"PUBBLICITA’ PROGRESSO": L’ITALIA E LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!!
IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI
Napolitano: ’Berlusconi vittima di patologiche ossessioni’
Presidente scrive a Romani: ’Non lo querelo per pietà’
di Redazione Ansa *
I giudizi di Berlusconi su di me sono "ignobili" e dovrebbero "indurmi a querelarlo se non volessi evitare di affidare alla magistratura giudizi storico-politici; se non mi trattenesse dal farlo un sentimento di pietà verso una persona vittima ormai della proprie, patologiche, ossessioni".
E’ il brano più duro della severa lettera scritta dal presidente emerito Napolitano al capogruppo di Forza Italia, Paolo Romani, al termine del suo intervento in Senato in difesa del ddl Boschi.
Ma cosa è accaduto? Non appena il presidente emerito ha preso la parola, il senatore di Fi Scilipoti ha preso a sventolare un foglio bianco con la scritta ’2011’ (comportamento che gli è costato una ufficiale censura dal presidente Grasso), anno della fine del governo Berlusconi.
In mattinata, fra l’altro, proprio l’ex Cavaliere parlando con i senatori di Forza Italia aveva sottolineato come nel libro scritto da Friedman venisse sottolineata la complicità di Napolitano nella vicenda che aveva portato alle sue dimissioni nel 2011. Dichiarazioni fatte filtrare poco prima del discorso del Presidente: un doppio attacco che non è passato inosservato.
L’8 novembre 2011, dopo aver approvato il rendiconto con una maggioranza di 308 voti, in un teso faccia a faccia con Napolitano Berlusconi annunciò che si sarebbe dimesso quattro giorni dopo, dopo l’approvazione della legge di stabilità e si schierò per nuove elezioni. Napolitano, successivamette, dette l’incarico di formare un governo a Mario Monti.
Stato-mafia, terminata la deposizione di Napolitano al Quirinale
Il presidente della Repubblica ha risposto a diverse domande delle parti. Mai usata la parola ’trattativa’
di Redazione (ANSA ROMA 28 ottobre 2014) *
E’ durata tre ore e mezza, comprensive di una breve pausa, la deposizione al Quirinale del presidente Giorgio Napolitano, nell’ambito del processo sulla presunta trattativa Stato-mafia. Iniziata alle 10.05, l’udienza è terminata intorno alle 13.35. A metà mattinata si è fatta una breve pausa di circa un quarto d’ora. Napolitano, che indossava un vestito blu, è apparso sereno ai legali che vi hanno preso parte e che al termine si sono fermati a parlare con i cronisti.
Il presidente della Repubblica - secondo quanto reso noto da un legale - ha risposto a diverse domande delle parti, anche ad alcune domande poste dal legale di Totò Riina, Lica Cianferoni.
Il Quirinale ha fatto sapere che Napolitano "ha risposto alle domande senza opporre limiti di riservatezza connessi alle sue prerogative costituzionali né obiezioni riguardo alla stretta pertinenza ai capitoli di prova ammessi dalla Corte stessa. Il Quirinale "auspica che la Cancelleria della Corte assicuri al più presto la trascrizione della registrazione per l’acquisizione agli atti del processo, affinché sia possibile dare tempestivamente notizia agli organi di informazione e all’opinione pubblica" dell’udienza.
"La Corte - riporta Cianferoni - non ha ammesso la domanda più importante, quella sul colloquio tra il presidente Napolitano e l’ex presidente Oscar Luigi Scalfaro quando pronunciò il famoso "non ci sto!". Il presidente - ha detto ancora il legale di Riina - ha tenuto sostanzialmente a dire che lui era uno spettatore di questa vicenda. Il capo dello Stato - riporta infine Cianferoni - ha consultato delle carte durante la deposizione: lui ha avuto modo di avere quelle carte che il 15 ottobre sono arrivate dai pm di Firenze e che a noi parti private hanno richiesto una certa attività. Questo un teste normale non può farlo".
In alcuni casi Napolitano si è avvalso della facoltà di non rispondere in base alle prerogative del Capo dello Stato. "La parola ’trattativa’ - ha riferito un legale della difesa - non è mai stata usata". Nel corso della deposizione - ha detto Giovanni Airò Farulla, avvocato del Comune di Palermo - Napolitano ha riferito che, al’epoca, non aveva mai saputo di accordi" tra apparati dello Stato e Cosa nostra per fermare le stragi.
"Il clima è stato più che sereno - ha raccontato l’avvocato Giuseppe Di Peri, legale di Marcello Dell’Utri - ed il presidente della Repubblica disponibilissimo. Come prevedevo, tanto che avevo chiesto la revoca della testimonianza - ha aggiunto - non credo che questa testimonianza sia stata tanto utile come ritenevano i pm".
Per l’avvocato Ettore Barcellona, legale di parte civile, "nessuno ha fatto una domanda specifica sull’esistenza di una trattativa tra lo Stato e la mafia".
"Il presidente - ha spiegato l’avvocato Nicoletta Piergentili della difesa di Nicola Mancino - ha riferito di non essere stato mai minimamente turbatodelle notizie su presunti attentati alla sua persona nel 1993. Questo perchè faceva parte del suo ruolo istituzionale".
Il legale dell’ex generale Mario Mori non ha posto domande al presidente della Repubblica "per rispetto istituzionale".
La testimonianza è stata resa nella sala del Bronzino
Localizzazione della sala del Quirinale e indicazione delle persone presenti alla deposizione di Napolitano
Il procuratore di Palermo Leonardo Agueci e i pm del pool che sostiene l’accusa al processo sulla trattativa Stato-mafia erano arrivati stamani verso le 9.30 al Quirinale. I magistrati sono entrati dalla porta dei Giardini in via del Quirinale. Alla spicciolata, sono entrati dalla porta principale del palazzo, anche gli avvocati degli imputati e delle parti civili. Arrivata anche la Corte d’Assise di Palermo. Oltre al presidente Alfredo Montalto e al giudice a latere Stefania Brambille, sono presenti i sei giudici popolari (quattro titolari e due supplenti).
Nella piazza antistante il Quirinale, si sono radunati giornalisti e curiosi.
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La trattativa
Il Codice piegato a misura di Colle
Se anche la Magistratura si allinea alla trasformazione della Repubblica in Reame, le speranze di resistere, resistere, resistere sono poche
di Bruno Tinti (il Fatto, 11.10.2014)
Le sentenze si emanano nel rispetto della legge. Che garantisce alle parti del processo la possibilità di far valere le proprie ragioni. Si chiama contraddittorio e, in uno con l’informazione fornita dai mass media, permette il controllo dei cittadini sui processi. Secondo la Corte d’Assise di Palermo il contraddittorio è variabile; pieno, parziale, anche inesistente. Lo decidono discrezionalmente i giudici, in base non alla legge ma a presunti principi generali astratti cui le leggi dovrebbero conformarsi; e, se conformi non sono, non si applicano. Che la legge ritenuta non conforme alla Costituzione debba esser rimessa alla Corte costituzionale per il relativo giudizio, questi giudici non lo sanno. E scrivono ordinanze inaccettabili.
La questione è nota. Napolitano ha “acconsentito” (non poteva fare diversamente, la legge lo obbligava) a rendere testimonianza nel processo per la trattativa Stato-mafia. Riina, Bagarella, Mancino e Parte civile hanno chiesto di essere presenti. E qui è nato il problema. Perché, a quanto pare (ma proprio non capisco perché), Napolitano non vuole trovarsi a tu per tu con i boss mafiosi. E ha opposto resistenza: testimonio, ma non voglio la presenza di questi imputati.
L’art. 205 c. p.p. prevede che il capo dello Stato sia interrogato presso il Quirinale. La Corte d’Assise si è arrampicata sui vetri con argomentazioni diverse: alcune più strettamente giuridiche, per interpretare le norme processuali in modo da giustificare la renitenza di Napolitano; altre extra-giuridiche, asseriti principi fondamentali che renderebbero il Quirinale e il capo dello Stato non sottomessi alle norme ordinarie.
LA LEGGE si limita a prevedere che la testimonianza del presidente della Repubblica deve avvenire presso “la sede in cui esercita la funzione di capo dello Stato”. Altro non dice. In particolare non detta specifiche regole che differenzino l’assunzione di questa testimonianza da tutte le altre. Così si deve applicare un principio ben noto ai giuristi, una frase latina di 2000 anni fa: ubi lex voluit, dixit; ubi noluit, tacuit; quando la legge prevede qualcosa, lo dice; quando non vuole prevederla, tace. Siccome eccezioni alle modalità di assunzione della testimonianza del capo dello Stato, a parte il luogo in cui essa è prevista, non sono previste da alcuna legge, tutte le norme processuali che regolano il dibattimento penale si applicano anche a questo caso particolare.
E qui sta il primo errore della Corte che ha ritenuto di natura analogica l’applicazione di queste norme alla testimonianza del capo dello Stato: “La norma non prevede nulla; dunque - per analogia - si dovrebbero applicare le altre norme processuali sulla testimonianza; ma non si può per via dei principi generali sull’immunità, etc”.
Solo che l’analogia non c’entra nulla: le norme generali sulla testimonianza si applicano a tutte le testimonianze, salvo le eccezioni previste dalla legge; una di queste è quella prevista dall’art. 205 (il Quirinale e non l’aula d’udienza). Per il resto non cambia niente.
E non potrebbe cambiare. Perché le norme processuali che la Corte vuole disinvoltamente “abrogare” sono, non a caso, assistite da una sanzione di nullità: se non rispettate, tutto il processo è nullo. Così l’art. 502 del codice di procedura prevede che, in caso di udienza che si tenga in luogo diverso dall’aula di Tribunale, “il giudice, quando ne è fatta richiesta, ammette l’intervento personale dell’imputato interessato all’esame”. “Ammette”, non “può ammettere”; ammissione obbligatoria. E l’art. 494 prevede che, l’imputato ha facoltà “di rendere in ogni stato del dibattimento le dichiarazioni che ritiene opportune, purché esse si riferiscano all’oggetto dell’imputazione”. Come può un imputato cui si impedisce di presenziare rendere “le dichiarazioni che ritiene opportune”? E qui entra in gioco l’art. 179: “Sono insanabili le nullità derivanti dalla omessa citazione dell’imputato”. E siccome non gli si può dire che non deve entrare nel posto dove, con obbligatoria citazione, gli è stato detto che può recarsi, il risultato di questa ordinanza è la nullità del processo.
Nell’ansia di difendere l’indifendibile, la Corte commette anche errori marchiani. Va bene, Riina e Bagarella al Quirinale non ci possono andare perché la legge non lo permette agli imputati per reati di mafia. Proprio per questo è prevista la videoconferenza. Ma - dice la Corte - l’art. 146 bis delle disposizioni di attuazione al codice di procedura la prevede solo per le attività svolte nell’aula di udienza; e il Quirinale è un luogo diverso. Non è vero. L’art. 146 bis prevede casi in cui la videoconferenza può essere attivata tra diversi istituti penitenziari, in modo da consentire a ogni imputato di interloquire con quanto avviene in questi luoghi. Dunque videoconferenza tra le carceri sì e con il Quirinale no? E perché poi?
ALLA FINE la Corte lo dice: esistono “speciali prerogative di un organo costituzionale qual è la Presidenza della Repubblica”; che vanno correlate all’“immunità della sede, all’ordine pubblico e alla sicurezza nazionale”. Siamo sempre lì. A questo presidente della Repubblica la legge comune non si applica. È già successo ai tempi della distruzione delle sue telefonate con Mancino. Ora succede di nuovo. Il grave è che succede a seguito di un provvedimento giudiziario. Se anche la Magistratura si allinea alla trasformazione della Repubblica in Reame, le speranze di resistere, resistere, resistere sono proprio poche.
Come ti interrogo un presidente
di Bruno Tinti (il Fatto, 30.09.2014)
C’è una gara tra molti giornalisti italiani. Napolitano non deve testimoniare nel processo di Palermo sulla trattativa Stato-mafia. Non ha nulla da dire, non sta bene che sia sentito come testimone, trattasi della consueta arroganza di pm e giudici... Non è vero niente ma non importa: la ritrosia di Re Giorgio a sottomettersi all’articolo 1 della Costituzione e ad accettare il principio di separazione dei poteri deve essere sostenuta a prescindere; tanto più se fondata sul timore che, testimoniando testimoniando, qualche scheletro salti fuori da qualche armadio e spieghi ai cittadini perché, per lui e solo per lui, si è inventato un codice di procedura penale nuovo di zecca (nella parte relativa alle intercettazioni telefoniche).
L’opportunismo è incompatibile con la memoria; almeno con quella scomoda. Il precedente di Cossiga che, nel 1990, rifiutò di testimoniare avanti al giudice Casson nel processo Gladio se lo ricordano tutti. Anche perché Cossiga piantò un casino furibondo. Ma quello, rispettoso delle istituzioni e collaborativo, di Ciampi al tempo dell’indagine Telekom Serbia non lo ricorda nessuno.
Era il 2004 e noi (la Procura di Torino) ci trovavamo alle prese con una commissione di inchiesta parlamentare che si era fatta portare in giro da un millantatore e calunniatore di nome Igor Marini. Alcuni deputati si fecero perfino arrestare in Svizzera, dove si erano recati per prendere imprecisati documenti custoditi negli uffici pubblici di Lugano; il tutto da turisti, senza rogatorie e senza accordi con le autorità svizzere: una cosa imbarazzante. La polizia li fermò e li trattenne per qualche ora; poi li riaccompagnò alla frontiera con le orecchie rosse per la vergogna.
CERCAMMO di ricostruire la vicenda dell’acquisto di una quota di Telekom Serbia da parte di Telecom. Fu abbastanza difficile, anche per via del plotone di esecuzione parlamentare che aveva deciso di fucilare Prodi, Dini e Fassino, opportunamente accusati da Marini di aver percepito tangenti. Invece noi lo incriminammo per calunnia, reato per cui fu poi condannato.
Nel corso delle indagini, saltò fuori che l’allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, poteva fornire informazioni preziose. Così Marcello Maddalena (il procuratore capo di Torino) telefonò a Loris D’Ambrosio, il magistrato che già allora era consigliere giuridico al Quirinale, e gli disse di questa nostra necessità: “Indaghiamo sull’affaire Telekom Serbia, avremmo necessità di interrogare il presidente come testimone. Si può combinare? Quando e dove vuole lui, naturalmente”. Un paio di giorni e arrivò la risposta: “Va bene tra... a Castel Porziano? ” “Certo, come no. Ringrazi il presidente da parte nostra”.
Così, in una bella giornata di luglio, arrivammo (Maddalena e io) al cancello della tenuta. Un signore ci fece strada con la sua automobile fino alla residenza del presidente. Un posto bellissimo, una casa bassa, immersa tra i pini, arredata con una raffinatezza semplice e preziosa. Ciampi ci ricevette subito; era insieme allo storico segretario generale della Presidenza della Repubblica, Gaetano Gifuni. Tanto era grosso, diffidente e un po’ altezzoso Gifuni, tanto era piccolo, gentile e semplice Ciampi.
Ci fece accomodare e ci offrì un caffè. Poi si sistemò su una poltrona e si disse a nostra disposizione. Io aprii il portatile e cominciai a scrivere. Rispose a ogni domanda, senza chiederne il motivo, in maniera chiara ed esauriente. Qualcuna di esse - era evidente - avrebbe potuto metterlo in imbarazzo: era in atto uno scontro politico senza precedenti e senza esclusione di colpi. Ma il presidente non apparve mai turbato; mai reticente, mai in cerca di risposte equivoche, raccontò quello che sapeva.
Lesse con attenzione il verbale che avevo redatto; non trovò nulla che richiedesse modifiche e pregò Gifuni di leggerlo a sua volta. In verità non era una procedura prevista dal codice ma, con uno sguardo, Maddalena e io ci trovammo d’accordo nel non sollevare obiezioni. Nemmeno Gifuni trovò nulla da ridire ma, forse per giustificare il suo ruolo, mi impegnò fastidiosamente sulla sostituzione di due o tre parole e sulla modifica di un paio di frasi che, all’esito, non mutarono affatto di significato.
PRIMA che ce ne andassimo, il presidente ci chiese se gradivamo un tè, un succo di frutta, un altro caffè. Poi ci fu una piccola conversazione nel corso della quale Maddalena gli rimproverò di aver preso una posizione pubblica a favore della Fiorentina; gli disse: “Presidente, perché non lo fa anche per il Bologna? ”, squadra di cui lui è tifoso. Ridemmo tutti (io un po’ meno perché di calcio non capisco niente) ; e poi ce ne andammo. Tempo dopo, non so chi disse a Maddalena che in effetti Ciampi aveva detto qualcosa anche sul Bologna, cosa che lo riempì di soddisfazione.
Il verbale della deposizione di Ciampi è agli atti del processo Telekom Serbia. Che non fu indolore per la politica: dimostrammo la pochezza dell’indagine e delle conclusioni (colpevoliste, ça va sans dire) della commissione parlamentare di inchiesta; gli onorevoli commissari fecero una figura barbina; e il complotto della destra nei confronti degli uomini politici di riferimento della sinistra fu smascherato. Anche, ovviamente non solo, a seguito della deposizione di Carlo Azeglio Ciampi. Esempio concreto, sarebbe bene ricordarlo ora, di un capo dello Stato garante delle istituzioni e rispettoso della Costituzione e delle leggi.
Il testimone Napolitano
La Corte d’Assise di Palermo ha deciso: il Capo dello Stato dovrà chiarire sugli “indicibili accordi” solo accennati dal suo consigliere Loris D’Ambrosio
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza (il Fatto, 26.09.2014)
Il Pd Luciano Violante, oggi in corsa per uno scranno alla Consulta con la benedizione del Quirinale, l’aveva definita una trovata “originale” dei giudici di Palermo, ma ora la Corte d’Assise lo ha stabilito con chiarezza: la citazione del presidente della Repubblica, in qualità di testimone, nel processo sulla trattativa Stato-mafia, non è “né superflua né irrilevante”, dunque “deve darsi corso alla testimonianza”. E Napolitano, con una nota diffusa dall’ufficio stampa del Colle, ha dato prova di grande aplomb istituzionale: “Non ho alcuna difficoltà a rendere al più presto testimonianza - ha fatto sapere - secondo modalità da definire, sulle circostanze oggetto del capitolo di prova ammesso”.
SI CHIUDE COSÌ una controversia politico-giudiziaria che per circa un anno ha tenuto col fiato sospeso la diplomazia del Quirinale e ha arroventato il processo che fa fibrillare il cuore delle istituzioni. Ieri mattina, alla riapertura del dibattimento dopo la pausa estiva, il presidente Alfredo Montalto ha respinto le istanze di alcuni difensori che chiedevano un ripensamento sul coinvolgimento diretto del capo dello Stato nel dibattimento, e ha annunciato che la Corte di Palermo è pronta alla trasferta sul Colle: Napolitano deporrà in un salone ovattato del Quirinale, in base all’articolo 502 del Codice di procedura penale, che disciplina i casi di testi impossibilitati a recarsi in udienza e che sono ascoltati a domicilio. Per questo motivo, nella sala che verrà adibita alla testimonianza, scatterà “l’esclusione della presenza, oltre che del pubblico, anche degli imputati e delle altre parti, che saranno rappresentate dai rispettivi difensori”.
“Prendiamo atto della decisione”, commenta il pm Nino Di Matteo, “d’altra parte noi avevamo già illustrato i motivi per i quali ritenevamo rilevante la testimonianza del capo dello Stato, e la Corte d’assise aveva già ammesso la prova”’. Prima delle vacanze estive, il procuratore aggiunto Vittorio Teresi aveva ribadito l’istanza di sentire Napolitano, osservando che “la lettera inviata dal presidente alla Corte non può essere intesa come sostitutiva della sua testimonianza”.
L’ALLUSIONE è alla lettera spedita il 31 ottobre 2013 con la quale il capo dello Stato fece sapere che sarebbe stato “ben lieto di dare un utile contributo all’accertamento della verità processuale”, indipendentemente dalle riserve sulla costituzionalità dei suoi predecessori, “ove ne fosse in grado”. Nella missiva, praticamente, Napolitano faceva capire che non intendeva sottrarsi alla deposizione, ma nello stesso tempo raffreddava notevolmente le aspettative, esponendo quelli che definiva “i limiti delle sue reali conoscenze”.
Ieri, però, la Corte ha deciso che “il contenuto rappresentativo” di quella lettera “non è utilizzabile nel processo, in assenza di un accordo delle parti, accordo che nella fattispecie non è intervenuto”. Montalto ha poi concluso che anche se si volesse “prendere atto del diniego di conoscenze già espresso dal teste”, non è venuto meno “l’interesse della parte richiedente ad assumere la testimonianza, anche soltanto per acquisire la dichiarazione negativa di conoscenza”. Il capo dello Stato, in sostanza, deve deporre perchè “non si può di certo escludere il diritto di ciascuna parte di interrogare un testimone su fatti rilevanti, solo perché quel testimone ha escluso di essere informato su quei fatti”.
A nulla sono valsi, insomma, i “limiti” preventivi posti dall’inquilino del Quirinale, che nei prossimi giorni sarà chiamato a rispondere su un tema ben preciso: le preoccupazioni che il consigliere giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio riversò nella lettera a lui indirizzata il 18 giugno 2012, poco prima di morire stroncato da un infarto, alludendo a “indicibili accordi” che lo avrebbero visto agire come un “utile scriba”, tra l’89 e il ’93. L’ipotesi della procura di Palermo è che nel ‘93, quando lavorava con Liliana Ferraro all’Ufficio studi degli Affari Penali, D’Ambrosio potrebbe aver avuto un ruolo nelle manovre che portarono alla nomina di Francesco Di Maggio ai vertici del Dap, l’ufficio chiamato a gestire l’applicazione del 41 bis: una nomina ritenuta cruciale nell’ambito del dialogo tra i boss e le istituzioni.
Il riferimento a «indicibili accordi»
Gli interrogativi dei Pm sulla lettera di D’Ambrosio
di Nino Amadore (Il Sole-24 Ore, 26.09.2014)
PALERMO Lo hanno detto e ridetto: il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano deve deporre al processo per la cosiddetta trattativa Stato-mafia. Perché loro, i pubblici ministeri che sostengono l’accusa in questo controverso processo (Nino Di Matteo, Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia e Vittorio Teresi) ritengono che il capo dello Stato debba chiarire alcuni aspetti. Sanno di doversi muovere in un ambito limitato. Non possono, per esempio, fare domanda alcuna sulle telefonate fatte dal consigliere giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio (morto d’infarto), al capo dello Stato nel momento in cui l’ex presidente del Senato Nicola Mancino, imputato in questo processo, chiedeva con insistenza un intervento sul coordinamento delle indagini sulla Trattativa.
Ma è pur sempre la vicenda che riguarda D’Ambrosio a interessare i pm palermitani: in particolare il contenuto della lettera che il consigliere giuridico del Quirinale ha inviato al capo dello Stato il 18 giugno del 2012, successivamente pubblicata per volontà dello stesso Giorgio Napolitano.
C’è un passaggio che i magistrati palermitani vogliono approfondire: la frase in cui D’Ambrosio - turbato dalla pubblicazione sui giornali delle intercettazioni telefoniche dei suoi colloqui con Mancino, ricordando ciò che ha scritto su richiesta della sorella di Giovanni Falcone, Maria, a proposito del periodo 1989-1993, trascorso in servizio all’Alto commissariato per la lotta alla mafia e poi al ministero della Giustizia - scrive: «Lei sa che non ho esitato a fare cenno a episodi del periodo 1989-1993 che mi preoccupano e mi fanno riflettere; che mi hanno portato a enucleare ipotesi - solo ipotesi - di cui ho detto anche ad altri, quasi preso anche dal vivo timore di essere stato allora solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi».
A quali indicibili accordi si riferisce D’Ambrosio? Forse alla Trattativa Stato-mafia? E il presidente della Repubblica è a conoscenza di queste ipotesi? Domande scontate cui Napolitano però ha già risposto nella lettera inviata al presidente della Seconda sezione della Corte d’assise Alfredo Montalto il 31 ottobre dell’anno scorso in cui scrive di non avere «alcuna conoscenza utile al processo, come sarei ben lieto di poter fare se davvero ne avessi da riferire». E nel successivo paragrafo della lettera il presidente ha poi spiegato: «L’essenziale è comunque il non aver io in alcun modo ricevuto dal dottor D’Ambrosio qualsiasi ragguaglio e specificazione circa le "ipotesi" - "solo ipotesi" - da lui "enucleate" e il "vivo timore", cui il mio Consigliere ha fatto generico riferimento sempre nella drammatica lettera del 18 giugno. Né io avevo modo e motivo di interrogarlo su quel passaggio della sua lettera. Né mai ebbi occasione di intrattenermi con lui su vicende del passato».
Con l’ordinanza di ieri la Corte presieduta da Montalto ha «preso atto della richiesta formulata dal pubblico ministero nell’udienza del 17 luglio 2014, affinché si proceda all’esame testimoniale del presidente della Repubblica, già ammessa con ordinanza del 17 ottobre 2013, sciogliendo la riserva formulata nell’udienza del 28 novembre 2013». Per Montalto «non si può di certo escludere il diritto di ciascuna parte di chiamare e interrogare un testimone su fatti rilevanti per il processo sol perché quel testimone abbia in una precedente deposizione testimoniale, escluso di essere informato dei fatti medesimi».
Trattativa e “Romanzo Quirinale”
Napolitano dovrà dire la verità
Al processo Stato-Mafia testimonieranno la prossima settimana Grasso, Marra, Ciani e Vitaliano Esposito
Poi, alla ripresa a settembre, sarà convocato il Presidente
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza (il Fatto, 03.07.2014)
Palermo. Nell’aula bunker di Palermo comincia la marcia di avvicinamento dei giudici al Colle più alto di Roma: il processo sulla trattativa Stato-mafia è pronto a sfogliare le pagine cruciali del Romanzo Quirinale. A settembre, subito dopo la pausa estiva, è prevista l’audizione di Giorgio Napolitano dopo che sul pretorio, a partire da venerdì 11 luglio, sfileranno i protagonisti del ‘giallo’ istituzionale più imbarazzante della storia repubblicana: le pressioni telefoniche esercitate da Nicola Mancino sul Colle, nelle conversazioni con Loris D’Ambrosio, consulente giuridico di Napolitano (di quelle con il capo dello Stato non si sa nulla perché sono state distrutte), per evitare di essere sottoposto a confronto con l’ex ministro Claudio Martelli nel processo agli ufficiali del Ros Mario Mori e Mauro Obinu, accusati (e poi assolti con il dubbio) di avere fatto fuggire Bernardo Provenzano dal covo di Mezzojuso nell’ottobre del 1995.
Ma non è ancora detto che l’inquilino del Quirinale debba realmente aprire il portone al plotone di giudici, pm e avvocati palermitani pronti a volare a Roma per raccogliere la sua deposizione sui timori espressi da D’Ambrosio, poco prima di morire stroncato da un infarto, in una lettera nella quale si diceva preoccupato di essere stato usato come “utile scriba” per fare da scudo a “indicibili accordi” nel periodo tra l’89 e il ’93.
Sulla deposizione di Napolitano deve ancora pronunciarsi, infatti, il presidente della Corte d’assise Alfredo Montalto, dopo che nel novembre scorso il capo dello Stato ha voluto esporre con una missiva ai giudici di Palermo “i limiti delle sue reali conoscenze in relazione al capitolo di prova testimoniale ammesso”. Pur dicendosi pronto a farsi interrogare, infatti, Napolitano ha informato le parti processuali che sul tema del capitolato relativo alla sua audizione - e cioè sui tormenti di D’Ambrosio - non sa più di tanto. In attesa di Napolitano i primi a sfilare sul pretorio saranno l’ex Procuratore nazionale antimafia, oggi presidente del Senato, Pietro Grasso e il segretario generale del Quirinale Donato Marra.
Il primo, rinunciando alle sue prerogative istituzionali, qualche giorno fa dalla Palestina ha scelto di deporre a Palermo (“L’aula bunker - ha detto - è un pezzo della mia vita, per me resta il tempio della verità”) e insieme al segretario del Colle dovrà ricostruire le conversazioni e le richieste giunte dalla Procura generale della Cassazione per indurlo a “coordinare” e forse, come egli stesso ha scritto, ad avocare l’inchiesta sulla trattativa condotta dalla Procura di Palermo.
Il secondo dovrà spiegare, invece, le fibrillazioni dell’intero staff del Quirinale sottoposto a un autentico pressing telefonico da parte di Mancino nel periodo tra la fine del 2011 e la primavera del 2012, fino a spingere il capo dello Stato a stilare una lettera indirizzata al Procuratore generale della Cassazione Vitaliano Esposito per indurre Grasso a intervenire. Ed è proprio Esposito, insieme al suo successore, il Pg Gianfranco Ciani, e all’aggiunto Pasquale Ciccolo , il teste che sarà sentito a Palermo giovedì 17 luglio: anche loro dovranno ricostruire in aula la catena di sollecitazioni istituzionali approdate a piazza Cavour su input di Mancino.
Nell’aula bunker, intanto, si riprende stamane con l’audizione del pentito catanese Maurizio Avola, tra i primi a citare la sigla “Falange Armata”, utilizzata da Cosa Nostra per rivendicare gli attentati di natura terroristico-eversiva della stagione ‘92-‘94.
La prossima udienza è fissata per giovedì 10 luglio e in quella data verranno ascoltati l’ex segretario della Dc Ciriaco De Mita e il pentito Antonio Galliano. Leader della ‘sinistra’ Dc, la stessa corrente di Mancino e dell’ex senatore Calogero Mannino (entrambi imputati del processo, anche se il secondo viene giudicato con il rito abbreviato), De Mita dovrà riferire, tra l’altro, delle preoccupazioni di Mannino sulla necessità di concordare una versione comune tra esponenti della stessa corrente, dopo le accuse di Massimo Ciancimino.
Preoccupazioni timidamente confermate, nella scorsa udienza, da Giuseppe Gargani, altro big della sinistra Dc, che per la prima volta ha ammesso in aula come l’intero Parlamento fosse a conoscenza della revoca dei provvedimenti di 41 bis per 334 detenuti mafiosi da parte del Guardasigilli Giovanni Conso nel novembre ’93 (circostanza sempre negata da Mancino, che disse di aver saputo tutto da un giornalista). Per la Procura è una delle “prove regine” dell’esistenza della trattativa.
il Fatto 3.7.14
Il dietrofront di “Repubblica”: ora il bavaglio va bene
ERA il 2010, ma sembra passata un’epoca. Berlusconi tentava di cambiare la legge sulle intercettazioni, proibendo ai giornali di pubblicarle. Ma sulla sua strada trova un avversario tosto: la Repubblica. Il quotidiano lancia la campagna dei post-it: gli articoli sono accompagnati dalla scritta “Con la legge bavaglio non leggerete più questo articolo”.
Segue un’innovativa campagna 2.0, chi vuole può inviare una foto con un post-it appiccicato addosso, che verrà pubblicata. L’iniziativa è un successo, per questo ogni volta che un governo ci prova la campagna riprende.
Sul giornale di ieri invece c’erano due interviste entrambe pro bavaglio. Questo il titolo di quella a Vietti: “Filtrare le intercettazioni e distruggere quelle irrilveanti”. Sotto, parla il garante Antonello Soro: “Sulla pubblicazione dei nastri serve una svolta”. Solo un eccesso di pluralismo o il bavaglio ora va bene?
Lo spirito di verità per combattere la crisi della politica
di Corrado Stajano (Corriere della Sera, 02.01.2014)
Che il nuovo anno sia un po’ più sereno di quello appena finito. È accaduto di tutto, nella politica e nella società, nel 2013. La distanza tra istituzioni e cittadini è diventata ancora più profonda, un burrone. Le promesse dei governanti, il più delle volte bugiarde, simili a quelle fatte dalle mamme ai bambini per farli star buoni, suscitano rigetto. E si ha purtroppo l’impressione che la classe dirigente non voglia rendersene del tutto conto.
La positività a ogni costo, la leggerezza, il divieto di drammatizzare sembrano le parole d’ordine d’obbligo per coprire quel che sta accadendo in Italia più che altrove. Esistono certamente anche qui da noi le energie positive della società minuta, uomini e donne che si prodigano per tirar su i figli con decoro, mettono in moto idee intelligenti, creano iniziative utili alla comunità. Ma queste non poche volontà di agire in modo onesto e nuovo sono isole prive degli indispensabili ponti, in difficoltà perché fuori dai cerchi magici di chi detiene il potere.
I partiti sono in crisi profonda. Nel Novecento hanno rappresentato, con la forma della loro organizzazione politica, la fabbrica del consenso e della legittimazione. Ora sembrano scatole vuote, quel che conta è l’immagine, il marketing, non la sostanza del fare. Le forme strutturali della politica sono cambiate, prevale il «finanzcapitalismo», espressione di Luciano Gallino, che ha sostituito la forza dell’obsoleto capitalismo industriale.
La crisi di sfiducia è generalizzata. Il Parlamento è delegittimato, un passacarte del governo che a sua volta è appeso alla maniglia dei decreti legge e dei voti di fiducia indispensabili per andare avanti.
Non sembra che questo passaggio nodale di una crisi non solo economico-finanziaria, ma politico-culturale sia preso in considerazione. La politica lo scarta come una mosca fastidiosa. Manca anche il sospetto e il timore che in questo scompiglio possa essere a rischio l’idea stessa di democrazia, il sistema politico più alto creato dall’uomo.
Il 2013 non è stato un anno rispettoso dei principi fondamentali dell’eguaglianza, della tolleranza, dell’agire in nome del bene comune così ipocritamente e cinicamente reclamizzato.
Le elezioni politiche del 23-24 febbraio dello scorso anno e quelle del presidente della Repubblica non sono stati di certo eventi memorabili. Con i 101 del Pd che vergognosamente non hanno votato Prodi dopo averlo applaudito come proprio candidato poche ore prima. Con Grillo, il riccioluto dittatore urlante dell’antipolitica, privo di una base elementare di idee, che non ha votato neppure lui Prodi dopo averlo inserito tra i suoi candidati. Con il Pd che non ha accettato Rodotà perché non «suo» - era stato proposto dal Movimento 5 Stelle - dimentico che il professore è stato presidente del Pds ed è una persona di alta moralità e cultura. Il buio. Tutti insieme, allora, al Quirinale come nel finale di un melodramma, a implorare il presidente di restare ancora in sella.
Il governo delle larghe intese, poi, un antico miraggio, non uno strumento di emergenza. Non è stato l’aggettivo «condiviso» il più accarezzato degli ultimi anni? Il governo Letta-Alfano avrebbe dovuto essere un governo a termine, come il governo Dini del 1995, e invece non nasconde l’intenzione di durare, di segnare il tempo e, privo com’è di principi elementari comuni, non legittimato quindi a mutare il sistema istituzionale, si propone di affrontare problemi centrali per la dignità di una democrazia. Non sembra che abbia avuto, dopo i mortiferi vent’anni berlusconiani, un soprassalto di fervore. Qualche macchia nera, piuttosto. Basta ricordare il caso Cancellieri e il caso del sequestro di Alma Shalabayeva e della sua bambina, ora fortunatamente risolto, un oltraggio alla sovranità nazionale. Non doveva essere la nuova legge elettorale il primo ed essenziale compito del governo per sostituire l’inverecondo Porcellum? Gli interessi dei gruppi politici e dei singoli parlamentari, impauriti per quel che sarà il loro futuro, sembrano impedirlo. E poi suscita amarezza che non si sia sentito il dovere di abrogare subito le leggi indecenti sull’emigrazione, nate dall’odio razzista: quei poveri migranti con la bocca cucita che hanno riempito di indignazione il mondo sembra purtroppo che siano stati guardati con la normalità dell’indifferenza.
La continuità con la seconda Repubblica e anche con la prima sembra assicurata. I comportamenti, tatticismi, machiavellismi spiccioli, litigi tra alleati e non, ultimatum, rimpasti obbligati, patti di coalizione, non sembrano per nulla finiti in soffitta.
Con una novità. Letta ha annunciato un mutamento epocale: la generazione dei quarantenni prende il potere. Largo ai giovani. Accade naturalmente e periodicamente nella storia del mondo, anche se non così strombazzato. Peccato che le prime mosse non siano state brillanti per i portaborse di ieri, tra il pasticcio del salva-Roma, la Tasi, la mini-Imu, gli affitti d’oro, la milleproroghe, la Finanziaria rimpolpata dagli emendamenti - è accaduto in ogni legislatura - come il vitello grasso. Ma ci pensa Renzi, il segretario del Pd, a rappresentare il nuovo che avanza. In bicicletta, senza mani, corre a presentare il libro di Vespa.
Che fare? Ritrovare con coraggio lo spirito di verità. Ricominciare con umiltà e con buon senso. Diceva il Croce che è la più alta delle virtù.
Atto d’accusa. Salvatore Borsellino:
“Dal Csm un preoccupante schiaffo a Di Matteo e ai pm”
intervista
di Sandra Rizza (il Fattom 22.12.2013)
Palermo Salvatore Borsellino, l’associazione culturale Libertà e Giustizia, presieduta da Gustavo Zagrebelski e Sandra Bonsanti, definisce “indecorosa” la trasferta del Csm che venerdì a Palermo ha snobbato Nino Di Matteo e il pool della trattativa, e sostiene che il risultato è l’esatto contrario di quello declamato: nessuna solidarietà ai pm minacciati da Cosa nostra. Lei che ne pensa?
Altro che trasferta indecorosa. È stato uno schiaffo vero e proprio ai pm della trattativa Stato-mafia, uno sgarbo istituzionale estremamente grave. L’opinione pubblica dovrebbe reagire.
Ora Libertà e Giustizia chiede che il Csm ripari a questo “gravissimo errore istituzionale” con una dichiarazione pubblica di sostegno al pool della trattativa. È d’accordo?
Sì, ma questa vicenda è una farsa. Ho letto che Vietti a Palermo ha dichiarato: “Se Di Matteo fosse qui, l’avrei abbracciato”. Ma che vuol dire? Di Matteo doveva passare di lì per caso? Se voleva abbracciarlo, perché non lo ha chiamato nell’aula magna dove avvenivano le audizioni? È ridicolo. È la farsa dentro la tragedia. Quello che spero è che ora almeno il Csm archivi al più presto il procedimento disciplinare su Di Matteo, accogliendo la richiesta del pg Gianfranco Ciani. Voglio ricordare che anche mio fratello Paolo fu sottoposto a procedimento disciplinare del Csm prima di essere ammazzato.
Totò Riina dal carcere viene intercettato in diretta mentre ordina un attentato contro Di Matteo. E l’allarme ignorato del ministro Alfano ricorda quello di Scotti, all’inizio del ’92, che fu disatteso in Parlamento dopo che Andreotti ne sminuì la portata con una battuta. Eppure in quell’occasione Scotti aveva visto giusto. Si ripropongono nel Paese scenari già vissuti?
Sì, sento un’aria troppo simile a quella degli anni Novanta. Sono in ansia per Di Matteo, isolato delle istituzioni e delle minacce di Cosa nostra. Ho le stesse paure che avevo vent’anni fa per mio fratello e che poi purtroppo sono state tragicamente confermate. Ma su Alfano, facciamo attenzione: non dimentichiamo che è un allievo di Berlusconi, che ha fatto sempre una politica di annunci fasulli. Quando nei giorni scorsi è venuto a Palermo, Alfano mi ha detto che aveva già concesso il bomb-jammer a Di Matteo. Era una menzogna.
Antonio Ingroia sostiene che “in un momento come quello attuale, un attentato mafioso avrebbe l’effetto di stabilizzare il governo delle larghe intese, soprattutto quando c’è un vicepremier come Alfano che dice di essere dalla parte della magistratura”. Condivide?
Non posso non essere d’accordo. Il nostro è un momento di assestamento politico, e la storia recente del nostro Paese ci insegna che, proprio in momenti come questi, le stragi sono servite a orientare gli equilibri istituzionali.
Come valuta l’atteggiamento di Napolitano che, durante la Cerimonia dello scambio degli auguri di Natale, si è limitato a esprimere una generica solidarietà ai magistrati vittime di minacce, senza mai nominare Di Matteo o i pm della trattativa?
Non mi stupisce. L’ho detto varie volte e lo ripeto: Napolitano è il garante di quella trattativa Stato-mafia, sulla quale oggi è in corso un processo che si vuole fermare.
Come è possibile che nel Paese delle stragi Falcone e Borsellino, Di Matteo - il nemico numero uno del capo della mafia stragista - sia diventato un “innominabile”?
È possibile proprio perché abbiamo un capo dello Stato che da più di vent’anni copre la congiura del silenzio sui patti scellerati tra Cosa nostra e le istituzioni.
Attenti all’icona
Benvenuti al circo dell’antimafia
di Nando dalla Chiesa (il Fatto, 21.12.2013)
E allora facciamolo scoppiare, il bubbone. E parliamo del variopinto circo che vorrebbe prendere le bandiere dell’antimafia. La Calabria ci ha offerto di recente due casi inquietanti. Quello del sindaco antimafia di Isola di Capo Rizzuto Carolina Girasole, accusata dai magistrati di rapporti (da definire) con il potente clan degli Arena. E quello di Rosy Canale, scrittrice e attrice teatrale, rappresentante delle “donne di San Luca”, che avrebbe intascato per privatissime finalità fondi pubblici ottenuti per contrastare la cultura mafiosa a San Luca.
Ed è appunto da questo secondo caso che vorrei partire.
Rosy Canale è stata infatti di recente ospite del teatro Franco Parenti di Milano, storicamente impegnato contro la mafia, sin da quando (allora si chiamava Pier Lombardo) lo dirigeva Franco Parenti. Vi ha portato uno spettacolo autobiografico musicato da Battiato, che apriva un ciclo di tre serate - ‘ndrangheta, camorra, mafia ma ciascuna delle quali mi era stato richiesto di intervenire. Non la conoscevo. Mi bastavano la serietà del teatro e quel che di lei si diceva. Poiché il movimento antimafia ha ancora una sua serietà, amici calabresi mi avevano tuttavia avvisato all’ultimo momento dei dubbi che avevano sulla persona.
Per questo ho evitato di spendere anche una sola parola su di lei, riservandomi di giudicare sul campo. Non c’è voluto molto. Al dibattito che precedeva lo spettacolo Malaluna ci siamo trovati la sociologa Ombretta Ingrascì, Gianni Barbacetto e io. Sono bastati pochi minuti per guardarci negli occhi con imbarazzo e poi per replicare: i bersagli di Rosy Canale erano solo lo Stato (tutto) e il movimento antimafia (tutto). Quanto allo spettacolo, aveva una sua forza suggestiva (Battiato...) ; ma anche una grande carica equivoca, per chi masticasse qualcosa della materia. Per chi ne masticasse, appunto.
COSÌ IL PUBBLICO milanese (benché non novizio) quella sera si è convinto di trovarsi davanti a un’eroina dell’antimafia. Perché se qualcuno viene accreditato, senza mai un controllo, da un intero circuito di giornalisti, premi, artisti o associazioni, la gente alla fine è pronta a farne un’icona. E a farsi compartecipe di una truffa. Pochi giorni dopo la stessa Rosy Canale avrebbe ricevuto il premio Borsellino (non promosso dalla famiglia o da un’istituzione) alla presenza di alte autorità dell’antimafia.
E arrivo al salto di qualità. Che è avvenuto sulla rete. Dove qualche giorno dopo è stato segnalato che l’indagata si era esibita al Parenti con il sottoscritto (solo io...), omettendo il contesto. E siccome qualcuno ha precisato, qualcun altro è intervenuto per ammonire, testualmente, “le cose si raccontano tutte e bene, andrebbe detto a un certo signor Nando”. E qui si apre l’ulteriore, e più grottesco, capitolo. Chi è infatti questo censore? È un killer pluriomicida, ex boss di ‘ndrangheta, diventato sette anni fa collaboratore di giustizia, di nome Luigi Bonaventura. Per spiegare che cosa intenda un mafioso quando dice “signor Nando”, e quanto questo sia tipico del linguaggio della delegittimazione mafiosa, basta rileggersi il Falcone di Cose di Cosa nostra.
Ma il fatto è un altro. Questo boss che da me pretende chiarimenti, da un lato protesta ovunque per non essere protetto dallo Stato (che lo lascerebbe in pericolo) dall’altro gira l’Italia a far dibattiti sulla mafia, invitato da ineffabili associazioni antimafia (come se ai tempi si fosse invitato Buscetta o Contorno...). Ed è pure lo stesso che ha raccontato non ai magistrati ma a un giornale telematico che la ‘ndrangheta aveva deciso di uccidere Giulio Cavalli.
Una rivelazione decisamente anomala, se solo si riflette sulle date. Il primo spettacolo antimafia di Cavalli è infatti dell’autunno 2008, mentre Bonaventura si pente nel 2007. Ora, fra tante centinaia di “pentiti”, non se ne è mai visto uno, uno solo, che invece di fuggire rigorosamente dai clan che ha tradito, ne riceva poi informazioni confidenziali sui delitti in cantiere. Informazioni anomale su progetti omicidi rocamboleschi (camion che investono, overdose di droga) acquisite in modo altrettanto rocambolesco (vennero in cinque nel 2011 offrendomi denaro per raccontare...) che dovrebbero fare rizzare le antenne proprio come quando si sente parlare Rosy Canale. Morale: il pentito sparge rivelazioni sui rischi mortali che corre Cavalli e Cavalli dichiara ovunque che il pentito è credibilissimo. Uno riceve la scorta e l’altro viene invitato ai dibattiti e scrive perfino editoriali.
CHE COSA sta succedendo? Qualcosa di ampio e di inquietante. Il movimento antimafia si è infatti per fortuna molto allargato. Vi sono entrate persone generose ma sprovviste di un’accettabile metro di misura, di un alfabeto culturale. Laddove negli anni più duri la formazione antimafia ce la si faceva sul campo (e costava), ora ce la si fa molto spesso nel mondo virtuale e la propria battaglia diventa un “mi piace”. Il successo di Saviano, mentre dava un forte impulso al contrasto della camorra, ha purtroppo incoraggiato anche una mitologia/martirologia della lotta alla mafia che è l’esatto contrario di ciò per cui si sono battuti gli eroi (veri) dell’antimafia, sempre attenti a tenere un bassissimo profilo sui rischi che correvano, a rassicurare i cittadini, a marcare una distanza tra il proprio mondo e quello mafioso, anche quando raccoglievano le confessioni dei pentiti più affidabili.
I riflettori che essi invocavano avevano - come oggi per Di Matteo - la funzione di “difendere”, non di “promuovere”. Qui tutto si rovescia invece in un tripudio di soubrette e saltimbanchi, narcisi e veterani senza storia (o dalla storia taroccata). Senza più alcuna remora morale. Al punto che il pluriassassino trasformato in antimafioso doc esorta sprezzante il figlio della vittima di mafia a dire la verità. Quando invece è arrivato il momento di dire basta.
Lettera al Presidente
Di Matteo, nemico della mafia e inviso allo Stato
di Angelo Cannattà (il Fatto, 21.12.2013)
Ci sono cose che si sanno ma delle quali non si ha piena consapevolezza. Un esempio: a) Sappiamo che Totò Riina “vuole la morte” di Nino Di Matteo; b) Sappiamo che lo stesso magistrato è sotto procedimento disciplinare al Csm; c) Abbiamo capito (anche) l’indecenza della coesistenza di questi fatti? L’intervista di Travaglio a Di Matteo evidenzia la dimensione umana del magistrato: “Se mi guardo intorno e rifletto, mi dico che non vale la pena sacrificare tanti momenti di libertà miei e delle persone che mi stanno accanto. Poi però prevale la passione per la bellezza del lavoro di magistrato”. La bellezza. È la parola che mi ha colpito di più. Siamo di fronte a un uomo minacciato di morte. Eppure parla della bellezza del suo lavoro. Si può sorvolare su una frase così?
Soprattutto: si può non capire (ancora) che un uomo così è sotto procedimento disciplinare al Csm? Il Presidente della Repubblica è contestato da tempo - anche da chi scrive - per molte prese di posizione. Improvvisamente mi è apparso chiaro, tuttavia, che la sua colpa maggiore è diametralmente opposta: il silenzio. Non mi riferisco alla Trattativa Stato-mafia. Penso al silenzio, assordante, sulla tragica situazione vissuta da Di Matteo.
Insomma, non c’è dubbio che Di Matteo debba sottostare alla legge scritta (e al procedimento disciplinare del Csm) ; è altrettanto vero, però, che questo procedimento è vissuto come ingiusto dall’affetto e dal cuore (dal diritto naturale) di milioni di italiani.
Che cosa ha fatto di così grave Di Matteo? Nulla. Mi si “accusa di aver leso le prerogative del capo dello Stato con un’intervista in cui spiegavo le procedure per la distruzione delle telefonate... fra lui e Mancino. È la prima volta che si esercita l’azione disciplinare contro un magistrato per un’intervista”. La prima volta. E la si esercita, pensate un po’, contro chi da vent’anni lotta la mafia, rischia la vita, è al primo posto nelle premurose attenzioni di Toto Riina. Situazione tragica e assurda. Perché il magistrato espone se stesso al pericolo per difendere la legge; e la legge - un certo modo da azzeccagarbugli - lo persegue, delegittimandolo.
Presidente Napolitano - lo dico col massimo rispetto - è sicuro che non possa far nulla per sanare una situazione così anomala? Pensa davvero che tenere “sotto procedimento disciplinare” (per un’intervista), un magistrato che Riina vuole uccidere, dia lustro allo Stato? Ritiene che i fatti qui evidenziati aumentino la fiducia nelle Istituzioni? E sicuro, Signor Presidente, che Lei non debba adesso, subito, senza indugio, far ritirare quell’“atto di incolpazione”?
Si può servire lo Stato in mille modi, anche favorendo le non condivisibili larghe intese. Ciò che non è possibile è chiudere gli occhi di fronte all’evidenza: e l’evidenza qui è la “non colpevolezza” di Di Matteo. Quale “colpe” si vogliono trovare, da parte di quali giudici, di quale corte, se - in realtà - l’imputato è innamorato della “bellezza del suo lavoro” nonostante la condanna a morte decretata da Riina. Ci pensi, Presidente. Eviti che il magistrato Di Matteo venga percepito da tutti - con plastica evidenza - come perseguito, contemporaneamente, dalla mafia e dallo Stato.
Napolitano: "Rischio scosse sociali, attenzione a malessere"
Messaggio del presidente della Repubblica alla cerimonia di auguri con le alte cariche dello Stato: No ad elezioni anticipate, subito la riforma elettorale in senso maggioratiorio e severo richiamo al rispetto della legge. Avviso a Berlusconi: "Basta evocare colpi di Stato" *
ROMA - Ci sono il movimento dei forconi e le altre manifestazioni di protesta al centro del discorso pronunciato dal presidente della Repubblica in occasione della cerimonia al Quirinale per lo scambio degli auguri con i rappresentanti delle istituzioni, delle forze politiche e della società civile. Giorgio Napolitano chiede "massima attenzione" a coloro che vivono nel "disagio" e che "può farsi coinvolgere in proteste violente, in uno sterile moto di opposizione totale". Bisogna accompagnare, aggiunge, "al massimo rispetto della legge l’attenzione a tutte le cause di malessere sociale".
