di Stefano Rodotà (la Repubblica 26.5.09)
Mai come in questi tempi spazio pubblico e spazio privato si sono così intensamente mescolati fin quasi a rendere indistinguibili i loro confini. Addirittura lo spazio privato sembra svanire nell’era di Facebook e di YouTube, delle infinite e continue tracce elettroniche, dell’impietosa radiografia mediatica d’ogni mossa, contatto, preferenza. Dobbiamo accettare la brutale semplificazione di chi ha affermato "la privacy è finita. Rassegnatevi"? O dobbiamo ridisegnarne i confini senza perdere i benefici della trasparenza che, soprattutto nella sfera della politica, le nuove tecnologie rendono possibili? La politica, appunto. Nel nuovissimo panorama tornano, intatte e ancor più ineludibili, antiche questioni.
Quali sono i doveri dell’uomo pubblico? Quale dev’essere la sua moralità? Possono convivere vizi privati e pubbliche virtù? Può il politico coltivare la pretesa di stabilire egli stesso fin dove può giungere lo sguardo dei cittadini? E soprattutto: qual è il rapporto tra verità e politica nel tempo della comunicazione globale?
«La menzogna ci è familiare fin dagli albori della storia scritta. L’abitudine a dire la verità non è mai stata annoverata tra le virtù politiche e le menzogne sono state sempre considerate giustificabili negli affari politici». Così Hanna Arendt, che tuttavia in questa lunga abitudine non vedeva un dato da accettare in nome di un troppo facile realismo politico. Al contrario, contro la menzogna bisogna lottare non solo per la sua intrinseca immoralità, ma per i suoi effetti distruttivi proprio dello spazio della politica.
Dove esiste un establishment, un ceto politico consapevole della necessità di mantenere la propria legittimità nei confronti dei cittadini, la pubblica menzogna sui propri fatti privati porta all’espulsione del mentitore. John Profumo è costretto a dimettersi perché ha mentito alla Camera dei Comuni sulla sua relazione con Christine Keeler. Gary Hart è costretto ad abbandonare la vita politica e le sue ambizioni di candidato alla presidenza degli Stati Uniti per aver sfidato la stampa sull’esistenza di sue relazioni sessuali, che i giornalisti, facendo bene il loro mestiere, impietosamente scoprono. Non un sussulto moralistico, ma l’affidabilità stessa del politico rende inammissibile la menzogna.
Questo significa che parlare del rapporto tra menzogna e politica esige distinzioni. Vi è la menzogna in nome della salute della Repubblica, quella su vicende private del politico, quella che vuol salvaguardare uno spazio di intimità di cui nessuno può essere espropriato. Né il primo, né l’ultimo caso possono essere invocati nella vicenda che coinvolge Silvio Berlusconi.
Per quanto sia divenuta totalizzante l’identificazione sua con i destini del paese, non si può certo ritenere che il suo parlar franco sui rapporti con una giovane ragazza metta a rischio il sistema politico italiano. Al contrario, proprio le sue reticenze, i silenzi e le contraddizioni stanno producendo effetti perversi nella sfera pubblica. La difesa della privacy, il rifiuto di una politica fatta di un guardare nel buco della serratura? Chi ragiona in questo modo sembra ignorare il modo in cui la vicenda è stata resa pubblica, la denuncia circostanziata e impietosa di Veronica Lario, i suoi diretti riferimenti politici. Lì si parlava della figura pubblica di Berlusconi, non di qualche pettegolezzo privato. Da decenni, peraltro, è cosa nota e consolidata che i politici godono di una più ridotta "aspettativa di privacy", proprio perché la decisione di vivere in pubblico e di gestire la cosa pubblica impone loro di rendere possibile una conoscenza ampia e una valutazione continua proprio da parte di quei cittadini al cui giudizio il presidente del Consiglio sembra tenere tanto.
