Intervista a Paolo Zellini che nel suo ultimo libro spiega la stretta connessione tra contare e pensare
E il mito creò il numero
Viaggio alle origini della matematica
Oggi abbiamo smarrito il senso di sintesi fra pensiero scientifico e umanistico presente nel calcolo
Il disordine sociale cioè il male, è organizzato con cura scientifica, vale a dire che è ordinato
Un’attività che determina le quotazioni di borsa il volo degli aerei i motori di ricerca le previsioni meteo
di Antonio Gnoli (la Repubblica, 04.10.2010)
Sullo sfondo del nuovo libro di Paolo Zellini - Numero e Logos, Adelphi, pagg. 449, euro 32) - c’è un problema antico, ma non per questo meno attuale, meno, starei per dire, impellente: il rapporto ordine-disordine. È una coppia che conosciamo bene: la vediamo all’opera nella politica, nell’economia, e perfino nei rapporti privati. Non è detto che l’ordine sia un bene assoluto e che il disordine rappresenti il male. L’uno e l’altro si tengono, si condizionano, a volte familiarizzano, altre ancora si escludono. Si attraggono e si respingono. Si affiancano e si alternano.
C’era una frase che circolava nel ’68, attribuita al Presidente Mao: "grande è il disordine sotto il cielo, eccellente la situazione". Voleva dire che il disordine non è solo fonte di disavventure, ma anche di sogni, di progetti, di utopie, di follie rivoluzionarie. Dal disordine può nascere il nichilismo che richiede, tuttavia, ordine ed esattezza.
Zellini lo dice con molta chiarezza: «Il disordine sociale è anch’esso organizzato con cura». Egli cita I fratelli Karamazov, forse il solo grande romanzo in cui la sovversione prende l’inquietante forma del numero e del logos, della puntualità e del calcolo nell’esecuzione. Verrebbe da aggiungere che molti film di Hitchkock sono costruiti sull’idea che il disordine (il male) richiede una perfezione dell’esecuzione che solo il calcolo può offrire.
Zellini è in origine un matematico, ma le sue straordinarie competenze filosofiche (e questo libro le esibisce con maestria, spaziando dal mondo antico a quello moderno) ne fanno un personaggio singolare, forse unico nel panorama italiano.
Il suo lavoro va in una direzione diversa dai tanti tentativi che la matematica ha fatto per assoggettare la filosofia. Insomma, niente filosofia della matematica, ma pari dignità a entrambi i saperi. È così?
«La tentazione di dire "niente filosofia della matematica" è forte, almeno nell’accezione comune del termine, nella quale prevale la convinzione erronea di poter fondare la matematica sulla logica. Quest’ultima, sebbene abbia una stretta relazione con la moderna scienza del calcolo, non basta per capire che cosa hanno in comune matematica e filosofia. Viceversa, una parte del pensiero mitico, filosofico e rituale, che di solito ignoriamo, aiuta a capire meglio il significato di importanti costruzioni matematiche».
A questo proposito è interessante che lei dedichi spazio alla figura di Proteo e al fatto che questo dio si colloca tra l’esperienza del mare e quella dei numeri. Ora, il mare è spesso visto come metafora del pericolo e del disordine e il regno dei numeri come lo strumento che ne scongiurerebbe l’ingovernabilità. Fin dall’inizio del suo libro siamo in presenza della coppia ordine-disordine.
«Il mare, nella tradizione greca come pure in quella ebraica, era metafora del disordine, ma anche della sofferenza e della prova. Navigare sui flutti - affermava Porfirio - era un modo per "placare il demone della nascita", allo scopo di raggiungere un approdo finale nella terra promessa. Ma appena fuori dei flutti si incontra il numero. Nell’Odissea Proteo, dio del mare tanto ambiguo quanto veridico, appena fuori dall’acqua passa in rassegna il suo gregge di foche contandole cinque per cinque».
Accennava alla tradizione ebraica.
«Nella tradizione ebraica, per esempio, l’arca che naviga sulle acque del diluvio ha precise forme geometriche».
Sfidando la convinzione che li vedrebbe opposti, lei descrive un accordo segreto tra il mito e il logos. Dove e quando si realizza questa alleanza?
«Mito e logos si incontrano nel quarto libro dell’Odissea. È qui che il logos rivela il senso originario di raccogliere, censire, enumerare. Faccio notare che siamo già alle soglie del problema filosofico di come l’unità si mantiene nel molteplice. E di questo senso originario è permeata la filosofia pitagorica che attraversa tutta la tradizione filosofica occidentale in misura ben maggiore di quello che si è disposti di solito a riconoscere».
Però nella tradizione filosofica è prevalsa una sola versione del logos, quella per intenderci "generalista", come mai?
«Difficile da dire. Tutto sembra aver congiurato: dalla filologia all’idealismo filosofico, dalla filosofia scientifica del ’900 agli orientamenti di pensiero che hanno emarginato la matematica o hanno preteso di intenderla alla stregua di un linguaggio rigoroso, basato su assiomi e deduzioni formali. Ma il logos non mai stato solo un "discorso"».
Non è un paradosso pensare che nel mito ritroviamo il logos che, combinandosi con misure ed enumerazioni, ci conduce dritti al calcolo moderno?
«Non lo è. Solo da poco la scienza ha scoperto che l’atto di enumerare è molto meno elementare di quello che sembra. Già in antiche prassi rituali interviene un pensiero matematico che rimane pressoché invariato nel corso di secoli ed è ancora ben riconoscibile nei procedimenti più avanzati del calcolo scientifico, dal quale dipendono, tra l’altro, le previsioni meterologiche, i prezzi di mercato, il volo degli aerei, l’industria delle automobili e i motori di ricerca».
L’accostamento tra pensiero mitico e pensiero scientifico non la espone all’accusa di irrazionalismo o di sincretismo?
«Molte formule sapienziali, ancora impregnate di pensiero mitico, sono allusioni indirette al numero e alla geometria. Le troviamo in Platone e in Boezio, nei Pitagorici e nei Neoplatonici, nella filosofia del Rinascimento e nel pensiero religioso da Filone di Alessandria in poi. Sono la base di ogni elaborazione filosofica, di ogni incontro tra scienza, filosofia e teologia. Perfino Hegel si avvale di formule verbali che, forse a sua insaputa, si adattano perfettamente agli algoritmi della matematica. Ciò che ci appare irrazionale è spesso impregnato di razionalità. Viceversa, certi modi di accogliere, usare o difendere la verità scientifica celano atteggiamenti irrazionali».
Come immagina il futuro di una società dominata dall’algoritmo e dalla Rete? Glielo chiedo alla luce delle preoccupazioni che già Max Weber aveva manifestato intorno al dominio incontrastato della scienza.
«In effetti, Weber dava un’immagine preoccupante del processo di razionalizzazione che ci domina. E oggi siamo sommersi da allusioni profetiche sui mali della tecnica. L’allarme non si può sottovalutare, ma è spesso fondato su conoscenze superficiali. I numeri e gli algoritmi che sembrano consegnarci - e forse ci consegneranno - a un destino di aridità e di povertà di pensiero, portano in sé elementi di straordinaria ricchezza concettuale. Sono questi elementi che ci permettono di dare una retta interpretazione dell’idea "intuitiva" di macchina. Solo conoscendo a fondo gli algoritmi siamo in grado di capire ed esorcizzare la paura che la macchina ci incute».
Lei sostiene che oggi è più difficile scegliere tra un uso buono e un uso cattivo della scienza. Perché?
«Il logos è una medicina ambigua, capace di liberare l’anima come di traviarla. Il numero e tutte le applicazioni della scienza possono sconfinare nella demonicità pura, nel male senza remissione di un attacco atomico o di un dominio indiscriminato della macchina, come aveva paventato Norbert Wiener, uno dei grandi scienziati del ’900. La lettura dei filosofi e dei matematici antichi aiuta d’altronde a capire quanto sarebbe assurdo attribuire al numero e ai calcoli eseguiti oggi dalle macchine una connotazione di pura malvagità. Io credo che occorra ripensare e recuperare nel calcolo moderno, la sintesi di scienza e umanesimo che vive nel significato smarrito del logos».
È la solitudine dei numeri, per dirla con una battuta, che bisogna vincere. Cercando magari un diverso equilibrio tra ordine e disordine. Non crede?
«La ricerca dell’ordine convive con la salutare minaccia di un disordine, che la matematica si incarica da sempre di riportare ai ranghi del numero, ma con la consapevolezza di poterlo fare solo in modo approssimativo, con un margine di errore e di incertezza. La sfera di pertinenza del logos e la potenza esplicativa del numero vanno ben oltre l’ordine e la precisione assoluta che si attendono di solito, ingenuamente, dalla matematica».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA TEOLOGIA POLITICA DELL’"ORCHIDEA": "ORCOD...", URBI ET ORBI. LA "NUOVA" TEOLOGIA DEI "DUE PAPI" E LA "NUOVA" EVANGELIZZAZIONE DI RINO FISICHELLA - QUELLA DELLA CHIESA CHE RUSSA!!!
IMPARARE A CONTARE! "UNO. IL BATTITO INVISIBILE". Note a margine del libro di Giulio Busi *
RICOMINCIARE DA CAPO, DALLA COSTITUZIONE: UNO NON EQUIVALE UNO (=1), MA RENDE POSSIBILE E FONDA OGNI - UNO (= 1). IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS, NON UN LOGO! TRACCE PER UNA SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA....
NONOSTANTE GIOACCHINO DA FIORE, NONOSTANTE DANTE ALIGHIERI (E LA DIVINA COMMEDIA) , NONOSTANTE GIOVANNI BOCCACCIO (E LA MEMORIA DI MELCHISEDEC E DEI TRE ANELLI), NONOSTANTE MICHELANGELO (E IL SUO TONDO DONI), NONOSTANTE LESSING (E IL SUO ELOGIO DEL SAGGIO NATHAN), NONOSTANTE FREUD E NONOSTANTE EINSTEIN ....
...SI VIVE ANCORA NEL REGIME DELL’UNO (= 1) E DELLA "DOTTA IGNORANZA" (1440) E DELLA COSMOTEANDRIA PLATONICA?!
"Dio non gioca a dadi" ma, dopo la lezione di Georges de La Tour (cfr. Giulio Busi, "Uno. Il battito invisibile": [...] A Preston Hall, nella grande serra in vetro e ferro trasformata in museo, i "Giocatori di Dadi" di Georges de la Tour accolgono i visitatori con il loro sorprendente mistero. Tre lanci, un unico risultato... I tre lanci hanno dato lo stesso risultato. Uno [...]"), l’Uno è ancora il più sfuggente e misterioso tra i numeri? Ogni essereu mano è un uno, ma ancora non si sa chi è l’Uno? Ma a che gioco giochiamo?! La storia è sempre e solo fatta da Uno (=1) solo? E i tre moschettieri lavorano ancora per il solito Uno (=1)?!
UNO. IL BATTITO INVISIBILE: "L’Uno ci avvolge, pulsa in noi. Troviamolo. L’Uno è stupore, incompletezza, mistero. A tratti, in una grande sventura o in una gioia profonda, per caso o dopo avere cercato a lungo, ci rendiamo conto d’essere parte di un tutto che ci sovrasta, ci avvolge e allo stesso tempo si sottrae alla nostra #comprensione. Lo sentiamo, il tutto, senza poterlo distinguere con esattezza. Sebbene non ci sia consentito misurarlo con la #ragione, ci pare quasi di toccarlo, tanto è vicino, intimo.
Vecchie storie bibliche, sogni di mistici, saggezza indiana, inquietudini dei filosofi greci, poesia del Novecento. Sono i bracci di un fiume immenso e segreto, che questo libro risale passo dopo passo in cerca dell’Uno, del suo fulgore, del suo battito lieve, profondo, invisibile. L’Uno, il più sfuggente e misterioso tra i numeri" (G. Busi, "Uno. Il battito invisibile", Il Mulino).
QUATTRO PROFETI (1+1+1+1) O DUE PROFETI + DUE SIBILLE?! Nella cornice del Tondo Doni di Michelangelo, secondo gli esperti della Galleria degli Uffizi, "Vi sono raffigurate la testa di Cristo e quelle di quattro profeti" (https://www.uffizi.it/opere/sacra-famiglia-detta-tondo-doni)? Non è bene, forse, rianalizzare il quadro e la cornice e ri-verificare la situazione, data la strettissima connesione anche con il lavoro portato avanti nella Cappella Sistina?!
... IMPARARE A CONTARE E USCIRE da interi millenni di labirinto (Nietzsche) e riprendere la diritta via (Dante2021), comporta un globale capovolgimento del puntodivista e, con Freud, l’aprire gli occhi (tutti e due) e guardare finalmente "da dove veniamo"... e lo straordinario sorgere della Terra, come è apparso ai primi esploratori del cosmo ...
DANTE2021, QUESTIONE ANTROPOLOGICA (ECCE HOMO) E
GIOCO DELLA TUNICA:
QUATTRO SOLDATI, TRE GIOCATORI DI DADI E PROBLEMA DELL’UNO.
A CHE GIOCO GIOCHIAMO?! Ancora al Grand Tour della cosmoteandria?
FLS
LINGUISTICA GENERALE (SAUSSURE) E MATEMATICA (RUSSELL), E LA "CORRISPONDENZA BIUNIVOCA" SCOMPARSA. Una questione antropo-logica epocale... *
Mathone. Pillole di matematica per comprenderla meglio ogni giorno
La matematica conta: storia dei primi numeri
di Paolo Boldrini *
Leggere, scrivere e contare sono tra le attività più importanti che la nostra mente riesce a svolgere e costituiscono la base dello sviluppo umano. In questo articolo analizzeremo l’operazione di contare e il concetto strettemente legato di numero naturale. Mentre lettura e scrittura sono invenzioni relativamente recenti, diffuse a partire dal 3000 a.C. l’usanza del contare ha radici molto più antiche.