Messaggio a Berlusconi. In Parlamento, prosegue il presidente, si deve poter affermare "in ogni momento un clima di civile confronto e di fruttuoso impegno, nel rispetto dei diritti di tutte le forze che vi sono rappresentate e nella riaffermazione delle regole che le camere si sono date". Per questo, dice in riferimento alle polemiche seguite alla sentenza Mediaset, "le estremizzazioni non giovano a nessuno e possono solo causare guasti nella vita democratica", mentre "sempre e dovunque negli stati di diritto non può che riaffermarsi la separazione dei poteri tra politica e giustizia". Per questo, mette in guardia Berlusconi, nessuno è "autorizzato ad evocare immaginari colpi di Stato a cui non saremmo estranei".
Malessere e forconi. Dall’anno scorso l’Italia, sottolinea ancora il capo dello Stato, ha conosciuto "mutamenti incalzanti della scena politica, mutamenti ancora lontani da un chiaro assestamento e tali da presentare incognite non facilmente decifrabili". Napolitano affronta anche l’attualità della protesta dei Forconi. "La crisi che ha investito l’Eurozona - dice - ha messo a dura prova la coesione sociale. Le più elaborate previsioni 2014 segnalano un rischio diffuso di tensioni e scosse sociali: un rischio che deve essere tenuto ben presente e fronteggiato in Italia". "Occorre accompagnare il più severo richiamo al rispetto della legge - avverte ancora il presidente - con la massima attenzione a tutte le cause e casi di più acuto malessere sociale. Il governo registra in questo momento con comprensibile soddisfazione l’arresto della caduta del Pil, ma la recessione morde ancora duramente, e diffusa appare la percezione della difficoltà ad uscirne pienamente".
Capire il disagio. "La massima attenzione - aggiunge il capo dello Stato - va data a quanti non sono raggiunti da risposte al loro disagio: categorie, gruppi, persone, che possono farsi coinvolgere in proteste indiscriminate e finanche violente, in un estremo e sterile moto di contrapposizione totale alla politica e alle istituzioni".
L’emergenza riforme. Napolitano affronta poi il tema del recente cambio di maggioranza e delle riforme istituzionali, ribadendo il suo no all’eventualità di elezioni anticipate. "E’ importante - dice - che l’Italia continui a essere governata nel 2014. L’Europa ci guarda" e bisogna nutrire la stabilità "piuttosto che l’aspettativa di nuove elezioni anticipate dall’esito più che dubbio". "Le sorti del governo - sostiene - poggiano soltanto sulle sue forze, sono legate soltanto al rapporto di fiducia con la sua maggioranza", ma, il presidente allo stesso tempo aggiunge: "Oggi vorrei rivolgere uno schietto appello al partito che il 2 ottobre scorso si è distaccato dalla maggioranza originaria guidata da Letta, perché quella rottura non comporti l’abbandono del disegno di riforme costituzionali", per il quale, insiste, occorre anche di "tutte le forze dell’opposizione".
Serve il maggioritario. "La prossima pubblicazione del testo della sentenza della Corte e della sue motivazioni - osserva - chiarirà gli effetti giuridici e fornirà utili indicazioni al Parlamento", che, ricorda il Capo dello Stato, "ha già deciso di far ripartire dalla Camera un più risoluto e spedito esame delle diverse opzioni possibili per dare al Paese una legge che, insieme alle riforme costituzionali, soddisfi, con corretti meccanismi maggioritari, esigenze di governabilità proprie di una democrazia governante, di una democrazia dell’alternanza".
Basta bicameralismo. "Il superamento del bicameralismo paritario, dello snellimento del Parlamento, della semplificazione del processo legislativo", avvisa ancora Napolitano, sono "ormai questioni vitali per la funzionalità e il prestigio del nostro sistema democratico".
I limiti del reincarico. In conclusione del suo discorso il capo dello Stato affronta poi il delicato punto del suo reincarico al Quirinale. "Non c’è tentativo di spudorato rovesciamento della verità - afferma - che possa oscurare quel mio atteggiamento o far dimenticare la pressante sollecitazione che venne a me rivolta da opposte forze politiche partecipi di una drammatica condizione di impotenza politica a eleggere il mio successore". "Nel ringraziare il Parlamento per la fiducia accordatami - ricordato il capo dello Stato - ebbi modo di indicare inequivocabilmente i limiti entro cui potevano impegnarmi a svolgere ancora il mandato di presidente, di quei limiti credo che abbiate memoria e io doverosamente non mancherò di rendere nota ogni mia ulteriore valutazione della sostenibilità, in termini istituzionali e personali, dell’alto e gravoso incarico affidatomi".
Le reazioni. "Mi sembra un discorso - commenta il premier Enrtico Letta - che apre alla speranza di un 2014 in cui possono essere sciolti i nodi che hanno bloccato la politica italiana per tanto tempo, in cui la ripresa possa essere colta e possa esserci, come ha detto il presidente, una ripresa con crescita dell’occupazione. Spero che il Parlamento colga i moniti del presidente". Per il vicepremier Angelino Alfano quello del capo dello Stato è stato "un discorso di grande visione e consapevolezza delle urgenze sociali e della necessità di affrontarle al più presto".
* la Repubblica, 16 dicembre 2013
L’invisibile popolo dei nuovi poveri
di Marco Revelli (il manifesto, 12.12.2013)
Torino è stata l’epicentro della cosiddetta “rivolta dei forconi”, almeno fino o ieri. Torino è anche la mia città. Così sono uscito di casa e sono andato a cercarla, la rivolta, perché come diceva il protagonista di un vecchio film, degli anni ’70, ambientato al tempo della rivoluzione francese, «se ‘un si va, ‘un si vede...». Bene, devo dirlo sinceramente: quello che ho visto, al primo colpo d’occhio, non mi è sembrata una massa di fascisti. E nemmeno di teppisti di qualche clan sportivo. E nemmeno di mafiosi o camorristi, o di evasori impuniti.
La prima impressione, superficiale, epidermica, fisiognomica - il colore e la foggia dei vestiti, l’espressione dei visi, il modo di muoversi -, è stata quella di una massa di poveri. Forse meglio: di “impoveriti”. Le tante facce della povertà, oggi. Soprattutto di quella nuova. Potremmo dire del ceto medio impoverito: gli indebitati, gli esodati, i falliti o sull’orlo del fallimento, piccoli commercianti strangolati dalle ingiunzioni a rientrare dallo scoperto, o già costretti alla chiusura, artigiani con le cartelle di equitalia e il fido tagliato, autotrasportatori, “padroncini”, con l’assicurazione in scadenza e senza i soldi per pagarla, disoccupati di lungo o di breve corso, ex muratori, ex manovali, ex impiegati, ex magazzinieri, ex titolari di partite iva divenute insostenibili, precari non rinnovati per la riforma Fornero, lavoratori a termine senza più termini, espulsi dai cantieri edili fermi, o dalle boîte chiuse.
Le fasce marginali di ogni categoria produttiva, quelle “al limite” o già cadute fuori, fino a un paio di anni fa ancora sottili, oggi in rapida, forse vertiginosa espansione... Intorno, la piazza a cerchio, con tutti i negozi chiusi, le serrande abbassate a fare un muro grigio come quella folla. E la “gente”, chiusa nelle auto bloccate da un filtro non asfissiante ma sufficiente a generare disagio, anch’essa presa dai propri problemi, a guardarli - almeno in quella prima fase - con un certo rispetto, mi è parso. Come quando ci si ferma per un funerale. E si pensa «potrebbe toccare a me...». Loro alzavano il pollice - non l’indice, il pollice - come a dire «ci siamo ancora», dalle macchine qualcuno rispondeva con lo stesso gesto, e un sorriso mesto come a chiedere «fino a quando?».
Altra comunicazione non c’era: la “piattaforma”, potremmo dire, il comun denominatore che li univa era esilissimo, ridotto all’osso. L’unico volantino che mostravano diceva «Siamo ITALIANI», a caratteri cubitali, «Fermiamo l’ITALIA». E l’unica frase che ripetevano era: «Non ce la facciamo più». Ecco, se un dato sociologico comunicavano era questo: erano quelli che non ce la fanno più. Eterogenei in tutto, folla solitaria per costituzione materiale, ma accomunati da quell’unico, terminale stato di emergenza. E da una viscerale, profonda, costitutiva, antropologica estraneità/ostilità alla politica.
Non erano una scheggia di mondo politico virulentizzata. Erano un pezzo di società disgregata. E sarebbe un errore imperdonabile liquidare tutto questo come prodotto di una destra golpista o di un populismo radicale. C’erano, tra loro quelli di Forza nuova, certo che c’erano. Come c’erano gli ultras di entrambe le squadre. E i cultori della violenza per vocazione, o per frustrazione personale o sociale. C’era di tutto, perché quando un contenitore sociale si rompe e lascia fuoriuscire il proprio liquido infiammabile, gli incendiari vanno a nozze. Ma non è quella la cifra che spiega il fenomeno. Non s’innesca così una mobilitazione tanto ampia, diversificata, multiforme come quella che si è vista Torino. La domanda vera è chiedersi perché proprio qui si è materializzato questo “popolo” fino a ieri invisibile. E una protesta altrove puntiforme e selettiva ha assunto carattere di massa...
Perché Torino è stata la “capitale dei forconi”? Intanto perché qui già esisteva un nucleo coeso - gli ambulanti di Parta Palazzo, i cosiddetti “mercatali”, in agitazione da tempo - che ha funzionato come principio organizzativo e detonatore della protesta, in grado di ramificarla e promuoverla capillarmente. Ma soprattutto perché Torino è la città più impoverita del Nord. Quella in cui la discontinuità prodotta dalla crisi è stata più violenta. Parlano le cifre.
Con i suoi quasi 4000 provvedimenti esecutivi nel 2012 (circa il 30% in più rispetto all’anno precedente, uno ogni 360 abitanti come certifica il Ministero), Torino è stata definita la “capitale degli sfratti”. Per la maggior parte dovuti a “morosità incolpevole”, il caso cioè che si verifica «quando, in seguito alla perdita del lavoro o alla chiusura di un’attività, l’inquilino non può più permettersi di pagare l’affitto». E altri 1000 si preannunciano, come ha denunciato il vescovo Nosiglia, per gli inquilini delle case popolari che hanno ricevuto l’intimazione a pagare almeno i 40 euro mensili imposti da una recente legge regionale anche a chi è classificato “incolpevole” e che non se lo possono permettere.
“Maglia nera” anche per le attività commerciali: nei primi due mesi dell’anno hanno chiuso 306 negozi (il 2% degli esistenti, 15 al giorno) in città, e 626 in provincia (di cui 344 tra bar e ristoranti). E’ l’ultima statistica disponibile, ma si può presupporre che nei mesi successivi il ritmo non sia rallentato. Altri quasi 1500 erano “morti” l’anno prima. Mentre per le piccole imprese (la cui morìa ha marciato nel 2012 al ritmo di 1000 chiusure al giorno in Italia) Torino si contende con il Nord-est (altra area calda della rivolta dei “forconi”) la testa della classifica, con le sue 16.000 imprese scomparse nell’anno, cresciute ancora nel primo bimestre del 2013 del 6% rispetto al periodo equivalente dell’anno prima e del 38% rispetto al 2011 quando furono portate al prefetto di Torino, come dono di natale, le 5.251 chiavi delle imprese artigiane chiuse nella provincia.
E’, letta attraverso la mappa dei grandi cicli socio-produttivi succedutisi nella transizione all’oltre-novecento, tutta intera la composizione sociale che la vecchia metropoli di produzione fordista aveva generato nel suo passaggio al post-fordismo, con l’estroflessione della grande fabbrica centralizzata e meccanizzata nel territorio, la disseminazione nelle filiere corte della subfornitura monoculturale, la moltiplicazione delle ditte individuali messe al lavoro in ciò che restava del grande ciclo produttivo automobilistico, le consulenze esternalizzate, il piccolo commercio come surrogato del welfare, insieme ai prepensionamenti, ai co .co .pro, ai lavori a somministrazione e interinali di fascia bassa (non i “cognitari” della creative class, ma manovalanza a basso costo... Composizione fragile, che era sopravvissuta in sospensione dentro la “bolla” del credito facile, delle carte revolving, del fido bancario tollerante, del consumo coatto. E andata giù nel momento in cui la stretta finanziaria ha allungato le mani sul collo dei marginali, e poi sempre più forte, e sempre più in alto. Non è bella a vedere, questa seconda società riaffiorata alla superficie all’insegna di un simbolo tremendamente obsoleto, pre-moderno, da feudalità rurale e da jacquerie come il “forcone”, e insieme portatrice di una ipermodernità implosa. Di un tentativo di una transizione fallita. Ma è vera. Più vera dei riti vacui riproposti in alto, nei gazebo delle primarie (che pure dicevano, in altro modo, con bon ton, anch’essi che “non se ne può più”) o nei talk show televisivi. E’ sporca, brutta e cattiva. Anzi, incattivita. Piena di rancore, di rabbia e persino di odio. E d’altra parte la povertà non è mai serena.
Niente a che vedere con la “bella società” (e la “bella soggettività”) del ciclo industriale, con il linguaggio del conflitto rude ma pulito. Qui la politica è bandita dall’ordine del discorso. Troppo profondo è stato l’abisso scavato in questi anni tra rappresentanti e rappresentati. Tra linguaggio che si parla in alto e il vernacolo con cui si comunica in basso. Troppo volgare è stato l’esodo della sinistra, di tutte le sinistre, dai luoghi della vita. E forse, come nella Germania dei primi anni Trenta, saranno solo i linguaggi gutturali di nuovi barbari a incontrare l’ascolto di questa nuova plebe. Ma sarebbe una sciagura - peggio, un delitto - regalare ai centurioni delle destre sociali il monopolio della comunicazione con questo mondo e la possibilità di quotarne i (cattivi) sentimenti alla propria borsa. Un ennesimo errore. Forse l’ultimo.
LE FORCHE? NO, GRAZIE!
di Aldo Antonelli
Sono stato tentato di partecipare, in prima persona ed anche in rappresentanza di Lbera, alla manifestazione dei "Forconi", ma ho avuto un altolà dalla mia coscienza che mi impedisce di prestar voce ad un movimento dubbio ed equivoco. Ancora non trovo risposte certe e precise alla domanda intrigante di chi ci stia dietro questo mivimento. Da più parti, però, mi si mette in allerta.
La Presidenza regionale del Piemonte dell’ANPI, per esempio, ha emesso un comunicato stampa che invita tutti gli antifascisti e i democratici a respingere con fermezza le iniziative illegali messe in atto da un fantomatico "Coordinamento nazionale per la rivoluzione 9 dicembre" che attraverso Facebook 09.12.13 ha indetto per lunedì 9 una manifestazione di protesta in tutta Italia rivolgendosi in modo particolare ad ambulanti, agricoltori, commercianti, autotrasportatori, disoccupati precari, e ad altre categorie «invitando il popolo italiano alla ribellione».
Si tratta di evento apparentemente spontaneo, "organizzato" viceversa da provocatori e con l’attiva presenza di nostalgici del fascismo e del "tradizionalismo" cattolico lefebreviano anti papa Francesco; al punto che, come denuncia l’ANPI, in un’affollata assemblea dei promotori nei giorni scorsi tenutasi nel torinese, un sedicente leader, tale Danilo Calvani, agricoltore di Latina, ha auspicato la costituzione di «un governo temporaneo magari con una figura militare di riferimento".
Ancora, i "Forconi" che fecero parlare di se’ in Sicilia, Forza Nuova, Terza Posizione e a Casa Pound sono parte attiva dell’iniziativa, in un pericoloso e torbido tentativo di pericolosa emulazione con la famigerata Alba dorata ellenica. Io mi unisco unisce all’appello alla vigilanza democratica dell’ANPI e denuncio pubblicamente la vicenda rivolgendo a tutti i cittadini democratici l’invito a respingere tali iniziative torbide e di stampo neofascista, intese a creare nel Paese un clima weimariano, vigilando e svolgendo azione di denuncia e informazione alla cittadinanza.
Non è un caso che ad Avezzano, a piazza Torlonia, ci siano presenze "scomode" e "fuoricampo"!
Aldo Antonelli
Asse 5 Stelle-FI contro il Quirinale
Napolitano: “Parlamento legittimo”
Il Colle risponde alla critiche di FI e M5S: «Lo Stato deve sopravvivere».
Ma Brunetta lo attacca: «Non ha né poteri né competenze al riguardo» *
Roma. «Le Camere pienamente legittime». Il presidente della Repubblica da Milano replica all’asse M5S-Forza Italia contro i «parlamentari abusivi» dopo la sentenza della Consulta che ha bocciato il Porcellum.
Neanche il tempo di raggiungere Roma e si materializza l’inedita alleanza tra Berlusconi e Grillo. L’obiettivo di entrambi è quello far cadere il Governo e tornare alle urne al più presto.
«Spero che tutti dimostrino sensibilità per gli interessi del Paese», avverte profeticamente il capo dello Stato dando forma alle proprie preoccupazione sulla tenuta del Governo alla vigilia delle primarie del Pd e a pochi giorni dalla fiducia all’esecutivo. A guidare le danze dell’attacco al Colle è ancora una volta Beppe Grillo che oggi ci va giù duro: «Napolitano dal Quirinale non lo smuove nessuno e il fatto che sia stato eletto due volte con il Porcellum e sia un presidente incostituzionale al quadrato non lo turba, Sciolga le Camere e se ne vada», ha tuonato l’ex comico.
Fin qui è quasi routine: quel che si osserva con attenzione al Quirinale è invece la strada che intende prendere Silvio Berlusconi nel suo nuovo ruolo di opposizione. Per adesso a fare la voce grossa contro il Quirinale ci pensa Renato Brunetta che si allinea a M5S nella vivacità del linguaggio. «A forza di sopperire e sostituirsi sta completamente scardinando la Costituzione», ha detto l’ex capogruppo alla Camera del Pdl. E ha aggiunto: «non ha poteri né competenze circa la legittimazione del Parlamento e non spetta al Quirinale - aggiunge - interloquire sulla validazione degli eletti e la completa composizione delle aule».
Ma che aveva detto Giorgio Napolitano da suscitare la nuova reprimenda di Grillo-Brunetta? Il capo dello Stato, conversando con i giornalisti, aveva spiegato di aver letto bene gli interventi di due professori quotati in materia. «Apprezzo molto la risposta di Zagrebelsky oggi e di Onida ieri: gli argomenti dal punto di vista politico e istituzionale sono inoppugnabili e vanno nella direzione opposta” di chi dice che il Parlamento è delegittimato, si era limitato ad osservare il presidente. Gustavo Zagrebelsky al quotidiano `La Repubblica’ aveva sottolinea come «lo Stato sia un ente necessario e l’imperativo la sua sopravvivenza per non cadere nel caos». E che «perfino nei cambi di regime c’è continuità, ad esempio dal fascismo alla repubblica o dallo zarismo al comunismo». Convinto della legittimità del Parlamento anche Valerio Onida, ex presidente della Consulta, che ieri dalle pagine di alcuni quotidiani aveva detto: «la pronuncia di incostituzionalità colpirà la legge elettorale, non gli atti che hanno condotto alla formazione delle Camere».
Netta la difesa del capo dello Stato venuta dal Pd: di «attacchi scomposti e volgari» ha parlato il capogruppo alla Camera Roberto Speranza spiegando che «quando populismi ed estremismi di saldano contro tutte le istituzioni nasce un vero e proprio partito dello sfascio. E l’alleanza tra Grillo e Berlusconi è una miscela esplosiva che può fare molto male all’Italia”.
* La Stampa. 08/12/2013
Napolitano evita la Corte
“Mia deposizione inutile”
Doveva testimoniare nel processo sulla trattativa tra Stato e mafia
Ma il Capo del Quirinale ha invece scritto sottraendosi alle domande
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza (il Fatto, 26.11.2013)
Palermo Non ha nulla da riferire ai giudici perché non ha mai ricevuto da Loris D’Ambrosio alcun “ragguaglio o specificazione” su quelle che Napolitano definisce le “ipotesi - solo ipotesi - da lui enucleate” e sul “vivo timore, di cui il mio consigliere ha fatto generico riferimento sempre nella drammatica lettera del 18 giugno”. Il capo dello Stato, inoltre, non si è mai intrattenuto con il suo consigliere giuridico su vicende relative ad anni nei quali neppure lo conosceva, impegnato (da presidente della Camera) in funzioni pubbliche del tutto “estranee a responsabilità” in tema di antimafia.
Ecco perché Giorgio Napolitano, nella lettera depositata ieri mattina in cancelleria, chiede al presidente della Corte d’assise di Palermo Alfredo Montalto che sta celebrando il processo sulla trattativa Stato-mafia di valutare “il reale contributo” che le sue dichiarazioni “potrebbero effettivamente arrecare all’accertamento processuale in corso”, suggerendo apertamente la norma del cpp che gli permetterebbe di fare marcia indietro: il ricorso alla revoca (prevista dall’articolo 495, comma 4) del-l’ordinanza con cui la Corte ha ammesso la sua testimonianza.
DEL “VIVO timore” di D’Ambrosio di essere stato un “utile scriba”, usato come scudo per “indicibili accordi”, tra l’89 e il ’92, Napolitano, dunque, non sa nulla e in quattro punti (denominati a, b, c, d) ricostruisce il contenuto dei suoi ultimi incontri con il consigliere giuridico, lanciando frecciate ai giornalisti, sospettati di non avere riportato “correttamente” le conversazioni tra D’Ambrosio e Mancino.
Il capo dello Stato esordisce ricordando di aver pubblicato lui stesso, spontaneamente, la tormentata lettera di D’Ambrosio nella raccolta “Sulla Giustizia” (“un’iniziativa non dovuta”), sottolineando “l’intento di massima trasparenza nel documentare e onorare il travaglio umano e morale’” del consigliere giuridico, provocato “dalla diffusione, sulla stampa, di testi registrati (non si sa quanto correttamente e integralmente riprodotti) di conversazioni con il senatore Mancino, intercettate dalla Procura di Palermo”, e da cui venivano ricavati elementi di “grave sospetto” sui comportamenti tenuti dal suo collaboratore.
UNA LETTERA, quella dello spin doctor del Quirinale, che Napolitano descrive come “caratterizzata da profonda amarezza e sgomento” e “anche indignazione per interpretazioni (dello scambio di telefonate con il senatore Mancino) e, più in generale, arbitrarie insinuazioni che colpivano la costante linearità della condotta tenuta da D’Ambrosio, in modo particolare rispetto all’impegno dello Stato nella lotta contro la mafia”.
Così l’inquilino del Colle ricorda come il giorno seguente, il 19 giugno 2012, invitò D’Ambrosio nel suo studio, alla presenza del segretario generale Donato Marra, “per tentare di rasserenarlo, e per confermargli stima e fiducia e farlo anche per iscritto, consegnandogli la lettera, con la quale lo invitavo a mantenere l’incarico di mio consigliere”. Ma né durante quell’incontro, né in altre occasioni, Napolitano ricevette da D’Ambrosio notizie ulteriori: “L’essenziale - scrive Napolitano - è comunque il non aver io in alcun modo ricevuto da D’Ambrosio qualsiasi ragguaglio o specificazione circa le ‘ipotesi’ da lui ‘enucleate’ e il ‘vivo timore’, di cui il mio consigliere ha fatto generico riferimento, sempre nella drammatica lettera del 18 giugno, rinviando al suo scritto inserito, come sapevo, nel recente volume di Maria Falcone’’. E precisa: “Né io avevo modo e motivo - neppure riservatamente, nel colloquio del 19 giugno - di interrogarlo su quel passaggio della sua lettera, né mai... ebbi occasione di intrattenermi con lui su vicende del passato, relative ad anni nei quali non lo conoscevo”. E dunque: “Non ho da riferire alcuna conoscenza utile al processo”.
Da ieri la lettera del capo dello Stato è all’esame della Procura di Palermo e delle difese: le parti, dopo averla valutata, dovranno esprimere il loro parere - forse già nella prossima udienza il 28 novembre - sulla sua acquisizione agli atti. Se decideranno all’unanimità di acquisirla al fascicolo processuale, si riaprirà la discussione sulla testimonianza del presidente. È la prima volta, infatti, che un capo dello Stato chiede di deporre in un processo in modo unilaterale e per iscritto, sottraendosi alle domande delle parti. Una garanzia che non è indicata dalla legge (che prevede all’articolo 205 la testimonianza presidenziale) e che, di fatto, estenderebbe le guarentigie presidenziali ben al di là di quelle previste dalla Costituzione, spianando il terreno alle polemiche.
LA DECISIONE DELLA CORTE: LA PRESIDENZA: «ATTENDIAMO IL TESTO INTEGRALE DELL’ORDINANZA»
Stato-mafia, Napolitano citato come testimone
Ma i giudici di Palermo fissano dei «paletti»
Ammessa la richiesta della Procura di citare a deporre il capo dello Stato: sulla lettera dell’ex consigliere del Colle D’Ambrosio *
La Corte di Assise di Palermo ha ammesso la testimonianza del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nel processo per la trattativa Stato-mafia «nei soli limiti della conoscenza del teste che potrebbero esulare dalla funzioni presidenziali e dalla riservatezza del ruolo», secondo quanto disposto dalla Corte costituzionale. Il capo dello Stato figura nella lista testi della Procura, che intende sentirlo sulle «preoccupazioni espresse dal suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio». A gennaio la Consulta ha stabilito che le intercettazioni telefoniche tra il Quirinale e l’ex ministro Nicola Mancino dovevano essere distrutte
LA NOTA DELLA PRESIDENZA - E in merito alla decisione della corte di assise l’ufficio stampa della Presidenza della Repubblica informa che «si è in attesa di conoscere il testo integrale dell’ordinanza di ammissione della testimonianza adottata dalla Corte di Assise di Palermo per valutarla nel massimo rispetto istituzionale»..
LA LETTERA DI D’AMBROSIO - Napolitano dunque deporrà come testimone : i giudici della Corte d’assise di Palermo, presieduta da Alfredo Montalto, che hanno così accolto, seppure in parte, la richiesta avanzata nelle scorse udienze dal pm Nino Di Matteo. Il Capo dello Stato era stato citato dai pm per riferire in aula sulle «preoccupazioni espresse dal suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio nella lettera del 18 giugno 2012 - si legge nella richiesta della Procura di Palermo - concernenti il timore di D’Ambrosio “di essere stato considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”, e cioè nel periodo tra il 1989 e il 1993». D’Ambrosio è morto nel luglio 2012, a 64 anni, per un infarto.
SARA’ SENTITO ANCHE GRASSO - Anche il Presidente del Senato Pietro Grasso sarà sentito come testimone al processo per la trattativa tra Stato -mafia. «Il dottor Grasso dovrà riferire in ordine alle richieste provenienti dall’odierno imputato Nicola Mancino aventi ad oggetto l’andamento delle indagini sulla trattativa, l’eventuale avocazione delle stesse e/o il coordinamento investigativo delle Procure interessate», si legge nel provvedimento dei giudici letto in aula. La prossima udienza è stata fissata il 24 ottobre e i primi testimoni che saranno ascoltati saranno il questore Rino Germanà e Susanna Lima, figlia dell’europarlamentare Salvo Lima ucciso nel marzo 1992 a Palermo. Nella successiva udienza, che si terrà il 7 novembre, saranno ascoltati i primi due pentiti: Giovambattista Ferrante e Francesco Onorato.
* Corriere della Sera, 17 ottobre 2013
Grillo chiede un incontro a Napolitano:
"Vada in tv e dica la verità al Paese"
Il leader di M5S rivolge un appello sul suo blog al Capo dello Stato: "Il Paese va verso la catastrofe economica. Ma l’italiano può diventare feroce" *
ROMA - "Napolitano vada in televisione, in prima serata e parli alla Nazione. Dica la verità sullo stato dell’economia, sulle misure che dovremo prendere, sui sacrifici enormi che ci aspettano. Imponga la cancellazione del Porcellum, contro cui alla Camera ha votato soltanto il M5S e un solo deputato del pdmenoelle e sciolga il Parlamento. Quest’agonia non può durare. Chiedo un incontro con Napolitano".
Beppe Grillo sul suo blog rivolge un appello al Capo dello Stato, invitandolo a spiegare agli italiani le condizioni in cui versa il Paese: "Ci si avvia verso la catastrofe economica - scrive il leader M5S sul sito- senza che nessuno nel Governo, nei partiti, nelle istituzioni abbia il coraggio di denunciarlo, di fare qualcosa". Bisogna intervenire al più presto perché "l’italiano viene descritto come "brava gente", ma può diventare feroce, come dimostrato dalla Storia, anche recente".
* la Repubblica, 02 luglio 2013
La Procura di Palermo cita Napolitano al processo sulla trattativa Stato-mafia
I pm hanno depositato questa mattina in cancelleria la lista testi in vista della prima udienza che si terrà il 27 maggio davanti la corte d’assise di Palermo. Gli imputati sono dieci: sul banco degli imputati ci sono boss del calibro di Totò Riina e Leoluca Bagarella, ma anche uomini delle istituzioni come Nicola Mancino, Mario Mori e Antonio Subranni
di SALVO PALAZZOLO *
C’è anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano fra i 176 testimoni che i pm Nino Di Matteo, Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia e Vittorio Teresi vogliono ascoltare al processo per la trattativa Stato-mafia. In ordine "alle preoccupazioni espresse dal suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio nella lettera del 18-6-2012 (pubblicata su “La Giustizia. Interventi del Capo dello Stato e Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. 2006 -2012”) concernenti il timore del dottor D’Ambrosio “di essere stato considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”, e ciò nel periodo tra il 1989 e il 1993". Così hanno scritto i magistrati nella lista testi depositata nella cancelleria della Corte d’assise.
La Procura di Palermo chiama a testimoniare anche il procuratore generale della Cassazione, Gianfranco Ciani: "In ordine alle richieste provenienti dall’imputato Nicola Mancino aventi ad oggetto l’andamento delle indagini sulla cosiddetta trattativa, l’eventuale avocazione delle stesse e/o il coordinamento investigativo delle Procure interessate".
I pm vogliono ricostruire il contesto in cui maturarono le telefonate fra Nicola Mancino e il consigliere giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio, che sono finite agli atti del processo per la trattativa perché l’ex ministro dell’Interno era intercettato dai magistrati di Palermo. Mancino si lamentava per "il mancato coordinamento" delle indagini sulla trattativa. Dopo una lettera del segretario generale della Presidenza della Repubblica, il procuratore generale della Cassazione convocò il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso. Adesso i pm del processo trattativa chiedono alla corte d’assise di Palermo che venga convocato anche Grasso, oggi presidente del Senato. Così spiegano i magistrati nella lista testi depositata in cancelleria: "Il dottor Grasso dovrà riferire in ordine alle richieste provenienti dall’odierno imputato Nicola Mancino aventi ad oggetto l’andamento delle indagini sulla trattativa, l’eventuale avocazione delle stesse e/o il coordinamento investigativo delle Procure interessate".
Nella lista dei testimoni ci sono 30 pentiti, ma anche ex ministri come Giovanni Conso, Claudio Martelli, Vincenzo Scotti e Giuliano Amato. La Procura di Palermo cita anche l’ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.
La lettera di D’Ambrosio
Il consigliere D’Ambrosio aveva scritto una lettera al capo dello Stato dopo le polemiche seguite alla pubblicazione delle intercettazioni. Il 18 giugno dell’anno scorso spiegava: "I fatti di questi giorni mi hanno profondamente amareggiato personalmente". E ribadiva: "Come il procuratore di Palermo ha già dichiarato e come sanno anche tutte le autorità giudiziarie a qualsiasi titolo coinvolte nella gestione e nel coordinamento dei vari procedimenti sulle stragi di mafia del 1992 e 1993, non ho mai esercitato pressioni o ingerenze che, anche minimamente potessero tendere a favorire il senatore Mancino o qualsiasi altro rappresentante dello Stato comunque implicato nei processi di Palermo, Caltanissetta e Firenze".
La lettera a Napolitano si concludeva con un riferimento a un testo scritto da D’Ambrosio su richiesta di Maria Falcone: "Lei sa che, in quelle poche pagine, non ho esitato a fare cenno a episodi del periodo 1989-1993 che mi preoccupano e fanno riflettere; che mi hanno portato a enucleare ipotesi - solo ipotesi - di cui ho detto anche ad altri, quasi preso anche dal vivo timore di essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi".
Loris D’Ambrosio concludeva: "Non Le nascondo di aver letto e riletto le audizioni all’Antimafia di protagonisti e comprimari di quel periodo e di aver desiderato di tornare anche io a fare indagini, come mi accadde oltre 30 anni fa dopo la morte di Mario Amato, ucciso dai terroristi".
Dunque, anche il consigliere D’Ambrosio avrebbe avuto dubbi su quella terribile stagione del 1992-1993. I magistrati di Palermo vogliono chiedere al presidente Napolitano se abbia mai raccolto altri sfoghi di D’Ambrosio su questo argomento.
Sarà la corte d’assise di Palermo, presieduta da Alfredo Montalto, a decidere sull’ammissibilità dei testimoni citati dalla Procura.
Un monito pericoloso
di Furio Colombo (il Fatto, 10.05.2013)
Ieri, 9 maggio, commemorando al Senato le vittime del terrorismo, il Presidente della Repubblica ha pronunciato questa frase: “La violenza, anche solo verbale, può portare all’eversione. Va fermata”.
Se la frase fosse stata detta al Congresso degli Stati Uniti sarebbe stata giudicata una grave violazione del Quinto emendamento, la libertà di opinione.
L’Italia è un Paese più complicato per la sua Storia, la sua memoria e il suo presente, in cui si svolgono scene dell’assurdo. Ma prendiamo la memoria, perché quella era la ragione del discorso: celebrare nel modo più solenne il ricordo di tutte le vittime di tutti i terrorismi. Questa ambientazione però non basta a chiarire. Al punto da suggerire a Grillo di interpretare le parole di Napolitano come una sgridata a uno dei più rissosi portaborse di Berlusconi, Renato Brunetta. È possibile.
Come è possibile che il Capo dello Stato abbia inteso rivolgersi a coloro che liberamente e impunemente stanno mettendo in scena una sorta di aggressione verbale continua contro Cécile Kyenge, ministro dell’Integrazione. Per esempio una stupida deputata del Pdl ha detto, apprendo dal Tg3 (ore 19) che “ora la Kyenge ci forzerà ad adottare le sue leggi sulla poligamia”. Ciò che sta accadendo intorno e contro la prima persona nera diventata ministro in Italia fa davvero pensare a una violenza verbale così feroce che può diventare rapidamente violenza fisica.
E poi c’è il dramma di Berlusconi. Il poveretto comincia a collezionare serie condanne, e nuove incriminazioni, dopo avere buttato nel disastro un intero Paese per sfuggire alla Giustizia. E dà l’impressione di non prenderla bene. Gli alleati del Pd e delle “larghe intese” annunciano marce e dimostrazioni, comprese le invasioni di tribunali. Lo hanno già fatto senza essere neppure sgridati. Perché non dovrebbero farlo ancora, e peggio? Ma la domanda resta.
La frase del Presidente riguarda i furori ribelli e fuorilegge del berlusconismo (lo so, è una parola proibita, adesso) oppure la risposta appassionata di chi non sta al gioco e non intende permettere che il Paese precipiti nel disordine organizzato degli imputati di lotta e di governo? Meglio chiarire, prima che sia tardi.
Csm, Santacroce eletto primo presidente.
Ma il plenum si spacca sul voto
Il presidente della Corte d’Appello di Roma prevale sul presidente della seconda sezione civile della Cassazione, Luigi Rovelli, per 13 voti a 9. Tra i quattro astenuti il vicepresidente del Csm Michele Vietti. Il capo dello Stato, Giorgio Napolitano: "Avviata la legislatura, ora riforme istituzionali troppo attese". Nato a La Spezia, 72 anni, Santacroce da pm ha indagato su Ustica, P2, terrorismo rosso e nero *
ROMA - E’ Giorgio Santacroce, 72 anni, originario di La Spezia e attualmente alla guida della Corte d’appello di Roma, il nuovo primo presidente della Corte di Cassazione. Santacroce, candidato del centrodestra, voluto da Berlusconi, fino ad oggi e per cinque anni è stato presidente della Corte d’appello di Roma. Subentra a Ernesto Lupo, in pensione da lunedì prossimo.
Santacroce è stato nominato nominato a maggioranza dal plenum del Csm in una solenne seduta presieduta dal capo dello Stato. Nella votazione, il Consiglio superiore della magistratura si è spaccato: tredici sono stati i voti a favore contro i nove andati al suo diretto concorrente, il presidente della seconda sezione civile della Cassazione Luigi Rovelli.
Come di norma, il Capo dello Stato, presidente del Csm, non ha votato, mentre il vicepresidente Michele Vietti si è astenuto assieme al pg di Cassazione, Gianfranco Ciani, al presidente uscente Lupo e al laico del Pdl Annibale Marini. A favore di Santacroce hanno votato compatti i gruppi di Unicost e di Magistratura Indipendente e quattro consiglieri su cinque dei laici del centro-destra (tranne Marini). Per Rovelli invece tutti i consiglieri di Area, i laici del Pd e gli indipendenti Paolo Corder e Nello Nappi.
Nel corso del plenum, il presidente Napolitano è intervenuto ricordando il suo "breve messaggio di commiato" inviato al Csm alla vigilia del 16 aprile. "Poi, come avete visto, può accadere l’imprevedibile e vi toccherà fatalmente essere ancora destinatari delle mie raccomandazioni da presidente della Repubblica e soprattutto da presidente del Csm. Confido nel vostro ascolto".
Commentando poi l’elezione di Santacroce a nuovo Presidente della Corte di Cassazione, Napolitano ha prima sottolineato il clima fattivo in cui si è svolta la riunione, e poi ha commentato: "Oggi si apre un nuovo ciclo di attività, in corrispondenza con la partenza della 17esima legislatura". Il capo dello Stato ha inoltre considerato finita la "travagliata" fase d’avvio della legislatura, "ora bisogna affrontare il nodo delle riforme troppo a lungo attese".
Salutando il presidente uscente Ernesto Lupo, Napolitano ne ha lodato la "ricca e solida cultura giuridica, l’alta visione deontologica e la capacità di combinare rigore ed equilibrio. Un esercizio cruciale, non sempre facile, perché possano essere riconosciute la funzione e l’indipendenza della magistratura". Napolitano ha quindi espresso l’auspicio che "il Csm sappia dare il proprio contributo per affrontare i problemi della Giustizia, che conserva ancora tante criticità ed urgenza nel nostro Paese".
Il Capo dello stato si è infine "felicitato" con Santacroce dicendosi certo "che saprà svolgere a livello necessario" le funzioni di Primo presidente della Cassazione. "Debbo dire - ha proseguito Napolitano - che la pluralità delle candidature, ma anche il riconoscimento delle difficoltà di scelta tra candidati di così alto profilo, sono un segno confortante della qualità delle risorse umane e soprattutto del clima che si è determinato, importante per la coesione del Csm".
Giorgio Santacroce è in magistratura da 48 anni, una carriera svolta quasi tutta negli uffici giudiziari romani, ad eccezione di una parentesi di 11 anni alla Corte di Cassazione. Oltre ai cinque anni alla guida della Corte d’appello di Roma, il più grande ufficio giudiziario d’Europa per estensione territoriale e bacino di utenza, dal 1970 e per venti anni Santacroce è stato pm nella Capitale.
Molte le inchieste di rilievo che lo hanno visto al lavoro, ma spiccano soprattutto quelle su Ustica e Loggia P2, terrorismo rosso (gli attentati dei Nuclei armati proletari e il loro sequestro del giudice Giuseppe De Gennaro, l’uccisione di Giorgiana Masi a Ponte Garibaldi) e nero ( l’inchiesta su Avanguardia nazionale e sugli omicidi di Paolo di Nella e Francesco Cecchin).
Santacroce ha indagato anche su casi di respiro internazionale. E’ lui ad occuparsi dell’omicidio di rappresentati dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina da parte di agenti del Mossad israeliano, così come degli attentati compiuti a Roma da esponenti di Settembre Nero.
E’ di quegli anni anche l’inchiesta sui fondi neri della Banca nazionale del lavoro e sul disastro di Ustica. Dal 1990 con il passaggio alla Procura generale di Roma, Santacroce rappresenta con successo l’accusa nei processi riguardanti la Loggia P2, la vicenda delle lenzuola d’oro (in cui furono coinvolti i massimi dirigenti delle Ferrovie dello Stato), il sequestro del marchese Grazioli da parte della Banda della Magliana, i fiancheggiatori di Prima Linea e delle Brigate Rosse.
E anche da consigliere di Cassazione, dove arriva nel 1997 restandovi per 11 anni, si occupa di vicende giudiziarie di risonanza nazionale: il giudizio di revisione dell’omicidio Calabresi, il processo per l’omicidio di Marta Russo, e quello a carico di Annamaria Franzoni, la mamma di Cogne condannata per l’omicidio del figlio Samuele. Negli anni Novanta viene sentito invece come testimone al processo Imi-Sir per una cena con Cesare Previti.
* la Repubblica, 08 maggio 2013
Et voilà: le intercettazioni con Mancino “bruciate”
di Sandra Rizza (il Fatto, 23.04.2013)
Alla fine ha vinto Giorgio Napolitano. Dopo mesi di polemiche e un’inutile battaglia giudiziaria, il gip di Palermo Ricciardo Ricciardi ha cancellato per sempre i file audio con le quattro telefonate tra il capo dello Stato e l’ex ministro Nicola Mancino, intercettate nell’ambito dell’indagine sulla trattativa mafia-Stato.
La procedura di distruzione, durata pochi minuti, si è svolta ieri mattina nel bunker dell’Ucciardone, alla presenza del giudice Ricciardi (che a febbraio aveva già decretato la distruzione dei file, in base alla sentenza della Consulta sul conflitto di attribuzione sollevato dal Colle), di un cancelliere e di un tecnico chiamato per eseguire le operazioni sul server della Procura. Ricciardi ha tagliato con delle forbici il cd su cui erano incise le registrazioni, poi il tecnico ha provveduto alla cancellazione dei file.
LA DATA DELLA DISTRUZIONE, fissata in un primo momento per l’11 marzo, era stata rinviata in attesa della pronuncia della Cassazione, chiamata in causa dagli avvocati di Massimo Ciancimino che avevano giudicato “abnorme’’ il decreto di Ricciardi, perchè in aperta “violazione del diritto alla difesa’’ del loro assistito. La Suprema Corte, però, nei giorni scorsi ha dichiarato inammissibile il ricorso di Ciancimino dando così il via libera alla cancellazione.
La distruzione delle intercettazioni, si legge nelle motivazioni della Cassazione, era necessaria per sanare “un vulnus costituzionalmente rilevante”: la ragione sta nel fatto che i “principi tutelati dalla Costituzione non possono essere sacrificati in nome di un’astratta simmetria processuale”.
Poco prima di distruggere i file, Ricciardi ha rigettato l’istanza di Salvatore Borsellino, che aveva chiesto di conoscere le telefonate top secret per difendersi da una querela presentata nei suoi confronti da Mancino.
“La distruzione dei file è un atto gravissimo che ora mi impedisce di ricorrere in Cassazione contro il rigetto del gip - dice Borsellino - lo considero una diretta conseguenza della rielezione di Napolitano, grazie alle manovre di quelle consorterie che lo hanno riconfermato, a garanzia della congiura del silenzio sulla trattativa mafia-Stato’’.
MOVIMENTO PER LA SOCIETÀ DI GIUSTIZIA E PER LA SPERANZA
Lecce
Al Presidente Giorgio Napolitano
al Segretario PD Pier Luigi Bersani
al Vice Enrico Letta
L’errore del Presidente Napolitano, le “larghe intese”
Il presidente vuole le “larghe intese”, vuole cioè che il Partito Democratico si allei col sedicente Popolo della libertà; cioè con Berlusconi il truffatore, il mentitore spavaldo, il libertino, la vergogna della nazione - forse non ha mai letto ciò che di lui dicono i maggiori politici europei? non ha mai avuto sentore di ciò che ne scrive la stampa estera? - allearsi con lui e con i suoi scagnozzi, con l’accozzaglia che intorno a lui si raduna; sempre pronta a varare qualche legge truffaldina per sottrarlo ai processi, al carcere; un tipo la cui presenza in parlamento è illegittima, come tutti sanno.
E porta com’esempio la desistenza del PCI negli anni settanta; bell’esempio, bel paragone, che certo non gli fa onore; il PCI essendo un partito di grande rettitudine etica e politica; anche se il suo progetto, che ricalcava quello sovietico, era deleterio per la nazione.
E addirittura accusa di “moralismo fanatico” quanti non accettano il rapporto con l’orrido e vergognoso personaggio; e certo è stato un errore quello di Bersani, trattare con lui; quando invece doveva ignorarlo.
Il Presidente apra gli occhi, dia il via ad un governo di minoranza - che poi la minoranza è solo al Senato, ed è di pochi numeri - e può essere superata poi nelle concrete proposte di legge, con la collaborazione di parlamentari onesti e desiderosi di ricostruire e trasformare la nazione dopo il mortale ventennio.
Il governo è urgente, deve farsi subito. O si vuol attendere il nuovo Presidente? rovesciare su di lui il problema?
Il Presidente Napolitano non distrugga in poche settimane il lavoro fatto in sette anni di attenzione e saggezza politica.
Lecce, aprile 2013
Per il Movimento il Responsabile Prof. Arrigo Colombo
Arrigo Colombo, Centro interdipartimentale di ricerca sull’utopia, Università del Salento-Lecce
Via Monte S.Michele 49, 73100 Lecce, tel/fax 0832-314160
E-mail arribo@libero.it/ Pag web http://digilander.libero.it/ColomboUtopia
Intercettazioni Quirinale, dalla Cassazione
stop alla distruzione immediata dei nastri
La Suprema corte ha dichiarato ammissibile il ricorso presentato da Massimo Ciancimino, imputato nel procedimento sulla trattativa Stato-mafia. Per il momento le registrazioni delle telefonate tra Nicola Mancino e Giorgio Napolitano non saranno distrutte *
PALERMO - La corte di Cassazione ha dichiarato ammissibile il ricorso presentato dagli avvocati di Massimo Ciancimino contro la decisione del giudice per le indagini preliminari di distruggere senza il contraddittorio tra le parti, le intercettazioni delle telefonate tra l’ex ministro Nicola Macino e il capo dello Stato. L’impugnazione sarà valutata, ora, nel merito dalla sesta sezione della suprema corte il 18 aprile. Slitta, dunque, la distruzione delle intercettazioni fissata per il 13 marzo.
I difensori di Ciancimino, gli avvocati Francesca Russo e Roberto D’Agostino, nel loro ricorso, avevano sostenuto che il provvedimento del gup Riccardo Ricciardi, che aveva ordinato la distruzione delle intercettazioni senza contraddittorio, ledesse il diritto di difesa. Dall’ascolto delle telefonate, intercettate nell’ambito dell’indagine sulla trattativa Stato-mafia, a loro avviso potrebbero trarsi elementi utili alla difesa del loro assistito imputato nel procedimento di concorso in associazione mafiosa e calunnia.
Sulle telefonate si è aperto uno scontro istituzionale tra il Colle e la Procura di Palermo culminato in un conflitto di attribuzione davanti alla Consulta che ha dato ragione al Quirinale sulla distruzione delle intercettazioni.
* la Repubblica, 11 marzo 2013
Trattativa Stato-mafia. Si doveva dare corso oggi al provvedimento, ma il ricorso in Cassazione di Ciancimino ha fermato tutto
Intercettazioni di Napolitano, slitta la distruzione
di Salvo Palazzolo (la Repubblica, 12 febbraio 2013)
PALERMO - Un ricorso in Cassazione di Massimo Ciancimino, testimone e imputato del processo "Trattativa", fa slittare ancora una volta la distruzione delle intercettazioni fra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino.
Dopo la decisione della Corte Costituzionale, gli avvocati Roberto D’Agostino e Francesca Russo avevano presentato un’istanza al gip incaricato di procedere alla distruzione: Massimo Ciancimino chiedeva di poter ascoltare quei dialoghi, per valutare «eventuali elementi perla sua difesa».
Ma il giudice Riccardo Ricciardi aveva rigettato l’istanza. Venerdì scorso, il magistrato aveva così disposto la distruzione delle quattro conversazioni finite agli atti dell’inchiesta sulla trattativa mafia-Stato. Un provvedimento, come disposto dalla Consulta, adottato al di fuori di un’ udienza e senza la partecipazione di alcuna parte. «Nelle conversazioni - ha scritto il giudice- si rileva l’assenza di riferimenti a interessi relativi a principi costituzionali supremi che possono essere pregiudicati dalla distruzione delle registrazioni». Espressione giuridica per ribadire che in quelle telefonate non c’è nulla che possa pregiudicare il diritto di difesa di Ciancimino.
Ieri, il tecnico della società Rcs nominato dal gip per cancellare le telefonate dal server della Procura di Palermo era pronto a completare l’incarico. Ma i difensori di Ciancimino hanno presentato ricorso in Cassazione contro il diniego del giudice Ricciardi.
E così la cancellazione è stata rinviata, almeno di un mese, in attesa della decisione della Suprema Corte.
LE SENTENZE SUICIDE
di Franco Cordero (la Repubblica, 26 gennaio 2013)
Le chiamavano «sentenze suicide». Capitava nelle vecchie corti d’assise, dove le questioni in fatto erano risolte dalla giuria, e può ancora avvenire che decisioni d’un collegio misto, imposte dai componenti senza toga, siano motivate in tal modo da nascere morte, solo che qualcuno le impugni. Rispetto alla Consulta manca un giudice ad quem ma Nómos è Basiléus: la legge vale più del re, sebbene quest’ultimo disponga della forza e in dati contesti i sudditi siano armento docile; finché esistano lettori pensanti, abbastanza indipendenti da manifestare i pensieri, la decisione contro le norme resta prodotto anomalo.
Ne abbiamo una sotto gli occhi. Dialoghi del Presidente con un intercettato stanno sui nastri. Il Quirinale pretendeva che il pubblico ministero li incenerisse nel più ermetico segreto. Con una variante (l’atto riparatore compete al giudice), la Corte gli rende ossequio, a prima vista.
Nove fluenti paragrafi spiegano che figura singolare sia l’uomo al vertice: stimola, frena, orienta, coordina, equilibra, modera «i poteri dello Stato», anche tra le quinte, in via informale; e quest’indefinito influsso implica scambi verbali riservati, l’«assoluta protezione» dei quali va letta in filigrana nella Carta, dove non se ne parla; Dio sa come, però, il silenzio gli conferisce la qualità d’«inviolabile», quali erano i monarchi, anche se agisse fuori delle sue funzioni.
Supponiamo che un pirata insediato sul Colle discuta d’ affari poco edificanti (narcomercato, prostituzione et similia): commette delitti giudicabili, fermo restando che i dialoghi siano tabù (l’attuale capo dello Stato va oltre, postulando un’immunità processuale durante l’ufficio); e il divieto vale rispetto alla persona, assolutamente, anche se l’ascolto fosse casuale, nel colloquio con l’intercettato.
Così, volando sull’inespresso, la Corte individua un divieto istruttorio: prove raccolte nello spazio interdetto non sono acquisibili; e siccome i nastri esistono, bisogna disfarsene. Il pubblico ministero li riteneva inutili, quindi avrebbe chiesto al giudice d’obliterarli; in qual modo, lo dicono regole codificate (artt. 268, 269, 271 c. p. p.), una delle quali, capitale, esige il contraddittorio: può darsi che i reperti risultino importanti nel caso de quo o altrove; e gl’interessati devono potervi interloquire. Nossignori: tale conciliabolo svelerebbe quod infandum est, mandando in fumo la prerogativa. Provveda il giudice, da solo.