Chi, allora, ha "diritto alla verità"? Questo interrogativo, che divise Immanuel Kant e Benjamin Constant, è proprio quello che sta al centro della discussione italiana. Al deciso universalismo di Kant, Constant opponeva che «nessun uomo ha diritto a una verità che nuoccia ad altri». Qui possiamo astenerci dal ripercorrere quella storica discussione, perché proprio la rilevanza politica del caso esclude comunque che la verità possa nuocere a persona diversa dal presidente del Consiglio, mentre il silenzio o la menzogna pregiudicano proprio quel diritto di sapere che costituisce ormai uno dei caratteri della democrazia, che sfida il machiavelliano uso politico della menzogna come strumento per mantenere il potere. Molte volte si è sottolineato che le procedure di occultamento della verità hanno sempre accompagnato i regimi totalitari, mentre l’accesso alla verità è sempre stato una prerogativa delle libere assemblee, a partire dalla democrazia di Atene.
Il diritto alla verità, in questo caso più che mai, è diritto di tutti. È stato proprio il presidente del Consiglio a rendere ineludibile la questione con le sue reticenze, le doppie versioni, il distogliere lo sguardo da fatti incontestabili. Il suo rifiuto di rispondere a domande specifiche, e tutt’altro che pretestuose proprio perché riferite a dati precisi, assomiglia assai a quella "facoltà di non rispondere" di cui giustamente può giovarsi l’indagato o l’imputato."Nemo ternetur se detegere", recita un’antica e civile formula giuridica, che si può spiegare con le parole di un vecchio commentatore: «non imporre a nessuno, neppure allo scellerato più infame, di rivelare il malfatto». Quali consiglieri, ammesso che ce ne siano, hanno suggerito al presidente del Consiglio di seguire una strada così scivolosa?
Una menzogna può acquietare i fedeli di un politico, ma lo spinge a rinserrarsi nel suo campo trincerato, corrode la fiducia dei cittadini in un tempo in cui proprio la produzione di fiducia è considerata un elemento indispensabile per restituire alla politica un vero consenso. Non è il moralismo a spingere verso questa conclusione, anche se oggi soffriamo proprio di un deficit spaventoso di moralità pubblica.
La democrazia, ricordiamolo, non è solo governo del popolo, ma governo "in pubblico". Qui, in questa semplice e profonda verità, sta l’inammissibilità della menzogna in politica, che si trasforma proprio nella pretesa di non rendere conto dei propri comportamenti da parte di chi ha liberamente scelto di uscire dal rassicurante spazio privato per essere protagonista nello spazio pubblico.
Sul tema, nel sito si cfr.:
Il paese spaesato che ancora s’interroga sulla sua Repubblica
Da una società sofferente, capace di sollevarsi e avviare uno sviluppo straordinario a un quotidiano in cui tante energie sono smarrite
di Guido Crainz (la Repubblica, 02.06.2016)
Con quali domande guardare ai settant’anni della nostra Repubblica? Con quali convinzioni, con quali dubbi? La sua conquista era apparsa a Piero Calamandrei «un miracolo della ragione» e Ignazio Silone aveva aggiunto: alle sue origini non c’è nessun vate o retore ma «il costume dei cittadini che l’ha voluta». «Una creatura povera, assistita da parenti poveri», per dirla con Corrado Alvaro, ma pervasa dalla volontà di risorgere. All’indomani della Liberazione Milano era in rovine, ha ricordato Carlo Levi, ma «le strade erano piene di una folla esuberante, curiosa e felice. Andavano a comizi, a riunioni, a passeggio, chissà dove».
Era anche profondamente divisa, quella Italia, e per la monarchia
votò molta parte di un Mezzogiorno che ancora a Levi era apparso «un altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato». Da qui siamo partiti, in questo quadro abbiamo costruito democrazia, ed essa non era un concetto del tutto scontato allora né per il Partito comunista né per la Chiesa di Pio XII.
Come si è passati dalla società sofferente e vitale del dopoguerra, capace di risollevarsi dalle macerie e protagonista poi di uno sviluppo straordinario, all’Italia di oggi? Spesso spaesata, confusa, incerta di se stessa. Come si è passati da un sistema dei partiti cui si affidava sostanzialmente con fiducia un Paese piagato ad un degradare che oggi ci appare quasi senza fine? Davvero in questo percorso tutte le nostre energie e le nostre “passioni di democrazia” sono andate disperse o smarrite?
