ATTENTATO ALLA COSTITUZIONE? GIA’ FATTO!!! Un appello al Presidente Napolitano
"PUBBLICITA’ PROGRESSO": L’ITALIA E LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!!
CITTADINANZA E COSTITUZIONE
" (...) E considero positiva e importante la decisione annunciata dal ministro Gelmini di avviare - nel primo e nel secondo ciclo di istruzione - la sperimentazione di una nuova disciplina dedicata ai temi "Cittadinanza e Costituzione". Mi auguro che si consolidi una concreta e impegnativa scelta in questo senso.
Perché, cari ragazze e ragazzi, e cari insegnanti, la Costituzione costituisce la base del nostro stare insieme, come italiani, nel rispetto di tutte le diversità, le esigenze e le opinioni, ma nel comune rispetto di principi e regole fondamentali.
Lo stesso senso della Patria che ci unisce, che ci deve unire, trova il suo ancoraggio, nel presente storico che viviamo, negli indirizzi e nelle istituzioni della solenne Carta entrata in vigore sessant’anni orsono (...) (Sito del Presidente della Repubblica).
MA...L’"ORA DI COSTITUZIONE" NON C’E’ PIU’!!! (ESECUTIVO NAZIONALE DI PROTEO FARE SAPERE)
(21.10.2008)
"PUBBLICITA’ PROGRESSO": L’ITALIA E LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!!
Dopo Mattarella Scalfari ci dirà che anche il papa vota Sì
di Valentino Parlato (il manifesto, 25.10.2016)
È bene che i lettori di la Repubblica lo sappiano: il giornale che comprano tutti i giorni sostiene Matteo Renzi e il Sì al referendum del 4 dicembre. Eugenio Scalfari, fondatore del giornale, ha iniziato da tempo questa campagna a favore di Renzi con i suoi attacchi all’amico Zagrebelsky.
Esaltando l’«oligarchia democratica» e l’utilità e necessità che «pochi siano al volante». Tutto questo era già chiaro da quando Scalfari scriveva (una tattica efficace, bisogna riconoscerlo) di non avere ancora deciso tra il Sì e il No anche se era facile capire la sua scelta per il Sì.
Poi, con l’editoriale di domenica scorsa 23 ottobre ha messo in gioco per il Sì anche l’attuale Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, scrivendo: «Il Presidente è favorevole al referendum istituzionale che pone fine al bicameralismo perfetto». E mi pare ovvio che il Presidente non può far altro che tacere, poiché una sua eventuale smentita potrebbe significare che intende votare No e Mattarella, con il suo silenzio, ha voluto tenersi fuori da questa brutta faccenda della nostra sofferente democrazia.
Così, dopo Obama, Scalfari schiera anche Mattarella tra i sostenitori del Sì e del nostro Renzi, attivo rottamatore della Repubblica democratica. Ci manca solo che Scalfari, che ama raccontarci delle sue telefonate con personaggi di primo piano, non ci venga a dire che anche il Papa lo ha confortato dicendogli che voterà Sì.
Dobbiamo prendere atto di questa impegnata campagna di Repubblica a favore di Renzi e del Sì al referendum, chissà cosa ne pensano i lettori del quotidiano.
Per concludere vorrei dire che come giornalista del manifesto e antico lettore dell’Espresso e di Repubblica, questi ultimi due una volta non governativi, faccio appello alla resistenza (questa parola ci torna in mente) contro questa deriva antidemocratica e autoritaria: «Solo pochi al volante» e tutti gli altri passeggeri che pagano il biglietto, ma non hanno voce in capitolo.
Italicum fatto e disfatto, con la regia dell’ex
Legge elettorale. Napolitano adesso vede i difetti della «sua» legge. Renzi è pronto a cambiarla. Guardando alla Consulta. L’ex capo dello stato ha nominato cinque giudici costituzionali, compresi presidente e relatore
di Andrea Fabozzi (il manifesto, 11.09.2016)
ROMA Il giorno in cui il suo successore al Quirinale Sergio Mattarella firmò, molto velocemente, la nuova legge elettorale, Giorgio Napolitano dal suo studio di senatore a vita commentò: «È un raggiungimento importante, era inevitabile approvare l’Italicum che del resto non è arrivato in un mese ma in oltre un anno». Tutti i giornali riportarono con evidenza questa benedizione dell’ex capo dello stato e nessuno ci trovò niente di strano. Era stato lui con i suoi discorsi pubblici contro le «zavorre», le «paralisi» e i «frenatori» a spingere il parlamento ad approvare questa riforma elettorale assieme alla legge di revisione costituzionale.
Era stato lui a voltarsi dall’altra parte quando il governo forzava i lavori parlamentari, sostituiva parlamentari «dissidenti» in commissione e quando le opposizioni salivano al Colle per protestare o gli rivolgevano pubblici appelli. Ed era stato ancora lui, nel gennaio 2015, ad aiutare il governo ritardando di due settimane le sue annunciate dimissioni, in modo da consentire - prima dell’elezione di Mattarella in seduta comune e prima dunque della rottura tra Renzi e Berlusconi - il decisivo e delicato passaggio dell’Italicum in senato.
Ieri Giorgio Napolitano ha spiegato al direttore di Repubblica che ci sono diversi aspetti dell’Italicum che «meritano di essere riconsiderati». Non solo. Ha invitato Renzi ad assumere un’iniziativa, «una ricognizione tra le forze parlamentari per capire quale possa essere il terreno di incontro per apportare modifiche alla legge elettorale». Ha sottolineato il difetto secondo lui principale dell’Italicum: «Si rischia di consegnare il 54% dei seggi a chi al primo turno ha preso molto meno del 40% dei voti». E ha indicato una possibile soluzione: «C’è in questo momento una sola iniziativa sul tappeto, è di esponenti di minoranza del Pd tra i quali Speranza». Si tratta di una proposta per modificare il vecchio Mattarellum in senso ulteriormente maggioritario. Ma si tratta della stessa minoranza Pd che aveva contrastato all’epoca l’Italicum, sentendo il presidente della Repubblica Napolitano tuonare contro le «spregiudicate tecniche emendative» in difesa dell’integrità dei testi del governo.
Durante l’ultimo passaggio dell’Italicum alla camera dei deputati, tra l’aprile e il maggio dello scorso anno, i bersaniani del Pd tentarono di introdurre nella legge elettorale un quorum minimo per accedere al ballottaggio, di recuperare gli apparentamenti al secondo turno, di cancellare le pluricandidature. Con l’appoggio delle opposizioni avrebbero potuto farcela. Il momento era delicato. Il senatore a vita Napolitano si fece risentire con poche parole: «Guai se si ricomincia da capo». Il governo mise la fiducia - mossa clamorosa e secondo molti costituzionalisti illegittima - la legge elettorale passò nella forma che Napolitano, oggi, vuole modificare.
E vuole modificare perché, ha spiegato a Repubblica, «rispetto a due anni fa lo scenario politico è mutato... nuovi partiti in forte ascesa hanno rotto il gioco di governo tra due schieramenti» si rischia «che vada al ballottaggio chi al primo turno ha ricevuto una base troppo scarsa di legittimazione col voto popolare». Ed è così: la legge pensata per il bipolarismo e sull’onda del Pd al 40% alle elezioni europee del 2014, può essere sperimentata per la prima volta (perché è applicabile da appena un paio di mesi, malgrado sia stata imposta al parlamento a tappe forzate) in un quadro pienamente tripolare. Ha ragione l’ex capo dello stato, solo che il bipolarismo che era fortissimo all’epoca della sua prima elezione al Quirinale, nel 2006, era già completamente svanito all’epoca della sua seconda, nel 2013. I 5 Stelle erano una realtà forte quanto e anzi molto di più del centrodestra anche prima che Napolitano inaugurasse la sua regia sulle riforme, con il Letta e con Renzi. Napolitano non se n’era accorto? Può darsi, del resto era stato lui stesso a negare l’evidenza del successo grillino alle amministrative precedenti. «Non vedo nessun boom» fu la sua frase celebre.
L’intervento di Napolitano, malgrado tutto, potrebbe essere ancora una volta decisivo. Il presidente del Consiglio, che fino a qui aveva aperto timidi spiragli, concede immediatamente la sua piena e «sincera» disponibilità a cambiare la legge. Lo fa con un’intervista al TgNorba (era a Bari, a inaugurare la fiera del Levante). «L’Italicum non piace? E che problema c’è - dichiara lo stesso Matteo Renzi che sull’Italicum ha messo la fiducia - discutiamolo, approfondiamola, ma facciamo una legge elettorale migliore di questa». Dietro di lui, e dietro Napolitano, è come se si aprissero le cateratte del cielo. Un po’ tutti gli esponenti di maggioranza che l’anno scorso giuravano sulla perfezione dell’Italicum, sono prontissimi a cambiarlo - si notano in particolare i ministri Franceschini e Alfano - e tutti lo fanno raccomandando un dibattito «non strumentale». Ma è evidente l’interesse del governo, che di certo non riuscirà a cambiare la legge elettorale prima del referendum, ma che in questo modo offre l’impressione di una disponibilità che può aiutarlo a recuperare consensi per il Sì.
E poi c’è un altro aspetto: il punto che - adesso - Napolitano critica della legge elettorale è proprio uno dei due che la Corte costituzionale sarà chiamata a giudicare il 4 ottobre. Se le questioni di incostituzionalità avanzate dagli avvocati coordinati da Besostri dovessero essere accolte dalla Corte, la legge sarebbe migliorata eppure resterebbe una brutta legge. Il compromesso è evidentemente appoggiato da Napolitano, che quando era al Quirinale ha nominato cinque degli attuali giudici costituzionali (un terzo), compresi presidente (Grossi) e relatore (Zanon).
Il governo della nazione
Il premier e l’ampia maggioranza per vincere la sfida di ottobre
di Francesco Verderami (Corriere della Sera, 30.01.2016)
È nato il governo della nazione, retto alle Camere da una maggioranza per la nazione, che non darà vita al Partito della nazione ma (forse) all’Alleanza per la nazione.
Il rompicapo è più semplice di quanto appaia, così come il rimpasto è più importante di quanto non appaia. Perché è dalla «ristrutturazione» dell’esecutivo che si comincia a delineare la strategia del premier, due anni dopo la presa di Palazzo Chigi e due anni prima dell’esame elettorale. Gli innesti nella squadra di governo, intanto, sono stati il modo in cui il leader del Pd ha instaurato una sorta di «pax renziana» nel vasto territorio che controlla: ha rinsaldato il patto con la minoranza dialogante del suo partito, ha soddisfatto un pezzo di mondo cattolico progressista legato alla comunità di Sant’Egidio, ha lanciato un segnale alla Cgil tenendo ai margini la «ditta», ha dato un upgrading a Scelta civica, e soprattutto ha riconosciuto un ruolo da alleato ad Alfano ma senza impegnarsi sul futuro.
Il risultato è la nascita del governo della nazione, se è vero che nello stesso gabinetto ora convivono l’erede di una famiglia liberale come il neoministro Costa, e un eretico della Rifondazione comunista come il neosottosegretario Migliore. Un melting pot che per gli avversari di Renzi ha i caratteri di un’operazione trasformista, ma che per Renzi è un tentativo di veder remare tutti i coalizzati nello stesso verso in vista del referendum costituzionale. E poco importa se i dubbi sulla composizione dell’equipaggio non hanno smesso di tormentarlo, se non è mai profondamente convinto delle scelte: dall’inizio della sua avventura al governo va così, anche stavolta c’è stato un rimpasto nel rimpasto.
Il governo della nazione serve ai suoi obiettivi e in fondo rispecchia l’immagine della maggioranza alle Camere, che è cambiata da quando ottenne la fiducia. Perché non c’è dubbio che il baricentro si stia sempre più spostando da sinistra verso il centrodestra, che al Senato - dove i voti non si pesano ma si contano - i parlamentari provenienti dal disciolto Pdl sono ormai la metà di quelli espressi dal Pd. E a fronte di una lenta emorragia nelle file democratiche si assiste a un travaso di ex e post-berlusconiani, «che fanno la fila» come ha detto Renzi nell’ultimo discorso a palazzo Madama, e che «aumenteranno» come ha preannunciato Verdini.
È vero che il capo del gruppo Ala - primo esempio di adozione politica a distanza - non è stato ancora accolto in casa. Ma è come se già ci fosse, sta lì sul pianerottolo: è con lui che in Parlamento ha preso corpo la maggioranza per la nazione. Toccherà al premier decidere se questa formula di Palazzo sarà proposta un giorno al giudizio del Paese. Di certo non è nelle intenzioni del premier dar vita al Partito della nazione, come ieri ha ripetuto il ministro Boschi, sebbene Verdini teorizzi che «Renzi potrebbe essere costretto dagli eventi a cambiare i propri piani». In prospettiva resta comunque valida un’altra opzione, che diventerebbe realtà se il leader del Pd accedesse all’idea di cambiare la legge elettorale e di restituire il premio di maggioranza a una coalizione, non più a una lista. È lì che nascerebbe l’Alleanza per la nazione e il cerchio si chiuderebbe in modo clamoroso.
Renzi finora ha fatto muro sull’Italicum, o meglio non ha mostrato le sue carte. La scelta peraltro arriverà solo alla vigilia del voto, sarà il frutto di un’analisi del risultato referendario, sarà l’effetto di un calcolo costi-benefici, dovrà scontare variabili che al momento non possono essere valutate. Il percorso è troppo lungo, se davvero le urne si aprissero nel febbraio del 2018, così come il premier non smette di ripetere in pubblico e in privato.
L’Alleanza per la nazione resta dunque sullo sfondo, mentre in Parlamento si consolida la maggioranza per la nazione. La quotidianità dei voti nelle Aule del Parlamento, insieme alla battaglia referendaria, potrebbero fare da innesco al cambio di sistema. Rimane da capire come si assesterà l’area che un tempo era nel centrodestra, «e che resta di centrodestra», sottolinea Schifani: «Noi non saremo una nuova Margherita».
La scommessa contempla una sola puntata, e proprio l’uomo dei numeri di Berlusconi avvisa che «non possiamo sbagliarla»: «Studio i flussi elettorali, conosco il rapporto che c’è tra un leader e l’opinione pubblica di riferimento. Perciò - dice Verdini - sono il primo a non farmi illusioni. Ma ritengo che questa area, garantendo l’elettorato di centrodestra sulla bontà delle scelte di governo di Renzi, possa arrivare al 10%».
«Giocatevi le vostre carte poi si vedrà»: così ha detto il premier che non dà garanzie sull’Alleanza per la nazione. Ma intanto si tiene stretti il governo della nazione e la maggioranza per la nazione.
“Italian disaster”
The London Review Of Books: “Napolitano, anomalia italiana”
di Caterina Soffici (il Fatto, 22.05.2014)
La vera anomalia italiana? Giorgio Napolitano. Sull’ultimo numero della prestigiosa London Review of Books, lo storico britannico Perry Anderson analizza la crisi europea in un lungo saggio dal titolo: The Italian Disaster.