Se accogliamo premesse sospese nel vuoto, la conclusione appare coerente. L’insuperabile difficoltà sta nell’ accordare una presunta norma («assoluta protezione» dell’augusta parola e relativi corollari) con tre testi molto visibili: «La difesa è diritto inviolabile» (art. 24 Cost.); l’art. 110 impone il contraddittorio; e definendo obbligatoria l’azione penale, l’art. 112 esclude che siano virtuosamente liquidati reperti d’un delitto perseguibile.
La chiamavano sentenza suicida. Dopo tanto impegno oratorio, la contraddizione sopravviene nelle ultime quattro, righe. Il giudice ascolti i nastri, indi deliberi, considerando «l’eventuale esigenza d’evitare il sacrificio d’interessi riferibili a principi costituzionali supremi». e ne indica tre: vita, libertà personale, Res publica servanda; in tali «estreme ipotesi» adotti «le iniziative consentite dall’ordinamento». Formula evasiva ma quali siano, è presto detto: l’empio materiale confluisce nel processo, in barba all’«inviolabilità»; era fiato al vento l’arringa pro rege. Alla fine salta fuori Nómos Basiléus, più forte dell’ossequio al rex, e qui la Corte incappa nella seconda contraddizione postulando un giudice imbevuto dello Spirito santo, i cui responsi nascano giusti.
Supponiamo che ordini l’incenerimento dei nastri: deve motivarlo; e come, se non sappiamo cosa contenessero? Che la distruzione non offenda interessi tutelabili, è da stabilire nel vaglio dei dati, criticamente: la sua parola non basta; può darsi che fosse disattento o abbia mente corta o renda servizi al rex; l’unico meccanismo che garantisca conclusioni relativamente sicure è il contraddittorio, eretto a requisito indefettibile dall’art.111 Cost. Sono anticaglie le mistiche dell’organo onnisciente. Da Nicola Toppi, storico dei tribunali napoletani, sappiamo come se ne parlasse anno Domini 1655: i sacerdoti operano su materie sante, e così noi perché «leges sunt sacratissimae»; infatti, l’uomo in toga appare grave, severo, incorruttibile, «inadulabilis», «terrificus» verso i malfattori.
Nel tredicesimo anno del ventunesimo secolo non è seriamente pensabile che la parola nuda tronchi questioni forse decisive, essendo negata ai contraddittori la cognizione dei fatti. Quando Ferdinando IV, Borbone napoletano, guidato dal vecchio ministro Bernardo Tanucci, impone sentenze rudimentalmente motivate (prammatica reale 27 settembre 1774), gl’interessati insorgono: la giurisdizione è affare esoterico; un malaugurato pubblico rendiconto la dissacra. Sua Maestà ribatte e i rimostranti ammutoliscono ma negli anni novanta una monarchia reazionaria revoca l’editto (la regina e Maria Antonietta sono sorelle).
Documenti simili non diventano precedente autorevole. L’illustre consesso ha spiccato un salto indietro nei secoli: torniamo al monologo inquisitorio; e non lo rendono meno repellente i sentori d’una pesante Ragion di Stato. L’unica via d’uscita (interlocutoria) è sollevare la questione di legittimità costituzionale. Letto senza contorsioni, l’articolo 271 c. p. p. non ha niente d’eccepibile ma la Corte impone d’applicarlo in versione arbitraria, violando tre norme d’alto rango; esca dall’equivoco sciogliendo le contraddizioni.
Era prevedibile che quello sciagurato conflitto costasse caro. Non se sentiva il bisogno, tanto meno quando l’ex padrone del governo offre futuri voti al candidabile quirinalesco, purché gli garantisca un salvacondotto penale.
Trattative Stato - mafia
Le Due Verità e quelle Domande senza Risposta
Una tacita Intesa, senza un Mandato politico
di Giovanni Bianconi (Corriere della Sera, 10.01.2013)
Sembra la versione «moderata» del presunto patto fra lo Stato e la mafia al tempo delle stragi: la trattativa ci fu, o quantomeno fu tentata per poi lasciare il passo a una «tacita intesa», ma senza alcun mandato politico dei vertici delle istituzioni. E in ogni caso senza risultato, giacché lo Stato non fece concessioni significative e anzi scatenò una reazione senza precedenti contro gli «uomini d’onore».
È l’ultimo atto parlamentare di un politico di lungo corso come Beppe Pisanu - democristiano e post democristiano passato dal centrodestra al centro, che si appresta a lasciare le assemblee legislative dopo quarant’anni di quasi ininterrotta presenza, ma chissà che non possa aspirare a nuove importanti cariche.
Il presidente dell’Antimafia ha messo in fila gli eventi così come sono emersi dal lavoro della commissione e degli uffici giudiziari che continuano ad arrovellarsi sul biennio sanguinoso e ancora oscuro 1992-1994, per trarre un giudizio politico che resta sospeso nei confronti di chi è sottoposto a indagini e processi, ma suona come un’assoluzione per i vertici istituzionali rimasti fuori dalle aule giudiziarie. E fa intravedere, fino a farlo diventare esplicito in alcuni passaggi, un contrasto con il lavoro della Procura di Palermo di cui non a caso Antonio Ingroia - il pubblico ministero che s’è fatto politico - ha approfittato per attaccare lo stesso Pisanu, ormai avversario dello schieramento opposto. Il rappresentante della commissione parlamentare sostiene, riferendosi ai contatti tra i carabinieri del Ros e l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino, che «ci fu almeno una trattativa tra uomini dello Stato privi di un mandato politico e uomini di Cosa Nostra», a loro volta «privi di un mandato univoco e sovrano».
Nell’atto d’accusa con il quale ha chiesto il processo per gli ex ufficiali dell’Arma Mori, De Donno e Subranni, al contrario, la Procura di Palermo sottolinea che i tre carabinieri cercarono Ciancimino e altri uomini collegati alle cosche «su incarico di esponenti politici e di governo». Dunque con un preciso mandato, almeno para-istituzionale, dettato da una «inconfessabile ragion di Stato».
Ancora. Pisanu afferma che dell’ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro morto un anno fa (il quale riferì di non avere mai saputo niente né della trattativa né degli avvicendamenti al vertice dell’amministrazione penitenziaria, da cui scaturirono le mancate proroghe di oltre trecento decreti di «carcere duro» per altrettanti detenuti) «non possiamo mettere in dubbio la parola e la fedeltà alla Costituzione e allo Stato di diritto».
Fosse stato ancora vivo, invece, Scalfaro sarebbe oggi indagato per falsa testimonianza dai pm di Palermo. Bastano questi due accenni per comprendere la differenza d’impostazione tra chi crede che le istituzioni vadano sostanzialmente assolte e chi ha chiesto il giudizio penale per alcuni loro esponenti dell’epoca, ma ritiene che ci siano ulteriori livelli di responsabilità e consapevolezza da scoprire.
Tra chi considera il caso politicamente chiuso, nonostante le molte domande rimaste senza risposta, e chi invece pensa che ci sia da scavare ancora. Tra chi pensa che lo Stato abbia vinto («una cosa sono gli obiettivi della mafia, un’altra i risultati») e chi che abbia perso: Pisanu da un lato, la Procura di Palermo dall’altro.
Al di là delle interpretazioni e delle divergenze d’opinioni, però, restano i fatti. E l’immagine di ciò che era lo Stato al tempo della «strategia della tensione» scatenata da Cosa Nostra dopo le condanne definitive al maxiprocesso istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Una rappresentazione che coincide nelle carte dell’Antimafia e in quelle delle Procure (non solo Palermo, ma anche Caltanissetta e Firenze): le istituzioni e i loro apparati poco meno che in ginocchio e una classe politica incapace di trovare le risorse per reagire all’offensiva mafiosa. Rappresentanti dei partiti e dello Stato quasi increduli e impreparati di fronte a boss che avevano deciso di chiudere vecchi conti, una volta rotto il «clima di convivenza e, a tratti, perfino di collaborazione, che aveva lungamente caratterizzato il rapporto mafia-politica-istituzioni», come scrive il presidente della commissione parlamentare. A cominciare dall’omicidio del «garante» Salvo Lima, che di Pisanu fu compagno di partito.
La geometria del diritto
di Franco Cordero (la Repubblica, 6 maggio 2012)
Motivare le sentenze è affare serio, talvolta arduo, antipatico, rischioso. È pandemonio a Napoli quando Sua Maestà Ferdinando IV, persuaso dal vecchio ministro Bernardo Tanucci (da giovane professore nell’ateneo pisano), esige decisioni motivate (prammatica reale 27 settembre 1774). Dall’estate pendeva un ricorso del Quirinale davanti alla Consulta, contro i pubblici ministeri palermitani in una causa assai grave, dove s’intravedono fondi cupi della recente storia d’Italia.
Martedì 2 dicembre, dopo quattro ore, dalla camera di consiglio filtra l’oracolo. Poche frasi incongrue, ma non potevano suonare meglio, se presupponiamo l’esito favorevole all’attore, tale conclusione non essendo motivabile nell’ordinamento italiano, anno Domini 2012. Impresa impossibile: in qualche misura il diritto è anche geometria; e supponendo che la corvée sia disegnare nello spazio euclideo un triangolo i cui angoli non siano 180°, vengono fuori faticosi sgorbi.
La Corte doveva scovare nella Carta un equivalente dell’art. 4 Statuto albertino («la persona del Re è sacra e inviolabile»). Solo così il Presidente non sarebbe mai ascoltabile, fuori della cerchia in cui parla, salvo che vi consenta graziosamente: ad esempio, parlava in una cabina telefonica e occhi lesti decifrano i segni labiali; data l’inviolabilità, il voyeur è testimone ammissibile o no, secondo l’augusto beneplacito. Idem quando l’incauto conversatore s’infili in linee soggette a controllo telefonico. Trovare la norma ossia cavarla dal testo, perché vigono solo fonti scritte, era compito erculeo: non esistono testi adoperabili a tale fine; e l’arte ermeneutica ha delle regole.
Dal fatto che il Presidente non risponda penalmente degli atti d’ufficio (art. 90 Cost.) non è seriamente arguibile il tabù su emissioni verbali private (in un film Clint Eastwood, ladro, ascolta e guarda, nascosto dietro una tenda, mentre the President in preda all’alcol collutta con un’amica e la cosa finisce male); né possiamo arguirlo dalle funzioni enumerate nell’art. 87; chi lo tenti cade nel vaniloquio. M’ero permessa una citazione dalle avventure d’Alice, settimo capitolo, dove Cappellaio, Lepre, Talpa spendono parole matte; e notavo come, dedotta l’«inviolabilità», tutto diventi asseribile, anche che l’Unto sia profeta, regoli i cicli naturali, guarisca le scrofole, et cetera.
La Carta è muta in proposito e i lavori preparatori non lasciano dubbi sul disegno dei costituenti: avevano in mente una figura laica, senza cascami d’ancien régime; gli negano l’immunità processuale che, senza fondamento, l’attuale capo dello Stato rivendica. Le prerogative esistono in quanto una norma le definisca. Non hanno più corso i misteri covati dalla ragion di Stato (voleva imbrigliarla già l’autore dell’omonimo trattato cinquecentesco, Giovanni Botero) ed è manovra reazionaria ogni tentativo d’esumarli.
I deliberanti devono essersene resi conto, perché muovono un passo laterale puntando sull’art. 271 c. p. p. Infelice mossa del cavallo. L’art. 271 contempla due casi diversi dal nostro: intercettazioni illegalmente eseguite (comma 1); e quando parli un obbligato al segreto (c. 2). Qui nessuna norma codificata vietava l’ascolto, né esistevano segreti (il conversante avrebbe guadagnato simpatia politica svelando i contenuti, anziché nasconderli strenuamente, con qualche gesto eccepibile: ad esempio, attribuendosi inesistenti poteri da organo censorio d’atti giudiziari). L’art. 271 non detta divieti, li presuppone, stabiliti altrove, e l’unica fonte possibile è la Carta, nella quale non ne esiste nemmeno l’ombra .Pour cause
I comunicanti tacciono sull’art. 7, l. 5 giugno 1989 n. 219, invocato dal Quirinale: «I provvedimenti che dispongono intercettazioni» sono ammessi solo nei confronti del sospeso dalla carica; non è norma applicabile qui (non era lui l’intercettato, né pendono accuse votate dal Parlamento in seduta comune). Vale il regime delle voci fortuitamente colte, non equiparabili all’intercettazione mirata (le distingue l’art. 6 l. 20 giugno 2003 n. 140 a proposito dei parlamentari).
In cauda venenum, scrivevano vecchi avvocati latinisti. Meno forbito, il comunicato esige l’immediata distruzione dei materiali sacrileghi (era «sacra» la persona regale nello Statuto al quale regrediamo): la ordini il giudice, e sia eseguita clandestinamente; nessun estraneo deve vedere o udire, meno che mai gl’interessati al processo. Non stupisce sentirlo dal soi-disantinviolabile, ma sono parole della Corte chiamata a custodire le norme fondamentali, quasi avesse dimenticato gli artt. 24 («la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado») e 111 Cost., dove il contraddittorio figura due volte, requisito immanente. L’art. 271, c. 3, lo presuppone: va stabilito se i reperti siano fruibili; mandarli in cenere al buio è fosco stile inquisitorio. Quel giudice non ha in corpo lo Spirito santo: forse sbaglia definendo irrilevante qualcosa d’utile; o sta affossando materiale costituente corpo del reato (art. 271, c. 3, dov’è ovvio il rinvio all’art. 269, c. 2, sull’udienza camerale, art. 127).
Supponiamo che N stia scontando l’ergastolo, e parole del presidente nel dialogo con un intercettato forniscano materia alla revisione della condanna; o l’inverso, che costituiscano notitia criminis: va tutto al diavolo in rigorosa clandestinità? Abbiamo sotto gli occhi una decisione esemplare, in senso negativo, rincresce dirlo: vi spirano nostalgie del segreto; sottintende la mistica delle prerogative; tira in ballo un inesistente limite istruttorio (art. 271 c. p. p.); e incredibile, viola norme costituzionali sul contraddittorio.
Ormai sa d’ipocrisia aspettare i motivi: quando anche li compili un mago dialettico, il quadro resta; quel comunicato chiude la Corte in gabbia. Fossero in ballo interessi disponibili, diremmo: ogni tanto capita; non era buona giornata. Stavolta l’evento pesa in sede culturale e politica. Era l’ultimo accidente augurabile all’Italia devastata dai quasi vent’anni d’egemonia berlusconiana.
Inno, è obbligatorio impararlo a scuola
Senato dà ok: 17 marzo giornata Unità d’Italia
ROMA - D’ora in poi sarà più difficile notare sportivi che rimangono in silenzio o persone che inseriscono parole a caso mentre suona l’inno di Mameli: impararlo a scuola è obbligatorio. Il Senato, infatti, tra le accese proteste della Lega, ha dato il via libera definitivo al ddl che prevede l’insegnamento dell’inno tra i banchi. La norma, che è passata con 208 voti a favore, 14 contrari e 2 astenuti, istituisce inoltre il 17 marzo giornata nazionale dell’Unità d’Italia, della Costituzione, dell’inno nazionale e della bandiera.
In base al testo approvato oggi, a partire dal prossimo anno scolastico, nelle scuole di ogni ordine e grado saranno organizzati "percorsi didattici, iniziative e incontri celebrativi finalizzati ad informare e a suscitare riflessione sugli eventi e sul significato del risorgimento nonché sulle vicende che hanno condotto all’unità nazionale, alla scelta dell’inno di Mameli, alla bandiera nazionale e all’approvazione della Costituzione, anche alla luce dell’evoluzione della storia europea".
Lo scopo che si prefigge la legge con l’istituzione di questa nuova festività (che non avrà comunque effetti civili, non sarà insomma un giorno di vacanza o di ferie) è quello di "ricordare e promuovere" nella giornata del 17 marzo, data della proclamazione nel 1861 a Torino dell’unità d’Italia, "i valori di cittadinanza, fondamento di una positiva convivenza civile, nonché di riaffermare e consolidare l’identità nazionale attraverso il ricordo e la memoria civica".
Le reazioni. Accese le proteste della Lega prima dell’approvazione del testo. Alcuni senatori hanno lasciato l’Aula prima del voto. "Senatori del Parlamento italiano, magari ex ministri, non possono affermare di non sentirsi italiani. È vergognoso", ha detto il senatore Udc Achille Serra intervenendo in Aula. Attribuisce ’grande valore storico’ alla decisione presa dal Senato il presidente del gruppo Pdl al Senato, Maurizio Gasparri: "Da oggi - ha detto - il 17 marzo diventa il giorno di tutti gli italiani che, attraverso una memoria finalmente condivisa, avranno la possibilità di riaffermare i valori dell’identità nazionale". Per il coordinatore nazionale del Pdl, Ignazio La Russa, l’inno è parte integrante della nostra storia: "È importante che proprio a scuola, culla dell’insegnamento e della cultura, i giovani possano imparare non solo il testo, ma ciò che esso rappresenta per tutti gli italiani". "Con questo ddl - ha detto il senatore del Pd Antonio Rusconi - alle scuole è affidato un compito importante: recuperare e rinnovare le radici di una Nazione, dei sacrifici compiuti e di quelli che si è ancora disposti a compiere insieme’’.
«Mafia sopravvissuta grazie alla trattativa fatta con lo Stato»
I pm: 20 anni di amnesie istituzionali
di Giovanni Bianconi (Corriere, 6.11.2012)
PALERMO - C’entra la caduta del Muro di Berlino, «la "grande madre" di una catena di eventi». C’entrano «l’eccesso di tassazione e l’utilizzazione distorta della spesa pubblica», che provocò la «rivolta della borghesia commerciale e della piccola imprenditoria» al Nord. C’entrano le inchieste di Manipulite e persino Licio Gelli, che con la sua «inusuale collaborazione giudiziaria» contribuì alla «eliminazione politica» del ministro Martelli, «percepito come un ostacolo».
Fu anche a causa di questa concatenazione di fatti che prese forma la «scellerata trattiva» tra lo Stato e la mafia al tempo delle stragi, divisa in tre distinte fasi: cominciata nel ’92 all’indomani della sentenza definitiva del maxiprocesso a Cosa nostra, quando governavano ancora Andreotti e la Dc; proseguita nel 1993 durante il governo «tecnico» presieduto da Carlo Azeglio Ciampi; culminata nel ’94 con l’esecutivo guidato da Silvio Berlusconi, quando si realizzò la «definitiva saldatura del nuovo patto di coesistenza Stato-mafia, senza il quale Cosa Nostra non avrebbe potuto sopravvivere e traghettare dalla Prima alla Seconda Repubblica».
La sintesi dell’indagine della Procura di Palermo è contenuta in una memoria di 22 pagine inviata ieri al giudice dell’udienza preliminare Piergiorgio Morosini, l’ultimo atto d’accusa sottoscritto dal procuratore aggiunto Ingroia prima di partire per il Guatemala. Insieme alla sua firma ci sono quelle dei quattro pubblici ministeri che restano a sostenere l’accusa: Lia Sava, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Il documento riassume il processo e chiarisce i singoli capi d’imputazione per i dodici imputati di cui è stato chiesto il rinvio a giudizio (più qualche indagato nell’inchiesta stralcio). E che conferma che restano vaste zone d’ombra, dovute ai «tanti, troppi, depistaggi e reticenze, spesso di fonte istituzionale».
Scrivono i pm: «Questo ufficio è consapevole che non si è del tutto rimossa quella forma di grave amnesia collettiva della maggior parte dei responsabili politico-istituzionali dell’epoca, durata vent’anni, che avrebbe dovuto arrestarsi, se non di fronte alla drammaticità dei fatti del biennio terribile ’92-93, quanto meno di fronte alle risultanze che confermavano l’esistenza di una trattativa ed il connesso, seppur parziale, cedimento dello Stato».
Dopo il delitto Lima (12 marzo ’92), «prima esecuzione della minaccia rivolta verso il governo e in particolare il presidente del Consiglio Giulio Andreotti», con le stragi il ricatto si estende dai singoli uomini politici alle istituzioni in generale. «È il momento in cui irrompe sulla scena una male intesa, e perciò mai dichiarata, Ragion di Stato che fornisce apparente legittimazione alla trattativa e coinvolge sempre più ampi e superiori livelli istituzionali», accusano i pm. Che rivendicano il lavoro svolto citando una frase dell’attuale presidente del Consiglio Mario Monti, pronunciata nel ventennale dell’eccidio di Capaci: «L’unica vera Ragione di Stato è quella verità che questo Ufficio non ha mai smesso, e mai smetterà, di cercare».
Gli imputati si dividono in due grandi gruppi. Da un lato i mafiosi (Riina, Provenzano, Bagarella, Brusca e il «postino» Nino Cinà), che dopo l’omicidio Lima recapitarono il famoso «papello» con le richieste per interrompere le stragi. I loro «minacciosi messaggi» proseguirono con le bombe del ’93, finché nel ’94 «fecero recapitare al governo presieduto dall’on. Berlusconi l’ultimo messaggio intimidatorio prima della stipula definitiva del patto politico-mafioso». Così «la lunga e travagliata trattativa trovò finalmente il suo approdo nelle garanzie assicurate dal duo Dell’Utri-Berlusconi».
Il fondatore di Forza Italia, così come gli altri capi di governo, non risponde di alcun reato; semmai è considerato parte lesa, in quanto vittima del ricatto. Al contrario, i sospetti intermediari istituzionali (i parlamentari Mannino e Dell’Utri, e i tre ex carabinieri del Ros Subranni, Mori e De Donno) «sono tutti accusati di aver fornito un consapevole contribuito alla realizzazione della minaccia» per aver svolto «il ruolo di consapevoli mediatori fra i mafiosi e la parte sottoposta a minaccia, quasi fossero gli intermediari di un’estorsione. Con l’aggravante che il soggetto "estorto" è lo Stato e l’oggetto dell’estorsione è il condizionamento dell’esercizio dei pubblici poteri». Di qui l’imputazione, per loro come per i boss, di «violenza o minaccia a un Corpo politico».
All’appello mancano almeno due imputati che nel frattempo sono morti: Vincenzo Parisi e Francesco Di Maggio, all’epoca capo della polizia e vice direttore generale delle carceri, «che agendo entrambi in stretto rapporto con l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, contribuirono al deprecabile cedimento sul tema del 41 bis». Il riferimento è alla mancata proroga del trattamento del «carcere duro» per oltre trecento detenuti, tra i quali alcuni mafiosi. Secondo la Procura l’impulso arrivò proprio da Di Maggio «uomo fidato dei Servizi di sicurezza e da sempre legato al Ros dei carabinieri, con l’avallo che gli derivava anche dai rapporti con il capo dello Stato Scalfaro, a sua volta influenzato da Parisi». L’ex capo della polizia e Mori vengono dipinti come «gli uomini-cerniera che divennero uomini-artefici della trattativa, decisivi nel garantire l’adempimento degli accordi presi».
Sempre nella ricostruzione della Procura Scalfaro è considerato il regista di altri passaggi-chiave: dall’avvicendamento tra Scotti e Mancino al Viminale a quello tra Martelli e Conso alla Giustizia, fino al cambio della guardia al vertice dei penitenziari, tra Nicolò Amato e il duo Capriotti-Di Maggio. Su Conso e Mancino, accusano i pm, «si è acquisita la prova di una grave e consapevole reticenza». Il primo sulla sua nomina a ministro dell’Interno e sulla consapevolezza dei contatti tra i carabinieri e Vito Ciancimino; il secondo sulla decisione di non prorogare alcuni decreti «41 bis» nell’autunno 1993.
Sette domande di uno scrittore
al presidente della Repubblica*
Signor presidente della Repubblica,
ho sentito su Rai3, al telegiornale della sera, che i misteri delle stragi italiane stanno dentro i dossier coperti dal segreto di Stato.
Dunque le rivolgo una serie di domande come cittadino e come scrittore, nella speranza che lei dia, come dovrebbe, delle convincenti risposte.
1) Perché non rimuove il segreto di Stato
sulla strage di Piazza Fontana, stazione di
Bologna, Brescia, Italicus, stragi mafiose di
Milano e Firenze?
2) Perché invece di polemizzare coi giornali,
i magistrati e singoli esponenti politici
che l’accusano di reticenza sulle trattative
mafia-stato non va a reti unificate in televisione
e dice come stanno le cose?
3) Perché non esibisce, se ce ne sono, i documenti?
4) Perché non rivela i nomi di quanti a vari
livelli ne sono stati attori o comprimari?
5) Perché non scioglie d’autorità i corpi di
“sicurezza” visto che invece di assicurare la
sicurezza depistano, partecipano ai crimini,
fanno sparire agende di magistrati assassinati,
complottano contro la Repubblica di
cui lei dovrebbe essere garante?
6) Perché non richiama in patria i soldati italiani
impegnati in guerre mai dichiarate, in
aperto spregio dell’articolo 52 della Costituzione?
7) Perché non ha indetto nuove elezioni ed
ha invece operato un golpe bianco, un golpe
del Presidente, obbligando il governo legittimo
di Berlusconi a dimettersi senza avere
avuto la sfiducia del Parlamento, come prescrive
la Costituzione di cui lei dovrebbe essere
garante?
Davvero lei crede che il suo settennato sia privo di ombre alla luce di tutto ciò, e che lei possa ritirarsi a fine mandato con l’onore di un vero patriota?
Chi le sta formulando queste domande non è un politico di parte o un anti-patriota, anzi, ma non è nemmeno uno sprovveduto né uno dei tanti vili uomini di cultura che non osano farle le domande a cui dovrebbe rispondere.
Sono uno scrittore, e come tale analizzo, elaboro e rifletto. Se non è in grado di rispondere a queste domande, noi siamo legittimati a non nutrire alcuna fiducia in lei e verso lo stato che lei rappresenta.
Angelo Gaccione, scrittore, Milano
* ODISSEA, Anno X - N° 2 - Novembre - Dicembre 2012
Intercettazioni, la reazione del Quirinale
"Giorgio Napolitano non è ricattabile"
Dopo la pubblicazione, su Panorama, delle conversazioni private tra il Presidente e Nicola Mancino, arriva la nota ufficiale della Presidenza della Repubblica: "Il Capo dello Stato non ha nulla da nascondere ma doveri costituzionali a cui tener fede" *
ROMA - "La pretesa, da qualsiasi parte provenga, di poter ricattare il Capo dello Stato è risibile". E’ quanto si legge in una nota del Quirinale dopo l’articolo pubblicato oggi su Panorama 1 e relativo alle telefonate intercorse tra il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano e Nicola Mancino. Ancora, nella nota del Colle: "A chiunque abbia a cuore la difesa del corretto svolgimento della vita democratica spetta respingere ogni torbida manovra destabilizzante". Inoltre, Napolitano "non ha nulla da nascondere e terrà fede ai suoi doveri costituzionali". E’ in corso "una campagna di insinuazioni e di sospetti" e alle "tante manipolazioni si aggiungono i falsi".
Questo il testo della nota del Colle:
"La ’campagna di insinuazioni e sospetti’ nei confronti del Presidente della Repubblica ha raggiunto un nuovo apice con il clamoroso tentativo di alcuni periodici e quotidiani di spacciare come veritiere alcune presunte ricostruzioni delle conversazioni intercettate tra il Capo dello Stato e il senatore Mancino. Alle tante manipolazioni si aggiungono, così, autentici falsi. Il Presidente, che non ha nulla da nascondere ma valori di libertà e regole di garanzia da far valere, ha chiesto alla Corte costituzionale di pronunciarsi in termini di principio sul tema di possibili intercettazioni dirette o indirette di suoi colloqui telefonici, e ne attende serenamente la pronuncia. Quel che sta avvenendo, del resto, conferma l’assoluta obbiettività e correttezza della scelta compiuta dal Presidente della Repubblica di ricorrere alla Corte costituzionale a tutela non della sua persona ma delle prerogative proprie dell’istituzione. Risibile perciò è la pretesa, da qualsiasi parte provenga, di poter "ricattare" il Capo dello Stato. Resta ferma la determinazione del Presidente Napolitano di tener fede ai suoi doveri costituzionali. A chiunque abbia a cuore la difesa del corretto svolgimento della vita democratica spetta respingere ogni torbida manovra destabilizzante".
Il ricorso alla Consulta. Il 19 settembre la Corte Costituzionale valuterà se il ricorso è ammissibile. L’atto è stato depositato il 30 luglio. L’istanza alla Consulta è "di trattazione quanto più possibile sollecita", vista "l’estrema delicatezza e la rilevanza delle questioni". Secondo l’Avvocatura dello Stato, Napolitano non poteva essere intercettato e l’averlo fatto e non aver distrutto i nastri costituisce "un grave ’vulnus’ alle prerogative" del Capo dello Stato, né i pm potevano valutare la rilevanza delle conversazioni e nei loro confronti ci sono "precisi elementi oggettivi di prova del non corretto uso del potere giurisdizionale". Ancora nel ricorso: "L’irresponsabilità del Presidente della Repubblica non è solo una irresponsabilità giuridica per le conseguenze penali, amministrative e civili eventualmente derivanti dagli atti tipici compiuti nell’esercizio delle proprie funzioni, ma anche una irresponsabilità politica". Da qui discende "l’assoluta riservatezza di tutte le attività del Presidente della Repubblica che sono propedeutiche" all’esercizio della sua funzione: "si tratta, dunque, di una immunità sostanziale e permanente".
* la Repubblica, 30 agosto 2012
Chi indebolisce le istituzioni
di Paolo Flores d’Arcais (il Fatto, 18.07.2012)
Domani si commemorano a Palermo i venti anni dall’eccidio di via D’Amelio, la strage in cui vengono trucidati Paolo Borsellino e gli uomini e donne della sua scorta. La strage con cui la mafia si libera di un uomo delle istituzioni, di un servitore integerrimo dello Stato che perciò si oppone a ogni trattativa tra Stato e mafia, trattativa che avvilisce lo Stato davanti a un anti-Stato che si farà ancora più tracotante.
Con che coscienza, domani, si potrà dire nei discorsi ufficiali che lo Stato vuole continuare nell’impegno contro la mafia con l’intransigenza che fu di Falcone e Borsellino? Con che coscienza si potrà domani riaffermare che lo Stato vuole davvero tutta la verità su quella trattativa ormai accertata, ed evidentemente indecente, se altissimi funzionari coinvolti continuano a negarla, e in ogni accenno di telegiornale viene pudicamente derubricata a “presunta”?
Qui vogliamo prescindere da ogni polemica sulla decisione del Quirinale di aprire un conflitto contro la Procura di Palermo presso la Corte costituzionale. Illustri giuristi hanno già spiegato perché sia improponibile, e altri che non vogliono rinunciare alla logica e al diritto lo faranno nei prossimi giorni. Ma assumiamo come ipotetica del terzo tipo che la mossa di Napolitano sia giuridicamente difendibile, che cosa indebolirebbe di più la credibilità dell’istituzione più alta, la trasparenza su quanto è intercorso tra Mancino e il Presidente o la pervicace volontà che tutto resti piombato nel segreto? Lo domandiamo a Michele Ainis, Carlo Galli, Stefano Folli e Ugo Di Siervo, che sui quattro più diffusi quotidiani del paese (Corriere della Sera, Repubblica, Sole 24 Ore, Stampa) affermavano ieri all’unisono che il problema cruciale è impedire che il Colle sia indebolito come “punto di equilibrio del sistema”.
Benissimo. Ma è un fatto che Mancino ha parlato almeno otto volte col consigliere giuridico di Napolitano, il quale nelle registrazioni afferma costantemente di essersi consultato col Presidente nell’attivarsi secondo i desiderata del Mancino stesso. D’Ambrosio millantava e il Presidente era all’oscuro di tutto? O, messo al corrente, ha dato disposizioni che a un molesto Mancino venisse cortesemente messa giù la cornetta? E proprio questo magari si evincerebbe dalle due telefonate dirette tra Mancino e Napolitano? Non sarebbe meglio, proprio per non indebolire il Colle, una parola chiara del Presidente che ribadisca come, esattamente nella sua funzione di “punto di equilibrio del sistema”, ogni suo discorso con Mancino era ineccepibile, a prova di divulgazione?
Le istituzioni e le persone
di Michele Ainis (Corriere della Sera, 17.07.2012)
Un conflitto di attribuzioni non è una guerra nucleare. Serve a delimitare il perimetro dei poteri dello Stato, a restituire chiarezza sulle loro competenze. E la democrazia non deve aver paura dei conflitti: meglio portarli allo scoperto, che nascondere la polvere sotto i tappeti. Sono semmai le dittature a governare distribuendo sedativi.
Eppure c’è un che d’eccezionale nel contenzioso aperto da Napolitano contro la Procura di Palermo. Perché esiste un solo precedente, quello innescato da Ciampi nel 2005 circa il potere di grazia. Perché stavolta il capo dello Stato - a differenza del suo predecessore - rischia d’incassare il verdetto della Consulta mentre è ancora in carica, sicché sta mettendo in gioco tutto il suo prestigio. Perché infine il conflitto investe il ruolo stesso della presidenza della Repubblica, la sua posizione costituzionale.
Domanda: ma è possibile intercettare il presidente? La risposta è iscritta nella legge n. 219 del 1989: sì, ma a tre condizioni. Quando nei suoi confronti il Parlamento apra l’impeachment per alto tradimento o per attentato alla Costituzione; quando in seguito a tale procedura la Consulta ne disponga la sospensione dall’ufficio; quando intervenga un’autorizzazione espressa dal Comitato parlamentare per i giudizi d’accusa. Quindi non è vero che il presidente sia «inviolabile», come il re durante lo Statuto albertino. Però nessuna misura giudiziaria può disporsi finché lui rimane in carica, e senza che lo decida il Parlamento.
Dinanzi a questo quadro normativo la Procura di Palermo ha scavato a sua volta una triplice trincea.
Primo: nessuna intercettazione diretta sull’utenza di Napolitano, semmai un ascolto casuale mentre veniva intercettato l’ex ministro Mancino.
Secondo: le conversazioni telefoniche del presidente sono comunque penalmente irrilevanti.
Terzo: i nastri registrati non sono mai stati distrutti perché possono servire nei confronti di Mancino, e perché in ogni caso la loro distruzione passa attraverso l’udienza stralcio regolata dal codice di rito.
Deciderà, com’è giusto, la Consulta. Ma usando il coltello della logica, è difficile accettare che sia un giudice a esprimersi sulla rilevanza stessa dell’intercettazione. Perché delle due l’una: o quest’ultima rivela che il presidente ha commesso gli unici due reati dei quali è responsabile, per esempio vendendo segreti di Stato a una potenza straniera; e allora la Procura di Palermo avrebbe dovuto sporgere denuncia ai presidenti delle Camere, cui spetta ogni valutazione.
Oppure no, ma allora i nastri vanno subito distrutti, senza farli ascoltare alle parti processuali. Come avviene, peraltro, per ogni cittadino, se intercettato mentre parla con il proprio difensore (articoli 103 e 271 del codice di procedura penale). E come stabilì il Senato nel marzo 1997, quando Scalfaro venne a sua volta intercettato. In quell’occasione anche Leopoldo Elia, costituzionalista insigne, dichiarò illegittime le intercettazioni telefoniche del capo dello Stato, sia dirette che indirette. Perché ne va dell’istituzione, non della persona. Le persone passano, le istituzioni restano.
La verità e le regole
di Carlo Galli (la Repubblica, 17.07.2012)
IL CONFLITTO fra i poteri dello Stato sollevato dalla Presidenza della Repubblica contro la Procura di Palermo, e portato davanti alla Corte costituzionale, ha indubbiamente gravissime implicazioni e altissime potenzialità di crisi istituzionale. Che vanno chiarite al più presto e, se possibile, raffreddate.
Osservato che non erano né irrilevanti né infondate le perplessità sollevate a suo tempo da Eugenio Scalfari sulla vicenda delle intercettazioni indirette al capo dello Stato, e che non del tutto chiare erano state le risposte dei magistrati di Palermo, si devono primariamente operare distinzioni.
La prima delle quali è tra la persona di Napolitano e la materia processuale nel cui ambito le intercettazioni sono avvenute - che è la complessa indagine sulla trattativa Stato-mafia del 1992-1993. La verità pubblica e ufficiale su quella trattativa - se c’è stata, per ordine di chi, in quali termini - deve essere accertata attraverso la via giudiziaria: è, questo, un dovere istituzionale della magistratura, dalla quale l’opinione pubblica democratica si attende comportamenti ineccepibili e radicali, che facciano luce piena su un passaggio oscuro, e cruciale, della storia della repubblica. La verità è interesse di tutti gli onesti; anzi, è loro diritto.
Ma nessuno può pensare che quella verità stia nelle risposte di Napolitano a Mancino, che gli telefonava. Nel merito, le parole di Napolitano non possono dire nulla di rilevante su quella vicenda. E chi chiede che vengano stralciate e distrutte non sta coprendo reati, o ombre, o opacità. Sta invece chiedendo che vengano rispettate le prerogative del capo dello Stato, che in circostanze come queste non può essere intercettato neppure occasionalmente e incidentalmente. Come appunto sostiene Napolitano, preoccupato non per sé ma per la carica istituzionale che ricopre, che vuole consegnare al successore priva di ogni lesione nei poteri e nei diritti costituzionalmente sanciti.
Poiché la questione sotto il profilo giuridico è se la magistratura sia stata corretta o abbia ecceduto nei suoi poteri, se quelle intercettazioni occasionali debbano essere distrutte subito o solo dopo una valutazione del gip, se siano irrilevanti soltanto per le risposte di Napolitano o nella loro interezza (cioè anche nelle parti di Mancino), e poiché si tratta di una questione difficile, è giusto lasciare alla Corte costituzionale il compito di decidere.
Ma - seconda distinzione - la sostanza politica della vicenda non è qui. È, invece, nei sospetti che si vogliono avanzare sul Presidente, per indebolirne l’immagine e il ruolo politico; per travolgere, con un allarmismo qualunquistico, quel che resta della legittimità repubblicana, e per confezionare un’immagine di Paese allo sbando. Sarebbe, questa, l’ultima autolesionistica risposta delle élite ciniche e riluttanti (il cinismo ha infatti molte facce, anche quella dell’oltranzistico giustizialismo) al dovere del momento: che è di salvare l’Italia nella dignità, non di farla affondare in una universale vergogna.
Una terza distinzione è poi quella fra illecito e inopportuno. Mancino, chiamato a testimoniare in tribunale sul suo operato di allora ministro dell’Interno, e quindi comprensibilmente infastidito, non ha commesso un illecito a cercare contatti col Quirinale, e a chiedere consigli. Certo, si è trattato di comportamenti inopportuni e imbarazzanti; non censurabili, ma espressione di abitudini tipiche più dei potenti che dei comuni cittadini. In modo speculare, di fronte alla ricerca di quei contatti, non si può non vedere che da parte di qualche collaboratore del Presidente ci siano stati comportamenti altrettanto impropri e imprudenti.
Per ultima, la distinzione fra le prerogative del capo dello Stato e il normale diritto-dovere di cronaca. Inviolabili tanto le une quanto l’altro; e neppure confliggenti. Infatti, una democrazia costituzionale vive di regole, se queste sono sostanza etica e non superficiali formalismi giuridici: la violazione di uno status - quello del presidente della Repubblica -, quando è solennemente sancito dalla Carta, non è un atto di libertà, ma uno sgarro istituzionale e un gesto oggettivamente sfascista; allo stesso modo, utilizzare pretestuosamente la vicenda delle intercettazioni del Quirinale come metro per valutare altre intercettazioni, e per varare una legislazione proibizionistica - o comunque lesiva della libertà d’informazione e del diritto dei cittadini di essere informati - è un proposito liberticida che, mettendo il bavaglio ai mezzi di comunicazione, nasconderebbe agli italiani notizie sostanziali e determinanti sulla loro condizione civile e politica, sullo stato della loro democrazia. Entrambi i diritti - quello del capo dello Stato e quello degli italiani - vanno conservati intatti, per conservare insieme a essi la sostanza della democrazia, cioè i diritti di tutti.
Mai come in questo caso la distinzione - cioè, secondo l’etimologia, la critica - è esercizio virtuoso, di giudizio, di prudenza e di verità. Come è invece esercizio vizioso quello di tutti coloro che fanno di ogni erba un fascio e, sotto il pretesto dell’interesse alla verità, la seppelliscono così in una notte in cui tutte le vacche sono nere.
Palermo non ci sta: “Regole rispettate”
I procuratori Ingroia e Messineo: ci accusano di aver violato la legge, non era mai successo
di Marco Lillo (il Fatto, 17.07.2012)
Proprio mentre Salvatore e Rita Borsellino, nel consiglio comunale di Palermo, presentavano assieme al sindaco Leoluca Orlando le celebrazioni del ventennale della strage di via D’Amelio, con un tempismo infelice il Presidente della Repubblica decideva di portare sul banco degli imputati i magistrati che stanno indagando sui moventi della strage e la trattativa Stato-mafia. A quei magistrati Giorgio Napolitano contesta davanti alla Corte Costituzionale un comportamento gravissimo: l’invasione di campo ai danni del Capo dello Stato nel-l’inchiesta sulla trattativa.
MAI IL QUIRINALE era sembrato più lontano da Palermo di ieri. Mentre la famiglia Borsellino presentava un programma di commemorazioni che è tutto un abbraccio ai magistrati “da onorare e proteggere mentre sono vivi”, il Quirinale rendeva pubblico un decreto pieno di “premesso che” nel quale si contesta formalmente un comportamento “vietato” dalla legge: avere osato ascoltare la voce del Capo dello Stato mentre parlava con il suo amico intercettato, Nicola Mancino. Il decreto della Presidenza della Repubblica nel quale si cita addirittura Luigi Einaudi come ispiratore di un atto formale che potrebbe avere conseguenze disciplinari e persino penali contro quei magistrati che si sono impegnati per anni nella ricerca della verità sugli anni più bui della Repubblica, è stata accolta come una fucilata alla schiena, un fuoco amico inatteso e ancora più pericoloso perché non arriva dalle retrovie, ma dall’alto. Dal Colle più alto.
Dopo un iniziale sbandamento, e una serie di riunioni concitate con i suoi sostituti, il Procuratore capo Francesco Messineo ha incontrato ieri la stampa per gettare acqua sul fuoco: “Prendiamo atto della posizione della Presidenza della Repubblica”, ha detto il procuratore, “ma a mio parere tutte le norme che sono poste a tutela del presidente della Repubblica sono state rispettate dalla Procura di Palermo”.
Messineo è stretto tra l’incudine del Quirinale e il martello della rivelazione di segreti d’indagine. Messineo non può ammettere l’esistenza delle intercettazioni telefoniche Mancino-Napolitano che invece spavaldamente il Quirinale afferma all’indicativo nel suo comunicato. Gli audio delle telefonate tra il presidente e il preoccupatissimo ex ministro dell’Interno non sono infatti ancora stati depositati e sono segreti perché non fanno parte dell’inchiesta chiusa, quella che riguarda Mancino, Mannino, Dell’Utri e gli altri. Bensì sono contenuti nel fascicolo dell’indagine “madre”, di cui quella appena chiusa è un ampio stralcio.
PER QUESTA RAGIONE Messineo, alla richiesta del Quirinale di notizie sull’esistenza di quelle conversazioni, non ha potuto fare altro che rispondere “ove esistessero sarebbero irrilevanti”. Non poteva scrivere di più perché avrebbe commesso una violazione del segreto, su istigazione del presidente della Repubblica e del Csm, un assurdo politico prima ancora che giuridico. Ecco perché ieri Messineo con i cronisti era costretto ai salti mortali: “Ove esistessero queste intercettazioni sarebbero occasionali e pertanto non sono state preordinate nei confronti della personalità coperta da immunità. Solo in quest’ultimo caso sarebbero certamente illegali”.
Messineo si dice sereno e quasi curioso di vedere come si risolverà il dibattito dottrinale. La questione è molto delicata. In Procura, appena spariscono i taccuini, la delusione e la rabbia si taglia col coltello: il capo dello Stato li accusa di aver violato la legge. E’ la prima volta nella storia della Procura di Palermo.
Quando Messineo comincia a spiegare che si tratta di una materia spinosa, quasi senza precedenti, il procuratore aggiunto Antonio Ingroia, presente nella stanza e silenzioso fino a quel momento, fa notare che “un precedente c’è: nel 1997 uscì sui giornali un’intercettazione dell’allora presidente Oscar Luigi Scalfaro che, come in questo caso, era stata intercettata su un’altra utenza. E allora fu trascritta e depositata”.
Ed è proprio questo il pomo della discordia: il caso Scalfaro. Anche se non lo cita espressamente, è chiaro che il Quirinale invoca il medesimo precedente ma per sostenere la tesi inversa: l’illegittimità dell’intercettazione telefonica Mancino-Napolitano. L’allora capo dello Stato nel novembre del 1993 fu intercettato dalla Procura di Milano, allora diretta da Francesco Saverio Borrelli, mentre parlava con l’allora presidente della Banca Popolare di Novara, Carlo Piantanida, intercettato dalla Guardia di Finanza. Quattro anni dopo, quando la trascrizione fu pubblicata da Il Giornale dei Berlusconi, scoppiò un putiferio politico.
L’ex presidente Francesco Cossiga, spalleggiato da alcuni esponenti del centrosinistra come Cesare Salvi, sostenne che il presidente non può mai essere intercettato nemmeno in via indiretta e il ministro della Giustizia di allora, Giovanni Maria Flick, poi nominato nel 2000 da Ciampi giudice costituzionale e dal 2008 al 2009 promosso presidente della Corte, disse in Parlamento: “I magistrati non hanno violato alcuna norma, anche se la procedura seguita non appare in linea con i principi della Costituzione a tutela del Presidente della Repubblica”.
Flick, con oratoria un po’ cerchiobottista, da un lato non ravvisò nella condotta dei magistrati “aspetti di macroscopica inosservanza delle disposizioni di legge o di loro abnorme interpretazione”. Dall’altro sottolineò però che esiste nel nostro ordinamento un “assoluto divieto di intercettazione telefonica” nei confronti del presidente della Repubblica a tutela delle sue prerogative. Tuttavia aggiunse Flick, oggi presidente del San Raffaele questo principio “è frutto di un’interpretazione sistematica e non trova riferimenti letterali nella normativa codicistica”. Dopo quella polemica politica però nessuno in Parlamento fece nulla per cambiare la legge ed è con quelle norme che la Procura di Palermo ha ritenuto di potere intercettare le telefonate di Mancino in cui si sente la voce di Napolitano.
A taccuini chiusi, in Procura si fa notare che “non esiste alcuna norma che preveda la procedura di distruzione invocata dal decreto del presidente, cioé su richiesta del pm e con l’accordo del gip, ma senza sentire le parti”.
Lo dimostra il fatto che il Presidente - fanno notare fonti vicine alla Procura non segue l’interpretazione estrema di Eugenio Scalfari. Secondo il fondatore di Repubblica, appena udita la voce del Presidente, la polizia giudiziaria avrebbe dovuto addirittura interrompere la registrazione. Per Napolitano invece l’audio poteva essere registrato, ma non trascritto e andava immediatamente distrutto con decreto del gip. Anche se la legge non lo prevede: purché nessuno lo ascolti prima.
Il tradimento degli intellettuali
di Paolo Flores d’Arcais (il Fatto, 24.06.2012)
Il Presidente della Repubblica è il custode della Costituzione o il garante dei partiti? Rappresenta la Nazione, cioè tutti i cittadini, o le nomenklature politiche e altri privilegiati di establishment? L’inquilino del Quirinale e i maggiorenti della Casta sembrano oggi avvinti in una sinergia di reciproco sostegno, a preventiva de-legittimazione e anatema per qualsiasi critica che possa mettere in discussione l’uno o gli altri.
Il Capo dello Stato aveva scelto la data del 25 aprile per un attacco in piena regola al movimento di Beppe Grillo, tacciato di qualunquismo. Il Presidente di tutti gli italiani può attaccare una forza politica, a meno che questa non metta a repentaglio la Costituzione repubblicana e il suo fondamento antifascista? Non avendo avuto nulla da ridire né sul partito di Berlusconi né sulla Lega, Napolitano si è inibito il diritto, istituzionale, politico e innanzitutto morale, di criticare chicchessia.
I partiti si sono schierati perinde ac cadaver in sua difesa, quando ha ostracizzato la “campagna di insinuazioni e sospetti costruita sul nulla”, cioè la pubblicazione delle intercettazioni del suo consigliere giuridico colto in aumma aumma con il testimone (poi indagato) Mancino per intralciare il lavoro di una Procura. Nessun reato? Probabilmente. Mentre in America per intralcio alla giustizia, crimine di particolare gravità, si finisce subito in galera. Si può in buona fede negare che vi sia stata almeno “immoral suasion”?
Schifani ha tuonato che “chi attacca Napolitano attacca il Paese”, con Bersani allineato “toto corde”, mentre Casini haaccusato “schegge della magistratura che forse hanno obiettivi intimidatori”, benché sappia benissim o che non solo il Procuratore antimafia Grasso, ma perfino il Procuratore generale della Cassazione Esposito (che a Mancino dice: “Io sono chiaramente a sua disposizione”) hanno dovuto riconoscere come ineccepibile il comportamento di Ingroia e Di Matteo. Chi ha obiettivi intimidatori?
Pesa, fin qui, il silenzio di tanti giuristi e intellettuali da sempre impegnati nella difesa della democrazia. La loro perplessità non ha nulla di risibile, anzi. Sono angosciati per una crisi gravissima, che potrebbe precipitare al buio e nel buio. Pensano che “lasciar correre” sul Presidente sia il male minore. Hannah Arendt diceva che i mali minori preparano il male peggiore. Napolitano ha spinto pubblicamente perché il Parlamento approvi la legge bavaglio. Siete davvero sicuri che sia questo il male minore?
Trattativa, Ingroia difende Napolitano
"Evitare qualunque strumentalizzazione"
Il procuratore aggiunto di Palermo interviene sulle polemiche intorno alle indagini riguardanti i presunti contatti tra Stato e mafia negli anni Novanta: "Il Capo delo Stato ci sprona ad accertare la verità" *
LAMEZIA TERME - "Penso che si debba evitare qualsiasi forma di strumentalizzazione". Lo afferma il procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia riferendosi alle recenti polemiche che hanno tentato di coinvolgere il presidente della Repubblica nella vicenda della trattativa tra lo Stato e la mafia. Ingroia ha sottolineato l’importanza "delle autorevoli parole del Capo dello Stato nel riconoscere il ruolo delle indagini della magistratura" e sulla necessità "che si debba accertare tutta la verità".
Parlano ha Lamezia Terme, Ingroia ha però rilevato che "alcune reazioni rispetto al solo fatto dell’esistenza di un procedimento penale sulla vicenda trattativa sembrano rivelare un fastidio per le indagini in sé. Noi - ha aggiunto - non pretendiamo di fare processi politici o storici a nessuno. Rivendichiamo rispetto per il nostro lavoro e per il diritto-dovere di accertare la verità per stabilire eventuali responsabilità, penali e personali degli indagati nel procedimento".
Secondo il procuratore aggiunto di Palermo, a proposito delle indagini sulla trattativa Stato-mafia "c’è un clima ostile nel Paese da parte di alcuni settori della politica e dell’informazione e credo che invece occorrerebbe unanimità di intenti".