Abbiamo attraversato tre mondi, in questi settant’anni: da quello largamente rurale del dopoguerra alla stagione dell’Italia industriale e sino agli scenari che dagli anni ottanta giungono sino ad oggi. Abbiamo attraversato anche climi politici e culturali molto diversi, passando presto dalla fase più aspra della “guerra fredda” alla felice stagione del “miracolo economico”.
Mutò volto allora l’Italia e si consolidò il suo esser Nazione (lo vedemmo nel primo centenario dell’Unità): il diffuso ottimismo fece sottovalutare però i moniti di chi - da Ugo La Malfa a Riccardo Lombardi - avvertiva l’urgenza di porre mano a squilibri vecchi e nuovi del Paese, e di riformare profondamente le istituzioni. Avemmo così una trasformazione non governata, uno sviluppo senza guida, e anche per questo le effervescenze degli anni sessanta furono più forti che altrove.
Nel decennio successivo convissero poi reali processi riformatori e la cupezza feroce del terrorismo: dalla “strategia della tensione” alimentata dal neofascismo al terrorismo di sinistra degli “anni di piombo”. La Repubblica fu messa davvero alla prova in quegli anni e seppe rispondere: lo vedemmo a Milano, ai commossi funerali per le vittime di piazza Fontana, e a Brescia all’indomani della strage di Piazza della Loggia. Lo vedemmo nei 55 lunghissimi giorni del rapimento di Aldo Moro e poi a Genova, ai funerali dell’operaio Guido Rossa.
E lo vedemmo nella mobilitazione civile di Bologna dopo la strage alla Stazione. Vi è lì, fra anni settanta e ottanta, un crinale decisivo: storici di differente ispirazione hanno letto la cerimonia funebre per Aldo Moro in San Giovanni in Laterano quasi come “funerali della Repubblica”, annuncio che una sua fase era terminata. E si riveda l’addio di popolo ad Enrico Berlinguer, sei anni dopo: esso ci appare oggi l’estremo saluto non solo a un leader ma anche ai grandi partiti del Novecento.
Inizia a mutare davvero il Paese allora, mentre il crollo sindacale alla Fiat annuncia il declinare dell’Italia industriale. Si scorgono al tempo stesso i primi segni di una corrosione che non è riconducibile solo ai Sindona e ai Gelli ma è rivelata da fenomeni molto più pervasivi.
Nel 1980 su queste pagine Italo Calvino proponeva uno splendido Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti («c’era un paese che si reggeva sull’illecito») mentre Massimo Riva vedeva profilarsi «il Fantasma della Seconda Repubblica »: ogni giorno che passa, scriveva, si attenua la speranza che possano farla nascere politici sagaci e democratici e «cresce il timore che possa farlo con successo qualche avventuriero senza scrupoli ».
Parole inascoltate, nei “dorati anni ottanta”: negli affascinanti scenari del mondo post-industriale, nel progressivo scomporsi di classi e ceti sociali, nel dilagare di pulsioni al successo e all’arricchimento senza regole, contrastate sempre più debolmente da anticorpi civili e da culture solidaristiche. La modernità sembra divaricarsi ora dal progresso e dalla crescita dei diritti collettivi, e sembra identificarsi con l’euforia sociale e con l’affermazione individuale.
Inizia allora anche il declinare dei partiti basati sulla partecipazione e l’identità, nel primo profilarsi di “partiti personali” (a cominciare dal Psi di Craxi) e di quell’intreccio fra politica- spettacolo e tv che trasforma la comunità dei cittadini in una platea di telespettatori. Si forma sempre allora, nella crescente incapacità di governo della politica, quel colossale debito pubblico che ancora grava su di noi come un macigno: non solo economico ma etico, perché prende corpo così un Paese che spende oltre le proprie possibilità e lascia il conto da pagare ai figli. Un Paese che non sa prender atto della fine dell’“età dell’oro” dell’Occidente e non sa ripensare il welfare, elemento fondativo delle democrazie moderne.
