Dignità è...
di Andrea Lebra *
In questi giorni migliaia e migliaia di persone sono scese in piazza per affermare la “dignità delle donne” e per protestare contro chi delle donne fomenta immagini che ledono la loro “dignità”.
Ma che cos’è la “dignità”, della donna come dell’uomo? Perché la Costituzione Europea afferma solennemente che “la dignità umana è inviolabile” e “deve essere rispettata e tutelata”?
Lungi dall’essere considerato un concetto astratto, variabile ed ambiguo, la dignità umana è il bene più prezioso che possa essere posseduto da una donna o da un uomo. Attingendo alla filosofia, all’etica e al diritto vivente, mi sembra che siano universalmente condivisibili i seguenti sei postulati.
Primo. Dignità è trattare ed essere trattati con assoluto rispetto, in quanto portatori e portatrici di un’identità unica, irripetibile e inalienabile, connessa alla natura umana.
Secondo. Dignità è considerare ogni soggetto sempre un fine e non è lecito da parte di nessuno riferirsi a lui esclusivamente come un mezzo. E’ rifiutarsi di ridurre la persona a oggetto, a cosa, a merce, ad entità di consumo fungibile, assoggettabile a transazione economica. Diffondere un’immagine della donna che risponda a funzioni ornamentali o che venga offerta come bene di consumo ne offende indubbiamente la dignità.
Terzo. Dignità è comportarsi con fierezza e rigore da cittadini responsabili e non da cortigiani devoti, rifiutando logiche e mentalità clientelari, nella consapevolezza dei propri limiti ma anche delle proprie potenzialità. La dignità ha a che fare con l’etica pubblica fatta di onestà, decoro, correttezza, senso delle istituzioni, interesse prioritario per il bene comune; in una parola, di esemplarità di vita.
Quarto. Dignità è guardarsi nello specchio e non vergognarsi di se stessi e delle proprie azioni. E’ vivere in modo che anche i comportamenti privati non siano in contrasto con quelli pubblici. Il Cicerone del “De officiis” direbbe che “degno” va qualificato il comportamento di una persona onesta che, consapevole di quanto sia disdicevole nuotare nel lusso e sprofondare nelle mollezze (“quam sit turpe diffluere luxuria et delicate ac molliter vivere”), conduce una vita modesta, frugale, austera e sobria (“parce, continenter, severe, sobrie”).
Quinto. Dignità è contribuire all’effettiva tutela dei diritti degli altri con lo stesso impegno con cui si difendono i nostri. Il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce, infatti, il fondamento della libertà, della giustizia e della pacifica convivenza.
Sesto. La dignità è una caratteristica intrinseca ed una prerogativa di ogni essere umano: va riconosciuta, ma anche tutelata. Dove c’è un essere umano, donna o uomo, lì c’è dignità essenziale ed inalienabile. Al carattere ontologico della dignità umana va indissolubilmente affiancato il carattere deontologico.
Alla dignità ricevuta in dono va associata la dignità conquistata per mezzo della libera e responsabile cooperazione dei singoli come delle comunità e delle istituzioni. Anche la dignità segue la legge della vita: cresce oppure muore. Come accade per gli oggetti di vetro: se cade per terra si frantuma e non sarà più possibile ricomporne i frammenti in modo perfetto.
Per questi ed altri motivi, la dignità umana è un valore di priorità assoluta e di carattere fondante nella scala di valori espressi dalla nostra Costituzione.
E’ un principio supremo che non può essere sovvertito o modificato nel suo contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale. Va addirittura posto al di sopra della sovranità dello Stato. La dignità, integrando altri tre principi costituzionali fondamentali (la libertà, l’eguaglianza e la solidarietà), fa corpo con essi e ne impone un’ interpretazione in una logica di indivisibilità.
Fonte: Finesettimana.org, 18 febbraio 2011
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
DEMOCRAZIA: ABBI IL CORAGGIO DI PRENDERE LA PAROLA E DI PARLARE DA CITTADINO SOVRANO.