Ingroia ha richiamato le parole di Napolitano e del premier Mario Monti: "La verità di quella stagione è la verità di cui abbiamo bisogno tutti ed a cui tutti devono dare un contributo. La magistratura con gli strumenti che ha per accertare la verità giudiziaria ed individuare eventuali responsabilità penali. La politica attivando tutti gli strumenti a disposizione per creare il clima più sereno possibile attorno alla magistratura e poi per accertare in sede politica eventuali responsabilità".
Ingroia ha infine osservato che "se fosse vero che c’è stata una trattativa Stato-mafia e che aveva una finalità strategica per l’arretramento della mafia, ha avuto un effetto controproducente di acceleratore di altre stragi. Questo - ha aggiunto - lo dicono i giudici di Firenze nella sentenza della strage del ’93, nella quale definiscono scriteriata la trattativa perche’ aver dato la sensazione di essere disponibili a trattare, ha convinto i mafiosi che la strategia delle bombe pagava. Se è così, si capisce perchè nessuno è disponibile a farsi avanti per dirlo agli italiani".
* la Repubblica, 23 giugno 2012
Presidente, risponda su Mancino
Alla Cortese Attenzione del consigliere del Quirinale Pasquale Cascella
di Marco Lillo (il Fatto, 22.06.2012)
Gentile consigliere Pasquale Cascella
ho provato a contattarLa telefonicamente ma non riesco a ottenere risposta a voce o via sms al cellulare. Il Fatto chiede al Presidente della Repubblica una dichiarazione ufficiale sulla seguente conversazione inter-venuta il 12 marzo scorso tra il consigliere Loris D’Ambrosio e Nicola Mancino.
D’Ambrosio: Qui il problema che si pone è il contrasto di posizione oggi ribadito pure da Martelli... e non so se mi sono spiegato, per cui diventa tutto... cioè... la posizione di Martelli... tant’è che il presidente ha detto: ma lei ha parlato con Martelli... eh... indipendentemente dal processo diciamo, così...
Mancino: Ma io non è che posso parlare io con Martelli... che fa. D: no no... dico no... io ho detto guardi non credo... ho detto signor Presidente, comunque non lo so. A me aveva detto che aveva parlato con Amato giusto... e anche con Scalfaro...
1. Il Presidente conferma o smentisce di avere chiesto a D’Ambrosio di chiedere a Mancino se questi aveva parlato con Martelli?
2. Il Presidente si dissocia dalle affermazioni di D’Ambrosio che connette la richiesta suddetta (colloquio Mancino-Martelli extra processo) con il contrasto di posizione tra i due ex ministri in vista di un confronto nel processo?
3. Qual è l’interpretazione “non tendenziosa” di questa intercettazione secondo il Presidente?
4. E qual è l’interpretazione “non tendenziosa” di questa seconda affermazione contenuta nella conversazione intercettata il 5 marzo sempre tra D’Ambrosio e Mancino? M: Eh... però il collegio a mio avviso li, un collegio equilibrato. Come ha ritenuto inutile il confronto Tavormina.... dirigente prima della Dia e poi dirigente del Cesis, come ha ritenuto inutile ha respinto la domanda di confronto così potrebbe anche rigettare, per analogia..., eh... si ma davvero questa è la fonte della verità Martelli ed io sono la fonte delle bugie?
D: Sì, ho capito però il problema è intervenire sul collegio e una cosa molto delicata questo è quello che voglio dire.
M: Questo io l’ho capito.
D: Una cosa è più facile parlare con il pm, perché... chiedere... io quello che si può parlare è con Grasso, per vedere se Grasso dice... eh... di evitare... cioè questa è l’unica cosa che vedo perché Messineo, credo che non dirò mai... deciderà Di Matteo... dirà così no.
5. Il consigliere giuridico del Presidente, per evitare il confronto a Mancino, considera l’ipotesi di intervenire prima sul collegio del Tribunale, poi ripiega in via ipotetica sul pm e infine sul procuratore nazionale antimafia. Il Presidente si dissocia o ritiene lecito intervenire su un collegio del tribunale o su un pm per evitare un confronto tra un testimone qualsiasi e un altro testimone più amico (Mancino) che rischia un’incriminazione?
6. Perché il Quirinale dovrebbe occuparsi e preoccuparsi del contrasto di posizione tra due testimonianze di due ex ministri in un procedimento penale?
7. Più volte D’Ambrosio afferma di avere chiesto al Procuratore nazionale Piero Grasso di intervenire per un coordinamento tra le procure di Palermo e Caltanissetta più conforme alle aspirazioni di Mancino e di avere ricevuto in risposta un diniego.
D’Ambrosio afferma in un’altra conversazione con Mancino: “Dopo aver parlato col presidente riparlo anche con Grasso e vediamo un po’... lo vedrò nei prossimi giorni, vediamo un po’. Però, lui... lui proprio oggi dopo parlandogli, mi ha detto: ma sai lo so non posso intervenire... capito, quindi mi sembra orientato a non intervenire. Tant’è che il presidente parlava di... come la procura nazionale sta dentro la procura generale, di vedere un secondo con Esposito”.
8. Ritiene il Presidente di essere stato indotto in errore dal suo consigliere o ritiene giusto intervenire sul procuratore generale per chiedere al procuratore nazionale (che recalcitra) di rafforzare il coordinamento tra procure al fine reale però - da quello che dice il suo consigliere giuridico al telefono - di evitare un confronto scomodo a un testimone?
Romanzo di una trattativa
Dal maxiprocesso all’omicidio di Salvo Lima
Dalle stragi 1992-’93 agli interventi dal Colle sulle indagini
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza (il Fatto, 20.06.2012)
Palermo Il giorno della svolta è il 30 gennaio 1992. Quel giorno la Cassazione chiude il maxi-processo con una pioggia di ergastoli per i boss di Cosa Nostra. Salta il tradizionale rapporto tra mafia e politica. Calogero Mannino, l’unico ministro siciliano della Democrazia cristiana, capisce di essere in pericolo e si confida con il maresciallo Giuliano Guazzelli: “O uccidono me o Lima”. La sua è un’intuizione profetica. Il 12 marzo, la chioma bianca dell’eurodeputato Salvo Lima è immersa in una pozza di sangue, sull’asfalto di Mondello.
ROMA-CAPACI SOLO ANDATA
Mannino ha paura. E ne ha ancora di più quando il 4 aprile 1992, anche Guazzelli viene assassinato. Mannino vuole salvarsi la pelle e cerca aiuto: in gran segreto incontra a Roma il generale del Ros Antonio Subranni, lo 007 Bruno Contrada e il capo della Polizia Vincenzo Parisi. L’obiettivo è aprire un contatto con Cosa Nostra per verificare se c’è un modo per fermare la furia omicida.
Ma il 23 maggio 1992, sulla collinetta di Capaci, il boss Giovanni Brusca preme il telecomando che fa saltare con 500 chili di tritolo Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, e tre uomini di scorta. Il Paese è nel caos. Il 25 maggio, dopo la mancata elezione di Giulio Andreotti, e una votazione che a sorpresa ha attribuito 47 voti al giudice Paolo Borsellino, sale al Quirinale Oscar Luigi Scalfaro.
IL ROS E CIANCIMINO
L’8 giugno il Guardasigilli Claudio Martelli vara un decreto antimafia che contiene nuove misure repressive, come l’inasprimento del regime carcerario per i boss, che però non viene reso operativo. Scatta un’autentica emergenza nazionale per salvare le istituzioni dal terrorismo mafioso. Il capitano del Ros Giuseppe De Don-no “aggancia” in aereo Massimo Ciancimino, e chiede un colloquio con il padre, l’ex sindaco di Palermo don Vito. Inizia la trattativa: l’obiettivo ufficiale è fermare lo stragismo. Ciancimino collabora ma vuole coperture “istituzionali”. De Donno informa dei colloqui il direttore dell’Ufficio affari penali, Liliana Ferraro, che, a sua volta, ne parla a Martelli. Poi la Ferraro riferisce l’iniziativa del Ros anche a Borsellino. Il giudice non pare sorpreso: “Ci penso io”, dice.
IL PAPELLO DEL CAPO DEI CAPI
Il boss Totò Riina, il fautore della sfida stragista, esulta: “Si sono fatti sotto! ”. E prepara il cosiddetto “papello” con dodici richieste, tra cui la revisione del ma-xi e la legge sulla dissociazione. Quando Giuliano Amato vara il nuovo governo dei tecnici, Vincenzo Scotti, considerato un “falco”, viene silurato. Al suo posto al Viminale arriva Nicola Mancino, sinistra Dc come Mannino, ritenuto più malleabile. Anche Martelli rischia di saltare, ma resta alla Giustizia anche se il democristiano Giuseppe Gargani (anche lui della sinistra Dc) si candida al suo posto, promettendo di fermare Tangentopoli.
LE LACRIME DI PAOLO
Totò Riina continua a progettare omicidi. Il killer Giovanni Brusca, accompagnato dal complice Gioacchino La Barbera, effettua sopralluoghi a Sciacca e a Palermo alle segreterie di Mannino per pianificare l’agguato che dovrà colpire il ministro siciliano.
A fine giugno, Borsellino in lacrime confida ai colleghi Massimo Russo e Alessandra Camassa: “Un amico mi ha tradito”. Il sospetto degli inquirenti è che si riferisse ad un uomo in divisa, forse a Subranni. Agnese Borsellino racconterà ai magistrati nisseni di aver saputo dal marito che il comandante del Ros era un uomo d’onore. E che “c’era un colloquio tra la mafia e parti infedeli dello Stato”. Subranni oggi ammette di aver saputo della trattativa, ma solo a cose fatte, cioè quando i colloqui tra Mori e don Vito erano già avviati.
Il 1° luglio è il giorno dell’insediamento di Mancino. Mentre si trova a Roma per interrogare Gaspare Mutolo, Borsellino viene convocato al Viminale. Il giudice incontra il neo-ministro, anche se Mancino ammette la circostanza solo vent’anni dopo. Al ritorno, riferisce Mutolo, Borsellino è così nervoso da fumare due sigarette per volta. Il pentito riferisce anche che durante quell’interrogatorio un funzionario della Dia parla di dissociazione. E che Borsellino commenta: “Questi sono pazzi! ”.
“È FINITO TUTTO”
Un’auto imbottita di esplosivo salta in aria in via D’Amelio: muoiono Paolo Borsellino, che secondo il pentito Giovanni Brusca viene considerato un intralcio alla trattativa, e cinque uomini della scorta. È il 19 luglio 1992. Antonino Caponnetto, l’uomo che ideò il pool antimafia (grazie ad un’intuizione di Rocco Chinnici, magistrato ucciso da Cosa Nostra nove anni prima), intervistato dalla tv pronuncia queste parole: “È finito tutto, non mi faccia dire altro”. Il nuovo atto terroristico getta lo Stato in ginocchio, ma neppure adesso la classe politica trova la forza di reagire compatta. Il ministro della Giustizia Martelli deve firmare personalmente il decreto che istituisce il 41 bis, trasferendo i boss detenuti a Pianosa e all’Asinara, perché - dice lui stesso - “non si trovava chi volesse firmare”.
LE BOMBE IN CONTINENTE
A dicembre finisce in carcere Vito Ciancimino, e a gennaio ’93 è la volta di Riina, il cui covo non viene perquisito. L’arresto del capo dei capi avviene all’insaputa del ministro dell’Interno Mancino. “L’ho saputo da una telefonata del capo dello Stato, che si congratulava con me. E anche il presidente del Consiglio non ne sapeva niente”, dirà Mancino al presidente della Corte di assise di Firenze, che commenta: “È formidabile”. Intanto i corleonesi si affidano a Brusca e Bagarella con Provenzano più defilato, dietro le quinte.
E nelle parole dei pentiti spunta Dell’Utri come “uomo-cerniera” tra mafia e Stato. La trattativa prosegue sulla gestione del 41 bis. A febbraio ’93 salta Martelli (accusato da Silvano Larini e Licio Gelli di avere usato il Conto Protezione) e a via Arenula arriva Giovanni Conso. “Non ho mai capito che era in corso una trattativa - dice oggi Martelli - altrimenti avrei scatenato l’inferno”.
Le bombe continuano in via Fauro a Roma contro Maurizio Costanzo, che scampa all’attentato, e in via dei Georgofili a Firenze: 5 morti e 48 feriti. A giugno il duo Capriotti-Di Maggio (quest’ultimo non ha i titoli), con la regia del presidente Scalfaro e l’input dei cappellani delle carceri sostituisce Nicolò Amato al vertice del Dap.
Il 26 giugno Capriotti propone di confermare i provvedimenti di 41 bis. E la risposta di Cosa nostra arriva a fine luglio con le bombe di Roma e Milano. Il 10 agosto la Dia mette nero su bianco l’ipotesi di una trattativa in corso.
LE REVOCHE DEL 41 BIS
E a novembre arrivano 343 revoche di provvedimenti di 41 bis decise da Conso “in assoluta solitudine”. Questa fase del dialogo si chiude il 27 febbraio del ’94 con l’arresto dei boss Giuseppe e Filippo Graviano, che segna la fine delle ostilità.
Silvio Berlusconi si insedia a palazzo Chigi, quando dietro le quinte, secondo i pentiti, Marcello Dell’Utri ha già siglato il nuovo patto di convivenza con Cosa Nostra. Dal 1996, e per circa dieci anni, la lotta alla mafia esce dall’agenda dei segretari dei partiti, Cosa Nostra appare definitivamente sconfitta e così viene raccontata dai media. Riemerge improvvisamente nel dicembre del 2005 con il volto di Massimo Ciancimino, che tra annunci e mezze verità comincia a parlare con i pm e racconta degli incontri tra suo padre e gli ufficiali del Ros, sollecitando la memoria a orologeria di Martelli, Conso, Ferraro, Violante, Scalfaro, Ciampi, Mancino, Amato. E dopo quattro anni di tira e molla, consegna ai magistrati il “papello”.
LO STATO PROCESSA SE STESSO
Nelle procure di Palermo e Caltanissetta lo Stato tenta di processare se stesso. Sfilano davanti ai pm ministri, parlamentari e funzionari in un festival di reticenze e di bugie. Caltanissetta archivia, ritenendo le condotte “non penalmente rilevanti”, ma formulando pesanti giudizi morali. Palermo va avanti ipotizzando il reato di “violenza o minaccia al corpo politico dello Stato”. Dopo quattro anni, i magistrati depositano gli atti, centinaia di intercettazioni svelano le manovre per aiutare Mancino. Partono le interferenze del Colle per salvare la classe politica che ha trattato con Cosa Nostra, comincia il Romanzo Quirinale.
“Intervenire su Grasso”
Lo suggerisce a Mancino il consigliere del Colle, D’Ambrosio
E il Procuratore antimafia viene convocato in Cassazione
di Marco Lillo (il Fatto, 19.06.2012)
"Il presidente ha preso a cuore la questione”, diceva il braccio destro di Napolitano, Loris D’Ambrosio, a Nicola Mancino. Poi aggiungeva: “Bisogna intervenire su Pietro Grasso”. Non erano millanterie. Alla fine le pressioni del Quirinale hanno prodotto un risultato: il procuratore nazionale antimafia il 19 aprile è stato convocato dal procuratore generale della Cassazione Gianfranco Ciani per sentirsi chiedere il coordinamento tra procure che piaceva a Mancino.
L’assedio è fallito solo grazie al gran rifiuto di Grasso, raccontato a Sandra Amurri sotto. Ogni giorno emergono particolari inquietanti sul comportamento della Presidenza della Repubblica nell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia a cavallo delle stragi del 1992-’93.
Sabato scorso il Colle era stato costretto a tirare fuori dal cassetto la lettera inviata al procuratore generale della Cassazione dal segretario generale della Presidenza del Consiglio, Donato Marra: “Il Capo dello Stato auspica - scriveva Marra allegando una lettera di Nicola Mancino in tal senso - che possano essere prontamente adottate iniziative che assicurino la conformità di indirizzo delle procedure (...) e ciò specie al fine di dissipare le perplessità che derivano dalla percezione di gestioni non unitarie delle indagini collegate”. Ora si scopre che - dopo quella lettera pg della Cassazione Gianfranco Ciani ha esaudito i voleri di Mancino e Napolitano convocando proprio Grasso. Per comprendere l’epilogo della manovra quirinalizia, bisogna leggere le telefonate dell’indagine coordinata dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia assieme ai sostituti Antonino Di Matteo, Francesco del Bene e Lia Sava, in particolare le nove intercettazioni dei colloqui tra D’Ambrosio e Mancino.
Il fidato collaboratore di Napolitano si offre senza risparmio e spende il nome del presidente. Il 25 novembre alle 21, D’Ambrosio e Mancino parlano di un possibile snodo della trattativa: la nomina del magistrato Francesco Di Maggio (poi deceduto) a numero due del Dipartimento amministrazione penitenziaria. “Perché è arrivato lì Di maggio? Chi ce lo ha mandato? Questo è il problema”, spiega D’Ambrosio a Mancino. Poi aggiunge: “C’erano due problemi: l’alleggerimento del 41 bis e i colloqui investigativi e lei (Mancino, ndr) non ne ha saputo niente perché per la parte 41 bis c’erano Mori, Polizia-Parisi, Scalfaro e compagnia. Per la parte dei colloqui investigativi... Di Maggio-Mori”.
CON IL PASSARE dei mesi i discorsi si concentrano sulle ansie di Mancino, che pensa di essere nel mirino del pm di Palermo Nino Di Matteo e invoca un intervento del capo della Dna Pietro Grasso sotto la veste del coordinamento. “Io ho visto Grasso in una cerimonia, stava davanti a me. Mi ha detto: ‘Quelli lì (probabilmente i pm della Procura di Palermo, ndr) danno solo fastidio. Ma lei lo sa che noi non abbiamo poteri di avocazione? ’” Mancino prosegue: “E io gli ho detto: ‘Ma poteri di coordinamento possono essere sempre esercitati’”. È quello l’obiettivo: spingere Grasso a intervenire sulle procure di Palermo e Caltanissetta per imporre un coordinamento che - nelle intenzioni di Mancino almeno - avrebbe potuto ridurre i danni. Si arriva al 24 febbraio. A Palermo Mancino è sentito come testimone nel processo a Mario Mori dove si parla sempre di trattativa Stato-mafia.
La deposizione non soddisfa il pm Di Matteo e il giorno dopo sui giornali esce la sua intervista: “Qualcuno nelle istituzioni mente” con l’anticipazione di un imminente confronto tra gli ex ministri Mancino e Martelli. L’ex presidente del Senato entra in fibrillazione: “Il pm Di Matteo ha detto che ci sono contraddizioni tra Mancino, Martelli e Scotti”, dice al telefono a D’Ambrosio, che replica: “Ma lui l’ha già chiesto il confronto? Io per adesso posso parlare con il presidente (con tutta probabilità Napolitano, ndr). Si è preso a cuore la questione ma non lo so. Francamente la ritengo difficile”.
D’Ambrosio e Mancino si interrogano al telefono su quale sia la persona o l’ufficio giudiziario sul quale intervenire: “Il collegio (del Tribunale di Palermo, ndr) lì è equilibrato. Come ha ritenuto inutile il confronto con Tavormina (generale ed ex capo della Dia) potrebbe rigettare per analogia”. Non è facile: “Intervenire sul collegio”, spiega D’Ambrosio, “è una cosa molto delicata. Più facile è parlare con il pm”. Qual è il pm giusto però? Mancino spiega: “L’unico che può dire qualcosa è il procuratore capo di Palermo Messineo e l’altro che può dire qualcosa è il Direttore nazionale antimafia Grasso. Io gli voglio parlare perché sono tormentato”. Povero Mancino. D’Ambrosio lo rincuora: “Ma non Messineo... in udienza Di Matteo è autonomo. Io direi che l’unica cosa è parlare con il procuratore nazionale Grasso”. Poi Mancino si lamenta di “Messineo che non fa più niente”.
MANCINO e D’Ambrosio si sentono il 5, il 7 e anche il 12 marzo quando l’ex presidente del Senato chiede a D’Ambrosio: “Veda se Grasso può ascoltare anche me in maniera riservatissima che nessuno sappia niente”. Loris D’Ambrosio non lo manda a quel paese ma anzi lo illude: “Lo devo vedere domani”. Si arriva così al 30 marzo. I pm Ingroia e Di Matteo chiedono il confronto in aula al processo Mori tra Mancino e Martelli. Il presidente del tribunale, per pura scelta tecnica, rigetta. Ma Mancino non si rilassa. Telefona il 27 marzo e poi ancora il 3 aprile a D’Ambrosio.
Il 4 aprile il Quirinale scrive al procuratore generale della Cassazione. Fiero di avere fatto il suo compito, il giorno dopo, il 5 aprile, il consigliere del capo dello Stato, Loris D’Ambrosio, legge al testimone (poi indagato per reticenza) la lettera del Quirinale al pg della Cassazione. Poi D’Ambrosio aggiunge: “Ho parlato sia con Ciccola (Pasquale Ciccolo, sostituto pg della Cassazione, ndr) che con Ciani (il pg della Cassazione, ndr), hanno voluto la lettera così fatta per sentirsi più forti”. Passano solo due settimane e Ciani, forte della lettera appunto, convoca Grasso.
L’intervista: Pietro Grasso difende i Pm di Palermo
“La Suprema Corte mi chiese di relazionare, ma a voce”
di Sandra Amurri (il Fatto, 19.06.2012)
“Confermo l’incontro, ma non il contenuto della breve conversazione. Non ho assolutamente risposto ‘quelli lì riferendomi ai pm di Palermo danno solo fastidio’, non avrei mai potuto esprimere un tale giudizio perché non lo penso”
L’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, indagato per falsa testimonianza nell’inchiesta palermitana sulla trattativa Stato-mafia, a dicembre 2011 racconta al telefono a Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico del presidente della Repubblica: “Io ho visto Grasso in una cerimonia, stava davanti a me. Mi ha detto: ‘Quelli lì (Procura Palermo ndr.) danno solo fastidio. Ma lei lo sa che noi non abbiamo poteri di avocazione’ e io ho detto: ‘Ma poteri di coordinamento possono essere sempre esercitati’”. L’occasione è la cerimonia al Quirinale per lo scambio degli auguri natalizi. Mancino non è ancora indagato, ma teme di diventarlo.
Procuratore Grasso, conferma le parole di Mancino?
Confermo l’incontro, ma non il contenuto della breve conversazione. Non ho assolutamente risposto ‘quelli lì riferendomi ai Pm di Palermo danno solo fastidio’, non avrei mai potuto esprimere un tale giudizio perché non lo penso e la mia azione è funzionale a favorire la loro attività investigativa alla ricerca della verità. Mancino lamentava valutazioni diverse da parte di talune procure rispetto a relazioni e comportamenti e omissioni a lui attribuiti. Gli ho detto che il solo strumento che può ridurre a unità indagini pendenti in diversi uffici è l’istituto dell’avocazione che, però, è applicabile solo nel caso di ingiustificata e reiterata violazione delle direttive impartite dal Pna al fine del coordinamento delle indagini. Avocazione che è nei miei poteri, ma nel caso Mancino non vi erano i requisiti per poterla applicare.
Dunque Mancino lavora di fantasia?
Sono le parole di un uomo che dice di sentirsi perseguitato, accerchiato. Come risulta dai verbali, sono state fatte riunioni di coordinamento tra le varie Procure senza alcuna tensione come possono confermare tutti pm. Nessuno si è mai lamentato di una mia interferenza. Non vi è mai stato alcun accenno alla questione Mancino. Coordinamento significa che le informazioni di ogni procura debbono essere messe a disposizione delle altre procure affinché vi sia una circolazione di notizie. Ma, ripeto ogni Procura resta autonoma e indipendente come è avvenuto: Caltanissetta ha archiviato e Palermo, in presenza di altri elementi, ha proceduto anche nei confronti di Mancino per quello che ha detto al dibattimento.
Il 12 marzo Mancino chiama D’Ambrosio: “Veda se Grasso può ascoltare anche me in maniera riservatissima che nessuno sappia niente”. D’Ambrosio risponde: “Lo devo vedere domani”. Procuratore Grasso, lei il 13 marzo ha incontrato il consigliere D’Ambrosio?
Ecco la mia agenda alla pagina 13 marzo: in una giornata densa di riunioni e consultazioni non vi è traccia di appuntamenti con D’Ambrosio. Forse prevedeva di farlo, ma non lo ha fatto.
Allora D’Ambrosio mente?
Mah! Può averlo detto per tranquillizzare Mancino che, evidentemente non era rimasto soddisfatto dalla mia risposta tranciante in occasione della cerimonia al Quirinale.
Ma D’Ambrosio in altre occasioni le ha mai parlato del caso Mancino?
Sì. Mi ha espresso l’esigenza di Mancino. Il problema, per quanto mi riguarda, non è ciò che abbia fatto o abbiano tentato di fare, ma quello che io ho fatto. È mai arrivata una richiesta di Grasso ai Pm di Palermo? Grasso ha mai compiuto un solo atto per agevolare Mancino? La risposta è: no.
Conferma che l’attuale Pg di Cassazione Ciani l’ha convocata, lasciando intendere che Mancino riteneva di subire le conseguenze di un mancato coordinamento tra le procure?
Sì. Sono stato convocato dal Pg della Suprema Corte il 19 aprile. Mi è stata richiesta una relazione sul coordinamento tra le procure. Ho espresso la volontà che mi venisse messo per iscritto. Mi è stato fatto presente che era nei suoi poteri chiederlo verbalmente. Il 22 maggio ho risposto per iscritto specificando che nessun potere di coordinamento può consentire al Pna di dare indirizzi investigativi e ancor meno di influire sulle valutazioni degli elementi di accuse acquisiti dai singoli uffici giudiziari.
Perché Ciani non lo sapeva?
Io alle richieste del superiore ufficio rispondo per iscritto.
Alla luce delle responsabilità, alcune, per ora, sicuramente politiche, cosa auspica per il raggiungimento della verità sulla trattativa Stato-mafia e sulle stragi che ne sono seguite?
Che inizino a collaborare i rappresentanti delle istituzioni. I mafiosi, quelli che si sono pentiti, conoscono solo un certo livello, non sono i vertici, intendo Graviano, Riina, Provenzano. Finché avremo pentiti mafiosi di basso rango potremmo arrivare fino a un certo livello di conoscenza, per avere la verità compiuta abbiamo bisogno dei vertici di Cosa Nostra oppure di qualche apporto istituzionale che ha vissuto e sa. Io auspico la verità e credo umilmente di aver dato un contribuito determinante nel convincere Spatuzza a pentirsi, nell’aver raccolto le sue dichiarazioni sulle stragi e nell’averle messe a disposizione delle varie Procure.
A un comune cittadino indagato è dato chiedere “protezione” ad alte cariche dello Stato che prontamente si attivano?
No, ovviamente. La responsabilità è di chi chiede e di chi si attiva. Io non ho raccolto alcuna richiesta. La legge, ripeto, è e deve essere uguale per tutti.
Il Pg: “A sua disposizione” L’ex ministro: “Uè guagliò...”
Poi Esposito invita l’ex capo del Viminale:
“Se vuole venirmi a trovare, quando vuole”
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza (il Fatto, 19.06.2012)
Palermo Il dialogo è quello tra due vecchi amici, e uno parla tranquillamente in napoletano. “Sono chiaramente a sua disposizione - dice il Procuratore generale della Cassazione Vitaliano Esposito - adesso vedo questo provvedimento e poi ne parliamo. Se vuole venirmi a trovare, quando vuole”. E Nicola Mancino replica: “Guagliò come vengo, vado sui giornali”. “Ahahaha, ho capito”, commenta allegro il pg. Sono le 9.04 del 15 marzo 2012, l’ex presidente del Senato chiama per congratularsi con l’alto magistrato che ha appena ricevuto l’ordinanza del gip Alessandra Giunta su via D’Amelio.
MANCINO è contento: “Ho letto che hai chiesto gli atti a Caltanissetta”, dice al pg, e con lui parla a ruota libera della sua posizione giudiziaria, illudendosi di farla franca, almeno con i pm nisseni: “Resta la figura di una persona che è reticente, che non ha detto la verità ma non ci sono elementi per processarla”. Siamo a metà marzo, e le manovre di accerchiamento sul Quirinale entrano nel vivo: venti giorni dopo, il 4 aprile, sollecitato da Mancino, il capo dello Stato invia la sua lettera al pg della Suprema Corte, in quel momento quasi pensionato. Per questo il carteggio agli atti di piazza Cavour serve di fatto a spianare la strada al neo pg della Cassazione, Gianfranco Ciani, l’ultimo a muoversi in questa catena di Sant’Antonio di soccorso istituzionale. Ciani alla fine convoca il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, l’unico che ha poteri reali di coordinamento tra le procure di Palermo e Caltanissetta.
Ma il capo della Dna si sfila dall’intrigo istituzionale, rispondendo per iscritto di non avere le prerogative necessarie per intervenire nella vicenda. A rivelare la conclusione delle “grandi manovre” politiche per monitorare l’indagine sulla trattativa è una fonte molto vicina a Vitaliano Esposito, il quale in una lettera di precisazione inviata al Fatto Quotidiano parla di un’altra riunione, convocata a Roma in una data imprecisata, ma certamente oltre due anni fa, visto che destinatari della convocazione furono i pg di Palermo Luigi Croce e di Caltanissetta Giuseppe Barcellona. Una riunione, dice Esposito, organizzata con Piero Grasso per accertamenti “sulle indagini, apparentemente parallele, in corso alle procure di Palermo e Caltanissetta”.
I PARTECIPANTI, secondo quanto scrive il pg, avrebbero garantito “la più ampia collaborazione, riservando la trasmissione di atti rilevanti”. Ma di questo incontro non sanno nulla né Luigi Croce, pg a Palermo fino al 20 ottobre 2011, né tantomeno Grasso: entrambi sostengono di non avere mai partecipato ad alcun vertice sul tema. Cadono dalle nuvole anche i pm di Palermo, che non sono mai stati informati e che hanno appreso dell’interesse istituzionale sulle loro indagini dall’ascolto delle centinaia di ore di intercettazioni disposte sui telefoni dei protagonisti politici di quella stagione, Mancino in testa. Nella sua lettera il pg Esposito precisa di avere chiesto l’ordinanza del gip nisseno Alessandra Giunta su via D’Amelio “senza avere avuto contatti con alcuno”, prima, cioè, di ricevere la missiva del Quirinale. L’unico contatto con Nicola Mancino è quello del 15 marzo scorso, il giorno dopo la richiesta ufficiale dell’ordinanza.
“Nell’articolo si fa riferimento a una telefonata che mi fece il senatore Mancino per complimentarsi della mia iniziativa, telefonata da me ricevuta - dice oggi il pg Esposito - e dunque per quanto mi riguarda assolutamente neutra”. E questa è solo una delle centinaia di conversazioni al telefono intercettate dai pm tra la fine dell’anno scorso e la primavera di quest’anno, quando l’inchiesta sulla trattativa entra in dirittura d’arrivo catalizzando l’interesse istituzionale. E scatenando in Mancino un’escalation di angoscia, rivolta, in particolare, ad uno dei pm: “È sempre il solito Di Matteo. È lui il guaio... mi ha convocato... Fa le domande, io rispondo e lui... non dice niente, non parla, fa solo domande”.
È IL 25 novembre 2011. Alle ore 21.07, Nicola Mancino telefona a Loris D’Ambrosio, consulente giuridico del capo dello Stato Giorgio Napolitano, per segnalare che è stato nuovamente convocato a Palermo, e si lamenta del pm Nino Di Matteo, attribuendogli il ruolo dell’inquisitore più duro durante gli interrogatori. È la madre di tutte le intercettazioni, la prima e la più lunga di dieci telefonate - tutte partite dal cellulare dell’ex presidente del Senato - che secondo l’accusa rivelano, tra novembre 2011 e aprile 2012, l’aspettativa fortissima di Mancino di un “salvataggio” istituzionale da parte del Quirinale rispetto alle iniziative processuali della procura di Palermo, che appare intenzionata a scavare a fondo sul suo coinvolgimento nell’indagine.
Una raffica di telefonate che coinvolge, oltre a Esposito e D’Ambrosio, il procuratore aggiunto di Roma Nello Rossi, della corrente di Md, e il presidente dell’Unione giornalisti pensionati Guido Bossa. Mancino chiama Rossi mezz’ora dopo essersi complimentato con Esposito, il 15 marzo scorso. Quello stesso Nello Rossi che due giorni fa si è detto “incredulo e profondamente preoccupato” per il coinvolgimento nell’inchiesta dell’ex Guardasigilli Giovanni Conso. Fibrillazioni che attraversano anche altri indagati della trattativa: decine sono le telefonate tra gli ex ufficiali del Ros fedelissimi di Mario Mori. Giuseppe De Donno parla più volte con Mori e scambia frenetici sms (e numerose telefonate) con “Raf”, Raffaele Del Sole, l’ufficiale che a Roma, nel processo al pm Salvatore Leopardi (accusato di avere informato i servizi dei contenuti dei colloqui in carcere dei boss ristretti al 41 bis), si è trincerato dietro il segreto di Stato.
al Presidente della Repubblica : consegno nelle sue mani in segno di protesta la mia TESSERA ELETTORALE *
Presidenza della Repubblica al Presidente Giorgio Napolitano Palazzo del Quirinale 00187 Roma inviata con raccomandata unitamente alla tessera elettorale.
Egregio Presidente Napolitano
• Mi chiamo Marina Cometto e sono la mamma di una persona con disabilità gravissima di 38 anni anni affetta da una malattia rara la Sindrome di Rett che in lei ha avuto effetti devastanti sia a livello motorio ,è non deambulante, che ha livello cognitivo e comunicativo, e l’ha resa totalmente non autosufficiente già dall’infanzia .
Le scrivo per consegnare nelle Sue mani la mia TESSERA ELETTORALE che trova in allegato , • non riconoscendomi più come cittadina nella politica attuale e non sentendomi più rappresentata da nessuna delle forze politiche presenti in questo momento , spiegandone i motivi.
In questi 38 anni abbiamo superato come famiglia molti ostacoli per offrire una vita serena a nostra figlia e a sua sorella e fratello, abbiamo sconvolto e trasformato totalmente le nostre prospettive per il futuro, ci siamo adeguati a quello che la società proponeva e predisponeva per le famiglie come la nostra abbiamo fatto la nostra parte per quanto possibile per offrire al tema della disabilità il nostro modesto contributo.
Sono state emanate negli anni 80, 90, 2000 numerose leggi a tutela delle persone con disabilità , l’inclusione nella società sembrava ormai un fatto concreto e pur con i limiti interpretativi potevamo affermare di essere un Paese da cui prendere esempio , poi c’è stata negli ultimi anni una negativa svolta che ha iniziato a cancellare DIRITTI ACQUISITI, agevolazioni nate per offrire PARI OPPORTUNITA’, BENEFICI ECONOMICI .
E’ iniziata la caccia ai falsi invalidi ,(che ci sono certamente , ma si è finito per colpire anche i veri) accusati di essere colpevoli dell’aumento eccessivo di indennità d’accompagnamento,ma nel calderone ci sono finiti tutti anche chi disabile lo è davvero, le persone non autosufficienti in primis . Si è poi continuato con il rientro dei costi della Sanità riducendo le autorizzazioni per gli ausili e protesi, cancellando di fatto la riabilitazione fisica e comunicativa anche nell’età evolutiva , tagliando in modo massiccio i fondi per gli assegni di cura , progetti di vita indipendente e assistenza indiretta che permettevano di assistere le persone con disabilità al proprio domicilio .
I Tagli all’istruzione hanno reso ancora più difficile l’integrazione degli studenti con disabilità in molti casi ridotta a puro “parcheggio” .
Ora questo Governo, non politico ma definito tecnico, (forse per non dare responsabilità alla politica di tanto sfacelo sociale,) con il Decreto =salva italia=""= vuole andare oltre, mettendo in discussione L’INDENNITA’ D’ACCOMPAGNAMENTO (LEGGE 18/80) e le pensioni sia quella di invalidità che quella di reversibilità non preoccupandosi di quanto questo influirà sulla vita vera e vissuta delle famiglie con una persona disabile al suo interno, quelle con totale non autosufficienza , che non sono solo quelle anziane , quelle con più persone disabili, quelle cui non entrano altri redditi da lavoro , visto che le persone con disabilità spesso anche essendo in grado di svolgerlo non trovano però nessuno disposte a assumerle.
La goccia che però ha fatto traboccare il vaso è stata l’ultima notizia che ho letto riguardo ai TICKET che si vogliono imporre anche sulle forniture di pannoloni, ossigeno, alimenti per celiaci,ausili per diabetici , lancette, strisce e macchinette perla rilevazione quotidiana della glicemia , molti di questi sono salvavita e la vita non si può salvaguardare a seconda del reddito , non in un Paese civile.
Il Ministro della Giustizia Severino in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario Il 28gennaio 2012 ha detto:DALLO STATO DELLE CARCERI SI MISURA IL GRADO DI CIVILTA’ DI UN PAESE, vorrei aggiungere che è da quanto e come si tutelano le persone più fragiliche si misura non solo la civiltà di un Paese, ma il suo grado di umanità, condivisione e democraticità., e l’Italia non è certo ai primi posti.
Restituisco quindi a Lei Presidente quale rappresentante del popolo Italiano a mia Tessera elettorale in segno di protesta pacifica verso le Istituzioni , non voglio più prendere posizione per questa o quella appartenenza politica che si trovano solo d’accordo nell’ignorare le vere esigenze del popolo a cui dovrebbero essere di servizio e rappresentanti e non voglio avere più responsabilità per aver privilegiato posizioni politiche che agiscono in modo discutibile.
Non interpreti questa mia come una resa o rassegnazione , la sconfitta non è la mia!
Distinti saluti, Marina Cometto
combot@alice.it
https://www.facebook.com/notes/marina-cometto/al-presidente-della-repubblica-consegno-nelle-sue-mani-in-segno-di-protesta-la-m/10150490646821339
Caro Presidente, difenda l’articolo 39
di Piero Bevilacqua, (il manifesto, 09.03.2012)
Caro Presidente Napolitano,
ci spinge a scriverle un fatto politico-sindacale che appare da settimane nelle cronache quotidiane e che non trova quasi nessuna eco, e soprattutto nessun commento e riprovazione, da parte del mondo politico, del governo, dei grandi media nazionali. Quasi si trattasse di eventi episodici e di scarso rilievo. Eppure siamo di fronte a una vicenda di straordinaria gravità, una scelta che segna una lacerazione nel tessuto vivo della democrazia italiana.
Ci riferiamo alla discriminazione che da tempo subiscono gli operai iscritti alla Fiom, i quali non vengono assunti negli stabilimenti Fiat a causa della tessera che portano in tasca. Poiché - com’è noto - la Fiom non ha firmato il contratto tra la Fiat e gli altri sindacati, siglato a Torino nel dicembre del 2011, essa rimane fuori dalla fabbrica e così gli operai che essa rappresenta.
Ora, a noi sembra che tale scelta della Fiat violi apertamente l’art.39 della nostra Costituzione, il quale sancisce la piena libertà sindacale. Ma essa è in aperto contrasto con tutto il costituzionalismo europeo e in maniera evidente con la Carta di Nizza, che ha solennemente ribadito tale diritto nell’art.12, nell’art. 21 di Non discriminazione - «E’ vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata in particolare(...) sulle convinzioni personali, le opinioni politiche»» - nell’articolo 28 che legittima il conflitto e il diritto di sciopero. Ricordiamo la Carta di Nizza non perché essa abbia più valore della nostra Costituzione, ma perché oggi sembra che il rimando all’Europa debba valere esclusivamente per i vincoli finanziari che ci viene imponendo, non per i diritti che riconosce.
Ma gli episodi della Fiat fanno parte di un processo che viola la «Costituzione vivente» del nostro Paese, demolisce conquiste sociali del XX secolo, fa arretrare la civiltà giuridica delle società industriali. Definire privatamente le regole di un accordo con i sindacati consenzienti, negando valore alla contrattazione nazionale, ed escludendo i sindacati in disaccordo, non solo viola il pluralismo sindacale. Un principio a cui gli innumerevoli liberali che oggi in Italia affollano la scena pubblica dovrebbero mostrarsi un po’ più sensibili. Ma tale scelta inaugura una rifeudalizzazione del diritto, apre alla creazione di domini particolari nelle relazioni industriali che colpiscono la stessa unità del Paese, a cui lei ha mostrato di tenere in sommo grado.
Lei sa bene, caro Presidente, che cosa ha significato per le classi lavoratrici meridionali il contratto unico nazionale. I lavoratori del Sud, in genere dispersi, male organizzati e poco rappresentati, hanno goduto della capacità contrattuale della classe operaia del Nord.
Il contratto nazionale di lavoro, sottoscritto e difeso dai sindacati, ha reso meno lacerante la divisione fra Nord e Sud, ha tutelato l’unità giuridica e sociale dell’Italia. Noi crediamo che il silenzio e, talora l’indifferenza, dei partiti e della stampa di fronte a tale questione nasca spesso dalla non condivisione della linea sindacale della Fiom. Consideriamo tale atteggiamento un grave errore.
I diritti riguardano tutti i cittadini e vanno difesi al di là delle posizioni e delle opportunità politiche. Molti immaginano che alcune restrizioni dei diritti, alcuni arretramenti di posizione, siano transitori e momentanei, dovuti alla difficile fase di crisi che attraversiamo. Ci permettiamo di ricordare che non è così. L’arretramento della condizione dei lavoratori è un’onda lunga che viene da lontano, e non investe solo l’Italia, e sta mettendo in discussione conquiste storiche di civilizzazione dell’Occidente.
Siamo di fronte a un mutamento strutturale e di lungo periodo a cui occorre opporsi con un nuovo moto solidale delle forze democratiche.
Caro Presidente, conosciamo i limiti della sua funzione istituzionale e non le chiediamo cose che non può fare. Ma lei, supremo custode della Costituzione, per il ruolo che ricopre e per i meriti personali della sua condotta, è la figura politica più autorevole d’Italia. Nel momento in cui ai ceti popolari vengono chiesti tanti gravi sacrifici, non faccia mancare la sua parola, la sua capacità di indirizzo, di persuasione morale su un punto che rischia di lacerare il tessuto civile del Paese, menomare gravemente un diritto fondamentale di milioni di lavoratori.
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 30 gennaio 2012)
Poche parole, a poche ore dalla morte del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro: un uomo politico e un servitore della Costituzione rigoroso, roccioso e intransigente e, proprio per questo, molto amato e anche molto osteggiato.
"Non c’è da temere mai di fronte alle pressioni esterne. L’unico che può temerle è chi è ricattabile": sono parole sue, rivolte ai giudici ma valide con riguardo a qualunque magistratura e tanto più valide in quanto riferite alle più alte cariche della Repubblica. Di queste, la prima e fondamentale "prestazione" costituzionale che si ha necessità e diritto di pretendere, soprattutto nei tempi di incertezza o di crisi, è la rassicurazione che viene dalla serenità e dalla forza, cioè dalla certezza che non vi possono essere cedimenti e deviazioni.
Altri, col tempo e con la riflessione necessari, scriveranno di lui e della sua opera nella storia della Repubblica, una storia che la copre dall’inizio all’altro ieri. Allora si faranno bilanci. Nella commozione del momento, vorrei ricordarlo con parole nelle quali egli probabilmente si riconoscerebbe volentieri, quasi come in un suo motto: "Sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno" (Mt 5, 37).
Una delle cause del degrado e della corruzione della vita pubblica nel nostro Paese, egli l’imputava ai troppi sì che si dicono da parte di chi avrebbe il dovere di dire di no, in modo di stabilire il confine del lecito e dell’illecito e quindi il territorio entro il quale può legittimamente valere il gioco democratico. Quelle che seguono sono sue parole: «Il compito del Capo dello Stato non è quello di essere equidistante tra due parti politiche. Sarebbe fin troppo facile. Si dà ragione una volta all’uno e una volta all’altro e si sta a posto con la coscienza.
No, il compito del Capo dello Stato è quello di garantire il rispetto della Costituzione su cui ha giurato. Di difenderla a ogni costo, senza guardare in faccia nessuno. Tra il ladro e il carabiniere non si può essere equidistanti: se qualcuno dice di esserlo vuol dire che ha già deciso di stare con il ladro». L’imparzialità di cui la Costituzione ha bisogno non è dunque un’equidistanza senza carattere, ma presuppone che si stabilisca quali sono le parti le cui pretese sono legittime e che da queste siano tenute separate quelle che non lo sono.
Soprattutto nei momenti di turbolenza e di tentativi di forzatura, il Capo dello Stato non può esimersi dal compito - un compito che nell’ordinaria vita costituzionale gli è risparmiato - di stabilire i confini tra il lecito e l’illecito costituzionale. Tra questi due poli non può esservi imparzialità. In una Costituzione pluralista e inclusiva com’è la nostra, il terreno dell’inclusione costituzionale è assai ampio ma non è certo illimitato. Una Costituzione che "costituzionalizzasse" tutto e il contrario di tutto sarebbe non una costituzione ma il caos.
È perfino superfluo ricordare che gli anni del settennato presidenziale di Scalfaro furono un periodo di accesissime polemiche e non infondati timori per la "tenuta" delle istituzioni costituzionali. Al centro delle tensioni si trovò proprio la Presidenza della Repubblica e la sua interpretazione della Costituzione. Non furono solo polemiche verbali ma anche attacchi personali il cui obbiettivo era trasparente. Il drammatico discorso televisivo delle 9 della sera del 3 novembre 1993, il discorso del "non ci sto", fu al tempo stesso una denuncia e una risposta. La reazione dell’opinione pubblica non iniziata alle segrete cose fu, inizialmente, di sconcerto. Non si comprendeva che cosa stesse accadendo, anche se si avvertiva l’eccezionalità del momento e delle parole appena udite, che alludevano a manovre tanto più inquietanti quanto meno limpide.
Col senno di poi, comprendiamo che quelle tre parole dicevano a chi doveva intendere: "ho compreso" e un "sappiate che cedimenti non sono alle viste". Che cosa "ho compreso"? Si dice che fosse in atto un attacco, un ricatto al Capo dello Stato da parte di uomini della maggioranza d’allora, che non lo consideravano malleabile. La parte finale del discorso allude certamente a ciò. Ma la parte iniziale è quella che deve essere riascoltata oggi. Vi si parla non di un atto grande e conclamato, contro la Costituzione e le sue istituzioni. Si parla di degrado e corruzione attraverso piccoli cedimenti, di per sé pocoevidenti, ma tali da sommarsi l’uno all’altro e di fare massa, fino al momento in cui, quando ci se ne fosse accorti e si fosse voluto reagire, sarebbe stato troppo tardi.
Qui, nel "bel paese là dove il sì suona" troppo frequentemente, i "no" scalfariani sono stati una scossa salutare. Egli stesso ne era orgoglioso. Nelle sue numerose e generose interviste, conferenze, lezioni degli ultimi anni, usava ricordare agli uditori, che avevano evidentemente bisogno di parole di rigore e le salutavano con entusiasmo, i tre rotondi "no" (senza "il di più" satanico) che seguirono alla richiesta di elezioni anticipate dopo la rottura dell’alleanza Lega-Forza Italia nel 1994.
Quei "no" hanno salvato la Costituzione da quella che sarebbe stata una prima interpretazione anti-parlamentare destinata a fare scuola, secondo la quale il presidente del Consiglio può pretendere nuove elezioni per essere "plebiscitato" contro un Parlamento che non sta alle sue volontà. Scalfaro è stato la prima pietra d’inciampo nella marcia verso qualcosa d’inquietante, una sorta di "democrazia d’investitura" personalistica che non sappiamo dove ci avrebbe portato. Se, oggi, il presidente della Repubblica ha potuto resistere alle pressioni per elezioni anticipate, a seguito delle dimissioni del governo Berlusconi, lo dobbiamo anche alla fermezza mostrata allora dal presidente Scalfaro.
Ma altri, importantissimi "no" sono stati pronunciati. Non possiamo dimenticare con quale alto senso della laicità delle istituzioni repubblicane, egli - cattolicissimo - rivendicò davanti al Papa il suo essere presidente di tutti gli italiani, credenti e non credenti, cattolici e non cattolici, quando è tanto facile acquisire meriti e farsi belli agli occhi della gerarchia ecclesiastica, appellandosi alla tradizione cattolica, maggioritaria in Italia. Così, le questioni di fede o non fede, con lui, non erano mai motivi di divisione. Ciò che mi pare contasse davvero era l’evangelica rettitudine del sentire e dell’agire. Questo spiega l’ottimo rapporto personale - ch’egli soleva ricordare - con tanti galantuomini d’altri partiti, talora lontani politicamente dal suo e, al contrario, il pessimo rapporto con chi galantuomo non era, ancorché del suo stesso partito.
Infine, il suo impegno per la difesa della Costituzione, nel quale fino all’ultimo non risparmiò le sue energie. Presiedette il comitato Salviamo la Costituzione, al quale si deve un contributo decisivo alla vittoria nel referendum del 2006, che impedì una trasformazione profonda e ambigua delle nostre istituzioni. Ecco un altro no. Alla Costituzione andavano costantemente i suoi pensieri, consapevole ch’essa rappresenta uno dei frutti più elevati della cultura e della politica del nostro Paese. E insieme alla Costituzione, la Resistenza che ne è la radice storica e morale.
Nel discorso alle Camere riunite, in occasione del giuramento, il 28 maggio 1992, rese omaggio agli uomini e alle donne che parteciparono alla lotta di Liberazione. La Costituzione "io non l’ho pagata nella Resistenza [...] Altri non la votarono ma la pagarono con la vita. Non dimentichiamolo mai". Retorica, diranno coloro ai quali questa Costituzione non aggrada. Parole profonde, diranno invece coloro che hanno consapevolezza del valore storico di quel periodo della nostra storia e del suo frutto più importante. E questi ti saranno per sempre in debito di affetto e di riconoscenza, presidente Scalfaro.
Offese dello Spiegel all’Italia: lo sdegno del Quirinale
(Il Messaggero del 28 gen 2012)
di Rosario Amico Roxas
***
C’è poco da sdegnarsi; il quotidiano tedesco ha assimilato il comportamento di Schettino a quello dell’ex presidente del consiglio che pretendeva rappresentare tutti gli italiani e che una striminzita parte di italiani ha scelto come loro immagine e come loro portabandiera.
Quando "fece per viltade il gran rifiuto" fu l’immagine dell’Italia intera ad essere mortificata;proprio questa Italia una volta terra di Santi, Poeti e Navigatori, diventata terra di corrotti, corruttori, corruttibili, turbatori d’asta, truffatori, casta privilegiata, mafiosi, camorristi ndranghetari e coronisti e politici per interesse personale.
Lo sdegno del Quirinale dovrebbe rivolgersi innanzitutto contro questa gente e contro il governo che li ha mantenuti, protetti, salvati con condoni, sanatorie e scudi fiscali, cercando di tacitare la parete lesa della nazione con la mortificante "social card" che servì solo a dispensare fior di milioni agli stampatori della carta, ai gestori, inghiottendo quanto non utilizzato.
Dobbiamo armarci di tanta umiltà e accettare le denunce che ci piovono addosso (la risata della Merkel e di Sarkozy al solo pronunciare il nome Berlusconi, non ci è bastata ?) come brutale esperienza da non ripetere mai più.
Lo sdegno del Quirinale diventa così un "atto dovuto", ma non convince nessuno: sappiamo benissimo di meritarlo, grazie a chi ci ha ridotto ad essere i Pasquini d’Europa.