Crollerà davvero il vecchio sistema dei partiti, nella bufera di Tangentopoli, e verrà davvero l’“avventuriero”, per dirla con Riva: eppure ci illudemmo che, liberata dal precedente ceto politico, una salvifica società civile avrebbe conquistato un luminoso avvenire. Dell’ultimo, quasi disperato Pasolini ricordammo le riflessioni sul degradare del Palazzo e rimuovemmo invece quelle sulla mutazione antropologica del Paese. Mancammo allora l’occasione per una rifondazione della politica capace di ridare fiducia nella democrazia, e da tempo abbiamo superato il livello di guardia: ce lo ricordano ogni giorno il crollare della partecipazione al voto e il dilagare di una corruzione che non ha neppure l’alibi di “ragioni politiche”.
C’è davvero molto su cui interrogarsi, a settant’anni da quel 2 giugno, e viene talora da chiedersi se siamo diventati davvero una Repubblica, nel senso più alto del termine. Così certo è stato ma vale anche per la Repubblica quel che Ernest Renan diceva della Nazione: non è mai una conquista definitiva ma un “plebiscito quotidiano”, una scelta da rinnovare ogni giorno. È forte la sensazione che da troppo tempo non rinnoviamo realmente quel plebiscito ed oggi esso ci appare sempre più necessario, e urgente.
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 02.06.2016)
LA festa del 2 Giugno non ha mai rappresentato motivo di scontro ideologico, nonostante le divergenze politiche profonde tra i protagonisti della nascita della Repubblica. Raccontano le cronache che i vincitori di quel referendum non volevano ostentare esagerazione nella vittoria «perché non volevano che questa suonasse offesa agli sconfitti » scrivono Daria Gabusi e Liviana Rocchi nel loro libro su Le feste della Repubblica.
Tutti gli italiani e le italiane, questa era la convinzione unanime, si erano fusi in un patto che era e doveva essere al di sopra di ogni forma istituzionale e che aveva il suo documento nell’unità del Paese, suggellato da una guerra anche fratricida. Tutti consapevoli che quel plebiscito di natalità era un atto di inizio non il testo della liquidazione del passato. E per questo, nei resoconti successivi alla vittoria della Repubblica nel referendum del 2 Giugno circolava addirittura un ossimoro per raccontare quegli eventi: pacata euforia; «l’inizio della nuova Italia era non nella baldoria, me nel silenzio, nella serietà e nella compostezza». Qualcuno si lamenta, scrisse Ignazio Silone, «per l’assenza di un vate in un momento così eccezionale della Storia italiana». La democrazia era nata senza vati e senza capi, senza parole roboanti che parlassero di “momento storico”, anche se quello era certamente un momento storico. Ma un atto di liberazione non roboante e pacato era per Silone «un atto di modernità», un vero atto di nascita, di festa, di letizia. E per sottolineare questa modernità di seria e corale responsabilità Piero Calamandrei parlò di un «miracolo della ragione».
Il “miracolo della ragione” era manifestato proprio dalla forza dei numeri con cui venne proclamata la Repubblica. Il 10 giugno ne diedero lettura davanti ai giudici togati, racconta l’allora ministro degli Interni, Romita: la comunicazione alla Corte di Cassazione con i togati in piedi era semplicemente questa, «per la Repubblica 12.672.767 voti; per la Monarchia 10.688.905». Niente altro. Commenta Romita: «Una svolta veramente storica, la semplicità direi quasi la pudica modestia, era la più peculiare caratteristica della cerimonia ». I numeri soltanto, la ragione democratica per eccellenza, prendevano la scena; da soli bastavano. Dovevano bastare per dar legittimità di una differenza non davvero grande, eppure enorme.
Il patto che ne scaturì fu un patto di unione che andava ben oltre i due milioni di voti di distacco. Un patto che ha reso possibile settant’anni di vita civile. La Costituzione ha unito il Paese, e lo ha fatto nel rispetto delle differenze, molte e spesso radicali. Come una grammatica comune, ha consentito al pluralismo delle idee e dei progetti di essere leva di una dinamica libertà, di unire i diversi. È a questo del resto che le Costituzioni servono: a dare regole condivise da tutti perché ciascuno possa liberamente contribuire con le proprie idee e i propri interessi al governo della cosa pubblica, con la parola e il voto, con l’elezione dei rappresentanti e la formazione delle maggioranze.