1 Perchè gli uomini hanno iniziato a contare?
2 Piccole e grandi quantità
3 Il corvo conta fino a 5
4 Terzetti e numeri naturali
5 Un’apparente tautologia
6 Cosa significa contare?
Perchè gli uomini hanno iniziato a contare?
Le prime tracce di conteggi risalgono addirittura al paleolitico. I principali reperti che testimoniano questa capacità sono un osso di lupo risalente al 40000 a.C e il cosiddetto osso di Ishago, risalente al 20000 a.C. Entrambi i ritrovamenti presentano delle tacche incise. Mentre per il primo non si può escludere si trattasse di una funzione decorativa; nel caso dell’osso di Ishago, l’asimmetria delle incisioni rende concordi gli studiosi nell’affermare che la finalità non fu estetica ma pratica.
Ma che cosa contavano gli uomini nella preistoria? Non è difficile immaginare quali possano essere le utilità di un tale strumento: per un cacciatore era fondamentale sapere quante lance avesse a disposizione, mentre un raccoglitore era interessato a sapere quanti frutti era stato in grado di trovare in una giornata.
In seguito, con la diffusione dell’agricoltura e dell’allevamento, divenne ancora più importante saper contare: un pastore deve conoscere esattamente la quantità di pecore nel suo gregge, altrimenti rischia di dimenticarne qualcuna! Ah di pecore e numeri naturali ne avevamo parlato anche qui Numeri Naturali: dalle pecore al concetto di numero .
Piccole e grandi quantità
Nonostante il contare abbia risposto originariamente a problemi pratici, si tratta di un’operazione astratta e tutt’altro che naturale. Essa non va confusa con la capacità di distinguere piccole quantità di oggetti; per comprendere la differenza è sufficiente un rapido esperimento.
Quanti oggetti contengono i seguenti gruppi?
Ovviamente è molto semplice distinguere le differenze, senza la necessità di mettersi effettivamente a contare quante figure sono presenti in ogni insieme.
Questo però funziona solo con piccole quantità: prova a valutare il numero degli oggetti nei seguenti insiemi:
In questo caso è stato certamente più difficile capire il numero “a colpo d’occhio” e probabilmente sarà stato necessario contare le forme a piccoli gruppi di due o tre elementi per avere la certezza del numero totale.
Mentre la capacità di contare sembra essere prerogativa umana, la distinzione tra piccoli gruppi di oggetti è diffusa anche in alcuni animali, soprattutto uccelli. A questo proposito è interessante riportare un racconto risalente al Settecento.
Il corvo conta fino a 5
Un contadino voleva uccidere un corvo che aveva nidificato in cima a una torre, dentro ai suoi poderi. Ogni volta che si avvicinava, però, l’uccello volava via, fuori dalla portata del suo fucile, finché il contadino non si allontanava. Solo allora l’animale ritornava nella torre, riprendendo le incursioni sui terreni dell’uomo. Il contadino pensò allora di chiedere aiuto a un suo vicino. I due, armati, entrarono insieme nella torre e poco dopo ne uscì soltanto uno. Il corvo però non si lasciò ingannare, e non ritornò al nido finché non fu uscito anche il secondo contadino. Per riuscire ad ingannarlo entrarono poi tre uomini e successivamente quattro e cinque. Ma il corvo ogni volta aspettava che fossero usciti tutti prima di far ritorno al nido. Soltanto in sei finalmente, i contadini ebbero la meglio, infatti il corvo aspettò che cinque di loro fossero usciti e quindi fiducioso rientrò sulla torre, dove il sesto contadino lo uccise.
Stimolati da questo racconto, diversi studiosi si sono interessati dell’effettiva capacità di conto di alcuni animali, in particolare l’etologo tedesco Otto Koehler dimostrò con una serie di esperimenti che il suo corvo, Jacob era in grado di contare fino a 6, quindi al contadino per stanarlo sarebbe servita una persona in più rispetto a quelle del racconto!
Terzetti e numeri naturali
É giunto il momento di interrogarci sul vero significato del contare [**]. Fino ad ora abbiamo dato per scontato un legame tra il processo di conteggio e i numeri naturali. Essi sono talmente basilari che raramente ci soffermiamo sul loro reale significato.
L’idea, apparentemente banale, che sta alla base dei numeri naturali e di conseguenza del conteggio è che un terzetto di pecore, un terzetto di mele e un terzetto di pietre hanno una cosa in comune: il numero 3!
Tuttavia, come spiega il filosofo e matematico Bertrand Russell, nel suo saggio “Introduzione alla filosofia matematica”, non bisogna commettere questo fraintendimento: “Un terzetto d’uomini è un esempio del numero tre, e il numero tre è un esempio di numero; ma il terzetto non è un esempio di numero“.
Tutti i terzetti hanno in comune il numero 3, ma nessuno dei terzetti costituisce il numero 3. Essi sono ben distinti dai duetti e dai quartetti, e ciò che li distingue è proprio il fatto di essere 3. Quindi un numero è la caratteristica comune a tutti gli insiemi costituiti da quel determinato numero di elementi. Il numero 7 per esempio è tecnicamente definito come l’insieme degli insiemi di 7 elementi.
Un’apparente tautologia
Questa affermazione sembra tautologica: come posso sapere il “numero di elementi di un insieme” se non conosco la definizione di numero e non so nemmeno cosa significhi contare?
Immaginiamo di avere duetti, terzetti e in generale insiemi di n elementi, come posso raccogliere tutti quelli con lo stesso numero di elementi senza effettivamente contarli?
Russell utilizza il criterio della corrispondenza biunivoca. Dati due insiemi, essi hanno la stessa cardinalità (numero di elementi) se e solo se è possibile creare una funzione biunivoca tra i due. Ovvero una funzione che ad ogni elemento del primo insieme associa uno e un solo elemento del secondo.
In questo modo è possibile raggruppare gli insiemi con la stessa cardinalità senza presupporre la capacità di contare. Fatto ciò è sufficiente dare un nome agli insiemi di insiemi (1 a quelli di 1 elemento, 2 a quelli di 2 e così via). In questo modo abbiamo definito i numeri in maniera consistente!
Cosa significa contare?
A questo punto resta solo da capire cosa significhi contare. Anche in questo caso è utile ragionare in termini di corrispondenze biunivoche. Soffermiamoci sul caso dell’osso di Ishago, su di esso ogni tacca sta a rappresentare un’unità. Non si sa cosa sia stato contato in questo modo, supponiamo i frutti raccolti durante la giornata. Ad ogni frutto corrisponde una tacca, quindi esiste una corrispondenza biunivoca tra l’insieme dei frutti e l’insieme delle tacche. Astraendo possiamo asserire che l’operazione di contare non è nient’altro che creare una corrispondenza biunivoca tra l’insieme degli oggetti da contare e un sottoinsieme dei numeri naturali!
Se vuoi approfondire ti consiglio l’articolo GEORG CANTOR: QUANTO È INFINITO L’INFINITO? in cui Lorenzo spiega come contare insiemi di infiniti elementi!
Spero che questo articolo ti sia piaciuto, nel prossimo vedremo come il concetto di numero si è evoluto nelle diverse culture. Ospite speciale: il numero 0!
Se ti interessa l’argomento dei numeri, del contare e la matematica più in generale ti consiglio questo libretto leggero ma interessante: L’uomo che sapeva contare.
* Fonte: Mathone (ripresa parziale - senza immagini).
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
RILEGGERE SAUSSURE. UN "TRATTATO TEOLOGICO-POLITICO" RIDOTTO A UN BANALE "CORSO DI LINGUISTICA GENERALE"!!!
DONNE, UOMINI E MATEMATICA. Se le donne non "contano", non sanno nemmeno contare; e gli uomini, se "contano", altrettanto non sanno nemmeno contare!!! La punta di un "iceberg": una "nota" del "disagio della civiltà"
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
Federico La Sala
SCIENZA, FILOSOFIA, E ANTROPOLOGIA. Non è il caso di ripensare i fondamenti?! *
Chimica.
I 150 anni della tavola di Mendeleev, il rivoluzionario degli elementi
Lo scienziato russo inventò la Tavola periodica degli elementi grazie alla sua passione per i giochi: la sua scoperta ha qualcosa di incredibile. Mendeleev scoprì anche l’origine minerale del petrolio
di Franco Gàbici (Avvenire, mercoledì 27 febbraio 2019)
Il primo giorno di marzo del 1869, e dunque 150 anni fa, il chimico russo Dmitrij Ivanovic Mendeleev (1834-1907) presentava la sua famosa "Tavola periodica degli elementi", che oggi sotto forma di poster campeggia in tutte le aule di scienze del mondo e in omaggio a questa straordinaria invenzione l’Onu ha dichiarato il 2019 "Anno internazionale della tavola periodica degli elementi".
Per la creazione di questa ’tavola’ lo storico della scienza John D. Bernal definì Mendeleev «il Copernico della chimica» e in effetti il chimico russo fornì ai ricercatori uno strumento efficacissimo che non solo catalogava gli elementi fino allora conosciuti ma consentiva soprattutto di fare delle previsioni.
Al tempo di Mendeleev erano conosciuti 63 elementi e gli scienziati si erano posti il problema di dar loro una sistemazione secondo uno schema logico. Anche Mendeleev, ovviamente, stava studiando la questione e la scoperta della sua tavola è legata a una storia che ha dell’incredibile.
Come Mendeleev sognò la Tavola periodica degli elementi
Mendeleev, infatti, era un appassionato giocatore di carte e il gioco che maggiormente preferiva era il cosiddetto "solitario". E proprio inventando un "solitario chimico" gli venne l’idea che gli avrebbe dato fama e prestigio. Mendeleev trascrisse su cartoncini il simbolo degli elementi conosciuti e il loro peso atomico, vale a dire il numero che si ottiene facendo la somma dei neutroni e dei protoni contenuti nel nucleo di ogni atomo, e si mise a giocare con quei cartoncini ordinandoli e organizzandoli proprio come si usa fare con le carte da gioco.
Quello strano "solitario", però, non gli indusse nessuna soddisfazione e così dopo tre giorni e tre notti trascorsi davanti al tavolo gettò la spugna e se ne andò a dormire. E qui accadde il miracolo, perché in sogno ebbe la visione di quella "tavola" che stava cercando. In quella tavola gli elementi, ordinati in colonne, e raggruppati in gruppi di elementi simili, presentavano «una evidente periodicità di proprietà» e proprio a causa di questa particolarità chiamò la sua tavola con l’appellativo «periodica». Ed era talmente convinto che la sua idea fosse giusta che proprio pensando a questa periodicità lasciò nella sua tavola alcuni spazi vuoti che, secondo le sue previsioni, sarebbero stati occupati da elementi ancora da scoprire.
Una Tavola profetica
La tavola periodica degli elementi all’inizio non fu però accolta molto benevolmente ma sei anni dopo quanti nutrivano dubbi dovettero ricredersi. Nel 1875, infatti, esaminando un metallo proveniente dai Pirenei, il chimico Paul Émile Lecoq de Boisbaudran scoprì il Gallio, un metallo che andò a occupare, accanto all’alluminio, la casella vuota che Mendeleev gli aveva riservato e per il quale aveva pensato il nome di "Eka-alluminio". Il peso atomico del Gallio (69.7) era molto simile a quello previsto da Mendeleev (68) e ciò dimostrava che la tavola funzionava. Successivamente altri tre posti vuoti previsti dalla tavola furono occupati dall’Elio, dal Neon e dall’Argon e ribadirono la geniale intuizione di Mendeleev.
Ovviamente le moderne tavole contengono più elementi perché ora gli elementi conosciuti hanno superato il centinaio. Gli ultimi inseriti, che completano il "settimo periodo" della tavola, sono quattro. Si tratta però di elementi creati in laboratorio e non rintracciabili in natura: il Nihonio (113), il Moscovio (115), il Tennesso (117) e l’Oganesson (118).
Nel corso del tempo la tavola di Mendeleev ha subito una sorta di restyling che, pur lasciando integra la sostanza, ne ha cambiato invece la forma. Moltissime le versioni, secondo alcuni sarebbero addirittura 800 e dalle forme più svariate: circolari, cubiche, a elica, piramidali, a spirale, a triangolo... Una versione curiosa ha disposto gli elementi secondo uno schema che segue il tracciato della metropolitana di Londra! Insomma, come si dice, ce n’è per tutti i gusti.
I rivali di Mendeleev
Non è infrequente, sfogliando la storia della scienza, imbattersi nell’annosa questione della priorità di una scoperta e Mendeleev e la sua tavola non fecero eccezione. Già Johann Wolfgang Döbereiner, un autodidatta garzone di una farmacia, aveva raggruppato a tre a tre gli elementi che avevano proprietà chimiche simili, insiemi conosciuti come le "triadi di Döbereiner", e che in qualche modo possiamo considerare i progenitori della tavola periodica. Anche John Dalton e John Newlands si interessarono al problema e altri ancora si aggiunsero all’elenco dei presunti scopritori della tavola come John Newlands che dopo aver notato il ripetersi di certe proprietà a intervalli di 8, paragonò la periodicità alle ottave musicali formulando la "Legge delle ottave".
L’unico, forse, che potrebbe a ragione rivendicare un diritto di priorità è Julius Lothar Meyer che nel 1864, e dunque cinque anni prima della presentazione di Mendeleev, dopo aver pubblicato una tavola nella quale aveva sistemato 28 elementi col criterio del peso atomico crescente, presentò una tavola periodica molto simile a quella di Mendeleev. E secondo Van Spronsen, dunque, Mendeleev e Meyer si possono considerare scopritori indipendenti della stessa legge.
