Di Ernesto Galli Della Loggia (Corriere della Sera 6/5/06)
Massimo D’Alema sembra avviato ormai ad essere il candidato unico del centro-sinistra per l’elezione alla Presidenza della Repubblica, e dunque egli è ormai verosimilmente ad un passo dalla carica più prestigiosa (e forse più dotata di poteri effettivi) del nostro ordinamento istituzionale. Avuto riguardo alle qualità della persona e al significato per così dire storico che la sua elezione non potrebbe non rivestire, si tratta sicuramente di un’ottima scelta. Con D’Alema salirà al Quirinale, infatti, un uomo di temperamento, autorevole e di grande esperienza, conoscitore come pochi del mondo politico e non solo; inoltre la sua elezione segnerà anche la opportuna, definitiva cancellazione dell’antica conventio ad excludendum nei confronti del Partito comunista, che per circa mezzo secolo ha rappresentato la maggiore, ancorché giustificata, anomalia del sistema politico italiano. Ancor più dispiace, dunque, che il giudizio senz’altro positivo sul candidato non possa, però, estendersi facilmente al metodo che sta portando alla sua elezione. Per come è stata costruita e per come si presenta, infatti, la candidatura di D’Alema alla presidenza della Repubblica è una candidatura assolutamente di schieramento, nata all’interno esclusivamente del gruppo dirigente del centro-sinistra, e portata avanti facendo affidamento soltanto sulla maggioranza dell’Unione. Non per nulla l’ex ministro diessino Vincenzo Visco, autonominatosi da qualche giorno capo del comitato elettorale dalemiano, si è detto sicuro di una confluenza di voti della destra sul suo candidato, ma tanto per farsi capire ha subito aggiunto: «Comunque avrà una sua autosufficienza e non cambierà nulla. Andremo avanti comunque». A ulteriore chiarimento dello spirito simpaticamente unitario con cui i sostenitori di D’Alema concepiscono il prossimo appuntamento di Montecitorio sempre lo stesso Visco ha minacciato che qualunque eventuale ostacolo frapposto all’ascesa del Presidente dei Ds «non sarebbe una cosa indolore». Come passare sotto silenzio, poi, l’argomento che si è sentito spessissimo usare in questi giorni, a giustificazione della «non trattabilità» della candidatura D’Alema, e cioè che essa non poteva che essere accettata a scatola chiusa dal momento che «ai Ds bisognava dare pure qualcosa», altrimenti essi avrebbero potuto dare fastidi al prossimo governo Prodi? Cos’altro dobbiamo sentir dire, mi chiedo, per convincerci che il tasso di spregiudicatezza della partitocrazia della Seconda repubblica ha superato, e di gran lunga, quello della prima? A parte ogni questione di opportunità, la dimensione di duro arroccamento politico con cui è stata fin qui portata avanti la candidatura di D’Alema contrasta, tra l’altro, e in modo clamoroso, con il modo con cui l’Unione ha condotto cinque anni di opposizione al governo Berlusconi e con il modo con cui essa si è presentata agli elettori. Si legge infatti alle pagine 12 e 13 del suo Programma elettorale, all’interno di un capitolo significativamente intitolato «Il valore delle istituzioni repubblicane»: «L’attuale maggioranza di governo ha applicato alle istituzioni una logica "proprietaria" (..) il rischio è quello di uno squilibrio che porti alla "dittatura della maggioranza" (..) Per rafforzare le garanzie istituzionali (..) eleveremo la maggioranza necessaria per l’elezione del Presidente della Repubblica, garante imparziale della Costituzione e rappresentante dell’unità nazionale». Anche chi, come chi scrive, non è predisposto a far troppo conto sui programmi elettorali resta tuttavia alquanto sbalordito nel vedere quanto, dopo neppure un mese dalla soffertissima e striminzitissima vittoria elettorale del centro-sinistra, di tutte queste ottime intenzioni in pratica non rimanga in piedi nulla: fino al punto che proprio sulla più delicata forse delle questioni istituzionali, quella della Presidenza della Repubblica, l’Unione potrebbe avviarsi a percorrere la stessa identica prospettiva di «dittatura della maggioranza» appena ieri rimproverata al Polo. Ancora più sbalorditivo è, in questo senso, il silenzio di tomba con cui tutta l’area culturale del centro-sinistra - dai costituzionalisti ai comici, dai politologi e gli storici ai poeti e gli uomini di lettere - che per un quinquennio ci ha instancabilmente ammaestrato sulla concezione illiberale della democrazia fatta propria dalla destra sulla base di un uso spietato del nudo principio di maggioranza, ora taccia intimidita, chiudendo gli occhi sul medesimo uso che del medesimo principio si appresta ora a fare il centro-sinistra. Solo Gianfranco Pasquino, a quel che ho visto, si è provato a difendere il maggioritarismo esasperato che è diventato la bandiera dell’Unione, ma lo ha fatto nel modo più paradossale, e cioè tirando in ballo l’esempio degli Stati Uniti. Modo paradossale, e contraddittorio, dal momento che, come si sa, gli Usa sono così maggioritari proprio perché costituiscono l’incarnazione di quel regime presidenzialista che il centro-sinistra abomina da sempre e che anzi ha instancabilmente rimproverato alla destra di voler introdurre in Italia al posto della, viceversa sempre elogiatissima, «centralità del Parlamento». Dunque una pessima candidatura, pessimamente costruita, per un ottimo candidato. Se non c’inganniamo sulle qualità di Massimo D’Alema lui per primo se ne sta rendendo conto in queste ore. Tra l’altro perché non gli manca una buona memoria, e dunque si ricorda bene di avere avuto pubblicamente a pentirsi del modo del tutto improprio con cui egli stesso «acciuffò» (il termine è suo) il governo nel 1998, così come senz’altro si ricorda bene di come il centro-sinistra ha avuto a pentirsi della esiguissima maggioranza con cui fece approvare con un atto di forza la modifica del titolo V della Costituzione nel 2001. Di sicuro si sta rendendo conto di molte cose in queste ore Massimo D’Alema. Per esempio di come non gli giovi per nulla l’atmosfera di esaltazione vagamente arditistica della sua candidatura quale supposto, sospirato, trionfo della politica «lacrime e sangue» e «pugnal tra i denti», contrapposta agli smidollati e compromissori «poteri forti». E di come ancor meno gli giovano i voti richiesti sottobanco a suo nome dai manipoli dei suoi fedelissimi, e a questi promessi altrettanto sottobanco dai versanti più insospettabili. In conclusione, ci sembra giusto che il presidente dei Ds mantenga la sua candidatura. Ma riqualificandola politicamente: cioè facendone una candidatura in cui possa riconoscersi - pubblicamente, va sottolineato, non dietro le quinte e in modo non trasparente - almeno una parte della leadership del centro-destra, attraverso l’esplicito assenso di qualche suo capo. In caso contrario ci sentiremmo di dargli un consiglio: si ritiri dalla gara. Può sembrare irrealistico ma non lo è: in politica ci sono vittorie più micidiali delle peggiori sconfitte, e ci stupirebbe davvero molto se proprio un uomo della sagacia e della esperienza di D’Alema se ne dimenticasse.