L’UNITA’ DI ITALIA, LA FACOLTA’ DI GIUDIZIO, E LA MATEMATICA COSTITUZIONALE: IMPARARE A CONTARE! VIVA L’ITALIA!!!
Materiali sul tema (cliccare sui titoli - in rosso, per approfondire)
L’ITALIA, IL "BIPOLARISMO PRESIDENZIALE", E I COSTITUZIONALISTI IN COMA PROFONDO (1994-2011). - con allegati
L’OCCUPAZIONE DELLA LEGGE E DELLA LINGUA ITALIANA: L’ITALIA E LA VERGOGNA.
PIANETA TERRA. COSTITUZIONE EUROPEA, COSTITUZIONE ITALIANA: DONNE E UOMINI, BAMBINI E BAMBINE. Un’altra storia è possibile ...
DIGNITA’, PERSONE, E POLITICA: CHI SIAMO NOI IN REALTA’?! LA DIGNITA’ E’ UN "CHI" NON UN "CHE COSA"! - con allegati.
"ASCOLTA, ISRAELE": IL DIO "UNO", FONTE DELLA LIBERTA’, LA LEGGE DEL "PADRE NOSTRO", E IL DIALOGO. - con allegati
CONTARE E PENSARE: MARE, "NUMERO E LOGOS". - con allegati
LA FACOLTA’ DI GIUDIZIO PERDUTA: KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI"). - con allegati
MONOTEISMO, CRISTIANESIMO E DEMOCRAZIA - con allegati
Federico La Sala (15.03.2011)
Anche nel nostro inno si dice bene *:
"Noi siamo da secoli
calpesti e derisi
perchè non siam popolo
perchè siam divisi
raccolgaci un’unica bandiera
un’unica speme
di fonderci insieme
già l’ora suonò"
*
http://www.youtube.com/watch?v=6o6CXOTTGkU&feature=related
Ciao,
Antonio
Riformano i magistrati, non la giustizia
di Gian Carlo Caselli (il Fatto, 16.03.2011)
La sedicente riforma della Giustizia ideata dal governo, non è un’operazione indolore per la sicurezza dei cittadini. Le ripercussioni negative sul versante delle indagini saranno tante. Anche per le inchieste di mafia. Chi studia l’evoluzione delle mafie constata che per realizzare i loro affari esse hanno bisogno di commercialisti, immobiliaristi, operatori bancari, amministratori e uomini delle istituzioni (la cosiddetta “borghesia mafiosa”). Sempre più si infittiscono gli intrecci con pezzi del mondo politico e dei colletti bianchi. I transiti di denaro sporco nell’economia illegale si intensificano. Spesso le istituzioni criminali e quelle legali si contrastano, ma senza volontà di annientarsi, nel senso che sono piuttosto alla ricerca di equilibri.
Diventa sempre più difficile - allora - stabilire la linea di confine fra lecito e illecito all’interno delle attività economiche, finanziarie e produttive. Per impedire che risuonino ancora oggi le parole di Giovanni Falcone circa il timore che “non si voglia far luce sui troppi, inquietanti misteri di matrice politico-mafiosa per evitare di rimanervi coinvolti”, è necessario allora che le indagini di mafia siano condotte da una magistratura assolutamente autonoma e indipendente, nonché dotata di strumenti capaci di esplorare in profondità anche il lato oscuro e segreto delle mafie. Proprio il contrario di quel che risulta obiettivamente ricollegabile alla pseudo-riforma della Giustizia voluta dal governo. Una riforma che quand’anche abbia - come scopo di partenza - “solo” quello di vendicarsi dei magistrati, alla fine potrebbe causare risultati obiettivamente devastanti. Quanto meno finché la politica italiana continuerà a discostarsi massiccia-mente dagli standard europei con conseguenze da trarre - doverosamente - in caso di accertato coinvolgimento in comportamenti illeciti.
Una “spia” dei veri obiettivi della riforma si può trovare nel fatto che le novità si collocano tutte all’interno del titolo 4° della parte seconda della Costituzione. Questo titolo, che oggi è denominato “La magistratura”, nella riforma diventa “La giustizia”. Come volevasi dimostrare: si tratta di riformare i magistrati, non la giustizia. E non basta cambiare l’etichetta della bottiglia perché uno sciroppo diventi barolo. Ma torniamo agli effetti oggettivi della riforma. Possiamo prendere singolarmente - una per una - le modifiche in programma, oppure l’intiero pacchetto.
Le indagini in mano alla politica
SEMPRE avremo lo stesso identico risultato: il trasferimento del “rubinetto” delle indagini (cioè dei controlli di legalità) dalle mani della magistratura a quelle del potere politico, governo e/o Parlamento. Con conseguente riduzione degli spazi d’intervento autonomo della magistratura e quindi dei controlli indipendenti sulle violazioni di legge commesse dai potenti. Con il rischio anzi che tali controlli causino al magistrato coraggioso guai non di poco conto, dalle ispezioni ministeriali (addirittura elevate al rango costituzionale), alle bufere scatenate da quanti vorranno strumentalmente approfittare delle nuove norme sulla responsabilità dei magistrati.