Quinto Stato
Un altro genere di paese: educare alle differenze nella scuola pubblica
di Roberto Ciccarelli (il manifesto, 28.1.2016)
Storia di un movimento che lavora con le maestre per contrastare la violenza di genere, il bullismo omofobico e vuole un’istruzione universale per tutti. La Cei e il Vaticano lo contrastano e hanno lanciato la crociata contro l’inesistente «teoria del gender»
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Un altro genere di educazione. È il motto della rete «Educare alle differenze» composta da 250 associazioni che lavorano con le maestre nelle scuole per superare gli stereotipi di genere, contrastare la violenza di genere e il bullismo omofobico tra i bambini. Giunto al terzo anno di vita, «Educare alle differenze» oggi è un network composto da docenti universitari, attivisti/e Lgbtqi, case editrici, educatori e assistenti sociali, associazioni impegnate in programmi che coinvolgono gli enti locali. Insieme cercano di colmare le lacune formative e i vuoti normativi presenti nella scuola italiana quando si parla di sessualità o di parità tra i sessi.
In attesa di organizzare il terzo incontro nazionale a Roma, promosso dalle associazioni Scosse (Roma), Stonewall (Siracusa), Il Progetto Alice (Bologna), la rete intende diventare un’interlocutore del ministero dell’Istruzione nella scrittura delle linee guida sulla prevenzione della violenza di genere e l’educazione alla parità tra i sessi prevista dalla Convenzione di Istanbul, ratificata dal Parlamento italiano nel 2013.
La sua storia ricorda da vicino quella dei movimenti che sin dagli anni Sessanta hanno cambiato i costumi e le metodologie di insegnamento della scuola pubblica. A sostegno di questo obiettivo sono stati pubblicati materiali didattici che sono diventati una consuetudine negli istituti, da Nord a Sud. Ne ricordiamo due, che hanno prodotto scandalo, campagne di diffamazione e vere e proprie censure da parte della Cei, di sindaci e di politici nazionali: gli opuscoli contro l’omofobia realizzati dall’istituto A. T. Beck per l’Unar e destinati agli insegnanti delle scuole primarie e secondarie e i 49 titoli contro il razzismo e la discriminazione sessuale dell’iniziativa «Leggere senza stereotipi» promossa dalla consigliera comunale di Venezia Camilla Seibezzi e censurata dal sindaco Luigi Brugnano.
In un biennio, questo movimento in formazione si è trovato ad affrontare una violentissima campagna politica, orchestrata dalle gerarchie vaticane e agita da movimenti reazionari che continuano a sfregiare il senso dell’educazione alle differenze, contro il sessismo e le violenze di genere inventando un nemico fantomatico: la cosiddetta «teoria del gender».
Il colpo di partenza lo diede papa Ratzinger in un discorso del 21 dicembre 2012 in cui condannò la «nuova filosofia della sessualità» espressa dal «lemma gender». Secondo il fine teologo tale «filosofia» contraddice il racconto biblico della creazione. L’essere umano è creato da Dio «come maschio e come femmina». A questa teoria della «famiglia naturale» e della genitorialità biologica, che nega ogni storicità e cambiamento nelle convivenze e nelle relazioni affettive, sono ispirati vademecum, family day e i whatsapp dei gruppi dei genitori.
Una strategia basata su psicosi mediatica e complottismo - due armi fondamentali all’epoca di internet che vantano illustri antenati nella caccia alle streghe - per la quale la rete «Educare alle differenze» starebbe trasformando la scuola in un «campo di rieducazione» che sforna soldati in difesa della «dittatura del gender», in altre parole un’inesistente educazione all’omosessualità. Non lo ha detto un utente qualsiasi di Facebook, ma il capo dei vescovi italiani della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco il 24 marzo 2014.
A questa diffamazione, basata su un pregiudizio ideologico, il movimento dell’educazione alle differenze risponde così: «Il genere - si legge nel report dell’incontro nazionale della rete del 2015 - è un sistema di pratiche sociali e culturali che assegnano ruoli, potere, funzioni e opportunità diverse agli individui in base al loro sesso di nascita e al loro orientamento sessuale». Il «genere esiste eccome e produce ingiustizie e sofferenze sul piano individuale e sociale». I programmi educativi servono «per decostruire gli stereotipi e offrire strade di libertà agli studenti».
La ragione di fondo della controffensiva omofobica sta nell’attacco all’istruzione pubblica e laica finalizzata alla creazione di un’egemonia. In Italia, la resistenza politico-culturale e l’affermazione di una «cittadinanza democratica» passano anche dall’educazione alle differenze.
CREATIVITA’: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETA’ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE.