Le due tavole erano molto simili. In entrambe, infatti, gli elementi erano sistemati in righe e colonne seguendo l’ordine del peso atomico crescente, ma alla fine fu adottata quella di Mendeleev perché risultava più precisa, ma anche e soprattutto per quegli spazi vuoti inseriti che ipotizzavano elementi ancora da scoprire.
Va infine ricordato che Mendeleev non va identificato tout court con la sua tavola. Il chimico russo, infatti, scoprì l’origine minerale del petrolio e si dedicò allo sviluppo dell’industria petrolifera e anche carbonifera. Credeva, inoltre, nel grande significato sociale e culturale della scienza e, come si legge nella voce che gli ha dedicato la grande enciclopedia Scienziati e tecnologi (Mondadori, 1975), «considerò il progresso della scienza come una condizione assolutamente indispensabile di sviluppo dell’economia e della cultura», un tema a lui molto caro e al quale dedicò numerosi articoli e saggi.
Idee.
La scienza ha bisogno della filosofia
Senza una visione umanistica che risalga ai fondamenti della conoscenza il rischio è la dispersione Ma l’attività delle scienze trova il suo presupposto nella dimensione personale del ricercatore
di Giuseppe Tanzella-Nitti (Avvenire, giovedì 24 ottobre 2019)
La formulazione della tavola periodica degli elementi chimici, scoperta 150 anni or sono dal chimico russo Dmitrij Ivanovic Mendeleev, ha suggerito al Festival della scienza di Genova di dedicare l’edizione dell’anno 2019 al tema degli “Elementi”. La scelta è senza dubbio opportuna. Il metodo scientifico, infatti, deve gran parte del suo successo alla capacità di “ridurre” i fenomeni a modelli matematizzabili, in base ai quali poter predire il comportamento di un sistema nel tempo. Tale processo consiste nello “scomporre” il suo oggetto di studio per cercare gli elementi e le proprietà elementari del reale fisico.
L’implicita persuasione che orienta questo metodo è l’idea che per conoscere davvero una cosa occorra saperla scomporre nei suoi elementi e capire come e perché funziona... È ciò che facciamo quando esaminiamo una scatola di costruzioni... Il ricercatore, tuttavia, si imbatte spesso in qualcosa di inaspettato. Nell’operare questa “scomposizione” e procedere lungo il suo cammino di comprensione dei fenomeni, si accorge talvolta che, per comprendere e rappresentare un fenomeno, occorre partire da alcuni presupposti, che non appartengono, in senso stretto, al metodo scientifico. Così facendo la scienza spinge la sua analisi fino al fondamento stesso del conoscere. Il tentativo rappresentarlo, al confine fra scienza e filosofia, viene chiamato il problema dei fondamenti.
Le discipline scientifiche colgono questo stato di cose in diversi ambiti della loro ricerca. La cosmologia contemporanea lo fa quando cerca di tematizzare l’universo come un “tutto”, in particolare la sua origine. La fisica e la chimica, quando si interrogano sul motivo delle specifiche formalità dei componenti della materia, sulla loro universalità, sui loro criteri di ordinamento e di simmetria. La biologia si chiede se a fondare il suo oggetto di studio siano gli elementi che compongono il vivente o non, piuttosto, l’organismo nel suo insieme. Anche la matematica e la logica si interrogano sui loro fondamenti, quando ricercano la completezza dei sistemi assiomatici e dei linguaggi formali in genere.
In sostanza, per comprendere la realtà non basta conoscere gli elementi che la compongono (particelle elementari, elementi chimici), ma è necessario conoscere anche i processi di cui tali elementi sono oggetto e i loro rapporti con l’ambiente circostante. Si affacciano all’analisi delle scienze le nozioni di relazione e di informazione, proprietà che riguardano la totalità del sistema in esame e, grazie ad essa, aiutano a comprendere il comportamento delle parti che lo compongono. Ne risultano interessate, in particolare, la fisica (sistemi complessi, meccanica quantistica), la chimica (proprietà molecolari) e la biologia ( system biology). In questi fenomeni si converge ormai sulla conclusione che “il tutto è maggiore della somma delle parti”. Imbattersi nel problema dei fondamenti suggerisce che l’articolazione fra scienze e filosofia non sia solo quella del “limite” - immagine alla quale siamo abituati soprattutto nelle questioni di carattere etico - ma piuttosto quella dell’apertura e del trascendimento.
La riflessione filosofica non limita la scienza, impedendole di procede- re nella sua conoscenza, ma piuttosto la fonda e la trascende, offrendole i presupposti che la rendono possibile. Lungo questi percorso, la domanda dello scienziato sui fondamenti del conoscere può diventare apertura al mistero del Fondamento dell’essere. Nel suo volume La mente di Dio, Paul Davies scriveva: «Per quanto le nostre spiegazioni scientifiche possano essere coronate dal successo, esse incorporano sempre certe assunzioni iniziali. Per esempio, la spiegazione di un fenomeno in termini fisici presuppone la validità delle leggi della fisica, che vengono considerate come date. Ma ci si potrebbe chiedere da dove hanno origine queste leggi stesse. Ci si potrebbe perfino interrogare sulla logica su cui si fonda ogni ragionamento scientifico. Prima o poi tutti dobbiamo accettare qualcosa come dato, sia esso Dio, oppure la logica, o un insieme di leggi, o qualche altro fondamento dell’esistenza».
Molti scienziati - nel passato come nel presente - hanno condiviso la visione che la natura fosse effetto di un Logos creatore. A motivare la loro ricerca è stata la convinzione che esistesse una verità oggettiva, riflesso di un Fondamento increato e meritevole di essere cercata con passione. Francis Collins dichiara di averlo compreso studiando il Dna e restandone tanto colpito da convertirsi da posizioni agnostiche ad un cristianesimo convinto, fino a fondare l’importante Fondazione Bio-Logos per studi su scienza e fede. Non sappiamo se Mendeleev, già cristiano ortodosso, osservando la sua Tavola degli elementi chimici abbia provato un sentimento analogo. Dobbiamo però a lui l’opportunità, 150 anni dopo, di poterlo provare noi.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
Federico La Sala
MATEMATICA, TEOLOGIA POLITICA, E ANTROPOLOGIA...
Api matematiche, riconoscono lo zero
Come delfini, pappagalli e scimpanzè
di Redazione Ansa*
Anche le api entrano a far parte del club molto esclusivo di animali che sanno cos’è lo zero, insieme a delfini, pappagalli, scimpanzè e bambini in età prescolare: si tratta di una scoperta sorprendente, considerata la complessità del concetto matematico astratto del nulla, e apre a nuovi e più semplici approcci per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale. Lo studio, pubblicato sulla rivista Science, è stato coordinato dall’Università di Melbourne in Australia (Rmit), in collaborazione con l’Università francese di Tolosa.
La scoperta solleva non poche domande su come una specie così diversa e lontana dagli esseri umani, con meno di un milione di neuroni a confronto degli 86 milioni del cervello umano, possa condividere un’abilità così complicata: infatti lo zero è un concetto molto difficile che i bambini impiegano anni ad imparare e che era assente in alcuni sistemi numerici di antiche civiltà.
I ricercatori guidati da Scarlett Howard hanno attirato gli insetti verso una parete con piccoli fogli bianchi, ognuno con un numero da due a cinque di forme nere disegnate. Dopo aver addestrato le api tramite ricompense di cibo a scegliere i fogli con un minore o un maggior numero di forme, i ricercatori hanno introdotto due numeri nuovi, uno e zero: a quel punto gli insetti hanno dimostrato di sapere che lo zero è minore di uno.
"Se un’ape riesce a riconoscere lo zero con meno di un milione di neuroni", dice Adrian Dyer dell’Università di Melbourne, uno degli autori, "allora devono esserci modi più semplici ed efficienti per insegnare lo stesso concetto ai sistemi di Intelligenza Artificiale. Ad esempio - prosegue - per noi è semplice attraversare la strada quando non passa nessuno, ma per un robot risulta un compito molto più difficile".
Sul tema, nel sito, si cfr.:
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
MATEMATICA, TEOLOGIA POLITICA, E ANTROPOLOGIA: CONTIAMO E PENSIAMO ANCORA COME SE FOSSIMO NELLA CAVERNA DI PLATONE. NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN
Federico La Sala
Matematici nell’ombra
di Michele Emmer (Alfabeta2, il 26 marzo 2017 · in AlfaDomenica · 1 Commento)
“Mi sento un matematico” dichiara il protagonista del film. Si dirà che non è una novità, oramai di film sui matematici se ne sono realizzati tanti e alcuni nomi di matematici sono diventati noti agli spettatori di cinema. Però chi formula quella frase è una donna. E questa è una bella novità, perché - se non si considera quel polpettone di Agorà realizzato qualche anno fa sulla incredibile storia della matematica greca Ipazia, impersonata da Rachel Weisz - di donne matematici al cinema se ne sono viste pochissime, e in ruolo marginali o inesistenti, come in The Imitation Game. Senza voler sollevare la questione che sino al ventesimo secolo le matematiche importanti si contavano sulle dita di una mano. Il nesso tra personalità femminile e pensiero astratto: non ho mai creduto a queste differenze di genere e gli ultimi cento anni hanno dimostrato che ci sono tante matematiche donne di eccezionale livello. Dunque, “mi sento un matematico” lo dice la protagonista donna matematico in un film candidato all’Oscar come miglior film, Octavia Spencer per attrice non protagonista.
Dunque una donna matematico, nera. E questa sì che è una grande novità al cinema. Se poi la storia si svolge negli USA dell’inizio della corsa spaziale - siamo tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta -, ecco allora che la novità emerge in tutta la sua importanza. Una storia sconosciuta, ma non per questo meno esemplare e importante, con il film che è uscito in coincidenza in Italia con quella festa della donna del tutto ingiustamente criticata (anche su Alfabeta2). Ma non vorrei divagare.
Scopriamo così che i matematici donne nere USA in quegli anni non erano solo tre, come le protagoniste del film Hidden Figures ("Persone nell’ombra", tradotto in italiano Diritto di contare con un banale gioco di parole. Tanto i matematici che fanno? Calcolano numeri!). In realtà erano decine e decine, donne e uomini, che lavoravano alla NASA. Negli anni Settanta gli ingegneri neri negli Stati Uniti erano il 1%, solo nel 1984 saliranno al 2%. Ma nel 1984 alla NASA gli ingegneri neri erano lo 8,4%. Lo scrive in Hidden Figures (Harper Collins Publishers, Londra, 2016) Margot Lee Shetterly, anche lei donna nera, figlia di ingegneri neri che lavoravano alla NASA, al National Aeronautics and Space Administration’s Langley Research Center a Hampton, nello stato della Virginia. La Shetterly quando era bambina pensava che la grande maggioranza dei neri americani, uomini e donne, si occupassero di scienza, di matematica, di ingegneria. La Shetterly voleva raccontare quella storia e lo avrebbe fatto anche se la storia fosse cominciata con le prime cinque donne nere che andarono a lavorare al centro di ricerca a Langley, in uno stato, la Virginia, segregazionista, nel maggio del 1943. “Posso citare i nomi di almeno 50 donne nere che hanno lavorato come computers (a fare calcoli a mano), matematici, ingegneri a Langley dal 1943 al 1980, e cercando meglio almeno altri 20 nomi si potrebbero aggiungere.”
L’autrice del libro è del tutto sensibile alla dissonanza cognitiva evocata dalla frase “black female mathematicians at NASA”. Ha incontrato di persona la favolosa Katherine Johnson (nel film Taraji P. Henson), colei che ha controllato la traiettoria di rientro dallo spazio per l’astronauta John Glenn, una delle protagoniste del film. Le altre due sono Dorothy Vaughan (Octavia Spencer), Mary Jackson (Janelle Monae). Alla NASA devono essere fischiate le orecchie quando hanno saputo del libro, e poi del film, con un titolo che suona “Chi ha fatto dimenticare queste persone?”, e nel sito ufficiale c’è una pagina in cui si afferma che negli anni questa storia è sempre stata ricordata. Certo, un libro ed un film di successo hanno una eco molto maggiore. E probabilmente allora la NASA non voleva troppi problemi.
Nel sito della IBM ci sono pagine dedicate al famoso IBM Data Processing System 7090, il cui primo esemplare viene installato nel 1959. Chi è stato allora studente universitario di matematica ricorda bene i primi corsi di Fortran per programmare quegli enormi bestioni con pile di schede perforate che non facevano altro che incastrarsi. Il grande computer è uno dei personaggi centrali del film. È una delle tre ragazze nere ad avere l’idea di imparare il Fortran, il linguaggio di programmazione, e di insegnarlo alle altre decine di ragazze per essere pronte per l’arrivo del grande computer.
Il primo Sputnik viene lanciato dai Sovietici il 4 ottobre 1957, Jurij Gagarin è il primo uomo a volare nello spazio il 12 aprile 1961. Gli USA erano alla rincorsa per cercare di riprendere il ritardo, che aveva ovvie implicazioni militari. La crisi dei missili di Cuba, dopo l’invasione tentata nell’aprile 1961 e i missili nucleari a Cuba, inizia il 15 ottobre 1962. Allora la guerra nucleare sembrava possible, e chissà che non torni di attualità, considerando i geni che ci governano oggi. La risposta USA è il progetto spaziale Mercury, il primo programma USA (attivo tra il 1958 e il 1963) a prevedere missioni spaziali con equipaggio.
La storia incredibile delle tre matematiche nere si inserisce in una storia altrettanto incredibile. Le tre ragazze non sono eguali. Katherine è la più geniale matematica delle tre. All’inizio del film, ancora bambina, declama i numeri interi positivi segnalando i numeri primi (molto fotogenici al cinema e in letteratura). Poi le figure geometriche, i solidi platonici. E risolve il sistema di due equazioni algebriche di secondo grado moltiplicate tra loro. È lei la teorica, quella che si “sente un matematico”.