L’analisi di alcuni punti della sedicente riforma offre decisive conferme, anche per le inchieste di mafia.
Il Csm riformato - la riforma prevede lo sdoppiamento del Csm, la riduzione del numero dei membri “togati”, la loro nomina col fantozziano sistema dell’estrazione a sorte (una grottesca lotteria che rappresenta anche una discriminazione mortificante, posto che i membri “laici” continueranno a essere eletti dal Parlamento in seduta comune), il divieto di adottare atti di indirizzo politico (cioè pratiche a tutela dei magistrati vilipesi perché scomodi). Viene di fatto azzerata la stessa ragion d’essere del Csm: governo autonomo della magistratura e tutela della sua indipendenza. Il magistrato che debba scegliere tra diverse opzioni, egualmente possibili nel perimetro dell’interpretazione della legge, non sentendosi più tutelato da un Csm ridotto ad organo di semplice amministrazione, ci penserà ben bene prima di esporsi alle rappresaglie impunite del potente di turno. Figuriamoci quale impulso potrà derivare alle indagini su quella vischiosa zona grigia che consente agli affaridi mafia di prosperare!
1) AZIONE PENALE E POLIZIA GIUDIZIARIA NELLE MANI DELLA POLITICA L’azione penale a parole resta obbligatoria, ma dovrà essere esercitata “secondo i criteri stabiliti dalla legge” , vale a dire che sarà la politica a stabilire chi indagare e chi no: ed è improbabile che essa mostrerà particolare zelo per gli intrecci tra pezzi del suo mondo e la mafia . Quali che siano tali criteri, poi, resta il fatto che non sarà più direttamente la magistratura a disporre della polizia giudiziaria, che pertanto prenderà ordini dal governo (ministero degli interni per la polizia di stato; difesa per i carabinieri; economiaperlaGdF).Lapolitica,in sostanza, avrà in mano il rubinetto delle indagini e potrà regolarlo col contagocce tutte le volte che ci sia il rischio di scoprire qualcosa di troppo degli “inquietanti misteri” di cui parlava Falcone.
2) ASSOLTI PER SEMPRE Con clamorosa violazione della “parità delle armi” tra accusa e difesa, mentre l’imputato condannato potrà sempre ricorrere in appello, il pm non lo potrà fare in caso di assoluzione dell’imputato, salvo che “nei casi previsti dalla legge”. Ora, sarà impossibile (per non perdere la faccia) che tra questi casi non rientrino i delitti di mafia, ma che ne sarà del cosiddetto “concorso esterno”? Senza questa figura è impensabile che si possano colpire anche le collusioni con la mafia, ma poiché il delitto non esiste (lo sostiene il presidente Berlusconi!), si può scommettere che sarà fortemente a rischio la possibilità per il pm di appellare le assoluzioni per “concorso esterno”: la linea di demarcazione fra lecito e illecito tenderà sempre più allo sfumato evanescente e per la cosiddetta “borghesia mafiosa” ci sarà da brindare.
3) L’INDIPENDENZA DEL PM “ABROGATA” PER LEGGE A spazzare definitivamente ogni possibile dubbio circa le effettive conseguenze della riforma provvede infine il nuovo - se approvato - art. 104 della Costituzione (quello che non a caso introdurrebbe la separazione delle carriere...), laddove stabilisce “che l’ufficio del pubblico ministero è organizzato secondo le norme dell’ordinamento giudiziario che ne assicurano l’autonomia e l’indipendenza”. In sostanza, autonomia e indipendenza del pm non sono più valori di rango costituzionale tutelati dalla Carta fondamentale, ma optional rimessi alla legge ordinaria, che pertanto la politica potrà cambiare a suo piacimento senza neanche il fastidio delle procedure e delle maggioranze qualificate previste per le norme costituzionali. Vale a dire che la politica non avrà in mano soltanto il “rubinetto” delle indagini, ma avrà in sua balia direttamente il pm. Per cui è difficile pensare che vorrà orientarlo verso inchieste che potrebbero scoprire segreti inquietanti di colletti bianchi e/o politici per favori scambiati con la mafia o affari fatti insieme. Ed è persino superfluo notare che tutto ciò che colpisce in prima battuta il pm avrà inevitabilmente un effetto domino sui giudici: perché se al pm non è consentito indagare su certe materie, esse non arriveranno mai sul tavolo del magistrato giudicante. Un pericolo che non si può correre
COME si vede, gli scenari futuri sono cupi e se si vuole che la lotta alle mafie non rischi di diventare un esercizio di facciata, ma sia un’azione incisiva, la riforma costituzionale in cantiere dovrebbe essere riconsiderata: perché le conseguenze negative che ne potrebbero obiettivamente derivare (obiettivamente: anche a prescindere dall’orientamento di questa o quella maggioranza politica contingente) costituiscono un pericolo da non correre.
A Potenza, nella XVI Giornata antimafia della memoria e dell’impegno, organizzata da Libera per il 19 marzo, si discuterà anche di questo.
