dell’esecutivo forte deve corrispondere un Parlamento forte, non si stabilisce un equilibrio se si mortifica il ruolo dell’uno o dell’altro".
* la Repubblica, 25 novembre 2009
La rivolta dei poeti: «Berlusconi, giù le mani dalla democrazia»
di Pietro Spataro *
Tanto, dicono, sopravviene rapido e crudo l’oblio». È un verso della poesia di Roberto Roversi che pubblichiamo qui accanto. Una delle tante che compongono questa «antologia della ribellione » che gira sull’on line da qualche giorno e sta suscitando grande interesse.Unastranezza nell’Italia di oggi. Trenta poeti (giovani e vecchi, del Nord e del Sud) si mettono al lavoro e scrivono versi per protesta: contro la minaccia incostituzionale di Berlusconi, per difendere il valore della resistenza e della memoria. Sembrava un’impresa impossibile. Quando Davide Nota, che è un giovane poeta di ventotto anni pieno di passione, ha cominciato a telefonare a noi più anziani, in pochi avremmo scommesso sulla riuscita. Pensavamo a Pasolini e misuravamo la distanza tra il suo grido e questa «Italia rotta» di oggi. Racconta Davide: «Tutto è cominciato quando Berlusconi ha proposto di cambiare nome alla Festa della Liberazione. Ne abbiamo parlato io e Gianni D’Elia e all’inizio si pensava a una cosa così, duepoesie contro l’oblio». Poi invece le poesie sono diventate di più: per la precisione quarantadue.
I poeti sono trenta e sono diversi tra loro: ci sono i «grandi vecchi » come Roberto Roversi, quelli della generazione di mezzo come Gianni D’Elia, Maurizio Cucchi e Franco Buffoni. Ma poi soprattutto ci sono tantissimi giovani: quelli che sono lanuova generazione che esprimeforse la rabbia più fresca e battagliera. Questa antologia insomma è un altro segno che qualcosa si muove nel mondo della cultura. «Si tratta di una rivolta della coscienza - spiega Gianni D’Elia - Assistiamo a un attacco al diritto che fa spavento. È ilmomentodi farecomediceva Dante: “Così gridai con la faccia levata”. Nonpossiamo permettere che la cultura sia travolta dalla tv». Aggiunge Franco Buffoni: «Cerchiamo di far sentire un fiato civile in un’epoca di disinteresse. Siamo noi i veri liberali, mica loro».
Nata per difendere la Costituzione e i valori dell’antifascismo la raccolta strada facendo ha assunto anche un taglio diverso. È diventata il grido di dolore contro la decadenza dell’Italia. «Un tentativo di resistenza contro l’orrore che abbiamo attorno - dice Maria Grazia Calandrone - Abbiamo il dovere di batterci contro questa catastrofe, cominciando dalla scuola che deve fornire gli strumenti per capire. Siamo circondati da una cultura della paura e del sospetto che fa venire i brividi». Aggiunge Flavio Santi: «Questa destra è pericolosa. Noi tentiamo di scalfire il muro di silenzio. I poeti ci sono ancora, questo vogliamo dire: per fermare l’omologazione per cui tutto va bene e tutto è uguale». È la prima volta forse nella storia d’Italia che trenta poeti si mettono insieme per gridare più forte. L’antologia sta girando nei vari social metwork, appare su alcuni siti importanti (Micromega, Reset italia, Nazione Indiana e daoggi anche sul sito dell’Unità). È una piccola cosa, ma spesso dalle piccole cose viene il meglio. È un modo per dire no a quello che Leopardi chiamava «il servilismo verso l’imperio dell’autorità». E oggi purtroppo in giro se ne vede un bel po’. Servirà? Direbbe Franco Fortini: «La poesia / non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi».
Un appunto in prosa di poesia
Roberto Roversi
Largisce pace la pace
e la guerra di guerra risuona.
La guerra dice la pace fiacca e induce
all’ozio l’uomo calcolatore.
La guerra dice che la guerra è
inevitabile furore
e il grido degli uomini in battaglia
strappa nel cielo penne e penne agli angeli
peccatori.
Tanto, dicono, sopravviene rapido e crudo l’oblio
on mazza e scudo
a scalciare il sudario dei ricordi
che hanno acidula voce
e sono bagnati nel fiume di sangue degli anni
(senza pietà)
Ma i pensieri di ferro rovente non sono la rana
buttata in un fosso sperduto.
Il furore a Cassino
Varsavia Stalingrado
Dresda Coventry Berlino
tutta Italia spianata
porte d’inferno aperte ogni giornata.
Calpestare l’oblio
il viaggio dei ricordi non è mai finito
là c’ero anch’io.
Golpe sottile
Giuliano Scabia
Si aggira nelle menti, nei media,
un golpe sottile, un assopimento
spettacolare indotto da paura
e dissolversi delle visioni. L’ora
è venuta di lasciare il novecento
con le sue catastrofi e bellezze,
ma dicendo: siamo orgogliosi
di ciò che fu fatto per il bene,
non lo rinneghiamo: voi, col vostro
Gran Porcone e le sue Madonne
velinose andate pure alle glorie
delle falsate storie. Dignità e valore
è libertà, durezza e verità, amore
delle città, non tresca, non truffa,
non menzogna. Ciò che bisogna
adesso è: SVEGLIA ITALIA!
Scrollati dal fango che t’ammalia!
Nella piatta illusione del tempo
Maurizio Cucchi
Nella piatta illusione del tempo,
Nella comunità precaria
Dei morti e dei vivi,
Non si cancella l’offesa, non si modifica
Il senso della storia. Nel presente
Totale la vittima
E l’assassino conservano
Espressioni diverse, facce
Opposte: il nero
Resta nero e la storia
Non lo stinge, non lo sbiadisce.
Mai.
La Liberazione
Gianni D’Elia
Sciagurata sineddoche d’Italia,
la parte per il tutto del peggiore
carattere affarista, Smisuralia
d’iniquo e ingiusto, sovrano e signore.
Italiano del Duemila, tutta aria
di denaro e potere, il solo amore,
bassa statura, che animo non varia,
di riccastro ed impresario in calore.
Insigne erede di sozza fazione,
ossessa forza, che il Paese caria
dagli schermi e dai fogli del padrone,
liberaci di te, ci manca l’aria.
Per quanto studi per l’eterna azione
cammini già la tua vita mortuaria,
sei già nel tuo pacchiano Partenone,
sciagurato diffuso in terra ed aria.
S’aspetta che tu vada, odioso clone,
Primo, Secondo e Terzo Berluscone,
tu, già fuori della Costituzione,
contro i cives e la Costituzione,
tu e la tua burlesca Liberazione!
Credono di essere il paese
Lina Salvi
Credono di essere il paese,
ma sono fuori dallo Stato,
appiccando il fuoco con viso
coperto, a tradimento, alle baracche
di quei nomadi, che con un euro
comprano tre mattoni
per una casa nel loro paese,
i nostri sono scappati incuranti,
nelle auto ritoccate, i bambini
a decine chiedono notizie
dei loro compagni, perplessi,
in un’altra storia.
Altra preghiera
Pietro Spataro
Liberaci dal vuoto del potere
dall’ideologico concorrere violento
dai tribunali di partito, dall’erosione
del libero discorrere degli uomini
allontanaci dalle urla di governo
dagli elenchi fraudolenti dei nemici
dall’odio che scava a fondo e lascia
lungo la via un’aspra solitudine
forma essiccata del pensiero
decadenza inarrestabile, inquietudine
Soprattutto e con ogni forza
Raimondo Iemma
Metto in comune un bicchiere.
Sorrido a uno sconosciuto
cerco altre parole
telefono a un amico
di cui da tempo non ho notizie
riconosco la voce di sua madre.
Quanto più sgomenta
la sofferenza di ogni uomo
per la ferocia dei suoi pari
quanto più subdolo diventa
il nuovo vocabolario
di inchiostro bianco cenere
non smetterò di credere nella felicità e nel domani
nell’idea che queste due parole
abbiano tanti significati
quanti sono gli uomini.
Soprattutto e con ogni forza
non cederò alla tentazione
di opporre disprezzo al disprezzo
nonostante tutto vorrò praticare il coraggio e
l’amore.
Ho voglia di stare al mondo e lottare.
Aprile
Davide Nota
Se ne vanno, la notte, silenziosi,
in lenta carovana, gli occhi al suolo,
i morti che di noi ancora sono
morti e se ne vanno silenziosi.
Il vento tra le foglie del castagno,
il passo tra le felci, il legno franto,
il canto delle rane nello stagno,
il pianto scivoloso del canale...
Scompaiono, di notte. Torneranno
come le pietre che la terra inuma?
Sapere i loro segni che consuma
la pioggia non ci basta a ricordare
che vivi ci sognarono e son morti.
* l’Unità, 25 novembre 2009
La sovranità ad personam
di Carlo Galli (la Repubblica, 24 novembre 2009)
L’accorato appello di Carlo Azeglio Ciampi ci porta - con la sua altissima risonanza emotiva - a una stagione morale della politica che sembra ormai remota: la stagione della democrazia costituzionale e della repubblica parlamentare. Ci riporta al suo pathos per la libertà e al suo ethos di rispetto delle istituzioni, presidi della vita collettiva e del suo ordinato svolgimento secondo l’uguaglianza e il diritto (per non parlare della decenza). Una stagione che si pretende trascorsa e ormai finita, sostituita da un’altra, nuova e ormai alle porte, di cui si celebra l’avvento; una stagione che andrebbe riconosciuta nella sua ineluttabilità, e che meriterebbe il sacrificio della costituzione formale, ormai obsoleta, che dovrebbe essere adeguata alla splendida aurora della nuova costituzione materiale. Il cui contenuto fondamentale sarebbe un innovativo esercizio - libero, diretto e costituente - della sovranità popolare, che potrebbe oggi finalmente esprimersi senza la mediazione soffocante delle istituzioni, senza il vincolo della Legge, senza l’ossessione per l’ordine costituito.
E l’occasione per questo spontaneo manifestarsi del popolo e della sua volontà sovrana sarebbe data dalla persona empirica e singolare di Silvio Berlusconi, il presidente del Consiglio che appellandosi a essa intende sottrarsi - con tutti i mezzi che la fantasia dei suoi avvocati e dei suoi ministri può escogitare - alla legge ordinaria, alla comune uguaglianza giuridica che lega tutti i cittadini di una nazione democratica. Una eccezionalità, una straordinarietà, che gli sarebbero dovute in virtù del suo essere primus super pares fra i ministri (qualunque cosa ciò significhi), nonché direttamente votato dal popolo non come deputato - che rappresenta tutta la Nazione, come ogni altro parlamentare eletto - ma direttamente come capo del governo. Un cortocircuito fra potere esecutivo e popolo, dunque, che taglia fuori il potere legislativo, il Parlamento, spodestandolo, nella gerarchia dei poteri dello Stato, dal primo posto che gli compete nelle costituzioni moderne. Un cortocircuito, soprattutto, che dovrebbe sollevare il primus, l’Eletto, oltre l’ordinamento giuridico normale, garantendogli un’esenzione speciale dalla Legge; non importa se con norma ordinaria o costituzionale, se agendo sulla durata dei processi o sulla prescrizione: l’importante è che il cittadino Berlusconi, l’imprenditore privato di enorme successo e di immensa ricchezza, non venga toccato da processi.
Insomma, il potere del popolo - terribile e irresistibile fondamento di ogni legittimità politica - si condensa in un’unica epifania, in una manifestazione gloriosa strettamente individuale; il potere costituente, che rade al suolo gli ordinamenti costituiti e ne crea di nuovi, deve incaricarsi di ridisegnare l’equilibrio dei poteri dello Stato per il vantaggio di una sola persona; il caso d’eccezione deve diventare permanente, quotidiano e al contempo perenne, e garantire lo sfondamento dell’ordinamento a beneficio di uno solo. C’è, evidentemente, una sproporzione grottesca tra la causa e l’effetto, fra i principi e la realtà. Da una parte si evocano le categorie più forti della filosofia politica e della scienza giuridico-costituzionale moderna - appunto, la sovranità popolare, il potere costituente, il caso d’eccezione; chissà, la stessa rivoluzione - ; dall’altra l’obiettivo è tutto sommato modesto: una vicenda personale che il rilassarsi della democrazia e lo spregiudicato populismo di Berlusconi stanno trasformando in una tragedia repubblicana.