Rosario Amico Roxas
Napolitano, gli ideali della Resistenza contro la crisi
Il «patrimonio di ideali e valori» della Resistenza «costituisce tuttora un essenziale riferimento per fronteggiare le sfide proposte dalla grave crisi economica e finanziaria e da un contesto mondiale profondamente cambiato». Lo sottolinea il presidente della Repubblica, nel messaggio all’Anpi in occasione dell’incontro su «L’Unità d’Italia alla prova di resistenza», «una significativa occasione di riflessione sulla tenuta dei valori fondamentali che hanno ispirato il processo di unificazione nazionale e che hanno conosciuto, dopo il ventennio fascista, nuova vitalità grazie alla Resistenza».
* l’Unità, 25.01.2012
Napolitano riflessioni sul bel paese uno e indivisibile *
Il ciclo delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità non può considerarsi ancora esaurito: lo dicono notizie e annunci che continuano ad affluire. Ma un bilancio sostanziale è certamente possibile, e vorrei sottolinearne alcuni aspetti. Innanzitutto l’eccezionale diffusione e varietà di iniziative, e il carattere spontaneo che molte di esse hanno presentato: non sollecitate e coordinate dall’alto, da nessun luogo “centrale”, Presidenza della Repubblica o Governo. Si è davvero trattato di un gran fiume di soggetti che si sono messi in movimento, in special modo al livello locale, fin nei Comuni più piccoli - istituzioni, associazioni di ogni genere, gruppi e persone.
È stato un gran fervore di richiami di antiche memorie, anche famigliari, e di impegni di studio, di discussione, di comunicazione. Quel che si è mosso, poi, nelle scuole è stato straordinario: quanti insegnanti, per loro conto, e quanti studenti, a ogni livello del sistema d’istruzione, si sono messi d’impegno e hanno dato in tutte le forme il loro contributo! E anche in termini quantitativi che cosa è stata la partecipazione dei cittadini anche alle manifestazioni nelle piazze e nelle strade e dai balconi delle case, in un’esplosione mai vista di bandiere tricolori e di canti dell’Inno di Mameli!
Ce lo aspettavamo? In questa misura e in questi toni, no: nemmeno quelli tra noi, nelle massime istituzioni nazionali, che ci hanno creduto di più e hanno deciso di dedicarvisi più intensamente. È stata una lezione secca per gli scettici, e ancor più per coloro che prevedevano un esito meschino, o un fallimento, dell’appello a celebrare i centocinquant’anni dell’unificazione nazionale. Soprattutto, è stata una grande conferma della profondità delle radici del nostro stare insieme come Italia unita. Si può davvero dire che le parole scolpite nella Costituzione - «la Repubblica, una e indivisibile» - hanno trovato un riscontro autentico nell’animo di milioni di italiani in ogni parte del Paese. E non in contrapposizione ma in stretta associazione - come nell’articolo 5 della Carta - all’impegno volto a riconoscere e promuovere le autonomie locali. Nello stesso tempo, si può ritenere che il così ampio successo registratosi vada messo in relazione col bisogno oggi diffuso nei più diversi strati sociali di ritrovare - in una fase difficile, carica di incognite e di sfide per il nostro Paese - motivi di dignità e di orgoglio nazionale, reagendo a rischi di mortificazione e di arretramento dell’Italia nel contesto europeo e mondiale.
L’aver fatto leva sull’occasione del Centocinquantenario, l’aver puntato su celebrazioni condivise, è stato dunque giusto e ha pagato. Non bastava però lanciare un appello generico: occorreva richiamare in modo argomentato fatti storici ed esperienze, fare i conti con interrogativi e anche con luoghi comuni, favorire quella che non esito a chiamare una riappropriazione diffusa, da parte degli italiani, del filo conduttore del loro divenire storico, del loro avanzare - tra ostacoli e difficoltà, cadute e riabilitazioni, battute d’arresto e balzi in avanti - come società e come Stato nei secoli XIX e XX. Gli interventi che ho svolto, nel succedersi delle iniziative per il Centocinquantenario, hanno segnato i momenti e i contenuti dello sforzo compiuto: spero che il leggerli, raccolti in volume, ne renda il senso complessivo, lo sviluppo coerente.
Qual è la conclusione che oggi ne traggo? Che non si è trattato di un fuoco fortuito, di un’accensione passeggera che già sta per spegnersi, di una parentesi che forse si è già chiusa. No, si è trattato di un risveglio di coscienza unitaria e nazionale, le cui tracce restano e i cui frutti sono ancora largamente da cogliere. Non ci porti fuori strada l’impressione che appena dopo aver finito di celebrare il Centocinquantenario in un clima festoso e riflessivo, aperto e solidale, si sia ritornati alle abituali contrapposizioni, alle incomunicabilità, alle estreme partigianerie della politica quotidiana.
Quel lievito di nuova consapevolezza e responsabilità condivisa che ha fatto crescere le celebrazioni del Centocinquantenario continuerà a operare sotto la superficie delle chiusure e rissosità distruttive, e non favorirà i seminatori di divisione, gli avversari di quel cambiamento di cui l’Italia e gli italiani hanno bisogno per superare le ardue prove di oggi e di domani.
Giorgio Napolitano
* Avvenire, 23.11.2011
2011, c’era bisogno di una scossa nazionale
di GIORGIO NAPOLITANO *
Caro Direttore,
il suo giornale ha il merito di essere stato, fin dal concepimento di un programma di celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità, tra i soggetti (anche lei personalmente) che più hanno creduto nella straordinaria importanza dell’occasione che si presentava e dell’impegno che andava esplicato per un sostanziale rafforzamento delle ragioni e del sentimento del nostro «stare insieme» come italiani - nazione - Stato e cittadini.
La quantità e qualità delle iniziative che si sono succedute - tra le quali un particolare spicco hanno assunto quelle promosse a Torino - ci hanno detto che erano insieme maturata un’esigenza e insorta una disponibilità largamente condivise. C’era bisogno di una scossa nazionale unitaria di fronte alle difficoltà, alle derive, agli scoramenti che colpivano il nostro Paese e alle prove sempre più ardue che lo attendevano (e lo attendono).
Ritengo che il quasi imprevedibile successo delle celebrazioni, non ancora del tutto concluse, abbia lasciato un segno profondo, anche contribuendo al crearsi di condizioni più favorevoli per affrontare con fiducia una nuova inedita e incoraggiante fase della vita politico-istituzionale italiana.
* La Stampa, 20/11/2011
STORIA D’ITALIA, 1994-2011: LA COSTITUZIONE, LE REGOLE DEL GIOCO, E IL "MENTITORE" ISTITUZIONALIZZATO ... CHE GIOCA DA "PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA" CON IL LOGO - PARTITO DI "FORZA ITALIA" E DI "POPOLO DELLA LIBERTA’"!!!
(...) I margini di successo sono tanto più ridotti, come ha rilevato il Presidente della Repubblica, dopo anni di contrapposizione e di scontri nella politica nazionale" (...)
Una nuova storia per un Paese pronto a cambiare
Ci è già capitato di rimboccarci le maniche dopo le macerie della guerra. È la sfida che dobbiamo vincere anche oggi
di Clara Sereni (l’Unità, 14.11.2011)
Non c’è dubbio: se abitassi ancora a Roma, sabato sera sarei stata di fronte al Quirinale, a cantare e applaudire, a manifestare soprattutto gratitudine nei confronti del Presidente della Repubblica, di cui ci sentiamo in qualche modo tutti un po’ figli: perché lui si è costituito in Padre della Patria.
Da lui ci siamo sentiti protetti, e ne avevamo davvero bisogno. La sua tranquilla durezza nell’indicare la strada da percorrere è stata - è - un’assunzione di responsabilità tremenda che ci ha ricondotto tutti alla realtà, fuori da perifrasi e bizantinismi. Come quando un padre ti prende per mano, la tiene saldamente nella sua e - magari strattonandoti un po’ - ti fa incamminare nella direzione che serve.
Invece davanti a palazzo Grazioli probabilmente non sarei andata, perché malgrado le monetine io non le abbia mai tirate di fronte al Raphael in quel certo giorno idealmente c’ero anch’io, e non ne sono fiera, per quella rabbia nei confronti di Craxi che aveva dentro un elemento di violenza e ferocia. Lo stesso che ho sentito crescere dentro di me per ogni insulto, per ogni menzogna, e che nella gioia di ieri sera, per fortuna, non ho visto. E lo considero un piccolo miracolo, il segno di una maturità che non ero certa avessimo conquistato.
Oggi siamo in un altro mondo, dentro un’altra storia. In qualche modo più vicina, se è possibile un paragone, alla fine del fascismo che non ad eventi che la mia generazione ha vissuto in prima persona: come se martedì la maggioranza abbia vissuto il proprio 25 luglio, fra sabato e oggi stia accadendo qualcosa che assomiglia all’8 settembre, ma poi toccherà a tutti noi arrivare fino al 25 aprile. È facile obiettarmi che quel primo Cavaliere ha portato l’Italia in guerra, e che il secondo Cavaliere non ci lascia con i carri armati nelle strade: certo, ma le metafore e i parallelismi sono sempre approssimativi, la storia non si ripete mai nello stesso modo, anche se si può dire senza tema di smentita che i cavalieri, a questo nostro Paese, non portano fortuna. Del resto, mi sembra che almeno due elementi ci riportino a quei tempi, a quelle date, a quelle sfide. A tempi di guerra.
Intanto, perché la crisi in cui ci troviamo è una ferita, perdiamo sangue e le trasfusioni non bastano mai. Poi, perché il panorama che vediamo è di devastazione, di macerie: fisiche (lo scempio del territorio e le sue conseguenze), materiali (l’economia non è solo questione di banche, riguarda quel che riusciamo a mettere nel piatto oggi e domani e in futuro), istituzionali (Costituzione e Parlamento così strapazzati e stiracchiati non li avevamo mai visti), morali. E forse nel novero della macerie ho dimenticato qualcosa. Gli italiani sono come le olive, capaci di tirar fuori il meglio di sé quando sono sotto pressione, dunque credo che ce la faremo anche stavolta, e anche bene: le energie e le competenze dissipate in questi anni non sono perdute per sempre, si può ben tornare a coltivarle e farle crescere. Ma c’è almeno un elemento di difficoltà, rispetto al secondo dopoguerra: allora eravamo un Paese giovane, mentre ora siamo invecchiati e male.
E inoltre allora ereditavamo una struttura statuale devastata e fortemente inquinata e condizionata dal fascismo. Certo, niente di paragonabile a oggi. Eppure non possiamo dimenticare che i bombardamenti più duri hanno colpito in questi anni proprio le strutture portanti dello Stato: il Parlamento, l’istruzione e la cultura, la magistratura, il lavoro, il farsi stesso di leggi e provvedimenti.
Ci vuole lucidità, nell’affrontare tutto questo: non cedere al panico, non aspettarsi miracolistiche vie d’uscita. Prodi (che continuo a ritenere il miglior presidente del Consiglio che l’Italia abbia avuto) pagò la delusione di aspettative messianiche non suscitate certo da lui: vediamo di non ripetere l’errore. L’auspicabile governo Monti può cominciare a fare un primo ordine, e sarà già molto se riuscirà a far questo da qui alla scadenza naturale della legislatura - e insisto su naturale. Dopo, toccherà a tutti noi - di fronte a un panorama un po’ sgombrato dalle macerie - ricominciare a progettare. Sapendo di dover smettere di essere figli e farci compiutamente adulti. Sapendo di doverci liberare con un’analisi seria delle cellule di berlusconismo che si sono radicate dentro di noi, nessuno escluso. Con le radici profonde del fascismo l’Italia non ha mai fatto i conti fino in fondo, e non smettiamo di pagarne le conseguenze; ma proprio perché ne abbiamo già fatto l’esperienza, perché su questo nodo mai sciolto tante speranze si sono infrante e tanto dolore è nato, stavolta possiamo non ripetere l’errore. Se ne saremo capaci, allora sì che veramente potremo festeggiarci a pieno titolo, ed essere soggetti di una Storia nuova.
Un’inchiesta sull’inchiesta
Perché uomini di governo vanno da Bisignani a ricevere istruzioni? Perché sono disorientati o perché il vero potere è altrove? L’opposizione dovrebbe saper rispondere a questa domanda
di Furio Colombo (il Fatto, 26.06.2011)
“Perché uno come Gianni Letta, che ha un ruolo rilevante, direi eccezionale, nel governo del Paese e nelle relazioni istituzionali, deve sapere da Bisignani se nei suoi confronti ci sono o no indagini giudiziarie ? Perché ministri in carica vanno nell’ufficio di Bisignani a chiedere consigli, a ricevere istruzioni e segnalazioni per incarichi pubblici?". Sto citando da un articolo di Emanuele Macaluso (Il Riformista, 22 giugno) perché la sequenza di domande da lui proposta ci porta nell’occhio del tifone. Stiamo assistendo a un muoversi frenetico di personaggi influenti sotto e sopra la linea di galleggiamento delle principali istituzioni, un andare e venire poco chiaro e poco spiegabile fra il sottofondo della Repubblica e gli apparenti titolari del potere.
TUTTI I PEZZI del gioco, qualunque sia il gioco, sono in movimento, si spostano o vengono spostati, si espongono o vengono spinti ad esporsi, ascoltano, non si capisce da chi e si confidano, non si capisce con chi. Qui mi discosto dalle conclusioni di Macaluso che dice, accantonando le sue stesse domande: "Ci sono sempre stati dei Bisignani, perché lo Stato è debole". È vero, ma ciò che sta accadendo è molto di più. Si è scoperto che, nelle vene della politica, è in circolazione un batterio misterioso che ha più forza del potere, nel senso che fa apparire l’intera collezione delle persone di potere come ombre a cui si può sempre cambiare (o far cambiare) posizione, dislocazione, funzione, decisione.
È possibile che Bisignani sia l’artefice di tanta autorità operativa, che sia il punto da cui emanano ordini e comando, secondo un disegno del dinamico ex giornalista che ha abilmente messo le mani su leve che altri, pur vicini al potere, non avevano notato? Poiché so, fin da ora, che il percorso giudiziario, per quanto accurato e meticoloso, ci dirà molto sul modo di operare (ed eventualmente di violare la legge) di Bisignani, ma poco o niente su “chi è Bisignani?” e “perché si va da Bisignani a chiedere istruzioni per esercitare il potere?”. Non resta che un altro percorso, un percorso narrativo .
Qui comincia il racconto, con la dovuta avvertenza che esso si basa sulla pura immaginazione del narratore e che non ha nulla a che fare con documenti e rivelazioni. Nel racconto, il vivace ex giornalista Bisignani viene così intensamente frequentato non perché abbia o rappresenti il potere, o partecipi al potere, o possa dare il giusto consiglio o mettere una buona parola.
Bisignani è un raccordo necessario. Chi deve saperlo sa che si passa attraverso di lui. Non come luogo di saggezza, di esperienza e di eventuale favore, ma come camera di consultazione, ascolto o confessione con un potere che conta.
Un potere o il potere? La domanda è romantica. Nessun potere è il potere. Ma certo la camera di ascolto e conversazione a cui si accede tramite Bisignani conta abbastanza perché il ministro Stefania Prestigiacomo "si rovini" facendosi intercettare al telefono di Bisignani. Quel rischio, forse, non è temuto davvero. Forse è un modo di mostrare il giusto comportamento. A chi? Poiché, come il lettore intuisce, il narratore non ha la risposta finale deve prendere tempo. In quel tempo dobbiamo inserire gli incontri, che non possono essere furtivi e le telefonate, che non possono essere ingenue, del sottosegretario Letta (foto) con l’agile Bisignani.
LETTA È UNA persona saggia, niente affatto impulsiva, capace di una attenzione ferrea e ininterrotta al filo dei suoi rapporti, molti dei quali, comprensibilmente, coperti da discrezione accurata. Non sembra, valutando il personaggio nell’insieme, che il rapporto con Bisignani sia stato un passo falso che interrompe in un punto la sequenza perfetta di ciò che si fa ma non si deve sapere. Sembra una necessità, o così la racconterei se scrivessi questo racconto. Voglio dire: questo tipo di potere terminale che sta al di là e al di sopra del potere fatto di figure e di simboli che potremmo chiamare (ma solo nel racconto) i prestanome, esige un certo rispetto delle forme. Ciò che è dovuto è dovuto. Rimane nell’ombra ciò che deve rimanere nell’ombra. Evidentemente la folla dei potenti-impotenti (nel senso che rappresentano molto e decidono poco) è bene che abbia costantemente la misura del proprio limite e si conformi senza impropri e sconsigliabili gesti di ridicola ribellione.
QUANDO POI entrano in scena personaggi dei Servizi segreti che, a nome e per conto del predetto Bisignani, si recano a conferire con il parlamentare che presiede la commissione di controllo sui Servizi segreti, il narratore si persuade, pur in assenza di evidenze documentali, di essere sulla strada giusta. C’è qualcosa che conta oltre la siepe, cose che noi cittadini non vediamo e non sappiamo, ma che evidentemente smuovono molto e cambiano molto, tanto che fanno correre di qua e di là dei generali appena entrati in possesso delle presunte chiavi della Repubblica.
Se ti è accaduto di avere visto alla Camera Silvio Berlusconi, il 22 giugno, esaltare se stesso, con un discorso identico al 1993, al 1994, al 2001, al 2008, e hai appena notato (e fatto notare in aula) che per lui i deputati della Lega non applaudono e, al momento dell’ovazione, nessuno di loro si alza in piedi per lui, una cosa sai e constati: Berlusconi non è e non ha il potere. E il trucco (persino nel senso cosmetico) non funziona più. “Perché Gianni Letta, che ha un ruolo rilevante, deve sapere da Bisignani...”, si domanda Macaluso nell’articolo che ho citato all’inizio. Ma Letta è Berlusconi. Dunque, fino a questo punto abbiamo un indizio prezioso per la versione narrativa che ho proposto. Continua Macaluso, che di politica ne ha vista tanta: “Perché ministri in carica vanno da Bisignani per ricevere istruzioni?”. Perché sono deboli e disorientati o perché il potere è altrove? Il narratore si ferma qui. Ma chi guida l’opposizione deve saper rispondere a questa domanda.
Napolitano: "In Italia troppa partigianeria
E i leader politici non siano gelosi di me" *
ROMA - In Italia c’è un eccesso di partigianeria politica. Lo ha detto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel suo incontro stamattina con i giornalisti della stampa estera.
All’incontro ha partecipato una rappresentanza di giornalisti di diverse testate internazionali e secondo quanto si è appreso il capo dello stato avrebbe fatto riferimento, come gli è capitato altre volte, a una partigianeria politica esasperata usando il termine inglese "hyperpartisanship".
"Penso che non ci sia per i politici italiani motivo di ingelosirsi, perchè viaggiamo su pianeti diversi, non ci sono comparazioni possibili, che non siano invece arbitrarie", ha aggiunto il capo dello Stato a proposito del suo ruolo. Spiegando poi che il compito del Colle è quello di "rappresentare l’unità nazionale" ed è "completamente diverso da quello dei leader politici".
* la Repubblica, 23 maggio 2011
La dignità istituzionale
di Carlo Galli (la Repubblica, 07.05.201)
Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano si è dimostrato ancora una volta l’autentico custode della Costituzione e delle regole, ovvero dell’interpretazione parlamentare - l’unica che la Carta consente - della politica italiana.
Con l’osservare che i nuovi sottosegretari appartengono a un gruppo politico che non esisteva al momento delle elezioni, e che quindi il premier devono presentarsi in Aula a riferirne, e che i presidenti delle Camere possono considerare se il Parlamento debba rilegittimare col voto di fiducia quello che a tutti gli effetti è un nuovo governo, il Capo dello Stato esercita la difesa attiva, non meramente notarile, della Costituzione.
Questa difesa consiste più o meno in questo ragionamento: se è vero che parecchi parlamentari - sulla base del principio costituzionale del mandato libero e dell’indipendenza dell’eletto dagli elettori - hanno maturato l’intimo convincimento di uscire dai partiti nelle cui liste sono stati eletti, lo possono certamente fare. Ma se danno vita a un nuovo gruppo parlamentare, e se ora questo gruppo, dopo avere ripetutamente votato insieme alla maggioranza, entra a far parte del governo, allora sarebbe necessario che il Parlamento tornasse a votare la fiducia al governo. Che è nuovo non perché ci sia stata una crisi formale, ma perché è politicamente non solo sorretto da una nuova maggioranza ma composto da nuovi partiti.
I numeri per il voto, se ci sarà, presumibilmente si troveranno: a questo, del resto, servono i Responsabili, che appunto così si guadagnano la ricompensa ministeriale. Ma il valore politico del gesto di Napolitano si misura in opposizione - implicita ma evidentissima - alla vera ideologia politica che anima Berlusconi. Che da sempre, oltre che ostile ai magistrati e alle istituzioni di garanzia come la Corte Costituzionale, è anti-parlamentare - si ricordino le proposte di ridurre il voto ai soli capigruppo, nonché la polemica ininterrotta verso "il teatrino della politica" - , ed è tutta spostata verso il rafforzamento dei poteri del governo e soprattutto verso la dimensione elettorale, interpretata in senso populistico-plebiscitario.
Ovvero, per Berlusconi le elezioni sono il momento della verità in cui un popolo - spaccato in due dalla sua propaganda - si conta, e conferisce al Capo eletto (l’Unto del Signore) tutto il potere, facendone il dominus delle istituzioni. Cioè non solo del governo - come se si fosse eletto direttamente il premier - ma anche del Parlamento: che in quest’ottica è uno spazio subalterno, di servizio, perché la "vera" espressione della sovranità non sono per Berlusconi i parlamentari ma colui che - come individuo singolo - è risultato vincitore delle elezioni. Il Parlamento, semmai, è una "spoglia", un insieme di "posti" con cui, a spese dei contribuenti, si compensano i seguaci (che una legge pessima vuole siano blindati in una lista decisa dal Capo).
Nessuna centralità del Parlamento, quindi, ma solo supremazia (sovranità) del leader vittorioso. La centralità del Parlamento - di cui l’indipendenza dell’eletto è il cuore, poiché quella indipendenza significa che il baricentro della politica è nell’istituzione-Parlamento e non negli interessi sociali in grado di far eleggere questo o quello - è sempre stata respinta da Berlusconi, che alla mediazione preferisce l’immediatezza, alla discussione la decisione. Solo in un caso quella centralità - con l’indipendenza del parlamentare che ne consegue - è stata difesa: cioè nella fase in cui si è proceduto al "recupero" dei parlamentari per ricostituire la maggioranza, vulnerata dall’uscita di Fini e dei suoi.
A quel punto, a giustificare i molti movimenti di molti parlamentari, si è fatto sentire un debole accenno al mandato libero e ai valori istituzionalmente fondanti del liberalismo: accenno incongruo, spaesato, strumentale al libero dispiegarsi della vera idea e della vera pratica del potere che ha Berlusconi: il dominio incontrastato, con ogni mezzo, per affermare la propria volontà. Si diceva "mandato libero" e si doveva intendere "compravendita" - almeno altro con le cariche nel governo che ora, a riprova, vengono elargite - .
Il capo dello Stato ha quindi fatto quello che era in suo potere per ridare dignità alle istituzioni, ovvero per ribadire che il Parlamento non è nella disponibilità del premier, non è lo spazio delle sue scorribande indisturbate; che è soggetto e non oggetto della politica. Che quindi il Parlamento deve prendersi la responsabilità dei responsabili, non limitarsi a registrarne l’ascesa agli ambìti posti di sottosegretari. Vedremo se altri si prenderanno a cuore quella dignità, che è anche la dignità di tutti i cittadini.
“Mi stupisce molto il silenzio di Napolitano”
intervista a Roberta De Monticelli,
a cura di Caterina Perniconi (il Fatto Quotidiano, 6 maggio 2011)
“Mi mancano quasi le parole per articolare il disgusto per quelle persone che si arrogano il diritto di parlare di fronte ai cittadini dopo averne sbeffeggiato la dignità”. La descrizione fatta da Roberta De Monticelli, docente di Filosofia della persona all’Università Vita-Salute del San Raffaele, calza a pennello sui nuovi nove sottosegretari Responsabili.
Professoressa, si riferisce a loro?
Certo. Ieri abbiamo assistito al perfezionamento di uno scambio palesemente annunciato. Sa qual è la cosa che mi stupisce di più?
Dica.
Che nessuna voce istituzionale si levi contro una pratica così difforme dal ruolo delle istituzioni stesse.
Si riferisce al capo dello Stato?
Per nessuna istituzione intendo davvero tutte quelle che hanno una voce pubblica, compresa la stampa, e che non sollevano la questione. Se poi mi chiede delle istituzioni preposte al controllo del funzionamento della democrazia, come la Presidenza della Repubblica, le dico di sì, certo, questo silenzio mi stupisce molto.
Nel suo libro “La questione morale”, lei affronta il problema della corruzione. E spiega che la maggioranza degli italiani approva e nutre quest’impresa. Non c’è più nessuno in grado di indignarsi?
Purtroppo è scomparso anche quel velo d’ipocrisia che nascondeva ciò che ormai è conclamato. E si è rotto il muro della sanzione che spetta all’opinione pubblica. In questi casi il consenso informato e legittimante dei cittadini dovrebbe esercitare una sanzione morale. Se questo non avviene siamo in un regime senza controllo. Di certo i limiti vengono travalicati di più sotto le elezioni. Ma il controllo dei cittadini non deve ridursi al solo potere elettorale. Dovrebbero levare la loro voce più spesso.
Lei, per esempio, lo ha fatto quando il rettore della sua Università offrì a Barbara Berlusconi, durante la cerimonia di laurea, la possibilità di restare a lavorare in ateneo.
In quel caso ho protestato per la mancanza di sensibilità del rettore nei confronti degli altri laureati. E per l’assenza di un criterio di merito nell’auspicio della formazione di un nuovo professore.
Quale crede sia il criterio con cui deve essere plasmata la classe dirigente di questo paese, dall’Università fino ai ruoli di governo?
Credo che ormai sia chiaro come in Italia, a qualsiasi livello, il meccanismo di una civiltà di sudditi si sia sostituito a quello di una civiltà di cittadini. Di questo fanno parte la selezione e il reclutamento, che non sono fatti in base a criteri di merito e trasparenza, ma a quelli di consorteria e appartenenze. Va invertita completamente la rotta.
Che giudizio si sente di dare allo spettacolo che ci stanno offrendo il governo e il Parlamento?
Mi mancano quasi le parole per articolare il disgusto per quelle persone che si arrogano il diritto di parlare di fronte ai cittadini dopo averne sbeffeggiato la dignità. Fornire appoggi politici in cambio di posizioni di vantaggio personale è quanto di più lesivo possa esistere per l’etica pubblica. E lo estendo a tutti coloro che non reagiscono, alzano le spalle e pensano ‘è sempre stato così’. Perché non è assolutamente vero e la nostra storia ce lo insegna.
La lettera del Capo dello Stato a Vietti *
ROMA - Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha inviato al Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, Michele Vietti, la seguente lettera, resa nota dall’Ufficio Stampa del Quirinale:
"Il prossimo 9 maggio si celebrerà al Quirinale il Giorno della Memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice. Quest’anno, il nostro omaggio sarà reso in particolare ai servitori dello Stato che hanno pagato con la vita la loro lealtà alle istituzioni repubblicane. Tra loro, si collocano in primo luogo i dieci magistrati che, per difendere la legalità democratica, sono caduti per mano delle Brigate Rosse e di altre formazioni terroristiche. Le sarò perciò grato se - a mio nome - vorrà invitare alla cerimonia i famigliari dei magistrati uccisi e, assieme, i presidenti e i procuratori generali delle Corti di Appello di Genova, Milano, Salerno e Roma, vertici distrettuali degli uffici presso i quali prestavano la loro opera Emilio Alessandrini, Mario Amato, Fedele Calvosa, Francesco Coco, Guido Galli, Nicola Giacumbi, Girolamo Minervini, Vittorio Occorsio, Riccardo Palma e Girolamo Tartaglione".
"La scelta che oggi annunciamo per il prossimo Giorno della Memoria costituisce anche una risposta all’ignobile provocazione del manifesto affisso nei giorni scorsi a Milano con la sigla di una cosiddetta "Associazione dalla parte della democrazia", per dichiarata iniziativa di un candidato alle imminenti elezioni comunali nel capoluogo lombardo. Quel manifesto rappresenta, infatti, innanzitutto una intollerabile offesa alla memoria di tutte le vittime delle BR, magistrati e non. Essa indica, inoltre, come nelle contrapposizioni politiche ed elettorali, e in particolare nelle polemiche sull’ amministrazione della giustizia, si stia toccando il limite oltre il quale possono insorgere le più pericolose esasperazioni e degenerazioni. Di qui il mio costante richiamo al senso della misura e della responsabilità da parte di tutti".
* la Repubblica, 18 aprile 2011
Lettera aperta al Presidente della Repubblica on. Giorgio Napolitano
dei “ragazzi di Barbiana”
dell’11 aprile 2011
Signor Presidente,
lei non può certo conoscere i nostri nomi: siamo dei cittadini fra tanti di quell’unità nazionale che lei rappresenta.
Ma, signor Presidente, siamo anche dei "ragazzi di Barbiana". Benché nonni ci portiamo dietro il privilegio e la responsabilità di essere cresciuti in quella singolare scuola, creata da don Lorenzo Milani, che si poneva lo scopo di fare di noi dei "cittadini sovrani".
Alcuni di noi hanno anche avuto l’ulteriore privilegio di partecipare alla scrittura di quella Lettera a una professoressa che da 44 anni mette in discussione la scuola italiana e scuote tante coscienze non soltanto fra gli addetti ai lavori.
Il degrado morale e politico che sta investendo l’Italia ci riporta indietro nel tempo, al giorno in cui un amico, salito a Barbiana, ci portò il comunicato dei cappellani militari che denigrava gli obiettori di coscienza. Trovandolo falso e offensivo, don Milani, priore e maestro, decise di rispondere per insegnarci come si reagisce di fronte al sopruso.
Più tardi, nella Lettera ai giudici, giunse a dire che il diritto - dovere alla partecipazione deve sapersi spingere fino alla disobbedienza: “In quanto alla loro vita di giovani sovrani domani, non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo d’amare la legge è d’obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando avallano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate”.
Questo invito riecheggia nelle nostre orecchie, perché stiamo assistendo ad un uso costante della legge per difendere l’interesse di pochi, addirittura di uno solo, contro l’interesse di tutti. Ci riferiamo all’attuale Presidente del Consiglio che in nome dei propri guai giudiziari punta a demolire la magistratura e non si fa scrupolo a buttare alle ortiche migliaia di processi pur di evitare i suoi.
In una democrazia sana, l’interesse di una sola persona, per quanto investita di responsabilità pubblica, non potrebbe mai prevalere sull’interesse collettivo e tutte le sue velleità si infrangerebbero contro il muro di rettitudine contrapposto dalle istituzioni dello stato che non cederebbero a compromesso.
Ma l’Italia non è più un paese integro: il Presidente del Consiglio controlla la stragrande maggioranza dei mezzi radiofonici e televisivi, sia pubblici che privati, e li usa come portavoce personale contro la magistratura. Ma soprattutto con varie riforme ha trasformato il Parlamento in un fortino occupato da cortigiani pronti a fare di tutto per salvaguardare la sua impunità.
Quando l’istituzione principe della rappresentanza popolare si trasforma in ufficio a difesa del Presidente del Consiglio siamo già molto avanti nel processo di decomposizione della democrazia e tutti abbiamo l’obbligo di fare qualcosa per arrestarne l’avanzata. Come cittadini che possono esercitare solo il potere del voto, sentiamo di non poter fare molto di più che gridare il nostro sdegno ogni volta che assistiamo a uno strappo.
Per questo ci rivolgiamo a lei, che è il custode supremo della Costituzione e della dignità del nostro paese, per chiederle di dire in un suo messaggio, come la Costituzione le consente, chiare parole di condanna per lo stato di fatto che si è venuto a creare.
Ma soprattutto le chiediamo di fare trionfare la sostanza sopra la forma, facendo obiezione di coscienza ogni volta che è chiamato a promulgare leggi che insultano nei fatti lo spirito della Costituzione. Lungo la storia altri re e altri presidenti si sono trovati di fronte alla difficile scelta: privilegiare gli obblighi di procedura formale oppure difendere valori sostanziali. E quando hanno scelto la prima via si sono resi complici di dittature, guerre, ingiustizie, repressioni, discriminazioni.
Il rischio che oggi corriamo è lo strangolamento della democrazia, con gli strumenti stessi della democrazia. Un lento declino verso l’autoritarismo che al colmo dell’insulto si definisce democratico: questa è l’eredità che rischiamo di lasciare ai nostri figli.
Solo lo spirito milaniano potrà salvarci, chiedendo ad ognuno di assumersi le proprie responsabilità anche a costo di infrangere una regola quando il suo rispetto formale porta a offendere nella sostanza i diritti di tutti. Signor Presidente, lasci che lo spirito di don Milani interpelli anche lei.
Nel ringraziarla per averci ascoltati, le porgiamo i più cordiali saluti
Francesco Gesualdi, Adele Corradi, Nevio Santini, Fabio Fabbiani, Guido Carotti, Mileno Fabbiani, Nello Baglioni, Franco Buti, Silvano Salimbeni, Enrico Zagli, Edoardo Martinelli, Aldo Bozzolini
REPORTAGE
I timori di Napolitano "Così non si va avanti"
Convoca i capigruppo
per lanciare l’allarme:
e c’è chi paventa lo
scioglimento delle Camere
di PAOLO PASSARINI (La Stampa, 01/04/2011)
ROMA Per Giorgio Napolitano «è chiaro che non si può andare avanti così». Il Presidente della Repubblica lo ha detto apertamente ai capigruppo parlamentari convocati ieri al Quirinale con un’urgenza che denota la sua «estrema preoccupazione» per quella che considera una vera e propria «crisi politico-parlamentare». Ne consegue, per lui, la necessità di ricordare a tutti quanto fece già presente in una nota di meno di due mesi fa, e cioè che, se non cambiano le cose, «la stessa continuità della legislatura è a rischio».
Appena rientrato dal suo viaggio negli Usa, dove aveva spiegato agli studenti della New York University i guasti provocati dal clima di permanente «guerriglia politica» dominante in Italia, Napolitano ha avuto soltanto poche ore di sonno prima di trovarsi tra le mani i giornali italiani con i resoconti delle intemperanze parlamentari del ministro Ignazio La Russa, con tutto quello che gli è girato intorno. Atteso da un’agenda indifferente al suo «jet lag» (la visita a una mostra patriottica al Vittoriano nel pomeriggio e un concerto in serata), Napolitano è stato colto da un misto di indignazione e sgomento quando, sul finire della mattinata, è stato informato dei nuovi disordini nell’aula di Montecitorio, con tanto di lanci di oggetti cartacei da parte di membri del governo.
«Siamo in una situazione difficile di politica estera - è sbottato con un collaboratore - c’è l’allarme immigrazione, si aggrava lo scontro sulla giustizia e l’aula di Montecitorio sa solo dare spettacolo». «Uno spettacolo - ha subito aggiunto con amarezza - a cui non si può più assistere». La situazione è grave, ai cittadini si richiede un grande sforzo di coesione, e la classe dirigente della Repubblicaèattivamenteimpegnata in uno sforzo di autodelegittimazione. Inaccettabile, non solo per la «forma», ma anche, e soprattutto, «per la sostanza». E la sostanza è che siamo nel pieno di una paralisi dell’organo più importante della Repubblica, il Parlamento, che si configura, appunto, come una «crisi politico-istituzionale». Della forma si possono occupare gli organi preposti a far osservare la disciplina parlamentare. Sulla sostanza, il garante della Costituzione deve intervenire.
E così, già a tarda mattinata, Napolitano ha fatto disdire la sua partecipazione al concerto della serata e ha dato disposizioni perché venissero convocati al Quirinale tutti i capigruppo parlamentari. Un gesto eccezionale: di fatto consultazioni di tutto l’arco parlamentare come quando c’è una crisi di governo, anche se i collaboratori del Presidente respingono questo termine.
Se l’ufficio-stampa del Quirinale avevailcompito di buttare acqua sul fuoco, spiegando che il Presidente, appena rientrato dall’estero, intendeva soltanto svolgere «una ricognizione a tutto campo» di quanto era successo e che ogni valutazione era rinviata «alla fine di questa ricognizione», i rappresentanti di Pdl, Pd e Udc, ricevuti nel tardo pomeriggio (gli altri seguiranno questa mattina) hanno incontrato un Napolitano agitato come non lo avevano mai visto.
A Fabrizio Cicchitto e Maurizio Gasparri (Pdl), a Dario Franceschini e Anna Finocchiaro (Pd) e a Gianpiero D’Alia e Pier Ferdinando Casini dell’Udc il Presidente non ha taciuto nessuna delle sue considerazioni sullo «spettacolo» e sulla gravità della situazione. Lo stesso farà questa mattina coi rappresentanti della Lega, dell’Idv e degli altri gruppi minori, non nascondendo a nessuno che, in una situazione di paralisi parlamentare e crisi istituzionale, l’articolo 88 della Costituzione gli impone di considerare l’ipotesi di uno scioglimento delle Camere. Quando, il 12 febbraio scorso, prendendo a pretesto la necessità di correggere il resoconto di un giornale sul suo incontro del giorno prima con Silvio Berlusconi a proposito della vicenda Ruby, aveva prospettato le necessità di interrompere una legislatura diventata improduttiva, qualcuno scrisse che Napolitano aveva dato a Berlusconi un mese di tempo per tentare di riaggiustare la sua maggioranza e riportare la situazione alla normalità. Adesso di mesi ne sono passati quasi due e, a dispetto delle tante emergenze, aumentano la conflittualità e la paralisi.
Non si dialoga con chi insulta i giudici
di Giovanni Maria Bellu *
"La sovranità in Italia è passata dal Parlamento al partito dei giudici". (Bonn, 10 dicembre 2009). “Ci sarebbe da chiedere una commissione parlamentare che dica se, come credo io, c’è un’associazione a delinquere nella magistratura.” (29 settembre 2010, dopo la festa per il 74° compleanno). "E’ una vergogna, ormai siamo una Repubblica giudiziaria commissariata dalle procure" (Bruxelles, 2 febbraio 2011).
Sono solo alcuni tra i più recenti attacchi lanciati contro la magistratura dallo stesso presidente del Consiglio che ha appena varato la riforma "epocale" della giustizia. Quale sia lo scopo, l’abbiamo già scritto: creare un gigantesco alibi preventivo in caso di condanna per il caso Ruby. Già i maggiordomi mediatici stanno preparando il terreno alla tesi dell’eventuale condanna (per prostituzione minorile!) come ritorsione. E d’altra parte Berlusconi, nel suo protervo candore, ha immediatamente confermato quel che l’ha animato nel sostenere con tanto accanimento la riforma "epocale": il desiderio di vendicare l’Italia da Tangentopoli. E di umiliare i pubblici ministeri. Sul punto è stato esplicito: "Il pm - ha detto - per parlare con il giudice dovrà fissare l’appuntamento e battere con il cappello in mano e possibilmente dargli del lei".
L’allarmante novità è che - nonostante le parole chiarissime dette dai vertici del Pd e dell’Idv - in alcuni settori dell’opposizione stanno riemergendo i “dialoganti”, che sono in sostanza l’ala sinistra del vasto movimento dei "cerchiobottisti". Quelli che dicono: “Stiamo a vedere, sentiamo, può darsi che si tratti di una buona riforma”.
A parte il fatto che è una pessima riforma, e che i principali destinatari, i giudici, l’hanno subito qualificata come tale, credono davvero i “dialoganti” che una riforma tanto delicata per il Paese (e certo meno urgente di tante altre) possa essere fatta con un personaggio che da anni insulta la magistratura? E che lo fa dalla posizione dell’indagato e dell’imputato di fatti gravissimi? Non hanno il dubbio che questa riforma sia entrata nell’agenda politica solo perché il premier è nei guai?
E’ in atto un tentativo di rilancio dell’’idea secondo cui l’essere antiberlusconiani è una forma di “fanatismo giustizialista” e non, come dovrebbe essere ormai evidente, una banale norma di igiene civile. E’ l’idea in base alla quale prima di definire "regime" una struttura di potere che corrompe la politica, si dovrebbe attendere di essere incarcerati o mandati in esilio. L’aspetto più triste è che queste posizioni tornano a galla proprio mentre si consolida la convinzione che il governo Berlusconi-Scilipoti protrarrà l’agonia un po’ più del previsto. Che pena.
* l’Unità, 09 marzo 2011
Conflitto tra i poteri dello Stato
di Carlo Federico Grosso (La Stampa, 10.03.2011)
Oggi il Consiglio dei ministri dovrebbe varare la riforma costituzionale della giustizia. Una riforma «epocale», l’ha definita qualche giorno fa il presidente del Consiglio.
Se il Parlamento, a chiusura del lungo iter parlamentare previsto, dovesse davvero approvarla, la giustizia italiana non sarebbe, in effetti, più la stessa. Cambierebbe pelle, caratura, peso, incisività, colore. Sarebbe una giustizia del tutto diversa rispetto a quella che conosciamo.
I punti salienti della riforma dovrebbero essere, stando alle indiscrezioni, la separazione delle carriere, la spaccatura in due del Csm, l’istituzione di una «Alta corte di giustizia» destinata a gestire la disciplina dei magistrati, un diverso livello d’indipendenza a seconda che si tratti di giudici o di pubblici ministeri.
L’ elenco prosegue con la limitazione dell’obbligatorietà dell’azione penale (che diventerebbe esercitabile «secondo le priorità stabilite da una legge» votata ogni anno dal Parlamento), la polizia giudiziaria autonoma dal pubblico ministero, l’introduzione della responsabilità civile dei magistrati che sbagliano.
Ebbene, nel suo insieme questo complesso di innovazioni determinerebbe una profonda alterazione del rapporto oggi esistente fra i poteri dello Stato. L’idea liberale di una magistratura destinata ad esercitare in modo indipendente il controllo di legalità sull’attività dei cittadini, soggetta soltanto al rispetto della legge, cederebbe il passo all’idea di una magistratura condizionata dal potere politico, ed in particolare dal potere esecutivo. Si realizzerebbe in modo traumatico, e fortemente limitativo delle prerogative della giurisdizione, quel «riequilibrio» fra i poteri che viene da tempo vagheggiato da una parte consistente della nostra classe politica.
Soprattutto, una riforma così configurata rischierebbe d’incidere profondamente sull’autonomia delle Procure della Repubblica e, pertanto, sull’esercizio dell’azione penale da parte dell’ordine giudiziario. Pensate: il pubblico ministero, secondo quanto si prefigurerebbe, non farebbe più parte di un «ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere dello Stato», ma costituirebbe, più semplicemente, un «ufficio» al quale la legge «assicura l’indipendenza»; esso non sarebbe più il protagonista delle indagini, ma dovrebbe sottostare alle iniziative ed alle valutazioni di una polizia giudiziaria resa autonoma dal suo ufficio e gerarchicamente dipendente dal governo; esso non sarebbe più libero di scegliere le priorità nelle indagini penali, ma dovrebbe comunque sottostare alle priorità dettate dal Parlamento.
Si consideri, d’altronde, la profonda modificazione che subirebbe il principio di indipendenza dell’ordine giudiziario, considerato a ragione cardine dello Stato di diritto. Oggi il principio d’indipendenza della magistratura è formulato in maniera piena dalla Costituzione, che stabilisce che «la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere», e prevede, a presidio concreto di questo enunciato, un Csm forte ed autorevole, presieduto dal Capo dello Stato. Domani, se la riforma avviata dal governo dovesse essere approvata, s’indebolirebbe il principio generale d’indipendenza (riconoscendo la funzione di potere dello Stato autonomo dagli altri poteri soltanto alla magistratura giudicante), e, soprattutto, si vanificherebbe il presidio concreto dell’indipendenza dell’ordine giudiziario costituito dal sistema di autogoverno della magistratura.
Dividere, spaccare, significa già di per sé indebolire. S’ipotizza, peraltro, non soltanto di dividere in due il Csm, ma, altresì, di privarlo dei suoi poteri più nobili e incisivi, attraverso i quali esso ha potuto, negli anni, costituire uno strumento di tutela efficace dei singoli magistrati e della magistratura nel suo insieme ed essere voce autorevole dell’ordine giudiziario, riducendolo, nei fatti, a mera istituzione burocratica per la gestione dei trasferimenti e delle promozioni dei magistrati. Davvero una iniziativa utile per il Paese?
C’è un ulteriore profilo che, su tutt’altro piano, preoccupa. Si prevede che i due Csm siano modificati nella loro composizione, con incremento dei componenti laici di designazione politica, si prevede di istituire una «Alta corte di giustizia» anch’essa a maggioranza «laica», si prevede di introdurre la responsabilità civile dei magistrati che sbagliano. Talune di queste innovazioni di per sé potrebbero anche essere apprezzate. Non c’è tuttavia il rischio che esse, ancora una volta considerate nel loro insieme, e sommate alle altre novità proposte, realizzino, nei fatti, una intimidazione destinata a rendere i magistrati timorosi, e pertanto più timidi nel perseguire i reati e i loro autori?
Tutti riteniamo che la giustizia italiana oggi non funzioni come dovrebbe e che sia pressante l’esigenza di una riforma in grado di restituirle efficienza, rapidità e credibilità. Per soddisfare questa esigenza prioritaria servono peraltro incisive modificazioni dei codici e della legislazione ordinaria. Non serve sicuramente l’azzardo di una modifica dei principi costituzionali.
Intervento del Presidente Napolitano all’incontro su "La lingua italiana fattore portante dell’identità nazionale" nel 150 dell’Unità.
Palazzo del Quirinale, 21/02/2011 *
Questo nostro incontro non può chiudersi senza un caloroso ringraziamento, come quello che io voglio rivolgere alle prestigiose istituzioni il cui apporto ci è stato essenziale, al Presidente Amato e agli studiosi, i cui interventi hanno scandito un’intensa riflessione collettiva su aspetti cruciali del discorso sulla nostra identità e unità nazionale, e in pari tempo agli artisti le cui voci hanno fatto risuonare vive e a noi vicine pagine specialmente significative della poesia, della letteratura e della cultura italiana. Tra le figure dei primi e dei secondi, degli studiosi e degli interpreti, si è collocata - da tempo, come sappiamo, con straordinario ininterrotto impegno - quella di Vittorio Sermonti, dando voce alla Commedia di Dante.
Ringrazio dunque in egual modo tutti ; e non posso far mancare un vivo ringraziamento anche per chi ha curato la splendida raccolta, di alto valore bibliografico, da noi ospitata qui in Quirinale, di testi dei capolavori ed autori cari a Francesco De Sanctis. La cui storia ci appare più che mai rispondente al proposito - come poi disse Benedetto Croce - "di fare un grande esame di coscienza e di intendere la storia della civiltà italiana".
Non mi sembra eccessivo aggiungere - ed è il mio solo commento - che la iniziativa di questa mattina è risultata esemplarmente indicativa del carattere da dare alle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, la cui importanza va ben al di là di ogni disputa sulle modalità festive da osservare o sulle diverse propensioni a partecipare manifestatesi. Come tutti hanno potuto constatare, non c’è stata qui alcuna enfasi retorica, alcuna esaltazione acritica o strumentale semplificazione.
Si è discusso sulla datazione del configurarsi e affermarsi di una lingua italiana e del suo valore identitario in assenza - o nella lentezza e difficoltà del maturare - di una unione politica del paese.
Senza nascondersi la complessità del tema della nazione italiana, delle sue più lontane radici e del suo rapporto col movimento per la nascita, così tardiva, di uno Stato nazionale unitario, si è messo in evidenza quale impulso sia venuto dalla forza dell’italiano come lingua della poesia, della letteratura, e poi del melodramma al crescere di una coscienza nazionale. Il movimento per l’Unità non sarebbe stato concepibile e non avrebbe potuto giungere al traguardo cui giunse se non vi fosse stata nei secoli la crescita dell’idea d’Italia, del sentimento dell’Italia. De Sanctis richiama Machiavelli che "propone addirittura la costituzione di uno grande stato italiano, che sia baluardo d’Italia contro lo straniero" e aggiunge : "Il concetto di patria gli si allarga. Patria non è solo il piccolo comune, ma è tutta la nazione". La gloria di Machiavelli - conclude De Sanctis - è "di avere stabilito la sua utopia sopra elementi veri e durevoli della società moderna e della nazione italiana, destinati a svilupparsi in un avvenire più o meno lontano, del quale egli tracciava la via".
Quell’avvenire era ancora molto lontano. Secoli dopo, nella prima metà dell’Ottocento, si sarebbe determinato - è ancora De Sanctis che cito, dal capitolo conclusivo della sua "Storia", - "il fatto nuovo" del formarsi "nella grande maggioranza della popolazione istruita", di "una coscienza politica, del senso del limite e del possibile" oltre i tentativi insurrezionali falliti, oltre "la dottrina del «tutto o niente»".
E se con il progredire della coscienza e dell’azione politica, si giunge a "fare l’Italia" nel 1861, fu tra il XIX e il XX secolo, come qui ci si è detto in modo suggestivo e convincente, che cominciarono a circolare libri capaci di proporsi "come strumenti di educazione e formazione della rinata Italia". Tuttavia, la strada da fare restò lunga.
A conferma della nostra volontà di celebrare il centocinquantesimo guardandoci dall’idoleggiare lo Stato unitario quale nacque e per decenni si caratterizzò, si è stamattina qui crudamente ricordato come solo nel primo decennio del ’900 - nel decennio giolittiano - si produsse una svolta decisiva per la crescita dell’istruzione pubblica, per l’abbattimento dell’analfabetismo, e più in generale, grazie alla scuola, per un progressivo avvicinamento all’ideale - una volta compiuta l’unità politica - di una lingua scritta e parlata da tutti gli italiani. Di qui anche lo sviluppo di una memoria condivisa nel succedersi delle generazioni.
Dopo quella svolta, il cammino fu tutto fuorché lineare - in ogni campo d’altronde, per le regressioni che il fascismo portò con sé. Ed è dunque giusto, nel bilancio dei 150 anni dell’Italia unita, porre al massimo l’accento su quel che ha rappresentato l’età repubblicana, a partire dall’approccio innovativo e lungimirante dei padri costituenti, che si tradusse nella storica conquista dell’iscrizione nella nostra Carta del principio dell’istruzione obbligatoria e gratuita per almeno otto anni. Molti princìpi iscritti in Costituzione hanno avuto un’attuazione travagliata e non rapida : ciò non toglie che essi abbiano ispirato in questi decenni uno sviluppo senza precedenti del nostro paese e che restino fecondi punti di riferimento per il suo sviluppo a venire.
Non idoleggiamo il retaggio del passato e non idealizziamo il presente. I motivi di orgoglio e fiducia che traiamo dal celebrare l’enorme trasformazione e avanzamento della società italiana per effetto dell’Unità e lungo la strada aperta dall’Unità, debbono animare l’impegno a superare quel che è rimasto incompiuto (siamo - ha detto Giuliano Amato - Nazione antica e al tempo stesso incompiuta) e ad affrontare nuove sfide e prove per la nostra lingua e per la nostra unità. E infatti anche di ciò si è parlato ampiamente nel nostro incontro guardando sia alle ricadute del fenomeno Internet sulla padronanza dell’italiano tra le nuove generazioni sia alle spinte recenti per qualche formale riconoscimento dei dialetti. Eppure, a quest’ultimo proposito, l’Italia non può essere presentata come un paese linguisticamente omologato nel senso di una negazione di diversità e di intrecci mostratisi vitali. E nessuno può pretendere,peraltro, di oscurare l’unità di lingua cosi faticosamente raggiunta.