Siamo alla violenza di genere? Femminicidio, questione maschile e Chiesa
di Andrea Lebra (Settimana, n. 31, 2 settembre 2012)
Caro Direttore,
secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la prima causa di uccisione nel mondo e in Europa delle donne tra i 16 e i 44 anni è l’omicidio da parte di persone conosciute. Nel nostro Paese non trascorre settimana senza che i mass-media diano notizie di donne assassinate da congiunti stretti o, comunque, nell’ambito familiare.
Dall’inizio del 2012 al momento in cui vengono stese queste note, 73 risultano essere le vittime. Nel 2011 le donne assassinate in Italia sono state 120 (58 al Nord, 21 al Centro, 30 al Sud e 11 nelle isole). Nel 2010 se ne sono contate 127 e 119 nel 2009. Nel 2008 sono state 112 e 107 nel 2007. In media, dunque, più di due femminicidi alla settimana. L’ultima vittima, in ordine di tempo, si chiamava Maria Anastasi, 39 anni, siciliana, madre di tre figli, al nono mese di gravidanza, presa a picconate e data alle fiamme dal marito il 5 luglio nella campagna di Trapani.
Scorrendo le storie delle donne assassinate c’è da rimanere sbigottiti, anche solo nel prendere atto delle modalità con le quali il delitto è stato perpetrato: accoltellata, strangolata, soffocata, uccisa a pugni, picchiata a morte, bruciata viva, sgozzata, buttata dal balcone, presa a martellate, colpita con un’arma da fuoco... I nomi, l’età, le città cambiano. Le storie invece si ripetono: sono per lo più gli uomini più vicini alle donne a ucciderle. Gli organi di stampa parlano di omicidi passionali, di storie di raptus, di amori sbagliati, di gelosia, di follia omicida, ingenerando nell’opinione pubblica la falsa idea che i crimini vengano per lo più commessi da persone portatrici di disagi psicologici o preda di attacchi di aggressività improvvisa.
In ambito sociologico, criminologico e antropologico, da un po’ di tempo è stato coniato un neologismo per descrivere il fenomeno: femminicidio (o femmicidio). Un termine inventato per indicare l’omicidio della donna in quanto donna, ovvero l’omicidio basato sul genere. Secondo i criminologi, la “colpa” delle vittime del femminicidio è fondamentalmente quella di aver trasgredito al ruolo ideale di donna imposto dalla tradizione e da certa cultura che continua a non accettare che uomo e donna sono ontologicamente uguali e radicalmente differenti.
Ne ha dato una definizione compiuta l’antropologa messicana Marcela Lagarde: “Femminicidio è la forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine - maltrattamenti, violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, lavorativa, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria, istituzionale - che comportano l’impunità delle condotte poste in essere tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una posizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambine: suicidi, incidenti, morti o sofferenze fisiche e psichiche comunque evitabili, dovute all’insicurezza, al disinteresse delle istituzioni e alla esclusione dalla sviluppo e dalla democrazia”.
Un termine che qualcuno ha criticato, ma che è stato utilizzato anche dall’inviata dell’ONU, nel rendere noto, pochi giorni fa, il primo rapporto sul femminicidio (appunto) in Italia. Rashida Manjoo ha definito “grave e insostenibile” la situazione. “Queste morti - ha affermato - non sono incidenti isolati che arrivano in maniera inaspettata e immediata: sono l’ultimo efferato atto di violenza che pone fine a una serie di violenze continuative nel tempo. La gran parte di violenze non è denunciata perché non è sempre percepita come un crimine”.
Il rapporto dell’Onu mette sotto accusa la cultura patriarcale ed evidenzia come l’origine di questa forma di violenza, fuori e dentro la famiglia, sia imputabile al persistere, in taluni soggetti maschili, del bisogno ancestrale di esercitare dominio sulle donne, considerate oggetti e non soggetti. Rashida Manjoo, nel valutare ciò che l’Italia sta facendo per porre rimedio ad un dato così allarmante, è piuttosto severa: stigmatizza come “non appropriate” le “risposte” dello Stato italiano, ed arriva a definire il femminicidio “crimine di Stato” perché di fatto “tollerato dalle pubbliche istituzioni”. Vale la pena ricordare, in questi giorni di tagli e di spending review, quanto ancora affermato dalla relatrice speciale ONU contro la violenza sulle donne: “L’attuale situazione politica ed economica dell’Italia non può essere utilizzata come giustificazione della violenza su donne e bambine in questo Paese”.