È questo squilibrio a mostrare, da solo, l’inconsistenza delle tesi che intendono nobilitare con motivazioni storico-politiche i frenetici tentativi di parte della maggioranza di salvare Berlusconi dai suoi processi (che non sono più di cento, ma meno di venti) che da anni subisce come imprenditore e che da anni contrasta con innumerevoli leggi a proprio vantaggio (come questo giornale ha documentato inoppugnabilmente). Tutti i superamenti dell’ordinamento formale e del potere liberale di cui si parla, tutte le potenze concrete, i momenti materiali della politica, hanno senso se hanno a che fare con obiettivi pubblici, universali: se anche la destra vuole diventare rousseauiana e mostrare un improvviso amore - forse sospetto e certamente pericoloso - per la sovranità popolare nella sua forma assoluta, non sarebbe male si ricordasse che la Volontà generale è tale perché vuole solo ciò che è generale, non perché vuole gli interessi particolari; che il caso d’eccezione è una violazione della Legge per un Valore pubblico supremo (la salvezza dello Stato, la salus populi, o qualche altra motivazione d’emergenza di carattere generale) e non per una vicenda di corruzione in atti giudiziari; che le rivoluzioni sono l’evento più pubblico e politico che ci sia, e che non si fanno per vicende personali.
E infatti nessuno ha inteso rivoluzionare alcunché col votare Berlusconi, ma soltanto eleggere un deputato che in seguito è stato incaricato dal Capo dello Stato di formare un governo, che ha avuto bisogno del voto di fiducia del Parlamento. Si deve contrastare la pretesa che l’on. Berlusconi sia stato eletto dal popolo capo del governo, e che goda perciò di uno status privilegiato: ciò non è vero.
La mitizzazione dei momenti forti in cui si fondano gli ordinamenti è un’evocazione equivoca e fuori posto: la sovranità popolare - valore supremo della democrazia, che nessuno intende discutere
non è a favore di un singolo ma di tutti i cittadini in regime di uguaglianza; non è una coperta da tirare da una parte, ma il presidio della libertà di tutti; non è un fantasma da evocare a piacimento ma un bene da difendere e da garantire attraverso le libere istituzioni della democrazia repubblicana. E la salvezza dello Stato e del popolo non sta nell’infrangere le norme, e nell’inventare modi per sottrarsi ai processi, ma, al contrario, nella determinazione costante di restituire il Paese all’ordine della legalità, che coincide, anziché esservi contrapposto, con l’ordine della legittimità, e di ritornare alla sana distinzione fra privato e pubblico, fra diritto penale e diritto costituzionale, che distingue uno Stato libero da uno Stato patrimoniale, e una nazione di cittadini da una di sudditi.
L’ex presidente: "Io non uso aderire ad appelli, ma condivido quello di Saviano"
Preoccupato per la salute della nostra democrazia: "Manipolazione delle regole"
Ciampi: "Basta leggi ad personam
Berlusconi delegittima le istituzioni"
di MASSIMO GIANNINI
«Viviamo un tempo triste. Negli anni finali della mia vita, non immaginavo davvero di dover assistere ad un simile imbarbarimento dell’azione politica, ad una aggressione così brutale e sistematica delle istituzioni e dei valori nei quali ho creduto...». La prima cosa che colpisce, nelle parole di Carlo Azeglio Ciampi, è l’amarezza. Un’amarezza profonda, sul destino dell’Italia e sulle condizioni della nostra democrazia.
E mai come in questa occasione l’ex capo dello Stato, da vero "padre nobile" della Repubblica, lancia il suo atto d’accusa contro chi è responsabile di questo "imbarbarimento" e di questa "aggressione": Silvio Berlusconi, il suo governo e la sua maggioranza, che stanno abbattendo a "colpi di piccone" i principi sui quali si regge la Costituzione, cioè "la nostra Bibbia civile".
"Vede - ragiona Ciampi - la mia amarezza deriva dalla constatazione ormai quotidiana di quanto sta accadendo sulla giustizia, ma non solo sulla giustizia. È in corso un vero e proprio degrado dei valori collettivi, si percepisce un senso di continua manipolazione delle regole, una perdita inesorabile di quelli che sono i punti cardinali del nostro vivere civile". Vale per tutto: non solo i rapporti tra politica e magistratura. Le relazioni tra potere esecutivo e Parlamento, tra governo e presidenza della Repubblica, tra premier e organi di garanzia, a partire dalla Corte costituzionale. L’intero sistema istituzionale, secondo Ciampi, è esposto ad un’opera di progressiva "destrutturazione". "Qui non è più una questione di battaglia politica, che può essere anche aspra, come è naturale in ogni democrazia. Qui si destabilizzano i riferimenti più solidi dell’edificio democratico, cioè le istituzioni, e si umiliano i valori che le istituzioni rappresentano. Questa è la mia amara riflessione...".
Ciampi, forse per la prima volta, parla senza mezzi termini del Cavaliere, e di ciò che ha rappresentato e rappresenta in questo "paesaggio in decomposizione". "Mi ricordo un bel libro di Marc Lazar, uscito un paio d’anni fa, nel quale io e Berlusconi venivamo raccontati come gli estremi di un pendolo: da una parte Ciampi, l’uomo che difende le istituzioni, e dall’altra parte Berlusconi, l’uomo che delegittima le istituzioni. Mai come oggi mi sento di dire che questa immagine riassume alla perfezione quello che penso. Io ho vissuto tutta la mia vita nelle istituzioni e per le istituzioni, che sono il cuore della democrazia. E non dimentico la lezioni di Vincenzo Cuoco sulla Rivoluzione napoletana del 1797: alla felicità dei popoli sono più necessari gli ordini che gli uomini, le istituzioni oltrepassano i limiti delle generazioni. Ma poi, a rendere vitali le istituzioni, occorrono gli uomini, le loro passioni civili, i loro ideali di democrazia. Ed io, oggi, è proprio questo che vedo mancare in chi ci governa...".
L’ultimo capitolo di questa nefasta "riscrittura" della nostra Costituzione formale e materiale riguarda ovviamente la giustizia, il Lodo Alfano e ora anche il disegno di legge sul processo breve con il quale il premier, per azzerare i due processi che lo riguardano, fa terra bruciata dell’intera amministrazione giudiziaria corrente. Anche su questo la condanna di Ciampi è senza appello: "Le riforme si fanno per i cittadini, non per i singoli. L’ho sempre pensato, ed oggi ne sono più che mai convinto: basta con le leggi ad personam, che non risolvono i problemi della gente e non aiutano il Paese a migliorare". Fa di più, l’ex presidente della Repubblica. E si spinge a riflettere su ciò che potrà accadere, se e quando questa nuova legge-vergogna sarà approvata: "Io non do consigli a nessuno, meno che mai a chi mi ha succeduto al Quirinale. Ma il capo dello Stato, tra i suoi poteri, ha quello della promulgazione. Se una legge non va non si firma. E non si deve usare come argomento che giustifica sempre e comunque la promulgazione che tanto, se il Parlamento riapprova la legge respinta la prima volta, il presidente è poi costretto a firmarla. Intanto non si promulghi la legge in prima lettura: la Costituzione prevede espressamente questa prerogativa presidenziale. La si usi: è un modo per lanciare un segnale forte, a chi vuole alterare le regole, al Parlamento e all’opinione pubblica". Ciampi non nomina Napolitano, ma fa un riferimento implicito a Francesco Saverio Borrelli: "Credo che per chi ha a cuore le istituzioni, oggi, l’unica regola da rispettare sia quella del "quantum potes": fai ciò che puoi. Detto altrimenti: resisti".
Lui stesso, nel suo settennato sul Colle, ha resistito più volte alle spallate del Cavaliere. Dalla legge Gasparri per le tv alla riforma dell’ordinamento giudiziario di Castelli: "È vero, ma ho fatto solo il mio dovere. C’è solo una cosa, della quale mi rammarico ancora oggi: il mio unico messaggio alle Camere, quello sul pluralismo del sistema radiotelevisivo e dell’informazione. Allora era un tema cruciale, per la qualità della nostra democrazia. Il Parlamento non lo raccolse, e da allora non si è fatto niente. Oggi, e basta guardare la televisione per rendersene conto, quel tema è ancora più grave. Una vera e propria emergenza".
Ma in tanto buio, secondo Ciampi c’è anche qualche spiraglio di luce. Per esempio l’appello lanciato su "Repubblica" da Roberto Saviano, che chiede al premier di ritirare la legge sull’abbreviazione dei processi, la "norma del privilegio". "Io - commenta il presidente emerito della Repubblica - per il ruolo che ho ricoperto non uso firmare appelli. Ma condivido dalla prima all’ultima riga quello di Saviano. Risponde a uno dei principi che mi hanno guidato per tutta la vita. E il fatto che abbia ottenuto così tante adesioni rappresenta una speranza, soprattutto per i giovani. È il vecchio motto dei fratelli Rosselli: non mollare. Loro pagarono con la vita la fedeltà a questo principio. Qui ed ora, in Italia, non c’è in gioco la vita delle persone. Ma ci sono i valori per i quali abbiamo combattuto e nei quali abbiamo creduto. In ballo c’è la buona democrazia: credetemi, è abbastanza per non mollare".
* © la Repubblica, 23 novembre 2009
Chi vogliamo essere
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 22/11/2009)
Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? La domanda, antica, può produrre pensiero profondo oppure ottusità, veggenza oppure cieco affanno.
Ci sono momenti della storia in cui la domanda secerne veleni, chiusura all’altro. Uno di questi momenti fu la vigilia delle prima guerra mondiale: nella Montagna incantata, Thomas Mann parla di Tempi nervosi. Anche oggi è uno di questi momenti. La fabbricazione di un’identità con ferree e univoche radici è piena di zelo in Francia, Inghilterra, e nervosamente, astiosamente, in Italia. In Italia un partito xenofobo è al governo e addirittura promette «Natali bianchi», liberati dagli immigrati che saranno scacciati parola del sindaco di Coccaglio, presso Brescia profittando dei permessi di soggiorno in scadenza. Come in certi film tedeschi (Heimat, Il Nastro bianco) è un villaggio-microcosmo che genera mostri. Genera anche irrazionalità, come ha spiegato un medico del lavoro di Bologna, Vito Totire, in una bellissima lettera inviata il 19 novembre al direttore della Stampa: non sono gli italiani a compiere oggi le bonifiche dell’amianto, «ma gli immigrati, per pochi euro, in condizioni di sicurezza incomparabilmente migliori di quelle di anni fa ma non del tutto immuni da rischi».
In Francia un collettivo sta preparando un giorno di sciopero, intitolato «24 ore senza di noi»: quel giorno gli immigrati resteranno a casa, per mostrare cosa accadrebbe se smettessero di lavorare e consumare.
Ma non sono solo economiche, le ragioni per cui l’immigrato è prezioso, indispensabile. Specialmente in Italia ha una funzione più segreta, più vera. Gli immigrati anticipano la risposta alle tre antiche domande, prefigurando quel che saranno in avvenire i cittadini italiani. Sono un po’ i nostri posteri, che contribuiranno a forgiare la futura identità dell’Europa e delle sue nazioni. Saremo quel che diverremo con loro, mescolando la nostra cultura alla loro. D’altronde le radici d’Europa son fatte da Atene, Gerusalemme, Roma, Bisanzio-Costantinopoli. Il culmine della civiltà fu raggiunto dalla res publica romana: un impasto meticcio di molte lealtà.
Gli immigrati, nostri posteri, sono proprio per questo scomodi. Perché entrando nelle nostre case ci porgono uno specchio in cui scorgiamo quel che siamo, il senso del diritto e della giustizia che stiamo perdendo. Esistono comportamenti civici che l’immigrato, accostandosi all’Europa con meno stanchezza storica, fa propri con una naturalezza ignota a tanti italiani.
Gli esempi si moltiplicano, e quasi non ci accorgiamo che la nostra stanchezza è rifiuto di preparare il futuro, e generalmente conduce al collasso delle civiltà. Il regista Francis Ford Coppola, intervistato per La Stampa da Raffaella Silipo e Bruno Ventavoli (19-11) descrive il possibile collasso: «Amo l’Italia ma mi rende triste. Perché è un paese in cui i padri divorano i figli, si prendono tutto senza lasciar nulla e i giovani devono andarsene per avere un’opportunità».
È significativo che lo dica un italo-americano, nipote di nostri emigranti. Che evochi, con l’immagine dello sbranamento cannibalico, una crudeltà radicale verso il prossimo: la crudeltà del padre che usurpa figli e futuro, convinto che fuori dal suo recinto non c’è mondo. Anche Stefano Cucchi, il ragazzo pestato a morte il 16 ottobre nei sotterranei di un tribunale a Roma, è un figlio sbranato. In alcune parti d’Italia la vita non vale nulla, uccisa dall’apatia ambientale più ancora che dalla lama. Anche qui, come nei lavori pericolosi, l’immigrato agisce spesso al nostro posto, con funzione vicaria. Nel caso di Cucchi c’è un unico testimone, anche se parla confuso: un immigrato detenuto del Ghana, addirittura clandestino, che rischia tutto rivelando la verità.