Bene, in questo spirito possiamo e dobbiamo mostrarci - anche presentando al mondo quel che abbiamo costruito in 150 anni e quel che siamo - seriamente consapevoli del nostro ricchissimo, unico patrimonio nazionale di lingua e di cultura e della sua vitalità ; e seriamente consapevoli del duro sforzo complessivo da affrontare per rinnovare - contro ogni rischio di deriva - il ruolo che l’Italia è chiamata a svolgere in una fase critica, e insieme ricca di promesse, di evoluzione della civiltà europea e mondiale.
Ho detto "seriamente" : perché in fin dei conti è proprio questo che conta, celebrare con serietà il nostro centocinquantenario. Come avete fatto voi protagonisti di questo incontro. Ancora grazie.
* PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA: http://www.quirinale.it/elementi/Continua.aspx?tipo=Discorso&key=2094
In visita ufficiale nella ’Città dei Mille’
Napolitano: ’’Uscire da spirale insostenibile di contrapposizioni’’
L’intervento a Bergamo: ’’Non è mio compito interferire nella dialettica politica’’. *
Bergamo, 2 feb. (Adnkronos) - "Il mio compito è rappresentare l’unità nazionale che si esprime nel complesso delle istituzioni, le istituzioni sono il mio solo punto di riferimento. Non è mio compito intervenire e interferire nella dialettica delle forze politiche e sociali". Lo ha detto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano parlando nell’aula del Consiglio comunale di Bergamo all’inizio della sua visita ufficiale nella ’Città dei Mille’.
’’Per portare avanti riforme che sono all’ordine del giorno, e mi rivolgo a quanti sollecitano decisioni annunciate in nome del federalismo e ormai giunte a buon punto, per portare avanti l’attuazione di quel nuovo titolo V della Costituzione - ha proseguito il capo dello Stato - che fu condotto dieci anni fa all’approvazione del Parlamento e del Corpo elettorale da una maggioranza di centrosinistra ed è stato avviato a concrete applicazioni da una maggioranza di centrodestra, è stato decisivo e resta oggi decisivo un clima corretto e costruttivo di confronto in sede istituzionale’’, proprio per questo conclude, ’’si deve uscire da una spirale insostenibile di contrapposizioni, arroccamenti e prove di forza.
’’La mia generazione ha visto la guerra e l’Italia spaccata ma non ci scoraggiammo - ha aggiunto Napolitano rivolgendosi direttamente ai giovani per la celebrazione dei 150 anni dell’Unità d’Italia - e nonostante le divisioni politiche e ideologiche si riuscì a fare la Costituzione nel segno dell’Unità. A questo collaborarono forze politiche distanti che trovarono un punto di incontro’’. ’’A voi studenti chiedo di contribuire a costruire le condizioni per migliorare il Paese e per ricreare quel clima positivo che va proprio nell’interesse dei giovani e dell’Italia in un mondo sempre più competitivo’’, ha continuato il presidente della Repubblica.
Napolitano ha poi sottolineato che "il confronto politico e sociale nelle istituzioni locali è più pacato rispetto a quello che c’è nella Capitale dove ci sono più contrasti. Questo io lo vedo positivamente perché è indispensabile uno sforzo collettivo nell’interesse del Paese".
Il presidente della Repubblica ha lungamente ricordato il pensiero del ’padre’ del federalismo italiano Carlo Cattaneo ricordando che Cattaneo si dichiarava contrario ’’alla fusione e non all’unità’’ e riteneva che ’’una pluralità di centri viventi, stretti insieme dall’interesse comune, dalla fede data, dalla coscienza nazionale’’ fosse essenziale.
’’L’Unità della Nazione e dello Stato ha più che mai senso proprio in un mondo globalizzato e frammentato nel quale un’Italia divisa e una macro regione italiana sarebbe solo un irrilevante frammento’’, ha detto il capo dello Stato.
Napolitano ha poi sottolineato che ’’l’Unità nazionale nella sua ricchezza del pluralismo e delle sue autonomie e l’unità europea egualmente concepita, sono leve insostituibili per il ruolo dell’Italia intera nel nuovo contesto mondiale, sono leve irrinunciabili per mettere a frutto tutte le nostre potenzialità, soprattutto quelle oggi così frustrate e perfino poco ascoltate, delle nuove generazioni’’.
’’Le celebrazioni iniziate nel 2010 e in via di sviluppo nel 2011 vogliono essere e saranno, tale è il mio convincimento e il mio impegno, un modo di ritrovarci in quanto italiani nello spirito che ci condusse 150 anni fa a unirci come Nazione e come Stato. Saranno anche un’occasione per una riflessione comune sui travagli e sulle prove che abbiamo vissuto insieme - ha concluso il capo dello Stato - e sui problemi che abbiamo davanti’’.
* ADNKRONOS ultimo aggiornamento: 02 febbraio, ore 12:45: ultimo aggiornamento: 02 febbraio, ore 12:45
Quel fango su tutti noi
di Roberto Saviano (la Repubblica, 28 gennaio 2011)
Per vedere quello che abbiamo davanti al naso - scriveva George Orwell - serve uno sforzo costante. Capire cosa sta avvenendo in Italia sembra cosa semplice ed è invece cosa assai complessa. Bisogna fare uno sforzo che coincide con l’ultima possibilità di non subire la barbarie. Perché, come sempre accade, il fango arriva. La macchina del fango sputa contro chiunque il governo consideri un nemico. Ieri è toccato al pm di Milano Ilda Boccassini.
L’obiettivo è un messaggio semplice: siete tutti uguali, siete tutti sporchi. Nel paese degli immondi, nessuno osi criticare, denunciare. La macchina del fango, quando ti macina nel suo ingranaggio, ti fa scendere al livello più basso. Dove, ricordiamocelo, tutti stiamo. Nessuno è per bene, tutti hanno magagne o crimini da nascondere. L’intimidazione colpisce chiunque. Basta una condizione sufficiente: criticare il governo, essere considerato un pericolo per il potere. Il fango sulla Boccassini viene pianificato, recuperando una vicenda antica e risolta che nulla ha a che vedere con il suo lavoro di magistrato. Quattro giorni fa il consigliere della Lega al Csm chiede il fascicolo sulla Boccassini. Ieri "il Giornale" organizza e squaderna il dossier. Il pm, che fa il suo mestiere di servitore dello Stato e della giustizia, viene "macchiato" solo perché sta indagando su Berlusconi. Sta indagando sul Potere.
C’è un’epigrafe sulla macchina del fango. Questa: «Qualunque notizia sul tuo privato sarà usata, diramata, inventata, gonfiata». E allora quando stai per criticare una malefatta, quando decidi di volerti impegnare, quando la luce su di te sta per accendersi per qualcosa di serio... beh allora ti fermi. Perché sai che contro di te la macchina del fango è pronta, che preleverà qualsiasi cosa, vecchissima o vicina, e la mostrerà in pubblico. Con l’obiettivo non di denunciare un crimine o di mostrare un errore, ma di costringerti alla difesa. Come fotografarti in bagno, mentre sei seduto sulla ceramica. Niente di male. E’ un gesto comune, ma se vieni fotografato e la tua foto viene diffusa in pubblico chiunque assocerà la tua faccia a quella situazione. Anche se non c’è nulla di male.
Si chiama delegittimazione. Quello che in queste ore la «macchina» cerca di affermare è semplice. Fai l’amore? Ti daranno del perverso. Hai un’amante? Ti daranno del criminale. Ti piace fare una festa? Potranno venire a perquisirti in casa. Terrorizzare i cittadini, rovesciando loro addosso le vicende del premier come una «persecuzione» che potrebbe toccare da un momento all ’altro a uno qualsiasi di loro. Eppure il paragone non è l’obiettivo della macchina del fango. Non è mettere sulla bilancia e poi vedere il peso delle scelte. Ma semplicemente serve per cercare di equiparare tutto. Non ci si difende dicendo non l’ho fatto e dimostrandolo, ma dicendo: lo facciamo tutti. Chi critica invece lo fa e non lo dice.
L’altro obiettivo della macchina del fango è intimidire. In Italia il gossip è lo strumento di controllo e intimidazione più grande che c’è. Nella declinazione cartacea e in quella virtuale. L’obiettivo è controllare la vita delle persone note a diversi livelli, in modo da poterne condizionare le dichiarazioni pubbliche. E quando serve, incassarne il silenzio. Persone che non commettono crimini affatto, ma semplicemente non vogliono che la foto banalissima con una persona non sia fatta perché poi devono giustificarla ai figli, o perché non gli va di mostrarsi in un certo atteggiamento. Nulla di grave. Nessuna di queste persone spesso ha responsabilità pubbliche, né viene colta in chissà quale situazione. Eppure arrivano a pagare alle agenzie le foto, prezzi esorbitanti per difendere spesso l’equilibrio della propria vita. Su questo meccanismo si regge il timore di fare scelte, di criticare o di mutare un investimento. Sul ricatto. Il gossip oggi è una delle varianti più redditizie e potenti del racket. Perché il Paese non si accorge di tutto questo?
Berlusconi fa dichiarazioni che in qualsiasi altro paese avrebbero portato a una crisi istituzionale, come quando disse: «Meglio guardare una bella ragazza che essere gay». Oppure quando fece le corna durante le foto insieme ai capi di stato. Eppure in Italia queste goliardate vengono percepite come manifestazioni di sanità mentale da parte di un uomo che sa vivere. Chi queste cose non le fa,e dichiara di non approvarle, viene percepito come un impostore, uno che in realtà sogna eccome di farle, ma non ha la schiettezza e il coraggio di dirlo pubblicamente. Il Paese è profondamente spaccato su questa logica. Quel che si pensa è che in fondo Berlusconi, anche quando sbaglia, lo fa perché è un uomo, con tutte le debolezze di un uomo, perché è «come noi», e in fondo «anche noi vorremmo essere come lui». Gli altri, sono degli ipocriti, soprattutto quando pensano e affrontano un discorso in maniera corretta: stanno mentendo.
Bisogna essere chiari. Le vicende del premier non hanno niente di privato. Riguardano il modo con cui si seleziona la classe politica, con cui si decide come fare carriera. Riguardano come tenere sotto estorsione il governo italiano. Se questo lo si considera un affare privato ecco che chiunque racconti cosa accade è come se stesse entrando nella sfera privata. Che siano sacri i sentimenti di Berlusconi, e speriamo che si innamori ogni giorno, questo riguarda solo lui. Ma l’inchiesta di Milano riguarda altro.
La macchina del fango cerca di capovolgere la realtà, la verità. Chi ha creato ricatti cerca di passare per ricattato, chi commette crimini pubblici, cerca di dichiarare che è solo una vicenda privata, chi tiene mezzo paese nella morsa del ricatto delle foto, delle informazioni, delle agenzie, del pettegolezzo, dichiara di essere spiato. L’ha fatto con Boffo, lo sta facendo con Fini, cerca di farlo con la procura di Milano. Il fango è redditizio, dimostra fedeltà al potere e quindi automatica riconoscenza. A questo si risponde dicendo che non si ha paura. Che i lettori l’hanno ormai compreso, che non avverrà il gioco semplice di parlare ad un paese incattivito che non vede l’ora di vedere alla gogna chiunque abbia luce per poter giustificare se stesso dicendosi: ecco perché non ottengo ciò che desidero, perché non sono uno sporco. Questo gioco, che impone di riuscire nelle cose solo con il compromesso, la concessione, perché così va il mondo, e perché tutti in fondo si vendono se vogliono arrivare da qualche parte, l’abbiamo compreso e ogni giorno parlandone lo rendiamo meno forte.
Ho imparato a studiare la macchina del fango dalla storia dei regimi totalitari, come facevano in Albania o in Unione Sovietica con i dissidenti. Nessuno chiamato a rispondere a processi veri, ognuno diffamato, dossierato e condannato in ogni modo per il solo raccontare la verità. Nelle democrazie il meccanismo è diverso, più complesso ed elastico. Quello che è certo è che la macchina del fango non si fermerà. A tutto questo si risponde non sentendosi migliori, ma, con tutte le nostre debolezze e i nostri errori, sentendosi diversi. Sentendoci parte dell’Italia che non ne può più di questo racket continuo sulla vita di chi viene considerato nemico del governo.
Il suo destino non è quello del paese
di Luigi La Spina (La Stampa, 20 gennaio 2011)
Il videomessaggio con il quale il presidente del Consiglio ha comunicato agli italiani la decisione di non presentarsi alla procura di Milano e la volontà di varare una legge per punire quei pm che lo accusano annuncia, purtroppo, una linea di difesa inquietante. Destinata ad aggravare sia lo stato di turbamento del Paese, sia l’immagine di discredito internazionale che, in questi giorni, si sta riversando sull’Italia.
Berlusconi ha lanciato un appello drammatico alla maggioranza che lo ha eletto perché, in maniera compatta, unisca il destino della nazione al suo destino personale. Senza comprendere che l’istituzione che presiede, il governo della Repubblica, deve rappresentare non solo coloro che l’hanno votato, ma tutti gli italiani. Ecco perché la sua sfida alla magistratura, in nome del consenso popolare, rischia di aver gravi conseguenze sull’ordinamento e sull’equilibrio dei poteri dello Stato, fondamenti della nostra democrazia.
Il presidente del Consiglio ha diritto, come tutti i cittadini, di veder rispettata la presunzione d’innocenza davanti alle infamanti accuse che la procura di Milano gli ha rivolto. Un principio costituzionale di elementare civiltà giuridica, ma che ha come corrispettivo naturale lo stesso rispetto sia verso il magistrato che lo indaga, sia verso i cittadini italiani che hanno diritto di conoscere la sua versione dei fatti contestati. Anche perché non sarà la procura di Milano a considerare la fondatezza della sua difesa, ma i giudici di un tribunale che, in passato, ha dimostrato indipendenza di valutazione rispetto alle richieste del pm. Né sarà la procura di Milano a decidere sulle questioni di competenza territorialee funzionale avanzate dai suoi avvocati. Fa parte, poi, di una strategia difensiva puramente mediatica, utile ad aumentare la confusione polemica, ma dalla logica avventurosa,l’invocazionealla cosiddetta privacy. Per due elementari ragioni: le indagini, innanzi tutto, sono nate dal sospetto di gravi reati e, quindi, la verifica di tali ipotesi non si può fermare davanti a quei limiti. La valutazione delle conseguenze, se questa obiezione venisse accolta, nelle inchieste sui comuni cittadini potrebbe equivalere alla dichiarazionedi una sostanziale impunità estesa a tutti gli italiani.
Ma la seconda ragione dell’insostenibilità della tesi che in questi giorni viene ripetuta dai fan di Berlusconi, senza un minimo di riflessione, riguarda proprio il fatto che il presidente del Consiglio non è, appunto, un comune cittadino italiano, ma rappresenta una delle più alte cariche dello Stato. La nostra Costituzione, come quelle di tutti i Paesi non retti da una dittatura, impone una trasparenza, una dignità di comportamenti, anche personali, che non sono richiesti a coloro che non hanno i doveri dell’uomo pubblico.
Al di là della fondatezza delle accuse, della solidità delle prove raccolte, delle competenze delle procure, il presidente del Consiglio dovrebbe rendersi conto che l’unico modo per arginare il mare, montante e inquietante, dei giudizi sprezzanti che si sta abbattendo, da parte dell’opinione pubblica internazionale, sul nostro Paese è fornire ai magistrati una versione, credibile e accettabile, di quanto avvenuto sia nelle sue ville private, sia nella famosa notte alla questura di Milano. Se davvero non ha nulla da farsi perdonare, né sul piano penale né su quello morale, non si capisce perché impedisca a se stesso, con formalismi giuridici discutibili, di convincere gli italiani, anche quelli che non sono suoi tifosi, di poter credere alla sua innocenza.
E’ arrivato il momento che anche Berlusconi, dopo quasi vent’anni, possa distinguere la sorte della sua fortuna di imprenditore, di politico, persino di uomo di grande successo mediatico e di sicurocarisma personale, da quella del suo Paese. Lui, nonostante una notevole considerazione di sé, non si può paragonare a Sansone e gli italiani non possono fare la fine dei filistei.
L’italia del sottosuolo
di BARBARA SPINELLI *
Sono settimane ormai che l’annuncio è nell’aria: il governo Berlusconi sta finendo, anzi è già finito. Il suo regno, la sua epoca, sono morti. È sempre lì sul palcoscenico, come nelle opere liriche dove le regine ci mettono un sacco di tempo a fare quel che cantano, ma il sipario dovrà pur cadere. Anche i giornali stranieri assistono al funerale, nei modi con cui da sempre osservano l’Italia: il feeling, scrive l’Economist, la sensazione, è che la commedia sia finita. Burlesquoni è un brutto scherzo di ieri.
In realtà c’è poco da ridere, e il ventennio che abbiamo alle spalle è infinitamente più serio. Non siamo all’epilogo dei Pagliacci, e non basta un feeling per spodestare chi è sul trono non grazie a sentimenti ma a una macchina di guerra ben oleata. Per uscire dalla storia lunga che abbiamo vissuto - non 16 anni, ma un quarto di secolo che ha visto poteri nati antipolitici assumere poi il comando - bisogna, di questo potere, averne capito la forza, la stoffa, gli ingredienti. Non è un clown che si congeda, né l’antropologia dell’uomo solitario aiuta a capire. I misteri di un’opera sono nell’opera, non nell’autore, Proust lo sapeva: "Un libro è il prodotto di un io diverso da quello che manifestiamo nelle nostre abitudini, nella società, nei nostri vizi". Sicché è l’opera che va guardata in faccia, per liberarsene senza rompersi ancora una volta le ossa. Chi vagheggia governi tecnici o elezioni subito, a sinistra, parla di regime ma ne sottovaluta le risorse, la penetrazione dei cervelli.
Un regime fondato sull’antipolitica - o meglio sulla sostituzione della politica con poteri estranei o ostili alla politica, anche malavitosi - può esser superato solo da chi è stato detronizzato. Nessun tecnico potrà resuscitare le istituzioni offese. Può farlo solo la politica, e solo se essa si dà del tempo prima del voto. Capire il regime vuol dire liberare quello che esso ha calpestato, e quindi non solo mutare la legge elettorale. Non è quest’ultima a rendere anomala l’Italia: se così fosse, basterebbe un gesto breve, secco. Quel che l’ha resa anomala è l’ascesa irresistibile di un uomo che fa politica come magnate mediatico. Berlusconi ha conquistato e retto il potere non malgrado il conflitto d’interessi, ma grazie ad esso. Il conflitto non è sabbia ma olio del suo ingranaggio, droga del suo carisma. La porcata più vera, anche se tabuizzata, è qui. La privatizzazione della politica e dei suoi simboli (non si governa più a Palazzo Chigi ma nel privato di Palazzo Grazioli) è divenuta la caratteristica dell’Italia.
Proviamo allora a esaminare i passati decenni, oltre l’avventura iniziata nel ’94. L’avventura è il risultato di un’opera vasta, finanziata torbidamente e cominciata con l’idea di una nuova pòlis, un’altra civiltà. Un progetto - è Confalonieri a dirlo - che "ha contribuito a cambiare il clima grigio e penitenziale degli anni ’70, ed è stato un elemento di liberazione. Ha portato più America e più consumi, più allegria e meno bigottismo". Più America, consumi, allegria: la civiltà-modello per l’Italia divenne Milano2, una gated community abitata da consumatori ansiosi di proteggersi dal brutto mondo esterno, di sentirsi più liberi che cittadini. E al suo centro una televisione a circuito chiuso, che intrattenendo distrae, occulta, manipola: nel ’74 si chiama Milano-2, diverrà l’impero Mediaset. Quando andrà al potere, il Cavaliere controllerà tutte le reti: le personali e le pubbliche.
Tutto questo non è senza conseguenze: cadendo, il Premier non lascia dietro di sé una società sbriciolata. Il paese in briciole è stato da principio sua forza, sua linfa. Non si tratta di profittare di subitanei sbriciolamenti, ma di far capire agli italiani che su questo sfaldamento Berlusconi ha edificato la sua politica. Che su questo ha costruito: sul maciullamento delle menti, non sull’individualismo. Su un’Italia che somiglia all’Uomo del sottosuolo di Dostojevski: un’Italia che rifiuta di vedere la realtà; che "segue i propri capricci prendendoli per interessi"; che giudica intollerabile che 2+2 faccia 4. Un’Italia che "vive un freddo e disperato stato di mezza disperazione e mezza fede, contenta di rintanarsi nel sottosuolo". Un’Italia arrabbiata contro chiunque vorrebbe illuminarla (la stampa, o Marchionne, o i magistrati) così come l’America arrabbiata del Tea Party il cui ossessivo bersaglio è la stampa indipendente.
Correggendo solo la legge elettorale si banalizza la patologia. Altre misure s’impongono, che permettano agli italiani di comprendere quanto sono stati intossicati. Esse riguardano il controllo di Berlusconi sull’informazione e il conflitto d’interessi. La profonda diffidenza verso una società bene informata (per Kant è l’essenza dei Lumi) caratterizza il suo regime. "Non leggete i giornali!" - "Non guardate certi programmi Tv!": ripete. Gli italiani devono restare nel sottosuolo, eternamente incattiviti. Altro che allegria. È sulla loro parte oscura, triste, che scommette. Qualsiasi governo che non si proponga di portar luce, di riequilibrare il mercato dell’informazione, fallirà.
Per questo è importante un governo di alleanza costituzionale che raggiusti le istituzioni prima del voto, e un ruolo prioritario è riservato non solo a Fini ma alle opposizioni. Fini farà cadere il Premier ma l’intransigenza sul conflitto d’interessi spetta alla sinistra, nonostante gli ostacoli esistenti nel suo stesso seno. Del regime, infatti, il Pd non è incolpevole. Fu lui a consolidarlo con un patto preciso: la conquista di suoi spazi nella Rai, in cambio del potere mediatico del Cavaliere. Tutti hanno rovinato la tv, pur sapendo che il 69,3 per cento degli italiani decide come votare guardandola (dati Censis).
A partire dal momento in cui fu data a Berlusconi l’assicurazione che l’impero non sarebbe stato toccato, si è rinunciato a considerare anomali la sua ascesa, il conflitto d’interessi. E i responsabili sono tanti, a sinistra, cominciando da D’Alema quando assicurò, visitando Mediaset nel ’96: "Non ci sarà nessun Day After, avremo la serenità per trovare intese. Mediaset è un patrimonio di tutta l’Italia". La verità l’ha detta Luciano Violante, il giorno che si discusse la legge Frattini sul conflitto d’interessi alla Camera, il 28-2-02: "L’on. Berlusconi sa per certo che gli è stata data la garanzia piena - non adesso, nel ’94 quando ci fu il cambio di governo - che non sarebbero state toccate le televisioni. Lo sa lui e lo sa l’on. Letta... Voi ci avete accusato nonostante non avessimo fatto la legge sul conflitto d’interessi e dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni... Durante i governi di centrosinistra il fatturato Mediaset è aumentato di 25 volte!". Il programma dell’Ulivo promise di eliminare conflitto e duopolio tv, nel ’96. Non successe nulla. Nel luglio ’96, la legge Maccanico ignorò la sentenza della Consulta (Fininvest deve scendere da tre a due tv). Lo stesso dicasi per l’indipendenza Rai. È il centrosinistra che blocca, nell’ultimo governo Prodi, i piani che la sganciano dal potere partitico. A luglio Bersani ha presentato un disegno di legge che chiede alla politica di "fare un passo indietro". Non è detto che nel Pd tutti lo sostengano. Una BBC italiana è invisa a tanti.
Se davvero si vuol uscire dall’anomalia, è all’idea di Sylos Labini che urge tornare: all’ineleggibilità di chi è titolare di una concessione pubblica, secondo la legge del 30 marzo ’57. D’altronde non fu Sylos a dire che l’ineleggibilità è la sola soluzione. Il primo fu Confalonieri, il 25-6-2000 in un’intervista a Curzio Maltese sulla Repubblica. Sostiene Confalonieri che l’Italia, non essendo l’Inghilterra della Magna Charta, non può permettersi di applicare le proprie leggi. Forse perché il paese è sprezzato molto. Forse perché c’è chi lo ritiene incapace di uscire dal sottosuolo, dopo una generazione.
* la Repubblica, 17 novembre 2010
L’unità nazionale è la mia stella polare
Un brano dell’intervento di ieri del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano all’École Normale Supérieure di Parigi. *
Nell’Assemblea Costituente del 1946-47, si discusse ampiamente sul come caratterizzare la figura del Presidente della Repubblica; se ne discusse prendendo in considerazione, con apertura e ricchezza di riferimenti e argomenti, diverse ipotesi e possibilità di scelta, non esclusa l’opzione presidenzialista.
La conclusione di quel dibattito fu nettamente favorevole a un Capo dello Stato eletto dal Parlamento e non direttamente dai cittadini, titolare di rilevanti prerogative e attribuzioni ma non di poteri di governo, chiamato a intrattenere col Paese un rapporto non condizionato da appartenenze politiche e logiche di parte. La Costituzione pone in cima all’articolo che sancisce caratteri e compiti del Presidente della Repubblica, l’espressione-chiave: «rappresenta l’unità nazionale». Egli la rappresenta e la garantisce svolgendo un ruolo di equilibrio, esercitando con imparzialità le sue prerogative, senza subirne incrinature ma rispettandone i limiti, e ricorrendo ai mezzi della moral suasion e del richiamo a valori ideali e culturali costitutivi dell’identità e della storia nazionale.
E chiudo qui questa digressione, della cui lunghezza e apparente estraneità al nostro incontro di oggi spero vorrete scusarmi. Ma se il rappresentare l’unità nazionale è la stella polare del ruolo che mi è stato affidato dal Parlamento, è lì anche - questo volevo sottolineare - la ragione prima del mio impegno per le celebrazioni del 150° anniversario dello Stato italiano. A maggior ragione in un periodo nel quale sul tema dell’unità nazionale pesano sia il persistere e l’acuirsi di problemi reali rimasti irrisolti, sia il circolare di giudizi sommari (in taluni casi, fino alla volgarità) sul processo che condusse alla nascita del nostro Stato unitario e anche sul lungo percorso successivo, vissuto dall’Italia da quel momento, da quel lontano 1861 a oggi. Siamo in presenza di tensioni politiche, di posizioni e manovre di parte, di debolezze e confusioni culturali, di umori ostili, che ruotano attorno alla questione dell’unità nazionale e che le istituzioni repubblicane debbono affrontare cogliendo un’occasione come quella del 150° anniversario del 17 marzo 1861.
Coglierla attraverso un’opera di ampia chiarificazione, riproponendo e arricchendo le acquisizioni della cultura storica, e collegandovi una riflessione matura sulle tappe essenziali della successiva nostra vicenda nazionale. Dovrebbe trattarsi - come ho avuto occasione di dire - di un autentico esame di coscienza collettivo, che unisca gli italiani nel celebrare il momento fondativo del loro Stato nazionale. Riuscirvi non sarà facile, l’inizio è risultato difficile, ma cominciamo a registrare una crescita di interesse e di impegno, una moltiplicazione di iniziative anche spontanee.
Non ho voluto tacervi il quadro delle preoccupazioni che mi muovono. Ma debbo aggiungere che esse non nascono da timori di effettiva rottura dell’unità nazionale. Polemiche e contese sui rapporti tra il Nord e il Sud, per quanto si esprimano talvolta in termini e in toni estremi, e rumorose grida di secessione, trovano il loro limite obiettivo nel fatto che prospettive separatiste o indipendentiste sono - e tali appaiono anche a ogni italiano riflessivo e ragionevole - storicamente insostenibili e obiettivamente inimmaginabili nell’Europa e nel mondo d’oggi.
Quel che preoccupa è dunque altro: è il possibile oscurarsi della consapevolezza diffusa di un patrimonio storico comune, il tendenziale scadimento culturale del dibattito e della comunicazione. Quel che preoccupa è il seminare motivi di sterile conflittualità e di complessivo disorientamento in un Paese che ha invece bisogno di confermare e rafforzare la fiducia in se stesso e di veder crescere tra gli italiani il sentimento dell’unità: nell’interesse dell’Italia e - lasciate che aggiunga - nell’interesse dell’Europa. [...]
Rispetto a tendenze che circolano in Italia, come quelle che ho evocato, e anche tenendo conto del loro sorprendente provincialismo, è particolarmente importante un contributo quale il vostro, di riflessione sul respiro europeo del movimento per l’unità italiana e dei suoi maggiori protagonisti, e sul quadro delle vicende europee in cui quel movimento si collocò. Come si può ignorare l’impronta ginevrina e parigina, e anche londinese, della formazione - diciamo pure tout court europea - di Cavour? O l’influenza della storia e del pensiero francese sul maturare del bagaglio culturale e del disegno politico di Giuseppe Mazzini, per non parlare del suo radicamento nell’Inghilterra di quel tempo? Il flusso dei grandi messaggi ideali provenienti dalla Francia dell’epoca rivoluzionaria e del periodo napoleonico fu retroterra essenziale del Risorgimento.
Cavour vide più lucidamente di chiunque il quadro internazionale - con i condizionamenti oggettivi che ne derivavano - in cui collocare la strategia del piccolo e ambizioso Regno di Sardegna e la questione italiana. Erano in giuoco in Europa - allora teatro privilegiato e decisivo della politica mondiale - gli equilibri usciti dalla prima e dalla seconda Restaurazione, i moti per le libertà costituzionali contro il dispotismo, gli equilibri sociali sotto il premere di nuovi conflitti, l’affermazione del principio di nazionalità e le lotte per l’indipendenza contro il dominio imperiale austriaco. Il sapersi muovere con audacia e duttilità, e con i necessari adattamenti, in questo contesto fu per Cavour fattore determinante di superiorità ai fini della guida del movimento nazionale italiano, e fattore non meno determinante per il successo ultimo della sua strategia al servizio della causa dell’Unità italiana.
L’asse della politica europea di Cavour fu l’alleanza con la Francia di Napoleone III, senza peraltro trascurare l’importanza, in momenti significativi, del rapporto con l’opinione pubblica, ambienti politici e governanti della liberale Inghilterra. E sappiamo anche come fu non lineare, e quali tormenti suscitò in Cavour, la ricerca dell’intesa con l’imperatore francese - basti pensare a quei drammatici giorni dell’aprile 1859 quando Cavour vide il suo disegno sul punto di crollare e visse momenti di estremo sconforto. Poi gli eventi presero il corso da lui voluto della II Guerra d’indipendenza. E le battaglie di Solferino e San Martino cementarono nel sangue un’alleanza che cento anni più tardi, nel 1959, il Presidente francese eletto l’anno precedente, il generale De Gaulle, volle, venendo in Italia per quelle celebrazioni, indicare come il «trovarsi insieme dei campioni di un principio grande come la terra, quello del diritto di un popolo a disporre di se stesso quando ne abbia la volontà e la capacità».
Infine, vorrei ribadire come l’altro fattore decisivo dell’affermarsi della funzione egemone di Cavour in Italia e del progredire della causa italiana, fu - come ha scritto Rosario Romeo - che «Cavour stette indubbiamente dalla parte del realismo e della moderazione, ma ebbe l’intuizione di ciò che valessero le forze e i motivi ideali nella costruzione dell’edificio italiano». E mi permetto di aggiungere, reagendo a una certa moda attuale di esaltare, rispetto a Cavour, altre personalità del Risorgimento e del movimento per l’Unità, che la grandezza del moto unitario in Italia sta precisamente nella ricchezza e molteplicità delle sue ispirazioni e delle sue componenti; la grandezza di Cavour sta nell’aver saputo governare quella dialettica di posizioni e di spinte divergenti, nell’aver saputo padroneggiare quel processo fino a condurlo allo sbocco essenziale della conquista dell’indipendenza e dell’unità nazionale.
Quando, logorato da anni di dure fatiche e di «dolori morali», scrisse, «d’impareggiabile amarezza», cessò di vivere il 6 giugno 1861, Cavour poté senza dubbio lasciare come suo estremo messaggio quello che «l’Italia era fatta». Ma nel grande discorso per Roma capitale tenuto in Parlamento il 25 marzo, otto giorni dopo la proclamazione del Regno d’Italia, egli aveva affermato: «L’Italia ha ancor molto da fare per costituirsi in modo definitivo, per isciogliere tutti i gravi problemi che la sua unificazione suscita, per abbattere tutti gli ostacoli che antiche istituzioni, tradizioni secolari oppongono a questa grande impresa». Tra quei «gravi problemi» era destinato a risultare come il più complesso, aspro e di lunga durata il problema del Mezzogiorno, dell’unificazione reale, in termini economici, sociali e civili, e dei suoi possibili modi, tra Nord e Sud. Possiamo dire oggi che quella resta la più grave incompiutezza del processo unitario.
* LA STAMPA, 30/9/2010
Un paese in ginocchio
di Moni Ovadia (l’Unità, 25.09.2010)
L’immagine dell’Italia trasmessa dai media, per una persona per bene di buon senso, è raccapricciante. Lo squallore della sua politica ha sfondato ogni soglia della decenza. Il governo si da con maniacale accanimento alla distruzione delle fondamenta dello stato democratico con lo strumento della demagogia populista più vieta, dell’intorbidamento delle acque per cancellare le differenze fra il giusto e l’ingiusto, fra la legalità e il crimine.
Con questa tecnica antica e oscena vengono demoliti a colpi di mazza i pilastri dell’intera società: i principi costituzionali, la scuola pubblica, la cultura, i fondamenti morali, i diritti civili e i diritti sociali. L’opposizione parlamentare, con rare eccezioni, sembra - anche ad ad un osservatore non particolarmente smaliziato - assistere allo scempio pavida, divisa, balbettante, capziosa, arrogante e stonata. È difficile non pensare che l’unica sua cura sia la propria autoconservazione.
Quanto alla «sinistra fuori dal parlamento» si è virtualizzata. Se non fosse per la coraggiosa Fiom, per un leader carismatico capace di guardare il futuro e per qualche sparuta testa pensante potrebbe bene figurare in un film di Moretti come associazione di reduci.
Spero con tutto il cuore di essere una cattiva Cassandra ma, sulla soglia dell’età della pensione, non riesco ad impedirmi di pensare che si tratti della bancarotta di quasi un’intera classe dirigente che ha sacrificato il benessere di un paese ai piedi di un grottesco omino, aspirante sovrano, truccato come un clown sinistro e sull’altare del cinismo e del conformismo. In questo sfacelo riesco a trarre conforto da quelle donne e quegli uomini dell’Italia reale che continuano a vivere, a lavorare e a lottare secondo i principi della dignità e della giustizia. Grazie a loro sento che essere italiano non è solo una iattura.
Il governo è salvo. l’Italia no
di MICHELE BRAMBILLA (La Stampa, 23/9/2010)
A prima vista la notizia del «no» all’utilizzo delle intercettazioni telefoniche che riguardano l’ex sottosegretario Cosentino sembra una buona notizia. Se fosse passato il «sì» il governo sarebbe entrato in agonia, per tirare le cuoia da qui ad - al massimo - un mese. Sarebbero stati ben pochi a rallegrarsene davvero. Sicuramente la Lega e Di Pietro, che alle urne ne avrebbero tratto profitto: ma proprio quel profitto avrebbe reso il Paese ancora più ingovernabile di quanto non sia già. Chiunque abbia a cuore non il proprio interesse particolare, ma quello generale, sa che mai come ora, malmessi come siamo, abbiamo bisogno di un governo. Anche il presidente Napolitano, una delle poche figure davvero di garanzia, s’è augurato che l’esecutivo tenga, perché il momento non è tale da poter permettere salti nel buio.
No sarà eccezionale, questo governo: ma come diceva Caterina II di Russia è meglio uno Stato con cattive leggi applicate che uno con buone leggi non applicate. Tuttavia lo spettacolo offerto ieri alla Camera è stato talmente desolante, anzi mortificante, da far svanire in un battibaleno il sospiro di sollievo provato per la «tenuta» del governo.
Primo. La maggioranza ha esultato perché è rimasta maggioranza anche senza i finiani. La soddisfazione è comprensibile. Ma su quale fondamentale tema è rimasta maggioranza? Su una riforma del fisco? Su un provvedimento per far ripartire le imprese? Su un intervento contro la disoccupazione? Niente di tutto questo (che poi è quello che servirebbe al Paese): la Camera ha detto, a maggioranza, che la magistratura non può utilizzare le intercettazioni che riguardano un parlamentare sul quale pende un mandato di arresto per camorra.
E’ perfino superfluo precisare che il parlamentare in questione, Nicola Cosentino, può benissimo essere innocente: anzi lo è finché non si dimostri il contrario. Ma per dimostrarlo occorrerebbero delle indagini, e la politica ieri ha detto che su un politico non si può indagare. Rinverdendo una tradizione che ci eravamo illusi fosse ormai sepolta, la nostra classe politica ha deciso di autogiudicarsi e, naturalmente, di autoassolversi. Si esulti pure, insomma, ma si abbia il buon gusto di farlo di nascosto.
Secondo. L’altro spettacolo mortificante di ieri riguarda il tormentone dell’ormai celeberrima casa di Montecarlo. Sui giornali è finita una lettera nella quale un ministro dell’isola di Santa Lucia, un paradiso fiscale delle Antille, dice al suo premier che il vero proprietario dell’immobile è proprio Giancarlo Tulliani, il cognato di Fini. In sintesi: se fosse vera, la lettera sarebbe la prova che la casa - lasciata in eredità ad An - è stata venduta a un prezzo stracciato a un familiare di Fini.
Questi ha reagito dicendo che quel documento è «un falso, talmente fatto bene da pensare che dietro ci siano i servizi». I suoi fedelissimi hanno rincarato la dose. Carmelo Briguglio ha formalmente chiesto che «il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica assuma una decisa iniziativa in relazione alla pubblicazione di atti di dubbia autenticità, se non addirittura falsi». I finiani parlano di «vergognoso dossieraggio contro la terza carica dello Stato». E perlomeno complice del dossieraggio sarebbe «il quotidiano di famiglia del presidente del Consiglio», cioè il Giornale, impegnato in una «incessante campagna scandalistica ai danni del presidente di un ramo del Parlamento».
E’ chiaro che i casi sono due. O l’Italia è un Paese in cui il premier usa i servizi segreti per far fuori il presidente della Camera; oppure è un Paese in cui il presidente della Camera lancia accuse gravissime senza dimostrarne la fondatezza. Nel primo caso sarebbe un letamaio; nel secondo un manicomio. Anche perché il dubbio non sembra difficile da sciogliere: basterebbe chiedere al governo di Santa Lucia se quel documento è autentico oppure no. E magari non sarebbe male neppure se Fini e suo cognato ci dicessero finalmente a chi hanno venduto quella benedetta, anzi maledetta casa. Insomma dopo la giornata di ieri il governo è salvo, e il Parlamento pure. Ma che ci sia davvero di che rallegrarsene, beh, questa è una domanda che viene spontanea. Com’è spontaneo chiedersi in che mani siamo.
"Nessuna ombra sul patrimonio vitale e indivisibile dell’unità nazionale di cui è parte integrante Roma Capitale" *
"E’ mio doveroso impegno ed assillo che non vengano ombre da nessuna parte sul patrimonio vitale e indivisibile dell’unità nazionale, di cui è parte integrante il ruolo di Roma capitale". Lo ha affermato il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in occasione della cerimonia di conferimento della cittadinanza onoraria di Roma Capitale al Campidoglio.
"Un ruolo - ha aggiunto il Presidente - che non può essere negato, contestato o sfilacciato nella prospettiva che si è aperta e sta prendendo corpo di un’evoluzione più marcatamente autonomista e federalista dello Stato italiano".
"Questa - ha proseguito il Capo dello Stato -, con il netto riconoscimento contenuto nel riformato Titolo Quinto della Carta e con la conseguente norma di legge del 2009, chiama piuttosto voi che rappresentate e amministrate Roma a un nuovo impegno ordinamentale, d’intesa con la Regione e la Provincia, e ad una nuova prova di efficienza e modernità nell’esercizio di funzioni ben più ricche che nel passato. Portarvi all’altezza di questa prova è ciò che conta e che vi stimola, non l’invocare formalmente il rango di Roma capitale".
Il Presidente Napolitano nel suo intervento ha anche elogiato Roma e la sua capacità di accoglienza: "Mai - ha detto - mi sono sentito a disagio, pur senza dissimulare la profondità delle radici e degli affetti che mi legavano e mi legano a Napoli: ed è forse propria dei napoletani l’attitudine a integrarsi, anche in luoghi ben più lontani, così come propria di Roma, e straordinaria, è la capacità inclusiva, l’attitudine ad aprirsi, ad accogliere altri, ad abbracciare, innanzitutto, ogni italiano".
Le celebrazioni per i 140 anni di Roma Capitale erano iniziate questa mattina con la deposizione di una corona di alloro da parte del Presidente della Repubblica al Monumento dei caduti di Porta Pia alla presenza del Segretario di Stato di Sua Santità, Cardinale Tarcisio Bertone, del Ministro della Difesa, Ignazio La Russa, del Sindaco di Roma, Gianni Alemanno, del Presidente della Regione Lazio, Renata Polverini, del Presidente della Provincia, Nicola Zingaretti, del sottosegretario Gianni Letta, e delle autorità di governo.
* SITO: PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA
Ci hanno tolto la patria
Ci hanno tolto la patria, ecco quello che Berlusconi e i suoi servi hanno fatto. È questa l’ accusa che
l’opposizione dovrebbe mettere al centro della sua lotta, se vuole vincere e soprattutto se vuole fare
vincere l’Italia.
di Maurizio Viroli (il Fatto Quotidiano, 11 settembre 2010)
IN QUESTI GIORNI vicini all’8 settembre viene naturale pensare alla morte della patria o all’Italia che manca, per ripetere il titolo del festival Lector in fabula che si apre oggi a Conversano. Di morte della patria parlò per primo, credo, Salvatore Satta, nel De profundis (1948), e ne ha trattato Ernesto Galli della Loggia nel suo libro del 1996. La tesi di Galli della Loggia è nota: con la firma dell’armistizio, si verificò in Italia il crollo completo non solo dello Stato, con la fuga del re e della corte e la disgregazione dell’esercito lasciato in balia degli ex alleati tedeschi diventati nemici, ma anche il dissolversi del sentimento di solidarietà nazionale e del senso del dovere verso il bene comune. Né la Resistenza, per il suo debole carattere di autentico movimento di liberazione nazionale, né la Repubblica, per il troppo ambiguo sentimento di lealtà nazionale della sua élite politica (compreso il Partito Comunista) riuscirono poi a far rinascere e radicare nella mentalità degli italiani un nuovo amor di patria.
A mio giudizio la tesi della morte della patria è un’interpretazione parziale degli avvenimenti che segnarono la storia italiana negli anni successivi all’8 settembre e durante i primi decenni della Repubblica. Anziché di morte della patria è a mio avviso storicamente più corretto parlare di morte e di rinascita della patria, o, meglio la morte di una patria, quella del fascismo e della monarchia, e la nascita di una nuova patria, quella della Repubblica e della Costituzione.
Lo provano documenti e testimonianze di notevole peso. Nell’agosto del 1943 Piero Calamandrei scriveva: “Veramente la sensazione che si è provata in questi giorni si può riassumere senza retorica in questa frase: Si è ritrovata la patria”. Ancora più eloquente è una pagina di Natalia Ginzburg: “Le parole patria e Italia, che ci avevano tanto nauseato fra le pareti della scuola perché accompagnate dall’aggettivo fascista, perché gonfie di vuoto, ci apparvero d’un tratto senza aggettivi e così trasformate che ci sembrò di averle udite e pensate per la prima volta. D’un tratto alle nostre orecchie risultarono vere”.
LO PROVANO DEI FATTI troppo importanti per essere trascurati come il rifiuto di tanti soldati italiani di entrare nelle truppe della repubblica di Salò in nome di un sentimento di patria faticosamente ritrovato negli orrori della guerra a fianco dell’alleato tedesco. Ma che un sentimento nuovo di patria, fondato su principi di libertà era rinato lo prova la Costituente. Basti citare le parole con cui il relatore presentò all’Assemblea l’articolo che afferma che “la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”. Egli disse infatti che la Patria, “non è più la matrigna che il fascismo aveva tentato di creare, ma è la madre generosa che accetta ed accoglie tutti i suoi figli con identico animo. (Applausi)”. È vero che durante i primi decenni della nostra storia repubblicana il sentimento di patria di offuscò e visse confinato in ambiti ristretti dell’élite politica e del popolo.
Ma non morì affatto la lealtà costituzionale. Grazie ad essa la Repubblica ha vinto sfide tremende. La lealtà alla Costituzione è il cuore del sentimento di patria. Non è tuttavia tutto, perché patria vuol dire anche amore del bene comune, vuol dire, in Italia, antifascismo, vuol dire Risorgimento, vuol dire memorie di uomini e donne che hanno dato l’esempio, vuol dire cultura, vuol dire speranze e fini comuni come popolo.
ORBENE, BERLUSCONI e i suoi hanno distrutto con ferocia metodica tutto ciò che è patria, sia detto senza retorica, con tristezza. Hanno offeso in tutti i modi la Costituzione; hanno dimostrato tante volte di preferire il loro interesse al bene pubblico, a tal segno da essere pronti a devastare la legalità per sottrarsi alle leggi; hanno deriso l’antifascismo e favorito la nascita dell’antiantifascismo, sentimento quanto mai pericoloso e moralmente detestabile; hanno distrutto le nostre memorie: quando ne hanno parlato perché non erano in grado di farlo, e quando hanno taciuto per ignoranza o per disprezzo; hanno avvilito ogni forma di cultura seria per sostituirla con il trionfo della banalità e della volgarità; hanno disseccato nell’animo degli italiani, con le loro azioni e le loro parole, ogni speranza collettiva. La storia insegna: non c’è mai stata in Italia una rinascita civile senza o contro l’idea di patria. Oggi, per ritrovare la patria, bisogna liberarci di Berlusconi e della sua corte.
QUIRINALE
Napolitano: "Indignazione e allarme
per corruzione e trame inquinanti"
Il Capo dello Stato ha affrontato anche temi politici nel corso della cerimonia del Ventaglio. "P3 che squallore. Magistratura vada avanti". E sul ddl intercettazioni: "Ho agito secondo Costituzione"
ROMA - "Ci indigna e allarma l’emergere di fatti di corruzione e trame inquinanti da parte di squallide consorterie, ma la nostra democrazia dispone di anticorpi: la reazione morale dei cittadini, i principi costituzionali, le leggi per applicare tali principi". Giorgio Napolitano non ha risparmiato critiche e parole dure sui recenti fatti giudiziari durante la cerimonia del ventaglio al Quirinale. Dopo aver parlato a lungo della crisi economica 1, il presidente della Repubblica ha toccato i principali temi politici del momento, strettamente connessi alle inchieste sugli appalti e sulla cosiddetta P3, ma anche la legge sulle intercettazioni. Casi come quello delle indagini in corso devono essere affrontati "senza incertezza", ma anche "senza cedere al massacro tra e nelle istituzioni", ha detto il capo dello Stato, che ha sottolineato in particolar modo di non aver mai interferito nella dialettica politica e di non aver fatto alcun intervento riguardo al discusso disegno di legge sulle intercettazioni.
"Non mi interessano scenari politici ipotetici". "Non c’è spazio per autosufficienze ed esclusivismi, né per contrapposizioni totali: convincersi di ciò e trarne le conseguenze è quel che mi sta a cuore e che sollecito, mentre non mi interessano scenari politici ipotetici di nessuna specie" ha affermato il presidente della Repubblica durante la tradizionale cerimonia del Ventaglio svoltasi al Quirinale, aggiungendo che "del contesto di lungimirante confronto che auspico, nell’interesse generale, è condizione il corretto funzionamento delle istituzioni e dei rapporti tra le istituzioni".
"Opposizione non rifugga da confronto". "Auspico che nel confronto emergano anche visioni diverse rappresentative sul piano politico delle attuali forze di maggioranza e delle attuali forze di opposizione non sottraendosi queste ultime alla prova e alle responsabilità cui sono chiamate in un quadre di feconda competizione come quello che dovrebbe caratterizzare la democrazia dell’alternanza" ha detto Napolitano che più volte nel suo intervento ha richiamato la necessità di una "ampia condivisione sui grandi obiettivi".
Intercettazioni: "Ho agito secondo Costituzione". "Nella vicenda della controversa legge" sulle intercettazioni "il ruolo del presidente della Repubblica è risultato, io credo, più che mai chiaro nel rispetto delle attribuzioni e dei limiti sanciti dalla Costituzione" ha detto Napolitano. "Nessuna interferenza nella dialettica politica tra gli opposti schieramenti e l’interno di essi; nessuna interferenza nell’attività del parlamento, fatta salva la facoltà di cui l’articolo 74 della Carta", ha spiegato. In occasione del lavoro parlamentare sul testo, ha proseguito il Capo dello Stato, si è avuto "un ragionevole bilanciamento tra diversi valori e diritti", in uno "sforzo che non si può non apprezzare, dandone il merito e non demerito alla dialettica parlamentare". "Non deve dunque stupire - ha affermato - che la definizione di una nuova legge in materia di intercettazioni, da lungo attesa, abbia richiesto un tempo non breve e un percorso faticoso, potremmo dire ’per approssimazioni successive’ ". Tra i valori che il ddl deve bilanciare, Napolitano richiama il valore della sicurezza "da garantire con l’imperio della legge, colpendone ogni violazione attraverso la ricerca con i mezzi indispensabili degli indizi di reato"; il valore della libertà di stampa "e ancora - aggiunge il Presidente della Repubblica - il valore della libertà di comunicazione tra le persone, il diritto al rispetto della riservatezza e della dignità delle persone".
"Parlamento elegga presto membri laici". Dopo aver riferito che "entro la fine del mese" si ripromette di "affrontare" fatti rilevanti e di attualità nell’incontro con gli uscenti e gli entranti del Consiglio superiore della magistratura, il Capo dello Stato ha lanciato una sorta di invito-monito: "Sono certo che il Parlamento stia per procedere alla dovuta elezione di componenti laici del Consiglio".
* la Repubblica, 23 luglio 2010
UDINE
Napolitano, appello alla coesione
"Oppure il Paese si perde"
Il capo dello Stato riafferma la "lungimiranza" della Costituzione che "salda in un unico articolo inscindibilità della nazione e promozione delle autonomie". Sulla crisi economica: "Dovere di tutti ridurre debito" *
UDINE - "Senza coesione l’Italia si perde". Il presidente della Repubblica in visita a Udine rilancia un forte appello all’unità nazionale, riaffermando la "lungimiranza" della Costituzione vigente che "salda in uno stesso articolo l’inscindibilità della nazione italiana e la promozione delle autonomie". Su questo tema il presidente, incontrando il sindaco Furio Honsell, ha poi lanciato un monito: "Si riveda ciò che è necessario rivedere, si garantisca il massimo di snellezza e semplificazione nell’articolazione del nostro Stato", ha detto Napolitano raccomandando di salvare i vari livelli di autonomia regionale e locale e di riconoscere "l’importanza decisiva dei Comuni che sono le istituzioni più vicine ai cittadini e ai loro bisogni".
Oggi, ha aggiunto Napolitano, si deve proseguire sulla strada tracciata perché "un’Italia unita senza la coesione nazionale si perderebbe nel grande e tumultuoso fiume della globalizzazione. L’unità nazionale si può promuovere facendo conoscere la Costituzione e promuovendo le autonomie. Io sono profondamente impegnato nella difesa dei valori costituzionali. Ma piuttosto che usare l’espressione ’difendere la Costituzione’ amo dire che è necessario far vivere e attuare la Costituzione, attuare anche il nuovo Titolo V che ha segnato la strada per uno sviluppo anche in senso federalistico del principio autonomistico che trovò già forma felice nella prima formulazione della Costituzione".