Interessante che la parola mathematics della versione inglese viene quasi sempre tradotta in italiano con calcoli . La frase inglese due to math (grazie alla matematica, è tradotto 2 + 2 = 4). Comunque la matematica che compare nel film è accurata e non banale, tipo le formule di Frenet, formule che consentono con tecniche differenziali di studiare la geometria delle curve, le loro proprietà qualitative. Ed è Katherine che deve eseguire i calcoli, pur dovendo bere da una macchina da caffè diversa dagli altri che lavorano con lei e avendo il bagno in un altro edificio, a quasi un chilometro di distanza. Un matematico bianco, appena la vede, afferma che lui non ha mai lavorato con una donna nera.
I calcolatori in quegli anni non ci sono, bisogna calcolare a mano le orbite: in particolare, calcolare i parametri per mettere in orbita la capsula Mercury in modo che prenda una orbita ellittica intorno alla terra. Bisogna calcolare a mano la trasformazione dall’orbita ellittica intorno alla terra a una parabolica discendente sulla terra che abbia una giusta inclinazione in modo che la capsula arrivi nell’oceano dove saranno presenti le navi per il recupero (pena l’affondamento). Quando arriva, il grande IBM non è ancora utilizzabile per fare questo calcolo e Katherine ha l’idea di utilizzare il metodo di Eulero, grande matematico tedesco del Ottocento. Permette di trattare equazioni differenziali di cui non si conoscono le soluzioni in modo numerico, approssimato, e ad oggi è alla base di alcuni dei metodi più usati in matematica applicata, con opportuni aggiustamenti.
La scena finale del film in cui John Glenn che sta per salire sulla Mercury 7 chiede che sia the Girl a verificare i dati delle orbite e di ritorno sulla terra è ovviamente inventata nei tempi. Come si legge nel sito della NASA i conti furono controllati da Katherine, ma una decina di giorni prima del lancio. E dirà Katherine: La matematica è solo numerica. Non è così, ma la vera Katherine lo sa di sicuro. È ancora viva, ha 97 anni. Così come le sue due compagne, una andrà a dirigere un settore di software all’IBM, l’altra diventa la prima ingegnere donna nera nella Virginia.
Nel film il ruolo di Al Harrison, ingegnere capo, burbero ma intelligente, capace e cordiale, è costruito su diversi personaggi veri della NASA di allora, come si legge sempre nel sito NASA. Nei giornali italiani interviste solo a lui, che ha una parte secondaria, afferma subito di non capire nulla di numeri e dice: “Non ho mai capito la nostra ossessione per la matematica. Pochi di noi usano nella vita quotidiana equazioni o numeri negativi. Eppure al liceo venivamo giudicati per quello". Da non commentare, avrà letta la sceneggiatura? In un film con tutte matematiche!
Il film è una commedia, brillante a volte, con pochissima tensione, non ci sono veri cattivi, la tensione razziale è molto sullo sfondo. È stato scelto il tono brillante e le tre matematiche sono spiritose, pieni di battute, piace loro essere corteggiate. Insomma una vera rivoluzione al cinema, ma non solo. Un film del genere colpirà molto le nuove generazioni alle prese con Trump, si spera. Era l’anno del cinema nero. È giusto abbia vinto Moonlight (e non La La Land che è stato anche beffato agli Oscar!), ma anche questa commedia era candidata. Era giusto.
Un’ultima cosa: un nero matematico USA Rudy Jr. Horne, University of Boulder, Colorado, ha fatto da consulente per il film, insegnando anche a Katherine a ricordare le formule da scrivere nell’ordine giusto.
FILOSOFIA, MATEMATICA E REALTA’: IMPARARE A CONTARE!!! Una nota in memoria di PRIMO MORONI ...
PLAUDENDO AL VOSTRO "SPECIALE MATEMATICA E REALTÀ", in ottima corrispondenza con l’incontro filosofico del 22 pv (“Realismo Metafisica Modernità”, Aula Biblioteca Guglielmo Marconi - Piazzale Aldo Moro 7, Roma),
PREMESSO CHE il “LOGOS” non è un “NUMERO” (cfr. CONTARE E PENSARE... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4963) e, convinto che occorra legare insieme FILOSOFIA E ANTROPOLOGIA (cfr. ATENE/EUROPA ... https://www.alfabeta2.it/2017/02/16/ateneeuropa-volare-sullabisso/#comment-625400),
COME CONTRIBUTO al lavoro della Redazione di ALFABETA2 e del SUO CANTIERE, ripropongo qui UNA DOMANDA AI MATEMATICI: COME MAI “UN UOMO PIU’ UNA DONNA HA PRODOTTO, PER SECOLI, UN UOMO”?! Non è il caso di ripensare i fondamenti?! (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3995)
e un mio breve lavoro
in memoria di PRIMO MORONI:
CHI SIAMO NOI, IN REALTÀ?! RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4198).
BUON-LAVORO!!!
Federico La Sala (18.02.2017)
2)
MATEMATICA, REALTÀ, E CREATIVITÀ. Un omaggio ad “Alfabeta - 1”, “Alfabeta - 2“, e un contributo ai lavori del Cantiere ...
Realismo e Metafisica. A voler rendere meno sintetico ed ellittico il discorso, e a raccordare l’ieri con l’oggi, “ALFABETA 1” con “ALFABETA 2” e il CANTIERE, mi sia consentito richiamare, due miei interventi: il primo sugli atti di un convegno eccezionale sugli “stati generali” del realismo scientifico e filosofico - LIVELLI DI REALTÀ (“Alfabeta”, 66, 1984) e, insieme, il secondo sul “grande scontro” tra razionalismo fondazionalistico e razionalità antifondazionalistica - FILOSOFI CATTOLICI IN POLEMICA (“Alfabeta”, 108, 1988), intorno al lavoro del filosofo cattolico Dario Antiseri, vicino al “pensiero debole” ieri e vicino a studiosi e ricercatori (cfr. il suo contributo “L’universo incerto della ragione umana”, nel volume collettaneo “I modi della razionalità”, Mimesis Edizioni, 2016, pp. 29-45) di questi anni recenti, sino ad oggi.
REALISMO E MODERNITÀ. RIPRENDENDO A “CONTARE”, e portando alla luce del sole (dalla caverna o, se si vuole, da “interi millenni” di labirinto) il legame profondo tra filosofia, matematica, e antropologia, si arriva a comprendere di nuovo e meglio che della razionalità, come dell’essere, si può parlare “in molti modi” - non in un solo modo (quello mono-logico ed ego-latrico, con le sue platonizzanti pretese: “Io, Platone, sono la Verità”). E, altrettanto, come sia possibile riportare - FILOSOFICAMENTE E ANTROPOLOGICAMENTE - la vita e la ricerca sulla strada aperta da ARISTOTELE (al di là di ogni tomistica e neotomistica illusione: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3617#forum3121791) e illuminata da KANT (oltre ogni scetticismo e ogni idealismo-materialismo: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4829), definitivamente, fuori dall’orizzonte della creatività “andropologica” dell’ “uomo supremo”, del “superuomo” e della sua società a “una” dimensione.
N.B. - L’uscita dallo “stato di minorità” è all’ordine del giorno già dal 1784...
BUON-LAVORO!!!
Federico La Sala (19.02.2017)
* DUE NOTE A MARGINE DELLO "SPECIALE MATEMATICA E REALTÀ" DI ALFABETA2.
Matematica divina, calcolo umano
di Michele Emmer *
“È importante rendersi conto che non sono gli algoritmi a decidere di per sé la verità matematica. La validità di un algoritmo dev’essere sempre stabilita con mezzi esterni. La computabilità è un’idea matematica, indipendente da qualsiasi particolare concetto di macchina per il calcolo, ma anche perché illustra l’efficacia di idee astratte in matematica [...]. In matematica ci sono cose per le quali l’espressione scoperta è in effetti molto più appropriata di invenzione. Questi sono i casi in cui dalla struttura emerge molto di più di quanto non vi sia posto in principio. Qualcuno potrebbe pensare che in tali casi i matematici si siano imbattuti in opere di Dio. Ci sono altri casi in cui la struttura matematica non ha una unicità altrettanto convincente, come quando nel corso della dimostrazione il matematico ha bisogno di introdurre una qualche costruzione artificiosa e tutt’altro che unica per conseguire qualche fine molto specifico. In tali casi è probabile che dalla costruzione non venga fuori più di quanto vi è stato messo in principio, e la parola invenzione sembra più appropriata che scoperta. Queste sono in effetti opere dell’uomo”.
Così scriveva Roger Penrose nel 1989, in The Emperor’s New Mind. La matematica degli dèi e gli algoritmi degli uomini è il titolo di un libro del matematico Paolo Zellini. Un libro che parla di matematica e dei procedimenti di calcolo, gli algoritmi appunto. Ma perché a un non matematico dovrebbe interessare riflettere su cosa sia la matematica, come può essere originata, che cosa significano un procedimento di calcolo e la sua affidabilità?
Quando si ha qualche dubbio sulla nostra esistenza, sulle mostre vite, a chi ci si rivolge? Ai filosofi ovviamente. Loro sì che sono in grado di farci capire quale sia lo scopo ultimo della nostra esistenza, ovvero il fatto che non vi è alcuno scopo. E la matematica è solo questione per addetti ai lavori. Magari è utile, serve a risolvere problemi, ma in fondo non è altro che una forma raffinata di ingegneria e nulla di più.
“In fondo le matematiche sono la più convincente delle invenzioni umane per esercitarsi a quello che è la chiave di tutto il progresso collettivo come di tutta la felicità individuale: dimenticare i nostri limiti per toccare in modo luminoso, l’universalità del vero”: sono parole di un filosofo, Alain Badiou, che da anni, oltre a pubblicare ampi volumi sulle questioni fondamentali del pensiero filosofico, interviene puntualmente nella vita politica e sociale con veri e propri instant book. Un filosofo immerso nella vita di oggi ma che riflette a fondo sulle grandi questioni. La matematica non poteva non interessarlo.
Come qualsiasi altro matematico che voglia parlare anche ai non matematici, Zellini si pone la questione di quale realtà parli la matematica. “È opinione diffusa che i matematici si occupino di formalismi astratti e che solo per ragioni inspiegabili questi formalismi si applicano in ogni ambito della scienza. Concepiamo entità immateriali che sembrano poi destinate a definire modelli di fenomeni che accadono realmente nel mondo”.
Per far capire perché queste riflessioni sono non solo dedicate a entità immateriali e inspiegabili formalismi, è utile arrivare subito al capitolo conclusivo del libro di Zellini, intitolato Verum et factum, citazione da Giambattista Vico. (Bisogna perdonare all’autore le tante citazioni e note, spesso essenziali.) “La realtà è qualcosa che dipende dal fare, dal portarla effettivamente a termine con l’azione. La soluzione di un problema matematico dipende dalla possibilità di calcolarla in modo efficiente nello spazio e nel tempo fisici di una esecuzione automatica, che è l’unica strategia possibile a causa dell’elevata dimensione dei problemi”. (Sistemi di milioni di equazioni che simulano un fenomeno fisico, di cui non si può trovare una soluzione esplicita.) “Non sembra esserci nulla di più certo di un processo che, in un numero finito di passi, esegue i calcoli necessari in funzione di dati assegnati. Ma la realtà degli enti matematici si riassume davvero, in modo esauriente, in questa conclusione?”
Torna la domanda, che difficilmente avrà mai una risposta definitiva - fortunatamente, è il caso di dire -, del legame tra matematica e realtà. Quale migliore esempio della rete? “Ogni pagina o documento del web, della immensa ragnatela dell’informazione su scala planetaria, si rappresenta come un nodo di un grafo di enormi dimensioni al quale si può associare una matrice di dimensioni equivalenti (una enorme tabella di numeri) con miliardi di righe e di colonne [...]. L’importanza del nodo, cioè del documento web, dipende dall’entità dei collegamenti. L’aggiornamento si esprime allora nel calcolo iterativo, approssimato, dell’autovettore corrispondente all’autovalore massimo di una matrice” (ho volutamente lasciato le esatte parole matematiche di Zellini usando termini elementari della teoria delle matrici) “Un criterio di invarianza presiede al calcolo iterativo della soluzione del problema del web, che consiste nell’assegnare la maggiore o minore importanza di una pagina per elaborare la risposta ad un generico quesito”.
Esempio che tanti nel mondo hanno davanti agli occhi ogni giorno, ma che quasi tutti ignorano da quali calcoli derivino, da quali algoritmi umani che qualcuno ha elaborato immettendo i dati. Dettagli trascurati da parte dei nostri intellettuali e filosofi. Scrive Badiou che “oggi basta avere delle opinioni e una rete adeguata mediatica, per far credere che tali opinioni sono universali mentre sono assolutamente banali. Nella matematica non si può bluffare. I matematici sono coloro che dimostrano risultati prima sconosciuti, e di questo è impossibile farne un sottoprodotto o una caricatura, è impossibile”.
Ma se umani sono gli algoritmi, umane le scelte dei calcoli, perché la matematica ha origini divine? Due sono le parole chiave: crescita e invarianza. “Il fenomeno della crescita non è marginale, perché interviene nella più intima compagine dell’algoritmo”. Il calcolo ricorsivo e la ricerca dell’invarianza, di strutture che si ripetono, della velocità e affidabilità del calcolo, sono le regole auree della computazione.