Allo stesso modo sono immigrati africani a insorgere contro camorra e ’ndrangheta. Prima a Castel Volturno, il 19 settembre 2008, dopo una carneficina che uccise sei cittadini del Togo, Liberia, Ghana. Poi il 12 dicembre 2008 a Rosarno, presso Reggio Calabria, dopo il ferimento di due ivoriani. Regolari o clandestini, gli immigrati hanno una fede nello Stato di diritto che gli italiani, per paura, rassegnazione, sembrano aver smarrito. Roberto Saviano rese loro omaggio: «Le due più importanti rivolte spontanee contro le mafie, in Italia, non sono partite da italiani ma da africani. In dieci anni è successo soltanto due volte che vi fossero, sull’onda dello sdegno e della fine della sopportazione, manifestazioni di piazza non organizzate da associazioni, sindacati, senza pullman e partiti. (...) Nessun italiano scende in strada». (Repubblica, 13-5-2009).
Ci sono video che dicono queste cose inconfutabilmente. Il video che ritrae l’indifferenza di decine di passanti quando venne ucciso, il 26 maggio, il musicista rumeno Petru Birlandeanu, nella stazione cumana di Montesanto. Il video che mostra l’assassinio di Mariano Bacioterracino, lo svaligiatore di banche ucciso l’11 maggio da un camorrista a Napoli. Anche qui i passanti son lì e fanno finta di niente. Difficile non esser d’accordo con Coppola: l’Italia mette tristezza, e a volte in tanto buio non ci sono che gli immigrati a emanare un po’ di luce.
Ai potenti non piacciono i film noir sull’Italia. Roberto Maroni, ad esempio, ha criticato la diffusione del video su Bacioterracino, predisposta dal procuratore di Napoli Lepore con l’intento di «scuotere la popolazione che per sei mesi non si era mossa». Insensibile alla pedagogia civica del video, il ministro s’indigna: «Hanno dato l’idea di una città, Napoli, ben diversa dalla realtà». D’altronde fu sempre così, nella storia della mafia.
Nel 1893, quando in un treno che lo portava a Palermo fu ucciso Emanuele Notarbartolo, un uomo onesto che combatteva la mafia nel Banco di Sicilia, il senatore mandante fu infine assolto perché non si voleva trasmettere un’immagine ignobile della Sicilia e dell’Italia. Durante il fascismo, il prefetto Mori combatté una battaglia che molti nel regime, nei giornali interpretarono come denigrazione della patria. Cesare Mori fu allontanato perché non imbelliva la nostra identità ma l’anneriva per risanarla.
Dice ancora Coppola che un film come Gomorra l’infastidisce. Non racconta una storia, tutto è freddo, terribile: «E’ spaventoso vedere Napoli rappresentata con tanto realismo. Quei delinquenti non sono più esseri umani». È vero, il film non è fascinoso e chiaro come il Padrino. È inferno, caos. Ma è tanto più reale. Viene in mente Salamov, il detenuto dei Gulag, quando critica il crimine troppo imbellito da Dostoevskij, «falsificato dietro una maschera romantica» (Salamov, Nel Lager non ci sono colpevoli, Theoria 1992).
Tra Dostoevskij e Salamov c’è stato il Gulag, che solo una «scrittura simile allo schiaffo» può narrare. Tra Coppola e Gomorra c’è il filmato che ritrae Bacioterracino atterrato senza schianto. È ancora Saviano a scrivere: «Il video decostruisce l’immaginario cinematografico dell’agguato. Non ci sono braccia tese a impugnare armi, non ci sono urla di minaccia, non c’è nessuno che sbraita e si dispera mentre all’impazzata interi caricatori vengono riversati sulla vittima inerme. Niente di tutto questo. La morte è fin troppo banale per essere credibile. L’esecuzione è un gesto immediato, semplice, poco interessante, persino stupido. Ma è la banalità della scena, quella assurda serenità che la circonda e che sembra ovattarla e relegarla al piano dell’irrealtà, che mette in dubbio l’umanità dei presenti. Dopo aver visto queste immagini è difficile trovare giustificazioni per chi ritiene certi argomenti diffamatori per Napoli e per il Sud».
Le tre domande dell’inizio restano. Impossibile rispondere, se la realtà del nostro divenire non la guardiamo assieme agli immigrati. Se non vediamo che non solo per loro, anche per noi e forse specialmente per noi valgono i versi di Rilke: «Ogni cupa svolta del mondo ha tali diseredati, cui non appartiene il passato né ancora il futuro più prossimo. Poiché anche il più prossimo è lontano per l’uomo».
NAPOLITANO= ITALIA ...
VIVA NAPOLITANO, VIVA L’ITALIA!!!
MORALITA’ E INTERESSE GENERALE QUASI PERSI, DOPO 15 ANNI DI ATTACCHI DA PARTE DI UN CITTADINO (E DEI SUOI SOSTENITORI) CHE SI E’ MESSO A FARE IL "PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA" E A GRIDARE CON TUTTI I SUOI POTERI MEDIATICI. "FORZA ITALIA". CON TUTTE LE CONSEGUENZE..
L’ITALIA INTERA - DI DESTRA, DI SINISTRA, E DI CENTRO - TRUFFATA E BUTTATA NELLA INDECENZA CIVILE E SOCIALE, POLITICA E CULTURALE.
NAPOLITANO E SOLO NAPOLITANO E’ L’UNICO E LEGITTIMO DETENTORE DELLA PAROLA "ITALIA" - SOLO IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA!!!
VIVA L’ITALIA, VIVA NAPOLITANO!!!
FEDERICO LA SALA
L’estinzione dello Stato
di Stefano Rodotà (la Repubblica,2o.11.2009)
Possono le istituzioni sopravvivere in un ambiente in cui la loro delegittimazione diviene una deliberata strategia politica? Che cosa accade quando il rispetto della Costituzione è costretto a rifugiarsi in luoghi sempre più ristretti? Stiamo percorrendo una anomala e inquietante via italiana all’estinzione dello Stato?
L’Italia sta diventando un perverso laboratorio dove elementi altrove controllabili si combinano in forme tali da infettare l’intero sistema. E il contagio si diffonde dalla politica all’intera società, dove ogni giorno vengono messi in scena il degrado del linguaggio, il disprezzo delle regole, l’esercizio brutale del potere. Di fronte a pretese e interventi particolarmente devastanti, come quelli che stravolgono la legalità in nome dell’interesse di uno solo, si evoca lo "stato d’eccezione", una categoria politica costruita per giustificare l’esercizio autoritario del potere di governo e che, tuttavia, rivela una sua nobiltà intellettuale che non si ritrova nelle miserabili prassi italiane di questi tempi. Che sono ormai così diffuse e radicate da impedire che si parli dello stato d’eccezione come di qualcosa appunto eccezionale. Come si è parlato di "emergenza permanente", per imporre logiche autoritarie e manomettere i diritti, così è ragionevole definire lo stato delle cose italiane come uno "stato d’eccezione permanente".
Sono gli stessi principi costituzionali ad essere regolarmente violati, a cominciare da quello di eguaglianza. Non dimentichiamo che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo il "lodo Alfano" proprio per il suo contrasto con quel principio. Dobbiamo ricordarlo ancora oggi di fronte alle proposte di approvare una legge costituzionale che riproponga i contenuti di quel testo: anche questo tipo di legge deve rispettare l’eguaglianza. Lo ha sottolineato fin dal 1988 la Corte costituzionale, affermando che i «principi supremi» dell’ordinamento italiano non possono essere «sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali». Tra questi principi spicca proprio quello dell’eguaglianza tra i cittadini.
Ma la diseguaglianza è stata codificata da molte leggi, è penetrata profondamente nella società, sta creando categorie di "sottocittadini". Nella vergogna del "processo breve" vi è la maggior vergogna dell’esclusione dai benefici degli immigrati clandestini. Questa erosione delle basi della convivenza nega l’universalità dei diritti fondamentali, legittima il rifiuto dell’altro e del diverso, e così apre le porte a quei fenomeni di razzismo e omofobia che rischiano di diventare una componente stabile del panorama italiano.
Una volta messi da parte i principi, la distorsione del sistema istituzionale diventa inevitabile e quotidiana, e non è più sufficiente a spiegarla il richiamo del conflitto d’interessi incarnato dal presidente del Consiglio. Si è manifestata una nuova forma di "Stato patrimoniale", dove si mescolano risorse pubbliche e private, l’influenza politica si sposa con la pressione economica, le aziende della galassia berlusconiana diventano snodi politici determinanti. Lo rivelano, tra l’altro, non solo il continuum Mediaset/Rai e gli annunci di normalizzazione di canali televisivi ancora un po’ fuori dal coro, ma anche le manovre che riguardano l’assetto complessivo delle telecomunicazioni, la proprietà dei giornali, il sistema finanziario.
Un potere che si è progressivamente concentrato in poche mani, con una idea proprietaria dello Stato che cancella gli altri soggetti istituzionali e azzera ogni controllo. Conosciamo la deriva che sta travolgendo il Parlamento, espropriato d’ogni funzione, e che ha portato alla clamorosa decisione di una "serrata" di dieci giorni della Camera dei deputati, decisa dal suo Presidente per denunciare l’impossibilità di lavorare. Un fatto davvero senza precedenti, che avrebbe dovuto provocare reazioni forti, che è stato piuttosto ricondotto alle schermaglie tra Fini e Berlusconi. La funzione legislativa è saldamente nelle mani del Governo attraverso i decreti legge e le leggi delega, e grazie al diffondersi delle "ordinanze di protezione civile", sottratte a qualsiasi controllo parlamentare e che contengono sempre più spesso norme di carattere generale, ben al di là delle emergenze che le giustificano. Ma è soprattutto la dimensione costituzionale ad essere evaporata. La Costituzione non appartiene più al Parlamento, tant’è che d’ogni legge in corso di discussione si discute se il presidente della Repubblica la firmerà o no, quali siano i rischi di una dichiarazione d’illegittimità da parte della Corte costituzionale. I custodi della Costituzione sono altrove, e la stessa Carta costituzionale rischia di veder mutato il suo significato se una istituzione centrale, il Parlamento, si comporta come se le fosse estranea.
Molte aree istituzionali vengono così desertificate, prendendo anche a pretesto vere o presunte inefficienze. Si documentano i ridottissimi tempi di lavoro del Parlamento e se ne trae spunto per denunciare i deputati fannulloni, non per indicare misure per rivitalizzare il Parlamento, possibili già oggi. La stessa tecnica è adoperata per attaccare la magistratura e legittimare l’ennesima legge ad personam, quella sul processo breve, giustificata con l’argomento della ingiustificata durata dei processi. Ma è del 1999 la riforma dell’articolo 111 della Costituzione che parla di una loro "ragionevole durata", sono anni che la Corte europea dei diritti dell’uomo ci condanna per le lungaggini della giustizia, sono decenni che il dissesto dell’amministrazione giudiziaria può essere definito "una catastrofe sociale". Così sensibile al problema, la maggioranza di centrodestra non ha mosso un dito nella fase di governo tra il 2001 e il 2006, assai interventista in materia di giustizia, ma non per approvare misure e attribuire risorse per tagliare i tempi processuali, bensì per andare all’assalto dell’indipendenza della magistratura. E oggi vuole profittare di questa situazione per sottrarre Berlusconi ai processi e assestare un colpo ulteriore all’efficienza e alla credibilità della magistratura.
Un "dialogo" sulle riforme costituzionali, e la stessa politica quotidiana dell’opposizione, non possono ignorare tutto questo. E bisogna ricordare che la Costituzione si conclude con un articolo che oggi esige particolare attenzione. È scritto nell’articolo 139: «La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale». Questo non vuol dire, banalmente, che non si può tornare alla monarchia. Significa che il nostro sistema costituzionale presenta una serie di caratteristiche che definiscono la "forma repubblicana" e che non possono essere modificate senza passare ad un regime diverso. È proprio quello che non si stanca di ripetere, con sobrietà e fermezza, il Presidente della Repubblica
Il «No B day»
Manifestazione anti-Cavaliere
Il simbolo sarà il colore viola
ROMA - Il tam-tam è partito dalla rete e ha già raccolto 250 mila fan: tutti contro Silvio il 5 dicembre. È il No B Day, la manifestazione nazionale lanciata su Facebook per chiedere le dimissioni del premier.