Napolitano ha poi ricordato la tragedia che ha colpito la Regione nel ’76. "Tuttora è vivissimo nella memoria di tutti gli italiani l’esempio che le popolazioni del Friuli hanno dato dopo il terremoto", ha detto rivolgendosi al sindaco Honsell, ricordando lo sforzo straordinario, il senso civico e la capacità di autogoverno che furono dimostrati in occasione della ricostruzione e che sono state successivamente confermate e che risultano "ancora oggi capacità non diminuite".
Come aveva già fatto ieri da Trieste, Napolitano è tornato sulle difficoltà della crisi economica e la dissestata situazione dei conti pubblici: "Nessuna parte politica - ha detto il presidente - può sottrarsi alla responsabilità collettiva di alleggerire in modo decisivo e di consolidare il bilancio pubblico riducendo il debito che noi abbiamo accumulato e che è un pesante fardello sulle nostre spalle".
"Abbiamo problemi seri, dovuti a una difficoltà dell’economia internazionale" e per questo, ha ribadito, "si devono adottare misure straordinarie per consolidare i bilanci pubblici, esigenza riconosciuta in tutta Europa". In questo momento più che mai è necessario scegliere le priorità alle quali destinare le risorse e per Napolitano ai primi posti ci sono cultura, formazione e ricerca. "Sono convinto che dobbiamo credere fortemente nelle priorità da accordare a investimenti pubblici, sollecitando al tempo stesso anche quelli privati, nel campo della ricerca e della formazione", ha concluso il presidente. Il capo dello Stato ha inoltre affermato la necessità di approvare la riforma dell’ordinamento universitario all’esame del Senato.
* la Repubblica, 14 luglio 2010
L’indecenza istituzionale
di MASSIMO GIANNINI *
I GIURISTI inglesi dell’800 sostenevano che ci sono solo due modi per governare una società: l’opinione pubblica e la spada. Con l’affondo sulla legge che limita le intercettazioni Silvio Berlusconi li sta pericolosamente sperimentando tutti e due. Impone il bavaglio ai mass-media, per evitare che i cittadini sappiano ciò che si muove dentro e intorno al potere politico. Dispone il blitz in Parlamento, per costringerlo a votare questa legge-vergogna prima della pausa estiva.
Quanto accaduto alla Camera la dice lunga sullo stato di esaltazione e insieme di confusione che anima la maggioranza e il suo leader. C’è un presidente del Consiglio che alterna episodici momenti di ragionevolezza e drammatici sprazzi di dissennatezza. Ieri sono andati in scena i secondi: il premier ha voluto a tutti i costi che la conferenza dei capigruppo di Montecitorio calendarizzasse per il 29 luglio la discussione in aula del testo sulle intercettazioni. E ci è riuscito. Con il risultato, paradossale, che il dibattito sulla legge-bavaglio finirà per intrecciarsi a quello sulla manovra economica. Con buona pace degli appelli del presidente della Repubblica, che aveva invocato senso di responsabilità e aveva chiesto ai partiti di dare la priorità assoluta alla manovra, l’unico tema che sta realmente a cuore agli italiani, e di lasciar perdere le questioni che hanno come unico effetto quello di avvelenare i pozzi del confronto parlamentare e del discorso pubblico. Una mossa pericolosa, dunque. Benzina sul fuoco, alla vigilia della manifestazione contro la legge-bavaglio organizzata oggi in diverse piazze d’Italia.
In questa mossa del premier c’è un profilo di indecenza istituzionale, già ampiamente dimostrata dalle continue provocazioni contro il Quirinale. E c’è un profilo di arroganza politica, già ripetutamente esercitata attraverso i continui attacchi contro i nemici interni della maggioranza e quelli esterni dell’opposizione. Fa bene il Pd, insieme a tutte le forze che si oppongono a questo centrodestra, ad annunciare un Vietnam parlamentare, di fronte all’ennesima forzatura voluta dal capo del governo. Ma stavolta, occorre dirlo, ha fatto male il presidente della Camera ad accettare il diktat dei capigruppo della maggioranza, salvo poi far filtrare a giochi fatti la sua presa di distanza. "Una scelta irragionevole", l’ha definita Gianfranco Fini. Ma se davvero la considerava tale, avrebbe potuto e dovuto evitarla, invece che avallarla. A livello personale Fini incassa un vantaggio: smarcandosi dal Cavaliere nella forma lucra il massimo della rendita mediatica, dandogliela vinta nella sostanza non paga alcun prezzo politico. Ma a livello più generale il calcolo è ben diverso. Il giochino è a somma zero: stavolta non c’è stata alcuna "riduzione del danno" (che il co-fondatore del Pdl dice spesso di perseguire, per arginare i disastri imputabili al fondatore). Stavolta, in questa provocatoria accelerazione puntualmente benedetta da Bossi in nome del sacro federalismo, c’è solo il "danno". E rischiamo di pagarlo tutti.
C’è un profilo di tutela giurisdizionale delle indagini, irrinunciabili in qualunque Stato di diritto. Non c’è da aggiungere altro, rispetto a quanto hanno denunciato durante le audizioni in Commissione giustizia di Montecitorio non solo e non tanto dalle famigerate "toghe rosse" dell’Anm, quanto piuttosto dai magistrati in prima linea. Per esempio Pietro Grasso, procuratore nazionale antimafia: "Il disegno di legge, con le ultime modifiche, ha peggiorato la situazione per quanto riguarda la mafia e il terrorismo, con effetti devastanti sulle indagini... Le intercettazioni ambientali non si potranno più fare nei luoghi privati di dimora perché hanno bisogno, per essere autorizzate, della dimostrazione che in quel posto si sta commettendo un reato: agli inquirenti si chiede una ’prova diabolicà impossibile da fornire". Oppure Giovandomenico Lepore, procuratore capo di Napoli: "Le limitazioni alle intercettazioni danneggiano le indagini... Difficilmente, senza le intercettazioni, avremmo potuto capire come si svolgeva il traffico di droga che ci ha appena portato all’arresto di 28 persone nel quartiere San Giovanni a Teduccio". O ancora Rosario Cantelmo, procuratore aggiunto: "In 40 giorni di osservazione sono state documentate 870 azioni di spaccio. Tutto ciò non sarebbe stato possibile con la nuova legge". O infine Antonio Ingroia, procuratore antimafia a Palermo: "Le intercettazioni sono il principale strumento di indagine contro la criminalità mafiosa, economica e politica; oggi l’80% delle indagini si basa su questo strumento... Se il ddl passasse senza modifiche si tornerebbe indietro di 40 anni".
C’è un profilo di tutela costituzionale dei diritti, insopprimibili per qualunque democrazia. Lo sosteniano da settimane, anche attraverso la campagna dei post-it: la legge-bavaglio nega ai cittadini il diritto di essere informati. E l’informazione, in questo testo inemendabile, è violata in senso attivo e passivo: la legge-bavaglio nega ai mass media il diritto di informare. In nome di un’idea malintesa della privacy, e con il pretesto della difesa della riservatezza, il centrodestra opera un clamoroso sbilanciamento tra i diritti costituzionali meritevoli di tutela. Lo hanno detto e scritto i più autorevoli giuristi italiani, da Gustavo Zagrebelski a Valerio Onida. Ora lo ripete anche il Garante per la privacy Francesco Pizzetti, nella sua relazione annuale al Parlamento: "Nel ddl sulle intercettazioni si sposta oggettivamente il punto di equilibrio tra libertà di stampa e tutela della riservatezza, tutto a favore della riservatezza, e questo può giustificare che da molte parti si affermi che, così facendo, si pone in pericolo la libertà di stampa". È esattamente quello che pensiamo, al di là di tutte le risibili distorsioni ermeneutiche in cui si sono cimentati i cortigiani del Pdl. Ed è confortante che a ribadirlo sia il presidente di un’Authority, proprio nel momento in cui Berlusconi e il suo "cardinal Mazzarino" (l’immarcescibile Gianni Letta) usano queste istituzioni amministrative indipendenti come "succursali" governative in cui spartire e moltiplicare poltrone, a beneficio della solita "cricca" dei grand commis di regime.
Per tutte queste ragioni, la legge-bavaglio non può e non deve passare, nonostante i colpi di spada del presidente del Consiglio e i suoi dissennati appelli a scioperare contro i giornali. "Un giornalismo onesto e indipendente è la forza più possente che la civiltà moderna abbia sviluppato. Malgrado i suoi errori è indispensabile alla vita delle persone libere. Le frontiere del privilegio costituzionale della stampa sono tanto ampie quanto il pensiero umano...". Lo scrisse un secolo fa Alton Parker, giudice supremo della Corte d’Appello di New York. Un magistrato di enorme spessore, che contribuì a fare grande la democrazia americana. Una "toga" che Berlusconi, oggi, definirebbe senz’altro una "metastasi".
* la Repubblica, 01 luglio 2010
Il predone
di GIUSEPPE D’AVANZO *
PENSIAMO ogni volta di aver conosciuto di Berlusconi il volto peggiore, l’intenzione più maligna, la mossa più fraudolenta. Bisogna convincersene, quell’uomo sarà sempre in grado di mostrare un’intenzione ancora più maligna, una mossa ancora più fraudolenta, un volto ancora peggiore. Sappiamo che cosa è e rappresenta la cosa pubblica per il signore di Arcore, non dobbiamo scoprirlo oggi. È l’opportunità di ignorare e distruggere le inchieste giudiziarie che hanno ricostruito con quali metodi e complici e violenze Silvio Berlusconi ha messo insieme il suo impero. Non scopriamo adesso che il signore di Arcore si è fatto Cesare per evitare la galera (lo ha detto in pubblico senza vergogna il suo amico Fedele Confalonieri). E tuttavia, pur consapevoli che il potere berlusconiano sia esercitato in modo esplicito a protezione dei suoi interessi privati, lascia di stucco l’affaire Brancher.
La storia la si conosce. C’è questo signore, Aldo Brancher. Non se ne apprezza un pregio. Si sa che è stato assistente di Confalonieri in Fininvest. Con questo ruolo, tiene i contatti con socialisti e liberali nella prima repubblica. Detto in altro modo, è l’addetto alla loro corruzione. Il pool di Milano documenta nel 1993 che Brancher elargisce 300 milioni di lire al Psi e 300 al segretario del ministro della Sanità liberale (Francesco De Lorenzo) per arraffare a vantaggio della Fininvest un piano pubblicitario dello Stato.
Lo arrestano. Resta tre mesi a san Vittore. Non scuce una frase. Condannato in primo grado e in appello per falso in bilancio e finanziamento illecito, vede la luce in Cassazione grazie alla prescrizione del secondo reato e alla depenalizzazione del primo corrette, l’una e l’altra, dalle leggi "privatistiche" del governo Berlusconi. Il salvataggio del Capo e della Ditta gli vale, a titolo di risarcimento, l’incarico di messo tra il partito del presidente e la Lega di Bossi, uno scranno in Parlamento, un seggio di sottosegretario di governo. E da qualche giorno anche di ministro. Ministro senza incarico, senza missione, senza alcuna utilità per il Paese. Un ministro talmente superfluo che gli cambiano anche la delega dopo la nomina.
Fin dall’annuncio del suo ingresso nel governo, è chiaro a tutti - se non agli ingenui - che Aldo Brancher diventa ministro per un’unica necessità: egli deve opporre nel giudizio che lo vede imputato di appropriazione indebita nel processo Antonveneta il legittimo impedimento che Berlusconi si è affatturato per liberarsi dalle sue rogne giudiziarie. Ora che Brancher chiede di salvarsi dal giudizio perché ministro, anche gli ingenui hanno capito.
C’è qualcosa di umiliante e di illuminante in quest’affaire perché ci mostra in quale abisso di degradazione sono state precipitate le nostre istituzioni. Ci manifesta quale arretramento di secoli la nostra democrazia deve affrontare. Ci dice che le istituzioni coincidono ormai con le persone che le incarnano, anzi con la persona, quel solo uomo - il Cesare di Arcore - che le "possiede" tutte come cosa sua, Ditta sua, nella sua piena disponibilità proprietaria al punto che può eleggere il suo "cavallo" senatore o ministro uno dei suoi complici, pretendendo oggi per il ministro (e domani per il senatore, chissà) la stessa impunità che ha assegnato a se stesso.
Voglio dire che quel che abbiamo sotto gli occhi con il caso Brancher è nitido: il cesarismo, il bonapartismo, il peronismo - chiamatelo come volete - di Silvio Berlusconi non riconosce alle istituzioni, alle funzioni pubbliche dello Stato alcuna oggettività, ma soltanto la soggettività che egli - nel suo potere e volontà - di volta in volta decide di assegnare loro. Il governo è suo, di Berlusconi, perché il popolo glielo ha dato e così del governo ci fa quello che gli pare. Se vuole, lo trasforma - come per Brancher - in una casa dell’impunità per corifei e turiferari. Quel che l’affaire illumina è il lavoro mortale di indebolimento delle istituzioni. Di quelle istituzioni nate per arginare l’abuso e l’istinto di sopraffazione, per garantire sicurezza e stabilità, diffondere fiducia e cooperazione e diventate, nella democrazia plebiscitaria del signore di Arcore, strumento inutile, ferro rugginoso e inservibile.
Se la nomina a ministro può mortificarsi a capriccio e complicità vuol dire che la politica può fare a meno delle istituzioni. Certo, non si possono accantonarle formalmente, ma svuotarle, sì. Di ogni significato, rilevanza, legittimità, come accade al governo con l’uomo diventato ministro per evitare il giudice. Osserviamo ora la scena che Berlusconi ha costruito in questi due anni di governo. Il Parlamento è soltanto l’esecutore muto degli ordini dell’esecutivo. La Corte costituzionale e la magistratura devono essere presto subordinate al comando politico. La presidenza della Repubblica, priva della legittimità popolare, è soltanto un impaccio improprio. Il governo, già consesso obbediente agli ordini del sovrano, diviene ora e addirittura il premio per chi, con il suo servizio al Capo, si è guadagnato il vantaggio di rendersi legibus solutus come il sovrano. Tocchiamo qui con mano il conflitto freddo che si sta consumando tra una concezione della democrazia incardinata nella Costituzione, nei principi di una democrazia liberale basata sull’oggettività delle funzioni pubbliche e la convinzione che il voto popolare renda onnipotenti e consenta ogni mossa anche l’annichilimento delle istituzioni.
Umiliante e illuminante, l’affaire Brancher è anche educativo perché liquida almeno un paio di luoghi comuni del dibattito pubblico, specialmente a sinistra. Chi di fronte alle minacce estorsive del sovrano (o impunità o processo breve che blocca centinaia di migliaia di processi; o impunità o paralisi della macchina giudiziaria) trova sempre conveniente scegliere la "riduzione del danno" e "il male minore" saprà oggi quel che avrebbe già dovuto sapere da tre lustri: il Cesare di Arcore non ha inibizioni. È un predone. Lo guidano i riflessi. Quel che serve, lo trova d’istinto. Se gli si offre un arsenale, lo utilizza, statene certi, perché è ridicolo aspettarsi da Berlusconi self-restraint. Non esisteranno mai mali minori con lui, ma soltanto mali che annunceranno il peggio. Il secondo luogo comune dice che "l’antiberlusconismo non porta da nessuna parte". L’affaire Brancher conferma che non c’è altra strada che contrastare il berlusconismo se si vuole proteggere il Paese e le sue istituzioni da una prova di forza pre-politica, fuori delle regole che ci siamo dati. È anche questo il caso Brancher, una prova di forza. Che toccherà non solo all’opposizione contrastare. Fini, la Lega, i soliti neutrali potranno subirla senza mettere in gioco la rispettabilità di se stessi?
* la Repubblica, 25 giugno 2010
Padania, ancora scontro Fini-Lega
Bossi: "10 milioni pronti a battersi"
La fondazione FareFuturo torna a polemizzare con il Carroccio sull’esistenza della Padania. Zaia e Cota: "Allora non esiste nemmeno la questione meridionale...". Sul sito di Generazione Italia la controeplica di Fini. Sondaggio Ispo: "Solo uno su dieci vuole la secessione" *
ROMA - La querelle sulla Padania si arricchisce di un nuovo capitolo. I leghisti "urlano per non far sentire la verità". E "fanno fumo per nascondere l’assenza dell’arrosto". Sono questi i toni che FareFuturo 1, la fondazione vicina al presidente della Camera Gianfranco Fini, utilizza per replicare all’intervista rilasciata a Repubblica 2 dal leader del Carroccio Umberto Bossi. E cresce la polemica sull’esistenza della Padania, bollata da Fini come "un’invenzione lessicale". "Ci sono grosso modo 10 milioni di persone disposte a battersi per la Padania, quindi esiste" la nuova replica di Bossi. Il ministro degli Esteri Franco Frattini: "La Padania è uno slogan efficace inventato per gli elettori". Luca Zaia, governatore leghista del Veneto: "Se la Padania è un’invenzione allora lo sono anche il Sud e la questione meridionale". Intanto un sondaggio Ispo: "Solo il 10% dei cittadini del Nord è favorevole alla secessione e alla creazione della Padania".
FareFuturo. La replica dei finiani è affidata a un corsivo di Filippo Rossi. Che su FareFururo Web Magazine scrive: "Avevamo promesso di non polemizzare con la Lega per almeno un mese. Promessa infranta. Chiediamo umilmente scusa, ma non ne possiamo fare a meno". E ancora: "Loro urlano per non far sentire la verità. Fanno fumo per nascondere l’assenza dell’arrosto". Per Rossi, le argomentazioni usate da Zaia (che ha parlato di area socio-economia) non fanno altro che confermare la bontà delle posizioni di Fini. "La Padania che non esiste è quella di cui parla l’articolo primo dello Statuto della Lega Nord: la Padania come Repubblica Federale indipendente e sovrana".
Bossi: "Padania, eccome se esiste". "Ci sono grosso modo 10 milioni di persone disposte a battersi per la Padania: vuol dire che esiste". Così Umberto Bossi replica nuovamente al presidente della Camera, Gianfranco Fini. "Certo, non c’è lo stato padano, ma la Padania esiste" precisa il leader del Carroccio.
Zaia e Cota. I neo-governatori del Veneto e del Piemonte si schierano in difesa delle posizioni di Bossi. Per Roberto Cota, "Fini può dire quello che vuole, ma la Padania esiste. E’ sempre esistita nella storia; esiste nella realtà socioeconomica e la controprova sono i nostri consensi, che aumentano sempre di più. Poi la provocazione di Luca Zaia: "Se la Padania è un’invenzione allora lo sono anche il Sud e la questione meridionale. La Padania intesa come area socio-culturale, economica e politica è una realtà censita a livello nazionale e internazionale dai più autorevoli osservatori".
La controreplica di Fini. "Accetto la sfida: sarò più presente al nord. Lì servono meno tasse, non badiere verdi". Il presidente della Camera affida al sito di Generazione Italia 3, attraverso una risposta ad un lettore del nord, la replica ai governatori del Carroccio. "Perdere tempo a discutere di una cosa che non esiste 4 (la Padania) ci mette fuori strada rispetto al problema vero: come permettere al motore economico dell’Italia di essere competitivo e vincente nell’economia globalizzata. E quindi meno tasse, meno burocrazia, meno lacci e lacciuoli".
"E non dimentichiamo - ha aggiunto il presidente della Camera - che non possiamo eliminare con un tratto di penna la questione meridionale: metà del Paese è nelle mani della criminalità organizzata e ha un reddito pro-capite di circa la metà rispetto a quello del Nord". Fini ha concluso precisando che, dal suo punto di vista, la "favola-Padania" serve solo "a gridare contro "Roma ladrona" per poi però continuare a lasciare tutto così com’è".
Il sondaggio Ispo. Soltanto il 10 per cento dei cittadini del Nord, Emilia Romagna esclusa, è favorevole alla secessione e alla creazione della Padania come stato indipendente. Sono questi i dati di un sondaggio rivelati dal presidente dell’ISPO Renato Mannheimer. E il "sentimento secessionista" non sarebbe diffuso neanche tra la maggioranza degli elettori della Lega. Per Mannheimer, "all’interno degli elettori della Lega, il 40% circa vuole staccarsi dal resto dell’Italia. Il sentimento secessionista è più forte in Veneto, seguono Lombardia e Piemonte".
* la Repubblica, 22 giugno 2010
La patria immaginaria
di ILVO DIAMANTI *
"La Padania non esiste", ha sostenuto il presidente della Camera, Gianfranco Fini, all’indomani della manifestazione di Pontida. Capitale simbolica della Patria "padana". Dove sono echeggiati discorsi che evocano il federalismo, la secessione. Distintamente o in alternativa. Come ha fatto il viceministro Castelli, minacciando: "Federalismo o secessione!".
Si potrebbe dire che, mai come oggi, la Lega abbia assunto centralità politica e culturale, in questo Paese disorientato. Perché mai come oggi il dibattito politico appare contrassegnato dal linguaggio introdotto - e imposto - dalla Lega. Tutto interno e intorno all’appartenenza e all’identità territoriale. Gianfranco Fini ha, infatti, pronunciato le sue critiche intervenendo a un seminario sul tema: "Patriottismo repubblicano e Unità d’Italia". Appunto: l’Unità d’Italia. Divenuta un tema centrale dell’agenda politica, proprio in vista del 150enario. Come tutto quel che riguarda l’Italia: l’inno di Mameli, la nazionale di calcio, il Tricolore. E, sotto il profilo dell’organizzazione dello Stato: il federalismo. Anche questa, una definizione largamente in-definita. Perché non è mai stato chiarito, fino in fondo, cosa si intenda. Quale Italia, con quali e quante regioni, macro-regioni, meso-regioni.
Tanto noi siamo ormai un laboratorio avanzato del riformismo. A parole. Capaci di lanciare la corsa al federalismo fiscale e, al contempo, di asfissiare Regioni e Comuni, dotati di poteri che non possono esercitare per assoluta mancanza di risorse. Capaci di affidare la stessa materia - il federalismo - a 3 (tre) ministri: Bossi, Calderoli e, da qualche giorno, Brancher. Questo Paese, ormai politicamente diviso tra Nord, Centro e Sud. Assai più che fra Destra e Sinistra. Oggi si trova, di nuovo, a discutere di Padania. Che è una patria immaginaria. Ma, tanto in quanto se ne parla, tanto in quanto diventa l’etichetta di prodotti e manifestazioni (dai campionati di calcio ai concorsi di bellezza ai festival della canzone), tanto in quanto è discussa: esiste. Come "invenzione", operazione di marketing. Ma c’è.
Per questo, le polemiche di questi giorni confermano l’importanza della Lega, come attore politico e - ripeto, senza timore di ironie - culturale. Perno di una maggioranza di centrodestra, altrimenti povera di radici e identità. Il problema, per la Lega è che anch’essa rischia di essere danneggiata dal crescente successo dei suoi miti e del suo linguaggio. Perché le impedisce di usare, come sempre, le parole e le rivendicazioni in modo plastico e allusivo. E, dunque, di muoversi in modo agile sulla scena politica. Anche in passato, d’altronde, l’invenzione della Padania, dopo un primo momento di successo, divenne un vincolo.
Il "lancio" della Padania, lo ricordiamo, avviene tra il 1995-96, dopo la fine burrascosa dell’esperienza di governo con Berlusconi. Allora la Lega smette di parlare di federalismo - lo fanno tutti. E comincia a rivendicare prima l’indipendenza e poi la secessione. Per smarcarsi, per posizionarsi là dove nessuno la può raggiungere. Allora nasce la Padania. Che non è semplicemente il Nord. La patria dei produttori e dei lavoratori contro Roma ladrona e il Sud parassita. No. La Padania è una Nazione. Altra. Diversa dall’Italia. E quindi alternativa. In nome della Padania, Bossi e la Lega trionfano alle elezioni del 1996 (il risultato in assoluto più ampio raggiunto fino ad oggi). Promuovono una marcia lungo il Po, nel settembre successivo. A cui partecipano alcune decine di migliaia di persone. Poche per proclamare la secessione. Da lì il rapido declino della Lega Padana. Abbandonata da gran parte dei suoi elettori, che la volevano (e la vogliono) sindacalista del Nord a Roma. Non movimento irredentista di una Patria indefinita.
Per questo nel 1999 Bossi rientra nell’alleanza di centrodestra, accanto a Berlusconi. Per questo riprende la tela del federalismo. La secessione scompare. La Padania diventa un mito. Un rito da celebrare una volta all’anno. Che, tuttavia, oggi suscita imbarazzo. Come gli altri miti su cui poggia l’identità leghista. L’antagonismo contro Roma. La lotta contro l’Italia e contro lo Stato centrale. Perché oggi la Lega governa a Roma, a stretto contatto con i poteri centrali dello Stato nazionale italiano. Usa un linguaggio rivoluzionario, ma è un attore politico normale e istituzionalizzato.
Nel 1992 Gian Enrico Rusconi scrisse che la provocazione della Lega ci ha costretti a ragionare su cosa avverrebbe se cessassimo di essere una nazione. Ci ha imposto, cioè, di riflettere sulla nostra identità nazionale. Oggi, per ironia della storia, è la Lega - come ha sottolineato Fini - a trovarsi di fronte alla stessa questione. Se le sia possibile, cioè, "cessare di essere padana". Spiegando, apertamente, ai suoi stessi elettori e agli elettori in generale, dove si ponga. Fra l’Italia e la Padania. Federalismo e secessione. Opposizione e governo.
* la Repubblica, 22 giugno 2010
Pretendiamo rispetto
di Gian Carlo Caselli (il Fatto, 15.06.2010)
Ennesimo attacco del premier contro i giudici, che sarebbero “politicizzati” e avrebbero l’obiettivo di rovesciare per via giudiziaria il risultato elettorale. Tesi non priva di un che di grottesco. Liquidata dalla “Jena”, sul quotidiano “La Stampa”, osservando che dopo 16 anni di tentativi inutili i giudici andrebbero licenziati per manifesta incapacità...
Ma l’ironia non basta. La ripetizione ossessiva di una tesi, anche bislacca, con martellanti campagne spesso prive di contraddittorio, finisce per diffondere e consolidare un pregiudizio pericoloso per la democrazia. Perché in democrazia la fiducia dei cittadini nella giustizia non è un optional, ma un elemento strutturale: se viene meno, si affaccia il rischio di derive illiberali e disgreganti. I tentativi del premier di circoscrivere i suoi attacchi ad una parte della magistratura non sono credibili perché smentiti dalle vicende degli ultimi anni. L’attacco si è rivelato a geometria variabile, nel senso che è di assoluta evidenza come siano stati costretti a subirlo tutti i magistrati (proprio tutti: pm e giudici, fino alle Sezioni Unite della Cassazione e addirittura alla Corte costituzionale) che adempiendo i loro doveri, in qualunque città o ufficio, abbiano avuto la sventura di imbattersi in interessi che pretendono di sottrarsi ai controlli istituzionali previsti per tutti gli altri.
Ma l’obiettivo di una propaganda tanto infondata quanto insistita è anche distogliere l’attenzione rispetto ai veri problemi che angosciano il Paese. Riproporre il vecchio ma sempre verde ritornello della magistratura politicizzata significa parlare meno della crisi economica; della manovra finanziaria; delle pensioni; del lavoro che non c’è o se c’è è sempre più spesso nero, precario, insicuro.
Significa provare ad offuscare la realtà incontestabile di una legge sulle intercettazioni che stritola in una tenaglia micidiale informazione, investigazione e sicurezza dei cittadini, picconando in un colpo solo alcune pietre angolari della democrazia.
Significa continuare ad ignorare la catastrofe annunziata del sistema giustizia, per tirare invece la volata a riforme che invece di migliorare anche solo un poco l’efficienza del sistema taglieranno ancora di più le unghie agli inquirenti. Dunque, evocare complotti giudiziari, disegni politici realizzati mediante l’azione penale, persecuzioni per motivi di parte può essere utile perché sempre meno si ragioni sui fatti. Ma questi metodi e questa cultura rischiano di uccidere la verità e la giustizia, rendendo un pessimo servizio al Paese.
L’Associazione nazionale magistrati, facendo il suo mestiere, prova ad arginare questa strumentale ondata di propaganda basata sul nulla, ma gli spazi che riesce a ritagliarsi sono sempre più esigui. Il Consiglio superiore della magistratura ha sempre fatto di tutto per difendere l’autonomia e l’indipendenza dei giudici contro gli attacchi di certa politica, ma non possiede radio o televisioni che diffondano ovunque il suo “verbo”. Anzi, dovrà presto pagare il rifiuto sempre opposto alle richieste di maggior “docilità” subendo una trasformazione (due Csm separati per separare le carriere, in vista della agognata - anche se a parole negata - sottoposizione del pm al governo), trasformazione che non è prevista dalla Costituzione, ma tanto si sa che la Costituzione è vista da qualcuno come una pratica da archiviare, non come una Carta di valori irrinunciabili, una spinta al continuo miglioramento del tasso di democrazia del sistema, che nello stesso tempo funziona da argine ai tentativi di arretramento.
Il ministro Guardasigilli, il presidente della Camera e il presidente del Senato potrebbero, ciascuno nell’ambito delle proprie competenze istituzionali, intervenire in qualche modo per recuperare un clima di rispetto verso l’ordine giudiziario. Non mi sembra che abbiano molta voglia di farlo. E allora, non resta che sperare in qualcun altro. Che però è troppo in alto perché possa arrivargli la voce sommessa di uno dei tanti servitori dello Stato stanchi di essere vilipesi “a gratis”.
LA COMMEMORAZIONE
Napolitano: "Chi pensa a secessioni
coltiva un salto nel buio"
Il capo dello Stato a Marsala per la rievocazione della spedizione di Garibaldi "Penosi i commenti liquidatori contro l’unità di Italia" *
MARSALA - "Chi si trova a immaginare o prospettare una nuova frammentazione dello Stato nazionale, attraverso secessioni o separazioni comunque concepite, coltiva un autentico salto nel buio". Così il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha parlato a Marsala nel suo intervento alla cerimonia organizzata nell’ambito del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia. Il Capo dello Stato è stato accolto da un bagno di folla, tra cori, applausi scroscianti e sventolio di bandierine tricolori.
"Non c’è nulla di retorico nel celebrare l’unità conseguita dall’Italia, è un modo di rinnovare il patto fondativo della nostra nazione", ha detto Napolitano sul molo del porto, salutando le due imbarcazioni salpate da Quarto che simboleggiano lo sbarco della spedizione garibaldina del 5 maggio di 149 anni fa, rievocazione ostacolata oggi dal forte vento. Vento su cui il presidente si è concesso una battuta: "E’ una giornata bellissima e ventosa. E siamo davanti a una meravigliosa manifestazione di popolo" ha detto rivolgendosi alla gente in piazza, scolaresche, cittadini, molti bambini con camicie e berretti rossi, in onore del colore delle divise garibaldine. Questo "fa capire che l’unità è uno straordinario e fondamentale patrimonio collettivo del popolo italiano. Celebrarla quindi non ha nulla di retorico ma è un modo di rinnovare il patto fondativo della nostra nazione".
Queste celebrazioni, ha sottolineato ancora il presidente della Repubblica, "sono l’occasione per determinare un clima nuovo nel rapporto tra le diverse realtà del Paese, nel modo in cui ciascuna guarda alle altre, con l’obiettivo supremo di una rinnovata e salda unità che è, siamone certi, la sola garanzia per il nostro comune futuro", ha detto. "Chiedo a tutte le forze responsabili che operano nel Nord e lo rappresentano, di riflettere fino in fondo su un dato cruciale: l’Italia deve nel medio e lungo periodo crescere di più e meglio, ma può riuscirvi solo se crescerà insieme, solo se si metteranno a frutto le risorse finora sottoimpiegate, le potenzialità, le energie delle regioni meridionali", ha aggiunto.
"Le critiche - ha detto ancora Napolitano - che è legittimo muovere in modo argomentato e costruttivo agli indirizzi della politica nazionale, per scarsa sensibilità e aderenza ai bisogni della Sicilia e del Mezzogiorno, non possono essere accompagnate da reticenze e silenzi su quel che va corretto, anche profondamente, qui nel Sud". Il capo dello Stato, parlando dei punti da correggere, ha specificato che il suo riferimento è "alla gestione dei poteri regionali e locali, al funzionamento delle amministrazioni pubbliche, agli atteggiamenti del settore privato e ai comportamenti collettivi". "Parlo di correzioni essenziali - ha sottolineato Napolitano -, anche al fine di debellare la piaga mortale della criminalità organizzata".
Dal porto, Napolitano ha raggiunto il municipio dove ha salutato il consiglio comunale e poi, a piedi, insieme al sindaco e al ministro della Difesa, Ignazio La Russa, ha raggiunto la piazza della Repubblica che ospita la celebrazione storica.
* la Repubblica, 11 maggio 2010
Perché siamo un Paese sull’orlo del Baratro
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 05.03.2010)
Il nostro paese è sul crinale di un baratro politico e criminale e non sarà questa maggioranza a ripristinare la fiducia nella politica e nei partiti. Come altre volte in passato, un’altra Italia sarà necessaria a rimediare al disastro di una violazione sistematica e proterva della legalità e del civismo, nella pubblica amministrazione come nella società civile (la quale non è per nulla innocente). Questa maggioranza non lo può fare per ragioni che sono politiche prima che giudiziarie, connaturate ad essa e al messaggio che ha in questi anni confezionato e propagandato per creare una sua solida base elettorale.
All’origine della difficoltà del premier e del suo governo di varare lo sbandierato provvedimento anti-corruzione c’è questa endogena incapacità (e impossibilità) di distinguere tra interesse e giustizia, di vedere la corruzione e soprattutto di rinunciare ai suoi sperimentati vantaggi elettorali. Questa incapacità e impossibilità è contenuta nel messaggio contraddittorio che viene da Palazzo Chigi. Infatti, se il sistema di malaffare che ci rende ancora una volta così vergognosamente popolari nel mondo è davvero opera dei proverbiali quattro gatti e di birbantelli, allora che bisogno c’è di un intervento urgente? Non ce n’è proprio. Ma allora, perché dar voce a questa nuova fanfara dell’emergenza quando nel frattempo si rappresenta lo stato delle cose in un modo che non giustifica alcuna impellenza?
Una spiegazione facile è che l’idea del fare pulizia è molto popolare; e quando si è a ridosso di elezioni e si vuole, si deve, incrementare la propria popolarità. La propaganda della pulizia può pagare, e soprattutto lo può per un tempo che si vuole limitato. Un anno e mezzo fa, per la precisione nell’autunno del 2008, il presidente del Consiglio aveva annunciato la creazione di una nuova unità speciale che avrebbe dovuto eliminare la corruzione nelle amministrazioni pubbliche e garantire più trasparenza. La task-force non doveva avere il compito di polizia, ma di "intelligence". Proponendo una politica dell’emergenza per fronteggiare l’emergenza corruzione, il capo del governo parlò allora della corruzione come di una antica patologia nel nostro paese.
Mai parole furono più vere, eppure chi si ricorda oggi di quella task-force? La propagandata fa rumore e passa, non si sedimenta nella memoria. E la nuova ondata propagandistica mira a fare proprio questo: mostrare che si vuol "fare"; usare una strategia moralizzante per creare una nebbia di malaffare nella previsione che, finita la campagna elettorale, l’oblio del circo mediatico che macina tutto così in fretta da non lasciare quasi traccia farà il suo corso. Proprio come la task-force di un anno e mezzo fa, tra qualche mese ci si ricorderà a mala pena di questo can can di nomi. Ma c’è una ragione ancora più radicale che suggerisce di diffidare di questi propositi di mettere in piedi un’impresa di pulizia morale, una ragione sintetizzabile in una domanda: come può un’oligarchia che con tempo e fatica si è consolidata in questi anni di politica berlusconiana fare leggi contro se stessa e per auto-liquidarsi? Ecco allora che si comprende l’uso dell’espressione "birbantelli": pochi ed esemplari agnelli sacrificali serviranno a chiudere presto il caso e a rimettere in moto la macchina senza troppe perdite collaterali. Entrambe queste ragioni - la propaganda della moralizzazione e l’esemplarità del fare - inducono a pensare che non siamo proprio a un ritorno al passato, ma semmai a una escalation e in effetti a un grande peggioramento rispetto a mani pulite atto primo. Poiché allora un’intera classe dirigente fu spazzata via, non solo alcuni birbanti (la tattica dei "mariuoli" di Bettino Craxi allora non funzionò); nessuno aveva il potere di creare salvagenti perché la fine della Guerra fredda aveva reso quella vecchia oligarchia arrugginita, vulnerabile e nuda. Ma questa nuova oligarchia ha costruito i suoi anti-corpi in un ambiente ben diverso, un ambiente non protetto da alleanze internazionali; essa è quindi più forte, più radicata e resistente di quella che vedemmo naufragare diciotto anni fa. Infatti, oggi esiste un’oligarchia che non è ancora sotto accusa da parte dell’opinione pubblica perché ha nel frattempo costruito una macchina per creare un’opinione pubblica addomesticata e recettiva ai disvalori pubblici, grazie in primo luogo all’uso monopolistico dei media e alla pratica sistematica di nascondimento del vero.
Propaganda ed esemplarità si alimentano a vicenda: dunque i proclami propagandistici sulle poche mele marce e la promessa di un decreto anti-corruzione affinché l’acqua torni presto nel proprio alveo e scorra come sempre. Ecco il paradosso: una politica che si presenta come moraleggiante e che è contemporaneamente sovvertitrice di ogni valore legale ed etico. Queste due dimensioni si sono per anni alimentate a vicenda generando quel mostruoso connubio di attenzione morbosa dei media e di altrettanto sconvolgente immutabilità delle cose, con la conseguenza di un peggioramento radicale della situazione legale e etica. È per queste ragioni che ci troviamo su un baratro dal quale questa maggioranza non può salvarci.
Pdl, ricorsi respinti: Berlusconi in piazza
E Napolitano: «Che pasticcio con le liste» *
Il premier giovedì a Piazza Farnese con la Polverini. Cicchitto:«Così voto falsato». Il governo valuta ipotesi dl
MILANO -«Un pasticcio». Parola di Giorgio Napolitano. Il presidente della Repubblica ha commentato così l’intricata vicenda delle liste elettorali del Pdl che non sono state ammesse alle elezioni regionali. Il presidente della Repubblica ha parlato a Bruxelles, dove si trova in visita, dopo l’incontro con i vertici delle istituzioni europee. Il capo dello Stato non ha aggiunto nulla, ma a quanto si apprende la linea del Quirinale rimane quella fissata nei giorni scorsi da una nota ufficiale, in cui si afferma che la competenza sulla questione è della magistratura. Napolitano rientrerà al Quirinale venerdì mattina e probabilmente sarà investito da nuove richieste di concorrere al chiarimento della questione. Fabrizio Cicchitto (LaPresse)
E se il caos liste è «un pasticcio» per il Colle, esplode la rabbia del centrodestra dopo il doppio stop alle liste del Pdl nel Lazio e in Lombardia. Nella Capitale è stato infatti respinto il ricorso del Pdl per la riammissione della lista della provincia di Roma a sostegno della candidata Renata Polverini. E a Milano, la Corte d’Appello non ha ammesso la «Lista per la Lombardia» di Roberto Formigoni alle elezioni regionali lombarde: anche in questo caso è stato respinto il ricorso presentato dalla stessa lista contro il precedente provvedimento di esclusione. Il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, che mercoledì sera ha incontrato Denis Verdini e Ignazio La Russa (annullando inoltre all’ultimo minuto le interviste con alcune televisioni locali in programma proprio per la campagna elettorale delle regionali) ha deciso che parteciperà giovedì alle 17 alla manifestazione promossa dalla candidata del centrodestra alla guida della Regione Lazio Renata Polverini a piazza Farnese a Roma. Il premier, secondo quanto riferisce chi lo ha incontrato, potrebbe prendere la parola sul palco al fianco della Polverini per sostenere la sua candidatura alla luce delle polemiche per l’esclusione della lista del Pdl della provincia di Roma. «Abbiamo convocato domani un ufficio di presidenza del Pdl» a proposito dell’esclusione di alcune liste di centrodestra in Lazio e Lombardia, ha detto mercoledì sera La Russa lasciando Palazzo Grazioli. Fra le ipotesi che l’Ufficio di presidenza valuterà per superare l’impasse delle liste ci sarà anche quella di un decreto. Lo riferiscono fonti parlamentari della maggioranza al termine dell’incontro fra Silvio Berlusconi e i coordinatori del partito a palazzo Grazioli.
«DEMOCRAZIA A RISCHIO» - La maggioranza intanto parla apertamente di «voto falsato» e punta il dito contro «i furbi che vogliono vincere a tavolino». Il capogruppo del Pdl alla Camera, Fabrizio Cicchitto, non usa mezzi termini: «I ricorsi respinti sia della lista Formigoni, sia di quella provinciale del PdL del Lazio per Renata Polverini insieme all’accettazione della lista di disturbo a Cota in Piemonte, dimostrano che queste elezioni corrono il rischio di essere falsate con conseguenze gravissime per la nostra democrazia. Altro che dilettanti allo sbaraglio». Per il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Paolo Bonaiuti, il doppio stop è una cosa impensabile: «Come si può pensare di lasciare senza scelta nel momento più alto della democrazia, quello del voto, due Regioni che insieme rappresentano più di un quarto della popolazione italiana?» ha detto Bonaiuti riferendosi al Lazio e alla Lombardia. «Voglio sentire al più presto Bossi e Berlusconi - dice Roberto Calderoli - e poi decideremo perché serve subito una risposta politica ai furbi che cercano le vittorie a tavolino». «O il simbolo della Lega sarà presente dove abbiamo deciso di candidarci o tanto vale non presentarci alle elezioni perché non sarebbero valide» ha aggiunto il ministro leghista.
«CONFIDIAMO NEL TAR» - «Vincere facile, correndo da soli, è l’opposto della democrazia» è l’affondo di Ignazio La Russa, che non sembra sorpreso dagli ultimi sviluppi del caso e appare ottimista sugli ulteriori ricorsi. «Per noi non è una sorpresa», ma ora «confidiamo nella decisione del Tar» ha detto il ministro della Difesa e coordinatore Pdl. «Per noi non è una sorpresa la decisione della Corte d’appello, perché è un’anomalia, legata alla riforma del voto regionale, il fatto che si affidi allo stesso organi la potestà di decidere su un ricorso a una decisione presa dalla Corte stessa. In ventiquattr’ore raramente il ricorso ha la forza di modificare una decisione appena presa. Questa anomalia è stata introdotta con il Tatarellum che ha istituito il listino senza indicare un organo giudicante diverso dal primo. Dunque ritenevamo molto improbabile, anche se non impossibile, un cambiamento». «A questo punto - ha aggiunto La Russa - confidiamo nel Tar. Non credo che metà Lombardia possa essere privata del diritto di esprimersi perchè un bollo è quadrato invece che tondo. Sono irregolarità meramente formali. Penso che il Tar ci darà ragione».
«MARCIA SU ROMA?» - «Ora assisteremo a una marcia su Roma da parte del neofascista La Russa?» chiede provocatoriamente il leader dell’Idv Antonio Di Pietro commentando in Transatlantico alla Camera le parole del ministro della Difesa sull’esclusione di liste del centrodestra alle regionali («siamo pronti a tutti» aveva detto La Russa). «Per fortuna - ha aggiunto l’ex pm - oggi non è come allora e se dovessero farlo ci sarebbe una rivolta sociale che metterebbe a rischio la convivenza pacifica».
«NON PUNTIAMO A TURBARE IL VOTO» - «Ci sono diversi sedi istituzionali che devono giudicare; aspettiamo serenamente che finiscano queste pratiche, e noi non cerchiamo avvenimenti che turbino la fisiologia del voto» ha detto da parte sua il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani. «Detto questo - ha proseguito -, ci sono regole uguali per tutti e tutti devono rispettarle. Credo che ci si debba rimettere alle procedure di garanzia che la nostra legge fissa a iosa. Di più - ha concluso - non dico».
Redazione online
* Corriere della Sera, 03 marzo 2010
"Non c’è alternativa al crescere insieme, di più e meglio insieme, Nord e Sud" *
"Per ardui che siano gli sforzi da compiere, non c’è alternativa al crescere insieme, di più e meglio insieme, Nord e Sud, essendo storicamente insostenibili e obbiettivamente inimmaginabili nell’Europa e nel mondo d’oggi prospettive separatiste o indipendentiste, e più semplicemente ipotesi di sviluppo autosufficiente di una parte soltanto, fosse anche la più avanzata economicamente, dell’Italia unita. Tutte le tensioni, le spinte divisive, e le sfide nuove con cui è chiamata a fare i conti la nostra unità, vanno riconosciute, non taciute o minimizzate, e vanno affrontate con il necessario coraggio".
* Conferenza del Presidente Napolitano: "Verso il 150° dell’Italia Unita: tra riflessione storica e nuove ragioni di impegno condiviso"
Roma, Accademia dei Lincei, 12/02/2010
IL COMMENTO
Le rivelazioni di Massimo Ciancimino Se fondate, sono accuse catastrofiche per la nostra democrazia
L’obbligo di chiarire quella leggenda nera
di GIUSEPPE D’AVANZO *
I MORTI non si possono smentire e i vivi hanno difficoltà a difendersi dalle parole di morti. È una condizione che crea inestricabili ambiguità. Si ascoltano con disagio le rivelazioni di Massimo Ciancimino. Le ragioni sono due. La prima può avere come titolo: il morto che parla. Perché a parlare con la voce di Massimo, il figlio, è Vito Ciancimino, il padre, il mafioso corleonese, il confidente di uno Stato debole e compromesso, il consigliere politico di Bernardo Provenzano. Anche se Massimo Ciancimino mostra di tanto in tanto una lettera o un pizzino, sono soprattutto i ricordi delle sue conversazioni con il padre la fonte delle accuse contro Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri.
Ricordiamole perché, se fondate, quelle accuse sono catastrofiche per la nostra democrazia (un uomo, che si è fatto imprenditore con il denaro della mafia e politico con la sua protezione, governa il Paese). Se menzognere e maligne, indicano che contro il capo del governo è in atto un’aggressione ricattatoria che fa leva su alcune oscurità della sua avventura umana e professionale. La mafia, dice Ciancimino, finanziò le iniziative imprenditoriali del "primo Berlusconi" (Milano2). Marcello Dell’Utri sostituì Vito Ciancimino nella trattativa tra lo Stato e Cosa Nostra innescata dopo la morte di Giovanni Falcone (23 maggio 1992) e la nascita di Forza Italia, nel 1993, è stata il frutto di quel pactum sceleris.
I ricordi del giovane Ciancimino inverano, con la concretezza di una testimonianza "diretta", la cattiva leggenda che accompagna da decenni il racconto mitologico della parabola imprenditoriale del presidente del Consiglio. Si può dire così: quelle dichiarazioni riordinano in un resoconto esaustivo e "chiuso" l’intera gamma delle incoerenze che Berlusconi e i suoi collaboratori nella fondazione dell’impero hanno lasciato nel tempo incancrenire per non volerle mai affrontare. Come già è accaduto quando in un’aula giudiziaria è apparso Gaspare Spatuzza, si deve ricordare che Cosa Nostra è tra gli anni settanta e ottanta molto vicina alle "cose" di Silvio Berlusconi e ricompare ancora nel 1994 quando il ministro dell’Interno dell’epoca, Nicola Mancino, dice chiaro che "Cosa Nostra garantirà il suo appoggio a Forza Italia".
I legami tra Marcello Dell’Utri e i mafiosi di Palermo non sono una novità. Come non sono sconosciuti gli incontri tra Silvio Berlusconi e la crème de la crème di Cosa Nostra (Stefano Bontate, Mimmo Teresi, Tanino Cinà, Francesco Di Carlo). Né sono inedite le rivelazioni sulla latitanza di Gaetano e Antonino Grado nella tenuta di Villa San Martino ad Arcore, protetta dalla presenza di Vittorio Mangano, capo del mandamento di Porta Nuova. Con quali capitali Berlusconi abbia preso il volo, a metà degli settanta, ancora oggi è mistero inglorioso.
Molto si è ragionato sulle fidejussioni concessegli da una boutique del credito come la Banca Rasini; sul flusso di denaro che gli consente di tenere a battesimo Edilnord e i primi ambiziosi progetti immobiliari, quando ancora Berlusconi non si dice proprietario dell’impresa, ma soltanto "socio d’opera" o "consulente". Quei capitali erano "neri" soltanto perché sottratti al fisco, espatriati e rientrati in condizioni più favorevoli o erano "sporchi" perché patrimonio riciclato delle ricchezze mafiose, come ha suggerito qualche mese fa Gaspare Spatuzza quando disse: "La Fininvest era un terreno di pertinenza di Filippo Graviano, come se fosse un suo investimento, come se fossero soldi messi di tasca sua"? Le parole di Massimo Ciancimino riportano alla luce anche un’ultima e antica contraddizione di Berlusconi e dei suoi cronisti disciplinati, la più bizzarra: la datazione della nascita di Forza Italia nel 1994 e l’ostinato rifiuto a ricordare che le doglie di quel parto cominciarono nella primavera del 1993 da un’idea covata da Marcello Dell’Utri fin dal 1992.
È una rosa di "vuoti" e antinomie che apre spazi al ricatto mafioso. E’ uno stato che dovrebbe preoccupare tutti. Cosa Nostra minaccia in un regolamento di conti il presidente del Consiglio. Ne conosce qualche segreto. Ha con lui delle cointeressenze antiche e inconfessabili. Le agita per condizionarne le scelte, ottenerne utili legislativi, regole carcerarie più favorevoli, minore pressione poliziesca e soprattutto la disponibilità di ricchezze che (lascia intuire) le sono state trafugate. Lo ripetiamo. In questo conflitto - da un lato, una banda di assassini; dall’altro un capo di governo liberamente eletto dal popolo, nonostante le sue opacità - non c’è dubbio con chi bisogna stare. E tuttavia il capo del governo (per sottrarre se stesso a quel ricatto rovinoso) e la magistratura (per evitare che un governo legittimo sia schiacciato da una coercizione criminale che ne condiziona le decisioni) sono chiamati a fare finalmente luce sull’inizio di una storia imprenditoriale e sull’incipit di un romanzo politico.
È la seconda ragione di disagio, l’assenza di iniziative politiche e giudiziarie a fronte di denunzie così gravi. Ogni cosa sembra risolversi in una "tempesta mediatica", in una rumorosa e breve baruffa che scatena per qualche giorno sospetti, furori e controsospetti e controfurori senza che si intraveda non un’evidenza in più che scacci i cattivi pensieri o li renda più fondati, ma addirittura non si scorge alcuna attività in grado di spiegare finalmente come stanno le cose. Il risultato è che ce ne stiamo qui stretti tra la possibilità di avere al governo un paramafioso, un riciclatore di soldi che puzzano di morte e la probabilità che l’uomo che ci governa sia ricattato da Cosa Nostra per qualche passo storto del passato. È un circuito che va interrotto nell’interesse di Berlusconi, del suo governo e del Paese, della sua credibilità internazionale.