E quando nasce l’idea di crescita, iterazione e invarianza in matematica? “I motivi della crescita dei numeri sono strettamente matematici e si chiariscono grazie a teoremi relativamente avanzati. Ma non è superfluo notare che il motivo della crescita, in ogni suo risvolto è stato oggetto della massima attenzione già nel pensiero antico, ed è precisamente il modo in cui la crescita delle grandezze è trattata nella geometria Greca, nei calcoli Vedici e nell’aritmetica Mesopotamica a far capire le cause della crescita dei numeri negli algoritmi moderni. La ragione è tanto semplice quanto sorprendente: alcuni importanti schemi computazionali sono rimasti immutati da allora fino alle più complesse strategie di cui si avvale oggi il calcolo su grande scala [...]. Furono gli dei Indiani Vedici e quelli Graci, molto prima del dio di Descartes, ad assicurare l’esistenza di un nesso tra le concezioni del mistico e della natura, tra la nostra sfera più intima e la realtà esterna”.
Se non si è ancora capito si sta parlando di cultura, di cui la matematica divina e il calcolo umano fanno parte, in modo essenziale ai nostri tempi così poco razionali. Un libro importante, interessante che richiede, come è giusto che sia, un certo sforzo. Comprendere è umano o divino?
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
CHI SIAMO NOI, IN REALTÀ?! RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Da Platone agli indiani
Senza la filosofia antica è difficile capire scienza e matematica moderne
E fu così che i greci inventarono l’algoritmo
di Paolo Zellini (la Repubblica, 17.04.2014)
Hanno gli scienziati bisogno della filosofia? Se lo chiedeva qualche tempo fa Gerald Holton, storico e filosofo della scienza, sulle colonne del Times Literary Supplement. La risposta era sorprendente. Se ancora Einstein sosteneva che la scienza che ignori l’epistemologia e le opere dei classici - da Platone a Hume, da Sofocle a Spinoza - è primitiva e confusa, dalla metà del XX secolo era prevalsa una fiducia agnostica, audace e anti-epistemica, ben più ispirata all’esteriorità delle applicazioni che alla ricerca introspettiva dei fondamenti.
Tanto che la lettura di quei classici sembrava inutile, faticosa e ottenebrante. Eppure mai come negli ultimi decenni la scienza è stata feconda e ricca di nuovi metodi e risultati. A salvarla dall’anarchia, ipotizzava Holton, sarebbe stata un’epistemologia pur sempre efficace, anche se nascosta e non pienamente consapevole; occorreva cercare, per riscoprirla, nuove tendenze compensatrici e centripete. Forse un nuovo sguardo verso il passato?
Del resto, a ben guardare, non assistiamo sempre a un superamento delle vecchie concezioni scientifiche. Tra scienza antica e moderna c’è un bilancio complicato: nella matematica antica troviamo un rigore e una complessità confrontabili con quella moderna; gli scienziati contemporanei ne hanno generalizzato e smaterializzato i procedimenti, con formalismi astratti, efficaci e pieni a loro volta di un’intenzionalità e di un potere ermetico che spinge sempre a nuove scoperte.
Almeno dal ‘600 è stata inventata un’algebra che, ha osservato il matematico Henri Lebesgue, «pensa spesso al posto di chi la impiega». Abili maestri possono oggi addestrare i loro giovani allievi alla manipolazione meccanica dei simboli algebrici, ma è sempre «con l’aritmetica che li fanno ragionare».
Possono ora i meccanismi dell’algebra moderna prescindere dalle argomentazioni matematiche di Euclide, di Archimede o di Apollonio? Quanto è davvero distante, oggi, la computatio algebrica dal pensiero e dal ragionamento aritmetico dei matematici greci, indiani o babilonesi che ancora la ignoravano?
I matematici greci seppero piegare la lingua comune a un ragionare preciso, fatto di teoremi, ipotesi, dimostrazioni, definizioni e problemi, e dal loro pensare i numeri e lo spazio ebbero origine figure, algoritmi e tecniche di ragionamento.
Una conquista che ancora sorprende; un passaggio arduo, delicato e perfino improbabile. Ne erano esempi i procedimenti di divisione tra grandezze e le tecniche di analisi e di sintesi. Analizzare voleva dire ricondurre una tesi a un principio riconosciuto, di cui quella fosse una conseguenza; come pure cercare le condizioni che rendono possibile la risoluzione di un problema qualsiasi.
Nell’analisi interviene l’intuizione invece della deduzione, un ricercare all’indietro i princìpi, indovinando via via gli anelli della catena che, percorsa in senso inverso, sarà la sintesi, cioè la dimostrazione o deduzione della tesi. Con i termini bottom upe top down si denotano oggi percorsi di ricerca simili, rispettivamente, all’analisi e alla sintesi.
Ne faceva già uso Platone: l’ anamnesi e i cammini dialettici erano un’ascesa del pensiero, un movimento anagogico di cui l’analisi geometrica era un’illustrazione esemplare. Se ancora nel primo ‘900 la matematica era pensata da molti come un sistema ipotetico-deduttivo, dopo la scoperta dell’incompletezza dei sistemi formali negli anni ‘30 si dovette rivalutare l’importanza dell’intuizione tipica dei processi analitici.
Analizzare è anche “ridurre” un problema a un altro, cioè ricondurre la risoluzione del primo a quella del secondo. È un criterio già applicato nel V secolo a.C. da Ippocrate di Chio, che seppe ricondurre il problema della duplicazione del cubo - tra i più importanti della scienza antica - alla ricerca di due medi proporzionali.
Di un’analoga tecnica di riduzione si è valsa la scienza del calcolo negli ultimi decenni: per dimostrare che un problema è indecidibile, cioè non risolubile in modo meccanico, si dimostra che a esso è riducibile un problema di cui è nota l’indecidibilità; una strategia estesa allo studio della complessità degli algoritmi, da cui dipende la risposta a una delle principali domande della scienza dell’ultimo secolo: che cosa può essere automatizzato?
Per studiare i nessi tra scienza moderna e pensiero antico occorre il contributo di esperti di diverse discipline, con ricerche inter-disciplinari tra matematica e filologia di cui in passato hanno dato esempi straordinari Otto Toeplitz, Abraham Seidenberg e Otto Neugebauer.
Fanno oggi da modello centri di ricerca come il Needham Research Institute di Cambridge, soprattutto per l’antica scienza cinese, e il Max Planck Institute for the History of Science di Berlino, dove si studiano i significati di concetti fondamentali della scienza, come quello di numero, di movimento, di forza o di organismo nella prospettiva di una “epistemologia storica”.
Anche in Italia si pensa ora a progetti per lo studio di forme del sapere antico di cui si è avvalsa la ragione scientifica. Lo scopo è anche di recuperare gli schemi e i profili di ragionamento che sono una specie di a priori, un presupposto evidente di ogni scienza concepibile.
È lo studio della scienza antica, dalla fisica alla medicina, dalla matematica alla geografia, a evidenziare questi a priori , ma occorre interrogare anche altre fonti. Nei testi filosofici, come pure nell’ epos e nei poeti tragici, non mancano parole che rimandano al pensiero scientifico.
Risalgono al pensiero antico complesse strategie computazionali, di cui si avvale ancora oggi il calcolo scientifico su grande scala. Ne dipendevano non soltanto la scienza e la tecnica, ma anche l’etica, la metafisica e la teologia. Di questo calcolo, che è ora fiduciosamente e perentoriamente rivolto alla tecnica e alla scienza applicata, non capiremmo oggi le più segrete finalità senza risalire alle sue prime formule e conquiste.
In Grecia e in India i riti e le offerte votive che accompagnavano le scoperte della scienza ne esaltavano le più essenziali connotazioni: l’intensa ricerca dell’esattezza, il rigore della dimostrazione, la volontà di stabilire una tesi in modo efficace e categorico.
I moderni algoritmi hanno ereditato l’esattezza, l’effettività e perfino la struttura degli atti rituali che se ne servivano fin da tempi remoti. Forse gli antichi, pur trascurando inizialmente le potenziali applicazioni degli algoritmi, ne avevano già compresa, sul piano trascendente di una religio delimitata e scrupolosa, tutta la virtuale e temibile efficacia.
La "scienza per tutti" in un saggio dello studioso
WILLIAM CLIFFORD E IL SENSO COMUNE DELLA MATEMATICA
di Paolo Zellini (la Repubblica, 07.01.2014)
Una teoria matematica non è perfetta finché non risulta comprensibile alla prima persona che si incontri per strada. Ne era convinto David Hilbert quando proponeva, in occasione del celebre Congresso a Parigi ne11900, 23 problemi ancora irrisolti alle future generazioni de1XX secolo. Ma Hilbert non era certo il solo a esigere che le astrazioni matematiche risultassero comprensibili a chiunque. Richard Dedekind, nel suo fondamentale trattato Sulla natura e sul significato dei numeri del 1888, spiegava che alla sua teoria poteva accostarsi qualsiasi persona dotata di buon senso. E ancora prima William Kingdon Clifford, matematico inglese della seconda metà dell’Ottocento, dichiarava che è cattiva algebra quella che, voltata nella nostra lingua, non soddisfi il senso comune.
La dichiarazione di Clifford merita ora attenzione anche per l’uscita di una raccolta di suoi interventi dal titolo Etica, scienza e fede, con un bel saggio introduttivo di Claudio Bartocci e Giulio Giorello. Clifford pubblicò il suo più celebre articolo scientifico sulle algebre geometriche nel 1878, un anno prima della sua morte a soli 34 anni. Per descrivere le proprietà delle particelle elementari scienziati come Pauli, Dirac e Majorana si sarebbero poi serviti di algebre che portano il loro nome senza accorgersi che stavano usando algebre di Clifford.
Una coincidenza singolare ma frequente: accade spesso che diversi matematici inventino teorie simili a loro insaputa e a poca distanza di tempo, come se le teorie si sviluppassero da sé, in modo fatale e univoco, in virtù di una loro necessità intrinseca. L’autorità e la forza logica con cui si impongono alla nostra attenzione potrebbe pure dipendere dalla continuità che sembra esistere tra pensiero scientifico e pensiero comune, o dalla connessione logica delle nuove scoperte con idee più antiche, consuete e incontestate. Come fece poco più tardi Ernst Mach con le sue celebri Lezioni divulgative, Clifford scrisse The common sense of the exact sciences, un libro che ripropone di ricondurre fondamentali concetti alle più elementari operazioni della nostra vita quotidiana.
Al senso comune, dimostrava Clifford, possono rapportarsi non solo teorie acquisite dal canone, come l’aritmetica dei numeri complessi o una computatio deducibile dai numeri pitagorici, ma anche idee innovative che poco sembrano condividere con la nostra esperienza del mondo reale. Tra queste l’idea, poi ripresa da Einstein, di interpretare come una curvatura dello spazio ciò che realmente succede in quel fenomeno che chiamiamo "moto della materia".
Come interferiva tutto ciò con la filosofia di Clifford? Clifford era convinto che gli scienziati non facessero ancora abbastanza per liberare l’uomo dal peso dei dogmi. Egli perseguiva l’idea di un Illuminismo radicale, di un rischiaramento incentrato sulla responsabilità e sulla libertà individuale, in polemica con il principio di autorità su cui si basava la società vittoriana del suo tempo.
Un secolo prima Kant aveva sostenuto che al «rischiaramento non occorre altro che la libertà; e precisamente quella di fare pubblico uso della ragione in tutti i campi», e che «regole e formule, strumenti meccanici di un uso razionale» possono diventare «ceppi di una eterna minorità».
Ora, cercare un nesso tra scienza e senso comune e ricollegare ciò che è astrattamente deducibile alla conoscenza più intuitiva e immediata, avrebbe allontanato il rischio che "regole e formule" matematiche diventino per i più una verità a cui si deve credere senza ragionare, come sarebbe stato per i numeri complessi del giovane Tórless di Robert Musil (1906): «Caro amico, devi semplicemente avere fiducia; quando conoscerai la matematica dieci volte tanto rispetto a ora sarai in grado di capire, ma intanto devi credere!».
Non a caso Clifford scrisse un breve saggio sull’Etica della religione. Quello era per Kant il punto culminante del rischiaramento: «La minorità in cose di religione è, fra tutte le forme di minorità, la più dannosa ed anche la più umiliante». E Clifford manifestava un aperto scetticismo nei confronti dei dogmi di qualsiasi religione, pur apprezzando la profonda religiosità del Buddha o di Spinoza.
Sembra paradossale ma, se la religione può essere un ostacolo al rischiaramento, non si può escludere che possa esserlo anche la scienza. Max Weber notava come l’uomo razionale ignora tranquillamente, di solito, come funziona il tram da cui si lascia trasportare; e Norbert Wiener avvertiva che lo studio delle scienze informatiche, a cui lui stesso aveva dato preziosi contributi, avrebbe potuto incoraggiare l’inclinazione diabolica a delegare la propria ragione e responsabilità a una "mente superiore". Questa, egli spiegava, si incarna volentieri in congegni elettronici il cui funzionamento è solo in parte compreso e che possiede tuttavia una presunta obiettività; e allora non ci deve stupire che l’uso di grandi sistemi di calcolo per un’infinità di scopi elementari possa diventare «l’esatto equivalente della Magia e della Simonia».
Tra matematica e metafisica
Lo gnomone, chiave di tutti i misteri
di Elémire Zolla (Il Corriere della Sera-21 DICEMBRE 1999)
Negli anni ’60 avevo appena letto Guénon e la sua idea d’una riforma radicale del pensare mi aveva inebriato. Comportava un atto preliminare audacissimo, sgombrare tutta la rivolta contro la metafisica di cui è pervaso il nostro mondo. Mettere fra parentesi l’intera filosofia successiva a Leibniz, tornare a utilizzare i concetti tradizionali, che rivoluzione entusiasmante!
Altro che le ebbrezze misere misere degli appassionati di critica illuminista o peggio, posteriore. Capitò alla fine del decennio che venissi a conoscere Federico Codignola: m’invitò a redigere una rivista, La nuova Italia. Ecco che mi si offriva l’occasione di spartire con qualcuno il proposito utopistico che mi si era acceso: riunire i pochi conoscitori delle singole materie, disposti ad applicare i consigli sconvolgenti di Guénon. Nel corso della rivista, vidi arrivarmi accanto alcuni ragazzi in quelle condizioni.