Opponetevi ai tiranni L’appello coerente di Benjamin Constant
Quarant’anni in difesa della libertà
di Mauro Barberis (Corriere della Sera, 16.03.2011)
C’era una volta il liberalismo «puro», la sua Bibbia era "La libertà degli antichi comparata a quella dei moderni", e il suo profeta era Benjamin Constant. Da vecchio, Benjamin aveva rivendicato di aver «difeso per quarant’anni lo stesso principio: libertà in tutto, in religione, filosofia, letteratura, economia, politica» ; e ancora all’inizio degli anni Ottanta Louis Girard poteva chiedere al sottoscritto: c’è ancora qualcosa da dire su Constant? Il giorno dopo iniziavo la lettura dei manoscritti repubblicani conservati alla Bibliothèque Nazionale di Parigi, riscoperti mezzo secolo fa e dai quali è tratta anche la famosa conferenza del 1819: ma bastarono poche ore per accorgersi di quanto ancora ci fosse da dire.
Quando pronuncia la conferenza, nel febbraio 1819, in piena campagna elettorale per le elezioni politiche di marzo che lo avrebbero portato alla Camera, Constant aveva già un grande avvenire dietro le spalle. Era ancora il protestante svizzero che all’indomani del Terrore aveva scelto di stabilirsi nella Francia rivoluzionaria, di difendere la fragile repubblica direttoriale e di combattere il regime napoleonico, pagando con l’esilio; ed era già una delle teste pensanti dell’opposizione ai Borboni restaurati.
Detto altrimenti, 25 anni di sconfitte e di vorticoso cambiamento dei regimi politici non gli avevano fatto cambiare idea: i suoi avversari erano sempre gli ultras monarchici e i notabili opportunisti. Lui stesso, del resto, non era affatto un estremista; benché da posizioni di minoranza, si era sempre rivolto al pubblico moderato e non aveva mai disperato della ragione. La stessa conferenza, del resto, si sviluppa in tre mosse quasi obbligate, per chi conosca l’autore e il contesto. Prima mossa: in piena Restaurazione, l’oratore rende omaggio alla «nostra felice Rivoluzione» ; la Rivoluzione francese, naturalmente, e quale se no? Seconda mossa: il conferenziere esalta la libertà dei moderni, o civile, che Isaiah Berlin, oltre un secolo dopo, chiamerà negativa. È la libertà liberale, distinta tanto dalla libertà costituzionale, à la Montesquieu, quanto dalla libertà «positiva» o democratica, à la Tocqueville.
Del resto, ne aveva già parlato il maestro politico di Constant, il rivoluzionario Sieyès: presso i moderni, che popolano nazioni estese e praticano il commercio, la democrazia diretta è destinata a essere sostituita dalla democrazia rappresentativa, e gli individui a essere difesi dal cerchio magico dei diritti. Ma la sorpresa, per chi crede nel luogo comune del liberalismo puro, viene dopo, nella terza mossa, come si legge nella bella traduzione di Giovanni Paoletti: «La libertà individuale, lo ripeto, ecco la vera libertà moderna. La libertà politica ne è la garanzia; la libertà politica è di conseguenza indispensabile» .
Di qui in poi, si trova solo l’esaltazione della libertà politica, «il mezzo più possente e il più energico di perfezionamento che il cielo ci abbia dato» ; soprattutto, di qui in avanti l’unico pericolo denunciato non sono più i vecchi spauracchi giacobino e monarchico, ma un nuovo dispotismo fatto di «pregiudizi per spaventare gli uomini, egoismo per corromperli, frivolezze per stordirli, rozzi piaceri per degradarli» : rispetto a oggi, manca solo la televisione. Liberalismo puro?
Ma già don Benedetto (Croce) - senza aver potuto leggere né gli inediti, né i cinquanta volumi delle Oeuvres complètes in corso di pubblicazione presso l’editore tedesco Niemeyer - aveva capito benissimo dove la conferenza volesse condurre l’audience dell’epoca: non chiudetevi in casa, andate a votare contro il governo. La stessa lettura è poi divenuta non maggioritaria, ma pacifica dopo la pubblicazione degli inediti: basta leggersi i libri di Étienne Hofmann, Stephen Holmes, Lucien Jaume, Tzvetan Todorov nonché, in Italia, di Paoletti e del sottoscritto.
Se si può trarre una morale da questa storia è che il liberalismo non è mai stato puro: si è sempre messo dalla parte degli individui e delle minoranze, contro qualsiasi potere. Come ha scritto Gaetano Salvemini: «Noi non possiamo essere imparziali. Possiamo essere soltanto intellettualmente onesti» .
di BENEDICTUS PP. XVI (Avvenire, 16 marzo 2011)
Illustrissimo Signore On. GIORGIO NAPOLITANO
Presidente della Repubblica Italiana
Il 150° anniversario dell’unificazione politica dell’Italia mi offre la felice occasione per riflettere sulla storia di questo amato Paese, la cui Capitale è Roma, città in cui la divina Provvidenza ha posto la Sede del Successore dell’Apostolo Pietro. Pertanto, nel formulare a Lei e all’intera Nazione i miei più fervidi voti augurali, sono lieto di parteciparLe, in segno dei profondi vincoli di amicizia e di collaborazione che legano l’Italia e la Santa Sede, queste mie considerazioni.