Non c’è bisogno di traduzione ed è interessante che per parlare del futuro dell’Europa e delle falle nel sistema della democrazia del vecchio continente, si parli del disastro italiano, raccontato con la secchezza degli storici inglesi: una sequenza di fatti, date, pochi commenti e molti argomenti. Quello che Denis Mack Smith ha fatto con i suoi saggi sul Risorgimento e la nascita del fascismo, Anderson, storico di formazione marxista, lo fa con gli anni recenti della storia patria. Secondo Anderson è il capo dello Stato la vera minaccia della democrazia italiana.
Visto in patria come il salvatore, “la roccia su cui fondare la nuova Repubblica”, Napolitano è invece una vera pericolosa anomalia, un politico che ha costruito tutta la carriera su un principio: stare sempre dalla parte del vincitore. Così da studente aderisce al Gruppo Universitario Fascista, poi diventa comunista tutto d’un pezzo: nel 1956 plaude l’intervento sovietico in Ungheria, nel 1964 si felicita per l’espulsione di Solgenitsyn, sostenendo che “solo i folli e i faziosi possono davvero credere allo spettro dello stalinismo”.
Fedele alla linea del più forte, vota sì all’espulsione del Gruppo del Manifesto per i fatti di Cecoslovacchia e negli anni Settanta diventa “il comunista favorito di Kissinger”, perché il nuovo potere da coltivare sono ora gli Stati Uniti. Gli Usa e Craxi sono i nuovi fari di Napolitano e dei miglioristi (la corrente era finanziata con i soldi della Fininvest) e nel 1996 il nostro diventa ministro degli Interni (per la prima volta uno di sinistra), garantendo agli avversari che “non avrebbe tirato fuori scheletri dall’armadio”.
Ma il meglio Napolitano lo dà da presidente della Repubblica: nel 2008 firma del lodo Alfano, che “garantisce a Berlusconi come primo ministro e a lui stesso come presidente l’immunità giudiziaria”, dichiarato poi incostituzionale e trasformato nel 2010 nel “legittimo impedimento”, anch’esso dichiarato incostituzionale nel 2011.
E poi una gragnuola di fatti: il mancato scioglimento delle Camere nel 2008, l’entrata in guerra contro la Libia del 2011 (scavalcando costituzione, senza voto parlamentare, violando un trattato di non aggressione), le trame con Monti e Passera per sostituire Berlusconi, modo - secondo Anderson - “completamente incostituzionale”.
Per non parlare della vicenda della ri-elezione al secondo mandato (“a 87 anni, battuto solo da Mugabe, Peres e dal moribondo re saudita”) e delle ultime vicende, con il siluramento del governo Letta.
Napolitano, che dovrebbe essere “il guardiano imparziale dell’ordine parlamentare e non interferire con le sue decisione”, scrive lo storico britannico, rompe ogni regola. “La corruzione negli affari, nella burocrazia e nella politica tipiche dell’Italia sono adesso aggravate dalla corruzione costituzionale”.
E poi il caso Mancino e la richiesta di impeachment contro il presidente da parte di Salvatore Borsellino, fratello del magistrato ucciso, e l’invocazione della totale immunità nella trattativa Stato-mafia, che Anderson definisce “Nixon-style”, termine che evoca scandali come il Watergate. Ma gli esiti italiani sono stati diversi, come ben sappiamo.
Avanti popolo
La parola antica e moderna che mette in crisi la democrazia
Da quello delle primarie a quello delle piazze da quello sovrano a quello escluso
Indagine su un termine politicamente ambiguo
di Roberto Esposito (la Repubblica, 21.03.2014)
Alla base delle difficoltà a definire il popolo, c’è un’antinomia che lo caratterizza da sempre. Esso contiene al proprio interno due poli non sovrapponibili, e anzi per certi versi contrastanti - da un lato la totalità degli individui di un organismo politico e dall’altro la sua parte esclusa. Questo secondo elemento - espresso soprattutto nell’aggettivo “popolare” - non soltanto non coincide col primo, col popolo titolare della sovranità, ma ne costituisce una potenziale minaccia interna. Come è stato ricordato anche da Agamben (Che cos’è un popolo, in Mezzi senza fine, Bollati), tale dialettica non riguarda solo le nostre democrazie, ma coinvolge fin dall’origine le istituzioni occidentali.
Se in Grecia il demos indica al medesimo tempo l’insieme dei cittadini dotati di diritti politici e i ceti più bassi della scala sociale, a Roma la stessa dialettica è riconoscibile nel rapporto tra populus e plebs - dove questa è contemporaneamente parte e resto escluso del primo. Machiavelli spesso non distingue tra popolo e moltitudine, mentre Hobbes li contrappone: a differenza della moltitudine, un popolo è tale solo quando è unificato da un sovrano.
Con la Rivoluzione francese il popolo, identificato con la nazione, diventa esso stesso il titolare della sovranità, così da eliminare ogni differenza tra gli individui. Ma fin da allora il meccanismo della rappresentanza parlamentare, poi diffuso in tutte le democrazie, tende a riprodurre uno scarto tra coloro che esercitano il potere e coloro che lo subiscono. Non solo capita spesso che i rappresentanti rappresentino solo i propri interessi, ma un numero crescente di cittadini ha perso ogni fiducia nelle istituzioni. Benché formalmente rappresentata dagli eletti nelle elezioni, una parte della cittadinanza si sente esclusa dal patto sociale al punto da astenersi regolarmente dal voto.
Il problema che abbiamo di fronte, non soltanto in Occidente, come dimostrano le recenti rivolte nei paesi arabi e orientali, è che tutte le parti in conflitto dichiarano di rappresentare, e anzi di costituire, il popolo contro le altre. Cosicché, come è stato sostenuto sia a destra che a sinistra, a definire un popolo non sono tanto coloro che ne fanno parte, quanto quelli che ne vengono tenuti fuori. Durante il nazismo il popolo tedesco si identificava attraverso l’espulsione violenta di una sua parte infetta. Ma ciò è accaduto anche in altri momenti.
Durante la guerra d’Algeria, ad esempio, i termini “popolo francese” e “popolo algerino”, pur equivalenti, assumevano un ben diverso significato a seconda di chi li pronunciava. Ancora pochi mesi fa, d’altra parte, le folle di piazza Tahir dichiaravano di essere il popolo egiziano contro quello legittimamente rappresentato dal governo eletto. E che dire delle moltitudini che dovunque, anche contro i propri rappresentanti, reclamano accesso ai beni, al lavoro, alle cure mediche? Dove sta il popolo, in parlamento o nelle piazze, nelle istituzioni o nei cortei? Secondo Badiou quella di popolo è una idea dinamica: la nazione che esso incarna è sempre in qualche modo da costruire, mai del tutto realizzata dallo Stato presente.
Credo si debba prendere atto del fatto che la faglia da sempre aperta nella storia dei popoli non è del tutto eliminabile - se non in un futuro remoto i cui contorni ancora non si profilano. Ma che è possibile, e necessario, ridurla al massimo. A tale compito è ordinata la politica. Essa, come la democrazia, non può coincidere con una pura tecnica di governo. Se così fosse, la sovranità popolare sarebbe del tutto risolta nella rappresentanza degli eletti, così da escludere ogni altra forma di espressione politica - partiti, sindacati, movimenti spontanei. Ma così non è. Il potere costituito non risolve mai interamente in sé quello costituente, come il popolo presente non cancella mai completamente quello futuro.
Anche la celebre espressione “Noi, il popolo”, che inaugura la Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America, ha una portata performativa. Contiene assai più di una mera descrizione. È insieme il riconoscimento di quanto esiste, ma anche una promessa di quanto può darsi.
Come scrive Judith Butler nel saggio più intenso della raccolta, «“Noi il popolo” non presuppone né fabbrica un’unità, ma fonda o istituisce una serie di domande sulla natura del popolo e su ciò che esso vuole essere». Il trasferimento della sovranità popolare ai rappresentanti non è mai pieno e definitivo. Rimane sempre un certo numero di donne e di uomini che preme ai margini di un popolo per prenderne parte in senso effettivo. Si pensi non solo agli immigrati cui non è ancora stata riconosciuta cittadinanza, ma anche agli emarginati, ai derelitti, ai disperati che riempiono sempre più le nostre strade.
Mai come oggi, quando si accresce in maniera insopportabile la forbice tra i più ricchi dei ricchi e più poveri dei poveri, il popolo appare separato da se stesso. L’effetto più profondo della crisi sta proprio nell’allargare la frattura tra i “due” popoli.
Eppure, se c’è qualcosa che può ridare sostanza a una politica in drammatico arretramento, è proprio l’esigenza di ricucire questa ferita. Come la parte esclusa potrà farsi popolo anche nell’altro significato del termine? Perché ciò sia possibile occorre una duplice condizione. Da un lato che chi è dentro le istituzioni volga davvero lo sguardo a chi è fuori. Dall’altro che chi è fuori, abbandonando forme di proteste inefficaci, entri nelle istituzioni per cambiarle. Non è contrapponendo i due popoli che si sana la malattia della democrazia. Ma creando le condizioni di un nuovo patto sociale che rompa dovunque sia possibile le barriere che ancora li dividono.
Il popolo delle primarie, il popolo della sinistra, il popolo italiano, il popolo delle piazze in rivolta. Difficilmente un termine politico è suscettibile di connotazioni così diverse. Già Pierre Rosanvallon, del resto, in un saggio sulle forme di rappresentanza democratica, aveva dichiarato il popolo “introvabile”. Né il popolo-opinione né il popolo- nazione né il popolo-emozione riescono a fornire risposte adeguate al malessere che sale dal fondo oscuro delle nostre democrazie. Ma è un punto cieco che ci riguarda tutti.
Da qualche tempo immersi in una riflessione critica sui caratteri del populismo, è come se avessimo dimenticato il concetto da cui esso proviene, portandone dentro tutte le contraddizioni. E dunque, Che cos’è un popolo? È il titolo di un pamphlet appena tradotto da Derive Approdi, firmato da sei rinomati intellettuali come Badiou, Bourdieu, Butler, Didi-Huberman, Khiari e Rancière.
La Costituzione, unica bussola
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 21.11.2011)
Avevano un suono diverso le parole pronunciate dal presidente del Consiglio e dai ministri del nuovo governo nel momento in cui giuravano di osservare "lealmente" Costituzione e leggi e di esercitare le loro funzioni nell’interesse "esclusivo" della Nazione. La formula apparentemente burocratica del giuramento rivelava un’assenza: la mancanza negli ultimi anni d’ogni lealtà governativa verso una Costituzione continuamente dileggiata e aggredita, l’abbandono dall’interesse esclusivo della Nazione a vantaggio di una folla di interessi privati e persino inconfessabili. Quelle parole scomparse e tradite sono ritornate nel momento in cui davanti al nuovo governo non è soltanto il compito assai difficile di affrontare i temi dell’economia riprendendo pure il cammino dell’equità e dell’eguaglianza, senza le quali la coesione sociale è perduta. L’insistita sottolineatura del nuovo stile di Mario Monti all’insegna di "sobrietà" e "serietà" non riguarda, infatti, segni esteriori. Ricorda un altro compito, forse persino più difficile e certamente bisognoso di molto impegno e di molto tempo, quello di far uscire il nostro Paese dalla regressione culturale e civile nella quale è sprofondato.
È questione che non si affida tanto a provvedimenti formali. Accontentiamoci, per il momento, d’una prima, non indifferente certezza. Il sapere che non vi saranno ministri della Repubblica che, di fronte alla domanda di un giornalista o di un cittadino, leveranno in alto il dito medio o risponderanno con una pernacchia (non il nobile e difficile "pernacchio" di Eduardo). Rispetto e lealtà non sono dovuti soltanto a Costituzione e leggi, ma a tutti coloro che nel mondo reale incarnano valori e principi che lì sono iscritti. In questi anni abbiamo assistito proprio al rifiuto dell’"altro", l’avversario politico o l’immigrato, lo zingaro o la persona omosessuale. L’indegna gazzarra scatenata alla Camera dai deputati della Lega contro la civilissima richiesta di avviare il riconoscimento degli immigrati come cittadini, e non come merce usa e getta, è stata la conferma evidente della difficoltà di invertire una tendenza che, mai contrastata efficacemente per convenienza politica e debolezza culturale, ha terribilmente inquinato l’ambiente civile.
Sarà la minuta sequenza degli atti concreti a dare sostanza all’abbandono di un perverso costume. Al governo spettano nomine importanti, sottosegretari e Rai per cominciare. Il rispetto della Costituzione, inoltre, muove dal rispetto degli istituti che la innervano, a cominciare dal referendum che ha ridato ai cittadini la possibilità di far sentire la loro voce, spenta da una legge elettorale indegna e venata da incostituzionalità. Proprio dal voto sui referendum di giugno vengono tre indicazioni che il governo non può in alcun modo eludere: il no al nucleare (lo ricordi qualche ministro che non deve avere bene appreso la lezione di sobrietà e umiltà invocata dal presidente del Consiglio); il rifiuto di ogni legislazione attributiva di privilegi; il nuovo ruolo attribuito ai beni comuni, all’acqua direttamente (non si segua il cattivo esempio delle furbizie nelle quali il governo precedente si stava esercitando). Se il governo vuole conservare la fiducia manifestata da una larga parte dell’opinione pubblica, e cercar di recuperare critici e scettici, deve essere consapevole che proprio questi sono i casi in cui massima dev’essere la sua lealtà verso la Costituzione. È bene aggiungere che, considerando i vari movimenti e indignati che occupano le piazze del mondo, in Italia il risveglio civile non solo si era manifestato prima che in altri Paesi, ma aveva trovato un fiducioso incontro con le istituzioni tramite i referendum. Sarebbe un grave errore politico mettere questa vicenda tra parentesi, poiché proprio da lì è cominciato quel rinnovamento che ha trovato nel governo Monti un suo approdo, sia pure controverso.
Come tutto questo incrocerà i sentieri parlamentari è questione tra le più aperte. A proposito della quale, tuttavia, è bene insistere su una banale verità, del tutto travisata da chi, gridando alla fine della democrazia, ha lamentato un ruolo marginale del Parlamento in una crisi tutta gestita tra presidente della Repubblica e presidente del Consiglio incaricato. Ma abbiamo già dimenticato o cancellato il fatto istituzionale più clamoroso di questi ultimi anni, appunto la scomparsa del Parlamento, dileggiato da Silvio Berlusconi come luogo di inutili e incomprensibili lungaggini, espropriato d’ogni potere dai voti di fiducia e dai maxiemendamenti blindati, ridotto a mercato quando v’erano da reclutare truppe mercenarie, rattrappito nei suoi lavori in un paio di giorni a settimana, addirittura chiuso per mancanza di questioni rilevanti da mettere all’ordine del giorno? Uno degli esiti, o paradossi, di questa crisi sta proprio nell’aver rimesso al centro dell’attenzione pubblica e della politica proprio il Parlamento, ricordando così, come molte volte aveva già fatto il presidente della Repubblica, che la nostra rimane una Repubblica parlamentare ed è lì che i governi ricevono investitura e legittimità.