Fra altri il matematico Paolo Zellini. Aderì con entusiasmo e cominciò a fornirmi i suoi saggi. In seguito, ebbe una cattedra e la casa editrice Adelphi prese a stamparne le opere, sicché ormai ha delineato un sistema piano e persuasivo della matematica. Esce adesso presso Adelphi un suo trattato esemplare, Gnomon. Una indagine sul numero (pp. 480, L. 60.000).
È singolare perché riporta tutto l’inizio della matematica allo gnomone, basandosi su un frammento di Filolao: il numero, mettendo tutte le cose in relazione alla sensazione, dà corpo e distingue i rapporti delle cose, sia nell’infinito che nel finito. Vale a dire, il numero, confrontato con la sensazione e con l’anima, è il punto d’abbraccio e di fusione tra conoscente e conosciuto e anche il mezzo per rendere conoscibili le cose e avvicinarle, stabilendo fra esse amicizia e accordo. Distingue e definisce i rapporti purché "si pensi secondo la natura dello gnomone".
Questo all’origine fu uno stilo fissato nella terra, la cui ombra serviva ai Babilonesi a determinare l’altezza del Sole o della Luna. Ma formava anche una figura a squadra e si venne a denominare gnomone tutto ciò che, aggiunto a una figura, la rende tuttavia pur sempre simile alla figura originaria. Schopenhauer notava che l’intelletto produce simultaneità tra tempo e spazio correlandoli nella durata, unità di tempo e spazio, di mutamento e invarianza. Mercé lo gnomone la matematica afferma e ribadisce l’armonia corrispettiva all’anima, evita di cadere nell’Altro, riconduce al Medesimo, scarta il disordine.
Proclo rammentava che i numeri svelavano gli dèi e i pitagorici presentavano il calcolo come iniziazione alla teologia. Plutarco illustra la concordanza delle teorie numeriche con la mitologia di Apollo e Dioniso, di Iside. Nel Timeo Platone parla del Medesimo o dell’Altro, l’uno essendo l’unità, la singolarità, la forma o idea, l’altro il disordine, il crescere o siminuire che getta nell’errore. Mercé lo gnomone la matematica salva dall’altro, conferma nell’unità che è soggetta sì a crescita o diminuzione, ma mantenendo intatta la sua forma.
È alla teoria dello gnomone che ci si riferisce comunque nella teoria del numero sviluppata nell’algebra araba, di Cardano e Bombelli, nell’analisi di Viète, nella computazione algebrica di Newton, Raphson, Lagrange e Fourier, anche se tutti costoro dovettero rinunciare a menzionare le affermazioni di Filolao "per necessità di autoaffermazione". Queste ritegnose parole racchiudono in breve tutto il sarcasmo che si può immaginare in Zellini.
Egli non si limita a esplorare i testi greci ma indaga a fondo la matematica indù, i Sulvasutra o trattati del cordino, risalenti al periodo fra il VII e il II secolo a.C. Essi forniscono i metodi per calcolare la costruzione degli altari del fuoco (Agni) a forma di falco, perché come falchi si desidera volare nei cieli mercé il sacrificio al fuoco. Già nei Veda, d’altra parte, si parla di chi "prende le misure del sedile di Agni".
Questo ci sposta al periodo fra il 2000 e il 1500 a.C. I mattoni si disponevano come nello spazio i punti nella geometria greca a foggiare le sette parole fondamentali: quadrati, triangoli, rettangoli, cerchi, gnomoni, parallelogrammi, trapezi. L’ordine coerente fra le sette parole era il logos che si opponeva all’altro. Ma è la matematica babilonese che precede, giustifica la pitagorica. Essa sviluppò con cura straordinaria la moltiplicazione secondo lo gnomone. Furono primi i Babilonesi a computare i tempi del Sole e della Luna, le congiunzioni e opposizioni fra gli astri, il loro sorgere e tramontare. Ma col Bruno lo gnomone servirà anche a definire le regole della magia, la matematica della metafisica in senso stretto.
L’ultimo libro di Paolo Zellini sulle origini del pensiero matematico
Quell’ombra generò il numero
Tutto iniziò con lo "gnomon", antico strumento per misurare il tempo
di UMBERTO BOTTAZZINI (Il Sole-24 Ore, 19 DICEMBRE 1999) *
"Secondo la natura dello gnomone". È questa la chiave di lettura, nascosta in un frammento di Filolao, che Zellini propone per capire come sono stati concepiti i numeri fin dall’antichità. "Ora però (questo numero), mettendo in armonia nell’anima tutte le cose con la sensazione, le rende conoscibili e le avvicina in un reciproco accordo secondo la natura dello gnomone, col dar corpo e col distinguere i rapporti delle cose, sia nell’infinito che nel finito". Cosa intendeva dire Filolao?
Gnomon, gnomone, in greco aveva diversi significati. Come racconta Erodoto, si misurava il tempo mediante l’ombra proiettata da uno stilo, lo gnomone appunto, piantato perpendicolarmente a un piano orizzontale. O più semplicemente, un bastone piantato perpendicolarmente al terreno. Lo stilo, il bastone con la sua ombra formano una figura a squadra, analoga alla "cornice" con cui nella scuola pitagorica si aumentavano i numeri quadrati ottenendo ancora dei quadrati. Pitagora aveva insegnato a rappresentare i numeri mediante un insieme di punti, una collezione di unità disposte secondo un ordine geometrico. Un numero quadrato, 4 ad esempio, era rappresentato da quattro punti posti ai vertici di un quadrato. Se si contorna il quadrato con una cornice di cinque punti a forma di squadra, uno gnomone appunto, si ottiene ancora un numero quadrato, 9. A partire dal punto-unità, l’aggiunzione successiva di punti disposti "secondo la natura dello gnomone" genera una successione di quadrati.
Col termine "gnomone" si indicava dunque ogni grandezza geometrica, come la cornice a squadra per i quadrati, che potesse aggiungersi o togliersi a determinate figure mantenendone inalterata la forma. "Questa tecnica di accrescimento (o di diminuzione) di forme spaziali come mezzo di generazione dei numeri finì per rappresentare non solo un momento iniziale, ma la chiave stessa di tutto un modo di concepire il numero e la misura in Occidente", afferma Zellini.
La chiave è rivelata da quel frammento di Filolao e, questa è la tesi discussa nel libro, "si potrebbe dire che un’intera sequenza di successive scoperte matematiche, nell’arco di almeno due millenni, ne è l’esegesi e il compimento". La scoperta dell’invarianza nel mutamento, l’adesione dell’anima all’esperienza del simile, sono elementi essenziali della filosofia pitagorica, costituiscono il fondamento di un universale principio di armonia. Secondo Pitagora, "l’anima è armonia, composizione e fusione di elementi contrapposti" e al numero, pensato "secondo la natura dello gnomone", compete lo stesso carattere di permanenza della physis. La permanenza che si afferma in opposizione al "diverso", osserva Zellini, per cui il numero e la physis finiscono entrambi per essere caratterizzati da un mutamento "conforme al logos, ovvero a un sistema di rapporti". Il logos, la ratio, diventano il vero soggetto del calcolo.
L’indagine sulle procedure elementari di calcolo della matematica antica rivela nelle mani di Zellini inaspettate profondità. Con una raffinata analisi dei testi e delle tecniche di calcolo, Zellini spiega come non solo l’algebra geometrica di Euclide, ma anche l’algebra degli Arabi, di Cardano e di Bombelli, l’analisi di Viete, la computatio algebrica di Newton e le tecniche numeriche elaborate da Fourier e Lagrange a cavallo dell’Ottocento, "sarebbero state debitrici - in un senso più stretto e immediato di quello che si può supporre di qualsiasi processo cumulativo della conoscenza - dello schema costruttivo gnomonico" cui allude il frammento di Filolao.
Dalla fine del Seicento in poi, i metodi di approssimazione numerica si sono affiancati alle "formule esatte" dell’analisi. Agli occhi di Zellini, una prima rivoluzione si verifica proprio alla fine del Seicento, con la creazione della nuova analisi infinitesimale di Newton e Leibniz, "un’estensione del concetto greco di logos dalle quantità finite a quelle infinitesime". Una seconda rivoluzione si ha poi tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del nostro secolo, quando si afferma l’idea che l’analisi si può ricondurre al numero e all’aritmetica ordinaria attraverso il concetto di insieme e operazioni di passaggio al limite. Infine, il nuovo sistema di idee e esperienze computazionali che ha accompagnato la terza rivoluzione, promossa dal calcolatore, ha dato nuovo significato al progetto di aritmetizzazione della matematica intrapreso alla fine dell’Ottocento.
Per John von Neumann, per Goldstine e i matematici del secondo dopoguerra che si impegnano in questo programma, si tratta di "constatare fino a che punto è effettivamente possibile ricondurre il continuo al discreto numerico mediante schemi di approssimazione e mediante algoritmi efficienti". Qui l’accento va posto sul termine "efficienti". Qui entrano in gioco problemi di stabilità e di complessità computazionale, in cui convergono tradizioni diverse, logico-fondazionali e applicative. Si scoprono le limitazioni insite nella risoluzione algoritmica dei problemi. La ricerca di algoritmi efficienti si interseca con le moderne teorie della calcolabilità elaborate da Turing in poi e ne eredita tecniche e finalità. Gli algoritmi degli antichi ci aiutano a comprendere le strategie più avanzate della matematica computazionale.
Alcune delle odierne tecniche di calcolo numerico utilizzano uno schema gnomonico, uno schema che in ultima analisi deriva da procedimenti messi in atto dalla matematica antica. Gnomon dunque non è solo una figura geometrica, afferma Zellini. È "una costruzione mentale" che si applica a problemi diversi secondo regole aritmetiche e algebriche che tuttavia "sono rigorosamente modellate su quella figura". Il continuo riapparire sotto forme diverse di uno stesso concetto, di uno stesso "modulo di ragionamento", consente dunque di riscoprire "il senso riposto dei dettagli più tecnici ed esoterici del lnguaggio algebrico e analitico".
Ciò che unisce l’uso arcaico dello gnomone alle formule "incrementali" dell’analisi, le più antiche formule ricorsive ai moderni criteri di controllo dell’errore nei calcoli numerici non è solo una semplice successione di tecniche, ma anche "un’idea inesprimibile e inesauribile che serviva a comprendere la natura", per la quale non esiste oggi, afferma Zellini, una parola adeguata. "Come se la crescita smisurata e la sorpendente potenza esplicativa dei primi concetti che avevano permesso di pensare la physis avessero anche, paradossalmente, fatto svanire il logos che ne teneva unita la compagine".
Nell’antichità i concetti matematici erano pensati come un logos divino, dotato del potere "straordinario e abbagliante" di collegare le cose e "rendere uguale il diverso". Gli umani "se ne impossessarono solo al prezzo di una trasgressione", la trasgressione di cui parla il mito di Prometeo, colui che seppe indicare "i cammini difficili da distinguere delle costellazioni" rivelando la difficoltà insita nell’atto di discriminare, di cogliere il valore esatto delle misure. La difficoltà di dominare il continuo col discreto, che si è tradotta "in un progetto gigantesco, commisurato alla sua origine divina" che attraversa la storia della matematica e, infine, ha portato alla "creazione di un congegno automatico, un automa intelligente, a cui delegare un compito altrimenti inattuabile". Un enorme e geniale artificio, "la computatio algebrica e il calcolo su grande scala", che a Wiener evocava la leggenda di Golem, ha alla fine preso il posto del logos.
"Verosimilmente - conclude Zellini - sia l’analisi che il calcolo numerico automatico debbono la loro origine ultima e il loro potere di esplicazione della ratio a un numero limitato di semplici costruzioni geometriche; e soprattutto a una di queste, lo gnomone quadratico, il numero deve quella funzione imitativa o partecipativa degli avvenimenti della physis che i pitagorici erano stati i primi a riconoscere, e che la matematica del Novecento ha cercato di inseguire in ogni dettaglio".
Tutto ruota intorno ai concetti di numero, algoritmo, complessità E ciascuna teoria dà una prospettiva diversa
Le matrici, il punto fisso, la questione del commesso viaggiatore: ogni dimostrazione aggiunge altri quesiti
Cosa studiano oggi gli esperti della disciplina più pura? Ecco come ogni nuova scoperta s’intreccia alle altre in un gioco di tessere
di Paolo Zellini (la Repubblica, 19.01.2012)
Nella ricerca, osservava il celebre matematico André Weil, nulla è più fecondo delle oscure analogie e dei torbidi riflessi che rimandano da una teoria all’altra. Nebbie inesplicabili e seducenti circondano spesso le idee e i confini ancora incerti tra diverse aree di indagine; e nulla dà più piacere al ricercatore di questa eccitante imprevedibilità. Arriva poi il giorno in cui il vagheggiamento si dissolve e diventa certezza. Le teorie rivelano la loro fonte comune e, come insegna pure la dottrina indiana della Bhagavad Gita, si conquista la conoscenza assieme all’indifferenza. «La metafisica», concludeva Weil, «è divenuta matematica, pronta a formare la materia di un trattato la cui fredda bellezza non saprebbe più emozionarci».
Tuttavia questa indifferenza è sempre un momento intermedio, un passaggio obbligato per scorgere altri collegamenti, altre possibili combinazioni. La ricerca matematica ha il carattere di un’estesa, imprevedibile e proteiforme moltiplicazione, di un incessante spostamento di confini e di una ricombinazione dei dati. Non è tanto importante, allora, accumulare successi nel risolvere singoli problemi, quanto svelarne il significato in un quadro sempre più ampio e generale, che si delinea a poco a poco nel riconoscere temi affini o confinanti. È come tentare di comporre un gigantesco e inesauribile puzzle, in cui molte singole tessere, pur provviste di senso proprio, ricevono ogni volta un significato più ampio e profondo dal paragone reciproco: un compito senza fine, che richiede un continuo riassestamento dei pezzi. E alla fine non possono non restare enigmi irrisolti, perché le formule viaggiano attorno a concetti centrali ed elusivi come quelli di caso, di informazione, di numero, di complessità, di algoritmo. Il puzzle ne svela nuovi aspetti, ma essi rimangono sempre suscettibili di qualche revisione critica.