Il processo di unificazione avvenuto in Italia nel corso del XIX secolo e passato alla storia con il nome di Risorgimento, costituì il naturale sbocco di uno sviluppo identitario nazionale iniziato molto tempo prima. In effetti, la nazione italiana, come comunità di persone unite dalla lingua, dalla cultura, dai sentimenti di una medesima appartenenza, seppure nella pluralità di comunità politiche articolate sulla penisola, comincia a formarsi nell’età medievale.
Il Cristianesimo ha contribuito in maniera fondamentale alla costruzione dell’identità italiana attraverso l’opera della Chiesa, delle sue istituzioni educative ed assistenziali, fissando modelli di comportamento, configurazioni istituzionali, rapporti sociali; ma anche mediante una ricchissima attività artistica: la letteratura, la pittura, la scultura, l’architettura, la musica. Dante, Giotto, Petrarca, Michelangelo, Raffaello, Pierluigi da Palestrina, Caravaggio, Scarlatti, Bernini e Borromini sono solo alcuni nomi di una filiera di grandi artisti che, nei secoli, hanno dato un apporto fondamentale alla formazione dell’identità italiana. Anche le esperienze di santità, che numerose hanno costellato la storia dell’Italia, contribuirono fortemente a costruire tale identità, non solo sotto lo specifico profilo di una peculiare realizzazione del messaggio evangelico, che ha marcato nel tempo l’esperienza religiosa e la spiritualità degli italiani (si pensi alle grandi e molteplici espressioni della pietà popolare), ma pure sotto il profilo culturale e persino politico.
San Francesco di Assisi, ad esempio, si segnala anche per il contributo a forgiare la lingua nazionale; santa Caterina da Siena offre, seppure semplice popolana, uno stimolo formidabile alla elaborazione di un pensiero politico e giuridico italiano. L’apporto della Chiesa e dei credenti al processo di formazione e di consolidamento dell’identità nazionale continua nell’età moderna e contemporanea. Anche quando parti della penisola furono assoggettate alla sovranità di potenze straniere, fu proprio grazie a tale identità ormai netta e forte che, nonostante il perdurare nel tempo della frammentazione geopolitica, la nazione italiana poté continuare a sussistere e ad essere consapevole di sé. Perciò, l’unità d’Italia, realizzatasi nella seconda metà dell’Ottocento, ha potuto aver luogo non come artificiosa costruzione politica di identità diverse, ma come naturale sbocco politico di una identità nazionale forte e radicata, sussistente da tempo. La comunità politica unitaria nascente a conclusione del ciclo risorgimentale ha avuto, in definitiva, come collante che teneva unite le pur sussistenti diversità locali, proprio la preesistente identità nazionale, al cui modellamento il Cristianesimo e la Chiesa hanno dato un contributo fondamentale.
Per ragioni storiche, culturali e politiche complesse, il Risorgimento è passato come un moto contrario alla Chiesa, al Cattolicesimo, talora anche alla religione in generale. Senza negare il ruolo di tradizioni di pensiero diverse, alcune marcate da venature giurisdizionaliste o laiciste, non si può sottacere l’apporto di pensiero - e talora di azione - dei cattolici alla formazione dello Stato unitario. Dal punto di vista del pensiero politico basterebbe ricordare tutta la vicenda del neoguelfismo che conobbe in Vincenzo Gioberti un illustre rappresentante; ovvero pensare agli orientamenti cattolico-liberali di Cesare Balbo, Massimo d’Azeglio, Raffaele Lambruschini. Per il pensiero filosofico, politico ed anche giuridico risalta la grande figura di Antonio Rosmini, la cui influenza si è dispiegata nel tempo, fino ad informare punti significativi della vigente Costituzione italiana. E per quella letteratura che tanto ha contribuito a "fare gli italiani", cioè a dare loro il senso dell’appartenenza alla nuova comunità politica che il processo risorgimentale veniva plasmando, come non ricordare Alessandro Manzoni, fedele interprete della fede e della morale cattolica; o Silvio Pellico, che con la sua opera autobiografica sulle dolorose vicissitudini di un patriota seppe testimoniare la conciliabilità dell’amor di Patria con una fede adamantina. E di nuovo figure di santi, come san Giovanni Bosco, spinto dalla preoccupazione pedagogica a comporre manuali di storia Patria, che modellò l’appartenenza all’istituto da lui fondato su un paradigma coerente con una sana concezione liberale: "cittadini di fronte allo Stato e religiosi di fronte alla Chiesa".
La costruzione politico-istituzionale dello Stato unitario coinvolse diverse personalità del mondo politico, diplomatico e militare, tra cui anche esponenti del mondo cattolico. Questo processo, in quanto dovette inevitabilmente misurarsi col problema della sovranità temporale dei Papi (ma anche perché portava ad estendere ai territori via via acquisiti una legislazione in materia ecclesiastica di orientamento fortemente laicista), ebbe effetti dilaceranti nella coscienza individuale e collettiva dei cattolici italiani, divisi tra gli opposti sentimenti di fedeltà nascenti dalla cittadinanza da un lato e dall’appartenenza ecclesiale dall’altro.