Sul rapporto tra governo e Parlamento si è insistito molto in questi giorni, discutendo soprattutto della possibilità che qualcuno voglia prima o poi "staccare la spina", di possibili maggioranze variabili nell’approvare singoli provvedimenti. Ma vi è un altro aspetto del problema, particolarmente rilevante nella prospettiva ricordata all’inizio della "bonifica" politica e civile del nostro sistema istituzionale e della nostra società. Qualcuno, nel dibattito parlamentare, ha avuto l’impudenza di invocare la ripresa del cammino parlamentare del disegno di legge sulle intercettazioni. Qualcun altro ha adombrato i temi della difesa della vita, con un trasparente richiamo al disegno di legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (testamento biologico) attualmente in discussione al Senato, e dopo che s’era verificato il grave episodio di un governo che, in articulo mortis, aveva diffuso le nuove linee guida in materia di procreazione assistita. L’insistenza su questi temi rivela un intento strumentale, volto anche a creare frizioni parlamentari che possono insidiare la tenuta del governo. Ma, se appare davvero improbabile un rinnovato assalto a favore di una legge bavaglio, più serie preoccupazioni destano i temi legati alla bioetica e al biodiritto.
Per proteggere il governo, non si tratta di invocare una "tregua etica" o rivendicare l’autonomia del Parlamento in materie non comprese nel programma governativo, magari facendosi forti di qualche improvvida dichiarazione che ha associato la costituzione di questo governo con il "ritorno" dei cattolici in politica. Se alla lealtà verso la Costituzione dobbiamo continuare a rifarci, è appunto il percorso costituzionale che deve essere rigorosamente seguito tanto dal governo che dal Parlamento. E questo significa mettere da parte il testo sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, grondante di incostituzionalità, sgrammaticature e difficoltà applicative in ogni suo articolo. Significa riprendere il cammino verso una seria disciplina delle unioni di fatto, comprese quelle tra persone omosessuali, alle quali la Corte costituzionale ha riconosciuto un "diritto fondamentale" al riconoscimento giuridico della loro condizione, indicazione finora del tutto disattesa dal Parlamento. Significa riportare a ragione e Costituzione la materia della procreazione assistita.
Per non rimanere prigionieri dell’emergenza che ha segnato la nascita di questo governo, e per sfuggire alle perversioni che questa può produrre, bisogna imboccare senza esitazioni la via di una politica che sia tutta politica "costituzionale".
Governo tecnico senza parlamento, senza senato e con un Eccitatorio
“Senso dello Stato”: chi ne parla non ce l’ha
di Marco Filoni (il Fatto, 22.10.2011)
L’ammazzaparole. Ecco il mestiere del lessicografo Henri Cinoc. Per decenni ha cancellato parole, eliminando quelle vecchie e desuete dal dizionario Larousse. Anche noi abbiamo i nostri Cinoc. Peccato però che non provengano dalla penna felice e visionaria di Georges Perec, che s’inventò il personaggio nel suo insuperabile La vita istruzioni per l’uso. No, i nostri sono persone reali in carne e ossa. Loro non cancellano le parole, è vero. Ma fanno qualcosa di più sottile: le svuotano di senso. Certo, una lingua subisce variabili storiche e sociali che la portano a trasformarsi. Eppure vi sono parole che sono concetti, con una storia e un valore da non modificare. Sono parole da difendere. Perché gli italici emuli di Cinoc - facile riconoscerli - nel loro sprezzante abuso del linguaggio producono danni. Del resto aveva ragione il linguista Leo Spitzer quando diceva che le parole sono spie dello stato psichico di chi se ne serve. Ecco perciò un piccolo dizionario delle parole da conservare affinché il blatericcio quotidiano non le saccheggi del loro vero significato.
CONCERTAZIONE . Era una pratica di governo delle relazioni industriali, in cui i sindacati partecipavano alle decisioni di politica economica. Oggi è un problema per le aziende. Un ostacolo da schivare, pena il trasferimento all’estero. Visto lo spirito dei tempi, proponiamo di sostituirla con crowdsourcing: un neologismo che significa un modello di sviluppo in cui si richiede la partecipazione, dal basso, dei soggetti interessati. Magari qualche idea buona viene fuori. Con questo metodo in Islanda ci hanno scritto nientemeno che la nuova Costituzione.
DIALOGO . Da Platone in poi, il dialogo propriamente detto è quello in cui le persone che vi partecipano non sono d’accordo, e intendono mettersi d’accordo. Una vera e propria arte, nella quale con l’ingegno e la retorica si cerca di convincere l’altro, di tirarlo dalla propria parte o confutarlo con argomenti validi. Oggi dialogano soltanto gli interessi, quasi sempre individuali e non della comunità. La politica viene meno alla condizione necessaria del dialogo, cioè l’ascolto. I politici danno voce a monologhi. Il loro è un dialogo muto.
ETICA . Si tratta del giudizio della condotta dell’uomo, i criteri in base ai quali si valutano i comportamenti e le scelte. È associata all’azione, nel senso che l’etica deve indicare i valori che orientano le scelte di chi agisce. Non a caso, per secoli e secoli, l’etica veniva posta di fianco alla politica. Da non confondere però con la morale, perché sono due cose distinte : banalizzando, la morale è individuale (perciò si parla di morali, al plurale); l’etica è il sistema, quindi morale concreta, storica e pubblica. L’etica dovrebbe dar forma a uno stile di vita. Ecco, basterà questa constatazione (e la lettura dei titoli dei giornali) per capire quanto oggi sia totalmente assente dal dibattito pubblico. Ormai si parla di etica associandola non più alle virtù, bensì ai vizi. Aveva ragione Bertold Brecht quando diceva che prima viene lo stomaco e solo dopo la morale. Ma un avvertimento, prezioso, lo ritroviamo nell’esortazione di Bertrand Russel: “Senza moralità civile le comunità periscono; senza moralità privata la loro sopravvivenza è priva di valore”.
INNOVAZIONE . Significa progresso e genera un cambiamento positivo verso il meglio. Cioè l’applicazione degli elevati livelli di conoscenze (tecnologiche, scientifiche, sociali) che garantiscono un miglioramento della qualità della vita dell’uomo. Va da sé, è strettamente legata alla ricerca. Che da noi non se la passa troppo bene. Anzi. Le uniche innovazioni a cui assistiamo sono sempre piuttosto macchinose. Ma se un’innovazione è troppo difficile da introdurre significa che non è necessaria. E poi in Italia non seguiamo la “Legge di Terman” sull’innovazione, variabile applicata della Legge di Murphy: “Se vuoi formare una squadra che vinca nel salto in lungo, trova una persona che salti nove metri, non nove che ne saltano uno”.
ISTITUZIONE . È una cosa seria. E andrebbe riservata alle persone serie. L’istituzione è una sorta di casa dell’uomo nella quale tutti e ciascuno possano riconoscersi e dalla quale possano essere riconosciuti. Istituti umani, quindi politici e sociali. L’istituzione è l’ombra allungata dell’uomo, come la descrisse R.W. Emerson. Oggi l’istituzione, ahinoi, ha assunto la forma farsesca del “Lei non sa chi sono io!”. Peccato. Perché l’istituzione è fatta dalle persone. E pensare che una volta, quando Chirac era presidente francese, al suo passaggio un uomo gli gridò dalla strada connard (stronzo). Lui gli andò incontro con la mano tesa dicendogli: Chirac, c’est moi!
LIBERTÀ . Montesquieu la definì come il diritto di fare tutto quello che le leggi permettono. Nell’Ottocento il filosofo inglese John Stuart Mill lo corresse, dicendo che la libertà consisteva nel fare ciò che si desidera. Pare che qui da noi questa seconda definizione abbia preso il sopravvento. Nonostante la difficoltà di definirla, comunque, si può sostenere che la libertà non è mai fine a se stessa, ed è possibile soltanto in un paese dove il diritto ha più forza delle passioni.
RIFORME . Il riformismo nasce come alternativa alla rivoluzione. Nasce a sinistra, muore a destra. Oggi tutti sono riformisti. Chi per vezzo, chi per virtù. Molti lo sono in stile ottocentesco, il cui motto era “Riformate , affinché possiate conservare”! Il problema non è la riforma in sé: si parte sempre dall’esistente, che può esser sempre migliorato. Il problema è il contenuto e chi fa le riforme. Cavour sosteneva che riformare rafforza l’autorità. Ma se a riformare è un buon governo. Altrimenti aveva ragione Tocqueville, per il quale - l’esperienza insegna - il momento più pericoloso per un cattivo governo è quello in cui comincia a riformarsi.
RIVOLUZIONE LIBERALE Molti la invocano. Quasi fosse una sorta di epifania alla risoluzione di tutti i mali. Nasce come progetto di applicazione delle teorie liberali, da Von Hayek ai sostenitori del laissez-faire. Nella realtà non è mai avvenuta. Gli stessi teorici pongono parecchi distinguo: una tale rivoluzione praticata senza vincoli potrebbe condurre la società a gravi difficoltà. Aveva ragione George Sorel quando affermava che la rivoluzione liberale è un’utopia. Ma alle utopie si può anche credere. Bisogna però far qualcosa affinché si realizzino. Un esempio? I giornali che invocano la rivoluzione liberale perché non rinunciano ai contributi pubblici e si mettono così in regime di libera concorrenza?
SENSO DELLO STATO . Qui siamo messi davvero male. Poche, rarissime eccezioni, sotto i nostri occhi. In generale dovrebbe essere la considerazione per l’incarico che si riveste, colmandolo di virtù affinché venga preso come esempio. Invece oggi è un’attitudine che si può riassumere con una citazione: “Lo Stato deve essere l’amministrazione di una grande azienda che si chiama patria appartenente a una grande associazione che si chiama nazione”. No, non è una dichiarazione recente di qualche politico aziendalista. L’ha scritto quasi cent’anni fa Filippo Tomaso Marinetti, che era un futurista e quindi un po’ burlone. Il testo che conteneva queste parole si intitolava, tutto un programma, così: Governo tecnico senza parlamento, senza senato e con un Eccitatorio
Napolitano: "In Italia troppa partigianeria. E i leader politici non siano gelosi di me" *
ROMA - In Italia c’è un eccesso di partigianeria politica. Lo ha detto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel suo incontro stamattina con i giornalisti della stampa estera.
All’incontro ha partecipato una rappresentanza di giornalisti di diverse testate internazionali e secondo quanto si è appreso il capo dello stato avrebbe fatto riferimento, come gli è capitato altre volte, a una partigianeria politica esasperata usando il termine inglese "hyperpartisanship".
"Penso che non ci sia per i politici italiani motivo di ingelosirsi, perchè viaggiamo su pianeti diversi, non ci sono comparazioni possibili, che non siano invece arbitrarie", ha aggiunto il capo dello Stato a proposito del suo ruolo. Spiegando poi che il compito del Colle è quello di "rappresentare l’unità nazionale" ed è "completamente diverso da quello dei leader politici".
* la Repubblica, 23 maggio 2011
Deriva pericolosa
di Michele Ainis (Corriere della Sera, 01.04.11)
Una roba così non era mai successa. Il capo dello Stato che convoca i capigruppo al Quirinale, li mette in riga come scolaretti, gli chiede conto dei fatti e dei misfatti. D’altronde non era mai successo nemmeno il finimondo andato in scena negli ultimi due giorni. Il ministro della Difesa che manda a quel paese il presidente della Camera, quello della Giustizia che giustizia la sua tessera scagliandola contro i banchi dell’Italia dei Valori, quello degli Esteri che lascia la Libia al suo destino per votare un’inversione dell’ordine del giorno in Parlamento. Dall’altro lato della barricata, fra i generali del centrosinistra, contumelie e strepiti, toni roboanti, decibel impazziti. E intanto, nelle valli che circondano il Palazzo, folle rumoreggianti dell’opposizione, lanci di monetine, improperi contro il politico che osa esibire il suo faccione.
Diciamolo: la nostra democrazia parlamentare non è mai stata così fragile. Ed è un bel guaio, nel mese in cui cadono i 150 anni della storia nazionale. Perché uno Stato unito ha bisogno di istituzioni stabili, credibili, forti di un popolo che le sostenga. Ma in Italia la fiducia nelle istituzioni vola rasoterra. Per Eurispes nel 2010 le file dei delusi si sono ingrossate di 22 punti percentuali, per Ispo il 73%dei nostri connazionali disprezza il Parlamento. Colpa dello spettacolo recitato dai partiti, colpa del clima di rissa permanente che ha trasformato le due Camere in un campo di battaglia.
Le nazioni muoiono di impercettibili scortesie, diceva Giraudoux. Nel nostro caso le scortesie sono tangibili e concrete come il giornale lanciato in testa al presidente Fini. Ma non è soltanto una questione di bon ton, di buona educazione. O meglio, dovremmo cominciare a chiederci per quale ragione i nostri politici siano scesi in guerra. Una risposta c’è: perché sono logori, perché hanno perso autorevolezza, e allora sperano di recuperarla gonfiando i bicipiti. Sono logori perché il tempo ha consumato perfino il Sacro Romano Impero, e perché il loro impero dura da fin troppo tempo.
Guardateli, non c’è bisogno d’elencarne i nomi: sono sempre loro, al più si scambiano poltrona. Stanno lì da quando la seconda Repubblica ha inaugurato i suoi natali, ed è proprio il mancato ricambio delle classi dirigenti la promessa tradita in questo secondo tempo delle nostre istituzioni. Da qui l’urlo continuo, come quello di un insegnante che non sa ottenere il rispetto della classe. Perché se sei autorevole parli a bassa voce; ma loro no, sono soltanto autoritari. Ma da qui, in conclusione, il protagonismo suo malgrado del capo dello Stato.
D’altronde non sarà affatto un caso se l’istituzione più popolare abita sul Colle: dopotutto gli italiani, nonostante la faziosità della politica, sanno ancora esprimere un sentimento di coesione. E il presidente simboleggia per l’appunto l’unità nazionale, così c’è scritto nella nostra Carta. La domanda è: come raggiungerla? Con un ricambio dei signori di partito, con un’iniezione di forze fresche nel corpo infiacchito della Repubblica italiana. Ci penseranno (speriamo) le prossime elezioni. Quanto poi siano lontane, dipenderà dalla capacità di questo Parlamento di mantenere almeno il senso del decoro.
Perché siamo un Paese sull’orlo del Baratro
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 05.03.2010)
Il nostro paese è sul crinale di un baratro politico e criminale e non sarà questa maggioranza a ripristinare la fiducia nella politica e nei partiti. Come altre volte in passato, un’altra Italia sarà necessaria a rimediare al disastro di una violazione sistematica e proterva della legalità e del civismo, nella pubblica amministrazione come nella società civile (la quale non è per nulla innocente). Questa maggioranza non lo può fare per ragioni che sono politiche prima che giudiziarie, connaturate ad essa e al messaggio che ha in questi anni confezionato e propagandato per creare una sua solida base elettorale.