Nato come «apartitico», l’evento, il cui simbolo sarà il colore viola, è piombato nel dibattito politico e ora rischia di dividere le opposizioni.
Antonio Di Pietro, durante il corteo della Cgil, ha provocato il segretario del Pd: «Spero che il mio amico Bersani non sia l’unico che rimanga fuori. E spero che ricordi anche lui a Berlusconi che è ora che se ne vada a casa». Un appello alla piazza che ha innervosito i vertici del Pd. Filippo Penati critica i «toni sopra le righe» di Di Pietro contro il Pd, toni che rischiano di «favorire Berlusconi». E Di Pietro si affretta a chiarire: «Non ho avanzato una critica, ma una supplica. Serve un atto di forza verso il governo». Frena però Enrico Letta, numero due del Pd: «Ho dubbi sulle manifestazioni ad personam » .
* Corriere della Sera, 15.11.2009
Appello
Alziamo le nostre coscienze e tiriamo su la nostra schiena
di Paolo Farinella, prete *
Il governo e la maggioranza hanno valicato ogni ritegno: ormai delinquono in pubblico e in tv apertamente al grido minaccioso di «Salvare Berlusconi ad ogni costo». Il parlamento chiuso si riapre per approvare una leggina che metta al sicuro Berlusconi dai «suoi processi» e non importa se questa leggina non solo annienta gli scandali di truffa, falso in bilancio, bancarotta, ecc. ma annulla il diritto di milioni di cittadini che hanno diritto ad una sentenza ed eventualmente ad un risarcimento. Con questa legge che riduce solo i tempi dei processi, senza dare personale, strumenti e mezzi per accelerarli, si consuma la supremazia definitiva del sopruso sul diritto, della mafiosità sulla legalità, dell’impudenza sulla dignità e la sconfitta definitiva dello stato di diritto.
Berlusconi, dopo il lodo Alfano torna ad essere, almeno teoricamente, un cittadino come gli altri e come tutti deve essere processato e assolto o condannato con una sentenza inappellabile. Non possiamo tollerare ancora una volta una legge che lo salvi impunemente, anche in presenza di sentenze in corso. Non possiamo assistere inattivi, inermi e complici di una immoralità e indegnità di questa portata.
Usiamo la rete non solo per resistere, ma per reagire, per impedire che ancora una volta il corrotto, corruttore, compratore di giudici, di sentenze e di testimoni, il predatore fiscale che con le sue evasioni e i suoi conti esteri ha rubato a tutti noi e a ciascuno di noi. Una leggina riguarda Mediaset che deve al fisco circa 200 milioni di euro e se la caverà con un misero 5%. Come è possibile che i pensionati, i lavoratori a stipendio fisso, i precari, i cassintegrati, le donne, i senza lavoro, possano ancora votarlo e vederlo come un modello?
Come è possibile che assistiamo rassegnati alla vivisezione della Costituzione e della sopravvivenza di uno scampolo di dignità? Siamo calpestati ogni giorno nei nostri diritti e derisi nella nostra dignità e non siamo in grado di reagire come si conviene ad un popolo di gente che ogni giorno si ammazza per vivere onestamente del proprio lavoro e nel rispetto della Legge.
Non possiamo tollerare più che un uomo disponga dello Stato, delle sue Istituzioni, che ordini alla Rai di firmare un contratto di 6 milioni di euro al suo maggiordomo Bruno Vespa perché è bravo a fargli il bidet. Non possiamo tollerare che un suo dipendente, Minzolini, pontifichi a suo nome dalla tv di Stato; non possiamo più tollerare che sia smantellata Rai anche se aumenta ascolti e fatturato solo perché indigesta al satrapo senza statura. Non possiamo più tollerare che ci domini a suo piacimento e a suo uso e consumo. Se lui è l’utilizzatore finale delle prostitute a pagamento, noi vogliamo essere le sue mignotte «a gratis»?
Mettiamo in moto una rivoluzione e riportiamo il treno dentro i binari della Legge, delle Istituzioni, della Legalità, della Giustizia, della Dignità e del nostro Onore. E’ ora il tempo di scendere in piazza non per rivendicare un aumento di stipendio, ma per rivendicare un sussulto di dignità e di orgoglio di essere Italiani e Italiane che non vogliono essere scaricati come spazzatura. Berlusconi sta imperando e sta distruggendo tutto perché noi lo permettiamo o quanto meno lo tolleriamo.
Alziamoci in piedi e non pieghiamo la testa, chiedendo a gran voce, se necessario con uno sciopero generale ad oltranza, le dimissioni di Berlusconi, dei suoi avvocati pagati da noi e la conclusione dei suoi processi perché in Italia nessuno può essere più uguale degli altri e tutti, nessuno escluso, devono sottostare alla Maestà del Diritto.
Mi appello alle organizzazioni sindacali, ai partiti, alle associazioni nazionali e internazionali, ai gruppi organizzati, all’Onda lunga della scuola, ai blogger, alle singole persone di buona volontà con ancora una coscienza integra perché «el pueblo unido jamás será vencido».
LETTERA Al Sig. Presidente della Repubblica On.
Giorgio Napolitano
di Paolo Farinella, prete
Ho appena inviato la seguente e-mail al Presidente della Repubblica
Se ritenete, fate lo stesso: inondiamo il Quirinale di e-mail, uno tsunami di e-mail, lettere, cartoline, telegrammi, piccioni viaggiatori, mosche cocchiere, tutto ciò che occorre perché si veda e si senta lo sdegno di tutti noi.
Paolo Farinella, prete
Al Sig. Presidente della Repubblica
On. Giorgio Napolitano
Palazzo del Quirinale
00100 Roma
Via e-mail: presidenza.repubblica@quirinale.it
Sig. Presidente,
Con orrore prendiamo atto che il parlamento, chiuso da settimane per irresponsabilità del governo, riprende freneticamente l’attività per porre rimedio alla sentenza della Consulta che, bocciando il «lodo Alfano» (che pure Lei aveva firmato), ha dichiarato l’uguaglianza assoluta tra tutti i cittadini, compreso il presidente del consiglio dei ministri.
Il governo, la maggioranza, il parlamento e il Paese sono bloccati sulle vicende giudiziarie del presidente del consiglio che continua a pretendere leggi su misura per salvarsi dai processi dove è inquisito di reati gravissimi per i quali alcuni suoi complici sono stati condannati definitivamente (Previti) o in primo grado (Mills). La pretesa di leggi su misura viene fatta in pubblico, alla luce del sole, nella certezza dell’impunità assoluta, anche a costo di annullare migliaia e migliaia di processi gravissimi (Parlat, Cirio, Antonveneta, Eternit, rifiuti a Napoli, ecc.), lasciando centinaia di migliaia di cittadini vittime di ingiustizia senza risposte, senza risarcimenti, senza una sentenza con attribuzione di responsabilità. Sig. Presidente, il Paese è stufo di questo andazzo e in molti siamo pronti alla rivoluzione perché non possiamo tollerare più che le nefandezze di un uomo che si è servito sempre dello Stato distruggano lo Stato stesso per salvare lui e mettere al sicuro il suo patrimonio, frutto di evasione fiscale, riciclaggio, falso in bilancio e corruzione. Non tolleriamo più che un sistema mafioso condizioni lo stato di diritto e calpesti la dignità e la laboriosa onestà della maggior parte delle cittadine e cittadini che hanno sempre avuto il sommo rispetto per la Legalità, anche contro i propri interessi pratici.
Sig. Presidente, lei è l’ultimo baluardo del Diritto, il garante supremo della Carta Costituzionale, il rappresentante della unità nazionale. A nome di migliaia di persone oneste, la supplico di non fermarsi alla pura forma dei suoi compiti, ma di fare tutto il necessario perché il governo e il parlamento tornino ad essere esempio specchiato di trasparenza di vita, di legalità e di esempio morale. Non diventi, anche indirettamente, complice di norme e leggi improvvisate sulle necessità e sui tempi del presidente del consiglio, anche se mascherate con qualche pennellata di «esigenza generale» perché lei sa che così non è. Noi vogliamo che il sig. Berlusconi Silvio si sottoponga la giudizio dei tribunali della Repubblica, come un qualsiasi cittadino. Sig. Presidente stia dalla parte dei cittadini onesti, del Diritto e della Dignità dell’Italia che in questo momento è mortificata proprio da quel governo che dovrebbe condurla fuori dalla crisi economica e sociale e invece la sta infognando e annegando nella melma dell’indecenza. Se necessario, sciolga le Camere per ingovernabilità mafiosa.
Con flebile speranza,
Paolo Farinella, prete
L’OCCUPAZIONE DELLA LINGUA ITALIANA: L’ITALIA E LA VERGOGNA.
Democrazia in crisi, società civile anche
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 07.11.2009) *
Sulla crisi della democrazia, non mi pare che ci sia molto da dire, in più di quel che sappiamo. Se non bastasse la realtà di cui tutti facciamo esperienza nei piccoli e grandi rapporti di vita quotidiana - prima ancora che nella vita delle istituzioni - , ci sono studi ponderosi che parlano della democrazia odierna nella luce spettrale di un "totalitarismo capovolto".
Si elaborano griglie concettuali per "misurare" le democrazie esistenti, e ciò meno per rilevare progressi, e più per attestare regressi verso il punto-zero al di là del quale, di democratico, resta la forma ma non la sostanza. Ritornano antiche immagini biologiche delle società, paragonate ai corpi naturali viventi che, come nascono, sono destinati a morire. Nulla, nelle opere degli uomini è eterno e così, oggi, quest’idea del ciclo vitale si applica alla democrazia.
La caduta dei totalitarismi del secolo scorso sembrava avere aperto l’èra della vittoria della democrazia su ogni altra forma di governo degli uomini. Dalla seconda metà del secolo XX, si cominciò a mettere tutte le concezioni e le azioni politiche in rapporto con la democrazia, diventata quasi un concetto idolatrico comprensivo di tutte le cose buone e belle riguardanti gli Stati e le società, in tutte le loro articolazioni, dalla famiglia, al partito, al sindacato, alle Chiese, alla comunità internazionale.
Questa connotazione positiva era un rovesciamento di antiche convinzioni. Fino allora, la democrazia era stata associata all’idea della massa senza valore, egoista, arrogante, faziosa, instabile e perciò facile preda dei demagoghi. Il giudizio negativo di Platone fece scuola nei secoli: la democrazia come regime in cui il popolo ama adularsi, piuttosto che educarsi: «Un tal governo non si dà alcun pensiero di quegli studi a cui bisogna attendere per prepararsi alla vita politica, ma onora chiunque, per poco che si professi amico del popolo».
Oggi, nel senso comune, non c’è un ri-rovesciamento a favore di concezioni antidemocratiche. C’è piuttosto un accantonamento, un fastidio diffuso, un "lasciatemi in pace" con riguardo ai discorsi democratici che, sulla bocca dei potenti, per lo più puzzano di ideologia al servizio della forza e, nelle parole dei deboli, spesso suonano come vuote illusioni. Non c’è bisogno di consultare la scienza politica per incontrare sempre più frequentemente una semplice domanda - «democrazia: perché?» - , una domanda che, solo a formularla, suona come espressione del disincantamento a-democratico del tempo presente e mostra tuttavia l’oblio di una durissima verità: che, salve le differenze esteriori, prima della democrazia c’è stata una dittatura e, dopo, ce ne sarà un’altra.
Che bisogno c’è oggi, in effetti, di democrazia? Con questa domanda, ci spostiamo dalla parte della "società civile". È lì la sua sede, il luogo della sua forza o della sua debolezza.
Nel senso in cui se ne parla correntemente oggi, la società civile è il luogo delle energie sociali che esprimono bisogni, attese, progetti, ideali collettivi, perfino "visioni del mondo", che chiedono di manifestarsi e trasformarsi in politica. Chiedono di prendere parte alla vita politica e di esprimersi nelle istituzioni: chiedono cioè democrazia. Se la società si spegne, cioè si ripiega su se stessa e sulle sue divisioni corporative, essa diviene incapace di idee generali, propriamente politiche, e il suo orizzonte si riduce allo status quo da preservare, o alle tante posizioni particolari ch’essa contiene - privilegi grandi e piccoli, interessi corporativi, rendite di posizione - da tutelare.
Basta allora l’amministrazione dell’esistente; cioè la tenuta dell’insieme e la tutela dell’ordine pubblico: in altre parole, la garanzia dei rapporti sociali de facto. Di fronte a una società politicamente inerte può ergersi soltanto lo Stato amministrativo che si preoccupa di sopravvivenza, non di vita; di semplice, ripetitiva e, alla lunga, insopportabile riproduzione sociale.