Ma si deve riconoscere che, se fu il processo di unificazione politico-istituzionale a produrre quel conflitto tra Stato e Chiesa che è passato alla storia col nome di "Questione Romana", suscitando di conseguenza l’aspettativa di una formale "Conciliazione", nessun conflitto si verificò nel corpo sociale, segnato da una profonda amicizia tra comunità civile e comunità ecclesiale. L’identità nazionale degli italiani, così fortemente radicata nelle tradizioni cattoliche, costituì in verità la base più solida della conquistata unità politica. In definitiva, la Conciliazione doveva avvenire fra le Istituzioni, non nel corpo sociale, dove fede e cittadinanza non erano in conflitto.
Anche negli anni della dilacerazione i cattolici hanno lavorato all’unità del Paese. L’astensione dalla vita politica, seguente il "non expedit", rivolse le realtà del mondo cattolico verso una grande assunzione di responsabilità nel sociale: educazione, istruzione, assistenza, sanità, cooperazione, economia sociale, furono ambiti di impegno che fecero crescere una società solidale e fortemente coesa. La vertenza apertasi tra Stato e Chiesa con la proclamazione di Roma capitale d’Italia e con la fine dello Stato Pontificio, era particolarmente complessa.
Si trattava indubbiamente di un caso tutto italiano, nella misura in cui solo l’Italia ha la singolarità di ospitare la sede del Papato. D’altra parte, la questione aveva una indubbia rilevanza anche internazionale. Si deve notare che, finito il potere temporale, la Santa Sede, pur reclamando la più piena libertà e la sovranità che le spetta nell’ordine suo, ha sempre rifiutato la possibilità di una soluzione della "Questione Romana" attraverso imposizioni dall’esterno, confidando nei sentimenti del popolo italiano e nel senso di responsabilità e giustizia dello Stato italiano. La firma dei Patti lateranensi, l’11 febbraio 1929, segnò la definitiva soluzione del problema. A proposito della fine degli Stati pontifici, nel ricordo del beato Papa Pio IX e dei Successori, riprendo le parole del Cardinale Giovanni Battista Montini, nel suo discorso tenuto in Campidoglio il 10 ottobre 1962: "Il papato riprese con inusitato vigore le sue funzioni di maestro di vita e di testimonio del Vangelo, così da salire a tanta altezza nel governo spirituale della Chiesa e nell’irradiazione sul mondo, come prima non mai".
L’apporto fondamentale dei cattolici italiani alla elaborazione della Costituzione repubblicana del 1947 è ben noto. Se il testo costituzionale fu il positivo frutto di un incontro e di una collaborazione tra diverse tradizioni di pensiero, non c’è alcun dubbio che solo i costituenti cattolici si presentarono allo storico appuntamento con un preciso progetto sulla legge fondamentale del nuovo Stato italiano; un progetto maturato all’interno dell’Azione Cattolica, in particolare della FUCI e del Movimento Laureati, e dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ed oggetto di riflessione e di elaborazione nel Codice di Camaldoli del 1945 e nella XIX Settimana Sociale dei Cattolici Italiani dello stesso anno, dedicata al tema "Costituzione e Costituente".
Da lì prese l’avvio un impegno molto significativo dei cattolici italiani nella politica, nell’attività sindacale, nelle istituzioni pubbliche, nelle realtà economiche, nelle espressioni della società civile, offrendo così un contributo assai rilevante alla crescita del Paese, con dimostrazione di assoluta fedeltà allo Stato e di dedizione al bene comune e collocando l’Italia in proiezione europea. Negli anni dolorosi ed oscuri del terrorismo, poi, i cattolici hanno dato la loro testimonianza di sangue: come non ricordare, tra le varie figure, quelle dell’On. Aldo Moro e del Prof. Vittorio Bachelet? Dal canto suo la Chiesa, grazie anche alla larga libertà assicuratale dal Concordato lateranense del 1929, ha continuato, con le proprie istituzioni ed attività, a fornire un fattivo contributo al bene comune, intervenendo in particolare a sostegno delle persone più emarginate e sofferenti, e soprattutto proseguendo ad alimentare il corpo sociale di quei valori morali che sono essenziali per la vita di una società democratica, giusta, ordinata. Il bene del Paese, integralmente inteso, è stato sempre perseguito e particolarmente espresso in momenti di alto significato, come nella "grande preghiera per l’Italia" indetta dal Venerabile Giovanni Paolo II il 10 gennaio 1994.
La conclusione dell’Accordo di revisione del Concordato lateranense, firmato il 18 febbraio 1984, ha segnato il passaggio ad una nuova fase dei rapporti tra Chiesa e Stato in Italia. Tale passaggio fu chiaramente avvertito dal mio Predecessore, il quale, nel discorso pronunciato il 3 giugno 1985, all’atto dello scambio degli strumenti di ratifica dell’Accordo, notava che, come "strumento di concordia e collaborazione, il Concordato si situa ora in una società caratterizzata dalla libera competizione delle idee e dalla pluralistica articolazione delle diverse componenti sociali: esso può e deve costituire un fattore di promozione e di crescita, favorendo la profonda unità di ideali e di sentimenti, per la quale tutti gli italiani si sentono fratelli in una stessa Patria".