Il problema, molto serio, dovrebbe essere affrontato a più livelli, soprattutto nei luoghi della formazione e dell’informazione. Siamo, infatti, indubbiamente di fronte ad una nuova e irrimandabile “questione maschile” che, in verità, rimane ancora da comprendere nel suo significato più profondo, a livello sociale, culturale ed etico.
La cultura in mille modi rafforza la concezione per cui la violenza maschile sulle donne è un qualcosa di naturale: un messaggio devastante alimentato da una proiezione permanente di immagini, dossier, pubblicità che legittimano la violenza. Si ha l’impressione che, soprattutto in certe zone dell’Italia, persistano attitudini socioculturali inclini a “condonare” la violenza domestica. Forse è proprio da questo dato allarmante che bisogna partire per prevenire e contrastare il femminicidio.
Inutile dire che di passi avanti in questi ultimi anni ci sono stati. L’attenzione alla protezione delle donne che decidono di uscire da situazioni di violenza è sempre maggiore. Tuttavia troppe sono ancora le donne ammazzate perché è carente una reazione collettiva forte ad una cultura assassina, che riporta in auge pregiudizi e stereotipi antichissimi legati alla virilità, all’onore, al ruolo degli uomini e delle donne nella coppia e nella società.
Per sconfiggere la cultura androcentrica e patriarcale è necessaria una più ferma presa di posizione netta da parte di tutte le persone responsabili fortunatamente presenti nelle istituzioni e nella società. La violenza nei confronti delle donne deve essere considerata socialmente inaccettabile. Le nostre città devono distinguersi per come scelgono di prevenire e contrastare la violenza contro le donne e non per l’inerzia o la stanchezza con le quali, tacendo, finiscono di fatto con l’assecondarla. In questo contesto il ruolo della Chiesa è (dovrebbe essere) di assoluta importanza.
Ed allora mi chiedo e le chiedo, caro direttore: perché questo argomento non è quasi mai affrontato in ambito ecclesiale? perché la tutela della dignità della donna è per lo più ritenuta di competenza di specifiche organizzazioni sociali femminili? perché il tema della violenza domestica o dello sfruttamento sessuale della donna viene sistematicamente ignorato a livello di pastorale ordinaria? perché i presbiteri, nelle loro omelie, preferiscono per lo più “glissare” su argomenti così scabrosi? perché le nostre comunità sembrano impreparate a ripensare con coraggio la questione di genere, con una sguardo che non si fermi alla sola “questione femminile”, ma affronti anche il grande tema rimosso della “mascolinità!”?
Educare alla vita buona del vangelo non andrebbe declinato anche al femminile, se non altro per prendere atto che società civile e mondo ecclesiale hanno un debito nei confronti della donna e molto da farsi perdonare? E’ sufficiente riempirsi la bocca di proclami sulla raggiunta parità delle donne e, davanti al grido e all’urlo degli abusi compiuti a loro danno, rinunciare ad aggredire il male alla radice, non sapendo fare altro che limitarsi ad invocare misure repressive più incisive?
Le donne, gli uomini e la più grande bugia della storia
di Luciana Castellina (l’Unità, 28.06.2011)
C ’è una bugia storica che non può essere svelata declassificando documenti segreti, come è stato per le Carte del Pentagono o per le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein. A dirla sono le nostre moderne democrazie. Consiste nel far credere che, adesso, nascono bambini neutri e non più, come una volta, bambine femmine e bambini maschi. Sulla base di questa menzogna hanno spacciato come universale l’intero edificio istituzionale dei nostri Paesi e la loro organizzazione sociale, che è invece rimasta tutta disegnata sull’essere umano maschio. Da quando la bugia è stata detta, le donne, per non rimanere prigioniere nel ghetto del privato familiare sottratto alle regole pubbliche, hanno dovuto vivere clandestinamente la propria identità, mascherandosi da essere neutro, cioè, nei fatti, da uomo.