Ma, se questo - la sopravvivenza - è il mandato dei governati ai governanti, ciò che occorre è soltanto un potere esecutivo forte e un apparato pubblico almeno minimamente efficiente. Non c’è bisogno di politica e, con la politica, scompare anche la democrazia. Infatti, mentre ci può essere politica senza democrazia, non ci può essere democrazia senza politica. Non avendo nulla di nostro che vogliamo realizzare, tanto vale consegnarci nelle mani di un qualche manovratore e, per un po’, non pensarci più.
Con queste considerazioni, si spiega l’orientamento che a poco a poco prende piede, a favore di un ri-disegno dei rapporti tra i poteri costituzionali, con l’esecutivo predominante sugli altri. L’investitura popolare diretta del capo, depositario d’un potere tutelare illimitato, contrariamente all’apparenza di parole d’ordine come innovazione, trasformazione, riforme, decisione, ecc. è perfettamente funzionale alla sconfitta della politica democratica, cioè della politica che trae alimento dalla vitalità della società civile. Non solo: più facilmente, sarà funzionale alla sconfitta della politica tout court e alla vittoria della pura amministrazione dell’esistente, cioè alla cristallizzazione dei rapporti sociali esistenti. Di per sé, il pericolo non è l’autoritarismo, anche se può facilmente diventarlo, le volte in cui si tratta di cancellare o reprimere istanze politiche non integrabili nell’amministrazione dell’esistente. Il pericolo immediato è la garanzia della stasi, cioè la decomposizione ulteriore della nostra società in emarginazioni, egoismi, ingiustizie, illegalità, corruzione, irresponsabilità.
Se non si tratta necessariamente di autoritarismo, non è nemmeno un semplice ammodernamento della Costituzione. L’impianto su cui questa è stata consapevolmente costruita è quello di una società civile che esprime politica, a partire dai diritti individuali e collettivi, per concludersi nelle istituzioni rappresentative, con i partiti come strumenti di collegamento. Questa costruzione costituzionale, però, è soltanto un’ipotesi. I Costituenti, nel tempo loro, potevano considerarla realistica. I grandi principi di libertà, giustizia e solidarietà scritti nella prima parte della Costituzione, allora tutti da attuare, segnavano la via lungo la quale quell’ipotesi avrebbe trovato la sua verifica storica. La società italiana, o almeno quella parte della società che si identificava nei partiti, poteva darle corpo. Si può discutere se e in che misura questo corpo sia stato fin dall’inizio deformato dalla "partitocrazia" e se, quindi, le istituzioni costituzionali siano diventate uno strumento di affermazione più di partiti, che della società civile, tramite i partiti. Tutto questo è discusso e discutibile. C’erano comunque istanze politiche che chiedevano accesso alle istituzioni. La democrazia costituzionale si è costruita su questa ipotesi, che per un certo tempo ha corrisposto alla realtà.
Ora, siamo come a un bivio. La strada che si imboccherà dipende dall’attualità o dall’inattualità di quell’ipotesi. Noi non contrasteremo le deviazioni dall’idea costituzionale di democrazia soltanto denunciandone l’insidia e i pericoli, cioè parlandone male. In carenza di una sostanza - cioè di istanze politiche venienti da una società civile non disposta a soggiacere a un potere che cala dall’alto - perché mai si dovrebbero difendere istituzioni svuotate di significato? Le istituzioni politiche vitali sono quelle che corrispondono a bisogni sociali vivi. Se no, risultano un peso e sono destinate a essere messe a margine.
Qui si innesta il compito della società civile, nei numerosissimi campi d’azione che le sono propri, e delle sue tante organizzazioni che operano spesso ignorate e sconosciute, le une alle altre. La formula di democrazia politica che la Costituzione disegna è per loro. La sua difesa è nell’interesse comune. Non c’è differenza, in questo, tra le associazioni che operano per la promozione della cultura politica e quelle che lavorano nei più diversi campi della vita sociale. C’è molto da fare per unire le forze. E c’è molto da chiedere a partiti politici che vogliano ridefinire i loro rapporti con la società civile: innanzitutto che ne riconoscano quell’esistenza che troppo spesso è stata negata con sufficienza, e poi si pongano, nei suoi confronti, in quella posizione di servizio politico che, secondo la Costituzione, è la loro.
*
Questo testo sarà letto domani dall’autore all’incontro annuale di "Libertà e Giustizia" che inizia oggi al Palazzo Ducale di Genova.
Il presidente della Repubblica scrive all’associazione delle toghe "Servono riforme non occasionali e che siano per i cittadini"
Napolitano: "Garante della magistratura
l’Anm sia sempre aperta al dialogo" *
ROMA - "Sono e resto garante dei principi fondamentali di indipendenza ed autonomia della magistratura". Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in una lettera al Presidente dell’Anm Luca Palamara, riafferma il ruolo del Colle sul delicato tema della giustizia. E lo fa mentre le tensioni tra toghe e governo sono acuite dall’intenzione dell’esecutivo di mettere mano alla riforma. Non dimenticando "l’inquietante attacco mediatico" al giudice Mesiano. "Serve un confronto equilibrato, l’Anm sia aperta al dialogo" dice Napolitano che risponde così alla lettera che l’Anm gli aveva inviato il 16 ottobre scorso.
Quelle che servono sono "riforme nè occasionali nè di corto respiro", le stesse che si augurano quelli "che hanno a cuore un soddisfacente esercizio della fondamentale funzione di presidio della legalità, al servizio del cittadino e dei suoi diritti, nel rispetto reciproco e nella leale collaborazione tra tutte le istituzioni".
Per realizzare riforme del genere, è questo l’invito del capo dello Stato all’associazione dei magistrati, "l’Anm deve continuare a guardare a tutti i motivi e gli aspetti della crisi del sistema giustizia, offrendo,con rigore, con misura e senza scendere sul terreno dello scontro, la sua disponibilità a concreti contributi propositivi, come un interlocutore attento e credibile, fermo nella difesa dei principi fondamentali di indipendenza e autonomia".
Principi di cui Napolitano si dice "garante", non mancando di sottolineare le preoccupazioni per "l’acuirsi della tensione tra le istituzioni della Repubblica, e in particolare tra quelle in cui s’incarnano i rapporti tra politica e giustizia".
Immediata la reazione dell’Anm che si dice "impegnata" a contribuire ad una riforma per i cittadini, sottolineando "le parole chiare" di Napolitano sull’indipendenza dei giudici.
* la Repubblica, 6 novembre 2009
La patria non è lui
di Giovanni Maria Bellu *
In fondo il ragionamento non fa una grinza: io sono l’Italia, dice il premier, e dunque chi mi «sputtana», in realtà «sputtana» la patria. È giusto. La patria è sacra. Bisogna amarla in tutte le circostanze. C’è una guerra? E tu devi combattere per la patria. Un’immane catastrofe naturale? E tu devi ricostruire la patria. Mica puoi prendertela con lei. Sputtanarla, poi...
Il piano di Silvio Berlusconi per farsi patria ha avuto un’accelerazione formidabile dopo l’individuazione di alcune organizzazioni anti-italiane operanti nel territorio nazionale: la Corte costituzionale che ha vilipeso il lodo Alfano, argine giuridico creato a difesa della patria, e il presidente della Repubblica il quale si ostina a considerare patria quel territorio delimitato a nord dalle Alpi, attraversato longitudinalmente dagli Appennini e circondato dal Mar Mediterraneo.
Al contrario, per esempio, del ministro Maria Vittoria Brambilla che, rivela qua accanto il nostro Congiurato, reputa Silvio Berlusconi parte del patrimonio turistico nazionale, come il Colosseo, il campanile di Giotto e Piazza San Marco. O del ministro ombra degli Esteri Franco Frattini che, ci racconta il collega danese Mads Frese, continua a tenere impegnati i nostri sempre più imbarazzati ambasciatori nella titanica impresa di convincere la stampa estera che Silvio Berlusconi e il Canal Grande sono la stessa cosa.
Impresa, oltretutto, resa ancora più complessa dal verbo temerariamente scelto dal premier per denunciare le attività antipatriottiche. All’uditore straniero che per seguire le recenti cronache politiche italiane ha dovuto arricchire il suo vocabolario di parole che non aveva studiato nel corso di lingua, il verbo «sputtanare», più che un’attività anti-italiana, evoca le attività del premier medesimo.
Ma non illudiamoci che lo sgomento del mondo sia sufficiente a salvarci. Silvio Berlusconi non se n’è mai curato, come dimostra l’assoluto sprezzo del ridicolo con cui continua ad affrontare gli impegni internazionali. Gli basta essere patria in patria. Cioè nel luogo dei suoi interessi e dei suoi affari. Ha un piano. Rozzo ed efficace, come ci spiega Claudia Fusani: utilizzare il consenso di cui ancora gode per accelerare la svolta presidenzialista. Modificare il sistema costituzionale. Delegittimare il capo dello Stato e prenderne il posto. Fantapolitica? C’è stato un tempo, nemmeno tanto lontano, in cui la descrizione del quadro attuale sarebbe stata liquidata come fantasia pura. La stiamo vivendo. Ed è qua che lo sbalordimento mondiale per il premier si estende a tutti noi. Leggiamo, alle pagine 4 e 5, le cronache sugli scandali in corso in Francia, Spagna, Inghilterra. Robetta rispetto alla nostra. Bazzecole. Eppure la stampa le denuncia, i politici sono costretti a dare spiegazioni, a dimettersi, a restituire il maltolto, anche quando si tratta di poche centinaia di sterline. «È un problema di diverse sensibilità», dice magnanimamente a Roberto Brunelli Michael Braun, corrispondente a Roma del tedesco Die Tagesszeitung. Già, solo la sensibilità democratica di chi ci vive può salvare la patria. Quella vera.
(Filo rosso del 14 ottobre 2009)
* Nemici Il blog a cura di Giovanni Maria Bellu 13/10/2009 09:30
La Stampa, 17/10/2009 (18:26)
RIFORME
E’ SCONTRO APERTO
Giustizia, le toghe contro Berlusconi
"La democrazia del Paese è a rischio"
L’Anm dichiara stato di agitazione.
Mancino frena il piano del governo
«Assurdo un Csm sotto il ministero»
Duro Alfano: «Guerra preventiva»
ROMA Cresce la polemica sul fronte giustizia. Ieri il premier Berlusconi ha annunciato l’intenzione di andare avanti sulla strada di una riforma costituzionale «anche a costo di arrivare ad un referendum». Oggi arriva la replica di Anm e Csm.
«A chi dice che bisogna fare un doppio Csm io dico che non si può, perchè uno dei due dovrebbe andare sotto al ministero della Giustizia, il che è assurdo» è la reazione del vicepresidente dell’organo di autogoverno dei magistrati, Nicola Mancino. «O si è giudici e si è indipendenti, oppure si è qualcos’altro e bisogna vedere che cos’è questo qualcos’altro». «Al momento non c’è un testo di riforma - ha spiegato Mancino a margine di una conferenza organizzata dall’Ordine degli avvocati di Avellino - e quindi non si può esprimere un parere. Ci sono propositi, molti velleitari, molti duttili e prudenti, molti altri non ancora definiti. Quando ci sarà una proposta definitiva, che è nei poteri del Governo formulare, allora noi ci esprimeremo».
Ancora più dura la reazione dell’Anm che ha dichiarato lo stato di agitazione e convocazione di assemblee in tutti i distretti giudiziari per decidere le future iniziative di protesta da adottare, non escluso lo sciopero. Il parlamentino dell’Anm parla di riforme «punitive» nei confronti della magistratura. Le iniziative sono state decise all’unanimità e con un documento che definisce «stupefacente e vergognoso» il fatto che il giudice Raimondo Mesiano, «reo unicamente di aver pronunciato una condanna della Fininvest al pagamento di una somma di denaro in una controversia civile, venga spiato e inseguito dalla rete televisiva di tale gruppo mentre compie le proprie attività quotidiane», il tutto per «denigrare e svilire la sua persona».