All’origine della difficoltà del premier e del suo governo di varare lo sbandierato provvedimento anti-corruzione c’è questa endogena incapacità (e impossibilità) di distinguere tra interesse e giustizia, di vedere la corruzione e soprattutto di rinunciare ai suoi sperimentati vantaggi elettorali. Questa incapacità e impossibilità è contenuta nel messaggio contraddittorio che viene da Palazzo Chigi. Infatti, se il sistema di malaffare che ci rende ancora una volta così vergognosamente popolari nel mondo è davvero opera dei proverbiali quattro gatti e di birbantelli, allora che bisogno c’è di un intervento urgente? Non ce n’è proprio. Ma allora, perché dar voce a questa nuova fanfara dell’emergenza quando nel frattempo si rappresenta lo stato delle cose in un modo che non giustifica alcuna impellenza?
Una spiegazione facile è che l’idea del fare pulizia è molto popolare; e quando si è a ridosso di elezioni e si vuole, si deve, incrementare la propria popolarità. La propaganda della pulizia può pagare, e soprattutto lo può per un tempo che si vuole limitato. Un anno e mezzo fa, per la precisione nell’autunno del 2008, il presidente del Consiglio aveva annunciato la creazione di una nuova unità speciale che avrebbe dovuto eliminare la corruzione nelle amministrazioni pubbliche e garantire più trasparenza. La task-force non doveva avere il compito di polizia, ma di "intelligence". Proponendo una politica dell’emergenza per fronteggiare l’emergenza corruzione, il capo del governo parlò allora della corruzione come di una antica patologia nel nostro paese.
Mai parole furono più vere, eppure chi si ricorda oggi di quella task-force? La propagandata fa rumore e passa, non si sedimenta nella memoria. E la nuova ondata propagandistica mira a fare proprio questo: mostrare che si vuol "fare"; usare una strategia moralizzante per creare una nebbia di malaffare nella previsione che, finita la campagna elettorale, l’oblio del circo mediatico che macina tutto così in fretta da non lasciare quasi traccia farà il suo corso. Proprio come la task-force di un anno e mezzo fa, tra qualche mese ci si ricorderà a mala pena di questo can can di nomi. Ma c’è una ragione ancora più radicale che suggerisce di diffidare di questi propositi di mettere in piedi un’impresa di pulizia morale, una ragione sintetizzabile in una domanda: come può un’oligarchia che con tempo e fatica si è consolidata in questi anni di politica berlusconiana fare leggi contro se stessa e per auto-liquidarsi? Ecco allora che si comprende l’uso dell’espressione "birbantelli": pochi ed esemplari agnelli sacrificali serviranno a chiudere presto il caso e a rimettere in moto la macchina senza troppe perdite collaterali. Entrambe queste ragioni - la propaganda della moralizzazione e l’esemplarità del fare - inducono a pensare che non siamo proprio a un ritorno al passato, ma semmai a una escalation e in effetti a un grande peggioramento rispetto a mani pulite atto primo. Poiché allora un’intera classe dirigente fu spazzata via, non solo alcuni birbanti (la tattica dei "mariuoli" di Bettino Craxi allora non funzionò); nessuno aveva il potere di creare salvagenti perché la fine della Guerra fredda aveva reso quella vecchia oligarchia arrugginita, vulnerabile e nuda. Ma questa nuova oligarchia ha costruito i suoi anti-corpi in un ambiente ben diverso, un ambiente non protetto da alleanze internazionali; essa è quindi più forte, più radicata e resistente di quella che vedemmo naufragare diciotto anni fa. Infatti, oggi esiste un’oligarchia che non è ancora sotto accusa da parte dell’opinione pubblica perché ha nel frattempo costruito una macchina per creare un’opinione pubblica addomesticata e recettiva ai disvalori pubblici, grazie in primo luogo all’uso monopolistico dei media e alla pratica sistematica di nascondimento del vero.
Propaganda ed esemplarità si alimentano a vicenda: dunque i proclami propagandistici sulle poche mele marce e la promessa di un decreto anti-corruzione affinché l’acqua torni presto nel proprio alveo e scorra come sempre. Ecco il paradosso: una politica che si presenta come moraleggiante e che è contemporaneamente sovvertitrice di ogni valore legale ed etico. Queste due dimensioni si sono per anni alimentate a vicenda generando quel mostruoso connubio di attenzione morbosa dei media e di altrettanto sconvolgente immutabilità delle cose, con la conseguenza di un peggioramento radicale della situazione legale e etica. È per queste ragioni che ci troviamo su un baratro dal quale questa maggioranza non può salvarci.
La dottrina del Quirinale
di MASSIMO GIANNINI *
Come ogni Capodanno il "cuore d’Italia", da Palermo ad Aosta, batte all’unisono con quello del presidente della Repubblica. Gli auguri di Giorgio Napolitano alla nazione rassicurano un’opinione pubblica esasperata e stimolano una classe politica esagitata. Il messaggio è vagamente ecumenico, il plauso unanimemente bipartisan. Ma senza alcuna pretesa di rovinare lo strano "presepe italiano" di fine 2009 (in cui si contempla la proditoria anomalia di una statuetta del Duomo di Milano e in cui si celebra l’assolutoria epifania del Partito dell’Amore) bisogna riconoscere che nel vigoroso "Inno alla serenità" pronunciato dal Capo dello Stato ci sono chiavi meno scontate e note più acuminate di quello che appaiono. La "Dottrina Napolitano" si incardina intorno a una premessa e a una promessa. La premessa riguarda le questioni economiche e sociali. L’Italia, dopo mesi "molto agitati", ha un drammatico bisogno di essere governata.
Di fronte alla gravità di una crisi che pagheremo a caro prezzo sul piano dei costi economici (pesante caduta della produzione e dei consumi) e dei costi sociali (crollo dell’occupazione e aumento della povertà e delle disuguaglianze) il Paese ha reagito più con la forza delle sue braccia che non con la leva delle riforme. Il risultato nega l’assunto del presidente del Consiglio: nessuno sarà lasciato indietro. Non è vero. Chi è più forte ce la fa: imprese che hanno ristrutturato e lavoratori a tempo indeterminato con garanzie consolidate. Chi è più debole non ce la può fare: "invisibili" del ceto produttivo (micro-imprese senza rappresentanza e professionisti senza mercato) e soprattutto "invisibili" del mondo del lavoro (giovani precari con tutele deboli o inesistenti). Questa è la vera emergenza nazionale, che finora il governo ha affrontato con un approccio minimalista. Il Capo dello Stato ripropone invariato il monito che lanciò inutilmente il 31 dicembre del 2008: da questo abisso può riemergere un Paese più forte e più giusto. Se a distanza di un anno quel discorso resta "interamente aperto", vuol dire che chi doveva adoperarsi per trasformare la difficoltà in opportunità non l’ha fatto. Ci sono riforme "non più rinviabili". Non regge più l’alibi biblico del Qoelet (c’è un tempo per seminare, un tempo per raccogliere). La riforma degli ammortizzatori sociali e quella del fisco vanno fatte qui ed ora. Il governo le metta in campo, e la smetta di parlar d’altro.
La promessa riguarda le questioni politiche e istituzionali. Se rispetterà i tre valori intorno ai quali si cementa il civismo repubblicano (solidarietà, coesione sociale, unità nazionale) Berlusconi non troverà mai in Napolitano un ostacolo. Anche in questo campo ci sono riforme che "non possono essere tenute in sospeso" o bloccate dalle "opposte pregiudiziali". Ma anche qui il presidente della Repubblica rilancia la palla al governo. Le riforme istituzionali e la riforma della giustizia sono necessarie. La Costituzione può essere rivista nella sua seconda parte, secondo le procedure dell’articolo 138. Tutto si può fare, ma a tre precise e inderogabili condizioni. La prima, sui processi: le riforme siano "ispirate solo all’interesse generale", cioè all’esclusivo "servizio dei cittadini". Questo esclude che si possano riproporre leggi ad personam ispirate solo a un interesse particolare, e cioè al servizio di un cittadino (il premier). La seconda, sulla forma di governo: le riforme abbiano un "radicato ancoraggio" a quegli equilibri fondamentali tra potere esecutivo, potere legislativo e organi di garanzia sui quali poggia un sano sistema democraztico. Questo esclude presidenzialismi o premierati senza un corrispondente rafforzamento delle Camere e dei cosiddetti "poteri neutri". La terza, sul metodo: le riforme esigono la ricerca della "condivisione più larga possibile", nel solco della mozione approvata dal Senato il mese scorso. Questo esclude ogni forma di "patto scellerato", e ricolloca il confronto nell’unico luogo aperto, legittimo e titolato ad ospitarlo, cioè il Parlamento.
La "Dottrina Napolitano" fa piazza pulita di alibi e dubbi, inciuci ed equivoci. Il suo riformismo costituzionale smonta il sintagma dei teorici di ritorno di una sedicente "rivoluzione liberale" che, nella versione periana, vedono la storica malattia italiana nell’idea stessa di un compromesso sulle regole. Il suo spirito costituente spezza il paradigma "hobbesiano" che, nella visione berlusconiana, lega l’esistenza stessa del diritto al principio di sovranità. Dove l’origine dell’ordine politico risiede solo nel riconoscimento collettivo del sovrano, dove la sovranità è il presupposto necessario per l’esistenza dell’ordine politico e dove perciò l’unico diritto possibile è il diritto posto dal sovrano (Maurizio Fioravanti, in "Fine del diritto", Il Mulino). "Io non desisterò", promette il presidente della Repubblica agli italiani, all’alba di questo insondabile 2010. Noi lo ringraziamo per questo. E siamo con lui.
© la Repubblica, 2 gennaio 2010
Conterrà Lodo, immunità, carriere separate, riforma del Csm
L’obiettivo è di andare a un unico referendum per l’intero pacchetto
Senato, per salvare Berlusconi
il Pdl presenta una super-legge
E con la finanziaria sono a rischio i fondi per le intercettazioni
di LIANA MILELLA *
ROMA - Regalo di Natale per Silvio Berlusconi. Garantito per la prossima settimana. Un anticipo dei botti di Capodanno. Con la "sorpresa" che il premier ha sempre desiderato e tante volte annunciato: un nuovo scudo congela-processi per le alte cariche, l’immunità parlamentare con il ritorno al vecchio articolo 68 della Carta, la separazione delle carriere dei giudici e la conseguente riforma del Csm. Una sola legge, d’iniziativa parlamentare, per non coinvolgere direttamente il governo. Con l’obiettivo finale di andare a un unico referendum in cui giocare la faccia del presidente del Consiglio. Fuori dal pacchetto, attraverso una legge ordinaria, un inasprimento delle attuali norme, che risalgono all’88 dopo il referendum, sulla responsabilità civile dei giudici, e la riforma elettorale del Csm, per la quale i tempi sono ormai strettissimi, al punto che si scoglie un certo scetticismo nel Pdl sull’effettiva possibilità di farcela in vista della consultazione tra le toghe (luglio 2010).
L’"editto di Bonn" del Cavaliere si traduce subito in una zampata parlamentare, in una sfida all’opposizione, in una manovra sulle riforme che straccia, sin dal suo esordio, ogni possibilità di dialogo con il centrosinistra. C’è già, in nuce, una sfida al Quirinale che, a ogni occasione, raccomanda "riforme condivise". Ma nel pacchetto prenatalizio non c’è nulla che può far presagire possibili intese con il Pd, visto che Bersani e Violante hanno chiuso le porte a riforme che non siano "complessive". Il no di Di Pietro è scontato. L’unico margine resta con l’Udc su scudo e immunità. Tra i berluscones l’ordine è mettere da parte gli indugi e lanciare un segnale molto forte, "inondando il Parlamento con una raffica di riforme".
Il lavorio in corso tra gli esperti giuridici del Pdl di Camera e Senato lascia intendere che il "pacco dono" arriverà a metà settimana. Al Senato la riforma costituzionale, alla Camera il resto. Con un intreccio a tenaglia con il processo breve e il legittimo impedimento. Una strategia ben chiara. Andare avanti, subito dopo le feste, con le due leggi ordinarie e iniziare il confronto su quelle costituzionali. Al premier, per via dei due processi milanesi aperti (Mills e Mediaset), sta soprattutto a cuore la norma che può bloccare le sue convocazioni a palazzo di giustizia. Sarà la "legge ponte" che apre la via al nuovo lodo Alfano bis, rimodellato dal vice capogruppo al Senato Gaetano Quagliariello, sulla sentenza della Consulta. Un testo che, per evitare uno stop dal Quirinale e dalla stessa Corte, conterrà le indicazioni puntuali degli impegni istituzionali che possono giustificare di saltare un’udienza ma con l’obbligo di una certificazione da parte degli uffici. Dovrà essere un testo inappuntabile quello che rivede l’articolo 420 del codice di procedura penale soprattutto in rapporto al processo breve. Perché, se da un lato il governo sponsorizza un dibattimento rapido per tutti i cittadini, dall’altro non può costruire una norma irragionevole per allungare a dismisura i tempi del processo per premier, ministri, parlamentari.
Il pacchetto costituzionale, almeno stando per il momento alla pagina dell’indice, non riserva sorprese. Il nuovo lodo, dopo la bocciatura di quello firmato da Alfano, è una necessità imprescindibile per Berlusconi. Prevederà il congelamento dei dibattimenti per le alte cariche. Con l’immunità il premier si augura di acchiappare il pieno consenso dei suoi parlamentari che non potranno più dire quanto lamentano adesso, che si lavora ormai solo per lui. La separazione delle carriere e del Csm è il leit motiv di questa e della precedente legislatura di Berlusconi. Il quale dovrà comunque fare i conti con Fini e con la Bongiorno. Anche se ormai il suo input è raggiungere comunque il risultato.
Come dimostra il caso delle intercettazioni: mentre la legge è ormai bloccata da mesi al Senato, ecco che il Pdl ricorre a un escamotage per legare lo stesso le mani dei pm. Crea un capitolo di bilancio ad hoc, il 1363, "spese di giustizia per l’intercettazione di conversazioni e comunicazioni", che toglie a quello abituale, il 1360 ("spese di giustizia"), gli ascolti. Peccato che con il primo i magistrati potevano mettere un telefono sotto controllo tutte le volte che era necessario farlo. D’ora in avanti dovranno prima chiedere se ci sono ancora fondi a disposizioni. Di fatto un colpo all’azione penale obbligatoria perché, pur di fronte a un reato, i pm non potranno far nulla per mancanza di soldi.
© la Repubblica, 13 dicembre 2009
Il capo dello Stato chiede una "rete di sicurezza" e ottiene
una tregua. Fini: "Questa volta Silvio non lo capisco proprio"
Il Colle esige il chiarimento: basta strappi
Il premier: "Troppe istituzioni alla sinistra"
di CLAUDIO TITO *
ROMA - "Bisogna mettere un punto fermo". La tensione è altissima. Il rischio di uno conflitto istituzionale senza precedenti aleggia sul Quirinale e su Palazzo Chigi. Le bordate sparate l’altro ieri da Silvio Berlusconi contro il presidente della Repubblica hanno provocato una vera e propria crisi nei rapporti tra le massime cariche dello Stato. Napolitano è preoccupatissimo. Soprattutto non accetta che sia messa in dubbio la sua "correttezza" costituzionale. Nell’altra "palazzo", quello di via del Plebiscito, i toni sono ancor più aspri. La parola "complotto" viene ripetuta ossessivamente. E il Cavaliere pone un interrogativo ai suoi fedelissimi: "Perché, se abbiamo la maggioranza nel Paese, alcune istituzioni sono in mano all’opposizione?".