Il femminismo recente ha per fortuna cominciato a sollevare dubbi su questa carnevalata. Purtroppo per disvelarla non basta desecretare carte, perché riconoscere l’esistenza di una differenza di genere cui viene nagato valore, significherebbe rimettere in discussione l’intera filosofia che ispira i nostri sistemi democratici, fondati sul principio di uguaglianza di fronte alla legge. Un’idea che ha avuto e ha molte buone ragioni, perché ha aiutato a eliminare i privilegi più vistosi e le esclusioni più inaccettabili, ma che non ha eliminato le disuguaglianze profonde: le ha nascoste come si fa con la polvere sotto i tappeti.
E così le istituzioni, i codici, la rappresentanza, l’organizzazione civile, l’assetto materiale della vita continuano ad assumere l’inesistente essere neutro come referente: un cittadino travestito da astratto, indistinto nel genere così come nella sua collocazione sociale reale.
Dire “ogni cittadino è uguale di fronte alla legge” è una conquista democratica ma anche un inganno. L’astrattezza della norma andrebbe colorata assumendo come metro il bisogno di ognuno, valorizzando la sua diversità e organizzando la vita collettiva in modo da dare uguaglianza concreta alle differenze. Significherebbe costruire identità relazionali in cui ciascuno, anziché mutilarsi per entrare nella corazza dell’astratto, o rifugiarsi, mortificato, nella sua diversità diventata debolezza, si costruisce un’identità che assume l’altra o l’altro come risorsa critica di se stessa e di se stesso. A partire da qui si potrebbe ridisegnare un mondo migliore.
Detto questo, sono tuttavia d’accordo con Bobbio quando ci metteva tutti in guardia dai rischi di indebolire le garanzie formali di questa nostra democrazia che per ora è la migliore in circolazione. Ma d’accordo con Bobbio anche quando esprimeva la sofferta consapevolezza dei suoi limiti. Mi basterebbe che almeno si sapesse della bugia storica e non si pensasse di ristabilire la verità concedendo qualche diritto a tutela delle minoranze (e peraltro le donne non sono una minoranza). Mi basterebbe insomma mettere una spina nel fianco della nostra democrazia imperfetta, e avere il coraggio di continuare a pensare il non ancora pensato. Non siamo alla fine della storia.
Benedetti i gay
di Filippo Gentiloni (il manifesto, 26 giugno 2011)
Due titoli di rilievo su un fatto piuttosto sensazionale avvenuto in questi giorni: la Repubblica : «Il matrimonio in chiesa di Ciro e Guido: i valdesi rompono il tabù delle nozze gay», sottotitolo: Prima unione domenica a Milano: l’amore merita la nostra benedizione». Il settimanale protestante « Riforma»: «Testimoniare il dono ricevuto», sottotitolo: «Ciro e Guido, la coppia che un anno fa aveva chiesto al Concistoro valdese di Milano un culto di benedizione della loro unione potrà finalmente condividere il dono dell’amore che lega l’uno all’altro».
Titoli e sottotitoli chiariscono un fatto che potrebbe facilmente essere frainteso. La Riforma lo ridimensiona. riferendo di una coppia gay che chiedeva alla chiesa valdese di Milano che la loro unione fosse benedetta, non rivendicando un diritto, ma un «dono».
Il sinodo aveva risposto così: «Consapevole del fatto che la benedizione testimonia un riconoscimento e una condivisione annunciata e proclamata della grazia di Dio rivolta ad ogni creatura umana il sinodo è convinto che le parole e la prassi di Gesù non possono che chiamarci all’accoglienza di ogni esperienza e di ogni scelta improntate all’amore quale dono di Dio, liberamente e consapevolmente vissuto e scelto. Perciò si deve procedere nel cammino di condivisione e di testimonianza e laddove la chiesa locale abbia raggiunto un consenso maturo e rispettoso delle diverse posizioni, essa si senta libera di prendere le decisioni conseguenti». Una posizione nuova, ma bene articolata e condizionata.
I protestanti, dunque, non sacralizzano alcun rapporto, ma chiedono a Dio di accompagnare e ispirare quei loro fratelli che si amano. Così insieme a tanta parte del protestantesimo nel mondo, in 11 paesi, dai Paesi Bassi al Sud Africa.
Negli Stati uniti in cinque stati è prevista l’unione legale. Il presidente Obama si è espresso a favore di una legge che la introduca in tutti.
In Italia la chiesa luterana ha aperto alle copie omosessuali . Il sinodo valdese: «Purché la benedizione avvenga con il consenso delle comunità locali».