Dura la reazione del ministro Alfano che parla di «sapore di una guerra preventiva alle riforme», oltre ad essere «inspiegabile, sorprendente e dunque pretestuosa». Ma per il il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara «è a serio rischio la tenuta democratica del Paese» a introdurre l’argomento al parlamentino del sindacato delle toghe. La preoccupazione è massima e riguarda non solo le «aggressioni alle massime autorità del Paese», come dice il segretario dell’Anm Giuseppe Cascini, ma anche «l’intimidazione» al giudice del tribunale civile di Milano Raimondo Mesiano, e le riforme «brandite come una clava» e finalizzate a ridurre l’indipendenza del pubblico ministero, sottoponendolo al potere esecutivo. La magistratura è unita. E i rappresentanti di tutte le correnti parlano espressamente di «emergenza democratica»; anche il gruppo più moderato, Magistratura Indipendente, che in questo momento è all’opposizione del governo dell’Anm, ma che è pronto a fare una battaglia comune a difesa dell’indipendenza della magistratura.
Il parlamentino ha dunque dato «un segno tangibile di protesta per ciò che sta accadendo», come auspicato dallo stesso Palamara. L’allarme delle toghe è dunque molto alto per le «aggressioni» non solo alla magistratura ma anche alle massime autorità di garanzia del Paese. «Sono state rivolte accuse di partigianeria alla Corte costituzionale e al capo dello Stato», dice Cascini che definisce poi «l’intimidazione» rivolta al giudice Mesiano, che ha condannato la Fininvest al risarcimento in favore della Cir di De Benedetti, «un messaggio per tutti: chi esercita un potere in maniera indipendente stia attento ai suoi scheletri; chi ha la televisione, i giornali, il potere mediatico può distruggere una persona». Un messaggio «molto più grave, rispetto alle riforme annunciate in materia di giustizia». «In gioco non è la sopravvivenza dell’ordine giudiziario, ma il destino della democrazia», osserva il segretario di Unicost Marcello Matera, che rivolge un appello all’unità per una «mobilitazione culturale e istituzionale, a difesa delle fondamenta dello Stato democratico».
E di «vera emergenza democratica» parla anche Rita Sanlorenzo, che sottolinea che «mai si era arrivati a questo punto». «C’è un totale intolleranza per il ruolo di tutte le istituzioni di garanzia, non solo per la magistratura», rilancia Valerio Fracassi, segretario del Movimento per la giustizia, che propone «uno sciopero per la democrazia». «Quello in atto è l’attacco finale definitivo», afferma a sua volta Antonietta Fiorillo, esponente di Magistratura Indipendente, che invita il parlamentino a lanciare un «messaggio forte: noi magistrati non ci faremo intimidire».
Il coraggio della stampa
di EUGENIO SCALFARI *
Ho letto con doverosa attenzione la duplice risposta che Ferruccio de Bortoli ha dato al mio articolo di domenica scorsa per la parte che lo riguardava. Purtroppo è la risposta tipica di chi, non volendo confrontarsi con il tema in discussione, lo sposta su un altro obiettivo. Nel caso specifico sull’oggettività dei giornali o la loro faziosità. Aggiungo che ieri il Tg1 è anch’esso intervenuto a suo modo e a supporto di un resoconto di genere minzoliniano ha intervistato Belpietro e Antonio Polito i quali non hanno trovato di meglio che dichiarare la loro non appartenenza al mio partito e la loro solidarietà con il direttore del Corriere della Sera.
Questi due colleghi fanno da tempo parte organica del club di Bruno Vespa ed è evidente che prendano da me tutte le distanze possibili. Quanto a quello che viene definito "il mio partito", la locuzione significa "le mie idee" che chiunque è liberissimo di non condividere. Ma se questa non condivisione diventa un fatto politico, bisogna domandarsene il perché e con ciò torniamo a de Bortoli.
Il tema della discussione da me aperta è quello di esaminare se la stampa italiana si stia rendendo conto della deriva in avanzato corso verso un regime autoritario, nella direzione voluta dal capo del governo. Una deriva che implica una concentrazione di potere nelle mani del presidente del Consiglio e un contemporaneo indebolimento o addirittura cancellazione degli organi di controllo e di garanzia ancora esistenti: magistratura inquirente e giudicante, autorità che sovrintendono a importanti settori a cominciare da quella "Antitrust", poteri di controllo del Parlamento, Corte costituzionale, presidente della Repubblica, stampa e emittenti radio-televisive.
A nostro avviso una notevole parte della stampa e delle emittenti radio-televisive non sta informando i cittadini della gravità di quanto accade sotto i nostri occhi, smorza volutamente il significato dei fatti e dei comportamenti adottando il metodo così bene illustrato nei "Promessi sposi" laddove il Manzoni racconta il colloquio tra il Conte-zio e il padre generale dei Cappuccini al quale si chiedeva di trasferire in altra sede il combattivo fra Cristoforo che difendeva i poveri Renzo e Lucia dalle soperchierie di don Rodrigo. "Sopire, troncare, padre reverendo; troncare, sopire". Così diceva il Conte-zio e così fu costretto a fare il generale dei Cappuccini. La conseguenza fu l’intimazione a don Abbondio di non eseguire quel matrimonio, il rapimento di Lucia, la fuga di Renzo. Non ci fosse stato il pentimento dell’Innominato e poi la peste, quel matrimonio non si sarebbe mai fatto. Spesso la grande letteratura serve a capire i fatti quotidiani molto di più dell’acume di chi scrive sui giornali dove i don Abbondio abbondano. Sicché bastò un editto del premier a far buttare fuori dalla tivù Biagi e Santoro ed un altro più recente a far dimettere Giulio Anselmi dalla Stampa e Paolo Mieli dal Corriere della Sera.
Io mi guardo bene dall’augurarmi che de Bortoli condivida le nostre idee e capisco anche che - come scriveva il Manzoni - "il coraggio chi non ce l’ha non se lo può dare". Ma da qui a sottacere il significato della deriva italiana, morale, politica, economica, sbandierando come titoli di merito verso il governo gli articoli scritti in suo favore, quelli scritti a suo tempo contro il governo Prodi, infine la definizione di Repubblica come un gruppo editoriale nemico del premier e degli interessi del Paese, ebbene questo è un modo volutamente rassegnato di praticare una professione che ha come primo principio deontologico quello di controllare il potere ad ogni passo e in ogni istante.
I giornali non sono partiti ma sentinelle a guardia del pubblico interesse, che dovrebbero rimandarsi l’un l’altro la parola d’ordine e la risposta: "All’erta sentinella", "All’erta all’erta sto". Ebbene, era questa la risposta che speravo d’avere dal direttore del Corriere della Sera. Non l’ho avuta e me ne dispiaccio assai, non per me ma per lui.
De Bortoli sostiene che Repubblica non l’ha mai difeso quand’era sotto attacco da parte del potere politico. Hai una memoria debole, caro Ferruccio. E perciò cercherò di aiutarti a ricordare citando un mio articolo dell’8 giugno del 2003, poche settimane dopo le tue dimissioni dal Corriere della Sera.
"Misteriose dimissioni, è il meno che si possa dire, perché il protagonista della vicenda le ha blindate con la motivazione delle "ragioni private", con la stanchezza d’una funzione esercitata per oltre sei anni e resa più difficile dalle frequenti pressioni del potere politico, del resto effettuate alla luce del sole. Ma resta un problema: come mai un governo di centrodestra che si dichiara in ogni occasione corifeo dei valori liberal-democratici, mette sotto accusa e attacca come traditore di quei valori un giornale che ha fatto del "terzismo", dell’equidistanza tra le parti politiche in conflitto, della tecnica pesata col bilancino d’un colpo al cerchio e uno alla botte, la sua divisa e la sua funzione?".
Quella mia domanda di allora è rimasta senza risposta ma è ancor più attuale oggi. De Bortoli dirige per la seconda volta il Corriere della Sera dopo l’esperienza conclusa nel 2003. Quell’esperienza è evidentemente ben viva nella sua memoria; adesso conosce meglio i limiti entro i quali può muoversi e li rispetta con maggiore attenzione. Perciò si preoccupa e si addolora se il premier, non contento della sua prudenza, lo avverte che dev’esser più attento e più docile.
Del resto, sempre in tema di direzione del Corriere della Sera, il nostro vicedirettore Massimo Giannini scrisse il 3 dicembre del 2008 un articolo di fondo intitolato "L’editto albanese", quando durante una visita di Stato a Tirana, Berlusconi disse che Giulio Anselmi e Paolo Mieli "dovevano cambiare mestiere". Scrisse Giannini: "Dietro quelle parole del Cavaliere c’è una visione totalitaria della democrazia che tra un editto e l’altro sta ormai precipitando in un’autocrazia".
La cosa singolare è che tutta la stampa internazionale, quella progressista e anche quella conservatrice, considera il nostro premier come un personaggio che ha ormai sorpassato ogni limite accettabile. Dopo i suoi attacchi alla Corte costituzionale e al capo dello Stato lo descrive come un pericolo per tutti, portatore di un virus infettivo il cui solo contatto è rischioso. Leggete il Newsweek di questa settimana che è l’esempio più recente di questa preoccupazione.
Io vorrei, noi vorremmo, che la stampa italiana non fosse meno lucida e meno coraggiosa di quella internazionale. Mi sembra purtroppo un vano desiderio.
COSTITUZIONE, LINGUA E PAROLA.....
Se il cavaliere vuole farsi stato
di Giuseppe D’Avanzo (la Repubblica, 12.10.2009)
Non si riesce a tenere il conto delle menzogne e dei ricatti che l’Egoarca riesce a distillare nei suoi flussi verbali, ormai oltre ogni controllo di ragionevolezza, del tutto catturati dal suo disturbo narcisistico. Stiamo ai fatti. Il lucidissimo furore di Berlusconi si accende per i pasticci che si combina da solo, con la sua compulsività.
Frequenta minorenni; riempie palazzi e ville di prostitute arruolate da un ruffiano; trascura gli affari di Stato per allegre scorribande amorose. Contestato dalla moglie in pubblico, se ne va nel luogo pubblico per eccellenza - la televisione - per recuperare (sa di doverlo fare) un’apprezzabile accountability. Sbaglia la mossa. Esige che le sue favole diventino scritture sacre. Se non accade - e non accade - s’infuria. Ingaggia maschere con mazza ferrata che, dai giornali e tv che controlla, fanno per lui il lavoro più sporco, "assassinando" la personalità di chi gli appare, anche da lontano, «un nemico». Scatena gagliofferie, aggressioni, conflitti che (lungo l’elenco) investono, nel tempo, la moglie; impauriti testimoni delle sue imbarazzanti avventure; la Repubblica; il suo editore; il suo direttore; l’Unità; addirittura il salmodiante Corriere della sera; la stampa internazionale tutta; il servizio pubblico televisivo che non è al suo servizio; un pugno di comici, il cinema nazionale; l’Avvenire; la Conferenza episcopale italiana; il presidente della Camera; il presidente della Repubblica; la Corte Costituzionale; la magistratura tutta; un’opposizione che, peraltro, è oggi una bottega chiusa per inventario.
L’Egoarca mostra, dietro il sorrisone, come il suo potere sia pura, nuda violenza. Non guadagna un punto. Ne ricava soltanto il discredito internazionale, un distruttivo «sputtanamento» che si completa, nelle opinioni pubbliche e nelle cancellerie d’Occidente, quando, con posa da bauscia al bar nell’ora del "camparino", si vanta di aver convinto George W. Bush a mettere sul tavolo 700 miliardi di dollari per far fronte alla crisi finanziaria; di aver detto a quei due, Barack Obama e Vladimir Putin, di far la pace altrimenti non li avrebbe invitati al G8 di cui deve essere il proprietario; di «aver mandato Sarkozy» all’Est dopo avergli spiegato quel che avrebbe dovuto dire per risolvere la crisi georgiana; di essere messaggero presso il Papa, in un incontro della durata di minuti 3, dei «saluti di Obama», come se il presidente degli Stati Uniti d’America avesse bisogno dell’Egoarca per discutere con Joseph Ratzinger. Un premier così garrulo e vanìloquo, che crede di potersi muovere sulla scena pubblica come tra le plaudenti prostitute ingaggiate per il salotto di Palazzo Grazioli, non ha bisogno di essere screditato. Si scredita da solo con le sue mani e, con le sue parole e condotte, disonora e danneggia l’intero Paese. Oggi se c’è in giro un antagonista della rispettabilità dell’Italia nel mondo è Silvio Berlusconi. Lo sappiamo noi, lo sanno i caudatari e le congreghe che lo sostengono, lo sa chiunque guardi ai nostri affari da oltre confine.
L’Egoarca non se ne cura. Il suo Io ipertrofico non ammette interlocutori, consigli, regole, critiche, misura istituzionale, saggezza politica. Ubriaco dei sondaggi che gli servono (ma sono sinceri?), è incapace di guardare in faccia la realtà che si è cucinato da solo e che ogni giorno irresponsabilmente riscalda. Sarebbe un errore tuttavia credere che i suoi coups de théatres siano dominati dall’istinto. Bisogna sempre guardare che cosa bolle nella pentola dell’Egoarca. L’uomo è lucidissimo. Nella brodaglia che ha scodellato a Benevento si coglie un cambio di strategia, un ritorno all’antico.