Il clima è pesantissimo. I canali di comunicazione tra Quirinale e governo sono praticamente interrotti. Di buon mattino, allora, Napolitano chiama prima il presidente della Camera, Gianfranco Fini, e poi quello del Senato, Renato Schifani. Li convoca al Quirinale per un vertice straordinario. Obiettivo: dare atto che la più alta magistratura dello Stato ha agito nel "pieno rispetto" delle prerogative costituzionali. E poi tessere una "rete" di sicurezza che salvaguardi l’equilibrio tra le istituzioni. Il presidente della Repubblica, insomma, chiede un pronunciamento pubblico. Un "chiarimento" definitivo.
L’allarme scatta anche a Montecitorio. Le uscite di Berlusconi non sono piaciute a Fini. "Non si può attaccare il capo dello Stato in questo modo", si lamenta con gli "ambasciatori" del Cavaliere: "Silvio proprio non lo capisco. Ma come si fa a sparare in quel modo? Deve capire che non può attaccare così il presidente della Repubblica. Cosa ha in mente?". È d’accordo con Napolitano. Ma è Schifani a sollevare dubbi.
L’incontro sul Colle si trasforma in una trattativa difficilissima. Le posizioni tra i tre, in un primo momento, non sono convergenti. Del resto, proprio mentre i presidenti dei due rami del Parlamento salgano al Quirinale, Berlusconi continua a sparare alzo zero verso il Colle. È furibondo e anche davanti alla "colomba" Gianni Letta non riesce a trattenersi. "Anche io pretendo rispetto". E soprattutto butta là una domanda che lascia di stucco i suoi interlocutori: "Io sono eletto dal popolo. La maggioranza del paese è con noi, ma alcune della massime cariche dello Stato sono dall’altra parte. È possibile andare avanti così?". Il riferimento è chiaro: il Quirinale, la Consulta, il Csm.
Il vertice tra Napolitano, Fini e Schifani, dura oltre un’ora. In passato, i medesimi summit erano iniziati e finiti con una intesa totale. Così fu nel novembre del ’93 quando Scalfaro convocò lo stesso Napolitano e Giovanni Spadolini per poi pronunciare il famoso "non ci stò" in seguito all’inchiesta sui fondi Sisde. E così fu anche nel 2002 quando Ciampi consultò Casini e Pera sulla crisi che si era aperta al vertice della Rai. Stavolta la seconda carica dello Stato presenta, in partenza, i suoi appunti.
A quel punto il presidente della Repubblica ripercorre punto per punto la vicenda. Rammenta che tutto nasce con il cosiddetto provvedimento "blocca processi" ideato dall’esecutivo. Ricorda l’intervento svolto a Torino nell’aprile scorso in riferimento ai "limiti che non possono essere ignorati nemmeno in forza dell’investitura popolare, diretta o indiretta, di chi governa". Soprattutto chiede di intervenire per far "ragionare" il capo del governo. Fini si schiera al suo fianco. Il presidente del Senato prende tempo. Non vorrebbe un comunicato congiunto. E comunque chiede di apportare dei correttivi. Si impunta sulla necessità di inserire un passaggio pure sul "risultato delle elezioni". Il confronto prosegue. Il presidente della Repubblica deve lasciare la riunione per un appuntamento non procrastinabile, cui prende parte pure Papa Benedetto XVI. Fini e Schifani restano al Quirinale per altri venti minuti a limare il testo e l’accordo viene trovato solo esplicitando il valore della "volontà del corpo elettorale".
La tregua alla fine viene siglata. Ma la pace è ancora lontana. In gran segreto, infatti, Schifani, lasciato il Quirinale, va a palazzo Grazioli. Spiega tutto a Berlusconi. Il Cavaliere si infuria ancora di più. Le sue sono parole di fuoco contro il presidente della Repubblica. "Sono io a pretendere rispetto - sbotta -. Forse ieri avrò pure esagerato ma è chiaro che c’è un complotto contro di me". Nell’ufficio di presidenza del Pdl molti evocano le elezioni anticipate. Il Cavaliere non li smentisce. Ma il suo "chiarimento", a questo punto, riguarda gli equilibri nelle più alte cariche dello Stato.
© la Repubblica, 9 ottobre 2009
Il testo integrale della lettera del capo dello Stato agli studenti *
Napolitano: "Non posso schierarmi ma non sono estraneo a esigenze"
ROMA - Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha risposto alla lettera che gli è stata consegnata ieri, in occasione di una cerimonia all’Università ’’La Sapienza’’ di Roma, da una rappresentanza di studenti, dottorandi e ricercatori. Questo il testo integrale della lettera del Capo dello Stato.
’’Cari studenti, dottorandi e ricercatori della Sapienza, ho ascoltato e letto con attenzione la lettera che mi avete consegnato e colgo l’occasione per indirizzarvi alcuni chiarimenti e spunti di riflessione. Innanzitutto : penso vi sia chiaro quale ordinamento la Costituzione abbia disegnato per la Repubblica. La nostra è una democrazia parlamentare - simile a quella di quasi tutti gli altri Stati europei - in cui al Capo dello Stato non sono attribuiti poteri esecutivi. Io non debbo dunque ’’decidere da che parte stare": non posso stare dalla parte del governo e delle sue scelte, né dalla parte opposta".
"Le politiche relative a qualsiasi campo dell’azione dello Stato vengono definite dal Parlamento - scrive ancora Napolitano -, in seno al quale la maggioranza e l’opposizione sono chiamate al confronto tra le rispettive proposte, che possono configurare soluzioni alternative ai problemi da affrontare. Al presidente della Repubblica non spetta pronunciarsi nel merito dell’una o dell’altra soluzione in discussione, né suggerirne una propria, ma spetta solo richiamarsi ai principi e alle regole della Costituzione".
"Ciò non significa - sia chiaro - che io mi senta estraneo (’’abbandonandole a se stesse’’, per usare la vostra espressione) alle esigenze della scuola, della ricerca, dell’Universita’ - aggiunge il presidente della repubblica -. Al contrario: a queste esigenze, e alle problematiche connesse, ho dedicato, nello svolgimento delle mie attuali funzioni, da più di due anni, la più convinta e appassionata attenzione e iniziativa. E’ davvero in giuoco il futuro del Paese : se l’Italia vuole evitare un’emorragia di preziosi giovani talenti, che trovano riconoscimento all’estero, gli investimenti nella ricerca - soprattutto - dovrebbero costituire una priorità, anche nella allocazione delle risorse, pubbliche e private".
"Dico ’’dovrebbero’’ perché in realtà le scelte pubbliche (e anche quelle del sistema delle imprese) non sembrano riconoscere tale ’’priorità’’, a cui troppe altre ne vengono affiancate - in particolare quando si discute di legge finanziaria e di bilancio - col risultato che già da anni non ci si attiene ad alcun criterio di priorità e non si persegue un nuovo equilibrio nella distribuzione delle risorse tra i diversi settori di spesa. Di qui le preoccupazioni di fondo che spiegano la vostra ansietà, fatta di gravi incertezze per l’avvenire vostro e della nazione. E’ indispensabile che su questi temi non si cristallizzi un clima di pura contrapposizione, ma ci si apra all’ascolto reciproco, a una seria considerazione delle rispettive ragioni".
"Il governo - scrive ancora Napolitano - ha ritenuto necessario e urgente definire, fin dal giugno scorso, sia pure per grandi aggregati, le previsioni di spesa per i prossimi tre anni, al fine di rispettare l’impegno da tempo sottoscritto dall’Italia in sede europea per l’azzeramento del deficit di bilancio e per la graduale, ma netta e costante, riduzione del debito pubblico. Sono certo che anche a voi non sfugge l’importanza strategica di questo obbiettivo, il cui raggiungimento e’ condizione per uno sviluppo di politiche pubbliche meno pesantemente condizionato dall’onere del debito via via accumulatosi".
"Tuttavia io auspico: 1) che si creino spazi per un confronto - in sede parlamentare - su come meglio definire e distribuire nel tempo i tagli ritenuti complessivamente indispensabili della spesa pubblica tra i ministeri e i vari programmi, valutando attentamente l’esigenza di salvaguardare livelli adeguati di spesa per la ricerca e la formazione; 2) che a sostegno di questo sforzo, si formulino proposte anche da parte di studenti e docenti, per razionalizzare la spesa ed elevarne la qualità, con particolare riferimento all’Università, dovendosi rimuovere distorsioni, insufficienze e sprechi che nessuno può negare. E ciò sposta il discorso sulla tematica degli ordinamenti e della gestione del sistema universitario: tematica sulla quale e’ atteso un confronto tra il governo e gli organismi rappresentativi delle Università’’.
"Occorre - conclude Napolitano - che tutte le istituzioni e le forze sociali e culturali si predispongano senza indugio a tale confronto, in termini riflessivi e costruttivi: dando prova, anche voi, responsabilmente, di ’determinazione e intelligenza’, come avete scritto a conclusione della vostra lettera’’.
* la Repubblica, 22 ottobre 2008.
La mela stregata per Roma Capitale
di Mario Pirani (la Repubblica, 20.10.2008)
Che il federalismo d’impianto leghista si prestasse ad aggravare i guasti apportati dalla modifica del titolo V della Costituzione ad opera delle sinistre, era stato denunciato più volte su queste colonne. La rubrica scorsa, appunto, lamentava come i post comunisti, nell’ansia di cancellare le proprie radici, avessero finito per gettare via, oltre a Marx e Stalin, anche Garibaldi e Cavour. Ed ora se ne vedono i frutti velenosi. Il «Comitato per la bellezza», un organismo dedito alla difesa artistica e paesaggistica, presieduto da Vittorio Emiliani, mi ha inviato in proposito una mappa delle fasi di fioritura di una di queste «mele stregate», destinata non certo ad avvelenare Biancaneve. L’11 settembre il governo presenta il disegno di legge sul federalismo fiscale che, sottoposto alla Conferenza Stato-Regioni, passa quasi indenne. Il 3 ottobre il medesimo testo arriva al Consiglio dei ministri. A fine seduta viene inserito un copioso articolo aggiuntivo di cui non si era parlato fino a quel momento, neppure con le Regioni, col quale viene, tra le altre cose, trasferita all’Ente Roma Capitale «la tutela e la valorizzazione dei beni storici, artistici, ambientali e fluviali», sin qui di competenza statale o demaniale, nonché le funzioni di urbanistica e pianificazione finora devolute alla Regione.
Appena venuto a conoscenza dell’inserimento dell’«articolo aggiuntivo» su Roma Capitale nella legge sul federalismo fiscale il sindaco Alemanno se ne rallegra pubblicamente: «E’ un risultato storico. La città avrà uno statuto europeo. I più importanti processi decisionali - inclusa la tutela dei beni culturali e ambientali - invece di passare per tre diversi livelli Comune-Provincia-Regione (e Stato) sono concentrati nell’assemblea capitolina. Così si potranno prendere con più rapidità le decisioni». Contemporaneamente il ministro per i Beni culturali, Sandro Bondi, dice di non saperne nulla.
La cosa, però, non finisce qui. Prima di proseguire vorrei, però, premettere che la legge su Roma Capitale è un obbiettivo da lungo tempo giustamente atteso. Non è possibile, infatti, governare con gli stessi strumenti regolamentari di un qualsiasi capoluogo, una metropoli dove, oltre alla amministrazione comunale, sono installate tutte le istituzioni di governo e di rappresentanza della Repubblica, nonché quelle vaticane. Ciò non significa, però, che Roma debba essere sottratta ad ogni vincolo di controllo, soprattutto in tema di salvaguardia ambientale e culturale. E qui l’articolo approvato dal Consiglio dei ministri entra in conflitto con la stessa Costituzione, laddove, all’art. 9, proclama che «La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Non si tratta, si badi bene, di una proclamazione retorica ma di una direttiva pratica: se questa tutela fosse stata delegata ad enti, altri dallo Stato, e in special modo a quelli locali, ne sarebbero derivati continui conflitti d’interesse per la presenza sul territorio di forze potenti, capaci di influire direttamente e indirettamente sulle rappresentanze, per loro natura più permeabili ad operazioni clientelari. Lo scandalo esploso a Roma, allorquando venne permessa la costruzione dell’Hilton sui crinali di Monte Mario, si sarebbe ripetuto ovunque e su più larga scala. Gli scempi ci sono stati egualmente ma senza il potere vincolante autonomo delle Sovrintendenze, ripreso anche dal Codice attuale dei Beni culturali sulla scia di tutti quelli precedenti, dalla legge giolittiana del 1908, a quella di Croce del ‘22, dalle due leggi Bottai del ‘39 al Testo unico del 1999, ebbene l’intera Penisola sarebbe uscita devastata.
Ricordato tutto questo, torniamo alla vicenda del famigerato articolo aggiuntivo di cui sopra. Ebbene, uscito da Palazzo Chigi il 3 settembre, si perde per strada e non arriva al Quirinale. Al presidente della Repubblica, che deve firmare il testo prima di avviarlo all’iter parlamentare, viene sottoposta la stesura precedente, quella sancita dalla Conferenza Stato-Regioni, che non contiene la corposa aggiunta su Roma Capitale, malgrado, nel frattempo, i ministri Calderoli e Matteoli dichiarino di averla approvata. Cosa c’è dietro? Probabilmente la stessa tattica seguita con l’emendamento salva-manager infilato di soppiatto nel decreto Alitalia: si nasconde la «mela stregata» agli occhi del Quirinale per non incappare in una possibile obiezione ostativa del Presidente, quindi la si ripresenterà, come emendamento, nel corso della discussione parlamentare sul federalismo. Come dice Andreotti a pensar male si fa peccato, ma si indovina. Del resto gli interessi in gioco sono enormi.
MINESTRONE TOSSICO
di don Aldo Antonelli *
Ha usato la politica, prima tramite terzi poi scendendo in campo, per difendere e moltiplicare i propri interessi. Ora la uccide, la politica, per dare libero spazio al proprio protagonismo. Prima era semplicemente un ladro in libertà vigilata, ora è un ladro a piede libero.
Con le sue televisioni ha stuprato e violentato un popolo svuotandolo della sua anima, ha resettato la sua coscienza sui canoni volgari del denaro facile e del felice apparire, gli ha rubato la memoria storica e la capacità riflessiva vellicandone gli istinti da basso ventre fino a farne camera di risonanza delle sue ossessioni e delle sue droghe.
Ora questo popolo è diventato zerbino del suo impero, supporto alla sua anarchia e foglia di fico per le sue vergogne.
Prima per lui il popolo era un cavallo da domare , ora lo ha reso un asino da soma. Ha cooptato nel governo il razzismo bavoso della lega, la bulimia mercantilista della destra e l’interessata adulazione di avvocati, commercialisti, ragionieri e dipendenti di azienda (la sua) che, insieme, costituiscono un minestrone tossico da far paura.
Da oltre dieci anni vengono iniettate sul tessuto sociale italiano piccole dosi di disprezzo contro gli stranieri, i poveri, i rom, i nullatenenti, i diversi, i "comunisti", i "coloro-che-non-sono-dei-nostri" al punto di ritrovarci un paese tossico.