I matematici hanno spesso constatato che le loro formule hanno una forza o un’intenzione autonoma e obbediscono a un principio di unità interna che le lega in sistemi organici sempre meglio connessi e articolati. Gli stessi algoritmi portano in sé implicazioni imprevedibili e un potere ermetico che li costringe a specchiarsi l’uno nell’altro. Anche per questa via si creano nuovi concetti: i numeri complessi si introdussero quasi da sé, nel XVI secolo, combinando l’algebra delle equazioni di terzo grado con le costruzioni della geometria euclidea.
Per quanto peculiari e diversi, molti problemi matematici si rivelano equivalenti e quindi sorprendentemente inclini - si direbbe - ad accorparsi in classi. Questa loro equivalenza, per lo più nascosta a un primo sguardo, è essenziale: risolvendo uno di essi si risolvono automaticamente tutti gli altri. L’ibrido territorio tra la matematica applicata e l’informatica, tra la logica e la teoria della computazione, ne offre svariati esempi. La frontiera della ricerca si sposta su diversi livelli di generalità. Spesso vengono prima questioni specifiche, di immediato interesse pratico. Ma queste suscitano poi questioni molto più generali, palesando una struttura che si ritrova, astrattamente, in altri contesti e merita di essere esaminata in sé e per sé. Chi sospetterebbe l’affinità di un celebre problema come quello del "commesso viaggiatore" - consistente nel trovare il percorso minimo che collega un dato numero di città - con una serie di altri problemi di natura algebrica e combinatoria da cui dipendono importanti settori del calcolo scientifico? Questa affinità permette di definire una intera classe di problemi equivalenti (chiamati NP-completi): se un algoritmo ne risolvesse uno in un tempo accettabile, lo stesso tempo basterebbe a risolvere ogni altro problema della classe. Ma nessuno sa ancora se un simile algoritmo può esistere.
A uno di questi problemi già accennava Kurt Gödel in una lettera a John von Neumann del 1956. Non è un caso. Negli anni ’30 Gödel, e altri con lui, dimostrarono che l’aritmetica, diversamente da quanto molti supponevano, non si può configurare come una specie di discorso logico rigoroso, un sistema formale con assiomi e regole di inferenza. Anche per questo motivo, invece di pretendere che tutto fosse dimostrabile, si cominciò a prestare maggiore attenzione alla complessità dei calcoli e delle dimostrazioni. Infatti il problema che Gödel poneva a von Neumann era il seguente: quanto è difficile decidere se una proposizione in un dato sistema formale ammette una dimostrazione di data lunghezza in base agli assiomi del sistema?
Sappiamo ormai che non è possibile decidere, per ogni proposizione, se è vera o falsa. Ma ammesso che sia vera, quanto è difficile dimostrarlo? La complessità dei calcoli, ancorché finiti, è una delle grandi sfide della matematica moderna, il passaggio inevitabile per tentare di rispondere in modo esauriente a una questione tanto centrale quanto elusiva della scienza dell’ultimo secolo: che cosa può essere automatizzato? In che cosa consiste precisamente l’effettività che siamo soliti attribuire ai processi automatici?
Gli stessi teoremi di Gödel sui limiti del formalismo logico, con le loro implicazioni generali sulla natura della matematica e della stessa ragione astratta, sono ora diventati il tassello di un quadro più generale, di una più ampia scienza computazionale in cui singoli stratagemmi possono incidere sui concetti generali di algoritmo e di modello di calcolo.
Vecchie teorie rivelano imprevedibili significati e pongono nuove domande in diversi contesti. La teoria delle matrici positive del matematico tedesco Oskar Perron, del primo decennio del Novecento, si applica a domini della fisica, della biologia e dell’economia che poco hanno a che fare con i motivi per i quali fu scoperta. Oggi ha importanti implicazioni nei calcoli su cui si basano i motori di ricerca su rete. Ma quei calcoli coinvolgono matrici di enormi dimensioni, e molti quesiti sulla loro complessità sono ancora irrisolti. Lo stesso Perron non avrebbe previsto le implicazioni della sua teoria per una scienza informatica che gli ispirava, ancora negli anni ’70, una caustica diffidenza.
Questa teoria ha pure importanti collegamenti con il celebre teorema del punto fisso: se si trasforma con continuità una sfera (o un suo equivalente topologico) in se stessa, almeno un punto mantiene la sua posizione d’origine. Accade lo stesso nell’esperienza di ogni giorno: se provochiamo un leggero mulinello in una tazzina di caffè e la depositiamo sul tavolo, quando il movimento sarà cessato almeno un punto nel caffè sarà tornato alla sua posizione iniziale. Luitzen Egbertus Brouwer, che scoprì questo teorema un secolo fa, non poteva certo immaginarne le innumerevoli applicazioni.
Ma forse Brouwer le paventava, queste applicazioni, e temeva che la matematica, irrigidita in un sistema dalla bellezza fredda, necessaria e imparziale, potesse infine intrappolarci in un mondo tanto oggettivo quanto tirannico - «ogni necessità rende schiavi» si legge pure nell’Oreste di Euripide. Eppure l’incessante scoperta dei nessi e degli intrecci imprevedibili, in cui consiste la dinamica della scoperta, ha poi il potere di legare la ferrea e oggettiva necessità delle formule alla spontaneità dell’invenzione, e di farci capire come noi stessi, in fondo, desideriamo sottomettere il nostro arbitrio a quella necessità.
L’alfabeto delle immagini
Dalle rette ai satelliti se Il calcolo usa le figure
La geometria si serve di punti e cerchi per svelare il mondo.
Una sorta di altro lessico che oggi aiuta la tecnologia
Leibniz ricordava come certe sue scoperte fossero dipese dal triangolo di Pascal
Senza disegni nella matematica ci manca una percezione "gestaltica"
di Paolo Zellini (la Repubblica, 13.07.2011)
Chi sa leggere e scrivere conosce l’alfabeto, l’insieme delle lettere della nostra lingua; il complesso dei segni che, disposti in fila, formano le parole con cui siamo in grado di esprimerci, come pure le espressioni simboliche di cui si avvalgono le scienze, comprese le più astruse formule della matematica. Platone chiamava questi segni "elementi", in greco stoicheia. Lo stesso termine poteva denotare le parti costitutive fondamentali della materia e dei corpi, come anche le proposizioni essenziali su cui si basa una disciplina, per esempio gli Elementi di Euclide. Ma gli elementi, in origine, erano cose allineate nello spazio secondo un certo ordine. Per Omero poteva anche trattarsi di file di armi o di schiere di soldati, e in certe iscrizioni risalenti al IV secolo a.C. il verbo stoicheo si riferisce allo "stare in fila" nel gergo militare.
Per il fatto di essere allineate nello spazio, le lettere dell’alfabeto si paragonavano quindi a tutto ciò che può disporsi in linee e sequenze, come i numeri di una serie, le stelle del firmamento, un corso di pietre o mattoni, i soldati di un esercito, le strutture di atomi o le configurazioni di punti con cui i Pitagorici definivano i numeri. Le lettere potevano pure disporsi in cerchi, secondo i canoni della mnemotecnica, oppure in linee tortuose che si avvolgono e si snodano ritmicamente intorno a un centro, come nei meandri di una spirale. Tra le innumerevoli immagini ispirate alla mitica architettura di Dedalo, tra il XV e il XVIII secolo, è frequente imbattersi in sequenze di lettere disposte lungo le spire di un labirinto.
Questa geometria della parola perfeziona e arricchisce il senso del nostro discorso. Ma di che arricchimento si tratta, e si può azzardare l’ipotesi che accanto all’alfabeto delle lettere esista pure un alfabeto delle immagini? Si può cioè ipotizzare un catalogo di figure, assieme ai criteri per assemblarle, per cogliere idee che le parole non riuscirebbero da sole a esprimere in modo altrettanto efficace? Triangoli, cerchi, spirali e quadrati, onnipresenti anche in natura, procurano suggestioni e rimandi simbolici difficilmente riassumibili in un giro di frasi, e sono spesso serviti a comporre i più articolati e astrusi geroglifici della mente, immagini di un percorso iniziatico, di qualche complessa teoria metafisica o scientifica. Nella tarda antichità Boezio sosteneva che allontanarsi dal bene è come deviare da qualche "figura eccellente".
In età rinascimentale Giordano Bruno si serviva di un vasto repertorio di immagini geometriche per illustrare i cardini della sua prodigiosa metafisica. Molte di quelle immagini, a cui Bruno conferiva la dignità di "figure celesti", parlano spesso da sole; e una volta che si sappia analizzarne il senso si contemplano senza altre parole. Tra il 1714 e il 1716, poco prima di morire, Leibniz ricordava come alla sua scoperta del calcolo infinitesimale avesse contribuito lo studio dei numeri disposti in una speciale figura triangolare, il celebre triangolo di Pascal.
Il potere di spiegazione e di sintesi dell’immagine è bene evidente nella matematica. Le proposizioni della geometria euclidea - è l’esempio più ovvio - non si capirebbero senza un adeguato corredo di figure. Spesso, senza un’immagine, mancherebbe una percepibilità "gestaltica", una visione intuitiva di insieme dei diversi passaggi di un ragionamento o di una dimostrazione.
E l’intuizione sintetica della verità matematica, avvertiva Wittgenstein, è un necessario complemento del rigore logico di quei singoli passaggi, un presupposto per coglierli con un unico sguardo, per poterli eseguire e ripetere ogni volta che occorre. Un’analoga potenza di sintesi hanno oggi tutti i generi di mappe, di grafi, di ideogrammi e le innumerevoli immagini astratte della così detta infografica o della infosfera, per usare il gergo dei media, utili a orientarci rapidamente in un mondo scompigliato e multiforme (vedi l’articolo di Maurizio Ferraris apparso su Repubblica il 14 maggio).
Ma c’è anche un rischio di smarrimento, perché le immagini non solo riproducono, ma pure esaltano e moltiplicano la natura irregolare e proteiforme del nostro universo. Redigerne un lessico attenuerebbe l’impressione di vacuità procurata dall’indiscriminata mutevolezza di forme, dall’incessante passare da una cosa all’altra: uno sperpero di fantasticheria che il pensiero greco, sembrano suggerire le fonti, paragonava all’errare nell’indefinito e nel nulla. Per contrastare quel nulla ci si chiedeva se qualcosa resta immutato nella varietà cangiante delle immagini e nella geometria antica, non soltanto greca, si cercava in particolare di stabilire quando l’area di una figura può uguagliare quella di un’altra. Ma l’uguaglianza non è sempre realizzabile, perché è impossibile, ad esempio, quadrare un cerchio di dato raggio usando solo riga e compasso.
Le tecniche del calcolo derivano anche dallo studio di come varia una figura al variare di un’altra; ad esempio come si dilata un quadrato, se si aumenta di poco il lato, in modo da ottenere un quadrato più grande; una questione che porta a interrogarsi sui movimenti virtuali di crescita e diminuzione di una figura qualsiasi. In questa prospettiva l’immagine è vista come in un processo dinamico, una dilatazione o una contrazione continua oppure per singoli passi staccati.
Non a caso, nel commentare il concetto kantiano di immaginazione, Heidegger metteva in evidenza la struttura tripartita dell’intuizione, in quanto non si intuisce mai solo un "adesso", e il presente si prolunga essenzialmente in un prima e un dopo immediati. Per questo, forse, si studiavano l’ingrandimento e la riduzione in scala di figure geometriche nell’antica matematica greca, indiana e cinese. Un lungo esercizio della nostra ragione, senza il quale non disporremmo oggi della scienza che permette di far volare gli aerei, di elaborare immagini satellitari e di costruire modelli per il funzionamento dei motori di ricerca su rete. Ma all’origine di questa scienza troviamo semplici allineamenti di punti, e un alfabeto di immagini che sembrano essersi configurate da tempo immemorabile, e per ragioni ancora ignote, nel nostro pensiero.
(L’autore ha scritto Numero e logos, uscito da Adelphi)
Odifreddi sa che la matematica è il grande motore dela civiltà, ma non sa «Che cos’è il numero, che l’uomo lo può capire? E che cos’è l’uomo, che può capire il numero?»
di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica, 23.02.2011)
Il sistema oggi in vigore in Occidente è stato "inventato" in India nel V secolo e poi tramandato dagli arabi agli europei Risultati geometrici, astronomici e architettonici molto importanti sono stati raggiunti da vari popoli in epoche e luoghi diversi Un saggio di Bellos mostra come, dall’abaco alle tabelline, lo sviluppo dell’uomo sia legato al saper contare
Se avesse voluto apporre un’epigrafe al suo libro Il meraviglioso mondo dei numeri (pubblicato da Einaudi Stile Libero), Alex Bellos avrebbe potuto usare la duplice domanda del neurofisiologo Warren McCulloch: «Che cos’è il numero, che l’uomo lo può capire? E che cos’è l’uomo, che può capire il numero?». Perché il suo sterminato ed enciclopedico libro è appunto un tentativo, divertente e riuscito, di rispondere a entrambi gli interrogativi, e di mostrare come le storie del numero e dell’uomo siano in realtà intrecciate in maniera inestricabile, e i progressi e regressi dell’uno siano andati di pari passo coi progressi e regressi dell’altro.