L’impianto anti-retorico e di “pacata euforia” della Repubblica che celebrava se stessa con quel referendum era un inizio felice, un atto sia legale che pedagogico. Come a voler abituare gli italiani e le italiane a un succedersi di vittorie e sconfitte, ma sempre sentendo quel fatto fondamentale un bene di tutti, non di chi aveva vinto.
Per il modo come l’attuale campagna referendaria si sta svolgendo vi è da temere che la Costituzione che ne uscirà non abbia la stessa forza legittimante unitaria. Quale che sia l’esito. Come ha scritto Alfredo Reichlin su questo giornale qualche giorno fa, vi è da temere che la Costituzione sia vissuta, dai vincitori come dai vinti, come una norma di parte contro parte. Se resterà questa Costituzione come pure se passerà la sua revisione. In entrambi i casi l’esito di un referendum così aspro potrebbe essere questo - e questo è il più grande rischio che corre il Paese. Comunque finirà, i vinti non si sentiranno con molta probabilità parte della stessa impresa e i vincitori.
I padri costituenti decisero di distruggere le minute delle loro lunghe discussioni alla fine dei lavori dell’Assemblea costituente - perché sapevano che nell’atto volontario di oblio delle divisioni stava la condizione per cominciare e sentire la Carta come un patto di unità. Un gesto saggio. Come si può dimenticare una lotta a tratti furiosa nel linguaggio, combattuta per di più non ad armi pari poiché una parte ha già da ora più esposizione e più attenzione dell’altra? Come cementare un’unità nella diversità se la diversità è, da ora, vissuta come un problema? Una lotta così cruenta quando le ideologie non ci sono più a dividere è un fatto difficile da comprendere e spiegare. E tuttavia il rischio concreto sarà proprio quello di giungere, dopo settant’anni di unione, ad una Costituzione che divide ed è divisiva, sentita come bene di parte, di alcuni contro altri. Di questo dovremmo preoccuparci.
L’ITALIA, LA SUA BANDIERA, E IL PARTITO DELL’IPNOTIZZAZIONE DELLA NAZIONE *
Vallo della Lucania (Salerno) mostra a tutta l’Italia la condizione di sonnambulismo in cui tutti i cittadini e tutte le cittadine sono stati buttati e buttate da tempo!
Nel giorno dei Tre Anniversari (Repubblica, Costituente, Voto alle donne) in Uno (2 giugno 1946- 2016), dopo venti anni di confusione tra *partito* e *Patria*, siamo nel *pallone* totale!!! E i vigili hanno tirato il *rigore*!!!
La crisi di regime
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 22.01.2010)
È bene chiamare le cose con il loro nome: stiamo vivendo una crisi di regime. Dalla quale si esce con una rifondazione della Repubblica secondo una lettura dinamica dei principi della Costituzione o, al contrario, abbandonando quei principi, con una rottura che porta, appunto, a un mutamento di regime. Negli ultimi tempi, infatti, si sono moltiplicate le dichiarazioni di chi esplicitamente sostiene la necessità di mutare i fondamenti della Costituzione, a cominciare dal suo articolo 1. Non bisogna sottovalutare questi atteggiamenti, considerandoli esuberanze personali: si commetterebbe lo stesso errore fatto quando si è derubricato il linguaggio razzista di molti politici a folklore.
Ma vi sono anche prese di posizioni apparentemente più moderate, che prospettano aggiramenti dei principi costituzionali che possono rivelarsi ancor più insidiosi degli attacchi diretti. Molti continuano a dire che la prima parte della Costituzione non si tocca, che principi e diritti fondamentali non sono in discussione. Ma la Costituzione affida la garanzia dei diritti alla libera valutazione del Parlamento e al controllo di una magistratura indipendente. Nel momento in cui la voce del Parlamento viene spenta (lo abbiamo visto con il processo breve) e si prospettano radicali riforme costituzionali della magistratura, ecco che l’apparenza è quella di un rispetto della prima parte della Costituzione, la sostanza è quella di una sua erosione. La riforma costituzionale è già in atto, nel modo più inquietante.