E senza vergogna ci si domanda se per caso noi italiani non siamo diventati razzisti...! Da anni vanno predicando a squarciagola il nuovo vangelo della salvezza: "più mercato e meno stato".
Hanno separato il danaro dal lavoro, hanno finanziarizzato il capitale, hanno ammazzato lo stato ed ora, di fronte al disastro, senza pudore alcuno, questa facce di culo (sì, perché facce di culo sono) fanno appello allo stato perché corra ai ripari.
In questi ultimi giorni vanno facendo i salti mortali per divorziare dai loro dogmi. Non li vedete?
Il tuttologo e logorroico Tremonti è tutto e il contrario di tutto: per il mercato e contro il mercato, global e antiglobal, clericale e anticlericale. C’è solo da accertarsi se sia "bi" o "trans".
Noi, da parte nostra, non ci facciamo prendere per il naso.
Ladro è chi ruba ma anche chi tiene il sacco.
Assassino chi uccide ma anche chi fa da palo.
Noi, non volendo essere né l’uno né l’altro, non reggiamo il sacco né facciamo da palo.
Aldo [don Antonelli]
MA L’ "ORA DI COSTITUZIONE" NON C’E’ PIU’!!! *
Siamo di fronte ad un abbaglio mediatico o ad una manipolazione propagandistica di corto respiro.
Il testo presentato dalla ministra Gelmini in agosto recitava:
“Art. 1 - Cittadinanza e Costituzione
[...] le competenze relative alla convivenza civile e alla cittadinanza sono acquisite attraverso la disciplina denominata “Cittadinanza e Costituzione”, individuata nelle aree storico-geografica e storico-sociale e oggetto di specifica valutazione [...] alla disciplina “Cittadinanza e Costituzione” è attribuito un monte ore annuale di trentatré ore [...]”
Il testo pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 1° settembre 2008 (DL 137) recita:
“Art. 1 - Cittadinanza e Costituzione
A decorrere dall’inizio dell’anno scolastico 2008/2009, oltre ad una sperimentazione nazionale, ai sensi dell’articolo 11 del decreto del Presidente della Repubblica 8 marzo 1999, n. 275, sono attivate azioni di sensibilizzazione e di formazione del personale finalizzate all’acquisizione nel primo e nel secondo ciclo di istruzione delle conoscenze e delle competenze relative a «Cittadinanza e Costituzione», nell’ambito delle aree storico-geografica e storico-sociale e del monte ore complessivo previsto per le stesse [...]”
Nella prima versione lo studio della Costituzione diventava, finalmente, una “disciplina” autonoma, con un proprio monte ore e valutazione specifica.
Nella seconda e definitiva versione, quella che ci era sembrata un’importante e significativa novità degli ordinamenti didattici addirittura scompare, per lasciar posto ad una sorta di esortazione, giuridicamente inefficace, a sperimentare nuove forme d’insegnamento della Costituzione. Rispetto ad un obiettivo così modesto sarebbe stata sufficiente una semplice direttiva del Ministero!
Chi e perché ha cambiato, svuotandolo, il testo presentato in Agosto?
Chiediamo a tutte le forze politiche di ripresentare in Parlamento la proposta di insegnamento di “Cittadinanza e Costituzione”, così come formulata nel testo inizialmente presentato dalla ministra Gelmini, consapevoli che essa sarà condivisa dalla stragrande maggioranza degli Italiani.
Proponiamo, inoltre, interpretando quanto espresso dall’esortazione contenuta nel DL 137, di individuare nella giornata del 17 marzo, data di proclamazione dell’Unità d’Italia, l’occasione annuale di un impegno didattico di tutte le scuole sui temi dell’Unità d’Italia, della Costituzione repubblicana e della Bandiera nazionale.
* Esecutivo Nazionale di Proteo Fare Sapere
Roma, 1° ottobre 2008
«il leader del partito democratico sono io, scelto da 3,5 milioni di persone»
Veltroni: «Berlusconi presidente
della Repubblica? Non va bene»
Il segretario del Pd: «Quella carica deve essere ricoperta da persone che hanno fatto il bene del Paese» *
ROMA - «Oggi al Quirinale c’è Giorgio Napolitano, in precedenza ci sono stati Carlo Azeglio Ciampi, Oscar Luigi Scalfaro, persone che hanno fatto il bene del Paese. È un luogo dove devono esserci figure che garantiscano la Costituzione, conoscano le regole del gioco, rispettino le opinioni di tutti, accettino il dissenso. Tutto ciò che Berlusconi non è». Il segretario del Pd, Walter Veltroni, in un’intervista sull’Espresso, si dice contrario all’eventuale elezione del premier come presidente della Repubblica. «Ho visto che oggi - afferma il leader Pd - Bossi ha detto che per lui Berlusconi al Quirinale andrebbe bene. Per me no: non va bene. Per fortuna il problema non si pone: fino al 2013 al Quirinale ci sarà Napolitano, una garanzia per tutti».
PRESIDENZIALISMO - Quanto ad una riforma in senso presidenzialista, Veltroni sostiene che «in astratto il presidenzialismo non mi inquieta», ma «se la domanda è se in questo momento in Italia è giusto passare a un sistema presidenziale, rispondo ancora no. Le istituzioni sono figlie della cultura del tempo e in Italia, in questo momento, è necessario rafforzare le istituzioni di controllo».
LEADERSHIP - Veltroni parla anche del Pd e della sua leadership. «Tre milioni e mezzo di persone mi hanno scelto perché sono un dirigente che pensa che la vita sia più ricca della politica, un antidoto al male che vedo in tanta parte della politica italiana: un morboso attaccamento alla dimensione del potere. Non me ne importa assolutamente nulla di quelli che fanno i conti sulle percentuali, sui risultati di questa o di quella elezione». Veltroni confessa che c’è un’unica condizione che gli renderebbe insopportabile continuare ad essere segretario: «Se non potessi continuare a fare il Pd per cui sono stato eletto da tre milioni e mezzo di persone. Ma il problema non si pone».
* Corriere della SEra, 02 ottobre 2008
Sarebbe facilmente eletto in questa legislatura, ma l’erede di Napolitano sarà scelto dal prossimo Parlamento
Bossi pronto a votare il premier: sarà lui il prossimo presidente. Anche Gianni Letta tra i papabili
Ma il Cavaliere studia la scalata al Quirinale
"Con la mia storia perché non pensarci?"
di GOFFREDO DE MARCHIS *
ROMA - Un giornalista sportivo lo inquadrò alla prima rivoluzionaria conferenza stampa da neopresidente del Milan, nel lontano marzo ’86: "Questo qui un giorno leggerà il messaggio di fine anno". Quel commento di 22 anni fa oggi è qualcosa più di una profetica battuta perché Silvio Berlusconi è sceso in campo nel ’94, è a Palazzo Chigi per la terza volta, è un leader per il momento senza rivali "nella politica, nei poteri forti e tra la gente", dice sconsolato il centrista Bruno Tabacci.
Malgrado Giorgio Napolitano occupi egregiamente e saldamente la poltrona di presidente della Repubblica con un mandato che scade nel 2013, il sogno quirinalizio del Cavaliere viene evocato sempre più spesso. Berlusconi ha due strade per cullarlo: il voto parlamentare con le regole attuali o l’elezione diretta del capo dello Stato decisa da una riforma che instauri una repubblica presidenziale. "Uno con la mia storia perché non dovrebbe pensarci", si è lasciato sfuggire il premier tradendo la sua cautela sull’argomento.
La Grande riforma è stata "disegnata" due settimane fa, a grandi linee, dal potente coordinatore di Forza Italia Denis Verdini: "Il centrodestra è maggioranza nel Paese da anni. Avrà il diritto di eleggere un capo dello Stato? Se non ci siamo ancora riusciti è perché va corretto l’attuale sistema di elezione". È l’annuncio di un progetto di repubblica presidenziale? Il senatore del Pdl Gaetano Quagliariello coordina il gruppo di lavoro sulle riforme lavorando soprattutto sul premierato.
Ma ai vertici del Pdl ha svelato anche un’altra carta: "È vero però che i sistemi presidenziali, in un momento di crisi della politica, ti offrono una riserva più ampia di legittimità". Quagliariello la chiama "una riflessione di fondo". Poi il Cavaliere sale su un predellino e trasforma la riflessione di fondo in un fatto compiuto...
Bossi ha parlato di Berlusconi al Quirinale domenica: "Sarà lui il prossimo presidente, noi lo voteremo". Con la consueta franchezza, il leader del Carroccio ha svelato un segreto di Pulcinella: il vero traguardo del premier. Che sarebbe realtà certa se si votasse per il Colle in questa legislatura e con questo Parlamento: Berlusconi andrebbe in carrozza al Quirinale. Ma il calendario è diverso: con le scadenze naturali e la Costituzione vigente saranno le prossime Camere a eleggere il presidente, il mandato di Napolitano finisce infatti tra cinque anni, dopo le elezioni politiche.
Toccherebbe perciò affrontare dei passaggi preliminari, una nuova campagna elettorale (a 77 anni) e il voto del popolo. Una strada più impervia che autorizza l’ipotesi di altre soluzioni, a cominciare dalla possibile revisione della Carta.
Il diretto interessato si è sempre tenuto alla larga da questi discorsi, a parte un "non escludo una candidatura al Colle" nel 2005 con la precisazione che anche "il dottor Letta" poteva essere un ottimo nome. Letta è il braccio destro del Cavaliere, ma può diventare un concorrente nella lunga marcia al Colle. Walter Veltroni sembra saperlo molto bene.
Il segretario del Pd ha stuzzicato il Cavaliere dopo la chiusura positiva del caso Alitalia esaltando il ruolo del sottosegretario alla presidenza, "il suo senso di responsabilità. Io e Gianni Letta abbiamo la stessa cultura". Come dire: lui sì che è un uomo delle istituzioni. Berlusconi si è vendicato pochi giorni dopo mettendo uno contro l’altro Veltroni e D’Alema. E attribuendo all’ex ministro degli Esteri il merito di aver fermato il leader del Pd che "giocava per la rottura".
Schermaglie contingenti, ma a gioco lungo si possono leggere anche in chiave-Quirinale. Segnalano che per il dialogo tra maggioranza e opposizione e alla lunga per il Colle Letta è una figura decisiva.
Nell’ottica di un salto di qualità si muove anche Giulio Tremonti. La poltrona di ministro dell’Economia è un trampolino per la presidenza della Repubblica (vedi Carlo Azeglio Ciampi). Tremonti coltiva rapporti bipartisan attraverso l’Aspen Institute (è di due giorni fa un dibattito sulla religione con D’Alema e il segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone).
L’alternativa è la leadership del Pdl per la quale la sfida è con Gianfranco Fini. Il Pd osserva le mosse, ma si schiera. D’Alema ha "autorizzato" l’ascesa di Berlusconi al Colle con un sistema presidenziale: "In quel caso ci sarebbero pesi e contrappesi". Meglio del presidenzialismo strisciante di oggi, ma l’ex ministro ha chiarito: "Io non sono presidenzialista. Penso a una legge elettorale tedesca e al rafforzamento delle Camere".
Veltroni dice un no netto a Berlusconi e all’elezione diretta. Però Tabacci punta il dito: "Il centrosinistra ha contribuito a creare questo clima presidenzialista. Hanno proposto la repubblica presidenziale, ci hanno ripensato, poi l’hanno proposta di nuovo. Ed era Veltroni a cavalcare il sindaco d’Italia. Ma il sindaco d’Italia ora lo fa Berlusconi". Se il Cavaliere può coltivare il sogno presidenziale quindi, la colpa è anche un po’ del Pd.
* la Repubblica, 3 ottobre 2008
Barbari in casa
di W. Goldkorn e G. Riva
Matvejevic se ne va dall’Italia: “Se devo combattere contro il nazifascismo lo faccio dove sono nato”. *
Il razzismo che riemerge. La rivalutazione di Salò. La caccia al rom. Il consenso totale al Capo. Siamo al nuovo fascismo? No, rispondono storici e intellettuali. Ma la democrazia è in pericolo
Esagerato? Forse. Ma c’è un intellettuale che, viste le camicie nere e i saluti romani in Campidoglio, sommati i discorsi del nuovo sindaco Gianni Alemanno e quelli di Ignazio La Russa, ha deciso che l’Italia non fa più per lui.
Predrag Matvejevic, l’autore del fortunato Breviario mediterraneo, a Roma ci ha vissuto, e bene, dal 1994 all’altro ieri e ha insegnato letterature slave alla Sapienza. Adesso risponde da Zagabria col tono tra il battagliero e la delusa nostalgia: “Ho fatto le valigie. Se devo lottare contro il neofascismo lo faccio dove sono nato”.
L’Italia è stata (con la Francia) la sua isola felice in una vita apolide. Figlio di un russo menscevico di Odessa, nato a Mostar nel 1932, vissuto ragazzo sotto l’occupazione italiana, fuggito dai Balcani quando, dopo i comportamenti “fascistoidi” di Tudjman e Milosevic, si è ritrovato con la cassetta della posta crivellata di proiettili, ora ha deciso per un nuovo trasloco. Ha conosciuto tutti i totalitarismi del Novecento e confessa di “avere paura” per noi. Spende, per definirci, il termine già usato per certi regimi dell’Est, di “democratura”, crasi tra democrazia e dittatura. Non pensa al manganello e all’olio di ricino, però è preoccupato che “tanti discorsi parafascisti che ho sentito anche tra la gente”, coniugati con la crisi finanziaria internazionale, inducano gli italiani ad affidarsi a una “mano forte”.
Certo: per Matvejevic scatta il riflesso condizionato della sua storia personale. Però, se si mettono in fila una serie di fatti, certi interrogativi su una deriva autoritaria diventano almeno legittimi. I roghi nei campi rom, sindaci che seppelliscono il politicamente corretto per annunciare che “i negri puzzano anche quando si lavano”, Borghezio che va al raduno neonazista di Colonia, l’invocazione securitaria, la rilettura benevola del fascismo e persino della sua degenerazione lacustre (Salò) a opera di ministri e capipopolo.
La ridicola disputa sul male assoluto tra politici e storici dilettanti tracima sui media come fosse una discussione tra Karl Jaspers e Hannah Arendt. Come si definisce tutto questo? E se ’neofascismo’ è troppo, quale termine pescare dal vocabolario? Serve un nuovo conio? L’Italia è il laboratorio di un ’nuovo’ indefinibile al momento? Potrebbe venire in soccorso la parola ’barbarie’. Rotte le convenzioni, anche quelle ipocrite, il profluvio verbale non conosce limiti. Ma le parole definiscono il mondo, anche quando vengono ritirate il giorno dopo. Resta il fatto che non c’è nessun paese occidentale nel quale un premier può andare in tv senza contraddittorio con miss e medagliata di turno. E in nessun paese le veline della censura d’antan diventano culto mediatico.