Ed aggiungeva che nell’esercizio della sua diaconia per l’uomo "la Chiesa intende operare nel pieno rispetto dell’autonomia dell’ordine politico e della sovranità dello Stato. Parimenti, essa è attenta alla salvaguardia della libertà di tutti, condizione indispensabile alla costruzione di un mondo degno dell’uomo, che solo nella libertà può ricercare con pienezza la verità e aderirvi sinceramente, trovandovi motivo ed ispirazione per l’impegno solidale ed unitario al bene comune".
L’Accordo, che ha contribuito largamente alla delineazione di quella sana laicità che denota lo Stato italiano ed il suo ordinamento giuridico, ha evidenziato i due principi supremi che sono chiamati a presiedere alle relazioni fra Chiesa e comunità politica: quello della distinzione di ambiti e quello della collaborazione. Una collaborazione motivata dal fatto che, come ha insegnato il Concilio Vaticano Il, entrambe, cioè la Chiesa e la comunità politica, "anche se a titolo diverso, sono a servizio della vocazione personale e sociale delle stesse persone umane" (Cost. Gaudium et spes, 76).
L’esperienza maturata negli anni di vigenza delle nuove disposizioni pattizie ha visto, ancora una volta, la Chiesa ed i cattolici impegnati in vario modo a favore di quella "promozione dell’uomo e del bene del Paese" che, nel rispetto della reciproca indipendenza e sovranità, costituisce principio ispiratore ed orientante del Concordato in vigore (art. 1). La Chiesa è consapevole non solo del contributo che essa offre alla società civile per il bene comune, ma anche di ciò che riceve dalla società civile, come affrerma il Concilio Vaticano II: "chiunque promuove la comunità umana nel campo della famiglia, della cultura, della vita economica e sociale, come pure della politica, sia nazionale che internazionale, porta anche un non piccolo aiuto, secondo la volontà di Dio, alla comunità ecclesiale, nelle cose in cui essa dipende da fattori esterni" (Cost. Gaudium et spes, 44).
Nel guardare al lungo divenire della storia, bisogna riconoscere che la nazione italiana ha sempre avvertito l’onere ma al tempo stesso il singolare privilegio dato dalla situazione peculiare per la quale è in Italia, a Roma, la sede del successore di Pietro e quindi il centro della cattolicità. E la comunità nazionale ha sempre risposto a questa consapevolezza esprimendo vicinanza affettiva, solidarietà, aiuto alla Sede Apostolica per la sua libertà e per assecondare la realizzazione delle condizioni favorevoli all’esercizio del ministero spirituale nel mondo da parte del successore di Pietro, che è Vescovo di Roma e Primate d’Italia. Passate le turbolenze causate dalla "questione romana", giunti all’auspicata Conciliazione, anche lo Stato Italiano ha offerto e continua ad offrire una collaborazione preziosa, di cui la Santa Sede fruisce e di cui è consapevolmente grata.
Nel presentare a Lei, Signor Presidente, queste riflessioni, invoco di cuore sul popolo italiano l’abbondanza dei doni celesti, affinché sia sempre guidato dalla luce della fede, sorgente di speranza e di perseverante impegno per la libertà, la giustizia e la pace.
Dal Vaticano, 17 marzo 2011
BENEDICTUS PP. XVI
L’Unità d’Italia? E’ un appello per la cultura
di Valentina Grazzini *
Per ironico gioco di retorica le due parole che più ricorrono in questi giorni sono unità e tagli. Mentre viene celebrato il 150esimo della nascita dell’Italia, se ne distrugge a uno dei fondamenti su cui fu costruita, la cultura. Maforse proprio su questo ossimoro può misurarsi il senso di appartenenza degli italiani. Tante sono le occasioni di pensare all’Unità: a Roma l’evento sarà celebrato con la Notte tricolore che offrirà concerti, spettacoli teatrali, animazioni di strada, mostre, letture, illuminazioni, proiezioni, fuochi pirotecnici e lectio magistralis. E quasi tutte le iniziative saranno gratuite (programma completo su www.italiaunita.it).
La fitta agenda romana del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano partirà con la visita all’Altare della Patria, proseguirà al Pantheon per deporre una corona d’alloro sulla tomba di Vittorio Emanuele II di Savoia, primoRe d’Italia, per poi toccare il Gianicolo, il complesso monumentale di Porta San Pancrazio e il Museo della Repubblica Romana e della Memoria Garibaldina.
Nel pomeriggio a Montecitorio il Capo dello Stato terrà poi il discorso celebrativo della Fondazione dello Stato unitario di fronte alle Camere riunite. Gran finale al teatro dell’Opera, dove Napolitano assisterà al Nabucco di Verdi diretto dal maestro Riccardo Muti.
Intanto la seconda capitale, Torino, racconta l’Italia attraverso gli italiani: Fare gli Italiani. 150 anni di storia nazionale è la mostra ospitata nelle Officine Grandi Riparazioni, forse una delle più interessanti tra le molte proposte nel capoluogo piemontese (programma su www.italia150.it). Ma se celebrare è bene, riflettere lo è ancor di più.