Parlando di modifiche costituzionali, bisogna partire da alcuni punti fermi. Il primo dei quali riguarda il fatto che la Costituzione non è tutta "disponibile" per qualsiasi scorreria di interessati riformatori. Nel 1988 la Corte costituzionale lo ha detto esplicitamente: «La Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali», perché «appartengono all’essenza dei valori sui quali si fonda la Costituzione». Siamo di fronte all’indecidibile, a un limite che non può essere superato «neanche dalla maggioranza e neanche dall’unanimità dei consociati». Una considerazione, questa, da tenere ben presente in un tempo in cui l’appello alla maggioranza viene continuamente adoperato per legittimare qualsiasi iniziativa. E si deve aggiungere che tutto questo trova il suo fondamento profondo nell’articolo 139 della Costituzione, dove si stabilisce che «la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale». Questo non vuol solo dire, banalmente, che non si ammette il ritorno ad un regime monarchico. Poiché la forma repubblicana del nostro Stato risulta dall’insieme dei principi contenuti nella Costituzione, tutto quel che altera questo quadro porta con sé una violazione radicale della Costituzione, e un conseguente passaggio da regime politico ad un altro.
Intraprendendo un cammino di riforma in un clima culturale e politico degradato com’è quello attuale, bisogna anzitutto individuare gli ambiti legittimi di una eventuale revisione. Gli studiosi sottolineano proprio questa necessità, ricordando ad esempio che la riforma del Parlamento non può trasformare la nostra Repubblica da parlamentare in presidenziale o negare l’effettiva rappresentatività della democrazia italiana (lo ha fatto Gianni Ferrara). Allo stesso modo, e più radicalmente, non si può mettere in discussione «il valore del lavoro come base della Repubblica democratica» (sono parole del Presidente della Repubblica), perché questa non è una affermazione a sé stante, ma individua un principio sul quale s’innesta una tutela forte della persona, per quanto riguarda la sua «esistenza libera e dignitosa» (articolo 36) e l’inviolabilità della sicurezza, della libertà e della dignità umana. Queste sono parole dell’articolo 41, che in questi fondamentali principi individua un limite all’iniziativa economica privata, limite da tempo ritenuto inaccettabile da una critica che vuole sovvertire la gerarchia costituzionale, mettendo mercato e concorrenza al posto del lavoro. Ma proprio le drammatiche vicende di Rosarno dovrebbero dimostrare la straordinaria attualità della linea indicata da quell’articolo. Infatti siamo di fronte a una impressionante storia di sfruttamento e di negazione dell’umano, che conferma la necessità di mantenere, e eventualmente di rafforzare, il principio che fa prevalere sulle ragioni del mercato il rispetto della persona del lavoratore, della sua libertà, dignità, sicurezza.
Continue, poi, sono le prese di posizione che, alterando la gerarchia costituzionale, negano il fondamentale principio di eguaglianza. Di nuovo la questione degli immigrati è un buon terreno di verifica. Molti giudici hanno sollevato la questione di legittimità delle nuove norme sull’immigrazione clandestina. Reagendo a questa iniziativa, si è sostenuto che, qualora la Corte le dichiarasse incostituzionali, si avrebbe una sorte di estinzione della Repubblica italiana come Stato, poiché essa perderebbe una prerogativa fondante della statualità, cioè il diritto di regolare quel che avviene sul proprio territorio. Questo atteggiamento è rappresentativo della revisione "strisciante" della Costituzione. Ricordiamo, allora, che il Presidente della Repubblica, in una lettera a Maroni e Alfano nello stesso giorno in cui emanava la legge sulla sicurezza, esprimeva «perplessità e preoccupazione» per alcune norme di «dubbia coerenza con i principi dell’ordinamento», riferendosi specificamente anche alle norme sull’immigrazione clandestina. Le eccezioni di costituzionalità avanzate dai magistrati riguardano la ragionevolezza di quelle norme e il loro rispetto del principio di eguaglianza. La cittadinanza, infatti, è ormai vista come l’insieme dei diritti che accompagnano la persona quale che sia il luogo del mondo in cui si trova, superando proprio le angustie del criterio della territorialità. Non si può ammettere quindi, che una repubblica democratica neghi il principio di eguaglianza e il rispetto dei diritti fondamentali in relazione al modo in cui si è entrati sul suo territorio.