L’espressione "mondo dei numeri" del titolo si riferisce dunque non soltanto al concetto oggettivo di numero da una parte, e alle sue rappresentazioni soggettive nello spazio geografico e nel tempo storico dall’altra, ma anche alle facoltà intellettuali dell’uomo. In particolare, al fatto che la scrittura alfabetica e la notazione numerica hanno sempre fecondamente intessuto, in teoria e in pratica, un rapporto di mutua stimolazione e derivazione.
Non stupisce quindi che il libro di Bellos sia in realtà una storia delle civiltà mascherata, osservata e raccontata dai complementari punti di vista del numero, delle cifre e del calcolo: tre aspetti di un’unica realtà, che costituiscono le versioni aritmetiche del pensiero, della scrittura e del linguaggio. Né stupisce che il libro mostri che, come le idee sono legate alla lingua in cui vengono espresse, e le parole sono legate alla scrittura con cui vengono registrate, così le varie civiltà abbiano affrontato e risolto in maniera diversa i problemi di definire filosoficamente i numeri, rappresentarli semioticamente e manipolarli matematicamente, rispondendo in maniera diversa alla domande su che cosa essi siano, come si possano indicare e come li si possa maneggiare.
Naturalmente, non tutte le civiltà hanno trovato "la soluzione" di questi problemi, che consiste in una ricetta che combina i seguenti quattro ingredienti. Primo, scegliere una base arbitraria ma conveniente: ad esempio, dieci. Secondo, indicare tutti i numeri positivi minori della base con segni differenti: ad esempio, le cifre da 1 a 9. Terzo, rappresentare i numeri maggiori mediante un sistema posizionale, in cui le cifre hanno un valore diverso a seconda di dove si trovano: ad esempio, assegnando allo stesso 1 il valore di uno, dieci o cento, e allo stesso 2 il valore di due o venti, nelle espressioni 1, 12 e 123). E quarto, aggiungere una cifra (ad esempio, 0) per rappresentare allo stesso tempo sia un posto vuoto nella precedente rappresentazione, sia il numero zero corrispondente a una quantità nulla.
Anzi, questa "soluzione" è il lascito culturale all’umanità di un’unica, grande civiltà: quella indiana della dinastia Gupta, che regnò nella valle del Gange e dei suoi affluenti tra il terzo e il sesto secolo della nostra era, ed è ricordata anche nella storia dell’arte per i suoi capolavori, primi fra tutti le pitture e le sculture delle grotte di Ajanta. La più antica registrazione dell’uso del sistema numerico indiano viene dalla Lokavibhaga: un’opera del 458, la cui datazione stabilisce un limite temporale superiore alla nascita del sistema numerico che oggi è universalmente in vigore nel mondo intero, dopo essere stato adottato dagli Arabi, e da essi tramandato agli Europei.
I quali, come ricorda Bellos, non soltanto l’hanno accettato con grandi e secolari resistenze, ma ancor oggi lo usano in maniera impropria. Ad esempio, privilegiando alcune potenze della base dieci come il mille, il milione o il miliardo, e non assegnando alle potenze intermedie nomi propri, bensì nomi composti come diecimila e centomila, o dieci milioni e cento milioni, che trattano quelle potenze come basi aggiuntive al dieci e macchiano la purezza del relativo sistema decimale. Una stonatura che invece gli indiani seppero evitare.
Come racconta Bellos, il massimo numero per il quale gli indiani coniarono un nome fu quello delle gocce di pioggia che potrebbero cadere in diecimila anni sull’insieme dei mondi, valutato dal Buddha in dieci alla centoquaranta e da lui chiamato asankhya: una parola sanscrita che significa letteralmente "innumerabile" o "incalcolabile". In Occidente soltanto Archimede poté competere con queste imprese: per rimediare alla pochezza della lingua greca, che aveva come massimo nome di numero la miriade, pari a diecimila, nell’Arenario egli inventò un modo sistematico per parlare di grandi numeri e lo applicò al calcolo del numero dei granelli di sabbia che potevano riempire l’universo, da lui valutato in dieci alla sessantatrè.
Ma non solo i Greci non avevano nomi per i grandi numeri: non avevano neppure le cifre, e usavano le lettere al loro posto. Poiché l’alfabeto classico aveva ventiquattro lettere, aggiungendone tre cadute in disuso essi ottennero un sistema di ventisette lettere, che divisero in tre gruppi di nove ciascuno: le prime nove per le unità, le seconde nove per le decine, e le ultime nove per le centinaia. Questo permise divertimenti come la composizione di poemi isopsefi, "a stesso calcolo", in cui tutti i versi avevano la stessa somma numerica delle lettere. O paranoie come la lettura simbolica di numeri quali l’apocalittico 666, variamente interpretato nei secoli come il nome di Nerone, Diocleziano, Lutero o il Papa.
Ma non facilitò le operazioni aritmetiche, per le quali si dovette ricorrere a vari tipi di abaco: una letterale "tavoletta" che poteva essere di sabbia, di cera o a gettoni, e che permetteva di compiere in maniera analogica le operazioni che il sistema indiano permette invece di fare sulla carta in maniera digitale, manipolando le cifre con l’ausilio delle "tabelline’’. Bellos ci narra che l’abaco fu usato, in qualche forma, da tutti i popoli che non possedettero un adeguato sistema numerico che permettesse di fare i "calcoli": una parola, questa, che significa letteralmente "pietruzza" (come nel caso dei calcoli al fegato o alla cistifellea), e richiama l’origine primordiale dei numeri.
È in queste molteplici origini che si trovano le tante albe del numero di cui trattano i vari capitoli del libro di Bellos. Il sistema sessagesimale additivo dei Sumeri, ad esempio, di cui rimangono vestigia nel nostro computo dei secondi in un minuto, dei minuti in un’ora e dei gradi in un angolo giro. Il sistema decimale posizionale dei Babilonesi, che introdusse lo zero come posto vuoto. Il sistema vigesimale posizionale dei Maya, che arrivò a considerare lo zero come numero indipendente. E soprattutto il sistema completo di tutti gli ingredienti degli Indiani, che condividono con i Babilonesi, i Cinesi e i Maya l’introduzione del sistema posizionale, con i soli Maya l’invenzione dello zero, ma con nessun altro l’intuizione della necessità di indicare in maniera indipendente tutti i numeri minori della base.
Analogamente all’evoluzione biologica dell’uomo, o all’evoluzione linguistica dell’alfabeto, non bisogna però guardare all’evoluzione numerica del sistema indiano come a una teleologia. Da un lato, infatti, la constatazione che solo una civiltà è arrivata alla "soluzione" mostra che quest’ultima non può essere vista come un’inevitabile necessità, e dev’essere piuttosto considerata come una fortunata contingenza. E, dall’altro lato, i risultati geometrici, astronomici e architettonici raggiunti rispettivamente dai Greci, dai Maya e dai Romani, che possedevano solo sistemi numerici parziali e incompleti, mostrano che il progresso matematico, scientifico e tecnologico può evolversi in direzioni multiple e complementari, di molte delle quali Il meraviglioso mondo dei numeri narra le affascinanti vicende.
È condivisibile ciò che dice Paolo Zellini nel suo libro “Numero e Logos”, ma resta sempre un “mare” di incertezze fra i due, simili a poli dell’universo che non ha dimensione per giunta. Di qui sembrerebbe avere buon gioco l’opinione a riguardo del matematico Piergiorgio Odifreddi nella sua postazione di ateo. Ma a volte il Logos, senza farsi notare, è più vicino a chi lo nega, che no, se si concepisce l’idea della comunanza fra “Numero e Logos”.
Mi sono posto la domanda se sia possibile colmare in qualche modo “razionale”, che pongo fra virgolette, quasi a non far scoppiare una bolla di sapone dalle proprietà direi miracolose sul questo tema. Ecco, colgo l’occasione per trarre spunto dalle bolle di sapone che incantano i bambini, ma allo stesso tempo affascinano gli scienziati, ispirano gli architetti, intrigano fisici e matematici che le usano come modello scientifico. Ma perché sono così studiate? Ma non è soltanto un gioco: queste creazioni di acqua e sapone sono state usate anche per progettare stadi.
Studiandole, i matematici hanno elaborato nuovi algoritmi, i chimici scoperto alcune strutture tridimensionali delle molecole, gli architetti costruito edifici avveneristici. Altro che gioco per bambini: far bolle di sapone serve anche a studiare le leggi della fisica. Le bolle di sapone FANNO ECONOMIA.
In effetti, le bolle di sapone sono oggetti in equilibrio fra alcuni principi fisici fondamentali. La loro forma, per esempio, non è un caso: «tende sempre a essere sferica perché in questo modo la superficie è la la più piccola possibile rispetto al volume d’aria che la bolla contiene. Se le bolle fossero cubiche, o tetraediche (a piramide), l’area della superficie esterna sarebbe decisamente maggiore. L’acqua e sapone ubbidisce cioè al principio detto “di minima azione”: le sue molecole tendono a disporsi nel modo più “economico” possibile, risparmiando sullo spazio», spiega Pietro Cerreta, fisico e ideatore di esperimenti che impiegano le bolle di sapone per dimostrare i principi delle fisica. Sono note che ho tratto dalla rivista Focus n.63 - Gennaio 1998
E poi altre proprietà come l’iridescenza senza trascurare il lato della geometria che tanto aderisce alla concezione della Trinità. Quando le bolle aderisco l’una all’altra non lo fanno a caso: che siano in ammassi o nella forma più difficile da creare, la catena, formano tra loro angoli di 120°, per occupare il minimo spazio. Giusto il simbolo del triangolo equilatero della Trinità, appunto Ma per contro lo stato delle bolle di sapone è oltremodo labile tale da far capire quando lo sia anche quello del Logos in questione, là dove si genera un insieme di uomini che hanno difficoltà ad andare d’accordo. Gesù, parlando ai suoi apostoli, spiegò loro quanto sia indispensabile la perfezione per essere in sintonia di Dio.
Dal canto mio, come già accennato, ho cercato di trovare dei nessi condivisibili tra “Numero e Logos”, ricorrendo appunto alla geometria che mi ha permesso di formulare due moduli con i quali ho riscontrato che le orditure architettoniche dei templi dell’antica Grecia, della Magna Grecia, dell’antica Roma dei Cesari, con gli archi di Trionfo, il Pantheon e persino le specifiche proporzioni ellittiche del Colosseo, vi sono informate. E questi due “numeri”, poiché si tratta di un rapporto, si aggiungono al noto Modulo architettonico (il diametro di base delle colonne) e la proporzione aurea. In particolare ho riscontrato che le orditure architettoniche anzidette erano informati a particolari due moduli proporzionali, ovvero a rettangoli i cui rapporti di base-altezza sono di 0,47 e 0,38. Di qui ho scoperto che potevano derivare da una peculiare e semplice geometria da me trattata tempo addietro e che riguarda la divisione a metà dell’area di un cerchio per mezzo di un arco di cerchio con centro sulla sua circonferenza [1].
Nel procedere dei saggi mi sono munito delle sagome, simile a calibri di riscontro, dei due moduli proporzionali, che ho simboleggiato con le lettere “m” per 0,472 ed “n” per 0,386. Il resto, attraverso una serie di riscontri di analisi grafiche di templi greci fra frontoni e piante, mi ha convinto che per essi i loro progettisti sono ricorsi ai moduli proporzionali suddetti, che mi hanno suggerito l’idea di due “testimoni vestiti di sacco”, come quelli dell’Apocalisse di Giovanni, che ora “resuscitano” grazie a me. A loro ho dedicato i seguenti saggi pubblicati sul mio sito
http://www.webalice.it/gbarbella/index.html:
“A Cesare quello che è di Cesare”. Due numeri nei loro archi di trionfo” [2],
“Altari dorati. Una matematica nascosta” [3],
“La Grecia denudata. I due moduli occulti” [4].
Restava da capire perché tutto questo è stato occultato, visto che non si può negarne l’esistenza come modulo di reale proporzionamento dell’architettura greca? Mi sono detto che è vero anche che i loro costruttori erano prima d’altro degli iniziati che teorizzavano lo schema strutturale dei templi ed altro affine e che la geometria relativa, la stessa da me concepita, era concettualmente una sacra ragione su cui mantenere l’assoluto segreto. Non si può negare che la suddivisione equa del cerchio attraverso un altro cerchio col centro affine è di grande valenza piuttosto che l’altra suddivisione a metà tramite il diametro. Il diametro è una retta ed è ben diversa da una curva che è della stessa natura del cerchio. Equità, dunque, in seno agli dei, ma anche un atto di sacrificio da parte dell’uomo che li venera. Per queste ragioni ho chiamato i moduli in questione, dell’“equità” e del “sacrificio” e tanto mi sembrano legarsi ai Dioscuri, Castore e Polluce..
Ma non mi ha convinto la teoria concettuale occulta per l’uso dei due moduli proporzionali in questione, altrimenti in qualche modo sarebbe comunque trapelata e da qualche fonte sarebbe pervenuta fino a noi, invece no. Allora ho pensato di spiegarlo col ricorso al noto principio della “sincronicità” delle “connessioni significative” casuali e non causali. Ed è proprio tra causalità e casualità, che Odifreddi colloca il terzo escluso: la “sincronicità”. Si tratta di un termine introdotto da Carl Jung nel 1950 per descrivere una connessione fra eventi che avvengono in modo sincrono e tra i quali non vi è una relazione di causa-effetto ma una evidente comunanza di significato. A sostegno della “sincronicità” Odifreddi colloca l’effetto Pauli, relativo al fisico austriaco premio Nobel nel 1945.
Gaetano Barbella
[1] http://www.webalice.it/gbarbella/altari_dorati.html [2] http://www.webalice.it/gbarbella/date_a_cesare.html [3] http://www.webalice.it/gbarbella/altari_dorati.html [4] http://www.webalice.it/gbarbella/i_moduli_occulti.html