Così proprio nella notte italiana per eccellenza, quella che ci traghetterà alla giornata di domani quando i tricolori sventoleranno nelle piazze, il regista Maurizio Scaparro ha preparato un appello contro i tagli al teatro che ha per l’appunto150 firmatari. Dalla A di Antonio Albanese fino alla Z di Luca Zingaretti appaiono tra gli altri Giorgio Albertazzi, Alessandro Bergonzoni, Claudi Cardinale, Lella Costa, Luca De Filippo, Davide Enia, Rossella Falk, Alessandro Gassman, Monica Guerritore, Sergio Staino, Catherine Spaak, Massimo Ranieri, Lina Sastri, Ugo Gregoretti, Anna Maria Guarnieri, Umberto Orsini, Moni Ovadia, Paolo e Lucia Poli, Gabriele Lavia, Antonio Latella... Generazioni di attori e registi uniti in nome di un’appartenenza.
L’appello sarà letto da Anna Bonaiuto alla mezzanotte di stanotte al Teatro della Pergola di Firenze (terza capitale, tout se tient) e, in contemporanea, da Elisabetta Pozzi a Palazzo Barberini di Roma. «Non ci troviamo certo in un periodo facile e piacevole per il nostro Paese - recita l’appello di Scaparro -. Con in più il peso necessario di doverlo e volerlo vivere a 150 anni dall’Unità d’Italia. Le lotte, le conquiste, i grandi ideali, i sogni, le delusioni, le tensioni all’Unità (anche culturale, quindi linguistica e teatrale).
Il teatro italiano proprio per la sua capacità di tradurre ed interpretare questi stessi sogni nella ricchezza delle sue lingue e dei suoi dialetti, è stato per un lungo periodo una preziosa moneta di scambio che circolava tra mille difficoltà e avventure in Europa, nel Mediterraneo, al quale pensiamo tutti in queste ore con grande preoccupazione, e nelmondo intero». «Noi siamo gli eredi di quei comici che con i loro viaggi hanno contribuito a far nascere l’Europa della cultura, prima di quella delle banche, e che questa Europa vogliono far crescere - continua il documento -. Anche per questo sentiamo l’urgenza e la necessità di lanciare un grido di allarme perché le istituzioni del nostro Paese e il mondo della comunicazione non perdano il contatto con le forze vive della cultura e del lavoro, per costruire, con la grande tradizione dei Maestri e le vitalità innovative delle giovani generazioni, un nuovo Umanesimo».
* l’Unità, 16 marzo 2011
La rivoluzione promessa? Possiamo ancora farla. Tutti noi
Quella che segue è una parte dell’introduzione di Gianfranco Pasquino al libro «La rivoluzione promessa. Lettura della Costituzione italiana» (Bruno Mondadori) , da giovedì in libreria
di Gianfranco Pasquino (l’Unità, 15.03.2011)
Le Costituzioni moderne sono soprattutto carte che codificano le libertà; sanciscono diritti e doveri dei cittadini; delineano i rapporti fra cittadini e le istituzioni; specificano la divisione dei poteri e i limiti del loro esercizio a opera di ciascuna istituzione e di coloro che vi sono preposti. Oggi, possiamo affermare con sicurezza che le Costituzioni danno forma a un sistema politico, e potremmo aggiungere che dove non c’è una Costituzione non esiste, pur con la luminosa eccezione della Gran Bretagna, democrazia. Tutti i sistemi politici che si sono affacciati alla democrazia, negli ultimi trent’anni alcune decine, si sono dati Costituzioni il cui elemento centrale è rappresentato dal riconoscimento e dalla garanzia dei diritti dei cittadini. Molto spesso i rispettivi costituenti hanno approfittato della possibilità, qualche volta una vera e propria necessità, di scrivere la Carta costituzionale per delineare anche il tipo di sistema politico, sociale ed economico da loro preferito. Nessuna Costituzione contemporanea potrebbe oggi fare a meno di offrire spazio al mercato e alla concorrenza economica. Né potrebbe tralasciare di regolamentare tutto quello che attiene all’istruzione, al lavoro, alla salute dei suoi cittadini.
Tra il 1946 e il 1948 i costituenti italiani ebbero la grande opportunità di collaborare alla stesura della prima vera e propria Carta costituzionale della Repubblica democratica italiana. Da uno dei più autorevoli di loro, per statura intellettuale e conoscenza del diritto, Piero Calamandrei, vennero contributi significativi, ma anche forti critiche al testo approvato. In particolare, Calamandrei, giurista positivista, manifestò forte contrarietà alle norme programmatiche, quelle che indicano quanto deve essere fatto, che, per l’appunto, delineano un programma. Quando, pochi anni dopo la promulgazione, Calamandrei si trovò a fare un bilancio, ancorché preliminare, della Costituzione italiana, affermò con una frase memorabile che era una«rivoluzione promessa in cambio di una rivoluzione mancata».
Negli articoli della Costituzione, addirittura nel suo impianto complessivo, stava un disegno di trasformazione dei rapporti politici, sociali ed economici che, almeno in parte, rifletteva le grandi e nobili aspirazioni della Resistenza, ovvero la «rivoluzione mancata».