Esplicite o striscianti, dunque, sono molte le mosse che incitano a revisioni costituzionali che incidono sui principi, fornendo così la testimonianza di un cambiamento di regime che si vuole imporre, o almeno secondare. Quanto, poi, al presunto invecchiamento d’una Costituzione votata sessant’anni fa, vorrei ricordare una recentissima sentenza del Conseil Constitutionnel francese, che ha dichiarato incostituzionale una legge per la sua scarsa comprensibilità (quante leggi italiane reggerebbero a un simile controllo?) richiamando gli articoli 4, 5, 6 e 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789.
L’obbligo di una esplicita riflessione culturale e politica sugli intoccabili fondamenti costituzionali è oggi ancor più ineludibile perché siamo di fronte a quello che si può definire un vero "risveglio costituzionale". Molti cittadini cercano e realizzano forme di organizzazione e di azione partendo appunto dalla Costituzione. Questo riconoscimento ci parla di vitalità della Costituzione, quella che ha nel sentire dei cittadini il suo più solido fondamento. Qui può radicarsi una vera opposizione al mutamento di regime. Vogliamo tenerne conto?
Il premier ha affidato a Bondi il compito di elaborare i nuovi criteri per l’anniversario
"La crisi economica impone di rivedere il progetto del precedente Governo"
Unità d’Italia, Berlusconi scrive a Napolitano
"Rivedremo i progetti per la celebrazione" *
ROMA - Si rivedranno i progetti, si terrà conto del dibattito delle ultime settimane. Questo, in sintesi, il contenuto della lettera con cui il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha risposto al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in merito alle celebrazioni dei 150 dell’Unità d’Italia.
"Il Presidente Berlusconi - si legge in una nota di Palazzo Chigi - ha osservato come sia opportuna una revisione dei progetti originari, proprio per non incorrere in quella che era stata definita la ’celebrazione edilizia’ dell’evento. La crisi economica e la qualità di molte opere hanno imposto, pertanto, una seria riflessione per valutare e correggere il progetto impostato dal precedente Governo".
"Il Consiglio dei ministri del 31 luglio - prosegue la nota- ha già avviato un ampio ed approfondito dibattito sull’argomento. Al termine del quale, il presidente del Consiglio ha affidato al Ministro dei beni culturali, Sandro Bondi, il compito di elaborare i nuovi criteri per le celebrazioni. Criteri che terranno conto del dibattito delle ultime settimane, al quale hanno partecipato tante personalità della cultura e della politica italiana".
"Una volta individuati i criteri, e prima di procedere all’elaborazione del programma definitivo, il Presidente Berlusconi si è impegnato per una verifica con il Capo dello Stato", conclude il comunicato.
* la Repubblica, 29 agosto 2009
L’Udc ha già dichiarato la sua indisponibilità a sostenerla
Di Pietro: ’’Ecco la mia mozione contro il premier’’. Franceschini: ’’Rinunci al lodo Alfano e si difenda’’
Il leader dell’Idv: ’’Il comportamento di Berlusconi compromette l’immagine del nostro Paese’’. Per la sua iniziativa di sfiducia occorrono però 63 deputati, quelli dell’Italia dei Valori sono solo 27. Leggi il testo integrale. Il segretario del Pd: il presidente del Consiglio ’’usa armi di ’distrazione’ di massa’’. Ma la mozione dipietrista rischia di essere un ’’boomerang, un regalo’’ al Cavaliere
Roma, 26 mag. (Adnkronos) - "L’immagine ed il prestigio internazionale del nostro Paese appaiono gravemente compromessi dal comportamento del presidente del Consiglio che pare privilegiare un proprio interesse privato a continuare a gestire una posizione di potere politico a dispetto dell’interesse nazionale dell’intero Paese". E’ uno dei passaggi chiave della mozione di sfiducia al premier preparata a Italia dei valori che lo stesso Antonio Di Pietro (nella foto) ha illustrato a Verona.