Come se quindici anni non fossero passati, Berlusconi evoca i fantasmi mentali di allora, ricostruisce lo stesso contesto di grande forza evocativa che gli portò fortuna a partire dal 1993. Suona così. Un manipolo di toghe «di sinistra» mi minaccia come già accadde nel 1994 quando azzopparono il mio primo governo con un avviso di garanzia. Con la complicità della magistratura, «la sinistra» vuole espropriare il popolo del suo voto. Per farlo, con la correità di un presidente della Repubblica «di sinistra», la Corte costituzionale «di sinistra» ha dovuto contraddirsi mentre un giudice «di sinistra» aggredisce le mie aziende.
Non c’è una parola di quel che dice l’Egoarca che corrisponda ai fatti. Nel 1993 la corruzione inghiotte ogni anno 10mila miliardi di lire mentre l’indebitamento pubblico - cresciuto del 92 per cento negli anni dei governi dell’«amico Craxi» - oscilla tra i 150 e 250 mila miliardi, più 15/25 mila miliardi di interessi annui. La Prima Repubblica crolla non per la pressione della magistratura (una favola), ma per la disperazione di chi non può più pagare il prezzo della corruzione alla politica e denuncia i corrotti. Berlusconi, prossimo al fallimento, è creatura di quel sistema politico. Gli ha assicurato ogni privilegio. Quaglia pronta al salto, si apposta però sotto le insegne dell’antipolitica e vince. Entusiasta di quelle toghe che gli hanno aperto la strada al potere, offre a due di loro (Davigo e Di Pietro) la poltrona di ministro (rifiutano). Cade quando Bossi non ne può più dei maneggi corruttivi dell’alleato che gli stanno mangiando la Lega e decide di voltargli le spalle il 6 novembre del 1994, due settimane prima che Berlusconi riceva l’avviso di garanzia che ancora oggi lo fa tanto strepitare.
Come accade per la disonorevole vita privata che conduce, l’inesauribile ripetizione di concetti inconsistenti ci mostra come la menzogna abbia un primato nella "politica narrativa" di Berlusconi. Sia il nucleo più autentico del suo sistema politico. Abbia una funzione essenziale perché abitua alla confusione e infine all’indifferenza, a un presente smemorato, a una grottesca distanza tra quel che si dice e quel che è accaduto davvero. È in questo varco che il Berlusconi «sputtanato» intende muoversi (e si muoverà) con un nuovo obiettivo. Lo sollecitano due eventi, nulla che abbia a che fare con l’interesse nazionale. Il primo, con tutta evidenza. È una controversia tra due società private, la Fininvest di Berlusconi, la Cir di De Benedetti (è l’editore di questo giornale). Anche il secondo evento, a pensarci, non è di interesse pubblico. Non si discute - come pure sarebbe legittimo - la reintroduzione nella Carta costituzionale dell’immunità per i rappresentanti del popolo, cancellata dopo 45 anni nel 1993.
Si discute dell’impunità di Berlusconi. Di uno solo perché tra le quattro alte cariche che ne hanno diritto con la "legge Alfano" soltanto Berlusconi ha gravi rogne giudiziarie per comportamenti tenuti - peraltro - quando ancora non era né un leader né il premier. Quindi, sono due fatti privati di un uomo diventato con gli anni capo di governo, sostenuto da una granitica maggioranza cui il Paese chiede di governare, a scatenare una paralizzante "guerra di religione" che travolge ogni cosa e destino, uomini e istituzioni, riattivando una falsa «narrazione» cara all’Egoarca e ai suoi corifei.
Se la "narrazione" sa di muffa, l’obiettivo è novissimo. Se nel 1994 gli venne buona per governare, oggi è utile per un’altra manovra che si scorge ormai a occhio nudo. Che cosa sono le aggressioni al capo dello Stato? Perché la denigrazione della Corte costituzionale? Perché l’annuncio di una vendicativa riforma della giustizia? Come giustificare la segreta e abusiva raccolta di informazioni (è accaduto negli archivi del Csm) che, opportunamente manipolate, serviranno per bastonare il giudice che gli ha dato torto? Come sempre per difendere se stesso e i suoi privatissimi interessi, l’Egoarca non si accontenta più di fare le leggi che altri, da lui separati, vaglieranno e applicheranno.
Egli vuole liberarsi di ogni potere di controllo. Non si accontenta, con 344 seggi alla Camera e 174 al Senato, di poter fare le leggi. Esige anche il monopolio di farle valere. Screditandoli perché «di parte», reclama anche il possesso diretto e legale degli strumenti di potere statali. Ha soltanto una maggioranza, ma manco fosse un premio politico, un plusvalore politico che gli è dovuto, pretende di essere lo Stato. Dice: il popolo lo vuole. Dimentica che, dei 36 milioni di italiani che hanno votato il 13 e 14 aprile 2008, 17 milioni sono con lui e 19 milioni gli hanno voltato le spalle, se non si vuol contare quei due italiani su dieci che, astenendosi, si sono chiamati fuori dalla contesa. All’Egoarca va ricordato che non è l’Italia, è solo il provvisorio capo di un governo. Purtroppo, come dargli torto, molto «sputtanato».
Le urne usate come minaccia
di GIAN ENRICO RUSCONI (La Stampa, 9/10/2009)
Ci siamo fermati sull’orlo del precipizio, davanti allo scontro frontale delle istituzioni. Sussurri e grida ce ne saranno ancora; voleranno parole grosse, indegne di un sistema democratico normale o semplicemente decente. Ma ormai ci siamo abituati. L’incontinenza verbale nei media e sulle piazze accompagna la nostra mutazione democratica.
Sulle conseguenze immediate della sentenza della Consulta, il presidente del Consiglio e l’opposizione sembrano dire la stessa cosa: la politica deve andare avanti, perché la giustizia si muove su un altro piano. I due piani non interferiscono e non devono interferire. Un’affermazione del genere sarebbe stata inconcepibile anni or sono, quando è incominciato tutto. È una contraddizione? È una resipiscenza? No. È una finzione. Infatti il rapporto conflittuale tra politica e giustizia, per quanto riguarda il presidente del Consiglio, non si è affatto risolto ma ha contribuito a cambiare radicalmente il quadro politico.
Berlusconi e il Pd hanno in mente due «continuità» della politica molto diverse. All’offensiva quella del premier, in difensiva quella dell’opposizione. La prima mira a cambiare le regole del gioco democratico, l’opposizione ritiene invece di poter contare sulla tenuta di quel che resta della struttura istituzionale e della rappresentanza politica tradizionale. Dietro lo scontro tra maggioranza e minoranza c’è un paese profondamente diviso e incattivito come non mai. Si annunciano mobilitazioni sotto tutti i segni.
Al di là della cronaca di queste ore, cerchiamo di capire la dinamica di fondo che è in atto e che produce la mutazione della nostra democrazia. Berlusconi dispone di due risorse importanti: il sostegno della sua maggioranza parlamentare e lo spregiudicato attivismo di un potente sistema informativo. Eppure maggioranza e apparato mediatico nulla potrebbero senza il «popolo» berlusconiano. Questa è la vera risorsa vincente, usata come una minaccia contro gli avversari.
Una rivoluzione di mentalità
È straordinario come il Cavaliere sia riuscito a ri-attivare l’idea stessa di «popolo» versando il prestigio di questo antico concetto in forme nuove. Quello di Berlusconi infatti è il popolo di chi lo ha votato - è il popolo-degli-elettori che si considera senz’altro il demos, depositario dell’intera sovranità. È la sovranità che la Corte costituzionale ritiene di interpretare e che ora viene brandita minacciosamente contro di essa. Non si insisterà mai abbastanza su questa rivoluzione di mentalità. Chi vota e vince con Berlusconi pretende di cambiare le regole, tutte le regole, anche quelle costituzionali. L’atteggiamento predatorio nei confronti della Costituzione si accompagna a una esasperata politicizzazione (o accusa di politicizzazione) di tutti gli ambiti istituzionali. Tutto è diventato politico in senso partitico. Si tratta di una politicizzazione basata sulla coppia amico/nemico.
Aggressione verbale pericolosa Non sorridiamo più quando Berlusconi e i suoi sostenitori vedono ovunque «comunisti» o «sinistra» come nemici da neutralizzare. Ma non siamo per niente tranquillizzati se dal campo della sinistra o comunque degli oppositori di Berlusconi si replica con gli stessi toni. L’aggressione verbale diventa pericolosa quando investe il fondamento costituzionale della separazione dei poteri dello Stato democratico. In tutti i paesi democratici del mondo le Corti supreme rispecchiano gli orientamenti politici delle rispettive nazioni - dagli Stati Uniti alla Germania. Ed è tutt’altro che infrequente che si avanzino riserve su determinate sentenze imputandole proprio a maggioranze di parte. Ma, a prescindere dalla civiltà delle espressioni verbali normalmente usate, non si accetterebbero mai gli argomenti «politici» usati dal nostro premier quando commenta la sentenza della Corte.
Questo atteggiamento è strettamente connesso all’appello al popolo-elettore nel senso detto sopra. Il Presidente della Repubblica e i membri della Consulta sono stati scelti dalla parte politica avversa - insiste polemicamente Berlusconi - e quindi vanno trattati come avversari politici. L’idea del sapiente anche se faticoso equilibrio tra le istituzioni fondamentali, quale previsto dalla Costituzione, sembra estranea al nuovo populismo.
Il Times: «Ha gettato vergogna sull’Italia, ora deve dimettersi» *
«Silvio Berlusconi ha gettato vergogna su se stesso e sul suo paese con le sue buffonate sessuali e i suoi tentativi di evitare i processi. Ora si deve dimettere»: così il Times in un commento intitolato «Gotico italiano» a corredo dell’ampia copertura dedicata alla bocciatura del Lodo Alfano. L’articolo di cronaca titola: «I giudici danno un colpo mortale a Silvio Berlusconi». La vicenda ha grande spazio su tutti i giornali britannici. Dopo la sentenza della corte costituzionale, i processi contro il premier possono riprendere, dice il giornale: «Berlusconi è ora un imputato che affronta un processo penale».
«Berlusconi può restare al suo posto solo se il suo partito e i suoi alleati lo sostengono - argomenta il quotidiano - Ma sarebbero sciocchi a farlo. La disintegrazione della litigiosa sinistra ha convinto molti elettori che non c’è alternativa a Berlusconi, se l’Italia vuole un governo abbastanza forte da farle attraversare l’attuale, seria crisi. Berlusconi può quindi immaginare di essere ancora piuttosto popolare. È la classica auto-illusione di un uomo che si è convinto della propria propaganda, in larga parte portata dai giornali e dalle stazioni tv che possiede. Un’altra cosa che non ha capito è l’inquietudine generata dalla sua vicinanza con Vladimir Putin e Muammar Gheddafi, e il ridicolo che si è gettato addosso con le sue buffonate sessuali. Molti italiani hanno visto le rivelazioni sulle prostitute con indulgente divertimento. Ma il danno alla reputazione del suo paese, simboleggiato dal rifiuto di Michelle Obama di accettare il suo abbraccio, ha iniziato a mostrarsi: i suoi indici di popolarità hanno iniziato a cadere».
«Berlusconi - conclude Times - ha visto questo, così come la vicenda della corte costituzionale, come un complotto ordito dai suoi nemici politici. Non lo era. È nato dalla seria preoccupazione sull’onestà e la capacità di giudizio di un uomo che guida il governo di un’importante democrazia occidentale. Se il processo di Milano ricomincia, Berlusconi deve, come ogni altro cittadino, apparire in aula. Lì potrà esercitare il diritto di ogni cittadino a difendersi contro le accuse. Resta innocente finchè non sarà provato colpevole. Il processo, comunque, sarà un’enorme distrazione dal suo lavoro di primo ministro. Ha tentato di vivere al di sopra della legge; ora essa lo consumerà. È sicuramente il momento che Berlusconi smetta di mettere i suoi interessi prima di quelli del suo paese. Dovrebbe dimettersi».
* l’Unità, 08 ottobre 2009
La Stampa, 7/10/2009 (17:58)
LA SENTENZA
"Il Lodo Alfano è incostituzionale"
La Consulta boccia l’immunità
per le più alte cariche dello Stato:
«Serviva una legge costituzionale»
ROMA Il verdetto della Consulta è arrivato: il Lodo Alfano è incostituzionale. Dopo un’intera mattinata in camera di consiglio, i 15 giudici della Corte si sono riaggiornati nel pomeriggio ed hanno comunicato la bocciatura dell’immunità per le quattro più alte cariche dello Stato.