Rivoluzione di giovani per la dignità
di Vittorio Cristelli (vita trentina”, 27 febbraio 2011)
L’Africa settentrionale è in fiamme. L’insurrezione, partita dalla Tunisi dove è sparito nel nulla il dittatore Ben Ali, ha infiammato l’Egitto mettendo in fuga Mubarak. E si è estesa poi allo Yemen e negli ultimi giorni sta mettendo sotto sopra la Libia di Gheddafi.
Quello che è importante precisare è che non si tratta di una ribellione di massa per il pane - anche se effettivamente il pane manca -, bensì per la dignità umana, la libertà e la democrazia. Tant’è vero che protagonisti e attori sono i giovani tra i 25 e i 35 anni, anche con un lavoro, seppure precario.
Questo è emerso da una riunione del Cipax (Centro interconfessionale per la pace) a Roma il 3 febbraio scorso. Il teologo tunisino Adnane Mokrani, che insegna all’Università Gregoriana di Roma, ha segnalato che si tratta di rivendicazione di “dignità, fiducia e speranza”. Tant’è vero che lo slogan dell’insurrezione scoppiata a Tunisi recitava: “Siamo pronti a mangiare anche solo pane e acqua, ma vogliamo libertà e dignità”.
La prima scintilla è apparsa già in ottobre nel deserto marocchino del Sahara, dove 20 mila persone si erano asserragliate in un distretto chiamato “il campo della dignità”. Una rivolta soffocata nel sangue e nel silenzio dei mass media l’8 novembre. Il teologo Mokrani ha individuato la “novità” nel gesto disperato del giovane 26enne tunisino Mohammed Bou’azizi, che il 17 dicembre si è dato fuoco per protestare contro la requisizione del suo banchetto di frutta e verdura. Non quindi per fame, ma per sete di dignità e giustizia.
La conferma è venuta da un comunicato della Conferenza episcopale del Nord Africa, emanato il 3 febbraio scorso. In esso i vescovi affermano che le manifestazioni rappresentano una rivendicazione di libertà e di dignità e nascono dalle “generazioni più giovani della nostra regione, che si traducono nella volontà che tutti siano riconosciuti come cittadini e cittadini responsabili”. Precisano inoltre che la rivolta non è mossa da vessilli di una fede dominante, ma unisce nella piazze cittadini di appartenenze diverse attorno ad obiettivi di cittadinanza ed è dunque una grande occasione laica di dialogo e convergenza.
Fa loro eco il gesuita egiziano p. Henry Boudlad dicendo che il vero protagonista è il popolo e specificando che “non è il popolo vissuto sempre nella paura e nella sottomissione, ma una categoria molto precisa: i giovani appena diplomati e tuttavia disoccupati, frustrati, senza impiego, senza alloggio, senza prospettive di un avvenire”.
Il teologo Mukrani ammonisce anche l’Occidente e segnatamente l’Italia perché “se pensa di lottare contro l’immigrazione clandestina sostenendo dittature che producono povertà e quindi emigrazione, è fuori strada”.
Il nostro ministro degli Interni Maroni ha pienamente ragione e diritto di sollecitare un maggiore coinvolgimento dell’Europa nell’affrontare l’emergenza di migliaia di maghrebini che fuggono dai loro paesi in crisi per rifugiarsi sulle coste italiane. Ma dovrà pur chiedersi se non è stato un errore madornale affidarsi ai dittatori per fermarli. E come spiegare l’uscita del premier Berlusconi che, a chi lo invitava a telefonare a Gheddafi, ha risposto di non volerlo “disturbare in questo momento”? Disturbare, mentre sta facendo che cosa? La risposta è rintracciabile nei comunicati quotidiani che parlano di centinaia tra morti e feriti nella repressione.
Ma un altro dato deve risvegliare i politici. I giovani anche in quei paesi non si informano attraverso i comunicati ufficiali dei governi in carica, ma attraverso Internet, You-Tube, Facebook e Twitter. Attraverso quei canali si parlano e organizzano le manifestazioni., Spero bene che non si procede a oscurare anche quei canali, perché allora si verificherebbe un trapianto di dittatura. E se quei canali fossero gli stessi che hanno fatto scendere in piazza i nostri giovani - studenti, ricercatori, diplomati e laureati, ma precari? La domanda è retorica.
Un ultimo rilievo. Dice nulla che a far scendere in piazza masse di donne e di giovani sia la parola “Dignità”?