La sbornia di consenso attorno al governo e al presidente Silvio Berlusconi possono essere la concausa della rottura di freni inibitori. Permette al trucido sepolto di venire a galla grazie all’investitura popolare. Sorride un po’ delle nostre paure uno che ci conosce bene come il professore francese Marc Lazar, storico della politica italiana e a Roma stabile, per lavoro, da più di un anno: “La voglia dell’opinione pubblica di avere qualcuno che decide non significa che ci sia il fascismo”, dice. Semmai è successo qualcosa di diverso: “Da una quindicina di anni la destra è riuscita a vincere culturalmente dopo un lungo periodo caratterizzato dalla dominazione culturale della sinistra”.
Le grandi dottrine politiche sono finite. L’appiglio per definirsi diventano i valori “e la destra ha saputo imporne alcuni che le sono propri, in sintonia con la società”. Ha usato, per ripetere una convinzione diffusa, le televisioni per far giungere il proprio messaggio? “A livello di massa senza dubbio. Ma non si è fermata lì. Funzionano think tank e fondazioni bene organizzate”. Gli italiani, conclude Lazar, non hanno voglia di fascismo, “però la paura è cattiva consigliera. Recentemente ero a Firenze e mi sono reso conto che, nel centro, ci sono videocamere dappertutto È come se ti dicessero: siete sorvegliati per la vostra sicurezza. Avete questa ossessione e un governo che cavalca il consenso potrebbe essere tentato di prendere misure che restringono diritti umani e libertà”.
Anche per Mario Isnenghi, cattedra di storia contemporanea a Venezia, ’fascismo’ è termine da maneggiare con cura. Non si stupisce, tuttavia, che riaffiori nel dibattito, “è un logico paradigma storico”, ma propone piuttosto “democrazia autoritaria”. Pensa a Berlusconi più che ai postfascisti o ai leghisti: “Per Fausto Coppi si usava l’espressione ’un uomo solo al comando’. Non è fuori luogo riproporla per il premier”. Coglie alcune analogie tra il Mussolini comunicatore di massa e l’imprenditore moderno della comunicazione e del virtuale e si premura di aggiungere: “Non c’è nulla di pregiudiziale in questo riscontro”.
Semmai l’equivoco deriva dal fatto che ’fascismo’ riporta al passato, mentre qui siamo nella modernità e oltre. Berlusconi e non solo. Lui sarebbe il demiurgo di atteggiamenti mentali che, ’per li rami’, scendono nei quadri intermedi. Dove ognuno porta un suo specifico. I leghisti la frammentazione antistatuale, i postfascisti una strisciante rivalutazione del ventennio. Isnenghi considera segno dei tempi che, in occasione del bicentenario di Garibaldi, si sia dato spazio persino a qualche nostalgico dei Borboni e del Papa Re: “Con questa finzione pluralista si rimescola la storia e si sottintende che non c’è nulla di vero e provato, ma tutto è negoziabile”.
Tutto diventa lecito. Commemorare per Porta Pia i caduti papalini, ad esempio: è appena successo. O rileggere con la lente dei vincitori di oggi anche le pagine di storia assodate. Con quale scopo? O meglio,ricordare quelli del battaglione Nembo assieme ai partigiani a cosa serve? Giovanni De Luna, storico dell’Università di Torino, prova a mettere ordine. “Sgombriamo il campo da alcuni equivoci”, dice, “e cominciamo col distinguere tra storia e memoria”. La confusione tra i due generi aiuta e nutre coloro che la nostra storia la vogliono manipolare per ridefinire i valori della Repubblica. “La memoria è individuale: quindi carica di emozioni e di rancore”. E la storia invece? “È pacata, perché frutto di ricerche, perché fatta da chi se ne intende”.
E qui De Luna fa una precisazione e un’autocritica: “La Russa può rivendicare il patriottismo dei soldati del Nembo perché viviamo in un abisso di ignoranza della storia. Perché nessuno sa che quei soldati erano inquadrati organicamente nella Wehrmacht, non difendevano la patria (neanche quella fascista), ma il Terzo Reich. La colpa di questo stato di cose è di noi che insegniamo la storia, sia nelle scuole, che come me, nelle università”. La scuola è ferma ai vecchi manuali che gli studenti non vogliono leggere, incapace di usare mezzi audiovisivi, raccontare ciò che si vede nelle foto e nei filmati”, mentre quella che viene raccontata nelle trasmissioni tv “è una storia usa e getta, che rifiuta la complessità: appiattita al presente consumista”.
La parola storia evoca polverosi archivi, biblioteche e dispute tra iniziati. Ma proprio ciò che sta succedendo dovrebbe ribaltare questo cliché. Perché da una storia rivista e corretta si cerca una legittimità per le scelte politiche che si andranno a compiere. “La destra”, è la tesi di De Luna, “si approfitta dell’ignoranza e della confusione per ridefinire lo spazio pubblico della memoria”. A questo scopo serve riaprire (o mai chiudere) le controversie. Anche in Francia c’è la memoria di chi stava dalla parte di Dreyfus e chi era antisemita, tra chi stava con Vichy e chi con la resistenza, male questioni sono chiuse. “Da noi questioni analoghe sono aperte perché la destra non ha il coraggio di dire direttamente di voler cambiare le fondamenta del nostro vivere civile”, fondamenta antifasciste, o se vogliamo, i valori della Costituzione. La manipolazione del passato è una scappatoia a chi manca il coraggio di dire apertamente come si immagina un futuro, basato su valori diversi da quelli della Repubblica. “Per loro (a eccezione di Fini) l’antifascismo non è un valore. Ma non osano dirlo esplicitamente”. Quando lo fanno, invocano le attenuanti di non essere stati bene intesi (le solite colpe dei giornalisti) e le ritrattano parzialmente. Intanto il dado è tratto.
Non succede altrove. Non succede in Germania. A Berlino a due passi dal Bundestag (l’ex Reichstag) c’è un gigantesco monumento alle vittime della Shoah: un popolo ha posto al centro della sua capitale il segno della propria vergogna, per posare una pietra sul passato, per non riaprirlo mai più. Del resto ’mai più Auschwitz, mai più il fascismo’ uniti alla consapevolezza della colpa, sono le basi dell’identità della Repubblica federale.
E da noi, quali sono le basi della legittimità della nostra Repubblica? E la destra le sta cambiando? La destra in realtà si può permettere il revisionismo perché l’Italia, come ha sostenuto tra gli altri Emilio Gentile, non ha mai voluto affrontare la sua realtà totalitaria. L’ha semplicemente rimossa. E allora, indigerita, può tornare a galla. Anche per colpe dell’altra parte politica. Le individua Massimo Cacciari, filosofo e sindaco di Venezia: “La Costituzione è stata interpretata dalle sinistre in un modo miope, non presbite. Continuano a ripetere: resistere, resistere, resistere. Anziché: sviluppare, sviluppare, sviluppare [sic - n.d.r.]. Machiavelli scriveva che un modo sicuro per portare allarovina la città è fermare le sue leggi. Noi abbiamo bisogno urgente di aggiornare la nostra carta dei valori. Dobbiamo arrivare a un ripensamento radicale”. La Costituzione si basa sull’antifascismo, ma la legittimità del governare dipende da altro: “Dalle urne. Dunque il problema è politico. La destra italiana non è un’eccezione. Si muove nel solco di un trend europeo di revisionismo culturale mentre nell’ambito mondiale è parte della corrente neoconservatrice generale”.
La catastrofe semmai la rischiamo, secondo il sindaco, perché “c’è un intero ceto medio, base di ogni democrazia, che ha paura di essere travolto dalla crisi. In una situazione così si va alla caccia del nemico, alla ricerca del capro espiatorio”. Viviamo in tempi in cui la democrazia “sta diventando mera procedura e allora si apre tutto lo spazio per il populismo”. Berlusconi, andando in tv, entra nei salotti di chi lo guarda e “dà l’impressione di farti partecipare alle sue decisioni. Ma è demagogia. Per combatterla dobbiamo trovare un modo perché ci sia la responsabilità diffusa delle decisioni, la sovranità plurale (che risponde alla voglia di partecipazione cui i partiti sono incapaci di dare una risposta), il federalismo”. Il fascismo così come lo si intende, è morto. Ma la democrazia non sta molto bene. E la barbarie quotidiana avanza.
* Fonte: L’Espresso on-line, 30 settembre 2008.
C’era una volta il Parlamento
di Roberto Zaccaria *
Ormai il Governo si comporta come se il Parlamento dovesse semplicemente ratificare le proprie decisioni. Considerazioni analoghe sono state svolte nei giorni scorsi da Pietro Spataro su questo giornale ma data la gravità dei fatti è il caso di ritornare sull’argomento.
C’è soprattutto un’emergenza decreti che riguarda la quantità, il modo in cui sono “gestiti” in Parlamento ed il loro contenuto. Di tutti quelli emanati, ne sono stati convertiti dodici fino a questo momento. I cinque del Governo Prodi sono stati largamente stravolti con disposizioni “ad personam”, come l’emendamento “salva Rete Quattro” e i benefici alle concessionarie autostradali. Molti degli altri sono stati gestiti come “vuoti a perdere” per effettuare spregiudicati trapianti in Parlamento, aggirando le prerogative del Capo dello Stato e in disprezzo palese dei cittadini che li credevano tuttora in vigore. Uno dei dodici (il cosiddetto “decreto Tremonti”) è stato utilizzato come contenitore della manovra finanziaria, con un ulteriore schiaffo al Parlamento che ha ritrovato vizi antichi (voti di fiducia e maxiemendamenti) ma che non aveva mai visto la finanziaria approvata per decreto legge.
Ma la ripresa autunnale rischia di peggiorare il quadro complessivo perché oltre alla sessione di bilancio con il rituale, ormai svuotato della legge finanziaria e di quella di bilancio, annuncia già altri sette decreti legge: quattro già emanati (Alitalia, Scuola, Trasferimento magistrati, e Georgia) ed altri tre deliberati nella seduta del 23 settembre del Consiglio dei ministri: Sicurezza ed immigrazione (in relazione alla tragica vicenda di Castelvolturno), Missioni militari e Adempimenti comunitari. Un quadro che comprime in maniera assoluta le iniziative legislative ordinarie e soprattutto quelle dell’opposizione che i regolamenti garantirebbero.
Ma il provvedimento sul quale è necessario richiamare l’attenzione in questo panorama in cui il Governo appare come unico e incontrastato protagonista parlamentare, non è tanto il Lodo Alfano, passato in una decina di giorni nelle due Camere, con l’incredibile tolleranza dei loro Presidenti, ed ora giustamente approdato al giudizio della Corte costituzionale, ma un altro disegno di legge, sempre del Governo, che è attualmente all’esame dell’Aula.
Il titolo è accattivante. Parla di semplificazione, di competitività e di un sacco di altri argomenti, che interessano praticamente tutte le quattordici commissioni parlamentari. Oltre una settantina di articoli. Ma l’elemento più singolare è costituito dal fatto che all’interno vi sono una dozzina di disposizioni, estremamente complesse che incidono sulla struttura del codice di procedura civile e cambiano radicalmente il processo civile.
Sarebbe stato logico pensare che il provvedimento fosse “spacchettato”, diviso per materia tra le varie commissioni ed esaminato separatamente per l’Aula, come vuole l’art.72 della Costituzione.
Niente di tutto questo, dato che si tratta di un “collegato alla manovra finanziaria” e potendo il Governo chiederne l’esame a data certa, si decide, con l’avallo del Presidente, di andare comunque in Aula in un paio di settimane e si concentra quindi l’esame dell’intero provvedimento (salvo un piccolo stralcio) nelle due commissioni a competenza più ampia: Bilancio e Affari costituzionali.
Inizia così un grottesco procedimento parlamentare che porta due commissioni decisamente incompetenti su molti argomenti trattati, ma soprattutto in tema di giustizia ad esaminare a tappe forzate e in clima di estrema confusione tra emendamenti torrenziali e sub emendamenti la cosiddetta riforma del processo civile.
Il ministro Alfano, che naturalmente non si è fatto vedere in commissione durante l’intero dibattito parlamentare, dichiara pomposamente alle agenzie di stampa che il Parlamento voterà tra una decina di giorni un’ambiziosa riforma per semplificare il processo civile. L’imbarazzo del Governo è talmente evidente che i relatori di maggioranza hanno, con atteggiamento del tutto insolito, modificato addirittura il titolo del provvedimento, al fine di far quantomeno comparire la dicitura “processo civile”.
Non credo che il testo proposto semplificherà in maniera appropriata il processo civile (abbiamo presentato infatti numerosi emendamenti alternativi); sono, invece, certo che con questa procedura si è già determinata un’intollerabile semplificazione del processo parlamentare.
Quando il dibattito parlamentare è sottratto alle sedi competenti, quando si rinuncia, attraverso l’uso disordinato delle procedure, ad un’effettiva pubblicità dei lavori parlamentari ed a qualsiasi rapporto con l’opinione pubblica e quindi anche al dialogo con gli esperti esterni, il Parlamento diventa un inutile passaggio formale e quasi burocratico.
Semplificare il Parlamento, significa purtroppo semplificare la democrazia e questa non è mai stata una buona ricetta. Ci attendiamo che i Presidenti delle Camere esercitino orgogliosamente le loro prerogative. Gli strumenti regolamentari ci sono abbondantemente.
Una volta si cercava un modello di “Governo forte, in un Parlamento forte”. Non credo che interessi né a Fini né a Schifani essere Presidenti di un Parlamento inesistente.
Vice Presidente Commissione Affari Costituzionali Camera dei Deputati
* l’Unità, Pubblicato il: 01.10.08, Modificato il: 01.10.08 alle ore 11.10
editoriale
IL VENTENNIO DI BERLUSCONI
di Alberto Asor Rosa (il manifesto, 01.10.2008)
Nel corso dell’estate, sottovalutando il rischio che il solleone avesse ulteriormente infrollito il già scarso acume dei commentatori politici e giornalistici italiani, ho pubblicato sul questo giornale (6 agosto) un articolo («Più del fascismo»), in cui mi sforzavo di collocare Berlusconi e il berlusconismo nel solco della storia italiana contemporanea. Apriti cielo: quali analogie ci possono essere mai tra Berlusconi e Mussolini, tra berlusconismo e fascismo? Ovviamente nessuna: non sono mica scemo.
Io non ho inteso - e non ho scritto - che Berlusconi è come Mussolini né che il berlusconismo è come il fascismo: io ho inteso, e scritto che - nella specificità e peculiarità delle rispettive identità - sono peggio . Di questo inviterei a discutere, non delle fittizie (e talvolta tendenziose letture) che di quel testo sono state date. Per favorire tale (peraltro improbabile) obiettivo aggiungerei qualche argomento al già detto. Richiamo l’attenzione (se c’è ancora qualcuno disposto a prestarmene) sull’«incipit» di quell’articolo: «Il terzo governo Berlusconi rappresenta il punto più basso nella storia d’Italia dall’Unità in poi».
Di questa frase è soggetto implicito l’ Italia : certo, soggetto in sé astratto, difficile da definire, come tutti quelli che se ne sono occupati sanno, connotato tuttavia, nonostante tutto, da una storia e da alcuni dati identitari comuni di lunga durata; ancora più astratto, forse, ma ancor più ancorato a una storia e ad alcuni dati identitari comuni, se consideriamo l’Italia sotto specie di Nazione («dall’Unità in poi...», appunto), ossia di quel conglomerato di fattori politico-ideal-istituzionali, di cui ci apprestiamo a celebrare (2011) il 150˚ anniversario, proprio nel momento in cui - questo è ciò che sostengo - quel conglomerato sembra in fase di dissoluzione.