La Consulta ha bocciato il Lodo per violazione dell’art.138 della Costituzione, vale a dire l’obbligo di far ricorso a una legge costituzionale (e non ordinaria come quella usata per sospendere i processi nei confronti delle quattro più alte cariche dello Stato). Il Lodò è stato bocciato anche per violazione dell’art.3 (principio di uguaglianza). L’effetto della decisione della Consulta sarà la riapertura di due processi a carico del premier Berlusconi: per corruzione in atti giudiziari dell’avvocato David Mills e per reati societari nella compravendita di diritti tv Mediaset
L’illegittimità è stata votata da nove giudici su 15, sei i contrari. Nelle ultime ore era circolata l’ipotesi, poi smentita dalla sentenza, di una sorta di "terza via" che avrebbe consentito di salvare in parte la norma, sollevando vizi e suggerendo ritocchi da introdurre. Soluzione, quest’ultima, che avrebbe mitigato le forti reazioni al verdetto e che proprio per questo rappresenterebbe un accettabile compromesso per chi ha ruoli istituzionali. Il clima nei palazzi della politica è infuocato. Lo dimostrano le parole di questa mattina pronunciate da Umberto Bossi: se la Consulta bocciasse il Lodo Alfano, aveva avvertito il ministro leghista prima del pranzo con il presidente della Camera Gianfranco Fini, «noi entreremmo in funzione trascinando il popolo. E il popolo ce lo abbiamo, sono i vecchi Galli». Uscendo dallo studio di Fini il leader della Lega aveva rincarato la dose: se il lodo sarà bocciato, le elezioni regionali si trasformerebbero in un referendum a favore o contro Silvio Berlusconi. «Il popolo si esprimerebbe su Berlusconi e Silvio vincerà, grazie anche a alleati come noi».
Le opposizioni insorgono. Mentre Franceschini parla di «esplicita intimidazione» alla Corte costituzionale, il candidato alla segreteria del Pd Bersani manda un avvertimento preciso alla Lega: «Bisognerà finirla di fare pressioni sulla Consulta: Bossi ricordi che il popolo non ce l’ha solo lui». «E’ un fatto gravissimo - protesta l’esponente del Pd Andrea Martella - che un ministro della Repubblica interferisca in maniera tanto plateale in una decisione della Corte costituzionale, tra l’altro a camera di consiglio aperta. Non è questo il momento di instillare altro veleno nella vita del Paese. Il governo e gli esponenti della maggioranza si fermino». «Le minacce di insurrezione di Bossi sono irresponsabili e qualcuno dovrebbe fermarlo e ricordargli che è un ministro della Repubblica e non un semplice militante del suo partito» afferma Marina Sereni, vicepresidente dei deputati Pd.
Il Times sugli avvocati del premier
"Come il doppio pensiero di Orwell"
ROMA - "Un interessante esempio di ’doublethink’ (il "doppio pensiero" di Orwell, ndr) legale": così il quotidiano britannico The Times definisce in un editoriale l’arringa difensiva degli avvocati del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi davanti alla Corte Costituzionale, nella quale si afferma che la legge è uguale per tutti, ma non la sua applicazione.
Nel suo breve editoriale il Times nota come per i sostenitori di Berlusconi l’offensiva contro il Lodo Alfano "fa parte di un diabolico complotto", tuttavia "nessun cospiratore costrinse Berlusconi a recarsi al compleanno di Noemi Letizia" o a frequentare Patrizia D’addario, e "le accuse di corruzione che potrebbe dover affrontare se l’immunità venisse revocata sono conseguenza delle sue azioni, dato che i giudici pensano che abbia violato la legge".
* la Repubblica, 7 ottobre 2009
Il corruttore difeso dalla politica
di Giuseppe D’Avanzo (la Repubblica, 05.10.2009)
La "discesa in campo" del ’94 è servita al Cavaliere per difendere il proprio interesse, come i partiti della prima repubblica lo avevano aiutato a sviluppare il suo business
Paradossalmente metà del Paese è chiamata a difendere un episodio di corruzione che ha assicurato al presidente del Consiglio il dominio nel campo pubblicitario
La politica, per Silvio Berlusconi, è nient’altro che il modo più efficace per accrescere e proteggere il suo business. È sempre stato così fin da quando, neolaureato fuori corso in giurisprudenza, si dà agli affari. Forte di legami politici con le amministrazioni locali e regionali - e qualche «assegno in bocca» - diventa promotore immobiliare. La politica gli consente di tenere a battesimo, fuori della legge, il primo network televisivo nazionale.
La collusione con la politica - la corruzione d’un capo di governo e il controllo di ottanta parlamentari - gli permette di ottenere, dal presidente del consiglio corrotto, due decreti d’urgenza e, dal parlamento, una legge che impone il duopolio Rai-Fininvest. Non proprio un prometeo dell’economia, nel 1994 è in rotta e fallito (gli oneri del debito della Fininvest - 4000 miliardi di lire - superano l’utile operativo del gruppo). Ha perso però i protettori travolti dal malaffare tangentocratico e s’inventa "imprenditore della politica" convertendo l’azienda in partito.
E’ ancora la politica che gli consente di manomettere, con diciassette leggi ad personam, codici e procedure per evitare condanne penali per un variopinto numero di reati (falso in bilancio, frode fiscale, appropriazione indebita, corruzione) fino all’impunità totale della «legge Alfano» che gli assicura un parlamento diventato bottega sua (domani la Consulta ne vaglierà la costituzionalità).
Non c’è da sorprendersi allora se, condannato oggi al pagamento di un risarcimento di 750 milioni di euro per aver trafugato la Mondadori corrompendo un giudice, Silvio Berlusconi si nasconda ancora una volta dietro il paravento della politica. E’ sempre la sua carta jolly per confondere le acque, cancellare i fatti, rendere incomprensibile quel che è accaduto, difendere - dietro le insegne dell’interesse pubblico - il suo interesse personale. Secondo un copione collaudato nel tempo, il premier anche oggi è lì a cantare la favola dell’«aggressione politica al suo patrimonio», dell’«assedio ad orologeria». Evoca, con le parole della figlia Marina (presidente di Mondadori), il «momento politico molto particolare». Piagnucola: «Se è così, chiudo». Minaccia (gli capita sempre quando è a mal partito) che chiamerà alle urne gli elettori, se sarà contrariato.
Bisogna dunque dire se c’entra la politica, in questa storia della Mondadori. La risposta è sì, c’entra ma (non è un paradosso) soltanto perché salva Berlusconi dai guai (e non è una novità).
Ricapitoliamo. E’ il giugno 2000. Berlusconi è accusato di aver comprato la sentenza che gli ha permesso di mettere le mani sul più grande impero editoriale del Paese scippandolo a Carlo De Benedetti (editore di questo giornale). Per suo conto e nel suo interesse, gliela compra l’avvocato e socius Cesare Previti (poi suo ministro). L’udienza preliminare del "caso Mondadori" ha un esito sorprendente: non luogo a procedere. E’ salvo. Il pubblico ministero Ilda Boccassini si appella. La Corte le dà ragione, ma Previti e Berlusconi hanno destini opposti. Per una svista, i legislatori nel 1990 si sono dimenticati del «privato corruttore» aumentando la pena della corruzione nei processi soltanto per il «magistrato corrotto». Correggono l’errore nel 1992, ma i fatti della Mondadori sono anteriori a quell’anno e dunque Berlusconi è passibile della pena meno grave, da due a cinque anni (corruzione semplice), anziché da tre a otto (corruzione in atti giudiziari). Se ottiene le attenuanti cosiddette generiche, può farla franca perché il reato sarebbe estinto. La sentenza del 25 giugno 2001 le concede a Berlusconi, non a Previti che va a processo.
Stravagante la motivazione che libera il premier: è vero, Berlusconi ha corrotto il giudice, ma si è adeguato a una prassi d’un ambiente giudiziario infetto e poi l’attuale suo stato «individuale e sociale» (si è appena insediato di nuovo a Palazzo Chigi) merita riguardi. Diciamolo in altro modo. Per i giudici non si possono negare le attenuanti, e quindi la prescrizione, a quell’uomo che - è vero - è un «privato corruttore» perché è «ragionevole» e «logico» che il mandante della tangente al giudice sia lui, ma santiddio oggi governa l’Italia, è ricco, potente, conduce la sua vita in modo corretto, come si fa a mandarlo a processo? Berlusconi potrebbe rinunciare alla prescrizione, affrontare il giudizio, dimostrare la sua estraneità, pretendere un’assoluzione piena o almeno testimoniare e dire perché ha offerto a Previti i milioni da cui attinge per pagare il mercimonio del giudice. Non lo fa, tace, si avvale della facoltà di non rispondere e il titolo indecoroso di «privato corruttore» gli resta appiccicato alla pelle.
Dunque, prima conclusione. La politica di ieri e di oggi non c’entra nulla se si esclude il salvataggio del premier, «privato corruttore». Bisogna riprendere il racconto da qui perché la favola dell’«aggressione politica al patrimonio» di Berlusconi si nutre di un sorprendente argomento: «Il processo non ha mai riguardato la Fininvest che si limitò a pagare compensi professionali a Previti».
Occorre allora mettere mano alle sentenze. C’è un giudice, Vittorio Metta, che già è stato corrotto da Previti per un altro affare (Imi-Sir). Viene designato come relatore dell’affare Mondadori. La designazione è pilotata con sapienza. Scrive le 167 pagine della sentenza in un solo giorno, ventiquattro ore, «record assoluto nella storia della magistratura italiana». In realtà, la sentenza è scritta altrove e da chi lo sa chi: «Da un terzo estraneo all’ambiente istituzionale», si legge nella sentenza di primo e secondo grado. Venti giorni dopo il deposito del verdetto (14 febbraio 1991), la Fininvest (attraverso All Iberian, il «gruppo B very discreet») bonifica a Cesare Previti quasi 2 milioni e 800 mila dollari (3 miliardi di lire). Su mandato di chi? Nell’interesse di chi? «La retribuzione del giudice corrotto è fatta nell’interesse e su incarico del corruttore» scrivono i giudici dell’Appello che condannano Cesare Previti non perché concorre al reato di Vittorio Metta (il giudice), ma perché complice del «privato corruttore» (Berlusconi). «E’ la Fininvest - conclude infine la Corte di Cassazione - la fonte della corruzione e pagatrice del pretium sceleris», del baratto che consente a Berlusconi da diciotto anni di avere nella sua disponibilità la Mondadori.
Rimettiamo allora in ordine quel si sa e ha avuto conferma nel lungo percorso processuale, in primo grado, in appello, in Cassazione. Berlusconi è un «privato corruttore». Incarica il socius Previti di corrompere il giudice che decide la sorte e la proprietà della casa editrice. Previti ha «stabilmente a libro paga» Vittorio Metta. Il giudice si fa addirittura scrivere la sentenza. Ottiene «almeno quattrocento milioni» da una "provvista" messa a disposizione dalla Fininvest che "incassa" in cambio la Mondadori.
Questi i nudi fatti che parlano soltanto di malaffare, corruzione, baratterie, di convenienze privatissime e non di politica e mai di interesse pubblico. Di politica parla oggi Berlusconi per salvare se stesso. Come sempre, vuole che sia la politica a tutelare business e patrimonio privati. Per farlo, non rinuncia - da capo del governo e «privato corruttore» - a lanciare una "campagna" che spaccherà in due - ancora una volta - un’opinione pubblica frastornata e disinformata. Berlusconi chiede un’altra offensiva di plagio mediatico con il canone orientale delle tv e dei giornali che controlla e influenza: non convincere, non confutare, screditare. Il premier giunge a minacciare le elezioni anticipate, come se il suo destino fosse il destino di tutti e l’opacità della sua fortuna una responsabilità collettiva.
Ripete la solita filastrocca che si vuole «manipolare con manovre di palazzo la vittoria elettorale del 2008 ed è ora che si cominci a esaminare l’opportunità di una grande manifestazione popolare». In piazza, metà del Paese. In difesa di che cosa? Si deve rispondere: in difesa della corruzione che ha consentito a Berlusconi la posizione dominante nell’informazione e nella pubblicità. E perché poi dovremmo tornare a votare? In difesa del suo portafoglio. L’Italia esiste, nelle intenzioni del capo del governo, soltanto se si mobilita a protezione delle fortune dell’uomo che la governa.