I modi per chiudere questa storia sono certo laboriosi, forse dolorosi, ma agevoli. La magistratura (per quel che se ne sa, ancora non è stata aperta un’istruttoria) accerti la fondatezza delle testimonianze di Massimo Ciancimino e Gaspare Spatuzza - magari evitando di rovesciarle in un’aula di tribunale, prima di una loro verifica. Berlusconi rinunci a scatenare, come d’abitudine, i suoi cani da guardia e faccia finalmente i conti con il suo passato. Non in un’aula di giustizia, ma dinanzi all’opinione pubblica. Prima che sia Cosa Nostra a intrappolarlo e, con lui, il legittimo governo del Paese. È giunto il tempo che questo conflitto sia affrontato all’aperto e non risolto nel segreto con un gioco manipolato e incomprensibile che nasconde alla vista il ricatto, i ricattatori, la punizione minacciata, ciò che si può compromettere, un nuovo accordo salvifico.
Emergenza nazionale
di CARLO FEDERICO GROSSO (La Stampa, 30/1/2010)
Fra politica e magistratura sono tempi di grande tensione. Ma ieri, all’inaugurazione solenne dell’anno giudiziario in Cassazione davanti al parterre delle alte cariche dello Stato, i toni sono stati misurati e composti. È bene che sia stato così, anche se i problemi esistono, sono profondi e non sono certamente le chiacchierate di un mattino a dissiparli.
Il Primo Presidente e il Procuratore Generale della Cassazione hanno pronunciato parole condivisibili. Sullo sfondo vi era, ovviamente, il tema del «processo breve» appena votato in Senato dalla maggioranza con l’intento di salvaguardare il premier dai processi in corso. Entrambi i due alti magistrati hanno sottolineato che un processo rapido costituisce, comunque, esigenza imprescindibile di ogni società civile. Ma hanno soggiunto che l’obiettivo non può essere conseguito tramite leggi di giornata, asfittiche e di corto raggio; deve essere invece perseguito attraverso riforme organiche di vasto respiro, accompagnate da un potenziamento delle risorse umane e materiali destinate all’esercizio della giurisdizione.
Parole ineccepibili, che il mondo del diritto pronuncia da anni, ma che, per anni, sono state ignorate dalla politica che, giorno dopo giorno, ha lasciato che la giustizia s’impoverisse. Ha ragione il Primo Presidente a denunciare l’intollerabilità di una situazione che, nella gerarchia mondiale in materia di giustizia, vede l’Italia solo al centocinquantesimo posto, al pari del Gabon, della Guinea e dell’Angola. Ma occorre ricordare che, se ciò è capitato, è soprattutto colpa di chi, al governo e in Parlamento, a tutto ha pensato tranne che a rendere efficiente la macchina giudiziaria dotandola, per legge, dei mezzi e degli strumenti necessari.
Ed occorre, ulteriormente, ricordare, ancora una volta con le parole del Primo Presidente, che senza un disegno riformatore di ampio respiro della legislazione penale e dell’organizzazione giudiziaria sarebbe vano pretendere di «imporre ex lege una risposta di giustizia che possa in concreto essere breve ed efficace a fronte di un crescente carico di domanda». In altre parole, prescrivere per legge un processo breve senza dotare gli addetti dei mezzi e degli strumenti idonei a rispettare i tempi stabiliti, significa introdurre, semplicemente, una mannaia destinata a cancellare processi, condanne, soluzioni giudiziarie. Un disastro ulteriore, e forse definitivo.
Il ministro della Giustizia, stando alle notizie di agenzia, ha cercato di abbozzare, riconoscendo che la condizione della giustizia italiana, specie di quella civile, costituisce «una vera e propria emergenza nazionale», ed annunciando «un piano straordinario di smaltimento delle pendenze». In realtà, sarebbe necessario un progetto complessivo di intervento sui codici civili e penali, sugli organici del personale giudiziario, sulla distribuzione delle sedi giudiziarie, sulla copertura dei posti vacanti. Non un intervento straordinario, ma un ordinario, serio, riassetto globale del sistema legislativo e giudiziario.
Un’ultima annotazione. Sempre il ministro, in un unico accenno leggermente polemico in una giornata «pacificante» ricca di composto equilibrio istituzionale, ha dichiarato di avere rispetto per l’indipendenza dell’ordine giudiziario, ma ha sottolineato che «i giudici sono soggetti alla legge» e che «la legge la fa il Parlamento libero, democratico, espressione del popolo italiano», quello stesso popolo italiano in nome del quale i giudici pronunciano le loro sentenze.
Anche questa è annotazione, di per sé, assolutamente condivisibile, costituendo, ciò che è stato detto, fotografia della divisione dei poteri propria dello Stato di diritto. Occorre tuttavia ricordare, al ministro e a noi tutti, che il Parlamento, nel legiferare, è sovrano, ma è, comunque, tenuto a rispettare la Costituzione (cosa sovente dimenticata in questi ultimi tempi). Nel dibattito di ieri in Cassazione è stato d’altronde ignorato un profilo di grande importanza. Si è parlato ampiamente della necessità di riformare con legge ordinaria la giustizia penale e civile per renderla efficiente (cosa sulla quale sono tutti, bene o male, a parole d’accordo); si è però taciuto sulle ventilate riforme costituzionali attraverso le quali una parte consistente del personale dei partiti intenderebbe rimodulare i rapporti di potere fra politica e magistratura.
È, questo, un profilo di grandissima delicatezza. Non si vorrebbe infatti che, con la scusa del riequilibrio fra i poteri dello Stato, si intendesse in realtà proteggere in modo abnorme il mondo politico intriso di malaffare. La speranza è che il clima con il quale il tema della giustizia ordinaria è stato affrontato ieri nell’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione consenta di affrontare con altrettanta distensione anche quello, assai meno pacifico, che concerne la ventilata riforma costituzionale. Per intanto si attende con una certa apprensione che cosa accadrà, oggi, nelle inaugurazioni dell’anno giudiziario in ciascuna sede di Corte d’Appello.
La giunta Anm ha deciso le modalità dell’iniziativa di sabato in occasione delle cerimonie presso le 26 corti d’Appello italiane
nelle Aule i giudici saranno con toga e Costituzione in mano. "Basta aggressioni e insulti dal premier"
Anno giudiziario, la protesta delle toghe
"Sedie vuote quando parlerà il ministero"
Il Guardasigilli: "Hanno scelto di macchiare una giornata che è per i cittadini e per il loro diritto di avere giustizia"
ROMA - Presenti con la toga e con una copia della Costituzione in mano nelle aule delle cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario nelle 26 corti d’Appello. Aule che però i magistrati abbandoneranno per protesta quando prenderà la parola il rappresentante del ministero della Giustizia, non prima di aver letto un durissimo documento che chiama in causa direttamente il presidente del Consiglio: "Basta insulti e aggressioni", affermano le toghe. I magistrati si dicono certe che "la dignità della magistratura verrà tutelata dal garante degli equilibri costituzionali", cioè dal capo dello Stato. "L’Associazione nazionale magistrati ha scelto di macchiare una giornata che è per i cittadini e per il loro diritto di avere giustizia", è la replica del ministro della Giustizia Angelino Alfano.
Durante le cerimonie nei distretti di corte d’Appello i magistrati indosseranno la toga e avranno in mano una copia della Costituzione "per simboleggiare il forte attaccamento alla funzione giudiziaria e alla Carta costituzionale", spiega l’Anm in una nota. Ma al momento dell’intervento del rappresentante del ministero della giustizia "lasceranno in maniera composta l’aula per testimoniare il proprio disagio per le iniziative legislative in corso, che rischiano di distruggere la giustizia in Italia, e per la mancanza degli interventi necessari ad assicurare l’efficienza del sistema"; e soltanto alla fine rientreranno. A decidere le modalità della protesta che le toghe metteranno in atto sabato prossimo è stata oggi la giunta dell’Anm.
I presidenti delle sezioni locali dell’Associazione leggeranno il documento predisposto dai vertici del ’sindacato delle toghe’ e alla fine del suo intervento mostrerà una copia del dossier "Le verità dell’Europa sui magistrati italiani", che poi consegnerà al presidente della corte d’Appello. Contemporaneamente i rappresentanti della giunta locale distribuiranno ai presenti copie del dossier. Conclusa la cerimonia, ogni giunta locale dell’Anm organizzerà una conferenza stampa nella quale, oltre a illustrare il documento e il dossier, si esporranno le particolari situazioni del distretto.
Il documento. "Non intendiamo assuefarci ad un costume politico che ha reso pratica quotidiana l’insulto e il dileggio", afferma il documento dell’Anm. E invece "ogni giorno siamo costretti ad ascoltare invettive e aggressioni nei confronti dei magistrati. ’Cloaca’, ’cancro’, ’metastasi’, ’disturbati mentali’, ’plotoni di esecuzione’ sono solo alcune delle espressioni utilizzate dal capo del governo e da esponenti politici di primo piano nei confronti della magistratura". "I magistrati - sottolinea ancora l’Anm- non sono parte di un conflitto e non sono contrapposti a nessuno. Per questo diciamo basta alle aggressioni". L’Anm punta l’indice anche contro "la ’campagna mediatica’ condotta da taluni organi di stampa contro i magistrati", che "si alimenta di dati e informazioni false e che dipinge i magistrati come fannulloni strapagati, unici responsabili del dissesto del sistema giudiziario". Per contrastarla l’Anm ha pubblicato e diffuso dati ufficiali del rapporto della Commissione europea (CEPEJ) che "smentiscono in maniera oggettiva queste menzogne", un dossier che sarà distribuito durante le cerimonie di sabato prossimo.
"Basta con riforme distruttive del sistema giudiziario", con "leggi prive di razionalità e di coerenza, pensate esclusivamente con riferimento a singole vicende giudiziarie e che hanno finito per mettere in ginocchio la giustizia penale in questo Paese", afermano ancora i magistrati.
Il documento punta l’indice contro più riforme del governo e della maggioranza a cominciare da quella sul processo breve: già con la Legge ex Cirielli - scrivono le toghe - "il numero di processi che si chiudono con la prescrizione è balzato alla impressionante cifra di 170.000 l’anno"; ma questi aumenteranno "in maniera esponenziale" se dovesse diventare il ddl sul processo breve "che ridurrà il processo penale ad una tragica farsa e determinerà un rischioso disordine organizzativo con effetti pregiudizievoli sulla tutela dei diritti dei cittadini anche nel settore civile".
"Rispettiamo l’autonomia del Parlamento - afferma l’Anm- ma è nostro dovere segnalare alla politica gli effetti e le ricadute che singoli provvedimenti legislativi possono avere sul sistema. Sentiamo pertanto il dovere di dire che se dovessero essere approvate anche la riforma delle intercettazioni e la riforma del processo penale proposte dal Governo e in discussione in parlamento, non sarebbe in nessun modo possibile assicurare giustizia in questo Paese".
In alternativa a quelle "distruttive" l’Anm chiede che si facciano le "vere riforme" , quelle che cioè servono a rendere più celeri i giudizi. Le toghe sollecitano la revisione delle circoscrizioni giudiziarie; la riforma delle procedure nel civile e nel penale, per togliere alla parte "che ha interesse al prolungamento del processo la possibilità di ’abusare’ dei diritti per sottrarsi alle proprie responsabilità, l’informatizzazione dei processi, la depenalizzazione dei reati minori e la introduzione di pene alternative al carcere. Oltre a chidere investimenti sul personale amministrativo, sulla riqualificazione, sull’innovazione informatica; risorse e mezzi "adeguati alla gravità della situazione".
Reazioni. "L’Anm piuttosto che inaugurare l’anno giudiziario ha deciso di inaugurare la campagna elettorale in vista delle elezioni per il Csm che si terranno in primavera" ed "ha scelto di macchiare una giornata che è per i cittadini e per il loro diritto di avere giustizia". Lo afferma il Guardasigilli Angelino Alfano che aggiunge: "sono il ministro della Giustizia, servo il mio paese e ho giurato sulla Costituzione. A differenza di coloro che seguiranno le improvvide indicazioni dell’Anm, parteciperò all’inaugurazione dell’anno giudiziario presso la Suprema Corte di Cassazione alla presenza del Presidente della Repubblica".
Duro il coordinatore del Pdl, Sandro Bondi. "La decisione annunciata dall’Anm - dice - è una profonda e oltraggiosa lesione dell’ordine democratico e costituzionale. A questo punto è improcrastinabile una posizione chiara di tutte le Istituzioni a salvaguardia delle legittime prerogative democratiche".
"Registriamo la singolare concezione della democrazia del ministro Bondi, che nega persino il diritto ad esprimere il dissenso a chi ha il compito di rappresentare i magistrati, mentre trova assolutamente normale che il Parlamento continui a varare norme che contribuiscono alla destrutturazione del già malandato sistema giudiziario". Lo dichiara in una nota il presidente del Forum Giustizia del Pd, Andrea Orlando ’suggerendo’ al governo di "guardare al merito delle questioni segnalate in modo unitario da tutte le componenti della magistratura" piuttosto che "alzare i toni".
"Un governo responsabile invece di accusare, ancora una volta, i magistrati di essere sobillatori, rifletta sulle ragioni profonde della loro protesta, che non sono una rivendicazione economica nè di interessi personali. Ma, semplicemente, la richiesta di garantire a tutti i cittadini di avere giustizia sia se vittime di reati, sia se chiamati a rispondere delle loro azioni", lo afferma il leader dell’Italia dei Valori Antonio Di Pietro.
* la Repubblica, 27 gennaio 2010
PAURA NEL GIORNO DELLA VISITA DI NAPOLITANO
Auto con armi all’aeroporto di Reggio
"Forse un’intimidazione a Napolitano"
Nel veicolo trovato un vero arsenale.
I carabinieri frenano: nessun legame
con la visita odierna del Capo di Stato *
REGGIO Un vero arsenale bellico è stato trovato dai carabinieri su un’automobile parcheggiata nei pressi dell’aeroporto di Reggio Calabria. La macchina si trovava in via Ravagnese. La scoperta è stata fatta durante i pattugliamenti predisposti per la visita del Capo dello Stato Giorgio Napolitano.
L’episodio, stando a quanto si apprende, non è da collegarsi alla visita del presidente, bensì a una banda di criminali (probabilmente astorsori) che si sono sentiti in pericolo proprio per i pattuglioni delle forze dell’ordine che hanno vigilato per l’intera permanenza del Capo dello Stato a Reggio. Nell’auto sono stati sequestrati due fucili a canne mozze, due pistole (una a tamburo e una semi automatica), esplosivo e benzina. Nell’autovettura, una Fiat Marea di colore nero, risultata rubata nei giorni scorsi a Reggio Calabria, i militari dell’Arma hanno anche rinvenuto tre passamontagna di colore verde, oltre alle armi, a due ordini rudimentali e ad una tanica con liquido infiammabile.
I carabinieri del Comando provinciale di Reggio Calabria hanno escluso in maniera categoria che il fatto fosse legato alla visita del Presidente della Repubblica. L’auto è stata individuata da una pattuglia intorno alle 12.30 in via Ravagnese, regolarmente parcheggiata, ma non chiusa e con un finestrino semi aperto. All’interno i carabinieri hanno trovato due fucili semiautomatici da caccia calibro 12 con le canne tagliate. Poi, sotto il sedile del guidatore sono state trovate due pistole, una calibro 7.65 ed una 38 a tamburo, e due ordigni rudimentali, un composto da un tubo lungo una trentina di centimetri e largo 12 ed un altro di 15 centimetri per 12, collegati con una miccia a lenta combustione e tre passamontagna di colore verde. Nel bagagliaio, infine, è stata trovata una tanica da due litri con liquido infiammabile alla quale erano attaccati fiammiferi antivento. Secondo i carabinieri, gli ordigni e le armi, con ogni probabilità, dovevano servire a compiere attentati di intimidazione nei confronti di commercianti o imprenditori.
Di parere diverso gli esperti antimafia che collegano - stando a quanto riferito dall’agenzia Agi - l’episodio di oggi con quanto accaduto il 3 gennaio con la bomba artigianale fatte esplodere davanti gli uffici giudiziari di Reggio. «La scoperta dell’auto nei pressi dell’aeroporto di Reggio Calabria durante la visita dal Capo dello Stato può benissimo essere un atto intimidatorio, una sorta di sfida lanciata dalla ’ndrangheta». «È strano - si fa notare - che dei criminali viaggino con un arsenale a bordo di un’auto durante la visita del presidente della repubblica, durante la quale, chiaramente, vengono rafforzate tutte le misure di sicurezza e controlli nelle strade». «D’alta parte, però sottolineano gli stessi inquirenti »il fatto rappresenta anche un segno di debolezza della criminalità organizzata calabrese messa a dura prova dalle continue operazioni e indagini che l’antimafia sta portando avanti nel paese«.
* La Stampa, 21/1/2010 (13:40)
PAROLE COME PIETRE
LA VERGOGNA DI PARLARE SENZA VERGOGNA
di Tullio De Mauro (l’Unità, 03.01.2010)
Nella simpatica trasmissione di Corrado Augias, gli ospiti finiscono col parlare delle cose più varie. Nella puntata più recente Umberto Galimberti, già valente studioso di psicologia, è apparso ancora su un terreno suo quando ha cominciato a parlare di vergogna. In effetti si legge ancora utilmente l’articolo “vergogna” che scrisse molti anni fa nel suo bel «Dizionario di psicologia». C’è ancora il sentimento della vergogna? Conduttore e ospite sono scivolati verso la sociologia d’arrembaggio e hanno detto concordi che quel sentimento va scomparendo.
Del vero ci deve essere se in questi anni il francese ha avuto fortuna una nuova parola, riecheggiata in altre lingue: “extimitè”, il contrario di “intimità”, per indicare la propensione a esibire sfacciatamente momenti e atti della propria intimità fisica e sentimentale. E tuttavia vien fatto di osservare che l’esibizione sfacciata ha senso solo perché sfida un persistente senso comune di discrezione. Se l’intero pubblico fosse fatto da svergognati abituali non avrebbero audience trasmissioni che illustrano le recondite fattezze e assai private movenze di qualche grande fratello o sorella (i ladri, diceva Chesterton, sono i più convinti assertori del diritto di proprietà). E colpisce che personalità inclini all’esibizione del loro privato si segnalino per la loro abitudine, quasi un tic irrefrenabile, di gridare ripetutamente in pubblico fino allo spasimo «Vergogna! Vergogna! Vergogna» a interlocutori con cui non concordino. Dunque anche per loro il senso della vergogna non è ancora morto.
Nella trasmissione di Augias lo psicologo e ora filosofo
della storia si è avventurato a dire con aria grave:
«Del resto, l’etimologia della parola vergogna è “vereo
gognam”, temo la gogna». E qui le cose da ricordare
sono parecchie.
La prima, nota anche a studenti di
latino diligenti, è che in latino si dice “vereor” e non
“vereo” (il verbo è cioè un “deponente”).
La seconda è
che “gogna” non è parola latina, ma italiana moderna.
La terza osservazione è che “vergogna” (diversamente
da “gogna”) appartiene alle parole di più sicura
etimologia ed è la continuazione popolare del vocabolo
“verecundia”, un sostantivo latino tratto da
“vereri” (come “facundia” era tratto da “fari”, parlare).
Queste sono cose che si dicono con (appunto) un po’ di vergogna a causa della ovvietà che hanno per chiunque tenga a portata di mano, non diciamo un vocabolario etimologico (chiaro, accessibile, aggiornato è quello di Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli), ma un qualsiasi buon vocabolario italiano. Sono cose banali e non è un peccato mortale ignorarle. Ma forse è una piccola vergogna, se si impiega e si dissipa l’autorità guadagnata in altri campi per spacciare notizie etimologiche senza fondamento.
LA sTAMPA, 5/1/2010
L’appello di Napolitano e Fini:
"Ritrovare coesione nazionale"
L’intervento a Napoli del capo dello Stato, Giorgio Napolitano
Il Capo di Stato e il presidente della
Camera: "Pensare al bene del Paese"
NAPOLI In tempi difficili per il Paese si deve riscoprire il senso dell’interesse nazionale e il Presidente della Repubblica è pronto a dare prova di correttezza e rigore. Parla del suo predecessore Enrico De Nicola, Giorgio Napolitano, ma pensa al presente. Un presente in cui «la libera dialettica di posizioni e di ruoli tra maggioranza e opposizione non esclude che si riproponga - in momenti di serie prove per il Paese - l’esigenza di non smarrire il senso del comune interesse nazionale».
L’attività del Quirinale riprende dopo tre giorni di riposo. Napolitano ha trascorso le prime giornate dell’anno nella quiete di Villa Roseberi, tra gli affetti dei nipoti e rare puntate in città, causa maltempo. Oggi la prima uscita ufficiale, nella città natale del Capo dello Stato. Motivo: revocazione storica della figura del primo Presidente della Repubblica italiana a 50 anni dalla scomparsa. Insieme a lui Gianfranco Fini, che come da programma parla per primo ed enuncia il concetto fondamentale della giornata, la necessità di tenere compatto il Paese. Aula gremita, quella dell’antica sede dei tribunali partenopei, impianto elettrico che fa i botti come a Capodanno.
«Ho particolarmente apprezzato il discorso del Presidente Fini, il contributo che con le sue riflessioni istituzionali egli ha offerto a questa cerimonia», esordisce Napolitano. E si sofferma a lungo sulla figura del primo Capo di Stato dell’Italia repubblicana per metterne in evidenza «il debito di riconoscenza che tutti devono avere nei suoi confronti, in particolare chi esercita la sua stessa funzione». Ecco allora il grande merito storico di De Nicola, «l’uomo che presiedette alla duplice ed ardua transizione dalla Monarchia alla Repubblica e dalla nascita della Repubblica alla sua costituzionalizzazione». In altre parole: fu colui che «gettò le basi dell’esercizio della funzione presidenziale», e si può ben dire che «ci si muove tuttora lungo la rotta da lui aperta».
Lo stesso Napolitano riconosce un debito personale: «Da lui ho tratto esempio nello svolgimento del mio mandato, e più che mai lo traggo». Soprattutto su due fronti, «il tenace attaccamento alla necessità di un clima di unità nazionale», e, in secondo luogo, «il rigore nell’esercizio» delle sue funzioni. Concetto, quest’ultimo, che allarga ed estende «ad ogni soggetto istituzionale». Soprattutto per quanto riguarda il saper «rispettare sempre i limiti invalicabili» delle proprie funzioni. Un richiamo, insomma, al non strafare, anche quando ci si sente potenti. Oggi, prosegue nel suo ragionamento il Capo dello Stato, «abbiamo ancora molto da imparare da quella lezione». Rispetto agli anni dell’immediato dopoguerra «una lunga strada è stata percorsa, pur tra forti difficoltà ed evidenti anomalie, della nostra esperienza democratica». Da ultimo siamo arrivati a quello che è il culmine di questo percorso, cioè «il passaggio a una democrazia dell’alternanza».
Questa però sembra aver portato con sè anche un eccesso di dialettica fra maggioranza e opposizione. Ragione per cui il Quirinale oggi chiede che si riscopra quel minimo di senso dell’interesse comune che serve a fare fronte nei passaggi più delicati della vita repubblicana. Quanto poi al lascito di Di Nicola, e qualcosa resta ancora da aggiungere, Napolitano parla di «una lezione di serena fermezza». Di ciò, conclude, «gli siamo egualmente grati». Come dire che l’esempio non viene certo dimenticato.
’Pm come Tartaglia’: interviene il Csm
Parole Berlusconi in dossier a tutela magistrati gia’ attaccati dal premier *
ROMA - Il Csm si occuperà delle frasi pronunciate ieri dal presidente del Consiglio, che ha paragonato "l’aggressione" giudiziaria nei suoi confronti a quella fisica subita in piazza Duomo a Milano per mano di Tartaglia. La prima commissione di Palazzo dei Marescialli ha infatti deciso di acquisire i giornali che riportano le dichiarazioni di Berlusconi e di inserirle nell’ampia pratica a tutela di magistrati oggetto in passato di accuse rivolte dal premier. Questo fascicolo pende da tempo e riguarda in particolare i giudizi espressi dal presidente del Consiglio sui magistrati delle Procure di Palermo e di Milano che hanno riaperto le indagini sulle stragi mafiose e sui giudici del processo Mills.
Berlusconi, parlando ieri dopo la riunione del Consiglio dei ministri, ha definito le aggressioni giudiziarie "parificabili a quelle di piazza del Duomo, se non peggio’’.’’Mi attaccano sul piano della persona con la ’character assassination’ che e’ stata messa in campo - ha detto ancora Berlusconi riferendosi ora a un ambito più generale -, mi attaccano sul piano patrimoniale, ora non gli resta che attaccarmi sul piano fisico, come hanno iniziato a fare, ma - ha avvertito - ’non praevalebunt’’’.
Sempre parlando di giustizia il Presidente del Consiglio ha annunciato che il governo ’’riproporra’ l’inappellabilita’ delle sentenze di primo grado nella riforma della giustizia che stiamo esamindando’’. Per quanto riguarda la riforma fiscale, ha invece parlato di tempi lunghi. Per ora - ha detto - la crisi non consente una riduzione delle tasse.
Di giustizia e molto altro, Berlusconi parlera’ oggi in un faccia a faccia con il presidente della Camera Gianfranco Fini, durante una colazione in programma a Montecitorio. All’ordine del giorno anche una ricognizione su equilibri nel Pdl, agenda di governo, regionali, innesti nel governo di nuovi sottosegretari, alleanze con l’Udc.
La retorica delle “riforme”
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 28.12.2009)
Nel discorso politico attuale, molta ipocrisia e molti pericoli per la nostra democrazia. “Riforma” è la parola passepartout della politica italiana. Non c’è discorso politico che non la contempli.
Negli anni della cosiddetta prima repubblica era la sinistra parlamentare che la invocava per marcare la fedeltà alla democrazia costituzionale e un’identità non rivoluzionaria. “Riforme di struttura” era una delle espressioni più spesso pronunciate nel Partito comunista (e per qualche tempo anche in quello socialista): voleva dire portare la democrazia oltre le istituzioni politiche; estendere i metodi elettivi di selezione e controllo nei luoghi di lavoro e nelle scuole; fare politiche di redistribuzioni per dare al maggior numero possibilità concrete di esercitare la cittadinanza. Questa è stata dal 1948 in poi, l’utopia riformatrice italiana.
Alcune riforme importanti sono state fatte: gli Anni 70, ci hanno dato il decentramento amministrativo, un sistema sanitario e di previdenza nazionali, la pratica della concertazione tra le parti sociali per risolvere contenziosi sulle dinamiche salariali, le politiche occupazionali e la sicurezza nei luoghi di lavoro. Il termine riforma ha per decenni significato incremento e ampliamento della democrazia.
A partire dalla fine della Guerra fredda e del consenso largo che l’ha accompagnata, “riforma” è diventata una formula sulla quale si sono stabilizzati partiti nuovi o rinnovati nella convinzione che la crisi del sistema politico fosse essenzialmente una questione di ingegneria istituzionale e di tecnica elettorale. La retorica della riforma ha così cominciato a transitare dal sociale all’istituzionale. A partire dai referendum elettorali che si sono succeduti negli ultimi due decenni, le “riforme istituzionali” hanno sostituito nel linguaggio partitico le “riforme di struttura”, con una modifica radicale: non solo i partiti di opposizione ma anche quelli di governo hanno preso a dirsi riformatori o riformisti.
Oggi, tutti auspicano, propongono, vogliono riforme, con il risultato che il termine ha perso il significato che nella tradizione politica moderna ha generalmente avuto: realizzare le promesse scritte nella carta dei diritti costituzionali. L’esito è che riformare può anche significare smantellare quelle promesse: per esempio decurtando i diritti sociali, impoverendo la scuola pubblica, istituendo un federalismo che ricusa la solidarietà nazionale.
Infine, dalla nascita di Forza Italia ad oggi, e con una responsabilità nemmeno troppo velata dello schieramento opposto, la retorica delle riforme ha fatalmente esteso le sue mire sulla Costituzione e il sistema di giustizia. Non c’è settore della vita pubblica sul quale i nostri politici non si dilettino con proposte a volte bislacche e immaginifiche, sempre sollevando lo spettro dell’emergenza. La retorica delle riforme segue i cicli delle fortune politiche di chi la usa, la rilancia o l’atterra. Tutto il paese, noi tutti, dipendiamo da questi cicli e da questi leader guicciardiniani.
Con la recente riorganizzazione del Pd, la retorica delle riforme è tornata a fare da centro magnetico del discorso pubblico. Sul tappeto, non c’è la realizzazione delle promesse della democrazia, ma invece l’urgente bisogno del presidente del Consiglio di tutelarsi da possibili futuri guai giudiziari. L’attacco ai giudici comunisti si sta mescolando, colpevole il recente grave attentato alla sua persona, alla predica buonista della grande riconciliazione: “concordia” è la parola che torna spesso in questi giorni; non perché siamo in clima natalizio e la bontà di cuore è di pragmatica, ma perché si deve riuscire a convincere l’opinione pubblica che senza un intervento urgente per salvare il premier, sarà l’Italia intera a rimetterci. Bisogna far credere agli italiani l’opposto di quel che è, poiché è evidente che non è l’Italia ad aver bisogno di “queste” riforme.
Occorrerebbe aver il coraggio di dire che occorre conservare, non riformare: l’Italia ha urgente bisogno di conservare lo stato di diritto e il governo della legge. Scriveva Massimo Giannini su queste pagine alcuni giorni fa che esiste un condizionamento ferreo per il quale «se non c’è lo scudo processuale a breve per il suo capo, a prescindere dal tempo lungo delle modifiche per via costituzionale del Lodo Alfano e dell’immunità parlamentare, il Pdl non può concepire altre riforme di struttura». In sostanza, la maggioranza non è autonoma; la sua politica è direttamente dipendente dalla necessità di “queste” riforme, e con essa lo è la vita intera del nostro paese.
Questa mancanza di autonomia politica della maggioranza non può essere trascurata dalle opposizioni. Anni fa si cercò con una regìa non dissimile di imbastire una bicamerale. Quale che fosse l’intenzione ragionata, si trattò di una politica improvvida perché ha abituato i politici a usare la nostra costituzione come merce di scambio per creare o affossare alleanze. In quell’occasione, i leader politici (allora al governo) non ebbero l’acume di imbrigliare il potere dell’interlocutore prima di farci compromessi politici. Non fecero caso al fatto che solo tra eguali ci si può accordare perché chi ha un potere sovrastante fa quel che vuole e non onora gli accordi.
Ora si ripropone uno scenario simile, con l’aggravante che quel potere esorbitante governa il paese e l’opinione pubblica. Non si tratta di resistere alle sirene della concordia per ragioni di pragmatismo, una forma nobile di politica che non ha nulla a che fare con il trasformismo (“inciucio” in gergo). E nemmeno di appellarsi alla fiducia nelle buone intenzioni del premier. Il veto viene da un fatto più semplice e che domina l’arena politica con la forza di una legge naturale: chi vuole “queste” riforme non può permettersi di ottenerne altre rispetto a quelle di cui ha urgente bisogno.
Il premier perdona il suo aggressore ma confida nel giudizio dei magistrati
"Serve un segnale, non passi il messaggio che si può aggredire il presidente del Consiglio"
Berlusconi: "Ho perdonato Tartaglia
ma pm giudichino la gravità del gesto"
In giornata telefonata a Napolitano dopo il messaggio di ieri del capo dello Stato
Il presidente: "Buoni rapporti personali. Sono ragionevolmente fiducioso"
ROMA - Silvio Berlusconi ha perdonato Massimo Tartaglia, l’uomo che lo ha aggredito una settimana fa a Milano. Ne dà notizia l’agenzia Ansa che riporta quanto riferito da una fonte presente a una conference call che il premier ha tenuto da Arcore con la sede Pdl di Roma per gli auguri di Natale. Perdona l’aggressore ma spera che i magistrati - riferisce la fonte - "nel giudicare il gesto non facciano passare il messaggio che si può aggredire il presidente del Consiglio, che resta un’istituzione da difendere". Perdono che per Tartaglia "sarà un sollievo", dice l’avvocato dell’uomo, Daniela Insalaco, certa che la decisione di Berlusconi "possa essere utile al mio assistito per rielaborare, con l’aiuto degli psichiatri lo hanno in cura, le conseguenze del grave fatto commesso".
Le parole di Berlusconi giungono nel giorno in cui il premier ha telefonato al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per uno scambio di auguri e un confronto dopo le parole pronunciate ieri dal capo dello Stato. Che dice: "Con Berlusconi i rapporti personali sono sempre stati buoni. Mi ha fatto piacere che oggi mi abbia chiamato e che abbia apprezzato le linee generali del mio discorso’’.
Berlusconi: "Serve un segnale". "Umanamente l’ho perdonato", ha detto Berlusconi sempre secondo il resoconto di chi ha potuto ascoltarlo. "Sapete che non so portare rancore", ha aggiunto rivolgendosi agli interlocutori che lo ascoltavano dalla sede di via dell’Umiltà a Roma. Tuttavia, il premier ha sottolineato l’importanza che il gesto di Tartaglia non venga sottovalutato: non deve passare il messaggio che si può andare in giro e colpire liberamente il presidente del Consiglio che rappresenta un’istituzione; il rischio è che altrimenti parta un tiro al bersaglio.
"Si è gridato al tiranno". "A furia di gridare ’a morte il tiranno’, c’è chi ha cercato di uccidere il tiranno...". Nel corso della telefonata con lo stato maggiore del Pdl, Berlusconi torna sull’episodio dell’aggressione. "E’ stata frutto di un clima d’odio - ribadisce - in queste situazioni se a qualcuno riesce il colpo allora diventa un eroe, se non riesce si fa poco tempo in galera e può uscire tranquillamente più libero di prima". "Io - ha aggiunto - non ho mai scaldato il clima, ho fatto solo notare la provenienza di alcuni organismi istituzionali che è una provenienza chiaramente di sinistra.
Napolitano: "Fra noi buoni rapporti". Quanto alla telefonata fatta da Berlusconi al capo dello Stato, Napolitano ne ha parlato con i giornalisti quirinalisti. Che gli hanno chiesto se fra lui e il presidente del Consiglio si fosse "sciolto il gelo". "Io sono per natura scongelato" ha replicato il presidente della Repubblica, ribadendo che "una cosa sono i rapporti personali e una cosa quelli tra le istituzioni. E quando vengono toccate le prerogative delle istituzioni, io reagisco nel modo che mi pare più opportuno".
Riforme, Napolitano "ragionevolmente fiducioso". Quanto al tema delle riforme, Napolitano si è detto "né ottimista né pessimista" ma "ragionevolmente fiducioso". Nel discorso di ieri, ha aggiunto, "quando ho detto che non c’è ancora il clima propizio, mi riferivo alle scelte necessarie per ridurre il debito pubblico e riqualificare la spesa. Sulla possibilità di fare le riforme in questa legislatura sono stato più fiducioso".
"Riflessioni salutari". Sui temi citati ieri (l’importanza delle riforme e della condivisione, il ruolo centrale del Parlamento, l’invito a tutti i protagonisti della politica a non insistere su ipotesi di supposti complotti, il ruolo di salvaguardia della Costituzione) il capo dello Stato è tornato anche oggi nel corso dell’incontro con il corpo diplomatico. Dopo l’aggressione a Berlusconi ci sono state "nell’opinione pubblica italiana delle reazioni e riflessioni salutari", ha detto Napolitano.
Crisi e temi internazionali. Napolitano ha anche fatto una riflessione sul valore della crisi finanziaria, che "ha dato la prova inconfutabile di una interdipendenza cui nessun continente e nessun Paese può sottrarsi". Questa interdipendenza, ha aggiunto, "è il presupposto e insieme il portato oggettivo di quel processo di globalizzazione, i cui indirizzi e le cui ricadute richiedono un impegno e delle forme concrete di governance". Di fronte alla crisi quindi si è manifestata "la consapevolezza che il mondo è uno solo e insieme bisogna governarlo".
Calderoli propone la Convenzione. Apprezza il "nuovo" clima il ministro per la Semplificazione normativa Roberto Calderoli. E lancia una proposta: "E’ iniziato un dialogo con l’opposizione e con le cariche istituzionali che dovrebbe essere prodromico alle riforme. Verificherò con la maggioranza, col governo e con l’opposizione la disponibilità all’utilizzo di uno strumento che ho chiamato Convenzione, perché al processo partecipino non solo deputati e senatori ma anche il territorio con Comuni, Province e Regioni".
* la Repubblica, 22 dicembre 2009
Messaggio del premier a una manifestazione di solidarietà organizzata a Verona
"Mi date un’ulteriore spinta. L’amore vince sempre sull’invidia e sull’odio", ha ripetuto
Berlusconi: "Vado avanti per il bene del Paese" *
VERONA - "Andrò avanti per il bene del Paese". Questo il messaggio inviato stamane da Silvio Berlusconi ai partecipanti all’iniziativa indetta in Piazza Brà a Verona una settimana dopo l’aggressione subita dal premier a Milano. "Queste manifestazioni - ha detto Berlusconi, che ha chiamato al cellulare il sottosegretario Aldo Brancher - mi danno una ulteriore spinta ad andare avanti e a sostenere il nostro impegno per il bene del Paese".
"Sono commosso - ha aggiunto il presidente del Consiglio - e ringrazio Verona che ha per prima voluto organizzare questa manifestazione di solidarietà". "L’amore vince sempre sull’invidia e sull’odio", ha ribadito Berlusconi usando le parole pronunciate il giorno in cui è uscito dall’ospedale San Raffaele e scritte lo stesso slogan dello striscione che questa mattina campeggiava sulla scalinata del Municipio di Verona. "Questo è il messaggio - ha proseguito il premier - che stiamo portando in giro per tutta l’Italia". "Sotto l’albero di Natale - ha detto ancora, rivolgendosi ai sostenitori - regalate una tessera del Pdl".
In piazza Brà, secondo una prima stima, un migliaio di persone, tra le quali oltre a Brancher il sottosegretario Alberto Giorgetti, e vari sindaci e assessori comunali. La manifestazione si è chiusa con le note di "Meno male che Silvio c’è".
* la Repubblica, 20 dicembre 2009
Berlusconi resta in ospedale
"Lo fa soffrire l’odio politico"
Bufera su Di Pietro e la Bindi
Il premier al San Raffaele di Milano: "Si nutre con fatica". Dovrà restare ricoverato per le prossime 24-36 ore. Fini e poi Schifani in visita. In tarda mattinata arriva anche Bersani: "Condannare violenza senza se e senza ma". Mancino: "Ferma condanna". Il governo: "Oscurare i social network che inneggiano a violenza". L’aggressore, Massimo Tartaglia, trasferito a San Vittore. Vertice in Prefettura sul funzionamento dei servizi di sicurezza. Polemica aperta sul leader Idv che "non accetta criminalizzazioni". Bindi: "Solidale, ma il premier fermi il clima di ostilità" *
13:06 Di Pietro: "Non sono un ipocrita e non vado a trovarlo"
Antonio Di Pietro non intende fare visita a Silvio Berlusconi in ospedale. "Non sono un ipocrita e non credo che il premier abbia bisogno della mia visita", ha detto il leader dell’Idv ai cronisti a Montecitorio.
12:54 In forse le dimissioni di domani
Intervento chirurgico scongiurato per la frattura al naso ma le condizioni del presidente del Consiglio sono più gravi di quanto inizialmente ipotizzato, tanto che le sue dimissioni per domani sembrano essere rinviate. Così il primario Alberto Zangrillo, che ha letto il bollettino medico. I parametri vitali monitorati costantemente si sono mantenuti stabilmente nella norma, si legge nel bollettino, ma l’esame Tac ha documentato la presenza di una frattura del setto nasale. "Domani decidiamo - ha detto il medico - ma non è detto che venga dimesso, le conseguenze sono più gravi di quello che potevamo dire ieri sera, per cui non se ne parla assolutamente per le prossime 24-36 ore".
12:47 Bersani: "Condannare violenza senza se e senza ma"
"Va condannato ogni gesto di violenza senza se e senza ma". Così il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, ha criticato l’aggressione nei confronti di Silvio Berlusconi. Al termine della sua visita, ai giornalisti che gli hanno come avesse trovato il premier, Bersani ha resplicato: "Sta piuttosto bene".
12:28 Mancino: "Ferma condanna"
’La più ferma condanna per il grave episodio dei violenza di ieri a Milano" di cui è rimasto vittima il presidente del Consiglio è stata espressa dal vice presidente del Csm Nicola Mancino. "Torna di grande attualità - ha detto aprendo i lavori del plenum - l’invito pressante del capo dello Stato ad abbassare i toni della polemica e a considerare di massima utilità per il Paese il civile confronto istituzionale sulle riforme".
12:23 Il medico: "Riesce a nutrirsi con molta fatica"
"Riesce a nutrirsi con molta fatica". Lo ha detto Alberto Zangrillo, primario del San Raffaele di Milano. Nel bollettino medico si parla di "parametri vitali nella norma", ma di "abbassamento dei valori dell’ematocrito", in seguito al sangue perso dal premier, colpito al volto con un oggetto.
12:04 Schifani: "Lo fa soffrire l’odio politico"
’’Al di là del dolore fisico, lo fa soffrire l’odio politico che si è trasformato in aggressione’’. Il presidente del Senato, Renato Schifani, descrive così il premier Berlusconi dopo una nottata di ricovero all’ospedale San Raffaele in seguito all’aggressione subita ieri in Piazza del Duomo. ’’Quello che traspare - ha aggiunt Schifani - è il dolore interno di un uomo che non comprende il perché di questo odio’’.
11:58 "Silvio mi ha detto: ’Non capisco perché mi odiano’"
"Mi ha detto: ’Non capisco perché mi odino così". Questo ha riferito Don Verzé, dopo aver incontrato Silvio Berlusconi.
11:42 Bersani giunto con Penati al San Raffaele
Il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, è appena arrivato a far visita al presidente del Consiglio. Con lui c’è Filippo Penati, candidato del Pd alla presidenze della Regione Lombardia.
* la Repubblica, 14.12.2009 (ripresa parziale, per aggiornamenti cliccare sul rosso)
Intervista al Tg2 del presidente della Repubblica
"Misurare le parole e metter da parte complotti e scorciatoie"
Napolitano: "Politica esasperata
sbagliato alimentare tensioni"
"Tornare ad un confronto civile tra le parti, nel rispetto della Costituzione"
ROMA - "No al ritorno di ogni forma di violenza, all’esasperazione della lotta politica. E’ necessario misurare le parole ovunque si parli, e tornare a un civile confronto fra le parti politiche". E’ fermo l’appello del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, all’indomani dell’aggressione ai danni di Silvio Berlusconi e nel pieno delle polemiche e dello scontro politico che ne stanno seguendo.
Il capo dello Stato, in un’intervista al Tg2, ribadisce quanto già affermato in passato, ovvero la necessità di abbassare i toni della politica. "Ho fatto quella dichiarazione - insiste Napolitano - nella convinzione che ci sia un’esasperazione pericolosa della polemica politica", e che questa "vada fermata". "Non è la prima volta che lo dico - ricorda il presidente - dobbiamo impedire "che rinascano forme di violenza, che l’italia in un passato non lontano ha già conosciuto e duramente pagato". da questo nasce l’appello, rivolto "a tutti in nome di un’imparzialità che ho sempre rispettato e sono deciso a rispettare. In questo momento non ha senso che gli uni diano le colpe agli altri per il clima che si è creato".
Già, non è la prima volta che il capo dello Stato punta il dito sui rischi di un clima politico fuori controllo. E anche oggi torna a parlare ribadendo lo stesso concetto: "Non si alimentino tensioni, si misurino le parole, dovunque si parli: nelle piazze, nei congressi di partito e in tv", ciascuno faccia la sua parte restando nei limiti fissati dalla Costituzione".
La Costituzione resta, nella parole del presidente, il riferimento primo. A dispetto di chi ne mette in discusione validità e attualità. Ed è proprio la Costituzione a stabilire che la legislatura dura 5 anni e, dunque, "non si alimentino tensioni nè da una parte cercando scorciatoie, nè dall’altra parte vedendo complotti anzichè riconoscere dissensi".
Poi Napolitano torna all’aggressione di Berlusconi. Un gesto che deve "allarmare" tutti. "E quando dico tutti intendo tutti gli italiani che credono nella democrazia e hanno a cuore che venga garantita la pacifica convivenza civile" conclude il presidente. Che si rivolge direttamente ai cittadini: "Abbiate fiducia nella giustizia".
* la Repubblica, 14 dicembre 2009
«Questo clima è anche colpa della caccia all’uomo da parte dei magistrati»
intervista di Aldo Cazzullo (Corriere della Sera 15.12.09)
Don Verzé, Berlusconi è qui nel suo ospedale. Come l’ha trovato?
«Fisicamente, in ripresa. Psicologicamente, umiliato, terrorizzato. Non tanto per il dolore, quanto per aver provato sul suo corpo l’odio».
Quando ha saputo?
«Appena è successo. Mi ha avvisato il suo medico, Alberto Zangrillo. Ma non sono andato subito al San Raffaele. In questi casi ci vogliono calma, tranquillità. E anche solitudine. Attorno a Berlusconi c’erano i nostri medici migliori, e loro bastavano. Hanno fatto la Tac, per escludere danni cerebrali. Poi gli altri esami. Solo dopo abbiamo fatto entrare il fratello e i figli».
E lei?
«Io sono andato stamattina (ieri, nda ). Era giusto lasciargli un po’ di tempo. Quando accade una cosa del genere, quando si rischia la vita, ci si ritrova come sospesi tra Dio e il mondo. Soprattutto se si è uomini della statura di Berlusconi ».
Perché parla di un Berlusconi «terrorizzato »?
«Il problema non è lui. Lui si è già ripreso, la forte emozione che ha provato è già alle spalle. L’ho rivisto all’ora di pranzo, e il suo ottimismo aveva già preso il sopravvento. Anch’io sono un ottimista; ma perché ho novant’anni, e mi sento ormai nelle braccia di Gesù Cristo. Berlusconi è più ottimista di me. Il problema è l’odio. Questo episodio è anche un monito. Il segno che è davvero il tempo di cambiare la Costituzione ».
Perché? E in che modo, secondo lei?
«Non tocca a me dirlo. Tocca ai politici: l’ho detto a Berlusconi e agli altri che ho visto oggi, Fini e Bersani».
Come ha trovato Fini?
«Freddo. Forse perché l’ho visto per strada».
E Bersani?
«Caloroso. Sinceramente dispiaciuto. Bersani è una gran brava persona. Ci siamo anche dati un bacio. Certo, ha da governare una gabbia di tigri e leoni ».
Di Pietro dice che Berlusconi ha istigato all’odio. Anche la Bindi, con toni diversi, sostiene che il premier ha le sue responsabilità per il clima che si è creato.
«Sono loro ad aizzare all’odio, ad aver ispirato il gesto di quel povero diavolo ».
È giusto dare più poteri al presidente del Consiglio?
«Se ne occupino gli addetti ai lavori. Dico soltanto come cambierei l’articolo 1: l’Italia è una repubblica fondata non solo sul lavoro, ma anche sulla cultura; la politica divide, la cultura unisce. Quanto è accaduto è frutto di un’assoluta mancanza di cultura. Di rispetto. Di conoscenza dell’altro. Berlusconi mi ha detto: ’Perché a me? Perché mi odiano tanto, al punto da volermi ammazzare? Io voglio il bene del paese, il bene di tutti. Tu don Luigi lo sai che è così. Perché non se ne rendono conto?’».
È davvero così, don Luigi?
«Certo. Io conosco bene Berlusconi. È un uomo di fiducia e di fede. Conosce il vero insegnamento di Gesù: ’Amatevi l’un l’altro come io ho amato voi’. Berlusconi ama tutti, anche i suoi nemici. È incapace di pensieri o parole cattivi».
Una volta definì «coglioni » gli italiani che non votavano per lui.
«Ma anch’io ne dico di tutti i colori alle persone che lavorano con me. Però loro non se la prendono. Perché, come Berlusconi, parlo con il sorriso sulle labbra; e loro sono indotti a sorridere».
Anche la magistratura, secondo lei, ha contribuito a creare questo clima?
«È chiaro che è così. Questo è il vero motivo per cui occorre ritoccare la Costituzione. Anche la caccia all’uomo giudiziaria ha creato il contesto in cui è stata possibile l’aggressione. La magistratura dev’essere ricondotta al suo ruolo. Che è al di sopra e al di fuori della politica. I magistrati non devono fare politica; sarebbe come se il Papa o la Chiesa pretendessero di farla».
Lei sa che diranno che Berlusconi e i suoi intendono approfittare della circostanza.
«So quel che diranno. Non si rendono conto del pericolo che incombe sul paese, del clima che si respira, della gravità di quanto è accaduto. Non si rendono conto che Berlusconi ama l’Italia, ed è per questo, non per i suoi interessi, che è sceso in campo, mettendo in gioco tutto se stesso, anima e corpo, anche a rischio della propria salute. Anche a rischio della propria vita, come si è visto. Io gliel’ho detto: ’Ricordati che sei una persona ricca’. Ma lui non si tira mai indietro. Poi, certo, non è un angelo del cielo. È un uomo. Un uomo sano e vitale. Può commettere errori. Come me, come lei. Per fortuna il San Raffaele è il suo angelo custode; e io sono il custode del suo angelo custode».
Perdonerà il suo feritore?
«L’ha già perdonato. Non mi stupirei che chiedesse di incontrarlo».
Il presidente della Repubblica parla alle alte cariche dello Stato
"Serve massima condivisione per fare le riforme. Ma il clima non è buono"
Napolitano: "Nessun complotto
la Costituzione garantisce il governo" *
ROMA - "Bisogna guardare con ragionevolezza allo svolgimento di questa legislatura ancora nella fase iniziale, non si paventino complotti che la Costituzione e le sue regole rendono impraticabili contro un governo che goda della fiducia della maggioranza in Parlamento". Giorgio Napolitano pronuncia parole chiare sulle tensioni politiche che agitano l’Italia. Ricordando la funzione di salvaguardia della Costituzione che impedisce "scorciatoie". E rilanciando la necessità delle riforme.
Parlando con le alte cariche dello stato al Quirinale, il presidente definisce il Parlamento "compresso", denunciando l’uso di "fiducie e maxiemendamenti". Invitando, infine, "alla più larga condivisione, strada maestra per realizzare le riforme istituzionali, strada percorribile". Cosa non facile, però. Soprattutto oggi: "Il clima non è ancora favorevole. Proprio per questo è necessario fermare il degenerare della violenza e nessuno si deve sottrarre". Ricorda l’aggressione a Berlusconi, Napolitano. Definendola "un fatto assai grave, di abnorme inconsulta violenza, che ha costituito motivo non solo di profondo turbamento ma anche di possibile (ne abbiamo visto i primi segni) ripensamento collettivo".
Certo Napolitano non sottovaluta l’esasperazione che segna il mondo della politica ("una conflittualità che va ben oltre il tasso fisiologico delle democrazie mature"), ma sottoliena come l’Italia non sia "un paese ’diviso su tutto. Stiamo attenti a non lacerare quel fondo di tessuto unitario vitale e condizione essenziale per affrontare i problemi".
Il Capo dello Stato ribandisce poi l’importanza del mantenimento degli impegni assunti, a cominciare da quello della guerra in Afghanistan: non si tratta infatti di "una missione o una guerra americana, ma un impegno della comunità internazionale e dell’Onu con l’unico scopo di proteggere il mondo dal terrorismo internazionale". "Per quanto serie siano le difficoltà di carattere finanziario non possiamo in nessun modo venir meno agli impegni presi - spiega il presidente - perché il ruolo che l’Italia svolge è fondamentale per la sua reputazione internazionale".
* la Repubblica, 21 dicembre 2009