Ebbene, per valutare a che punto è arrivato tale processo, e anche per operarne alcuni confronti sul piano storico (storico, ripeto, non etico-politico), bisognerà individuare alcuni indicatori, che ci facciano capir meglio di cosa stiamo parlando. Parliamo una volta tanto, se siamo d’accordo su questo punto di partenza, dell’Italia, più esattamente dell’Italia come nazione (altri punti di vista ovviamente sono legittimi e possibili; quello di «classe» ovviamente non ci è estraneo, ma noi questa volta, per l’eccezionalità della situazione in cui ci troviamo, riteniamo preferibile questo).
Poiché si parla dell’Italia, e dell’Italia come nazione, pare a me che gli indicatori fondamentali non possano che essere questi tre: l’ unità (e il senso dell’unità), il rapporto del cittadino con l e istituzioni (e cioè, anche, il senso della distinzione tra pubblico e privato) e il rapporto del presente con la tradizione italiana (e cioè il senso dell’identità e dell’appartenenza nazionali). Da tutti e tre questi punti di vista il berlusconismo è peggio del fascismo, o per lo meno si sforza tenacemente di esserlo. Dal punto di vista dell’ unità la fondatezza di tale affermazione è lampante.
Nel governo Berlusconi siede come ministro delle riforme (!) un signore il quale si batte fieramente (ed esplicitamente) per la disarticolazione e frammentazione dell’unità politicoeconomico-istituzionale e identitaria del paese. Si tratta di un processo, evidentemente: ma che diffonde una cultura politica e un senso comune avversi a tutte le definizioni topiche dell’essere «italiano» . Il berlusconismo ingloba questa fenomenologia e la fa propria; se non altro perché al presidente del consiglio unità o non unità nazionali sono del tutto indifferenti, purché la macchina del potere resti tutta in ogni caso nelle sue mani.
Secondo indicatore: il rapporto del cittadino con le istituzioni non è mai - ripeto, mai - stato così mortificato dal punto di vista della prevalenza degli interessi privati su quelli pubblici. Ovviamente una dittatura tutela comunque i suoi esponenti dalle eventuali contestazioni pubbliche. Ma nessuna dittatura europea del Novecento (e dunque neanche il fascismo) ha fatto dell’interesse privato del leader (e dei suoi accoliti) il fulcro intorno a cui far ruotare l’elaborazione e la promulgazione delle leggi e persino l’esercizio della giustizia. Lo «Stato etico» rappresenta senza ombra di dubbio una torsione intollerabile nella lunga e tormentata storia dello «Stato di diritto» moderno.
Ma il livello di corruzione (inteso il termine anche questa volta in senso puramente fatturale: come un aspetto, una forma, una modalità della macchina del potere) raggiunto dal berlusconismo non trova eguali nell’esercizio fascista delle istituzioni e del potere, almeno formalmente rimasto al rispetto o addirittura all’esaltazione della legge, per quanto dispotica (naturalmente sarebbe troppo ingeneroso arrivare a contrapporre ad Alfano e Ghedini le figure di Rocco e Gentile...).
Nel terzo indicatore precipitano e si moltiplicano tutte le nefaste conseguenze degli altri due. Il fascismo ebbe con la tradizione italiana un rapporto distorto ma vistoso: volle ristabilire a modo suo (un modo esecrabile, non ci sarebbe bisogno di dirlo da parte mia) la continuità con il Risorgimento, vanificata e interrotta secondo lui dalla tarda, sconnessa e impotente esperienza liberale. Il berlusconismo non ha nessun rapporto, né buono né cattivo, con la tradizione italiana: il suo eroe eponimo è un homo novus che spinge ai limiti estremi la sua totale mancanza di radici, in sostanza niente di più di un abile affarista, che usa il pubblico per incrementare e proteggere il suo privato e il privato per possedere senza limitazioni il pubblico.
Tutto ciò che ha a che fare con etica e politica dello Stato di diritto moderno gli è estraneo. Ha tratto anche lui la sua forza dall’impotente declino e dalla irreversibile crisi di questo regime liberal-democratico: nasce cioè e vive da una corruzione, non da una reazione, come invece presunse di fare il fascismo (da intendersi anche in questo caso ambedue i termini in senso politico-istituzionale, non etico-politico). Ora, nella storia italiana post-unitaria, di cui si diceva, è innegabile che a fondare il nocciolo più duraturo della nazione siano stati il Risorgimento prima e la Resistenza poi: da considerare quest’ultima - come fu da molti protagonisti di diverse parti politiche e ideali considerata - una realizzazione più avanzata ma consequenziale del primo.
Ma se al Cavaliere nulla importa dei valori di democrazia e del rispetto delle regole (Carta Costituzionale, separazione dei poteri, rapporto elettori-istituzioni, ecc.), cosa dovrebbe importargli non dico della Resistenza, ma dello stesso Risorgimento, che bene o male ha fondato unità e identità italiane nazionali e dato inizio al processo di costruzione di una società (sia pure limitatamente) democratica nel rispetto delle regole? La «rottura storica», alla quale egli, senza sforzo e senza neanche pensarci, si sottrae, non è quella del 1945, è quella del 1861-1870: Cavour è più lontano da lui di Palrmiro Togliatti.
Rispondiamo ora, per andare verso la conclusione, all’ultima, più insidiosa e forse più legittima obiezione al nostro ragionamento precedente: si può comparare una democrazia (quale che sia) a una dittatura, arrivando alla conclusione che la democrazia è peggiore della dittatura? Mah, non lo so. Non vedo però che cosa ci sia di male a tentare un confronto, se non altro per capire meglio cosa ci sta accadendo oggi (non è così che si formano i parametri di giudizio storici?). Il fascismo è stato «il male assoluto»? Proviamo a pensare cosa sia per essere e per produrre il «male relativo» nel quale noi attualmente viviamo: «male relativo», ma endemico, profondo, penetrato in tutte le fibre.
Quel che mi sembra di vedere dal mio angolo visuale è la crescita di una sorta di dittatura (De Mauro: «governo autoritario, in cui il potere è concentrato nelle mani di uno solo»), ma di tipo nuovo, democratico-populista, fondata non sulla violenza e sulla coercizione esplicite ma sul consenso (come faceva, a modo suo, anche il fascismo...) ed esercitata con un astuto, davvero inedito in Europa mix di suggestioni mediatiche, stravolgimenti istituzionali e intermediazioni affaristiche. Il «modello» - che, come tutti i modelli forti, è politico, culturale e persino antropologico - sta penetrando in profondità e sta facendo fuori la continuità storica su cui si sono fondati finora l’identità e i valori «italiani» al cospetto del mondo.
Alla fine del processo non ci sarà una nazione (pur nei limiti ben noti in cui tale processo si è sviluppato nei centocinquant’anni che ci stanno alle spalle) ma solo un mero aggregato di stati-vassalli (di varia natura: economici, corporativi, regionali, ecc.), che troveranno la loro unità unicamente nel fare riferimento al solo Capo.
Per questo, - non per motivi più tecnici e circoscritti, come qualcuno cede alla tentazione di argomentare, lasciandosi cullare dal sogno delle «riforme condivise» - vanno fatte fuori le articolazioni finora più autonome e indipendenti dello stato, in primissimo luogo la magistratura e la scuola: esse, infatti, in questo momento, per il solo fatto di conservare la loro indipendenza, costituiscono l’ostacolo maggiore alla compiuta realizzazione di tale disegno (naturalmente, mi rendo conto che, se le cose stanno come dico, la parte più interessante del discorso consisterebbe nel chiedersi come mai tale disegno distruttivo proceda attraverso il consenso: ma cosa sia diventato il popolo italiano in questi ultimi vent’anni, a cosa aspiri, in cosa creda, merita un discorso a parte, che prende ancora più di petto la politica, e che forse un giorno faremo).
La conclusione, cui pervenivo nel mio precedente articolo, va oggi ribadita: per quanto non esista in Italia forza politica, uomo politico, in grado attualmente d’intenderla e di praticarla. Per combattere un simile flagello ci vorrebbe un partito, un movimento, un’opzione al tempo stesso politica e culturale, capaci di coniugare la difesa della patria-nazione con quella degli strati più nuovi, più reattivi e più a rischio della società italiana contemporanea (molto a rischio: alla catastrofe nazionale s’accompagnerà, non c’è ombra di dubbio, la catastrofe economico-sociale). Ma dov’è? E, visto che non c’è, quanto ci metterà per nascere, o rinascere?
P.S. Il modo migliore di manifestare solidarietà a un giornale è di scriverci sopra. Aggiungerò che i rischi che corre attualmente una testata come il manifesto rappresentano la manifestazione esemplare di quanto avviene in Italia e che ho cercato di descrivere nelle righe precedenti. Il lettore tiri le somme e saprà cosa fare.
Ansa» 2008-10-22 13:48
SCUOLA, BERLUSCONI: NON PERMETTEREMO OCCUPAZIONI
ROMA - Non permetteremo che vengano occupate scuole università. Lo ha detto il premier, Silvio Berlusconi, durante la conferenza stampa a Palazzo Chigi con il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini. "E’ una violenza, convocherò oggi pomeriggio Maroni per dargli indicazioni su come devono intervenire le forze dell’ordine".
"L’ordine deve essere garantito. Lo Stato deve fare il suo ruolo garantendo il diritto degli studenti che vogliono studiare di entrare nelle classi e nelle aule". Afferma Berlusconi sottolineando cosa intende quando annuncia che le forze dell’ordine impediranno le occupazioni.
"Sulla scuola troppe cose divorziano con la realtà". Sostiene il premier: "La sinistra è contro il decreto Gelmini, che, ricordo, è un decreto e non la riforma della scuola. Tenta di costruire un’opposizione di piazza su un terreno circoscritto, perché come governo siamo inattaccabili su tutta una serie di provvedimenti".
"Al ministro Gelmini dico: andiamo avanti. Dobbiamo applicare questo decreto e non ritirarlo. La sinistra dice solo menzogne e falsità a proposito del tempo pieno, dei tagli e dei licenziamenti. Non è vero". "La sinistra parla di 86mila insegnanti in meno. E’ falso. Con la riforma nessuno sarà cacciato. Ci sarà solo il pensionamento di chi ha già raggiunto l’età e il blocco del turn over", ha concluso Berlusconi.
GELMINI, INVITO AD ABBASSARE I TONI DELLA PROTESTA - "Invito ad abbassare i toni della protesta". E’ l’esortazione lanciata dal ministro dell’ Istruzione, Mariastella Gelmini, durante la conferenza stampa a Palazzo Chigi. "Il Governo - ha detto - da sempre è aperto al confronto. Sulla natura della protesta è chiaro che la sinistra ha scelto la scuola e l’università come terreno di scontro".
VELTRONI, GOVERNO RITIRI DECRETO - Alle proteste così ampie e diffuse contro la riforma della scuola, il governo dovrebbe "ritirare il decreto Gelmini e le misure con i tagli alla scuola e all’università", dandosi comunque degli "obiettivi di finanza pubblica" che affrontino il problema della diminuzione della spesa. Lo ha detto il segretario del Pd, Walter Veltroni, intervenendo a Radio anch’io.
DI PIETRO, PREMIER FOMENTA NUOVA STRATEGIA TENSIONE - "Per come sta affrontando il capitolo della scuola, dalla riforma Gelmini alle violenze contro gli studenti, Berlusconi sta riportando la situazione a come era negli anni ’70’’. Il leader dell’Idv Antonio Di Pietro commenta così la decisione del presidente del Consiglio di convocare il ministro dell’Interno a Palazzo Chigi "per dargli indicazioni su come devono intervenire le forze dell’ordine" nelle scuole e nelle università per fermare la protesta. "Berlusconi - aggiunge - in questo modo sta creando le premesse come mandante politico (e di questo dovrà assumersene la responsabilità), per creare in Italia una nuova strategia della tensione".
EPIFANI, GOVERNO FA ERRORE, NON MINACCI STUDENTI - "E’ profondamente sbagliato rispondere alle ragioni del movimento degli studenti con una modalità che non sia quella del dialogo". Lo dice il leader della Cgil Guglielmo Epifani, dopo la cerimonia funebre per Vittorio Foa, commentando l’annuncio di Berlusconi di non voler permettere le occupazioni. "Il governo - sottolinea Epifani - non può ricorrere alle minacce. Questo è un movimento che ha caratteristiche del tutto nuove, che non ha senso paragonare al ’68 ne’, tanto meno, al ’77. E’ un movimento pacifico, gli studenti chiedono di investire nella scuola, è gente che chiede di studiare di più e meglio. Il governo - sottolinea Epifani - deve saper dialogare. Bisogna aprire canali di dialogo con gli studenti e anche con il sindacato confederale".
LA RUSSA, MAESTRO UNICO? SBAGLIATO DOPO LA TERZA - "Penso che dalla terza elementare o dopo la terza sia sbagliato un solo maestro, ma va invece bene per i primi due-tre anni di vita scolastica", quando il bambino ha bisogno, a scuola, di un punto di riferimento principale. E’ l’opinione di Ignazio La Russa, ministro della Difesa e padre di un bambino di 6 anni. "Io personalmente sono d’accordo con il maestro unico, l’ho detto quando abbiamo votato in Consiglio dei ministri", dice il ministro ai giornalisti, a margine della sua visita ufficiale negli Usa, conclusasi oggi. "Nei primi 2-3 anni di vita scolastica - dice La Russa - oltre agli altri insegnanti che comunque ci sono (ginnastica, lingue), credo sia importantissimo" avere un punto di riferimento principale. "Mio figlio ha 6 anni e vi assicuro che è molto importante per un bambino di quell’età il rapporto che lo lega principalmente a una persona".
SACCONI, GIOVANI PRESUNTUOSI, MONDO AUTOREFERENZIALE - Le proteste di questi giorni contro il decreto Gelmini sono guidate da "giovani presuntuosi e politicizzati", frutto di una scuola e di una università "autoreferenziali" nate negli anni Settanta. Lo ha affermato il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, nel corso di VivaVoce su Radio24. Secondo Sacconi le proteste sono dettate dal "pregiudizio: si tratta di minoranze politicizzate, con giovani presuntuosi che talora guidano queste manifestazioni. Presuntuosi perché presumono di avere capito tutto. Sono politicizzati: peccato però che non facciano il loro interesse e quello della loro generazione, che dovrebbe essere quello di contestare una scuola e un’università molto autoreferenziali, rese così dai loro padri" negli anni Settanta, che vi hanno introdotto "una sorta di nichilismo nella nostra società". Secondo il ministro, inoltre, "non è un caso che le maggiori criticità si trovino nel sistema educativo dove c’é una generazione di docenti cinica e autoreferenziale". Bisognerebbe invece preoccuparsi del fatto, conclude, che "in Italia ci si laurea mediamente a 28 anni, ma non in ingegneria, in scienze della comunicazione".