Il documento ruota tutto intorno al caso Mills nel chiedere "la sfiducia al governo presieduto dall’onorevole Silvio Berlusconi e lo impegna a rassegnare le dimissioni nelle mani del capo dello Stato". La mozione, però, ha davanti a sé una via parlamentare tutta in salita. Secondo il regolamento della Camera, infatti, per depositarla occorre il 10% delle firme dell’assemblea (63), mentre i deputati di Idv sono solo 27. Dichiaratosi indisponibile l’Udc, le firme utili dovrebbe fornirle il Pd, che però ha pronta una sua mozione di carattere più generale sulle responsabilità del premier ma senza la sfiducia.
Nel testo dell’Idv, comunque, si parte dal fatto che "i giudici hanno riconosciuto colpevole Mills ritenendo valido l’impianto dell’accusa secondo cui Mills fu corrotto ’con almeno 600mila dollari’ da Silvio Berlusconi per testimoniare il falso in due processi al fondatore della Fininvest". Ripercorrendo tutta la vicenda processuale con stralci di atti, e ricordando l’intervento del lodo Alfano, il testo dell’Idv sostiene che "è di tutta evidenza che pur trattandosi di una sentenza di primo grado, e dunque restando valido il principio della presunzione di innocenza, il caso ha assunto una valenza politica enorme, coinvolgendo direttamente il presidente del Consiglio in carica ed essendo le accuse in essa contenute di tale straordinaria gravità da destare eccezionale allarme nell’opinione pubblica".
Secondo l’Idv, "in queste condizioni, l’interruzione del processo a carico del presidente del Consiglio appare non solo totalmente inutile ma, addirittura, dannosa, nei limiti in cui non consente un preciso accertamento dei fatti e delle responsabilità, cosa che viceversa sarebbe assolutamente doverosa nell’interesse dello stesso presidente del Consiglio, sia nei confronti dell’opinione pubblica che ha il diritto di essere certa dell’onestà di chi la governa e rappresenta". "Proprio in questa direzione si muoveva la richiesta avanzata dalle opposizioni, in maniera costruttiva, nell’interesse generale del Paese, al presidente del Consiglio di rinunciare alla sospensione del processo prevista dal lodo Alfano", si legge ancora nel documento che contiere alcuni stralci di articoli della stampa internazionale che si è occupata del caso.
La conclusione, è che "nei prossimi mesi in Italia si terranno importanti vertici internazionali, a cominciare dal G8, in questo contesto appare a dir poco inopportuno che a presiedere tali riunioni sia un presidente del Consiglio che una sentenza di un tribunale italiano, per quanto di primo grado, ha riconosciuto colpevole di corruzione in atti giudiziari volta a celare fatti di una enorme gravità". Quindi, la sfiducia.
"A noi dell’Italia dei valori l’opposizione del giorno dopo interessa ben poco - spiega Di Pietro illustrando la mozione -. Non possiamo accettare i cosiddetti ’consigli’ di chi ci dice che ’la mozione di sfiducia a Berlusconi è inutile perché siete una minoranza’’. ’’Questa è l’idea di un perdente che ha smesso di nuotare perché la riva è lontana, e quindi è già morto e fa morire la democrazia", aggiunge.
Il leader dell’Idv ha presentato la lettera inviata a Dario Franceschini del Pd e a Pier Ferdinando Casini dell’Udc in cui spiega le ragioni dell’iniziativa e in cui sottolinea che "la mozione di sfiducia che vi chiediamo di sostenere non ha lo scopo di battere ora, subito a tavolino la maggioranza di Berlusconi. Ha un obiettivo più grande, più importante, che inizia oggi e che dovrà durare nel tempo, ovvero avviare un percorso parlamentare congiunto che metta in discussione la credibilità della leadership di Silvio Berlusconi nelle aule e nelle piazze del paese".
"Diamo dunque il via oggi, insieme, ad una nuova azione di resistenza contro questa deriva populistica, sostenendo la mozione di sfiducia - auspica infine Di Pietro - Con un’opposizione unita, anche una scontata posizione minoritaria è una battaglia vinta. Quello che conta è portare uniti tale battaglia in Parlamento, fare in modo che questa sia la mozione di tutte le opposizioni".
Riguardo alla mozione del Pd, Di Pietro e i capigruppo di Camera e Senato, Massimo Donadi e Felice Belisario, annunciano: ’’Siccome un bicchiere d’acqua fresca con questo caldo non fa male, la firmeremo ’’.