Quella di Calamandrei non era soltanto una frase a effetto. Purtroppo la fase di applicazione della Costituzione non si è mantenuta fedele alle sue promesse e alle norme programmatiche. La storia della Repubblica italiana spiega il perché delle inadempienze, ma non può giustificarle, anche se la guerra fredda (1946-1989) sicuramente non facilitò scelte che la Costituzione suggeriva e incoraggiava. In seguito, lo strapotere dei partiti, ovvero la partitocrazia, tutt’altro che un fenomeno inevitabile e meno che mai insito nella Costituzione italiana, provocò non poche inadempienze e distorsioni costituzionali.
Da più di tre decenni, ormai, l’attenzione si è spostata e si è concentrata sulle istituzioni e sulla loro riforma, spesso addirittura esclusivamente sul sistema elettorale, nella ricerca spasmodica della formula che convenga maggiormente a partiti che si sono alquanto indeboliti, ma che rimangono gli attori politici dominanti. È probabile che i costituenti, non soltanto Calamandrei, guarderebbero preoccupati, se non addirittura inorriditi, alle proposte particolaristiche di cambiamento delle regole e delle istituzioni. Preoccupazione e orrore non deriverebbero affatto da una loro difesa a oltranza, come fanno alcuni politici, giuristi e intellettuali italiani, di tutto il testo costituzionale quasi fosse un oggetto sacro. Al contrario, pochi di loro riterrebbero la Costituzione immodificabile poiché le modalità delle eventuali modifiche sono chiaramente indicate e regolate. I costituenti non meritano l’appellativo di «conservatori istituzionali». Si chiederebbero, però, se la classe politica italiana ha davvero operato per tradurre la rivoluzione promessa in quelle riforme politiche, sociali ed economiche che renderebbero migliore l’Italia.
La lettura del testo costituzionale, effettuata senza interferenze politicizzate e senza paraocchi ideologici, consente di cogliere in molti articoli le potenzialità tuttora vive di una trasformazione profonda dell’Italia, anche grazie al suo inserimento, previsto in maniera lungimirante, negli organismi europei e nelle istituzioni internazionali.
Credo che sia doveroso sottolineare che i problemi politici, sociali, economici e istituzionali italiani non hanno nessuna radice negli articoli della Costituzione, anche se alcuni articoli sono, senza dubbio, da rinfrescare e da ritoccare, talvolta anche da riscrivere. Ma la rivoluzione promessa è ancora tutta davanti a noi, perseguibile e conseguibile. La Repubblica alla quale i costituenti hanno affidato il compito ambiziosissimo ed esigentissimo di rimuovere gli ostacoli che «impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale» siamo noi, cittadini e detentori di cariche politiche a tutti i livelli. La responsabilità maggiore è sempre quella di chi ha più potere politico, ma qualsiasi rivoluzione, anche pacifica, da effettuarsi attuando le norme programmatiche, ha bisogno diunampio sostegno popolare e di una convinta partecipazione di cittadini informati. Sono entrambi elementi che una buona conoscenza della Costituzione è in grado di costruire e potenziare. Era la speranza dei costituenti italiani. È rimasta tale.
Tutti i diritti riservati © 2011, Pearson Italia, Milano - Torino. Prima edizione: marzo 2011
"Uniti supereremo ogni difficoltà" Gli auguri di Napolitano all’Italia
Roma - (Ign) - Il presidente della Repubblica nel suo intervento alla manifestazione per la ’notte tricolore’ nella piazza antistante il Quirinale: oggi "festeggiamo il meglio della nostra storia. E sottolinea: "Ognuno deve ricordare che è parte di qualcosa di più grande, la nostra nazione, la nostra Patria e la nostra Italia
Accompagnato dalla signora Clio, il capo dello Stato ha aggiunto: "Se fossimo rimasti divisi in otto stati come eravamo nel 1860 saremmo stati spazzati via dalla storia".
Per Napolitano oggi "festeggiamo il meglio della nostra storia. Perché abbiamo avuto momenti brutti, commesso errori, abbiamo vissuto pagine drammatiche ma abbiamo fatto tante cose grandi e importanti, grazie all’unità siamo diventati un Paese moderno". "Eravamo già in ritardo allora di fronte alla Spagna, alla Francia, all’Inghilterra che erano già dei grandi stati nazionali e stava per diventarlo anche la Germania. Per fortuna - ha detto ancora - eravamo in ritardo ma non abbiamo atteso ulteriormente. Sono state schiere di nostri patrioti che hanno combattuto e dato la vita e scritto pagine eroiche che noi dobbiamo avere l’orgoglio di ricordare e rivendicare. Perché solo così possiamo anche guardare con fiducia al futuro e alle prove che ci attendono".
"Ne abbiamo passate tante, passeremo anche quelle che avremo di fronte, in un mondo forse più difficile. Però l’importante è che ricordiamo sempre che" anche se "ognuno ha i suoi problemi, i suoi interessi e le sue idee e discutiamo e battagliamo ognuno deve ricordare che è parte di qualcosa di più grande, la nostra nazione, la nostra Patria e la nostra Italia. E se saremo uniti sapremo superare tutte le difficoltà che ci attendono. Auguri a tutti gli italiani"
* ADNKRONOS. ultimo aggiornamento: 16 marzo, ore 22:18:
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